Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbastanza

Numero di risultati: 468 in 10 pagine

  • Pagina 2 di 10

LA SCAPIGLIATURA MILANESE - FRAMMENTI

656335
Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Ma cotesti signori sono come nel ferro le scorie, nel demolito il marame; e c' è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla scapigliatura; e anch' io sarei tentato di chiamarli cavalieri d' industria e birbanti, se l'educazione di moda non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma, appunto come tali, essi non hanno una fisionomia particolare e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti i paesi del mondo come i ladri, e le spie ... gente nata per lo più dal fango, e vivente nel fango del proprio mestiere, senza perdono e senza poesia possibile. Però la Scapigliatura li fugge per la prima e li rinnegherebbe ad alta voce, se ella avesse la coscienza della propria esistenza. Giacchè la vera ... la mia Scapigliatura potrà pentirsi qualche volta de' fatti proprii, arrossirne giammai.

Pagina 57

Senso

656388
Boito, Camillo 1 occorrenze

. - Grazie, ho bevuto abbastanza. - Via, via, l'ultima sera dell'anno! E per il figliuolo del mio più vecchio amico! E sta bene Gigi? Sarà diventato grasso, mi figuro, e grigio. Porta la barba intiera o il pizzo o i soli baffi o ha la faccia pelata come me? Quarant'anni fa era una buona pelle quando ci si metteva. Una certa servotta, la Santina: aveva le mani e le guance rosse, e i capelli crespi. Una sera ... Dio me lo perdoni ... E si turava con le due mani la bocca enorme, e sghignazzava. Il naso lungo e adunco, gli occhi piccoli e biancastri, il mento aguzzo e sporgente, la fronte schiacciata e bassa, tutto era in moto in quel volto, su quel collo interminabile, su quella interminabile persona scarnita; e dimenava le braccia come un mulino a vento. - Pasquale, Pasquale, una bottiglia di Barolo, di quello che Sua Eminenza bevette l'ultima volta, ma bada di non sbagliare, del più vecchio, c'è scritto l'anno 1850, e non iscuotere la bottiglia, portala adagio adagio come se fosse una reliquia. - Grazie, non posso, ho bevuto troppo. - L'ultimo dì dell'anno, mi canzona! E com'è stata ch'è venuto qui a passare l'ultima notte? - Ero ai Tre Turchi ... Pasquale annunziò una deputazione. La deputazione si componeva di un solo vecchietto bianco e curvo, che, in nome dei cinque o sei sacerdoti, i quali vivono rannicchiati nelle loro camerette dell'ospizio anche gli eterni mesi dell'inverno, era venuto ad augurare il buon anno al signor rettore. Borbottata con impaccio infantile qualche parola, il pretucolo se ne andò via, spaurito del suo gaio e inquietissimo superiore, del forestiero nuovo, e forse degli avanzi della cena sardanapalesca. - Ero ai Tre Turchi da due giorni per certi affari urgenti di mio padre, un fallimento improvviso; e dovendo partire domani sera ... Pasquale annunziò un'altra deputazione. Entrarono due donne. L'una si avanzò placidamente verso il rettore, che prese un aspetto compunto, abbassando gli occhi e giungendo le mani all'altezza del petto; l'altra rimase all'uscio e mi piantò gli occhi addosso. Era la fanciulla bionda, che avevo vista nell'atrio. A un tratto si staccò dalla soglia, e con tre o quattro passi leggeri e lenti mi venne accanto; e sempre mi guardava fisso, come se volesse frugarmi dentro nell'anima o ricercare un segreto nelle mie viscere profonde. Sentivo sulla mia faccia il suo alito. La sua compagna, che aveva finito il proprio discorsetto, la chiamò due volte, e alla fine, presala dolcemente per un braccio, la condusse fuori. Io restai sopraffatto da un senso arcano, che somigliava alla paura. Anche il rettore era rimasto un poco sopra pensiero. Ci sedemmo al fuoco. Desideravo sapere qualcosa della ragazza bionda; ma il canonico, rientrato già nel torrente de' suoi ricordi giovanili, non lasciava posto a intromettervi una parola, e s'io tentavo di opporre un intoppo alla sua straripante eloquenza, egli lo spazzava via senza neanche darsene per inteso. A un certo punto, giovandomi astutamente di una pausa, dissi: - Reverendo, mi cavi una curiosità. Chi è mai quella fanciulla bionda, ch'è venuta dianzi? Il prete alzò lo sguardo al soffitto. - Ha certi occhi, che attraggono e che spaventano. È una suora? - Fece segno di no, e tacque. - L'ho vista nell'atrio sola, in mezzo alla neve. È qui da un pezzo? - Da tre settimane. Ci vorrebbe un miracolo, e lo invoco con tutta la forza dell'anima mia. E cominciò allora a parlare dei miracoli della immagine santa. L'estate scorsa, mentre c'erano al Santuario quattromila persone, un contadino ricuperò la favella, perduta da quindici anni; un falegname paralitico si rizzò in piedi, lesto come un daino; una donna, la quale s'era fratturata una gamba, in due giorni guarì. Dai prodigi contemporanei risalì via via agli antichissimi, e nel discorrerne assumeva una espressione ispirata, tanta era la schietta fede che traluceva da quegli occhi piccini. Ma interruppe la litania per dire: - Già si sa, ella, caro signor mio, è un poco incredulo. Debolezza dei tempi! Nella mia gioventù anch'io avevo, come il buon Gigi, il cervello storto; ma s'ella rimanesse alcuni mesi su questo monte, in mezzo alle nubi, accanto alla effigie dipinta da san Luca, e fosse testimonio delle effusioni di mille e mille disgraziati, che dalle valli, dai paesi lontani salgono a piedi a invocare l'aiuto del cielo, e vedesse le lagrime e udisse i sospiri, e notasse poi la espressione giuliva dei loro volti; s'ella sapesse le consolazioni, le santificazioni segrete, e come la fede rammollisce il macigno, purifica le lordure, rialza e nobilita l'abbiezione più vile, ella, stupito dai miracoli operati sui cuori, crederebbe agevolmente agli altri materiali ed esterni. Salvare un'anima è cosa mille volte più ardua che racconciare una gamba o ridare il moto ai nervi e ai muscoli di membra intorpidite. Vedesse i voti di cui è piena la chiesa! Se non fosse questo freddo, vorrei condurvela subito. - Magari! - Andiamo dunque.

Vietato ai minori

656507
Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

Ma abbastanza per conservarne memoria. Tracce inconsce dentro ne portano tutti. Mario ricorda quando cascavano le bombe e gli prese la convulsione. È un ragazzo lungo secco puntuto, forme e movimenti legnosi, gli s'intoppa la lingua. Apre bocca e le prime parole escono in ritardo, le altre a fiotti accavallate confuse. Poi ricomincia a boccheggiare, arrestarsi e spremerle fuori così ingroppate. Anche lui fermo alla seconda. Solo pochi hanno un'età di bambini. Tutti sono più scarsi dell'età, ce n'è uno che gli si darebbero cinque anni e ne compie nove. Della guerra non sanno niente. Ma chi non l'ha vista l'ha sentita: nella carne nel sangue nei nervi, dentro il corpo delle madri. L'effetto della guerra è prenatale. Ho qui un'accolta d'irregolari. Quelli dell'istituto, cioè delle monache _ la maggior parte passati all'istituto dal brefotrofio _ sono misteriosamente chiusi nella loro origine. Degli altri un po' per volta riesco a sapere: dove sono nati, a chi appartengono, come vivono. Per lo più gente poverissima anche oggi. Quando questi bambini nacquero eravamo poveri tutti. E tutti orribilmente spaventati. Vittorio e Benito, fratelli. Viso terreo, bocca aperta, l'intontimento delle vegetazioni che riempiono naso e gola. Vittorio tiene la testa inclinata e sotto il ciuffo Ìspido che sporge a corno due occhi vacui guardano nel vuoto. Lui così si assenta e si risparmia. Benito è debole di vista fino a posare il naso sul quaderno. Gli occhiali li rifiuta, un paio è già scomparso. Bambini simili sotto gli occhi _ bisogna tenerli al primo banco _sono una specie di monito. Non sembrano bambini ma vecchietti intollerabilmente carichi di esperienza. Pure con quale affascinata attenzione seguono le marachelle di Pinocchio. (Quasi mi vergogno di raccontargliele.) E come tengono da conto lo scatolino con mozziconi di matita, minuzzoli di gomma, avanzi di pastelli. Oggi Vittorio ha uno scatolino nuovo _ innocente l'ha messo in bella mostra _ identificabile per aver contenuto preservativi. La loro madre è una compunta vedova. Si è dunque riparlato della ferita di Marcelle. Vogliono scriverlo e viene fuori per primo: Marcelle lo colse la bomba. Gli altri pensieri seguono consimili: guerra aeroplani bombe. C'è una inconsueta iniziativa nel suggerire sempre nuove versioni della stessa idea. Alla fine, come propongo il disegno, nessuno oppone il solito non lo so fare. LÌ ho visti prendere subito in mano la matita e mettersi all'opera senza titubanze. Marcelle circola per l'aula, chiamato qua e là si piega sui quaderni, annuisce, approva, da consigli, lavora sull'altrui con la propria matita, per una correzione, una rifinitura. Marcelle che abitualmente cerca aiuto. Oggi l'autorità è lui. Perché _ i bambini disegnano, sotto lo scritto, bombe. Con sicurezza, con competenza, senza un dubbio, senza esitazioni. Io non so se queste che vedo siano bombe: forme le più varie strampalate, per lo più tondeggianti, e oblunghe cilindriche coniche, a palla, perfino ornate di spunzoni, circonfuse di fuoco dal pastello rosso usato con dovizia. Questa, dice Marcelle indicandomene una con qualche cosa a lato come un manico, questa è una bomba a mano. Lui, la sua, non la vide certo, neppure gli altri ne hanno mai vedute. Ma tutti i quaderni e tutte le piccole teste infatuate su quei quaderni, sono pieni di bombe.

Pagina 14

(Quando entra nelle classi l'addetta al patronato scolastico e, ad alta voce: chi è povero alzi la mano, l'alzano tutti tranquilli e premurosi, anche quelli che saranno esclusi dall'assistenza perché non abbastanza poveri.) Maria torna alla spilla. "La tiene nonna e anche l'altra roba." Ha l'aria di sentirsi prodigiosamente ricca. Mi fa brillare quel poco oro a dodici carati come un sole. Senza sollecitazioni incomincia un lungo discorso, a brani di memorie confuse, non più sensibili, sulla madre. Che ogni anno doveva andare a T. dai medici dell'ospedale, la visitavano e facevano le iniezioni, ogni anno devi ritornare, e una volta non ci andò, così stette male, se lo sentiva e diceva lo so che debbo morire e infatti ci tornò e morì. Domando di che è morta. È stata la Zefìle, risponde con sicurezza. Sono certa che vi ha messo la maiuscola, un nome femminile, come se fosse stata uccisa da una donna. Non capisco. Stento a formulare altre domande. "E tuo padre?" Gliel'avessi chiesto prima senza tanti scrupoli, non avrebbe avuto difficoltà a dirmelo. Si trova al manicomio di T. Lei sa tutta la storia e può parlarne con docile tranquillità, perfino con un'ombra di vanagloria (come sempre quando si parla di sé). Date non ne ricorda _ le so io _ ma sa che tornò dalla guerra si sposò e impazzì. Prima faceva il lavoro di campagna, andava a giornata, bracciante agricolo. Quando la figlia nacque era ricco, ricco di pecore mandrie campi, fermava la gente e diceva: è tutto mio. Non volle più lavorare. Questo per Maria significa essere pazzi. Mi guarda compiaciuta e fiduciosa, aspettando. Dico: Ti ci hanno portata? Gliela portarono, una volta sola, a lutto. Com'è non sa dire ma cerca. L'ha visto giovane e bianco bianco _ chissà che pallida sparutezza in confronto alle facce cotte della parentela contadina _ un giovane magro vestito da militare, che voleva abbracciarla. Ma essa non conoscendolo s'era tirata indietro. Aveva paura e sua nonna a spingerla. Poi l'ha riconosciuto perché diceva: ho una grande disgrazia, ho perduto la moglie. Capiva tutto. S'accosta ancora, col visino lungo e il naso tirato alle pinne da quel vezzo di alzare e stringere le sopracciglia. Uno strabismo d'attenzione. O è a causa della crosta che da mesi rimane lì sotto la spalmatina d'unguento. "A mamma la malattia gliel'ha ridata lui." Mi guarda intensamente. Riflette un po', di nuovo pronuncia quel nome femminile accompagnando ogni sillaba con una contrazione sopraccigliare: Zefìle. A un tratto afferro la parola storpiata. Sifilide. Deve aver sentito dalla nonna, dai paesani, in ospedale, avranno parlato davanti a lei senza badare. Mi chiedo se l'abbia raccontato alle monache. (Il medico dell'ambulatorio non ha fatto domande.) Una donna. Una macabra donna col nome senza maiuscola, che davvero uccise sua madre. Mi rendo conto che ancora per la bambina sono parole, non tanto senza senso quanto senza peso. Già il padre è una labile immagine di soldatino giovane (diosaperché sempre vestito così) nella cornice di un parlatorio che a mano a mano si confonde con quello del convento, e la madre sembra svanire in un passato senza rilievo. L'anima è leggera. Il corpo no. Poso le mani sull'imbottitura delle spalle, vi cerco sotto la smilza carne. La carne è pesante, porta il carico di quel sangue. Ora la bimba è pallidina e graziosa. Le tonsille sono a posto, la sua scheda sanitaria è bianca. Bisognerà riempirla con l'anamnesi familiare. L'accompagnerò da un medico dell'ambulatorio meno frettoloso. Per questa crosticina ostinata occorre l'ospedale. Ridice: Mi ha lasciato la spilla d'oro. Anche lei innocentemente crede di essere ricca.

Pagina 145

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

660117
Capuana, Luigi 1 occorrenze

. - Io non provo niente, forse perché non me n'hai dato abbastanza! - Neppure io provo niente. Forse quella vecchia ci ha canzonati. - Ho sonno; andiamo a letto. - Andiamo a letto. E, imbronciti, si coricarono. - Fatti più in là! Sto proprio su l'orlo. - Io sto per cascare. La moglie diè uno spintone, il marito un altro; il letto traballava. Avevano una forza insolita. Ah! L'acqua operava. Allora si chetarono, aspettando. La mattina, allo svegliarsi, si trovarono diventati ragazzi. Ma non si riconoscevano. - Tu chi sei? E che ci fai qui? - Io sono a casa mia. E tu chi sei? - Che t'importa? Facciamo il chiasso. - Facciamo il chiasso. E si misero a ruzzare sul letto, con salti e capriole. Più tardi, aprirono la porta e si trovarono nella via. - Tu per dove vai? - Per qua. - Io per quest'altra parte. Si voltarono le spalle, senza neppur salutarsi, e se n'andarono ognuno pei fatti suoi. Il ragazzo incontrò un Signore. - Vuoi prender servizio, ragazzo? - Che devo fare? - Strigliare i cavalli e portarli a bere alla fontana. Una mattina egli vide passare davanti la scuderia la ragazza, con cui aveva fatto il chiasso sul letto tra salti e capriole. - Oh! Tu? - Sono a servizio. - Sei contenta della padrona?. - Ché! Mi sgrida, mi picchia per un nonnulla. - Anche lo stalliere mi sgrida e mi picchia per un nonnulla. Vado a cavallo però, quando vo ad abbeverare le bestie. - Io vo in carrozza con la signora, quando porto il bambino. - Se fossi grande, non mi picchierebbero! - Neppur me, se fossi grande! La padrona chiamava dalla finestra, lo stalliere chiamava dalla stalla. - Fannullona! - Fannullone! E scapaccioni e strilli su in casa; e scapaccioni e strilli giù in istalla. Pochi giorni dopo, egli vide passare davanti la scuderia la ragazza che piangeva: - Che hai? - La signora mi ha mandata via. - Vado via anch'io. Andiamo insieme? - Dove? - Dove ci portano le gambe, Cammina, cammina, cammina, si spersero in mezzo a un bosco. Si faceva buio, e non riuscivano a trovare la strada. Cominciarono a strillare: - Ah, mamma mia! Come faremo? - Perché piangete, ragazzi? - Nonnina, dateci aiuto! Abbiamo smarrita la strada. - Non mi riconoscete? - Non vi abbiamo mai vista. - Sono la Fortuna. Che volete? Chiedete e vi sarà dato. I ragazzi si consultarono, imbarazzati. - Che chiedere? Ricchezze? Gliele ruberebbe il primo che capitava; non si potevano difendere. Se potesse farci diventar grandi, e darci un po' di denaro, tanto da non dover star a servizio in casa altrui! - Nient'altro? - Nient'altro. - Prendete; mangiate queste due focacce, e poi schiacciate queste due noci. Vedrete. E sparì. Mangiarono le focacce e si addormentarono. La mattina, svegliandosi, si avvidero di esser cresciuti di una ventina d'anni almeno; ma non si riconoscevano. - Chi siete? Che fate qui? - Sono una boscaiola. Faccio legna. E voi? - Sono un boscaiolo; faccio carbone. - Ho una noce: è la Fortuna. - Ne ho un'altra anch'io. Le schiacciarono e ne sgusciarono fuori tante monete d'oro, nuove di zecca. - Questa è la mia dote. - E questa è la mia. Si sposarono, e lavoravano da mattina a sera. Lei faceva legna e lui faceva carbone. Ma era una vita dura. Pure mettevano sempre qualcosa da parte. - Ci servirà per quando saremo vecchi. Spesso si lamentavano: - Che vitaccia! E contavano i quattrini già messi da parte. Erano molti, non però ancora abbastanza da potere passar bene la vecchiezza. - Quando saremo vecchi, ci riposeremo. - C'è ancora tempo, marito mio. Una notte udirono rumore attorno alla capanna, e voci cupe che dicevano: - Tu qua; tu là; io dalla porta, tu dal tetto! - Oh, Dio! Sono i ladri. Marito e moglie si sentirono gelare. Uno scassinava la porta, uno sfondava il tetto: - Non vi muovete o siete morti! Dove sono i quattrini? Erano più morti che vivi soltanto per lo spavento di quelle facce barbute che gli appuntavano i pugnali alla gola: - Dove sono i quattrini? - Eccoli lì. I ladri fecero repulisti e andarono via. La mattina dopo marito e moglie non avevano forza di lavorare e piangevano in mezzo al bosco: - Poveri a noi! Come faremo? - Che avete, buona gente? Perché piangete? - Ah, nonnina! La notte scorsa siamo stati spogliati dai ladri! - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Il meglio sarebbe stato una tranquilla vecchiezza, con tanto da non stentare fino alla morte. - Nient'altro? - Nient'altro. - Ecco qui. Mangiate queste due pere e vedrete. In questa borsa poi ci sarà sempre del denaro. Più ne spenderete e più ne troverete. Prima che le dicessero grazie, era sparita. Marito e moglie mangiarono ognuno la sua pera e si addormentarono. Allo svegliarsi, strascicavano i piedi. E si ricordavano di ogni cosa passata. - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita! Non metteva conto. Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Erano tornati ad abitare la loro casa d'una volta. Si mettevano al sole davanti la porta e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano chiasso. - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita. Non metteva conto. Già, farne un'altra sarebbe stato lo stesso. Fanciulli, giovani, vecchi! O poveri o ricchi, s'invecchia tutti; e tutti dobbiamo morire! Spendevano e spandevano; mangiavano bene, si prendevano ogni sorta di divertimenti, e non avevano nessun pensiero dell'avvenire; la loro borsa era sempre piena; più quattrini ne cavavano e più ce n'era. Sarebbero stati felici, se non li avesse angustiati il pensiero fisso della morte. Ogni giorno che passava, era un passo verso la sepoltura. Non se ne davano pace. Una mattina stavano seduti, al solito, davanti la porta per godersi il sole. - Chi sa, marito mio, se rivedremo il sole domani! - Eh, chi lo sa, moglie mia! Videro accostarsi una vecchina: - Fate la carità! - Siete più vecchia di noi; quant'anni avete? - Gli anni miei non si contano. Non può contarli nessuno. La guardavano sbalorditi. - E camperete molt'altri anni ancora? - Finché ci sarà mondo. - Chi siete? - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Prima di mill'anni, non ripasserò da queste parti. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Gioventù, ricchezze, tutto passava, tutto andava via. Se non si potesse morir mai! L'unica felicità sarebbe questa. - Se non chiedete altro; vi sarà concessa. - Non chiediamo altro. - Ecco qui. E porse una boccettina con poche gocce di un liquore rosso dentro, che pareva sangue. - Bevete, e vedrete. Prima che potessero dirle grazie, era sparita. - Berrò io il primo. - No, berrò io. - Sono il marito; devo bere il primo. - Sono donna, perciò tocca a me. - Facciamo come l'altra volta; dividiamo le gocce. - Dividiamole; sarà meglio. Le divisero e bevvero. Si sentirono diventare quasi di acciaio. - Oh, che felicità, moglie mia! Non morremo mai! - Oh, che felicità, marito mio! Non morremo mai! Passarono più di cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, e ogni giorno stavano lunghe ore davanti la porta, al sole, a guardare i bambini che facevano il chiasso: - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Ma non erano però così contenti come avevano creduto di dover essere. Tutto cangiava attorno a loro, tutto moriva attorno a loro. Non si potevano affezionare a nulla e a nessuno, che già se lo vedevano portar via dalla morte. Passarono più di mille anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora, sedendo davanti la porta al sole, non badavano più ai bambini che facevano il chiasso; non ripetevano più: Ricordi, marito mio? Ricordi, moglie mia? Sbadigliavano: - Oh, Dio, che noia! - Sempre la stessa storia! Non ne potevano più. Avevano visto tante e tante cose, tanta gente, tanti avvenimenti: guerre, fami, pestilenze, feste d'ogni sorta, cose belle, cose tristi, tante, tante, tante! Ma, infine, gira e rigira un continuo nascere, un continuo morire; gira e rigira, sempre quella! Non ne potevano più; si sentivano sazii di esser vissuti tanto, stanchi di vivere ancora. - Che facciamo, moglie mia! Io vorrei morire. - Anch'io. Chiamiamo la morte. Se non la chiamiamo, non viene. E la chiamarono ad alta voce: - O Morte! O Morte! Accorse, scheletrita, con la falce in mano. - Che volete da me? - Vogliamo morire. - Non posso toccarvi; la Fortuna non vuole. Si sentirono stringere il cuore. Passarono altri cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora non si vedevano più neppure avanti la porta per godersi il sole: erano sazii anche di esso che appariva tutte le mattine dalla stessa parte e andava a coricarsi tutte le sere nella stessa parte. Il sole però non si annoiava mai, non si stancava mai! - Noi no, è vero, moglie mia? - Sì, è vero, marito mio! - E la Fortuna non si vede più! - Dovrà ripassare. Ripasserà. L'attesero altri cent'anni. Finalmente rivenne e non al solito da vecchina, ma sotto l'aspetto di bellissima donna, con lunga veste cosparsa di oro, di perle, di diamanti. Non la riconobbero. - Chi siete? - Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. - Ah Fortuna, Fortuna! Non vogliamo nulla; vogliamo morire! - Va bene; uno oggi e subito subito, l'altro fra cent'anni. - Perché non insieme? - Non si può; uno oggi, subito subito, l'altro fra cent'anni. - Marito mio, per amor tuo, scelgo di morire io fra cent'anni. - Moglie mia, per amor tuo, cedo il posto quest'oggi. - Non siete più a tempo! A rivederci fra altri cento anni. E per cento anni, marito e moglie leticarono continuamente: - La colpa è tua. A quest'ora saremmo bell'e morti e dormiremmo in pace sottoterra! - La colpa è tua! Ah! Perché non abbiamo lasciato andare le cose pel verso loro. Contavano i giorni, le ore, i minuti, e leticavano fin sul conto di essi, tanto smaniavano di veder arrivare la Fortuna. - Eccomi. Chiedete e vi sarà dato. - Ah, Fortuna, Fortuna! Non vogliamo niente: vogliamo morire; non ne possiamo più! - Vado a chiamare la Morte. I vecchietti, contentissimi, imbandirono una bella tavola, e indossarono gli abiti di festa. La gente, meravigliata, domandava: - Che vi accade, vecchietti? - Oggi le cose tornano ad andare pel verso loro. É il verso giusto, tenetelo a mente! E caddero bocconi, freddi stecchiti. La Morte era arrivata senza ch'essi se ne accorgessero. Fiaba oscura, nespola dura La paglia e il tempo ve le matura.

Milano in ombra - Abissi Plebi

662860
Corio, Ludovico 1 occorrenze

Ed in quel frattempo e nobiltà, e borghesia e popolo comprendono il loro torto nell'aver dimenticata questa massa abbastanza ingente, cui in quel punto temono soverchiamente, perchè non conoscono e perciò ne esagerano la tristizie e la potenza. Dissi che anche il popolo la teme, perchè nulla ha di comune con questa turba; alla quale non potendo applicare il nome storico di plebe, daremmo di preferenza quello di feccia, quantunque gli uomini delle classi superiori con carità fraterna abbiano trovato moltissimi altri nomi per indicarla, quali, per citare i più conosciuti: maraglia, plebaglia, popolazzo, popolaglia, gentaglia, bordaglia, bruzzaglia, canaglia, e via dicendo. Essa però non è un triste privilegio dei tempi nostri, ma un fenomeno di tutti i tempi, ed ebbe sempre le stesse tendenze le stesse passioni, la stessa natura. Tra la Suburra e la Villette e Ménilmontant tra White-Chapel e la via Varese o la via Legnano, o lo stretta Calusca, o il vicolo della Corde, nessuna differenza ci corre. E questa turba fu pure in ogni tempo spregiata, giacchè Sallustio ve la dirà cupida sempre di nuove cose e Machiavelli per natura pronta a rallegrarsi del male Milano ha del pari che tutte l'altre città la sua feccia, la quale, come ripeto, ha nulla di comune coll'ottimo popolo operaio, che massime in questi ultimi tempi, è diventato massaio e previdente ed ama l'istruzione ed il lavoro. Nè si creda che questa genia sia composta di soli Milanesi; questi anzi vi sono in minor numero di quel che non si creda, giacchè a formarla concorrono tutte le città minori e i villaggi di Lombardia, che mandano a noi tutti i loro rifiuti. Cosa questa non nuova, chè la plebe di Roma era pur essa composta di gente venuta dal di fuori della città. E Tacito, nauseato dalla corruzione della Roma de' suoi tempi, ne svela la cagione dicendo che in Roma "omnia turpia atque scelesta confluunt celebranturque" il che può ripetersi a buon diritto per la nostra Milano. In Parigi eziandio, la plebe è formata non solo dei déclassés della grande metropoli, ma per la maggior parte, dei provinciali, il qual fatto era già stato accennato da Jacque Sanguin, prevosto dei mercanti nel 1592 sotto Enrico IV. "La bonne ville de Paris renferme deux populations bien dissemblables et d'esprit et de coeur. Le vrai populaire, né et élevé à Paris, est le plus laborieux du monde, voire le plus intelligent; mais l'autre est le rebut de toute la France. Chaque ville des provinces a son égout, qui amène ses impuretés a Paris".

Pagina 8

Il cappello del prete

663095
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Tuttavia il buon vecchietto, che sentiva stillare sui capelli d'argento la fresca rugiada de' suoi fiori, pensava che nell'amor di Dio si è sempre giovani abbastanza e che il cuore dei buoni non invecchia. Cosí pensava, coll'innaffiatoio in mano, quando venne Martino a corsa a dire che Salvatore era caduto sulla strada preso da un gran male. Corresse don Antonio giú verso la villa coll'olio santo, se pure c'era tempo ancora. Corresse di qua, mentre egli correva di là a suonare la campana. Don Antonio lasciò in fretta le formiche, corse in chiesa, prese il suo tricorno per ripararsi dal sole, intascò la stola e il vasetto, dei sacri unguenti e, come gli permettevano le gambe, scese verso la villa preceduto da alcuni contadini, che avevano aiutato a portare Salvatore in casa. Il poveretto era proprio agonizzante. Un secondo colpo era caduto a rompere un esistenza già sconquassata. Salvatore abitava nella villa una cameruccia a terreno, che nei tempi antichi aveva servito di muda agli uccelli. Pochi stracci, un vecchio canterano, un paio di sedie, un pagliericcio, formavano tutta la sua ricchezza. A capo del letto pendeva il vecchio fucile, che da dieci anni non aveva ucciso un uccellino. La ruggine se lo mangiava silenziosamente. Il moribondo non mormorò che poche parole inconcludenti; ma don Antonio, pensando che s'era confessato l'anno prima e che d'allora in poi il meschino non aveva avuto nemmeno la volontà di peccare, lo assolse "in articulo mortis" , lo benedisse, e gli chiuse gli occhi "in vitam aeternam, amen". Martino rimase a custodire il morto in compagnia del procaccia comunale. - Ecco un uomo arrivato al suo porto - diceva fra sé stesso il vecchio piovano, ritornando verso la canonica. E mentre andava pensando al modo di fargli un poco di funerale e alle parole che doveva scrivere al barone per dargli la ingrata notizia, venendo su molle molle per lo stretto sentiero, vide sul terreno l'ombra del suo cappello sbattuta dal sole e si fermò. Girò un poco il capo per far giocare l'ombra in terra e gli parve che non fosse l'ombra solita, voglio dire quella che da tanti anni lo accompagnava nelle sue passeggiate al sole. La differenza era nelle tese. Mentre di solito il suo largo triangolo colle ali distese come una vela al vento riempiva dell'ombra sua quasi tutto il viottolo, dando l'immagine d'un uccellaccio che traversi colle ali stanche un braccio di mare, questa volta l'uccellaccio aveva qualche cosa in sé di piú svelto, di piú aggraziato, pareva insomma il figliuolo del primo. Non sapendo come spiegare lo strano fenomeno, don Antonio si levò il triangolo dal capo e vide ch'era avvenuto uno scambio. Non era piú il vecchio cappello dall'antico pelo, dagli orli corrosi, dalle rosse ammaccature, ma un fior di cappellino nuovo fiammante di zecca, coi nastrini di seta, la fodera di seta azzurra come la mozzetta dei monsignori, un vere cappello da monsignore. - Come va questa faccenda? - esclamò don Antonio. - Io ho letto nelle sacre carte che un corvo portò un pane al profeta Elia; ma non ho mai letto che Dio mandasse anche i cappelli nuovi ai poveri preti. Il piú bello si è che il cappellino pareva fatto a pennello pel suo capo, come se veramente la mano di Dio avesse presa la misura. Non sapendo come spiegare il mistero, ma sicuro in cuor suo che lo scambio era avvenuto nella stanza del morto, non disse nulla per il momento a Martino; ma quando tornò per il funerale, girò gli occhi intorno e vide che veramente il suo cappello d'antico pelo era rimasto sopra una sedia in un angolo e che egli aveva preso il nuovo d'in sul canterano, dove vedevasi ancora il segno nella polvere. La coscienza avrebbe voluto che egli lasciasse il nuovo al suo posto senza cercar altro e ripigliasse il suo; ma sul punto di uscire col morto, fosse distrazione, fosse una cattiva suggestione dello spirito malvagio, che trionfa di piú quando può conquistare una coscienza delicata, fatto sta che il buon prete prese ancora il nuovo e lasciò il vecchio sulla sedia. - Questo non è rubare, - diceva la coscienza, mentre il funerale si avviava al camposanto, perché non si ruba nulla ad un povero morto, prendendogli il cappello. Laggiú, sotto la terra, non c'è pericolo di pigliare un colpo di sole. E poi io devo ben pagarmi in qualche modo di questo funerale. Salvatore non lascia indietro che il suo cane, e se aspetto che paghi per lui quel vecchio libertino del suo padrone, sto fresco. Resta a vedersi, - mormorava la coscienza incontentabile e schizzinosa, resta a vedersi se il cappello era proprietà di Salvatore o non si trovasse per caso nella cameretta, o se egli l'avesse ricevuto in consegna. D'altra parte io lascio in luogo del nuovo il mio usato, e quando il padrone del primo si sarà accorto del cambio, potrà venire alla canonica a reclamare. Acquietata la coscienza in questo pensiero, ne parlò la stessa sera a Martino, l'excappuccino, che era fine nel risolvere i casi di coscienza: e anche costui trovò naturale che don Antonio usasse di un cappello che in fondo era di nessuno. Per togliersi tuttavia anche le ultime pagliuzze dalla coscienza, il prete non lesinò sui suffragi e recitò una messa da morto indirizzata tutta a sollievo della povera anima di Salvatore. E si tenne il cappello. Salvatore era morto senza poter dire come questo si trovasse nella sua stanza. Avrebbe potuto dirlo il suo cane, che, andando secondo l'abitudine sua a raspare nelle paglie della stalla, l'aveva trovato in un cantuccio e l'aveva portato al padrone, come usava fare cogli storni a caccia. Ma i cani non parlano.

Demetrio Pianelli

663133
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Quel piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina — una vespa, in lega col diavolo — aveva una cosí grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano. Beatrice, passato il primo impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira. Le parole del cavaliere, togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza di reagire. Ma nell'alzarsi, nel ritrarre il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto d'oro, un braccialetto ... Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla. Il suo protettore pregò, supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore. Nominò ancora l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di farla ridere ... Beatrice disse una volta di sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí. Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l'ora che l'uscio si aprisse. Aveva bisogno d'aria, si sentiva soffocare… Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina ... Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a’ suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio? E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

663150
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Allora ricominciano gli affari, le cambiali, le adunanze, i telegrammi, i bilanci, non c'è più tempo di dir due parole in pace, si mangia in collera, si grida per tutte le sciocchezze, o perché la zuppa è troppo salata, o perché non è salata abbastanza, o perché fa male una scarpa, o perché s'è staccato un bottone, o perché piove, o perché fa caldo, o perché il governo mette la ricchezza mobile e tutti i mali si fanno passare per la pelle della moglie come se la moglie fosse il cuscinetto degli spilli. Per rifarsi, la sera si va alla birreria, a giocare al bigliardo, a far visita alla signora Tortorelli e la moglie a casa a sbadigliare. LUIGI: Hai finito, gioia? Tu credi che tuo marito sia un ragazzo a cui si possano dare quattro ceffoni sulla via... SIGNORA: Io credo... che... LUIGI: Guarda che son stato a Mentana ve'... Non ho avuto paura delle baionette francesi io, e non voglio aver paura delle ciarle d'una bécera insopportabile. SIGNORA: Il tuo pappagallo è più gentile. LUIGI: Se credi di farmi ballare come una trottola t'inganni... Ho diritto d'essere rispettato e come uomo e come negoziante e come marito. Son Romagnolo che non ha paura di trecento operai io; né voglio subire la prepotenza d'una... pettegola... SIGNORA: Ah... pettegola...? in Romagna dite pettegola? IL CAPO: La va de sora via... SIGNORA: Mantiene questa parola, sor Luigi Spazzoletti? LUIGI: La mantengo, la ripeto, la stampo, sora Marianna. SIGNORA: Basta. Dopo appena due anni di matrimonio è il primo diamante che il signor cav. Spazzoletti regala a sua moglie. La ringrazio. Non ho più nulla a dirle. Mi ritiro qui in sala; quando arriva il treno si compiaccia d'avvertirmene. ( entra a destra ). LUIGI passeggia nervoso, irritato : Potessi tu tacere cento anni! queste maledette donne sembran fatte a posta per guastare la pace d'un galantuomo. Oh ma la faremo finita...! non voglio morir tisico io per la lingua della sora Marianna Spazzoletti. Divisione, divisione assoluta di casa e di pane. Un uomo ha la pazienza limitata per un po', due po', tre po',... ma po... poi... ( non trova i sigari ) Non ho nemmeno un cane di sigaro, corpo d'una saetta, e mi tocca fumar la mia rabbia. Non c'è un tabaccaio qui vicino, sor capo? CAPO: Qua in fondo alla contrada c'è un botteghin. LUIGI: Ho tempo di scappare a prendere un paio di sigari? CAPO: El gh'à tuto el tempo. El treno el xè in ritardo. LUIGI: Se non respiro un po' d'aria scoppio di rabbia. CAPO: De sto buco se gode de' bei spettacoli come a un teatrin. Gh'ò pagura che questi due italiani stanotte faran de' brutti sogni... Gh'è xè chi una carrozza.

Giacomo l'idealista

663189
De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Se si deve giudicare dalle scarpe e dalle calze, madamisella non ha viaggiato in carrozza, ma ha camminato abbastanza per arrivare a tempo per farsi curare da noi, come se non ne avessimo abbastanza dei fastidi nostri; già, finirà col guastare anche quelle poche feste di Natale. Questo, si sa, è l'ospedale degli invalidi. Finito l'uno, comincia l'altra, e noi, s'intende, ci dobbiamo prestare per tutti, gratis et amore, se dobbiamo guadagnarci un bel posto in paradiso. Per loro il buon tempo, la filosofia, i buoni bocconi, i complimenti, la corte dei signori, e quel che segue, fin che il buon tempo dura; quando la festa è finita, si torna a casa a farsi curare; e allora allon donc , tocca a noi far pezze della pelle per medicare le loro piaghe. Sarebbe bella che, dopo aver fatto quello che ha fatto, madamisella venisse a morir qui, proprio a tempo per liberare da ogni obbligazione quei bravi signori, che l'hanno rovinata! uscir lei dai fastidi e lasciar a noi le spese del funerale. Non mi stupirei che lo facesse, perché è sempre stato nel suo carattere di guastare le combinazioni . Mamma Santina entrò in quella collo scaldino. Pallida e tremante di emozione, quando la Lisa cominciò a voler far sentire le sue ragioni, troncò ogni discorso col dire: - Fosse la figlia di nessuno, quel che importa è che la povera figliuola sia assistita; non sei cristiana? - Non neghiamo la nostra carità nemmeno ai cani; ma io direi di scrivere subito, a buon conto, allo zio prete, per avvertirlo del fatto e per indurlo a conchiudere qualche cosa con quella benedetta contessa. Sapete che Giacomo non è uomo da risolvere una questione. Teme sempre di mancar di rispetto alla gente, la quale poi lo ripaga nel bel modo che s'è visto; e non vorrei che, a furia di aver misericordia agli altri, ci riducessimo a morir noi disperati come ladri. Se questa disgraziata deve ammalarsi in casa, bisognerà pure che qualcuno pensi alle medicine. Sarebbe bello che toccasse a noi di far la penitenza de' suoi peccati . La Lisa non avrebbe finito cosí presto dal predicare, se la mamma, facendole un vivo segno colle mani, non l'avesse avvertita che Giacomo stava per entrare. Questi s'era presa Celestina sulle braccia e raccogliendo le sue forze a un'estrema fatica, veniva su per la scaletta col peso lento della persona, che rovesciata sulla sua spalla, nel languore pesante di un corpo morto, lasciava cadere le braccia incapaci in un desolante abbandono. I capelli umidi e sciolti scendevano sul volto, velando i lineamenti già irrigiditi e mettendo una striscia quasi funebre sul candore marmoreo, mentre i piedi ignudi, che uscivano dalla povera gonna, davano alla giovine una tristezza d'infinita miseria, di vittima spenta che portassero a seppellire. - Come l'hanno conciata, pover'anima - scappò detto alla Lisa, quando, deposta sul letto la malata, dette mano a svestirla; e male resistendo alla violenza della naturale compassione, gli occhi le si fecero grossi di pianto. Giacomo ordinò con tono frettoloso e sostenuto che la mettessero a letto, mentre egli andava a chiamare il dottore. Uscí e corse, cosí come si trovava, a capo nudo, col petto mezzo scoperto, in cerca del Brandati. Celestina si lasciò svestire senza dar segno di vita. Era un letargo di piombo fuso e colato in un corpo di ghiaccio. - Non vede domattina - pronosticò don Angelo crollando malinconicamente la testa. - Nel suo stato lo strapazzo fu troppo - soggiunse la levatrice, che il dottore aveva dovuto far venire in fretta. - Santa Madonna, che brutto Natale! - La Santina nascose il volto nel grembiale, e dopo aver asciugati gli occhi grondanti, si volse al prete: - Glielo dite voi, don Angelo, a quel povero figliuolo? - Dov'è? - Dabbasso, in studietto. Da ventiquattro ore non par piú un uomo vivo. - Vado io a pigliarlo. Lo zio prete scese lentamente la scaletta e andò in cerca di Giacomo. Lo trovò nello stanzino, che serviva di studio, seduto in unavecchia sedia di cuoio, col capo curvo e colle braccia incrociate sul petto, cogli occhi fissi sul suolo, in una attitudine di attonita tranquillità. Nella luce grigia, che entrava dai nudi vetri della finestra, che dava sulla vignetta, il suo volto reso quasi trasparente dai mali, compariva ancor piú delicato e giovanile. Ma tutta la testa, sotto il cespuglio d'una chioma fatta folta e lasciata incolta, aveva un'espressione di bellezza forte e resistente. Di fuori il vento strappava i rami della vecchia vite appoggiata al muro, e nella bianchezza della neve svolazzavano per la vignetta alcuni corvi. Il cielo attraverso agli alberi e ai pergolati spogli appariva d'un azzurrino purissimo; e in quel cielo fermo e lieto, che si sprofondava nell'infinità, pareva che lo spirito di Giacomo attingesse le ragioni della sua persuasione. Don Angelo, nel passare dalla cucina, vide Battista in un angolo tra la credenza e il muro, in piedi, colle spalle appoggiate al legno, colle braccia nascoste sotto il gabbano, col testone basso, in un'attitudine di colpevole punito. Angiolino invece, che non poteva star fermo nelle sue smanie dolorose, dopo essere uscito cinquanta volte a cercare un sollievo al suo patimento in qualche occupazione materiale, s'era messo a sedere sopra un sacco di cruschello e stava lí, colla testa curva sui ginocchi, coi pugni stretti, colla gola strozzata da un dolore furioso, che non osava farsi sentire. Insieme alla pietà per la povera Celestina e per il povero Giacomo, fremeva in lui un rancore che non voleva morire; e intanto gli pareva che qualche cosa di vivo e di palpitante si distaccasse dal cuore. Senza che egli potesse capire, in Celestina, piú che la sorella, rimpiangeva lo svanire d'un misterioso incanto. Dopo il pieno scampanare della benedizione, un lungo silenzio si diffuse per la casa, per la corte spopolata, per tutta la campagna lucente al sole. Una luminosità gioiosa si spargeva in quel pomeriggio di Natale senza nuvole e senza nebbia e correva sulle creste dei monti, che riflettevano splendori d'argento nella tremula trasparenza dell'aria. Raggruppati su un vecchio trave, accanto al muro del portico, il Manetta e alcuni uomini delle fornaci discorrevano accorati con mezze frasi nel tenore morto d'un suffragio. Parlavan di lei, di Giacomo, del caso, dei mali, che vengono senza farsi cercare; poi da capo a crollar la testa ed asciugar gli occhi col ruvido palmo della mano. Una volta fece una rapida comparsa tra il chiaro e il fosco il signor della Rivalta; domandò qualche notizia e scomparve colla stessa furia. Forse c'era a casa chi lo aspettava con ansiosa curiosità. Forse correva anche lui dietro a un suo incanto. Sulla loggetta era un rapido incontrarsi di donne che non parlavan piú per rispetto alla morte. - Giacomo, - disse la voce grave di don Angelo con quell'intonazione un po' alta ed estranea, di cui si servono i preti, quando sentono di parlare in nome di una forza superiore - abbi pazienza, povero Giacomo; per lei forse è meglio cosí. Non andiamo a investigare la volontà di Dio, ma lasciamola passare. Puoi venir di sopra? - Le avete detto il mio pensiero? - chiese il nipote con voce altrettanto ferma. - Gliel'ho detto. Quasi non voleva accettare; ma quando capí che per lei non c'è piú nessun'altra speranza in questo mondo e che non potrebbe avere da te una consolazione piú grande, ha detto con gioia di sí. Ma bisogna far presto. Giacomo si mosse sotto la guida d'un segreto pensiero, che lo sorreggeva. Il vecchio prete, che nei suoi settant'anni maturi poteva dirsi stagionato contro i tocchi della tenerezza, gli passò il braccio nel braccio e volle accompagnarlo su per gli scalini. - Allora faccio venire i testimoni - disse quando furono sulla loggetta. Giacomo entrò nella stanza vicina, e ne uscí pochi minuti dopo coi capelli ravviati e con indosso il vestito nero, pronto per la cerimonia. Ebbe ancora un assalto di smarrimento momentaneo; ma il Brandati e lo zio lo presero in mezzo e lo menarono nella stanza della moribonda. La mattina le avevano portato la Comunione. Ardevano ancora sul tavolino le due candele benedette in mezzo ad alcuni fiori, che Angiolino s'era fatto dare dal giardiniere del Ronchetto. Alcune donne stavano in ginocchio, accanto al muro, col viso in lagrime. Battista e Angiolino, ai piè del letto, parevano non veder piú nulla. La cerimonia cominciò. - Voi siete i due testimoni - disse ai due giovani la voce di don Angelo, che conservava in mezzo a quello scompigliato silenzio un'intonazione d'ordine e di comando. Si mise al collo la stola rossa, aprí un libro dagli orli dorati, fece il segno della croce. Dopo aver letto sottovoce alcune preghiere in latino, si chinò sull'assopita, per dirle piano all'orecchio: - Celestina, figliuola, c'è qui il tuo Giacomo, che ti vuole sposare. La giovane aprí languidamente gli occhi, li girò per la stanza. Un umile sorriso scosse e tremolò sulle sue labbra riarse dalla febbre infettiva, che la divorava. - Mi ascolti, figliuola? - tornò a dire don Angelo. Essa fece colle palpebre un piccol segno di sí. E il prete con accento piú sostenuto: - È contento il qui presente Giacomo Lanzavecchia di sposare la qui presente Celestina Benetti? - Sí - rispose Giacomo con un'espressione e un tono di voce che, sfuggendo di mezzo ai brividi dell'anima, risonò con una dolcezza singolare. - È contenta. Sei contenta, Celestina, di sposare il tuo Giacomo? - sussurrò don Angelo, curvandosi un poco sulla testa della malata, mal resistendo anche lui questa volta alla violenza delle cose. La morente, che seguiva coll'occhio luminoso la santa cerimonia, disse un "sí" chiaro, ridente, che radunò tutte le speranze sfiorite della povera anima sua. Stese la mano stanca, mentre la mamma Santina, che non riusciva a inghiottire tutte le sue lagrime, cercava di mettere nella mano di Giacomo il vecchio anello d'oro, che le aveva dato quarant'anni fa il suo Mauro. Il figliuolo, il quale non vedeva innanzi a sé che un barbaglio di cose bianche, aiutato dai vecchi, che mescolavano colle sue le loro mani tremanti, mise l'anello nuziale nel dito della sua promessa. Poi si lasciò cadere in ginocchio e restò come morto. Celestina sollevò la mano e gliela posò sul capo. - Quod Deus coniunxit homo non separet - recitò il prete, ritrovando la sua voce naturale. Poi continuò le altre parole del rito mentre cercava di avvolgerli nella sua benedizione. Piangevano tutti, in silenzio, non senza qualche segreta consolazione. Celestina, fissati gli occhi in viso alla mamma Santina, parve chiedere qualche cosa. La mamma sollevò un poco colle mani la testa di Giacomo: - Perdona, Giacomo - disse con un filo di voce - perdona, perdona . Fu questo l'ultimo sforzo d'una vita che fuggiva già lontano come fugge un'ombra all'avvicinarsi di una gran luce. Don Angelo senza pensare a cambiar stola, voltò alcune pagine del libro, che contiene in poco spazio l'eterna leggenda delle gioie e dei dolori che passano, e cominciò a leggere le orazioni degli agonizzanti, a cui risposero i presenti, stando inginocchiati. La poverina spirò ai primi tocchi dell'avemaria sul finire di quel Natale che doveva essere per lei cosí bello e cosí felice. Giacomo si alzò e venne condotto fuori. Non piangeva. Un sentimento di serena convinzione, starei per dire di umiltà soddisfatta, gli permetteva di essere il meno scosso e il meno turbato di tutti. Sentiva confusamente che qualche cosa era finito, per cedere il posto a qualche cosa di più grande, che non avrebbe potuto trovar posto poco prima nell'anima sua.

Sentendosi abbastanza sicuro sulle gambe, provò a scendere le scale, e quando fu abbasso, nella cucina, si accostò al camino, dove bolliva sommessamente un caldano, e sedette nella poltrona di legno del pà, che era stata la poltrona dei vecchi, sempre davanti a quel medesimo camino dalle panchette logorate, dagli alari consunti, dagli oscuri ripostigli, che contenevano le cose dei morti. Ogni generazione vi aveva dimenticato qualche cosa, chi una pipa, chi una scatola di fiammiferi, chi una tabacchiera, chi una moneta, chi un cartoccio di tabacco, chi un libro da messa o un rosario, o un bastone, o un falcetto; e si sa che ogni cosa lasciata indietro ha dentro di sè un poco dell'anima di chi è partito, come resta il calore della vita per breve tempo anche dopo che la vita ha cessato di battere nel corpo. Molta cenere era stata portata via e dispersa dal giorno che davanti alla pietra scolpita del camino era stata accesa la prima fiamma; e ogni cenere morta contiene un pugno delle nostre speranze! Ma nessuno de' suoi era stato avvilito e amareggiato come avevano avvilito e amareggiato il filosofo di casa, il grand'uomo, che intorno a quell'affumicato edificio di casa sua aveva creduto d'innalzare un tempio ideale ricco di pietre preziose. Non era passato un mese dal dí che aveva sognato di far sedere Celestina al suo fianco, lí davanti a quel camino, e di rinnovare con lei nella casa dei Lanzavecchia un nuovo patto; ma intanto ch'egli costruiva i sogni suoi nella cenere, c'era chi faceva di lei e dell'onore di tutti e due il piú orribile strazio. No, no, nessuno dei vecchi padri era passato per queste verghe; nessuno avrebbe saputo immaginare per sé una simile ignominia. Questi era riservata al discendente filosofo, al raffinato analizzatore della vita, perché avesse con comodo a scriverne un bel libro. Questo gli andavano ripetendo con ironico aspetto le sedie, le casse, gli utensili accostati al muro, la polverosa cicogna, che alzava il collo dimezzo ai trespoli consunti sull'armadio, questo gli suggeriva ogni altra apparenza, a cui l'occhio, l'abitudine, la memoria avvessero attaccato un po' della sua vita. Che stava egli a tener in conto questa sua miserabile esistenza senza bene, senza coraggio e senza rassegnazione? L'odio, che gli stillava dal cuore, non faceva che corrodere come un acre veleno le sue viscere, senza infondergli l'ardimento d'una vendetta o di una qualunque azione vigorosa, che giovasse alla sua dignità. Il suo posto nel mondo non poteva essere che un oscuro nascondiglio, come si riserva agli arnesi scassinati; e allora che giovava il vivere? Ancora una volta si mosse e girò intorno alla tavola, non potendo star fermo su questi aculei; ma nell'alzare gli occhi, un cupo pensiero si fermò sullo schioppo da caccia a due canne, attaccato per la bandoliera lungo il muro sulla cappa del camino. Era un vecchio schioppo di buona fabbrica bresciana d'un calibro solido e pesante, che nelle mani del pà non aveva mai sbagliato un colpo. Giacomo osservò che uno dei cani aveva la capsula, segno che c'era dentro una carica. Con un braccio appoggiato alla sponda della tavola, a cui cercava di reggere il corpo affievolito, si domandò con terrore se il caso ha i suoi suggerimenti, socchiuse gli occhi, volò con l'immaginazione a quel che poteva essere di lui al di là d'un gesto fatale. Un gran picchio di cuore gli fece sentire il rombo della schioppettata e si rimirò disteso col petto squarciato attraverso la pietra del camino. Cedendo al fiero invito, montò sopra una sedia, distaccò il fucile, alzò il cane sulla capsula girò gli occhi intorno. Proprio in quell'istante presero a suonare le campane del Sanctus della messa. - Povera donna .! - mormorò: e buttò la capsula nella cenere. La notte, ebbe un breve ritorno di febbre; tanto che il dottore gli consigliò, anche in vista della brutta stagione, di restare a letto qualche giorno di piú.

Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

663961
Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Ma del titolo ho detto abbastanza; e conchiudo, che io porto il codino e sto con gli antichi. Sono venuto per la prima volta a Roma, passati quasi quattro anni precisi, da poiché vi si fece vedere Vittorio Emanuele al tempo della piena del Tevere, quando il Re Barbigione indovinò con il cuore il sublime indovinello di farvi la sua prima entrata in modo degno di un Plutarco cristiano, come disse allora il mio prevosto. Veramente, da buon cittadino, io non avrei dovuto indugiare tanto a seguire l'esempio del mio Re nel portare la cartolina di visita alla nuova capitale del regno. Ma le cure del sindacato e di Giacomina, mia moglie, la consuetudine di vivere ai piedi delle Alpi, fra le punzecchiature della nebbia, sotto un cielo di acciaio con la patina, l'attraenza del buco, che ho fatto nel mio nido, me ne distolsero sempre. Eppoi la veduta delle nostre montagne uncinate ci tira in su; onde io era salito parecchie volte sulle Alpi, e di lì ero disceso in Isvizzera, in Savoia e in Tedescheria: ma a calare giù nel molle e nel dolce della nostra Italia, non sapevo risolvermi. Finalmente quest'autunno... (tra parentesi, chi sa perché negli almanacchi tutto il novembre, e più di quattro sesti del dicembre si chiamano autunno in barba alla brina e al ghiaccio?) Claudite! Finalmente quest'autunno venne il bisogno per il villaggio da me amministrato di sollecitare dal ministero l'approvazione di un regolamento per i macelli pubblici - pratica che da due anni viaggiava dagli scaffali del sottoprefetto a quelli di un caposezione, e dormiva per istrada nell'andata e nel ritorno. Allora per la salute della mia patria più piccola comperai un viglietto circolare (Viaggio, n. V) a mie spese, e non a quelle del comune. (Lo sappia la Sciarpa Rossa, che è il giornale di opposizione del mio mandamento); e, rotta la cavezza di mia moglie e del mio buco, partii per Roma. Era uno degli ultimi giorni di novembre... Dai finestrini del carrozzone vedeva i rami degli alberi brulli come fili di ferro; vedeva i passeri scappare dagli alberi come foglie secche; vedeva i solchi dei campi, cascanti, rassegnati, logori, come solchi, che abbiano fatto il loro tempo: la terra quasi tutta color tabacco, con qualche po' di grigio e giallo marcio nei rimasugli delle stoppie, e con qualche scampolo di foglia o d'erba verde. Era un verde d'insalata, un verde della misericordia, un verde raggrinzito; inumidito, dimenticato - mortificato di trovarsi lì in quella stagione. La terra taceva e stava raccolta come dopo una sconfitta. Eppure quando la terra è ravvolta nel silenzio e nell'umiltà dell'inverno, essa, la modesta e brava donna, ci prepara le galanterie della vegetazione avvenire. Oh! io preferisco il modotenendi della signora terra, che parla poco ed opera assai, a quello dei collaboratori della Sciarpa Rossa, il poco lodato giornale di opposizione del mio mandamento, i quali si fanno sentire tutto il giorno a chiacchierare e a scribacchiare, e poi non sanno far altro di più importante, che guardare inutilmente l'albergatrice della Bella Venezia. Io non so passare davanti Milano senza fermarmici. Mi tira la faccia meneghina di quella città: mi piace sentire quel linguaggio aperto, spaccato, rovesciato, simile a un arco, a un popone maturo, pieno di accenti gravi e circonflessi. Feci pertanto una tappa a Milano; dove gli affreschi delle nuove palazzine hanno finzioni traditrici di ombre e di prospettive, da ogni liquorista si può trovare un poeta, o un romanziere o un artista che anderà ai posteri, e dove però le insegne e le iscrizioni pubbliche hanno una libertà di eleganza tutta loro propria; verbigrazia: Sostraio di pietre. - È proibito il passaggio a cavalli, muli, e ruotanti di ogni specie; - e dove sulle portiere degli avvocati è scritto ingenuamente: Avanti! Mentre guardavo ammirato i nuovi portici che girano intorno alla Galleria Vittorio Emanuele, ed i nuovi negozii, in cui le lastre di cristallo sfolgorano e riescono una sfida e una sgomento alle borse, il segretario comunale di Monticello, che volle accompagnarmi nel viaggio, guardava il Duomo. E sentite che bestemmia di idea gli fermentò nella mente, ideaccia, che egli non ebbe paura di palesarmi: - Guardi, signor sindaco! Dopo i palazzi, i portici, e i negozi nuovi, oh guardi il Duomo! Come diventa mai vecchio e imbecille! Una volta pareva una pineta di marmo, in cui i pini avessero un po' di vita e si movessero. Invece adesso il Duomo se ne sta lì rimminchionito, tutto in un mucchio, in un gruppo, carico di gromma e di ruggine. Pare un istrice raggomitolato, pieno di sospetti e di invidia per la Galleria Nuova, e per la sua cupola giovane di vetro, che di sera illumina persino il cielo, mentre esso, il vecchio, si accorge di spegnersi. Voglia sentire, signor sindaco, una mia profezia. Nella stessa maniera che adesso hanno atterrato e seguitano a buttar giù delle case, ed allargano la piazza per fare piacere al Duomo, scommetto che i posteri finiranno con buttare giù il Duomo per rendere più larga e più pulita la piazza! Io tappai con la mano la bocca al segretario, e minacciai di sospenderlo, se avesse seguitato a bestemmiare. Sulla piazza del Duomo si diroccava un vecchio casamento. Certe camere mostravano bruscamente il loro spaccato. Oh! come mi faceva pena vedere la tappezzeria o il camino di una stanzuccia, destinati al raccoglimento, alle conversazioni, al pranzo e ai misteri di una famiglia, vederli, dico, esposti al pubblico della gente, del sole e delle intemperie. E nel punto di spazio occupato da quel piano superiore, che si incammina a scomparire, forse non pranzerà e non chiacchiererà più nessuno! Da Milano andammo difilati a Venezia.

Io ne ebbi abbastanza di quelle lì, che ho affastellate alla rinfusa. Poi, come un pretore dell'antichità, abbandonai le minuzie, e mi affacciai alla balaustra del Pincio per riavere Roma in un solo colpo d'occhio. Roma, mancomale, non si era mossa. Essa mi stava tutta dinanzi: un fastello di tetti, di campani1i, di torri e di cupole, che discende dall'Esquilino a Campo Marzio. Non mi pareva vero di trovarmi davanti la sublime, l'alma Roma, l'Eterna Città , che mi aveva riempita la testa da giovinetto, e che io credeva qualcosa di strano, e non una città come tutte le altre, nello stesso modo che la donna del Berni credeva che il Papa non fosse un uomo, ma un drago, una montagna, una bombarda . Ed invece Roma è proprio una città come tutte le altre, anzi da meno di molte altre in certe miserie moderne, una città con i suoi fumaiuoli, con i suoi marciapiedi incomodissimi, con i baracconi dei giornali e gli spacci di lucido Dubois. Le muraglie dei palazzi e delle case, i campanili e le torri mi mostravano dei buchi nelle finestre, negli abbaini, e nelle altre aperture. Io domandava a me stesso, se quei buchi erano bocche di scheletro sdentato od occhi di luce. Non c'era verso: bisognava mi commovessi: me ne correva l'obbligo sotto pena di una presa di minchione, o di sasso. Ma non ci riusciva a scaldarmi. Per aiutare la mia fantasia, ripetevo nella mente le parole più rotonde che Roma ha fatto dire agli scrittori, quelle parole che riempiono la bocca, come una cucchiaiata di fagiuoli: Tantae molis erat romanam condere gentem - tu regere imperio populos, Romane, memento - Imperiumque pater Romanus habebit ... Pensavo che io tenevo lì sotto i miei occhi : genus ... latinum, Albanique patres, atque altae moenia Romae, - Capitoli inmobile saxum ... ecc., ecc., e tutta la Città Omnibus , la quale nos ha dado fa jurisprudencia con sus pretores, los municipios con sus proconsules, la libertad con sus tribunos, la autoridad con sus Césares, la religion con sus pontefices... pedra miliaria ecc., arco de triunfo ecc., templo , - academia - campo de batalla ecc., ecc., una città più famosa di Babilonia, Tiro, Gerusalemme, Atene, Alessandria, Parigi, Londra e Nuova York, perché abraza los dos hemisferios del tiempo, el mundo antiguo y el mundo Cristiano ... A quel focolare sono venute a buscare una fiammata le fantasie più dorate e le più cristalline dell'Arte; Goethe, Courier, Castelar, ecc., ecc.. Ed io, per riscaldarmi, mi spettinavo con le dita i capelli, ad imitazione di quel tiranno da palcoscenico, che per entrare sulla scena furente, cominciava a montare in bizza, attaccando briga fra le quinte con il vestiarista o con l'illuminatore. Ma le parole degli scrittori, che si accavallavano nella mia memoria, mi formavano dinanzi un tutto e un niente, un punto bianco che io volevo afferrare e che mi scappava via velocissimo. Finalmente mi soccorse a pigliare il filo una domanda di Gioberti: Che cosa è Roma? Roma storicamente è quasi tutto, e soprattutto una stupenda piantonaia di forze. Perdoniamo il ricordo dei battibecchi cosmici, delle vicissitudini idrauliche e plutoniche nei tempi preistorici, in cui il Monte Circello era circondato da acque, cioè formava la famosa isola della maga Circe, cui approdò Ulisse. Imperocché allora l'acqua salata saliva sui greppi dell'Appennino e vi lasciava la marna di oggidì; locché, dicono, sia proceduto dalla rotta del Mar Nero, che costituiva un lago solo con il Caspio e l'Aral; onde inabissò il Mediterraneo, che disfogossi poi con lo Stretto di Gibilterra. Perdoniamo i tempi, in cui i giganti battagliavano con Giove nei Campi Flegrei, e ruzzavano insieme i monti in modo da sbalordire Shakespeare e la Bibbia. Risparmiamo il re Giano e il re Saturno, introduttore di una civile eguaglianza intermittente -cristallizzata nei saturnali, in cui era lecito ai servi sedere a mensa con i padroni. Risparmiamo il passaggio di Ercole, che scoperchiava con uno strappo di mano le rupi, e immetteva la luce nelle caverne dei ladri. Cominciamo a sfoderare da Evandro; che ce ne sarà a sufficienza per i miei studi ginnasiali e liceali.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676095
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

. - Intorno a questa mensa - riprese lo strano personaggio volgendo la parola al Virey con intonazione più mite - vi hanno ottocento suore disposte a prestarvi i loro servizi; non sareste voi abbastanza cortese per riferire la vostra scelta sovra una di quelle? - Ragioni di scienza me lo vietano - rispose il Virey gravemente. - L'illustre malato reclama l'applicazione di un assorbente eminentemente simpatico, e in questa donna soltanto ho potuto scorgere le facoltà che al mio caso si confanno. Il nano aggrottò le ciglia, le sue labbra impallidirono e parvero minacciare una violenta esplosione di collera. Girò una occhiata d'intorno, un'occhiata bieca, sospettosa, tremenda; ma scorgendo due ufficiali di sorveglianza che si avanzavano alla sua volta, coll'accento cupo di chi si reprime, disse: - Sia fatta la volontà della legge! Noi ci vedremo più tardi ... Il Virey fece un saluto del capo, e la donna, cui erano state dirette le ultime parole del nano, rispose con una intraducibile occhiata piena di angoscia e di sommissione. Poco dopo, la volante che stazionava sulla piazza della cattedrale, accoglieva nel suo grembo il Primate e la suora, e dirigevasi con moto rapidissimo verso la villa Paradiso. Durante il tragitto, l'Immolata appariva turbata. - Quest'uomo - le disse il Virey - ha prodotto sui vostri nervi una impressione dolorosa. Procurate di ricomporvi e di obliare. Per la missione che ora andate a compiere si esige molta calma e molta energia di volere. - Se voi conosceste quel mostro! - esclamò l'Immolata rabbrividendo. - Egli è dunque di una specie ben trista, se voi tremate e vi coprite di pallore al ricordarlo? ... - Egli è un mistero più buio della notte e più profondo del mare. - Voi dunque ignorate affatto chi egli sia? - Se ogni sua parola non è una menzogna, debbo credere che egli si chiami Cardano, e ch'egli sia ricco e potente come un re. - E viene spesso in cerca di voi? - Mi ama! - sospirò la donna con un gesto di orrore. - Se sapeste quale tremenda cosa sia per noi il dover subire di tali amori! ... Uno scoppio di lacrime troncò le parole della donna. Il medico accerchiò la bellissima testa col braccio e premendola al petto esclamò mestamente: - La società moderna, designandovi col titolo di Immolate, ha reso giustizia al vostro eroismo. - No! no! - riprendeva la desolata singhiozzando. - La mente dell'uomo non riuscirà mai a concepire le atrocità del nostro martirio. Uno dei più orrendi supplizii ideati dalla scelleraggine antica fu quello di legare ad un vivo il corpo di un estinto per seppellirli abbracciati nella medesima tomba. Orbene: nelle prepotenze a cui la Immolata si assoggetta vi è qualche cosa che assomiglia all'accoppiamento di un morto e di un vivo ... Essere amata da quel mostro, dover subire i suoi amplessi, dover fingere al segno, ch'egli talvolta possa illudersi di essere amato! ... È orribile ... è spaventoso! ... - Da quanto tempo conoscete quell'uomo? - domandò il Virey. - Da sei o sette mesi. Dal giorno in cui a Milano ebbe luogo l'esperimento della pioggia artifiziale ideata dal celebre Albani. Non potrò mai obliare le tremende parole ch'io lo intesi profferire in quella occasione. Al cadere delle prime stille, mentre dalla città si alzava un grido di sorpresa e di plauso, l'esplosione di un ghigno satanico mi trasse a rivolgere il capo. I miei occhi si incontrarono per la prima volta in quelli del basilisco. Ed egli, senza smettere il suo ghigno beffardo, e guardandomi fissamente: «applaudite! applaudite! - ringhiava colla sua voce cavernosa; - questo meccanismo, migliorato, corretto e opportunamente applicato, al meno danno potrà fra pochi mesi riprodurre il diluvio!» Il Virey prestava la massima attenzione alle parole della Immolata e a sua volta diveniva tetro. Il moto discendente della gondola avvertì lo scienziato che era tempo di avviare la conversazione sovra altro tema. - Adunate le vostre forze - diss'egli; - cacciate dalla mente ogni avversa preoccupazione; il nuovo sacrificio a cui andate incontro darà la vita ad un fratello che ha resi i più segnalati servigi alla umanità. Poco dianzi avete nominato l'Albani, l'inventore della pioggia artifiziale. Orbene, sappiatelo: gli è appunto quell'insigne cittadino che reclama le vostre cure. Poco fa, nel gettar gli occhi sulla di lui effigie, le vostre guance si animarono di un vivo rossore, e se io non mi sono ingannato, i vostri nervi furono scossi da un elettrismo simpatico. - Primate! - esclamò la donna rianimandosi improvvisamente - gli è che quella effigie ... quelle sembianze ... - Ebbene! - esclamò il medico colla impaziente curiosità di chi sta per afferrare l'ultima parola di un enigma. - Ebbene! - sospirò l'Immolata - quella effigie e quelle sembianze mi hanno ricordato ciò che una donna della mia condizione ha l'obbligo di obliare, che anch'io sulla terra ho amato una volta, e molto, e intensamente amato pel solo diletto di amare. Su queste parole della Immolata la gondola toccò terra. Il Virey offerse il braccio alla donna, e si inoltrò con essa nella galleria che metteva alla stanza del malato. - Nessun sintomo allarmante? - chiese il medico entrando. - Nessuno - rispose fratello Consolatore. - Lasciamo con lui questa suora e ritiriamoci. Ciò che importa - soggiunse il medico volgendosi alla Immolata - è che quest'uomo creda in voi prima che siano trascorse due ore. Tutti uscirono dalla stanza ad eccezione della donna. Questa si appressò tremando al letto dell'infermo. La luce melanconica della lampada azzurra, rischiarando il pallido volto, lo abbelliva di una tristezza funerea. L'Immolata, al vedere quelle sembianze, potè a stento reprimere un grido. Si gettò su quel corpo assiderato coll'impeto di una madre selvaggia che trova il proprio figlio ucciso da una serpe. Le sue braccia, incrociandosi tra le chiome dell'infermo, sollevarono dai guanciali il capo estenuato; le sue labbra tumide di sangue, esuberanti di ardore, corsero avidamente a baciare una bocca, dove la morte già delineava il suo glaciale sorriso. Quel bacio poteva essere eterno. L'Immolata, affiggendo le sue labbra a quelle dell'Albani, dovea trasmettere la vita o assorbire la dissoluzione. Ma i presagi del Virey non tardarono ad avverarsi. L'infermo dopo alcuni istanti aprì gli occhi. - Che è stato? - domandò con fioca voce. L'Immolata trasalì, e cadendo in ginocchio presso il letto del malato, gli mormorò all'orecchio una parola che parve rianimarlo. - Il vostro nome! il vostro nome! - ripeteva l'Albani, guardandola fissamente. E allora, con un accento pieno di soavità e di tristezza, la genuflessa prese a parlare di tal guisa:

Pure il suo concetto è abbastanza trasparente. Iddio ha posto nel mondo animato gli elementi del male e del bene, spargendoli in tutti gli oggetti visibili ed invisibili, nell'aria, nelle piante, in seno alle onde, perfino nelle intime viscere della terra. Che ha fatto la creatura ragionevole, in luogo di seguire gli istinti che la conducono verso l'utile e il buono? Passando da errore in errore, da abisso in abisso, ella si ridusse al punto da imprecare al Creatore, e da affrettare co' suoi voti il cataclisma. Un branco di scellerati divenne padrone dell'umanità imbecillita, e per dominarla eternamente, la governò colla legge del male fabbricando su quella il despotismo, che durò molti secoli. Quando io penso che il despotismo ha inventato la galera e la forca prima di stabilire il Diritto all'esistenza debbo credere che le generazioni precedenti alla nostra non fossero al mondo che per espiare un delitto. Possiamo noi leggere le storie del passato, senza provare una specie di ribrezzo per coloro che ci hanno preceduti? Eppure noi vediamo che i pochi fautori dell'era antica, coloro che in giovane età succhiarono la corruzione, oggi non sono in grado di comprendere il bene. Essi hanno nel sangue il veleno, ereditato dai loro antenati. La loro essenza non è la nostra - e il Codice di redenzione fu ispirato da somma giustizia quando stabilì maggior mitezza di pena pei delinquenti nati prima del 1925. - Vero! vero purtroppo! - esclamò Fidelia con voce commossa, - I nostri padri sono molto diversi di noi! Bisogna compatirli e rispettarli nei loro pregiudizi, pensando che essi ci hanno preceduti sul cammino della libertà, ch'essi hanno fatto sforzi da giganti per rimuovere quella diga secolare che stava fra le due grandi epoche dell'umanità. - Ciò che io trovo inconcepibile - proseguì Luce è che molti dell'Era vecchia mentre riconoscono i grandi progressi di questi ultimi tempi, la saggezza delle nuove istituzioni, la squisitezza dei nuovi trovati, non solo rimpiangono sovente il passato, ma non possono interamente rinunziare alle orribili abitudini contratte nella loro gioventù. Mio nonno, cui sono riuscita colle dolci violenze della persuasione e dell'amore a rendere graditi gli zigari alla rosa, che egli per molti anni trovò detestabili, ogni mese riceve dalle Antille una cassetta di zigari alla foglia di tabacco fabbricati da una società anonima di Ottentotti. Dippiù egli ha pagato dodicimila lussi per avere mille pacchi di certi fuscellini neri e puzzolenti, di cui si trovarono alcune casse negli scavi dell'antico Foro Bonaparte - Mio nonno si fuma ogni giorno uno di quegli orribili fuscellini, e li trova deliziosi, e dice che noi abbiamo torto di fuggire di casa quando egli ci ammorba di quella puzza insopportabile. - Oh! pur troppo li ho conosciuti anch'io i fuscellini di tuo nonno! Fortunatamente mio padre ha esaurito la sua provvista, e n'è disperato. - Ogni qualvolta io sento dire che in città vien proposta la demolizione di qualche antico monumento, pensando al pericolo di vederne uscire quella peste, mi viene la pelle d'oca! - Eppure quelli erano i famosi zigari Virginia, croce e delizia del secolo passato! - Ora giudicate se la natura umana doveva essere viziata a quei tempi! - L'altra sera, conversando con maestro Umbold quarto io gli ho proposto la questione se sia presumibile che nel secolo passato i fiori avessero colori, fragranza od altra proprietà che in oggi non hanno; non potendo io concepire come i nostri avi abbiano potuto deliziarsi nel fetore dei loro tabacchi! - Le leggi di natura sono immutabili - mi rispose il maestro - perché sono perfette. Ai nostri padri come a noi la primavera offeriva ogni anno le sue rose olezzanti, i ligustri, le viole, i gelsomini ... Il profumo del bene esalava dai campi, si spandeva nell'aria e penetrava nelle cose dell'uomo, per adescarlo a seguire il buon cammino - e l'uomo aspirava l'infezione del tabacco, e si avvelenava il sangue e l'intelletto coll'absinzio e coll'acquavite. - E credi tu, Viola, che a quei tempi esistesse la santa virtù che si chiama l'amore? - Io credo che l'amore abbia sempre esistito nel mondo - e che a lui si debba ogni sviluppo delle umane perfezioni. Io mi sento orgogliosa di essere donna - perché ritengo che, nei barbari tempi dell'abbrutimento universale, la donna abbia sempre conservata e alimentata la favilla della carità. Quando tutte le case erano ammorbate di tabacco, e tutti gli uomini imbestialiti nella crapula, o peggio ancora, mummificati dall'egoismo, o fatti macchina dalla cupidigia dell'oro - tutta la poesia del creato si rifugiava nel cuore di poche donne, angioli predestinati al martirio, che viveano per amare e morivano per aver troppo amato. - Oh! io non avrei potuto amare quei rozzi e balordi animali d'allora - disse Fidelia ridendo. - Ti giuro, o sorella, che se io fossi vissuta nel secolo scorso, piuttosto che lasciarmi baciare da un uomo ... Che orrore! Uomini che all'età di trent'anni non avevano più denti in bocca, né capelli sulla nuca! Questa ingenua sortita di Fidelia portava la conversazione sopra un tema favorito. Ragionando di quella misteriosa e gentile aspirazione dei giovani cuori, di quel bisogno imperioso dei sensi che è l'amore, le tre donne divennero eloquenti.

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

677393
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla Principessa. - Al presente - disse il Re - voi non avete più motivo per ritardare le nozze. - Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai. - Parlate, Principessa, e ciò che vorrete sarà fatto. - Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui... Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l'anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve. - Ritroveremo l'anello, fatti cuore! E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l'anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d'un corallo. La Principessa dovette acconsentire alle nozze. Il giorno stabilito s'avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia. Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti. Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una Principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano: - Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio Padre e sarò la tua sposa. Nonsò e la Principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n'ebbe novella.

Teresa

678558
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Questa frase monca, che per un movimento del predicatore era giunta abbastanza distinta al suo orecchio, la scosse; procurò di stare attenta alla parola divina, aggrottando le ciglia, stringendo le mani sopra il suo libro di preghiere. Ma dopo qualche istante le mani tornavano ad allontanarsi, gli occhi ripresero le vie aeree su per i cornicioni, nel fogliame dei capitelli, dentro lo sfondo della cupola, e ancora sulle ogive pallide battute dalla pioggia. Un sorriso impercettibile le sfiorò le labbra; per un giuoco strano della fantasia ella aveva visto improvvisamente quel finestrone illuminato da un tramonto d'autunno e le saliva alla testa, con un profondo sospiro, un profumo acuto di basilico; proprio come se avesse davanti i ciuffi rigogliosi di quell'erba. Chiuse gli occhi, abbagliata. Per un po' di tempo s'avrebbe potuto credere che ella pure dormisse, tanto era immobile, assorta nella visione. "Così avverrà quando, per la misericordia di Dio, ci troveremo riuniti in paradiso". La predica era finita. Tutti si alzarono, stirando le gambe, sbattendo le palpebre per cacciare un resto di sonno. Teresina aperse il manuale, a caso, temendo avesse qualcuno ad accorgersi delle sue distrazioni, volendo cacciarle coll'intensità della preghiera. Non era il posto della messa, ma ella lesse egualmente, con un ardore inquieto, pronunciando le parole, spiccandole, piena di fervore. "Vi abbraccio, o Gesù, mia gioia e mia consolazione. O anima mia, creata ad immagine di Dio, ama il tuo Dio da cui sei tanto amata. O Gesù, se non vi amo abbastanza, accendete in me il fuoco del vostro amore, che mi abbruci, che mi consumi, che mi faccia tutta vostra". Il celebrante trascinava l'ultima parte della Messa, assorto nel mistico raccoglimento della comunione. La signora Soave, rispondendo ad una inchiesta delle gemelle, disse: - Or ora, abbiate pazienza. Fate l'atto d'adorazione. L'Ite missa est fu accolto con un movimento di soddisfazione generale. Teresina chiuse il libro, in apparenza composta, ma con un tremito in tutto il corpo. Si segnò, fece la riverenza; il cuore le batteva disordinatamente. Appena fuori di chiesa, sulla soglia, prima ancora di aprire l'ombrello, ella guardò ansiosa in un certo angolo della piazzetta. Orlandi era là, riparato sotto un'ampia gronda all'antica, colle spalle al muro, l'occhio intento. Scambiarono uno sguardo rapidissimo, lor due soli; e poi, quando furono vicini, il giovane salutò. - Come fa Orlandi ad essere ancora qui? - disse la signora Soave. - Dovrebbe trovarsi a Parma già da un mese. Teresina non rispose; ma il suo viso divenne rosso infiammato. Non osava piú alzare gli occhi; camminava automaticamente, fissando i quattro stivaletti delle gemelle i quali battevano il lastrico davanti a lei. Dalla chiesa di San Francesco alla lor casa erano pochi passi. Sulla porta furono raggiunte da Orlandi, che si scusò dell'ardire, annunciando che l'indomani partiva per Parma, ed era venuto a chiedere se la signora Caccia avesse qualche imbasciata per Carlino. La signora, grata e sorridente, lo invitò ad entrare; egli volle schermirsene; ma siccome discorrevano sotto la pioggia, le gemelle apersero la porta, e Orlandi si tirò indietro per lasciar passare le signore. Entrarono prima le gemelle, la mamma e da ultimo Teresina, la quale, piú morta che viva, sentì prendersi rapidamente la mano e far scivolare in essa una lettera. Non ebbe tempo né di rifiutarla né di parlare e nemmeno di guardare l'audace che, ritto sulla soglia, protestava di non voler entrare a dar disturbo, bastandogli una parola per Carlino. Il ricevitore uscì dal suo studiolo, alla voce d'Orlandi; le gemelle salirono lentamente la scala, strisciando le scarpe per farle asciugare. Teresina le seguì. Quella lettera le bruciava il palmo della mano; non sapeva dove metterla. Si spogliò con un pugno chiuso, a movimenti febbrili; divorando cogli occhi le due ragazze che non terminavano mai di levare gli abiti. Sotto il portico, Orlandi, il signor Caccia e la signora Soave scambiavano dei complimenti; poi Orlandi se ne andò. Teresina col viso contro i vetri lo vide allontanarsi verso la piazza. - Non siete ancora pronte? ... - Che te ne importa? Facciamo il comodo nostro. Le gemelle erano cattive e maligne; l'istinto le avvertiva che annoiavano Teresina restando in camera, e vi restarono piú a lungo. Teresina colla fronte appoggiata ai vetri guardava a piovere; aveva messo la lettera in tasca, e vi teneva sopra la mano, stringendola con furore. Finalmente se ne andarono. La fanciulla balzò all'uscio, tirò il catenaccio e, tremante come fosse sul punto di commettere un delitto, aperse la lettera. "Ho bisogno di parlarle da solo a sola; non mi neghi questo favore. Stassera, dalle dieci alle undici, passeggerò finché ella abbia la bontà di aprire la finestra terrena. Aspetto e spero. E. ORLANDI. Era piú, ed era meno di quello che supponeva. Da un mese il giovinotto le faceva, visibilmente, quantunque delicatamente, la corte. Una dichiarazione formale non poteva essere molto lontana dalle idee di Teresina; se la fanciulla avesse avuto il coraggio di interrogare se stessa, avrebbe trovato il desiderio di quella dichiarazione in tutti i sospiri che gettava al vento, nelle ansie della domenica, quando doveva andare a messa e sapeva di vederlo, là, al solito posto; nelle distrazioni frequenti, nei sonni agitati: - sì, la dichiarazione era attesa. Ma quella lettera non diceva una sola parola d'amore, e le chiedeva invece, senza preamboli, una cosa tanto grave, qual'era un appuntamento. Teresina non sapeva che risolvere; si trovava in una agitazione strana. Per fortuna nessuno venne a bussare al suo uscio, così che ebbe tempo di rimettersi alquanto, almeno in apparenza. Nascose la lettera in seno; ma era troppo alta, la sentiva scricchiolare ad ogni movimento; aperse il busto, e la spinse piú avanti, vicino al cuore; allora le venne il dubbio che potesse scivolarle giú per la vita e perdersi per la casa; ne provò un terrore pazzo; tornò a slacciarsi tutta, assicurando la carta con uno spillo alla camicia. Ancora non si sentiva tranquilla, e ad ogni tratto andava tastando colle dita se la lettera fosse al posto. Che voleva Orlandi da lei? Era possibile che l'amasse davvero? Egli, il piú bel giovane del paese! Si batté la fronte: - oh! - proruppe in un oh! di rabbia, di dolore. Ricordava una fotografia trovata nella valigia di Carlino, il ritratto di una bella donna che suo fratello aveva chiamata l'amante d'Orlandi. Uno strazio, una smania orribile la prese, una gelosia rapida, quasi fulminea; un bisogno di interrogare suo fratello, di sapere chi fosse quella donna, se Orlandi l'amava molto, se l'amava ancora, dove era, che faceva, tutto tutto. E Carlino era a Parma! Si morse le mani dal dispetto; almeno glie lo avesse domandato subito, lo saprebbe. Ma che glie ne importava allora? - E adesso? Lo amava già tanto quell'Orlandi, lo amava al punto di soffrire, da piangere per lui? perché piangeva, non dirottamente, ma con quelle lagrime scarse e brucianti che lasciano il solco. Non sarebbe andata all'appuntamento, oh! no. Gli avrebbe rimandata la sua lettera, con un silenzio sdegnoso. Ma se la storiella del ritratto non fosse vera? Se Carlino avesse affibbiata all'amico quella innamorata, così per celia? In fatti, perché tenere nella sua valigia il ritratto dell'amante di un altro? Si chetò. Rifece, dolcemente, la breve tela de' suoi incontri col giovane; la prima volta che si erano conosciuti, nella passeggiata alla Fontana; l'improvvisata che egli le aveva fatta, trovandosi subito la domenica appresso sulla porta della chiesa. Ripensò i suoi sguardi così espressivi, quella bella persona, quella testa intelligente, quel sorriso che pareva un raggio di sole. Una soavità d'amore la invase; sentì correre per le vene un giubilo novo, come se una grande felicità l'attendesse, come la sua vita, chiusa fino allora, si aprisse ad orizzonti sconfinati. Ma volle frenarsi, dopo tutto non sapeva che cosa le avrebbe detto Orlandi. Pensò un istante di chiedere consiglio alla pretora. Se fosse stata presente, le avrebbe narrata ogni cosa. Ma la pretora, quel giorno non si fece vedere. Prima di scendere Teresina cedette a un desiderio invincibile di rileggere la lettera. Era la terza o la quarta volta che si sbottonava l'abito, che sentiva correre sulla pelle quel foglietto di carta levigata, morbido come una carezza, pungente come una ferita; ed alla carezza sorrideva, alla puntura gettava un piccolo grido smorzato dal piacere, tutta tremante, sembrandole che quel foglio, uscito dalle mani di un uomo e che ella nascondeva in seno, togliesse il primo velo al suo pudore di vergine. Quando andò a raggiungere la madre nel salotto terreno, ella si era composta una fisonomia calma, ma così seria, così piena di mistero, che la signora Soave le domandò subito che cosa avesse. Teresina mentì, come mentono tutti gli innamorati. Ma in fondo al cuore le doleva quella menzogna alla mamma, non sapendo poi nemmeno lei perché taceva, perché mentiva. La signora Soave, colle manine di cera abbandonate sui ginocchi e lo sgabello sotto ai piedi, incominciò a parlare di Carlino, delle camicie che bisognava mandargli, dei fazzoletti che non erano orlati ancora; ogni tanto interrompeva la litania monotona con un: - Te ne rammenti, nevvero, Teresina? Teresina diceva di sì. - Tuo padre si lagna sempre; dice che non facciamo economia, che quel ragazzo gli costa un occhio, e che, se noi non sappiamo limitarci nelle spese, sarà costretto a fargli sospendere gli studi ... Un lunghissimo sospiro sollevò il petto gracile della signora Soave, per un po' non ebbe voce; indi riprese, affievolita, tenendosi una mano sul cuore: - Ho raccomandato all'Orlandi di dargli dei buoni consigli … che posso fare, mio Dio, che possiamo fare noi donne? A quel nome di Orlandi, Teresina aveva trasalito impercettibilmente, volgendo gli sguardi al gran quadro meccanico che conteneva l'orologio. Erano le due. Otto ore ancora! Le gemelle intanto si accapigliavano nel vano della finestra, mute, senza chiedere soccorso a nessuno. Convenne dividerle; cinque minuti dopo si abbracciavano, al medesimo posto, facendo sberleffi alla loro sorella maggiore. L'Ida si annoiava con quella giornataccia: in causa della pioggia non poteva uscire nel cortile a giuocare. La noia pei bambini è sinonimo di capricci; ella incominciò a far tante diavolerie, che la signora Soave, colla testa intronata, sentendo un principio di emicrania, pregò Teresina di occuparla. E Teresina, pazientemente, si pose a ritagliare degli ometti di carta, e poi delle carrettelle, e dei vasi da fiore, e poi delle casette col tetto, colla porta, colle finestre da chiudere e da aprire. Era calma, sorrideva; ma ad ogni quarto d'ora i suoi occhi cercavano con ansia le sfere dell'orologio, e ad ogni ora che suonava, il sangue le dava un tuffo. Per lo sforzo del contenersi, era diventata pallida. Aveva dimenticato di far colazione; si sentiva appetito, ma non la voglia di mangiare. Anche il parlare le costava fatica. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, e non far altro che pensare a lui, intensamente, esclusivamente. Non era possibile. Verso le quattro dovette andare in cucina ad ammannire il desinare; la mamma l'aiutava, debolmente, sedendosi ad ogni minuto, stringendo colle manine gialle il capo che le doleva. - Va', va', mamma; faccio io. - Le gemelle potrebbero darti una mano ... - No, mamma; hanno i loro compiti di scuola. Le gemelle erano l'incubo di Teresina. Ella se le vedeva crescere accanto astiose, diffidenti, ricambiando con una musoneria fredda tutte le sue premure. Avrebbero potuto essere le sue amiche, le sue confidenti, e invece una barriera di ghiaccio le divideva. Questo era un grande sconforto per Teresina. Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l'eternità dell'aspettativa avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso. Nel muoversi rapidamente, nel chinarsi, ella sentiva ancora lo sfregamento della lettera sulle carni delicate del seno; allora stringeva le labbra, palpitando lievemente, come per assaporare meglio quella sensazione che era ad un punto dolore e piacere.

Pagina 150

- Abbastanza; ma le donne non glie ne lasciano molti -. Abbassò la voce un altro tono. - Vedi quella figura alta, pallida, là in platea? - Con un velino in testa? e una rosa rossa? - Appunto. È la modista di piazza. Qualche - anno fa egli l'ha ... - pausa - e dovette sborsare una bella somma. - Sì? - Per il figlio. Teresina ascoltava, ritta, immobile. Non poteva vedere la modista, che le stava a tergo, ma aveva davanti don Giovanni nella sua sibaritica indifferenza, grasso, florido; già invaso dal torpore che aspetta, sulla quarantina, gli uomini che hanno goduto largamente la vita. Quella gran pace, dopo ciò che aveva udito, la turbava; era segretamente irritata da un mistero che le sfuggiva continuamente. Un momento ancora, e la sua attenzione era tutta quanta assorbita dallo spettacolo. Non batteva ciglia, non fiatava; appena un personaggio apriva la bocca, ell'era tutt'orecchi, appena uno si muoveva, i suoi occhi lo seguivano attentamente. Calato il sipario, si voltò di botto verso la pretora. - E Gilda? - Gilda verrà or ora, al secondo atto. - Mi pare cattivo quel buffone. - No, non è cattivo; vedrai in seguito. - E il duca? - Ah! il duca ... vedrai, vedrai. Gilda apparve, vestita di bianco, bruttina, ma abbastanza giovane, e con un'aria modesta che piacque subito a Teresa. Cantò bene, con sentimento in luogo di voce, infiorando d'una malinconia soavissima il racconto de' suoi amori collo studente. Teresina era rapita in estasi; il bello dell'arte si rivelava al suo cuore, già aperto all'amore. Ella seguì con ansia angosciosa lo svolgersi dell'azione drammatica; si spaventò al ratto di Gilda, pianse con Rigoletto, ebbe sdegno e disprezzo per i cortigiani, e attese, palpitante, il ritorno di Gilda sulla scena. Qui tornò a stendersi un velo nella sua mente. Fu tentata di chiedere, perché Gilda si mostrasse tanto disperata per trovarsi in casa del duca; un vago istinto le suggerì che la sua domanda era ridicola, e tacque, meditando. Arse d'ira contro il duca, nella scena del bosco. Maddalena le parve una sguaiataccia, incapace di poter destare amore. Ma la tragica fine di Gilda, intanto che lo scettico passa nel fondo canterellando la sua canzone, quella fine la colpì profondamente. Dovette ritirarsi, nell'ombra, a nascondervi le sue lagrime. - Che fai, bambina, è possibile tanta ingenuità? Non è un fatto vero, sai? Gilda, a momenti, andrà a cena, pienamente d'accordo col suo amante. Così la moglie del pretore tentava di acchetare Teresina, senza riuscirvi, perché la sua commozione aveva un'origine occulta. La passione intensa di quel dramma d'amore trovava una corrispondenza segreta ed intima nell'anima della fanciulla, a cui l'amore si era rivelato con una sofferenza. Le potenti creazioni di Rigoletto e del duca, la soave figura di Gilda erano piú che personaggi; erano sentimenti, erano passioni incarnate e la grandiosità terribile ed umana di tutto quel lavoro si ripercoteva in ogni sua fibra. Sotto i colpi di quella forte commozione, la natura spirituale della fanciulla si temprava, nobilitandosi, afferrando i contorni di un ideale sicuro. Ella fuse, nel suo pensiero, il proprio amore coll'amore di Gilda. I ricordi, che già principiavano a sbiadire, perdettero l'impronta personale, mescendosi a una quantità d'altre impressioni e ad aspirazioni nuove. Da quella sera non pensò piú, direttamente, al giovane che le aveva suscitato il primo palpito. Pensò all'amore, vago, misterioso, sterminato: a tutto un mondo tumultuante, non ancora interamente rivelato, ma che le si svolgeva a gradi, con bagliori improvvisi, con rapide ferite, con intuizioni meravigliose, poggiando fra la canzone beffarda del duca e il rantolo di Gilda morente ...

Pagina 90

Oro Incenso e Mirra

678747
Oriani, Alfredo 2 occorrenze

Nullameno anche fra questi esterni vi erano delle suddivisioni: alcuni vivevano abbastanza bene presso qualche parente, tutti avevano già delle relazioni, mentre Giannino non conosceva nella città che il signore, dal quale aveva già ricevuto il soprannome di vescovo. Questi, ancora giovane, era caduto poco prima assai pericolosamente, azzoppandosi dalla gamba destra. Quel primo inverno fu rigidissimo. Il piccolo "vescovo" tutte le mattine sulle otto passava per il Corso, svoltando all'angolo del palazzo Zannoni per andare al seminario senza attraversare la piazza, giacché la miseria degli abiti e l'aria sparuta del viso lo avevano segnalato alle atroci buffonerie dei monelli, che una volta gli erano già corsi sopra a palle di neve fra le risate di tutti. Nullameno il suo coraggio, simile a quello dei passeri che seguitano a cantare anche quando la neve ha coperto tutti i campi, non aveva bisogno di molti sforzi per resistere a tale vita. La mattina non faceva colazione: tornando a casa dal seminario, se per la vecchia Geltrude non era giorno di fornello, comprava in una piccola bottega, sempre la stessa, il solito mezzo chilo di pane bruno e tre soldi di frutta o tre soldi di maiale; divideva il tutto in due parti, e la giornata era trascorsa. Nel pomeriggio bisognava tornare a scuola, poi andava a spasso se non capitava qualche funzione di chiesa, e finalmente a letto col mantello dell'arciprete e tutti gli altri vestiti sulle coperte. Lì studiava allo scarso lume di un lanternino a petrolio, ma anche questo bisognava non lasciarlo ardere troppo. Ai libri aveva già provveduto: un canonico ricco e quasi pazzo per le anticaglie gliene aveva prestati parecchi, alcuni fra i migliori compagni ne diedero altri, da ultimo un ex professore di filosofia, prete buono e strano, malviso al vescovado, gli fornì il resto. Restava ancora la spesa per la carta quando non gli riusciva di farsela regalare. Nel primo mese guadagnò sedici soldi in due accompagnamenti funebri al cimitero, e poté così comprare qualche quaderno con un cartoccino di penne: a quella per le male copie pensavano i manifesti delle colonne. In una sera di neve, rincasando sull'ora di notte, aveva osato strappare un lembo di avviso che il vento gli sbatteva quasi sul volto: sulle prime, spaventato della propria audacia, credette in buona fede che i manifesti non si potessero rompere, poi si rinfrancò e, avendo studiato nel giorno i luoghi più propizi, usciva la sera circa sulle otto a fare così la propria provvista. Era una vita povera e semplice, alla quale per diventare sublime sarebbe bastata la coscienza del sacrifizio. Egli invece non ne sapeva nulla: aveva una voglia ardente di farsi prete in quel fanciullesco entusiasmo delle prime preghiere e dei primi abbarbagli mistici: sapeva che a casa il padre e le sorelle mangiando quasi sempre formentone lavoravano anche più di lui, ed egli li amava dolcemente, senza passione. Alla parrocchia futura non pensava mai, anzi quando il padre gliene aveva parlato sognando già di riposarsi vecchio all'ombra del campanile figliale, egli ne aveva quasi sofferto: benché torbido, il suo sogno sarebbe stato di studiare sempre e magari di predicare, se la voce glielo avesse permesso. Ma allora era troppo gracile, con un collo non più grosso di una canna e una voce roca, attraverso la quale tratto tratto passavano sibili di mal augurio. Non ci voleva meno di una giovinezza così casta e calma per non provocare lo stesso terribile malore, del quale la mamma era morta, appiattato quasi visibilmente sotto le sue carni biancastre. Giornali non ne leggeva perché scomunicati, poi i compiti di scuola lo tenevano occupato tutto il giorno. Egli voleva figurarvi fra i migliori nella speranza per sé e pe' suoi di essere l'anno venturo accolto gratis nel seminario, come ad alcuni altri era accaduto. Ma il suo ingegno non era molto, e la miseria invece di attirargli simpatie gli manteneva intorno quella diffidenza fredda, che tutti sentono per la gente troppo povera. Solo quel vecchio professore di filosofia sembrava prediligerlo: ma anzitutto, poverissimo anch'egli e malato nelle gambe, viveva con una sorella altrettanto vecchia, poi afflitto da una formidabile voracità non aveva di che appagarla in casa propria. Però gli era rimasto dell'abitudine professorale un bisogno insaziato di ripetere le antiche lezioni di seminario, le stesse che vi si danno oggi ancora, tutto un guazzabuglio di frasi e di pensieri dentro un mulinello di sillogismi buoni tutto al più per divertire l'incapacità di un seminarista, ma che per lui erano invece tutta la verità possibile allo spirito umano. Il suo odio contro Rosmini, del quale negava iracondamente anche l'ingegno, lo faceva alla prima obbiezione uscire dai gangheri. Sulle quattro pomeridiane, finita l'ultima lezione, il "vescovo" doveva quindi andare da don Riva in via del Filatoio per accompagnarlo a spasso: uscivano adagio dall'uscio alto tre scalini e andavano lungo il muro verso porta Montanara. Il vecchio appoggiato sul bastone, colla grossa testa bianca, un mantellone bigio e le povere gambe grosse come due tronchi, parlava forte fermandosi spesso con un gran gesto della mano sinistra per confermare un argomento. Le ragazze sorridevano incontrando quella strana coppia. Forse la loro più lunga passeggiata fra andata e ritorno non oltrepassava un chilometro, ma v'impiegavano un'ora e mezzo: qualche volta il "vescovo", sospeso quasi gelosamente a tutte le parole dell'altro, osava una obbiezione che faceva fermare di botto il professore. - Ah! tu credi - ribatteva coll'aspra superiorità del dotto, cui l'invidia degli emuli contristò la vita fra l'ignara indifferenza del pubblico: - ecco.... E spessissimo invece di rispondere all'argomento oppostogli non faceva che ripetere il proprio. Nullameno quella vita era ben dura. Ogni giorno l'ingenua confidenza del ragazzo riceveva atroci smentite: come tutti i buoni, specialmente quando sono poveri, egli aveva preso alla lettera le parole di carità, di amore, di pietà verso Dio e verso gli uomini, che sbocciavano come piccoli fiori celesti nei manuali di preghiere, o passavano con una sonorità grossolana in tutte le prediche dei parroci. La sua anima innocente aveva sperato quasi colla certezza della fede che nel seminario tutti i professori gli farebbero da padre e i compagni da fratello, mentre il vescovo alto e solenne nella dolcezza della propria autorità avrebbe vegliato su lui come un santo. Invece i professori simili a tutti gli altri maestri praticavano di mala voglia il proprio mestiere prediligendo gli scolari più servili, o dai quali potessero nelle feste attendere qualche regalo; i compagni, come quelli del suo villaggio, gareggiavano odiandosi reciprocamente e i più ricchi dominavano fra di loro, mentre egli povero, colle scarpe rattoppate e quella vesticciuola talare tutta a rammendi, diventava il bersaglio di ogni motteggio. Persino la mingherlina struttura gli nuoceva. Poi avendo confessato imprudentemente ad un amico di campare con sette soldi al giorno, questo miracolo di sacrificio parve a tutti ignobile, e lo battezzarono "Ugolino" il sublime affamato del più tragico fra i canti di Dante. Egli sulle prime rispose, poscia piegò la testa piangendo. Alle funzioni ecclesiastiche gli accadeva lo stesso; i preti se ne disputavano i pochi lucri accorrendo di lontano alle buone messe, mercanteggiando tutti gli uffici con una crudità di linguaggio troppo inconsapevole, perché non fosse una necessità della loro vita. Al disotto di loro i chierici si aspreggiavano anche più biricchinescamente nella contesa dei piccoli servigi, pagati a soldi, così che abbisognava davvero il caso di una gran festa o di un mortorio molto ricco perché il povero Giannino vi potesse penetrare. Il suo incasso più lauto in un mese furono tre lire. Siccome nessuno era più magramente vestito di lui, si divideva dai compagni sulla porta del seminario per tornare a casa coi libri stretti da una correggia fra due assicelle, scantonando vergognoso ai vicoli, colla bocca sempre sorridente per un difetto del labbro superiore e gli occhi buoni ombrati da ciglia lunghissime. I suoi giorni migliori erano quelli di vacanza, il giovedì e la domenica, perché poteva restare a letto fino alle dieci leggendo qualche libro prestatogli da don Riva, mangiando ad un'ora dopo mezzogiorno la minestra calda colla vecchia Geltrude. Questi erano sempre giorni di fornello: Giannino vi metteva tre soldi, essa quattro per cucinare generalmente dei maccheroni: talvolta la vecchia vi aggiungeva un pezzo di formaggio o di tonno o una pera. Due volte l'anno - per santa Geltrude e per la madonna della chiesa di San Francesco, la madonna mora come la chiamavano le treccole - ella lo convitava per quel bisogno anche nei più miseri, specialmente quando vivono solitari, di fare un sacrificio a qualcuno. Ma il ragazzo alla prima occasione rendeva l'invito aggirandosele intorno con una festosità di cagnolino, mentre l'altra cucinava il suo regalo: e quei giorni egli parlava anche di più, colla illusione di aver mangiato il doppio, sebbene qualche po' di fame gli fosse egualmente rimasta. La vecchia invece discorreva sempre pochissimo, stava molte ore del giorno fuori guadagnando misteriosamente quanto le serviva a campare, poi rincasava con un grosso caldano pieno di carbonella, che si metteva sotto le sottane, e nell'angolo della prima stanzetta presso la finestra ricominciava a fare la calza. Passavano dei giorni interi senza vedersi. Ella non saliva al granaio se non per spazzarlo perché il ragazzo si rifaceva il letto e si tirava l'acqua necessaria da sé. E nei momenti più tristi della sua solitudine, appena sbocconcellato in piedi, alla finestra, il poco pane, scendeva da lei per sentirsi dire qualche parola con uno di quei bruciori di essere amato, così dolorosi nella giovinezza quando la mamma sola potrebbe ancora accarezzarci come un bambino, ed è morta invece da gran tempo, ella lo salutava senza parlare con una occhiata, reclinando subito dopo la testa sulla calza. La finestra di quella cameretta, come l'altra del suo granaio, davano sui tetti di contro; non si vedeva che un piccolo piano inclinato, rigato, muffoso, scuro: quasi nessuna voce arrivava fino lassù, i vetri erano appannati, il freddo più intenso che nella strada. La vecchia andava a letto sull'avemaria per non accendere il lume, chiudendosi dentro a catenaccio; egli rincasava un'ora e mezzo o due ore dopo per fare altrettanto, spesso sorpreso da un gelo, che nemmeno il letto bastava a vincere, perché gli veniva dallo stomaco non abbastanza pieno. Faceva tutto a letto, le preghiere, le lezioni, i conti, i sogni, nei quali la giovane fantasia si rifugiava coll'istinto degli uccelli, che cercano il bosco, ma dai quali usciva spesso con una stanchezza desolata. Quanti anni gli occorrerebbero per diventare prete? Anche senza perderne alcuno, fra rettorica, filosofia, morale, teologia, tutti gli ordini e il tempo della coscrizione, sarebbero sette; sempre così solo, come un piccolo viaggiatore smarritosi al primo viaggio verso una mèta, che gli s'intorbidava nel pensiero. Infatti il seminario e il duomo grande della città colla pompa delle loro scuole e delle loro funzioni gli avevano offuscato quel primo ingenuo ideale di prete orante fra gl'increduli e i derelitti. E però la sua devozione più dolce era per la madonna, che gli ricordava la mamma morta pregando che lui, il primogenito maschio, si facesse prete: in famiglia non aveva altra tenerezza di ricordo perché la vita dura vi rendeva più esigenti tutti gli egoismi, e fuori non aveva ancora trovato un cuore che rispondesse al suo. Tutti lo avevano più o meno deriso, anche i migliori; gli altri, i preti, avviandolo per la loro carriera, erano stati anche più freddi. Ma per quanto desolata quella solitudine dei suoi sedici anni in un granaio, con dieci franchi al mese per vivere, rare volte la malinconia lo vinceva sino al pianto, anzi nelle giornate più rigide e caliginose di quel primo inverno il suo coraggio si mantenne imperterrito come nella tensione delle prime ore in una battaglia; poi la primavera lo vinse. Si sentì più solo: nella scuola gli pareva quasi d'essere smarrito fra i compagni, mentre le parole dei professori vi passavano lentamente come un gorgoglio e le orazioni stesse, rompendoglisi nella testa, svanivano in alto simili ai bioccoli bianchi delle siepi fra il vento e il sole. Era la prima volta che questo gli accadeva. Una tristezza accorata gli veniva dalla ebrietà della natura in quei primi giorni di fecondazione, mentre le donne passavano per le strade con uno splendore sul viso pari a quello dei santi dipinti nelle vetriate, e tutti, anche i monelli, presi nell'allegria di quella immensa festa, non lo guardavano più. Egli invece, deposto il pesante mantello regalatogli dall'arciprete, se ne andava entro quella veste talare appena sufficiente per disegnare un'ombra sul selciato: era più pallido, senza appetito nemmeno per mangiare il poco che aveva. Ma nessuno se ne accorgeva. Allora lo ripigliavano improvvisi pentimenti. Sarebbe stato meglio per lui rimanere col padre a fare il cantoniere: a sedici anni avrebbe avuto già mezza paga con poca fatica, e passerebbe la giornata nella strada sbadilando un fosso fra una chiacchiera ed un saluto, lieto nel sole primaverile come i suoi compagni. Invece era un malato, vestito di un ragnatelo che gli faceva freddo anche adesso che tutti incominciavano ad aver caldo, segregato dalla vita comune in una esistenza claustrale, senza la fraternità del convento e la sua quiete studiosa. I suoi condiscepoli nel seminario potevano forse soffrire per la mancanza di libertà, ma avevano tutte le ore occupate e si tenevano l'un l'altro compagnia. Egli invece, solo con don Riva, finirebbe come lui. Il vecchio prete peggiorava tutti i giorni, giacché avendo bisogno di cibi sostanziosi non ne aveva neppure abbastanza di quelli più ordinari, e gli altri preti lo sfuggivano appunto per la sua miseria; mentre il vescovo, arricchito per la terza volta da un'altra eredità di centomila franchi, fingeva d'ignorare come l'antico professore di filosofia nel seminario morisse quasi di fame. Adesso per condurlo a spasso bisognava dargli il braccio portandolo quasi di peso, quantunque Giannino anch'esso male in gambe si sentisse soventi la schiena bagnata da cattivi sudori. Una domenica fuori di Porta Pia, mentre passavano lentamente dinanzi alla bottega dei sali e tabacchi, il vecchio ritirò il braccio disotto al suo, ed appoggiando ambo le mani sulla canna disse col viso quasi nascosto dietro il bavaro rialzato del soprabitone: - Pagami un soldo di caradà... non ne ho... non ne ho! Il ragazzo provò alla gola uno stringimento improvviso di pianto a quella voce così sorda, ed entrò nella bottega.

§A questo modo Lelio Fornari era diventato l'amante della principessa Irma Montalto, però la loro relazione rimase per abbastanza tempo secreta malgrado le molte dicerie dei primi incontri. Quella violenza istantanea aveva sconfitto tutte le civetterie della donna e della dama, come accade quasi sempre quando il maschio rompendo il fragile inviluppo della educazione sociale riappare nella irresistibile sincerità della natura. Ma allora le parti s'invertirono, Lelio diventò freddo, ella si fece più amorosa; pareva che finalmente avesse trovato l'uomo della propria vita, questo ideale secreto di tutte le donne, che spiega forse la maggior parte dei loro inintelligibili capricci. Egli invece le serbava rancore dell'aver voluto tenerlo a bada sino quasi a renderlo ridicolo nella folla degli altri adoratori. In fondo quella di Lelio non era stata che una passione di vanità vivificata dal succo della giovinezza. Egli era ritornato col principe dinanzi al loro calesse. Al momento di scambiare i saluti ella poté sussurrargli: - Venite stasera. Lelio la guardò fisso. - Vieni... Contessa, stasera verrete tutti da me: finiremo così la giornata insieme. Nel vano di una finestra sotto una tenda bianca raddoppiata da un cortinaggio di seta, ella fingendo di affacciarsi alla strada osò di buttargli le braccia al collo. - Mi ami? - E tu? - Cattivo! - mormorò con voce spenta; poi con una dolcezza inesprimibile: - Mi ami? - ripeté stringendosi sotto al suo sguardo come una colomba. Una grande rosa purpurea le profumava i capelli; Lelio sentì di non poter resistere alla seduzione, e colla sua precoce esperienza cinica di romanziere, invece di renderle il bacio, le strinse con una mano quanto più poté di carne sotto il busto. Ella si allontanò tutta ilare per andarsi a poggiare dietro la sedia del marito, che giocava a scopa colla contessa. - Ha il sette bello, sai. - Vuoi dunque rovinarmi in tutto? - Ella cercò maliziosamente gli occhi di Lelio, che rimase impassibile. Ma quando egli uscì dal palazzo circa sulla mezzanotte per tornare a casa, avendo già con lei un appuntamento per l'indomani, un'amara rampogna gli strinse il cuore, di aver sperato per un istante qualche cosa di più nobile in un amore di principessa. Lelio non era geloso: fosse albagia di carattere o freddezza di cuore, non aveva ancora amato davvero attraverso le sue molte avventure femminili. Eppure dal fondo della sua anima si levavano spesso impeti tempestosi di passione che lo facevano urlare come un perduto nel primo sbigottimento della solitudine, quando la paura non ha ancora uccisa la speranza. Ed erano invocazioni deliranti di dolore, appelli forsennati di una voluttà, cui nulla aveva mai potuto appagare, e che riprendevano talvolta le vie del cielo come un ritorno mistico a Dio, il tormentatore che consola anche quando vuole distruggere la propria creatura. Ma appena di fronte alla donna lo riprendeva un'ira fredda di analisi, cercava minutamente, quasi maliziosamente, tutti i suoi difetti, decomponeva le sue sensazioni, disseccava tutti i suoi sentimenti. L'amore non era lì, in quella fragilità di corpo e di spirito, che l'uomo era sempre sicuro di spezzare al primo contatto; ma non era nemmeno altrove, o non sapeva trovarlo. Come per molti scrittori della nuova scuola naturalista, la crudità del suo pessimismo era un'angosciosa reazione contro l'inafferrabile divinità della vita, che le cose e le anime sembravano piuttosto nascondere che rivelare. Quindi tutta la malìa seduttrice della principessa non poteva trionfare della sua diffidenza. Lelio sapeva o credeva di sapere il nome di molti altri suoi amanti, ai quali naturalmente ella doveva aver prodigate le medesime scene. Se talora vinto dalle sue carezze si diceva che nessuno aveva forse saputo accendere in lei tanto ardore, poco dopo la coscienza di quella troppo facile promiscuità col marito e cogli altri lo riagghiacciava. Ella ne restava impermalita. Una volta, ed era il terzo appuntamento sempre nel suo magnifico salottino lilla, ella glielo chiese: - Tu non mi credi. - Di che fede vuoi tu parlare? - e il suo accento era duro. - Eppure devi sentirlo che ti amo - ripeté strisciandogli con una palma così lievemente sulla faccia che al buio egli avrebbe potuto prenderla per una piuma di ventaglio. - Tu sei geloso. - Di tuo marito? L'altra s'imbarazzò, non voleva accusarsi da sé stessa. Ma Lelio sdraiato indolentemente sopra una bassa poltrona trapunta la lasciava fare; tutto il suo spirito era teso nell'analizzarla; ella ne provava una pena strana, che non avrebbe saputo nemmeno accennare colle parole, qualche cosa di aspro e di freddo come gli accusati debbono risentirne nel primo interrogatorio. Andò a rannicchiarsi nell'angolo del divano, ma quantunque paresse mesta il suo atteggiamento era di una lubricità pruriginosa. Allora Lelio venne a sedersi sulla spalliera alla quale essa poggiava la testa. - Dunque mi ami... - No, poiché questo ti fa anche più piacere, tristo violatore di donne, che non sai nemmeno fartelo perdonare colla sincerità della violenza. Perché mi hai tu presa? - Perché mi tentavi tu? - Ti amavo. - Avresti amato di vedermi soffrire indarno? - Non soffro io adesso indarno? Tu non mi ami, lo so, quindi sono io che mi degrado cedendoti, ma tu rimani più basso di me. Che cosa ti avevo io fatto, cattivo soggetto? Eri bello, venni da te al veglione; e poi mi avevano tanto detto che eri un grande ingegno, uno spirito satanico... Noi non conosciamo generalmente che degli sciocchi, quelli che riempiono i nostri saloni. Tu mi dicesti quanto nessuno aveva mai osato, io quella notte non dormii. Avevo paura di darti ragione: era proprio così? Come lo sapevi tu? Era un mistero; allora volli fuggire. Sei tu - continuò violentemente - che hai voluto tutto, e mi tratti così. Pronunciando queste ultime parole era diventata pallida, cogli occhi verdi socchiusi. Una seduzione morbosa esalava da tutto il suo corpo impregnato di un triste odore di sandalo, mentre la sua lunga veste da camera di un giallo spento sembrava quasi bagnata, tanto le si modellava sul corpo. - Non ti basta una donna come me? - le sfuggì in un impeto d'orgoglio. - Forse perché sei principessa? - Fors'anche. Lelio s'alzò per andarsene, ma ella non lo credette. Infatti tardava a trovare il cappello ed i guanti: ella lo seguiva cogli occhi dilatati, si era rapidamente con una mano ravviati i capelli, mentre un piedino le spenzolava entro la calza rosea dal divano, lasciando vedere sino a mezzo la gamba. Lelio salutò sull'uscio. Ella attese ancora qualche secondo, poi gli corse dietro, lo raggiunse al secondo salone; egli si voltò al fruscio delle sottane e si sentì già avvinghiato per le spalle. - Torna subito indietro. Quando si furono daccapo seduti sul divano, ella tacque: voleva che parlasse lui per il primo. - Che cosa vuoi? - le disse finalmente. - Mi ami? - Io sì - rispose colla solita menzogna degli uomini. - La vuoi sapere la verità? Se qualcuno ama fra noi due, sono io. - Chi amate dunque, principessa? - Uno scemo che me lo domanda. E saltandogli sulle ginocchia lo morse ad una guancia. - Lo voglio, sai, lo voglio: sono io che ti violento. Credi che sia un privilegio degli uomini? - E lo aveva rovesciato sotto un'onda di risa cristalline sul divano, facendogli il solletico un po' dappertutto, così che rimaneva quasi coperto interamente dalla sua veste gialla; quindi prendendolo al collo con ambo le mani in una rabbia ipocritamente graziosa di pantera: - Ecco il violento! - esclamò. Ma dieci minuti dopo, quando Lelio fatto più molle, col volto ancora un po' madido, la lasciava baciandola sui capelli come una bambina, ella tornò a chiedere: - Mi ami? - Tu no. - Niente, niente? - ella ripeté biascicando le parole. - Nemmeno come un vestito. - Scommettiamo. Lelio era triste. - Hai paura di perdere? - insisté provocantemente: - scommettiamo. - Sia pure, ti proverò, che io per te non valgo neppure un vestito. Ella cessò di sorridere. - Ma fai davvero? - Poiché lo esigi. Involontariamente si erano staccati riprendendo ognuno la propria posa; egli pareva in visita dinanzi ad una signora, che si fosse alzata cortesemente per gli ultimi saluti, ma un freddo improvviso li aveva egualmente sorpresi. La donna fu più impaziente. - È un modo di darmi della borghese. Ma sono curiosa: me lo proverai presto? - Lo temo. - Grazie. Che cosa scommetti? - soggiunse tosto in tono canzonatorio tendendogli daccapo la mano. - Più di quello che io abbia, poiché ti perderò. - Sai, in questo momento tu non provi che una scena da romanzo: ecco perché io odio i romanzi scritti: sono sempre così falsi! - Fra un autore e una principessa chi dirà la verità? - Va via, non ti voglio più vedere sino a questa sera in teatro: oh! se non vieni a farmi visita... Quella sfida troppo seria malgrado l'aria di scherzo colla quale era stata gittata e raccolta rinfocolò naturalmente la loro passione. In fondo avrebbero voluto entrambi aver torto, mentre un secreto presentimento li avvertiva di una non lontana rottura. Perché? Non erano abbastanza belli, giovani e caldi per potersi amare? Tuttavia trepidavano di essersi già troppo conosciuti. In una fra le più deliziose leggende di Heine un ondino e un'ondina s'incontrano ad un ballo campestre: tutti ammirano la loro danza dalle ondulazioni di una strana grazia, poi la dama dice all'orecchio del cavaliere: "Sul vostro cappello tremola un giglio che cresce solo in fondo all'oceano". "Bella dama", rispose l'altro, "perché dunque la vostra mano è così gelida e l'orlo della vostra veste tanto inzuppato d'acqua?". La musica tace e la bella coppia si separa assai civilmente: per sciagura si conoscono già troppo. Ma Lelio raffreddandosi si abituava con una specie di crescendo al bisogno di quella donna di una lubricità così originale. Ella invece voleva domarlo, come fanno le donne cogli uomini, indebolendolo: senonché in tale crudele rivincita femminile spesso s'inteneriva sino alle lagrime, e allora erano deliziose melanconie, effusioni poetiche, nelle quali il fine gusto di entrambi si accordava come in una suonata a quattro mani. Ella una mattina andò a trovarlo: Lelio, umiliato da tale visita in quelle due camerette ammobigliate, dovette cedere subito alla gaiezza, colla quale ella saltellava volendo tutto vedere e frugando invece abilmente fra i suoi manoscritti per cercarvi le tracce di qualche avventura, forse non del tutto passata. Non trovò quasi nulla, poche fotografie di belle donne, che Lelio le dichiarava ad ogni sua dimanda cortigiane o modelle. - Qualcuno non ti ha veduto entrare? - le chiese diventando prudente per una improvvisa tenerezza di tenerla così in quella cameretta nella quale aveva tante volte sognato di lei. Ella vi rimase più d'un'ora. - Verresti qui una notte con me? - Nel tuo letto! - ella esclamò rispondendo al suo guardo con una smorfia di ripugnanza. - Perché? - Ma è una via pubblica, lo so. L'altro invece credette ad una schizzinosa aristocrazia di gran dama, e se ne offese. Rimasero entrambi impacciati, poi ella se ne andò nullameno sorridendo. Ma sulle dieci della sera stessa la vide sola col principino fuori di strada. Camminavano stretti l'uno contro l'altro, parlando a bassa voce, concitati: egli allungò il passo e traversò la strada cacciandosi sotto l'altro portico per seguirli non visto. Non era gelosia, ma un'amarezza della vanità e del non aver mai potuto sino allora credere ad alcuna donna. Sapeva che il principe stava per sposare una baronessa tedesca ricca a milioni, quindi i due dovevano certamente parlarne; fors'anche era la loro ultima scappata in una deliziosa soffocante ripresa di tutte le follie, studiando già il modo d'intendersi dopo quel matrimonio. Lelio sentiva che fra la principessa e il principino una vera rottura poteva anche non accadere mai in quella costante famigliarità creata loro dai rapporti mondani: egli invece doveva già affrettare il proprio ritorno in campagna per non ingrossare troppo i primi debiti contratti nella necessità di frequentare quegli ultimi mesi più assiduamente i massimi saloni bolognesi. La principessa, vana e dissoluta come quasi tutte le sue pari, aveva invece voluto prenderlo al modo che si spicca un frutto da un albero: per curiosità gelosa, convinta di fargli lo stesso onore della contessa Ghigi alla propria balia in quella visita di tutti gli anni. I due strisciavano lungo i muri nell'ombra senza voltarsi. Per un momento pensò di fare uno scandalo coll'oltrepassarli, fermandoli magari con qualche ironica trovata, ma se ne vergognò quasi subito: sarebbe stato un confessarsi ridicolamente geloso, poi tutta Bologna sapeva che il principino in altra occasione aveva dichiarato di non battersi per motivi di religione. E soprattutto a che pro, dal momento che non amava? Tuttavia si era loro appressato. Adesso non perdeva una mossa di lei, avrebbe quasi scommesso d'indovinare anche le sue risposte; passava poca gente, nullameno qualcuno si rivoltò ad osservarli avendoli forse riconosciuti. Dopo parecchi giri e rigiri arrivarono alla Seliciata di Strada Maggiore, nella quale stazionavano parecchi fiaccheri, e semplicemente, temerariamente salirono sul primo, un brougham. - Con me non lo farebbe. Ah! glielo domanderò. Invece l'indomani appena entrato nel suo gabinetto ella gli disse che andava a Parigi col principe Giulio. - Vieni anche tu? - L'altro si sentì come una stoccata nel petto. - Perché? Giulio è invitato a due lunghe partite di caccia, io resterò sola, vieni. Sei stato a Parigi? La vedrai, è la sola città dove si viva. Ma egli si era fatto anche più triste di quanto avrebbe voluto mostrarlo. - Debbo andare in campagna a scrivere un libro. - Lo scriverai dopo. - Non posso. - Lo hai già impegnato col tuo editore? - La semplicità di questa domanda parve all'altro un insulto. - Sai bene che non scrivo per commissioni - ribatté seccamente. Non si era ancora seduto. - Ah! Noi partiamo giovedì immancabilmente. - Addio - egli disse tendendole la mano. - Ma perché mi lasci così? Quando ci rivedremo? - Al mio ritorno a Bologna quest'inverno. - Non prima? - Forse che tu lo vorrai? - Oh! - esclamò finalmente - ma sei uggioso col tuo tono! Gli voltò le spalle con atto nervoso, ma l'altro non sapeva più andarsene. Una mollezza lo aveva preso in quel gabinetto tutto pieno di fiori e dell'odore di quella donna così adorabilmente fatua e voluttuosa; si sentiva vinto, finito. Una malinconia di abbandono come un anticipo della tristezza che lo aspettava alla villa in compagnia del vecchio padre, prostrava in quel momento tutto il suo orgoglio giovanile. - Hai freddo stamane: che ti faccia accendere il fuoco? - ella si volse gaiamente. - Allora io parto oggi stesso - egli disse. - Subito! Lelio le si avvicinò, la prese delicatamente fra le braccia come per piantarsela dentro alle carni, e si mosse per fuggire. - Lelio! - ella lo richiamò dal divano sul quale era caduta: - qui, in ginocchio. Promettetemi, bel signorino, che in tutti questi mesi non mi tradirete con nessuna contadina. - E tu con nessun principe. - Insolente! - ribatté con un lieve rossore alla fronte. - Addio, amore. - Addio, principessa.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679345
Praga, Emilio 3 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Il suo delitto è abbastanza accertato .... Io stesso andrò a far la denunzia. - No, sclamò il curato. Poi diventò smorto come un cencio lavato. Il medico mi avvertì con un'occhiata supplichevole di non insistere. Beppe era ricaduto nel suo cupo sbalordimento. Tuttedue gli furono intorno a confortarlo e a persuaderlo. Egli era tanto avvilito e tanto abbattuto che non durarono fatica a indurlo a scendere dopo il desinare col dottore a Zugliano. L'infelice baciò le sue creature senza far parola, senza spargere una lagrima e s' avviò barcollando come trasognato dietro alla mula del dottore. Lo accompagnammo sino in fondo al villaggio; poi il curato tornò indietro; io continuai la mia passeggiata.

Era il signor Bazzetta il quale certamente veniva ad accertarsi se ero già abbastanza lontano da poter sparlare di me. Non potei trattenermi dal dirgli ad alta voce: - Oh bravo! Se voleste aver la bontà di farmi un po' di lume, ve ne sarei obbligato. Io adoro la polizia .... urbana, l'unica che manchi a Sulzena. Comprese la doppia allusione ch'io volli far al suo racconto di poco prima e alla sconvenienza di quell'ultimo atto, perchè rispose: - Anch'io una volta, - ora non ci penso più. Aspettate vengo colla lucerna. Uscì poco dopo e volle rimanere a rischiararmi la strada finchè io non ebbi svoltato verso la chiesa. Mi volsi parecchie volte ed osservai che man mano svaniva sul suo musettino il sorriso di riguardosa premura con cui mi aveva augurato la buona notte. Don Luigi era arrivato da Novara. Era tanto soprappensiero quando entrai, che non si mosse. Aveva fatto l'ultimo tratto di strada a piedi con quella belletta; era stanco, infangato, - ma s'era fisso di aspettarmi. Indovinai che il buon prete aveva d'uopo di uno sfogo. Gli parlai di Aminta, supponendo che la separazione da lui fosse il motivo della sua afflizione. Mi disse che l'aveva lasciato felicissimo della sua nuova condizione. Poi ad un tratto mi domandò: - Credete, caro Emilio, che abbiamo fatto il suo bene? Risposi che non si poteva dubitarne. - Ebbene, guardate, soggiunse dondolando tristamente il capo più curvo del solito, guardate, c'è chi ne dubita. - Oh, qualche ignorante. - No, sono persone savie e prudenti, ma mal prevenute. Quel giorno a Novara era stato a visitare il Vicario, il quale, come sapesse lo scopo della sua gita, prima quasi che aprisse bocca, gli aveva parlato di Aminta soggiungendo che era costretto di esternargli il suo biasimo per avere stornato quel ragazzo dalla carriera ecclesiastica. Poi, senza lasciargli dire una parola a propria discolpa, aveva soggiunto che la cosa farebbe scandalo, molto scandalo; era vero il fatto sì o no? Non poteva negarlo; dunque non ci era altro da dire, - egli non sapeva davvero come pretendesse giustificarsi, - che nome darebbe a un capitano che facesse disertare i soldati; e pensare che lei, un sacerdote ..... brutto esempio .... pessimo esempio! .... - Ma, esclamai io, chi può averlo informato? Don Luigi si strinse nelle spalle: diamine, era facile indovinarlo. - E che avete risposto? chiesi. - Nulla; sono uscito di là che mi girava la testa. Però dicano quel che vogliono; il ragazzo sta bene dov'è e ci resterà. - Ma possono darvi dei fastidi per questo? - Non so; faranno quel che vorranno. E il buon prete si curvò in aria di rassegnazione. Quella notte stentai a prender sonno: il racconto di Mansueta, quello dello speziale, le confidenze di don Luigi mi giravano per il capo come le aste di un arcolaio; pensavo a Rosilde, al dottor De Emma; costui mi stizziva; mi pentivo di avergli accordata la mia simpatia. Anzi d'essermela lasciata scroccare. Non era egli causa di tutte le disgrazie dei miei amici? Mi pareva evidente. Sicuro era lui che aveva abusato della solitudine di Rosilde, della dappocaggine del De Boni, della credula bontà di Don Luigi. Questo era il peggio; compromettere un onest'uomo, esporlo a delle persecuzioni tormentose, implacabili. In fin dei conti facesse la penitenza chi aveva peccato! Il suo contegno riguardo ad Aminta mi indignava! Perchè ricusava egli il suo appoggio al figlio di Rosilde? Per riguardo alla moglie? Magra scusa quando altri, quando un innocente, per riparare al suo abbandono, mettono a repentaglio tutta l'esistenza. Crudele egoismo! La requisitoria era compiuta e la condanna non si faceva troppo aspettare. La mattina seguente accadde a Baccio cosa tanto straordinaria che egli, per la prima volta in trenta anni di esercizio, si lasciò precedere nel suonare il mezzodì dal sacrestano di Sumasco, noto per la sua negligenza. E c'è di peggio. Egli piombò nello studio del curato tenendo in mano, per distrazione, il raggio d'oro delle grandi solennità. Mansueta gli corse dietro, don Luigi si avanzò rapidamente ad incontrarlo, ma entrambi dimenticarono tosto la stranezza del suo contegno perchè egli balbettò: - Il sindaco la vuole in sacristia. Incredibili parole che, per l'affanno, non potè ripetere. Don Luigi era già uscito per corrispondere alla richiesta del sindaco, che il pover'uomo era ancora sbalordito ritto in mezzo alla camera. Il signor Angelo non era certo venuto con delle buone intenzioni. Il colloquio fu breve, non durò più d'un quarto d'ora, che però alla nostra ansietà sembrò interminabile. Nessuno assistè. Il linguaggio del sindaco deve essere stato violento al solito: uscito dalla sacristia, sul sagrato si volse indietro e disse: - Pensateci dunque: fra tre giorni o mi date quelle carte o preparatevi a ciò che vi ho detto. Don Luigi, pallidissimo, rispose: - Sarà quel che Dio vorrà. Non capivo la minaccia del sindaco, e il curato non mi fe' quel giorno alcuna confidenza. Si ritirò nella sua camera e non ne uscì per tutta la giornata. Mansueta, sollecita della salute del padrone, si recava sovente in punta di piedi a spiare dal buco della serratura, ed ogni volta tornava tentennando dolorosamente il capo. Don Luigi passò tutte quelle ore ginocchioni pregando. I dì seguenti il sindaco passò e ripassò più volte davanti al presbiterio coll'aria provocante di un creditore inesorabile. Le sue occhiate, volta a volta beffarde e furiose, causarono una quantità di disordini. Mansueta lasciò due volte struggersi la cena sul fuoco. Il solo appressare del noto passo la metteva in convulsione. E la non poteva sapere qual nuovo genere di tortura colui avesse potuto trovare, ma capiva che doveva essere formidabile dal contegno di Don Luigi, che da quel colloquio in poi non aveva più ricuperato la sua calma e anzi diventava sempre più inquieto e sofferente. Pertanto io cominciavo a trovarmi a disagio. Ero rimasto per riguardo a Don Luigi, e avrei voluto davvero essergli utile in quel frangente di cui mi era ignota la gravità. Ma la sua afflizione non pareva di quelle che si alleviano colle parole. Il curato si manteneva stavolta chiuso con me come con tutti; noi ci vedevamo appena all'ora solita e si capiva che malgrado tutti gli sforzi egli non riusciva a dominare la cura segreta dell'animo. Non volevo, al postutto, dargli soggezione.

Avevo visto abbastanza e capito anche troppo. Scappai di là e poi ridiscesi nel villaggio. Passando innanzi alla farmacia vidi l'amico Bazzetta al suo banco. Il desiderio di trovare almeno una delle vecchie conoscenze mi spinse da lui. Stentò a riconoscermi. Ma poi, appena fatti i convenevoli, appiccò discorso come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Gli chiesi: - Quanto è che Don Luigi? ... - Cinque anni, e fu un gran danno per Sulzena: invece della tolleranza, della carità di quel brav'uomo ... Non s'accorse dell'ironico sorriso che a quest'elogio postumo mi contrasse le labbra. - ..... Abbiamo l'ultramontanismo spilorcio e fanatico di Don Sebastiano. E senz'altro s'avviò a narrarmi le lotte intestine di Sulzena, in cui egli solo teneva testa al presbiterio e al sindaco alleati. Io non gli credevo gran fatto; domandai di Mansueta. - Ah, la serva ... morta. - Ma domenica ventura ... - Morta quando? - L'anno passato al suo paese ... Ma domenica ventura prenderò le mie rivincitine ... le elezioni riusciranno a modo mio: sono quattro anni che lavoro per questo ... - Ve lo auguro, dissi io con un'aria annoiata e mi alzai. - Sor Emilio, disse con una certa premura, - non accetterebbe un bocconcino, un pezzettino di manzo ..... In quella si affacciarono due visi di vecchierella, due profili scarni, gialli, appiattiti. Erano la moglie e la figlia dello speziale: quei dieci anni avevano quasi cancellate le differenze. Erano due figure senza età precisa, due fossili veri ... - Il signor Bazzetta insistè per trattenermi, egli era schietto; non gli pareva vero di smerciare le sue ciarle, - ma mi seccava troppo. Debbo dire che Sulzena era ingrandita: notai qualche casa nuova, la capanna di Beppe era stata restaurata e vi notai la frasca e l'insegna turchina dell'osteria che quella sera memoranda del mio arrivo aveva cercato invano. Si capirà da quel nuovo movimento di commercio che le usanze ospitali del Presbiterio erano scomparse. Feci, solo, un po' di colazione di malavoglia: il rimorso di aver voluto profanare colla curiosità inopportuna i miei cari ricordi, mi levava l'appetito. Passai la sera a Zugliano, dove il dottor De Emma mi fe' cortese accoglienza, - e mi parlò lungamente di Don Luigi, e riparò un poco colle sue affettuose parole ai disappunti della giornata. E Aminta? L'estate scorsa ero in ferrovia: tra Milano e Pavia e non so bene a quale stazione salirono due giovani sposi. Appena il convoglio si mosse - m'ero sdraiato lungo sui cuscini, facevo le viste di dormire - lo sposo senza tanti scrupoli allacciò la vita della signora e cominciò a sussurarle certe parole ... che parevano baci. - E lei ci stava ..... Non c'è per me spettacolo più avvilente di questo. Alla prima fermata, m'alzai risoluto e feci per discendere. - Buon viaggio e buon divertimento, signori, dissi nel passar dinanzi alle due tortorelle. La signora arrossì, ma lo sposo fe' un oh lungo un miglio e s'alzò tanto rapidamente che i nostri visi si toccarono. - Tant'è, disse, e mi baciò. Ero stupito. - Non mi conosce? io lei l'ho sentito alla voce ... Aminta. - Oh Aminta! - È questa la mia sposa. - Ho visto - dissi. E ridemmo tutti e tre ..... Aminta mi disse che andava a Roma dove aveva un impiego al ministero della publica istruzione. Era sposo, era felice, era allegro. Eppure quella sua gioia tanto naturale mi faceva pena perchè mi pareva una irriverenza verso le tristi memorie che il suo incontro mi suscitava nell'animo. FINE. 1

La chiave a stella 1978

679573
Levi, Primo 2 occorrenze

Bene, con tutto questo hanno delle leghe abbastanza decise, e bisogna fargli i conti insieme: lì tutti gli operai si portano sempre dietro la radiolina, come se fosse un portafortuna, e se la radio dice che c' è sciopero si ferma tutto, non c' è uno che si osi di alzare un dito: del resto, se provasse, c' è caso che si prenda una coltellata, magari non subito ma di lì a due o tre giorni; oppure gli cade una putrella sulla testa, o beve un caffè e resta lì secco. Non mi piacerebbe viverci; però sono contento di esserci stato, perché certe cose uno se non le vede non le crede. Allora, le stavo dicendo che ero laggiù per montare una gru da molo, uno di quei bestioni a braccio retrattile, e un carro-ponte fantastico, 40 metri di luce e un motore di sollevamento da 140 cavalli; cristo che macchina, domani sera bisogna che mi ricordi di farle avere le foto. Quando ho finito di metterla su, e abbiamo fatto il collaudo, e sembrava che camminasse in cielo, liscia come l' olio, mi sentivo come se mi avessero fatto commendatore, e ho pagato da bere a tutti. No, non vino, quella loro porcheria che chiamano cumfàn, sa di muffa, però rinfresca e fa bene; ma andiamo con ordine. Quel montaggio non è stato una cosa semplice; non per la faccenda tecnica, che è andata dritta fin dal primo bullone, no, era una specie di atmosfera che si sentiva, come un' aria pesante, quando sta per venire la tempesta. Gente che parlottava negli angoli, si facevano dei segni e delle smorfie che io non capivo, ogni tanto saltava fuori un giornale murale e tutti si ammucchiavano intorno a leggerlo o a farselo leggere, e io rimanevo solo in cima all' impalcatura come un merlo. Poi la tempesta è venuta. Un giorno ho visto che si chiamavano uno coll' altro, a gesti, a fischi: se ne sono andati via tutti, e allora, dato che da solo non potevo combinare niente, sono sceso anch' io giù per il traliccio, e sono andato a vedere la loro assemblea. Era in un capannone in costruzione: in fondo avevano fatto una specie di palco, con delle travi e delle tavole; sul palco venivano su a parlare, uno dopo l' altro. Io la loro lingua la capisco poco, ma si vedeva che erano arrabbiati, come se gli avessero fatto un torto. A un certo punto è venuto su uno più vecchio, che sembrava un caporione; questo qui sembrava molto sicuro di quello che diceva, parlava calmo, pieno d' autorità, senza gridare come gli altri, e non ne aveva neanche bisogno, perché davanti a lui tutti hanno fatto silenzio. Ha fatto un discorso tranquillo, e tutti sono rimasti persuasi; alla fine ha fatto una domanda, e tutti hanno alzato la mano gridando non so che cosa; quando ha fatto la controprova, di mani non se n' è alzata neanche una. Allora il vecchio ha chiamato un ragazzo che stava in prima fila, e gli ha dato un ordine. Il ragazzo è partito di corsa, è andato al magazzino attrezzi, e è tornato in un momento tenendo in mano una delle foto del padrone e un libro. Vicino a me c' era un collaudatore che era del posto ma sapeva l' inglese; eravamo anche un po' in confidenza, perché i collaudatori conviene sempre tenerseli buoni: ogni santo vuole la sua candela". Faussone aveva appena finito una porzione abbondante d' arrosto, ma ha chiamato la cameriera e se n' è fatta portare una seconda. A me interessava più la sua storia che i suoi proverbi, ma lui ha ripetuto con metodo: "In tutti i paesi del mondo, poco da fare, i santi vogliono le sue candele: io a quel collaudatore gli avevo regalato una canna da pesca, perché i collaudatori bisogna tenerseli buoni. Così lui mi ha spiegato che si trattava di una questione balorda: gli operai, da un pezzo, chiedevano che la cucina del cantiere facesse da mangiare secondo la loro religione; il padrone invece si dava delle arie da modernista, benché poi alla finitiva fosse bigotto di un' altra religione, ma quello è un paese con tante di quelle religioni che c' è da perdersi. Insomma, gli ha fatto sapere dal capo del personale che o si tenevano cara quella mensa così com' era, o niente mensa. C' erano stati due o tre scioperi, e il padrone non aveva fatto neanche una piega perché tanto le commesse erano magre. Allora era venuta fuori la proposta di fargli la fisica, così per rappresaglia". "Come, fargli la fisica?" Faussone mi ha spiegato pazientemente che fare la fisica è come dire fare un malefizio, mandare il malocchio addosso a qualcuno, fargli una fattura: " ... magari neanche per farlo morire: anzi, quella volta lì non volevano sicuro che morisse, perché il suo fratello più piccolo era peggio di lui. Volevano solo fargli prendere una paura, non so, una malattia, un incidente, tanto per fargli cambiare idea, e per fargli vedere che anche loro sapevano farsi le sue ragioni. Allora il vecchio ha preso un coltello, e ha schiodato e staccato la cornice dal ritratto. Sembrava che di quei lavori lì ci avesse una gran pratica; ha aperto il libro, ha messo il dito a occhi chiusi su una pagina, poi gli occhi li ha di nuovo aperti e ha letto nel libro qualche cosa che io non ho capito e il collaudatore neanche. Ha preso la foto, ha fatto un rotolo e l' ha schiacciato bene con le dita. Si è fatto portare un cacciavite, l' ha fatto arroventare su un fornello a spirito, e lo ha infilato nel rotolo schiacciato. Ha spianato la foto e l' ha fatta vedere, e tutti battevano le mani: la foto aveva sei pertugi bruciacchiati, uno sulla fronte, uno vicino all' occhio destro, uno all' angolo della bocca. Gli altri tre erano cascati sullo sfondo, fuori della faccia. Allora il vecchio ha rimesso la foto nella cornice, così com' era, spiegazzata e bucata, e il ragazzino è partito per rimetterla a posto, e tutti sono tornati a lavorare. Bene, a fine aprile il padrone si è ammalato. Non l' hanno detto chiaro, ma la voce è corsa subito, sa come succede. È sembrato grave fin dal principio: no, alla faccia non aveva niente, la storia è strana abbastanza anche solo così. La famiglia voleva metterlo sull' aereo e portarlo in Svizzera, ma non hanno fatto a tempo: aveva qualche cosa nel sangue, in dieci giorni è morto. E pensi che era un tipo robusto, che non era mai stato malato: sempre in giro per il mondo in aereo, e fra un aereo e l' altro sempre dietro alle donne, o a giocare la notte finché spuntava il sole. La famiglia ha denunciato gli operai per omicidio, anzi, per "assassinio meditato con malizia": mi hanno detto che laggiù si dice così. Hanno dei tribunali, può capire, che è meglio non cascargli nelle unghie. Non hanno un codice solo, ne hanno tre, e scelgono uno o l' altro secondo che fa comodo al più forte, o a chi paga di più. La famiglia, dicevo, sosteneva che l' assassinio c' era stato: c' era la volontà di ammazzare, c' erano le azioni per far morire, e c' era stata la morte. L' avvocato della difesa ha risposto che le azioni non erano state quelle giuste, o caso mai erano buone solo a fargli venire qualche guaio alla pelle, non so, un' espulsione o i foruncoli: ha detto che se quella foto l' avessero tagliata in due o l' avessero bruciata con la benzina, allora sì che sarebbe stato grave. Perché pare che vada così, la storia della fattura, da un buco nasce un buco, da un taglio un taglio, e così via: a noi ci fa un po' ridere, ma loro ci credono tutti, anche i giudici, e anche gli avvocati difensori. "Come è finito il processo?" "Lei ha voglia di scherzare: continua ancora, e continuerà chissà fino a quando. In quel paese i processi non finiscono mai. Ma quel collaudatore che dicevo mi ha promesso di tenermi informato, e se crede io terrò informato lei, dal momento che questa storia le interessa". È venuta la cameriera a servire la portentosa razione di formaggio che Faussone aveva ordinata: era sulla quarantina, magrolina e curva, coi capelli lisci unti di chissà cosa, e con una povera faccia da capra spaurita. Ha guardato Faussone con insistenza, e lui ha teso lo sguardo con indifferenza ostentata. Quando se n' è andata, mi ha detto: "Sembra un po' il fante di bastoni, poveretta. Ma cosa vuole: bisogna contentarsi di quello che passa il convento". Ha accennato al formaggio col mento, e mi ha chiesto con scarso entusiasmo se volevo favorire. Lo ha attaccato con avidità, e fra un colpo di ganascia e il successivo ha ripreso: "Sa bene, qui, articolo ragazze, si tirano un po' verdi. Bisogna stare contenti di quello che passa il convento. Voglio dire il cantiere".

Pagina 0005

Noti che era una in gamba e di faccia era anche abbastanza bella, ma aveva tre anni più di me e era un po' giù di carrozzeria. Non dico, avrà avuto i suoi meriti, ma per lei ci andava un marito diverso, uno di quelli che bollano la cartolina e arrivano a ora fissa e non dicono be'. Poi alla mia età uno comincia a diventare difficile, e mica detto che ormai per me non sia troppo tardi". Si è avvicinato alla vetrata, e mi è sembrato sopra pensiero e di umore tetro. Fuori pioveva un po' meno, ma si era levato un vento impetuoso; gli alberi agitavano i rami come se gesticolassero, e si vedevano correre raso terra dei curiosi ammassi di sterpi globosi, grossi da mezzo metro a un metro; volavano via rotolando e saltellando, modellati così dall' evoluzione per disseminarsi altrove: aridi e insieme tenebrosamente vivi, sembravano fuggire dalla foresta di Pier delle Vigne. Ho mormorato una vaga frase consolatoria, come si conviene, invitando a confrontare la sua età con la mia, ma lui ha ripreso a parlare come se non mi avesse sentito: "Una volta era più facile: non stavo mica a pensarci su due volte. Io veramente di natura ero timido, ma alla Lancia, un po' per la compagnia, un po' dopo che mi hanno messo alla manutenzione e che ho imparato a saldare, sono venuto più ardito e ho preso sicurezza; sì, saldare è stato importante non saprei dire perché. Forse perché non è un lavoro naturale, specialmente saldare autogeno: non viene di natura, non assomiglia a nessun altro lavoro, bisogna che la testa le mani e gli occhi imparino ciascheduno per conto suo, specie gli occhi, perché quando ti metti davanti agli occhi quello schermo per ripararti dalla luce vedi solo del nero, e nel nero il vermino acceso del cordone di saldatura che viene avanti, e deve venire avanti sempre alla stessa velocità: non vedi neanche le tue mani, ma se non fai tutto a regola, e sgarri anche di poco, invece di una saldatura fai un buco. Sta di fatto che dopo che ho preso sicurezza a saldare, ho preso sicurezza a tutto, fino alla maniera di camminare: e anche qui, la pratica che ho fatto nella bottega di mio padre, altroché se mi è venuta a taglio, perché mio padre buonanima mi aveva insegnato a fare i tubi di rame dalla lastra, allora i semilavorati non si trovavano, si prendeva la lastra, si battevano gli orli a bisello, si incavalcavano i due orli, si copriva il giunto con il borace e con graniglia di ottone, e poi si passava sulla forgia a coke, né troppo piano né troppo in fretta, se no l' ottone o che scappa fuori, o che non fonde: tutto così a occhio, se lo immagina che lavoro? E poi, dal tubo grosso si facevano i tubi più piccoli alla trafila, tirando con l' argano a mano, e ricuocendo a ogni passata, roba da non crederci: ma alla fine la giunta si vedeva appena appena, solo la venatura più chiara dell' ottone: a toccare con le dita non si sentiva niente. Adesso è un altro lavorare, si capisce, ma io ho idea che se certi lavori li insegnassero a scuola, invece di Romolo e Remo, si guadagnerebbe. Le stavo dicendo che imparando a saldare ho imparato un po' tutto: e così è successo che il primo lavoro di montaggio un po' importante che mi è capitato, e era proprio un lavoro di saldatura, mi sono portato una ragazza appresso: che poi, a dire la verità, di giorno, non sapevo bene cosa farmene, e anche lei poveretta mi veniva dietro, si metteva sull' erba sotto ai tralicci, fumava una sigaretta dopo l' altra e si annoiava, e io di lassù la vedevo piccola piccola. Era un lavoro in montagna, in Val d' Aosta in un bellissimo posto, e anche la stagione era buona, era il principio di giugno: c' era da finire di montare i tralicci di una linea ad alta tensione, e poi c' era da tirare i cavi. Io avevo vent' anni, mi avevano appena dato la patente, e quando l' impresa mi ha detto di prendere il furgoncino 600 con su tutti gli attrezzi, di farmi dare l' anticipo e di partire, mi sono sentito fiero come un re. Mia madre a quel tempo era ancora viva, e stava al paese, così non le ho detto niente, e alle zie, si capisce, ancora meno, per non dargli un dispiacere, perché loro, questione ragazze, si credevano di avere l' esclusiva. Lei era in vacanza, era una maestra di scuola, la conoscevo solo da un mese e la portavo a ballare da Gay, ma non le è sembrato vero e ci è stata subito; non era di quei tipi che fanno delle storie. Lei capisce che con tre faccende così in un colpo, la ragazza, il lavoro d' impegno e il viaggio in auto, mi sentivo fuori giri come un motore imballato: avere vent' anni allora era come averne diciassette adesso, e io guidavo come un cretino. Ben che non ero ancora tanto pratico, e poi il furgoncino tirava un po' l' ala, io cercavo di passare tutti, e di passarli facendogli la barba: e noti che a quel tempo l' autostrada non c' era ancora. La ragazza aveva paura, e io, sa come si è a quell' età, ero contento che lei avesse paura. A un certo momento la macchina ha starnutito due o tre volte e poi si è fermata: io ho aperto il cofano e mi sono messo a trafficare nel motore dandomi tutte le arie che potevo, ma per verità non ne capivo niente, e il difetto non l' ho trovato. Dopo un poco la ragazza ha perso la pazienza: io non volevo, ma lei ha fermato un motociclista della Stradale che ci desse una mano. In un momento, lui ha infilato uno stecco dentro il serbatoio e mi ha fatto vedere che non c' era più neanche una goccia di benzina: e difatti io lo sapevo che l' indicatore era guasto, ma me n' ero dimenticato per via della ragazza. Lui se n' è andato senza fare commenti, ma io mi sono sentito un po' ridimensionato, e forse è stato un bene, perché di lì in poi ho guidato più ragionevole e siamo arrivati senza incidenti. Ci siamo sistemati in un alberghetto da buon patto, in due camere separate per la convenienza, poi io mi sono presentato agli uffici dell' Azienda elettrica e lei se n' è andata a spasso per conto suo. Confronto a certi altri che ho fatto dopo, e qualcuno gliel' ho già raccontato, quello non era un lavoro gran che, ma io era il mio primo lavoro fuori officina e mi sentivo pieno di entusiasmo. Mi hanno condotto a un traliccio già quasi finito, mi hanno spiegato che l' altro montatore si era messo in mutua, mi hanno dato i disegni d' insieme e i dettagli dei nodi e mi hanno piantato lì. Era un traliccio in tubolari zincati, di quelli a forma di Y: era a un' altezza sui 1.00 metri, e all' ombra delle rocce c' era ancora qualche chiazza di neve, ma i prati erano già pieni di fiori; si sentiva l' acqua che scorreva e gocciolava da tutte le parti come se avesse piovuto, ma invece era il disgelo, perché di notte gelava ancora. Il traliccio era alto trenta metri; c' erano già i sollevatori piazzati, e a terra il bancone dei carpentieri che preparavano i pezzi per la saldatura. Mi hanno guardato con un' aria strana, e sul momento non ho capito perché: poi, quando hanno preso un po' più di confidenza, è venuto fuori che il montatore di prima non era in mutua, ma in infortunio, e che insomma gli era mancato un piede, era volato giù per fortuna non tanto dall' alto, e in definitiva era in ospedale con diverse costole rotte. Hanno creduto bene di dirmelo non per farmi paura, ma perché erano gente di buon senso e vecchi del mestiere, e a vedermi così, tutto allegro e gridellino, con la ragazza sotto che mi guardava, e io che facevo l' erlo a venti metri di quota, senza neppure la cinta ...." Ho dovuto interrompere la narrazione per causa dell' erlo. La locuzione mi era nota ("fare l' erlo" vuol dire press' a poco "mostrare baldanza", "fare il gradasso"), ma speravo che Faussone me ne spiegasse l' origine, o almeno mi chiarisse che cosa è un erlo. Non siamo andati molto lontano: lui sapeva vagamente che l' erlo è un uccello, e che appunto fa l' erlo con la sua femmina per indurla alle nozze, ma niente di più. In seguito, e per conto mio, ho svolto qualche ricerca, da cui è risultato che l' erlo è lo Smergo Maggiore, una specie di anitra dalla bella livrea, ormai molto raro in Italia; ma nessun cacciatore ha potuto confermarmi che il suo comportamento sia così peculiare da giustificare la metafora che è tuttora largamente usata. Faussone ha ripreso, con un' ombra di fastidio nella voce: "Già, perché io di cantieri ormai ne ho girati tanti, in Italia e fuori: delle volte ti sotterrano sotto i regolamenti e le precauzioni neanche tu fossi un deficiente oppure un bambino appena nato, specialmente all' estero; delle altre ti lasciano fare quello che diavolo vuoi perché tanto, anche se ti rompi la testa, l' assicurazione ti paga per nuovo: ma in tutti e due i casi, se non hai prudenza tu per conto tuo, presto o tardi finisci male, e la prudenza è più difficile da imparare che il mestiere. Per solito si impara dopo, e è ben difficile che uno la impari senza passare dei guai: fortunato quello che i guai li passa subito e piccoli. Adesso ci sono gli ispettori dell' infortunio, che ficcano il naso dappertutto, e fanno bene; ma anche se fossero tutti dei padreterni, e sapessero i trucchi di tutti i lavori, che poi non è neanche possibile perché di lavori e di trucchi ce n' è sempre di nuovi: bene, lei crede che non capiterebbe più niente? Sarebbe come credere che se tutti obbedissero al codice della strada non succederebbero più incidenti d' auto: eppure mi dica se conosce un guidatore che non ha mai avuto un incidente. Ci ho pensato su tante volte: bisogna che gli incidenti non vengano, ma vengono, e bisogna imparare a stare sempre con gli occhi aperti così; oppuramente cambiare mestiere. Bene, se io sono arrivato intero alla fine di quel lavoro che le dicevo, e senza neanche un livido, è proprio perché c' è un dio per i ciucchi e per gli innamorati. Ma guardi che io non ero né uno né l' altro: quello che mi importava era di fare bella figura con la ragazza che mi stava a guardare dal prato, proprio come dicono che faccia questo erlo con la sua erla. Se ci ripenso mi viene freddo ancora adesso, e sì che sono passati dei begli anni. Andavo su e giù per il traliccio attaccandomi alle traverse, senza passare mai per la scaletta alla marinara, lesto come Tarzan; per fare le saldature, invece di sedermi o mettermi a cavallo, come fanno le persone di senso, stavo in piedi, o magari anche su un piede solo, e alé, giù col cannello, e il disegno lo guardavo e non lo guardavo. Bisogna proprio dire che l' assistente contrario era una brava persona, o forse non ci vedeva bene, perché quando io ho dato il lavoro per finito, lui si è arrampicato su piano piano, con un' aria da papalotto, e di tutte le mie saldature, che saranno state più di duecento, me ne ha fatte rifare solo una dozzina: eppure me ne accorgevo bell' e da solo che le mie erano degli scarabocchi, tutte grottolute e piene di soffiature, mentre lì vicino c' erano quelle del montatore che si era fatto male, che sembravano ricamate; ma vede bene come è giusto il mondo, lui che era prudente era caduto, e io che facevo il balengo tutto il tempo non mi sono fatto niente. E bisogna anche dire che, o le mie saldature ben che storte erano robuste, o che il progetto era abbondoso, perché quel traliccio è ancora lì, e sì che di inverni ne ha già visti una quindicina. Beh sì, io questa debolezza ce l' ho: non è che mi tocchi di andare fino in India o in Alasca, ma se ho fatto un lavoro, per il bene o per il male, e non è troppo fuori mano, ogni tanto mi piace andarlo a trovare, come si fa con i parenti di età, e come faceva mio padre con i suoi lambicchi; così, se una festa non ho niente di meglio da fare, prendo su e vado. Quel traliccio che le dicevo, poi, lo vado a trovare volentieri, anche se è niente di speciale e fra tutti quelli che passano di lì non ce n' è uno che gli getti un occhio: perché è stato in sostanza il mio primo lavoro, e anche per via di quella ragazza che mi ero portato appresso. Io sulle prime credevo che fosse una ragazza un po' strana, perché non avevo esperienza e non sapevo che tutte le ragazze sono strane, o per un verso o per un altro, e se una non è strana vuol dire che è ancora più strana delle altre, appunto perché è fuori quota, non so se mi spiego. Era una della Calabria, voglio dire che i suoi erano arrivati dalla Calabria, ma lei le scuole le aveva fatte qui da noi, e che venisse da quelle terre si capiva solo un poco dai capelli e dal colorito, e perché era un po' piccola: dal parlare non si conosceva. Per venire in montagna con me aveva avuto da dire con i suoi, ma non tanto, perché erano sette figli e uno più uno meno non ci facevano neanche caso, e poi era la più grande e era maestra, così aveva abbastanza indipendenza. Le dicevo che mi era sembrata strana, ma più che altro era strana la situazione, perché anche lei era la prima volta che prendeva il volo fuori della famiglia e fuori della città, e per giunta io l' avevo portata in dei posti dove lei non c' era mai stata, e si faceva meraviglia di tutto, a cominciare dalla neve d' estate e del cine che facevo io per farle impressione. Basta, la prima sera lassù non me la dimenticherò mai. Era fuori stagione, in quell' albergo c' eravamo solo noi due, e io mi sentivo il padrone del mondo. Abbiamo ordinato un desinare da gran signori, perché, magari lei non tanto, ma io, dopo quella giornata passata all' aperto e tutte le mie ginnastiche, avevo un appetito da suonatori; e abbiamo anche bevuto parecchio. Io il vino lo tengo bene, e del resto lei lo sa, ma lei, tra il sole che aveva preso, e il vino che non c' era abituata, e il fatto di essere noi due soli lì come in un deserto, e la poca gente che c' era non ci conosceva, e quell' aria fina: sta di fatto che le era venuto il fou rire, parlava a ruota libera mentre invece per solito era abbastanza riservata, e più che tutto era sbafumata da fare impressione; io credo perfino che avesse qualche lineetta di febbre, perché a chi non ci ha l' abitudine il sole fa quell' effetto lì. Insomma a farla corta dopo cena abbiamo fatto due passi fuori, che c' era ancora un po' di chiaro, ma faceva già fresco e lei si vedeva bene che non aveva il piede sicuro, o forse anche faceva finta, si attaccava tutta a me e diceva che aveva voglia di andare a dormire. Così l' ho portata a letto, non nel suo, si capisce, perché la storia delle due camere era solo per l' occhio del mondo, come se poi lassù ci fosse stato qualcuno che guardava i casi nostri. E non fa neppure bisogno che io le stia a raccontare di quella notte, perché lei se lo immagina da solo e del resto queste cose uno se ne ha bisogno non ha nessuna difficoltà a documentarsi. In tre giorni di lavoro io avevo finito con le saldature, e come anche tutti gli altri tralicci erano pronti, era ora di cominciare a tendere i cavi. Sa, a vederli dal basso sembrano fili da cucire, ma sono di rame, sui dieci millimetri, insomma mica tanto maneggevoli. Certo che in confronto con quell' altra tesatura in India che le ho raccontato questo era un lavoro più semplice, ma bisogna contare intanto che era il mio primo lavoro, e poi che la tensione va regolata precisa, specie per i due cavi laterali, quelli che sono appesi di fuori delle due branche dell' Y, altrimenti è tutta la base del traliccio che va in torsione. Ma non abbia paura, questa è una storia senza incidenti, salvo quello del montatore che era venuto prima di me; e neanche incidenti dopo non ne sono venuti, voglio dire al traliccio, che infatti è ancora lassù che sembra nuovo, come le ho già raccontato. Perché sa, fra un elettrodotto e un ponte sospeso, come quello famoso in India, c' è una bella differenza, per il fatto che sui ponti ci passa la gente e sugli elettrodotti solo i chilovattora; insomma gli elettrodotti sono un po' come i libri che scrive lei, che saranno magari bellissimi, ma insomma se viceversa fossero un po' scarsi, parlando con licenza non muore nessuno e ci rimette solo l' utente che li ha comperati. Tendere i cavi, a regola, non sarebbe stato della mia partita, e avrei dovuto tornare, ma io, dopo che avevo finito di saldare e mi avevano dato il collaudo, son filato negli uffici e mi sono offerto come tenditore, perché così la storia con la ragazza sarebbe andata avanti ancora qualche giorno. Devo dire che a quell' epoca avevo una faccia di bronzo che adesso non me la sogno neanche: non saprei dire perché, forse è soltanto che in quella occasione ne avevo bisogno, e che la funzione sviluppa l' organo. Sta di fatto che hanno telefonato a Torino, si sono messi d' accordo e mi hanno prolungato l' ingaggio; non è che io fossi più furbo di loro, è che veramente la squadra erano tutte leccie, e uno in più, modestia a parte abbastanza robusto, gli faceva comodo. Bene, vuol credere? Io non mi rendevo conto, ma, almeno come si faceva a quel tempo, era proprio un lavoro da bestie, che al confronto il lavoro della Lancia era di signorine. Sa, il cavo di rame è pesante, è rigido e insieme è delicato, perché è fatto a treccia, e se fregando sui sassi si lesiona uno dei fili, addio, si disfa tutto come quando si smagliano le calze, e bisogna scartare diversi metri e fare due giunte, sempre che il committente sia d' accordo: e in tutte le maniere vien fuori un brutto lavoro. E allora, perché non freghi sul terreno, bisogna tenerlo alto e tirare ben forte che non si spanci, e svolgere la bobina dal di sopra invece che dal di sotto, appunto per guadagnare altezza; insomma la nostra squadra, che poi esclusi i presenti era una dozzina di riformati, mi faceva venire in mente Volga Volga, con la differenza che invece che fino alla morte si tirava solo fino alle sei di sera. Io mi facevo coraggio pensando alla ragazza, ma intanto ogni giorno che passava mi venivano sempre più vesciche sulle mani, che per stare poi con la ragazza erano una noia, ma mi dava ancora più noia farmi vedere da lei attaccato al cavo come un asino al carretto. Ho cercato di farmi mettere con i sollevatori, cioè con quelli che tirano su da terra la tesata di cavo e la piazzano attaccata agli isolatori, ma non c' è stato verso, sa bene, quando un lavoro è comodo e ben pagato nasce subito la camorra. Niente: mi è toccato andare avanti col volgavolga per tutta la settimana, e gli ultimi due giorni era in salita e il cavo oltre che le mani mi sgarognava la spalla. Mentre che io ruscavo, la ragazza andava in giro per il paese a parlare con la gente, e una bella sera mi ha detto qual era il suo programma per il week-end. Io veramente, soltanto il fatto che un programma pur che sia lo avesse fatto lei mentre che io stavo attaccato al cavo, mi faceva girare un po' l' anima ma ho fatto finta di niente per cavalleria; o almeno ho cercato di far finta di niente, ma la ragazza rideva e diceva che si vedeva dalla maniera che mi grattavo il naso. Avevo anche poi delle ragioni più buone, e cioè che dopo sei giorni di quel lavoro attaccato ai cavi avevo più voglia di dormire che di arrampicarmi su per le montagne: o magari di fare l' amore, ma sempre a letto insomma. Invece no; le avevano riempito la testa con la faccenda della natura, e che in una valle vicino a quella dell' elettrodotto c' era un posto fantastico dove si vedevano i ghiacciai e gli stambecchi e le montagne della Svizzera e perfino le morene che io non ho mai capito cosa siano e credevo che fossero dei pesci buoni da mangiare. Insomma a farla corta lei ha capito subito qual è il mio lato debole, che è quello dell' onore: un po' per scherzo e un po' sul serio mi ha dato del patamollo e del pelandrone, perché ben che fosse delle Calabrie il nostro parlare lo ha imparato fin da bambina, sta di fatto che il sabato, subito dopo la sirena del cantiere, lei mi ha forato con lo spillo tutte le vesciche nuove della giornata, mi ha messo la tintura di iodio sulla farlecca che avevo sulla spalla, abbiamo fatto su i sacchi e siamo partiti. Guardi, non lo so neanche io perché sto a raccontarle questa storia. Forse è per via di questo paese, di questa pioggia che non finisce mai e delle macchine che non ci vengono a prendere: è per via del contrasto, insomma. Sì, perché poi aveva ragione lei, la ragazza: era veramente un bel paesaggio. E anche per un altro contrasto, a pensarci bene, fra avere vent' anni e averne trentacinque, e fra fare una cosa per la prima volta e farla quando si è fatta l' abitudine; ma dirle queste cose a lei, che di anni ne ha parecchi più di me, ho idea che non faccia neanche bisogno. Lei si era informata, come le avevo detto, e aveva deciso che il nostro viaggio di nozze (lei diceva proprio così, ma io non ero tanto convinto) lo dovevamo fare a un bivacco fisso che adesso non mi ricordo neppure il nome, però il posto è difficile che me lo dimentichi, e anche la notte che ci abbiamo passata; non perché ci abbiamo fatto l' amore, ma per il contorno. Adesso mi hanno detto che li mettono giù con gli elicotteri, ma a quel tempo questi bivacchi fissi non erano gran che, e la più parte delle persone, anche quelli che dormono nella biglietteria di Porta Nuova, se li obbligassero a dormire lì dentro farebbero reclamo. Erano come delle mezze botti di lamiera, di due metri per due, con una portina per entrare come quella dei gatti e dentro soltanto un materasso di crine, qualche coperta, una stufetta grossa come una scatola di scarpe, e se andava bene un po' di pane secco lasciato lì da quelli che ci erano passati prima. Essendo appunto che avevano la forma di un mezzo cilindro erano alti un metro più o meno, e bisognava entrarci a quattro gambe; sul tetto c' erano delle bandelle di rame che servivano da parafulmine, ma soprattutto come controventature perché la tempesta non portasse via tutto, e anche, piantata dritta, una pala col manico lungo più di due metri, perché sporgesse dalla neve nelle mezze stagioni e facesse da segnale, e serviva appunto anche a spalare la neve quando il bivacco rimaneva coperto. Per l' acqua non c' era problemi: quel bivacco era montato su uno sprone di roccia alto due metri sopra un ghiacciaio in piano. Io avevo una gran voglia di andarci a spasso sopra, ma la ragazza mi ha detto che era pericoloso per via dei crepacci, e che anzi se uno finiva in un crepaccio non venivano neppure a tirarlo su perché tanto si sapeva già che era colpa sua, e poi del resto non valeva neanche la pena perché il più delle volte uno arriva in fondo che è già bell' e morto per i colpi e per lo sbordimento, e se non è morto muore di freddo prima che arrivino i soccorsi. Le avevano spiegato così giù a valle nell' ufficio delle guide; se poi sia tutto vero o no io non glielo saprei garantire, perché a vedere due merli come noi avranno magari preso le loro precauzioni. Le dicevo che per l' acqua non c' erano problemi, perché faceva caldo da parecchie settimane, la neve sul ghiacciaio si era sciolta, il ghiaccio era rimasto nudo, e nel ghiaccio l' acqua aveva scavato come dei canaletti verdolini, una quantità, tutti paralleli come se li avessero fatti a tratteggio. Vede che per trovare delle cose strane tante volte non c' è bisogno di andare in Alasca. E anche l' acqua che gli correva dentro aveva un gusto che non avevo mai sentito prima, e che non glielo saprei spiegare, perché sa bene che i gusti e gli odori è difficile spiegarli fuori che con degli esempi, come chi dicesse odore d' aglio o gusto di salame; ma direi proprio che quell' acqua aveva gusto di cielo, e difatti veniva dal cielo dritta dritta. Neanche per il mangiare c' erano problemi, perché c' eravamo portati dietro tutto quello che ci voleva e poi abbiamo raccolto della legna per la strada e abbiamo perfino acceso un fuoco e fatto cucina come costumava una volta; e quando è venuto notte, ci siamo accorti di avere sopra la testa un cielo come io non l' avevo mai visto e neppure sognato, talmente pieno di stelle che mi sembrava fino fuori tolleranza, voglio dire che per due come noi, gente di città, un montatore e una maestra, era un' esagerazione e un lusso sprecato. Come si è folli a vent' anni! Pensi che abbiamo passato quasi metà della notte a domandarci perché le stelle sono tante così, a cosa servono, da quanto tempo ci sono, e anche a cosa serviamo noi e così via, e cosa succede dopo morti, insomma delle domande che per uno con la testa sul collo non hanno nessun senso, specie per un montatore. E la seconda metà della notte l' abbiamo passata come lei s' immagina, ma in un silenzio così completo, e in un buio così spesso, che ci sembrava di essere in un altro mondo e avevamo quasi paura, anche perché ogni tanto si sentivano dei rumori che non si capivano, come dei tuoni lontani o come un muro che si diroccasse: lontani ma profondi, che facevano tremolare la roccia sotto le nostre schiene. Ma poi, a un certo punto della notte, si è cominciato a sentire un rumore diverso, e quello sì che mi ha fatto venire paura senza più nessun quasi, paura secca, tanto che io mi sono messo le scarpe e ho fatto per andare fuori a vedere che cosa c' era, ma con così poca convinzione che quando la ragazza mi ha detto in un soffio "no, no, lascia stare che prendi freddo" ho subito fatto marcia indietro e mi sono rimesso sotto la coperta. Sembrava una sega, ma una sega coi denti radi e spuntati, che cercasse di segare la lamiera del bivacco, e il bivacco faceva da cassa armonica e ne veniva fuori un rabadan mai sentito. Raschiava alla stracca, uno o due colpi e poi silenzio e poi di nuovo un colpo o due; fra una raschiata e l' altra si sentiva dei sbuffi e come dei colpi di tosse. Morale della favola, con la scusa del freddo siamo rimasti chiusi lì dentro fino a quando si è visto un filino di luce tutto intorno alla porta: anche perché quel rumore di sega non si sentiva più, soltanto i soffi e sempre più piano. Sono uscito fuori, e c' era uno stambecco stravaccato contro la parete del bivacco: era grosso ma sembrava malato, era brutto, tutto spelacchiato, perdeva le bave e tossiva. Forse stava per morire, e ci ha fatto pena a pensare che avesse voluto svegliarci perché lo aiutassimo, o che avesse voluto venire a morire vicino a noi. Vuol dire? È stato come un segnale, come se grattando con i corni contro la lamiera avesse voluto dirci una cosa. Con quella ragazza io credevo che fosse un principio, e invece era una fine. Tutta quella giornata non abbiamo più saputo cosa dirci; e poi, dopo che siamo tornati a Torino, io le telefonavo e le facevo delle proposte, e lei non diceva di no, ma consentiva con un' aria da lasciami stare che ci voleva poco a capire. Non so, si vede che ne aveva trovato uno più giusto di me, magari appunto uno di quelli che bollano la cartolina: e mica detto che non abbia avuto ragione, considerato la vita che faccio io. Per esempio, adesso sarebbe sola". Si è spalancata la porta, ed insieme con una folata di aria odorosa di funghi è entrato un autista infagottato in una tuta impermeabile lucida di pioggia: sembrava un palombaro. Ci ha fatto capire che la macchina era arrivata e ci aspettava fuori, davanti al cancello. Due? Non due, una, ma molto grande. Gli abbiamo spiegato che dovevamo andare da due parti diverse, ma ha detto che non aveva importanza: avrebbe accompagnato prima me e poi lui, o viceversa, a nostra scelta. Davanti al cancello non abbiamo trovato una macchina, bensì un pullman da turismo, con cinquanta posti, tutto per noi: saremmo arrivati ai rispettivi posti di lavoro, lui con due ore di ritardo, e io con almeno tre. "Paese senza tempo", ha ripetuto Faussone.

Pagina 0127

La tregua

679915
Levi, Primo 1 occorrenze

Eravamo partiti con una certa baldanza: il tempo era splendido, eravamo abbastanza ben nutriti, e l' idea di una lunga camminata nel cuore di quel leggendario paese, le paludi del Pripet, aveva in sé un certo fascino. Ma mutammo opinione ben presto. In nessuna altra parte d' Europa, credo, può accadere di camminare per dieci ore, e di trovarsi sempre allo stesso posto, come in un incubo: di avere sempre davanti a sé la strada diritta fino all' orizzonte, sempre ai due lati steppa e foresta, e sempre alle spalle altra strada fino all' orizzonte opposto, come la scia di una nave; e non villaggi, non case, non un fumo, non una pietra miliare che in qualche modo segnali che un po' di spazio è pure stato conquistato; e non incontrare anima viva, se non voli di cornacchie, e qualche falco che incrocia pigramente nel vento. Dopo qualche ora di marcia, la nostra colonna, inizialmente compatta, si snodava ormai per due o tre chilometri. In coda procedeva una carretta militare russa, tirata da due cavalli e guidata da un sottufficiale corrucciato e mostruoso: aveva perso in battaglia le due labbra, e dal naso al mento il suo viso era un teschio terrificante. Avrebbe dovuto, penso, raccogliere gli esausti: si occupava invece diligentemente di recuperare i bagagli che a mano a mano venivano abbandonati sulla pista da gente che per la stanchezza rinunciava a portarli oltre. Per un poco ci illudemmo che li avrebbe restituiti all' arrivo: ma il primo che provò ad arrestarsi e ad attendere la carretta fu accolto con urla, schiocchi di frusta e minacce inarticolate. In questo modo finirono i due volumi di ostetricia, che costituivano di gran lunga la parte più pesante del mio bagaglio personale. Al tramonto, il nostro gruppo procedeva ormai isolato. Camminavano accanto a me il mite e paziente Leonardo; Daniele, zoppicante ed inferocito dalla sete e dalla stanchezza; il signor Unverdorben, con un suo amico triestino; e Cesare, naturalmente. Ci arrestammo a prendere fiato all' unica curva che interrompeva la fiera monotonia della strada; c' era una capanna scoperchiata, forse l' unico resto visibile di un villaggio spazzato dalla guerra. Dietro, scoprimmo un pozzo, a cui ci dissetammo con voluttà. Eravamo stanchi e avevamo i piedi gonfi e piagati. Io avevo perso da tempo le mie scarpe da arcivescovo, ed avevo ereditato da chissà chi un paio di scarpette da ciclista, leggere come piume; ma mi andavano strette, ed ero costretto a toglierle ad intervalli e a camminare scalzo. Tenemmo un breve consiglio: e se quello ci faceva camminare tutta la notte? Non ci sarebbe stato da stupirsene: una volta a Katowice i russi ci avevano fatto scaricare stivali da un treno per ventiquattr' ore filate, e anche loro lavoravano con noi. Perché non imboscarci? A Staryje Doroghi saremmo arrivati con tutta calma il giorno dopo, il russo ruolini per fare un appello non ne aveva sicuro, la notte si annunciava tiepida, acqua ce n' era, e qualcosa per cena, fra tutti e sei, non molto, ne avevamo. La capanna era in rovina, ma un po' di tetto per ripararci dalla rugiada c' era ancora. _ Benissimo, _ disse Cesare. _ Io ci sto. Per stasera, io mi voglio fare una gallinella arrostita. Così ci nascondemmo nel bosco finché la carretta con lo scheletro non fu passata, aspettammo che gli ultimi ritardatari se ne fossero andati dal pozzo, e prendemmo possesso del nostro luogo di bivacco. Stendemmo a terra le coperte, aprimmo i sacchi, accendemmo un fuoco, e cominciammo a preparare la cena, con pane, "kasa" di miglio e una scatola di piselli. _ Ma quale cena, _ disse Cesare; _ ma quali piselli. Voi non avete capito bene. Io stasera voglio fare festa, e mi voglio fare una gallinella arrostita. Cesare è un uomo indomabile: già me n' ero potuto convincere girando con lui i mercati di Katowice. Fu inutile rappresentargli che trovare un pollo di notte, in mezzo alle paludi del Pripet, senza sapere il russo e senza soldi per pagarlo, era un proposito insensato. Fu vano offrirgli doppia razione di "kasa" purché stesse quieto. _ Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo, ma poi non mi vedete più. Saluto voi e i russi e la baracca, e me ne vado, e torno in Italia da solo. Magari passando per il Giappone. Fu allora che mi offrii di accompagnarlo. Non tanto per la gallina o per le minacce: ma voglio bene a Cesare, e mi piace vederlo al lavoro. _ Bravo, Lapé, _ mi disse Cesare. Lapé sono io: così mi ha battezzato Cesare in tempi remoti, e così tuttora mi chiama, per la ragione seguente. Come è noto, in Lager avevamo i capelli rasati; alla liberazione, dopo un anno di rasatura, a tutti, e a me in specie, i capelli erano ricresciuti curiosamente lisci e morbidi: a quel tempo i miei erano ancora molto corti, e Cesare sosteneva che gli ricordavano la pelliccia di coniglio. Ora "coniglio", anzi, "pelle di coniglio", nel gergo merceologico di cui Cesare è esperto, si dice appunto Lapé. Daniele invece, il barbuto e ispido e aggrondato Daniele, assetato di vendetta e di giustizia come un antico profeta, si chiamava Corallì: perché, diceva Cesare, se piovono coralline (perline di vetro) te le infili tutte. _ Bravo, Lapé, _ mi disse: e mi spiegò il suo piano. Cesare è infatti un uomo dai folli propositi, ma li persegue poi con molto senso pratico. La gallina non se l' era sognata: dalla capanna, in direzione nord, aveva svagato un sentiero ben battuto, e quindi recente. Era probabile che conducesse a un villaggio: ora, se c' era un villaggio, c' erano anche le galline. Uscimmo all' aperto: era ormai quasi buio, e Cesare aveva ragione. Sul ciglio di una appena percettibile ondulazione del terreno, a forse due chilometri di distanza, fra tronco e tronco, si vedeva brillare un lumino. Così partimmo, inciampando in mezzo agli sterpi, inseguiti da sciami di voraci zanzare; portavamo con noi la sola merce di scambio di cui il nostro gruppo fosse risultato disposto a separarsi: i nostri sei piatti, comuni piatti di terraglia che i russi avevano a suo tempo distribuiti come casermaggio. Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: _ Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l' avreste una gallinella da vendere? _ Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra alle nostre teste. Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: _ A li morté: ve l' ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo! Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano profili umani sul ciglio dell' altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarmi per terra un' altra volta. Arrivammo finalmente al villaggio. Non erano più di cinque o sei case di legno intorno a una minuscola piazza, e su questa, ad attenderci, stava l' intera popolazione, una trentina di persone, in maggioranza contadine anziane, poi bimbi, cani, tutti in visibile allarme. Emergeva fra la piccola folla un gran vecchio barbuto, quello della fucilata: teneva ancora il moschetto a bilanci-arm. Cesare considerava ormai esaurita la sua parte, che era quella strategica, e mi richiamò ai miei doveri. _ Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno, e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire. Quella gente ci considerava con curiosità diffidente. Sembrava si fossero persuasi che, quantunque vestiti come due evasi, non dovevamo essere pericolosi. Le vecchiette avevano smesso di schiamazzare, ed anche i cani si erano acquietati. Il vecchio col fucile ci rivolgeva delle domande che non capivamo: io di russo non so che un centinaio di parole, e nessuna di esse si attagliava alla situazione, ad eccezione di "italianski". Così ripetei "italianski" diverse volte, finché il vecchio non cominciò a sua volta a dire "italianski" a beneficio dei circostanti. Intanto Cesare, più concreto, aveva cavato i piatti dal sacco, ne aveva disposto cinque bene in vista a terra come al mercato, e teneva il sesto in mano, dandogli stecche sull' orlo con l' unghia per far sentire che suonava giusto. Le contadine guardavano, divertite e incuriosite. _ Tarelki, _ disse una. _ Tarelki, da! _ risposi io, lieto di avere appreso il nome della merce che offrivamo: al che una di loro tese una mano esitante verso il piatto che Cesare andava mostrando. _ Eh, che ti credi? _ disse questi, ritirandolo vivamente: _ Mica li regaliamo _. E si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi? Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. "His fretus", vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire "pollo" e "uccello" in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile. Anche Cesare era perplesso. Cesare, nel suo intimo, non si era mai fatto pienamente capace che i tedeschi parlassero il tedesco, e i russi il russo, altro che per una stravagante malignità; era poi persuaso in cuor suo che solo per un raffinamento di questa stessa malignità essi pretendessero di non comprendere l' italiano. Malignità, o estrema e scandalosa ignoranza: aperta barbarie. Altre possibilità non c' erano. Perciò la sua perplessità andava rapidamente volgendosi in rabbia. Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo "coccodè": e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l' altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l' altra, faceva anche "coccodè": ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove. Perciò il risultato fu nullo. Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo, eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l' uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo così anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salì di un' ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato. Quando vidi che una delle vecchiette si avvicinava al barbone, e gli parlava nervosamente guardando dalla nostra parte, mi resi conto che la situazione era compromessa. Feci rialzare Cesare dalla sue innaturali positure, lo calmai, e con lui mi avvicinai all' uomo. Gli dissi: _ Prego, per favore, _ e lo condussi vicino a una finestra, da cui la luce di una lanterna illuminava abbastanza bene un rettangolo di terreno. Qui, penosamente conscio di molti sguardi sospettosi, disegnai per terra una gallina, completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione. Poi mi rialzai e dissi: _ Voi piatti. Noi mangiare. Seguì una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: _ Kura! Kùritsa! Era molto fiera e contenta di essere stata lei a risolvere l' enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci "kùritsa, kùritsa!": e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall' entusiasmo generale. La vecchina si inchinò, come una attrice al termine della sua parte; sparì e ricomparve dopo pochi minuti con una gallina in mano, già spennata. La fece dondolare burlescamente sotto il naso di Cesare, come controprova; e come vide che questi reagiva positivamente, allentò la presa, raccolse i piatti e se li portò via. Cesare, che se ne intende perché a suo tempo teneva banchetto a Porta Portese, mi assicurò che la curizetta era abbastanza grassa, e valeva i nostri sei piatti; la riportammo in baracca, svegliammo i compagni che già si erano addormentati, riaccendemmo il fuoco, cucinammo il pollo e lo mangiammo in mano, perché i piatti non li avevamo più.

Pagina 0150

L'altrui mestiere

680309
Levi, Primo 3 occorrenze

Non mi è facile parlare del rapporto che ho con lei: forse è di natura gattesca, come i gatti amo gli agi ma posso anche farne a meno, e mi sarei adattato abbastanza bene anche ad un alloggiamento disagiato, come varie volte mi è successo, e come mi succede quando vado in un albergo. Non credo che il mio modo di scrivere risenta dell' ambiente in cui vivo e scrivo, né credo che questo ambiente traspaia dalle cose che ho scritte. Devo quindi essere meno sensibile della media alle suggestioni ed influenze dell' ambiente, e non sono sensibile affatto al prestigio che l' ambiente conferisce, conserva o deteriora. Abito a casa mia come abito all' interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia.

Pagina 0003

Mi pare di aver detto abbastanza delle dotte bizzarrie di Queneau, e vorrei precisare: non sono soltanto capricci di un sapiente in vena di divertirsi. In questa cosmogonia hanno una funzione precisa; il calembour, il volgarismo, lo sberleffo goliardico troncano come una cesoia ogni sospetto di lievitazione retorica. È la stessa maniera che spesso adottano l' Ariosto e Heine; grazie ad essa, questi poeti restano leggibili ancora oggi ed anche ai non specialisti, mentre chi la ignora finisce nel limbo. È una legge a cui non si sfugge: l' autore che non sa ridere in proprio, magari anche di se stesso, finisce con l' essere oggetto di riso suo malgrado. Queneau, grande virtuoso del ridere, ottiene con la sua comicità quanto molti hanno tentato invano, fonde in un continuum omogeneo le troppo discusse "due culture". Non è un' impresa da poco. In questo poema eterodosso e barocco, ma fondamentalmente serio, affiorano una dottrina ed una poesia singolari, il cui accoppiamento non era più stato tentato dopo Lucrezio: ma Queneau è Queneau, e teme i voli protratti. La sua invocazione a Venere ricalca quella famosa che dà inizio al "De rerum natura", ma il suo impeto lirico è insieme solenne e buffone: alla poesia della scienza si lega inestricabilmente il gioco. È stata Venere, "mère des jeux des arts et de la tolérance", che ha donato le valli alle montagne, la donna all' uomo, il cilindro al pistone e il tender alla locomotiva. Grazie alla Dea, tutti gli animali, a lor luogo e tempo, traggono piacere dal pianeta "en y procréfoutant". Al testo bilingue fa seguito un' acutissima "Piccola guida alla Piccola cosmogonia", scritta da Italo Calvino che dell' autore è stato amico e seguace (e quanti sapori queneauiani si ritrovano nei suoi libri, dalle Cosmicomiche in poi!). Calvino ha accettato la sfida ed è stato al gioco: il suo commento, estremamente lucido, ha conservato tuttavia lo spirito e la leggerezza del testo, e si adopera con reverenza e pazienza a scioglierne i gomitoli; è un gioco intelligente anche questo. Con pazienza, sì: non inganniamo i lettori, è un libro che richiede pazienza, non è una lettura a basso costo. Calvino ha fatto opera di filologo, è risalito alle fonti, ha consultato i commenti di Jean Rostand, il celebre biologo ed amico di Queneau, ha interrogato naturalisti e chimici. Ha risolto molti enigmi ma non tutti: alcuni, l' autore stesso aveva ammesso di non saperli più spiegare, erano stati illuminazioni di un istante: ebbene, tanto meglio per il lettore amante del gioco, potrà magari venirne a capo lui. La pazienza del lettore sarà remunerata. Da questo testo labirintico scaturiscono tratti di poesia smagliante, e ad un tempo temi appassionanti ed attuali. La "Prosopopea di Ermete" che si legge nel canto terzo esprime a suo modo un' idea profonda e seria, la poesia delle origini: una intuizione panica dell' universo che è raro trovare presso altri poeti "autorizzati". La poesia risuona dappertutto intorno all' uomo attento: e non solo nella natura. "Il voit dans chaque science un registre bouillant. Les mots se gonfleront du suc de toutes choses"; c' è poesia nel ranuncolo e nella luna in primavera, ma anche nei vulcani, nel Calcio e nella funzione fenolo. "On parle des bleuets et de la marguerite, alors pourquoi pas de la pechblende pourquoi?" Come dargli torto? La fatica epica dei Curie, che dalla pechblenda ha condotto all' isolamento del Radio, aspetta invano il poeta che la sappia narrare. Il passo di cui parlo è il più denso del poema. Poco oltre, Mercurio così descrive l' autore ai lettori (la traduzione qui è mia ed è letterale): "costui, vedete, non ha nulla di didattico, che cosa didatterebbe dal momento che non sa quasi nulla?" È una delle chiavi dell' opera. Non la scienza è incompatibile con la poesia, ma la didattica, cioè la cattedra sulla pedana, l' intento dogmatico-programmatico-edificante. Queneau rifugge dai programmi, è il re dell' arbitrario: promette di passare in rassegna i cento elementi chimici, e poi, per ragioni pretestuose, si ferma allo Scandio, che ha il numero 21, e chiude la partita. In questa cosmogonia, che parte dal Caos e arriva all' automazione, la storia dell' umanità è polemicamente rattrappita in due soli versi. Ma dove coglie il destro di esprimere quello che sente, la gioia cosmica e biblica del principio, e insieme la necessità della fine, Queneau spiega le ali e dimostra la sua forza. La dimostra, nel suo sempre inaspettato modo, proprio negli ultimi versi del poema: dopo aver descritto la giovinezza della terra, la nascita della luna, il misterioso passaggio dai cristalli ai virus, i mostri primordiali, l' uomo e i suoi primi congegni, decolla con toni da "Excelsior" nell' apoteosi delle macchine calcolatrici: ma proprio qui, proprio come una vecchia divisumma in avaria, il suo canto si inceppa, si ripete come un disco lesionato, si blocca sugli infiniti dei verbi ed infine si arresta. Consummatum est, la cosmogonia è finita.

Pagina 0150

Noti che al massimo di informazione si può arrivare per diverse vie, alcune abbastanza sottili; una, fondamentale, è la scelta tra i sinonimi, che quasi mai sono equivalenti fra loro. Ce n' è sempre uno che è "più giusto" degli altri: ma spesso bisogna andarlo a cercare, a seconda del contesto, nel vecchio Tommaseo, o fra i neologismi del Nuovo Zingarelli, o fra i barbarismi stupidamente vietati dai tradizionalisti, o addirittura fra i termini di altre lingue; se il termine italiano manca, perché fare acrobazie? In questa ricerca, mi pare che sia importante mantenere viva la consapevolezza del significato originario di ogni vocabolo; se Lei ricorda ad esempio che "scatenare" voleva dire "liberare dalle catene", potrà usare il termine in modo più appropriato ed in sensi meno frusti. Non tutti i lettori si accorgeranno dell' artificio, ma tutti percepiranno almeno che la scelta non è stata ovvia, che Lei ha lavorato per loro, che non ha seguito la linea della massima pendenza. Dopo novant' anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti di travasare direttamente l' inconscio sulla pagina, io provo un bisogno acuto di chiarezza e razionalità, e credo che la maggior parte dei lettori la pensino allo stesso modo. Non è detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vari livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto. Non abbia paura di fare un torto al Suo es imbavagliandolo, non c' è pericolo, "l' inquilino del piano di sotto" troverà comunque il modo di manifestarsi, perché scrivere è denudarsi: si denuda anche lo scrittore più pulito. Se denudarsi non Le piace, si accontenti del Suo lavoro attuale. Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere. Gradisca i migliori saluti. Suo Primo Levi

Pagina 0234

Se questo è un uomo

680860
Levi, Primo 1 occorrenze

Col che, meine Herren, si era già perso abbastanza tempo, i Kommandos 96 e 97 si erano già avviati, avanti marsch, e, per cominciare, chi non avesse camminato al passo e allineato avrebbe avuto a che fare con lui. Era un Kapo come tutti gli altri Kapos. Uscendo dal Lager, davanti alla banda musicale e al posto di conta delle SS, si marcia per cinque, col berretto in mano, le braccia immobili lungo i fianchi e il collo rigido, e non si deve parlare. Poi ci si mette per tre, e allora si può tentare di scambiare qualche parola attraverso l' acciottolio delle diecimila paia di zoccoli di legno. Chi sono questi miei compagni chimici? Vicino a me cammina Alberto, è studente del terzo anno, anche questa volta siamo riusciti a non separarci. Il terzo alla mia sinistra non l' ho mai visto, sembra molto giovane, è pallido come la cera, ha il numero degli olandesi. Anche le tre schiene davanti a me sono nuove. Indietro è pericoloso voltarsi, potrei perdere il passo o inciampare; pure provo per un attimo, ho visto la faccia di Iss Clausner. Finché si cammina non c' è tempo di pensare, bisogna badare di non togliere gli zoccoli a quello che zoppica davanti e di non farseli togliere da quello che zoppica dietro; ogni tanto c' è un cavo da scavalcare, una pozzanghera viscida da evitare. So dove siamo, di qui sono già passato col mio Kommando precedente, è la H-Strasse, la strada dei magazzini. Lo dico ad Alberto: si va veramente al Cloruro di Magnesio, almeno questa non è stata una storia. Siamo arrivati, scendiamo in un vasto interrato umido e pieno di correnti d' aria; è questa la sede del Kommando, quella che qui si chiama Bude. Il Kapo ci divide in tre squadre; quattro a scaricare i sacchi dal vagone, sette a trasportarli giù, quattro a impilarli nel magazzino. Questi siamo io con Alberto, Iss e l' olandese. Finalmente si può parlare, e a ciascuno di noi quello che Alex ha detto sembra il sogno di un pazzo. Con queste nostre facce vuote, con questi crani tosati, con questi abiti di vergogna, fare un esame di chimica. E sarà in tedesco, evidentemente; e dovremo comparire davanti a un qualche biondo Ario Doktor sperando che non dovremo soffiarci il naso, perché forse lui non saprà che noi non possediamo fazzoletto, e non si potrà certo spiegarglielo. E avremo addosso la nostra vecchia compagna fame, e stenteremo a stare immobili sulle ginocchia, e lui sentirà certamente questo nostro odore, a cui ora siamo avvezzi, ma che ci perseguitava i primi giorni: l' odore delle rape e dei cavoli crudi cotti e digeriti. Così è, conferma Clausner. Hanno dunque i tedeschi tanto bisogno di chimici? O è un nuovo trucco, una nuova macchina "pour faire chier les Juifs?" Si rendono conto della prova grottesca e assurda che ci viene richiesta, a noi non più vivi, noi già per metà dementi nella squallida attesa del niente? Clausner mi mostra il fondo della sua gamella. Là dove gli altri incidono il loro numero, e Alberto ed io abbiamo inciso il nostro nome, Clausner ha scritto: "Ne pas chercher à comprendre". Benché noi ci pensiamo non più di qualche minuto al giorno, e anche allora in uno strano modo staccato ed esterno, noi sappiamo bene che finiremo in selezione. Io so che non sono della stoffa di quelli che resistono, sono troppo civile, penso ancora troppo, mi consumo al lavoro. Ed ora so anche che mi salverò se diventerò Specialista, e diventerò Specialista se supererò un esame di chimica. Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute. Passarono tre giorni, tre dei soliti immemorabili giorni, così lunghi mentre passavano e così brevi dopo che erano passati, e già tutti si erano stancati di credere all' esame di chimica. Il Kommando era ridotto a dodici uomini: tre erano scomparsi nel modo consueto di laggiù, forse nella baracca accanto, forse cancellati dal mondo. Dei dodici, cinque non erano chimici; tutti e cinque avevano subito chiesto ad Alex di ritornare ai loro precedenti Kommandos. Non evitarono le percosse, ma inaspettatamente, e da chissà quale autorità, fu deciso che rimanessero, aggregati come ausiliari al Kommando Chimico. Venne Alex nella cantina del Clormagnesio e chiamò fuori noi sette, per andare a sostenere l' esame. Ecco noi, come sette goffi pulcini dietro la chioccia, seguire Alex su per la scaletta del Polymerisations-Büro. Siamo sul pianerottolo, una targhetta sulla porta con i tre nomi famosi. Alex bussa rispettosamente, si cava il berretto, entra; si sente una voce pacata; Alex riesce: _ Ruhe, jetzt. Warten _. Aspettare in silenzio. Di questo siamo contenti. Quando si aspetta, il tempo cammina liscio senza che si debba intervenire per cacciarlo avanti, mentre invece quando si lavora ogni minuto ci percorre faticosamente e deve venire laboriosamente espulso. Noi siamo sempre contenti di aspettare, siamo capaci di aspettare per ore con la completa ottusa inerzia dei ragni nelle vecchie tele. Alex è nervoso, passeggia su e giù, e noi ogni volta ci scostiamo al suo passaggio. Anche noi, ciascuno a suo modo, siamo inquieti; solo Mendi non lo è. Mendi è rabbino; è della Russia Subcarpatica, di quel groviglio di popoli in cui ciascuno parla almeno tre lingue, e Mendi ne parla sette. Sa moltissime cose, oltre che rabbino è sionista militante, glottologo, è stato partigiano ed è dottore in legge ; non è chimico ma vuol tentare ugualmente, è un piccolo uomo tenace, coraggioso e acuto. Bàlla ha una matita e tutti gli stanno addosso. Non siamo sicuri se saremo ancora capaci di scrivere, vorremmo provare. Kohlenwasserstoffe, Massenwirkungsgesetz. Mi affiorano i nomi tedeschi dei composti e delle leggi: provo gratitudine verso il mio cervello, non mi sono più occupato molto di lui eppure mi serve ancora così bene. Ecco Alex. Io sono un chimico: che ho a che fare con questo Alex? Si pianta sui piedi davanti a me, mi riassetta ruvidamente il colletto della giacca, mi cava il berretto e me lo ricalca in capo, poi fa un passo indietro, squadra il risultato con aria disgustata e volta le spalle bofonchiando: _ Was für ein Muselmann Zugang! _ che nuovo acquisto scalcinato! La porta si è aperta. I tre dottori hanno deciso che sei candidati passeranno in mattinata. Il settimo no. Il settimo sono io, ho il numero di matricola più elevato, mi tocca ritornare al lavoro. Solo nel pomeriggio viene Alex a prelevarmi; che disdetta, non potrò neppure comunicare cogli altri per sapere "che domande fanno". Questa volta ci siamo proprio. Per le scale, Alex mi guarda torvo, si sente in qualche modo responsabile del mio aspetto miserevole. Mi vuol male perché sono italiano, perché sono ebreo e perché, fra tutti, sono quello che più si scosta dal suo caporalesco ideale virile. Per analogia, pur senza capirne nulla, e di questa sua incompetenza essendo fiero, ostenta una profonda sfiducia nelle mie probabilità per l' esame. Siamo entrati. C' è solo il Doktor Pannwitz, Alex, col berretto in mano, gli parla a mezza voce: _ ... un italiano, in Lager da tre mesi soltanto, già mezzo kaputt .... Er sagt er ist Chemiker ... _ ma lui Alex sembra su questo faccia le sue riserve. Alex viene brevemente congedato e relegato da parte, ed io mi sento come Edipo davanti alla Sfinge. Le mie idee sono chiare, e mi rendo conto anche in questo momento che la posta in gioco è grossa; eppure provo un folle impulso a scomparire, a sottrarmi alla prova. Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Häftling 174517, sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare. Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò. Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riempisse il suo tempo, all' infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell' anima umana. Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l' essenza della grande follia della terza Germania. Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: "Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile". E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: "Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato ...." Ed incominciò l' interrogatorio, mentre nel suo angolo sbadigliava e digrignava Alex, terzo esemplare zoologico. _ Wo sind Sie geboren? _ mi dà del Sie, del lei: il Doktor Ingenieur Pannwitz non ha il senso dell' umorismo. Che sia maledetto, non fa il minimo sforzo per parlare un tedesco un po' comprensibile. _ Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum laude, _ e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene, come la riconosco, è la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano. L' esame sta andando bene. A mano a mano che me ne rendo conto, mi pare di crescere di statura. Ora mi chiede su quale argomento ho fatto la tesi di laurea. Devo fare uno sforzo violento per suscitare queste sequenze di ricordi così profondamente lontane: è come se cercassi di ricordare gli avvenimenti di una incarnazione anteriore. Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie "Misure di costanti dielettriche" interessano particolarmente questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi chiede se so l' inglese, mi mostra il testo del Gattermann, e anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiù, dall' altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto anno, a casa mia. Adesso è finito: l' eccitazione che mi ha sostenuto lungo tutta la prova cede d' un tratto ed io contemplo istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca. _ Los, ab! _ Alex rientra in scena, io sono di nuovo sotto la sua giurisdizione. Saluta Pannwitz sbattendo i tacchi, e ne ottiene in cambio un lievissimo cenno delle palpebre. Io brancolo per un attimo nella ricerca di una formula di congedo appropriata: invano, in tedesco so dire mangiare, lavorare, rubare, morire; so anche dire acido solforico, pressione atmosferica e generatore di onde corte, ma non so proprio come si può salutare una persona di riguardo. Eccoci di nuovo per le scale. Alex vola gli scalini: ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge. Si volge dal basso a guardarmi torvo, mentre io discendo impacciato e rumoroso nei miei zoccoli spaiati ed enormi, aggrappandomi alla ringhiera come un vecchio. Pare che sia andata bene, ma sarebbe insensato farci conto. Conosco già abbastanza il Lager per sapere che non si devono mai fare previsioni, specie se ottimistiche. Quello che è certo, è che ho passato una giornata senza lavorare, e quindi stanotte avrò un po' meno fame, e questo è un vantaggio concreto e acquisito. Per rientrare alla Bude, bisogna attraversare uno spiazzo ingombro di travi e di tralicci metallici accatastati. Il cavo d' acciaio di un argano taglia la strada, Alex lo afferra per scavalcarlo, Donnerwetter, ecco si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io l' ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e sarebbe assai stupito, l' innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque.

Pagina 0128

Il sistema periodico

681123
Levi, Primo 1 occorrenze

Dovevo aver superato la crisi più dura, quella dell' inserimento nell' ordine del Lager, e dovevo aver sviluppato una strana callosità, se allora riuscivo non solo a sopravvivere, ma anche a pensare, a registrare il mondo intorno a me, e perfino a svolgere un lavoro abbastanza delicato, in un ambiente infettato dalla presenza quotidiana della morte, ed insieme reso frenetico dall' avvicinarsi dei russi liberatori, giunti ormai ad ottanta chilometri da noi. La disperazione e la speranza si alternavano con un ritmo che avrebbe stroncato in un' ora qualsiasi individuo normale. Noi non eravamo normali perché avevamo fame. La nostra fame di allora non aveva nulla in comune con la ben nota (non del tutto sgradevole) sensazione di chi ha saltato un pasto ed è sicuro che non gli mancherà il pasto successivo: era un bisogno, una mancanza, uno yearning, che ci accompagnava ormai da un anno, aveva messo in noi radici profonde e permanenti, abitava in tutte le nostre cellule e condizionava il nostro comportamento. Mangiare, procurarci da mangiare, era lo stimolo numero uno, dietro a cui, a molta distanza, seguivano tutti gli altri problemi di sopravvivenza, ed ancora più lontani i ricordi della casa e la stessa paura della morte. Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico (anche questo è già stato raccontato), e rubavo per mangiare. Se non si comincia da bambini, imparare a rubare non è facile; mi erano occorsi diversi mesi per reprimere i comandamenti morali e per acquisire le tecniche necessarie, e ad un certo punto mi ero accorto (con un balenio di riso, e un pizzico di ambizione soddisfatta) di stare rivivendo, io dottorino per bene, l' involuzione-evoluzione di un famoso cane per bene, un cane vittoriano e darwiniano che viene deportato, e diventa ladro per vivere nel suo "Lager" del Klondike, il grande Buck del "Richiamo della Foresta". Rubavo come lui e come le volpi: ad ogni occasione favorevole, ma con astuzia sorniona e senza espormi. Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni. Sotto l' aspetto, appunto, delle sostanze che si potessero rubare con profitto, quel laboratorio era terreno vergine, tutto da esplorare. C' erano benzina ed alcool, prede banali e scomode: molti li rubavano, in vari punti del cantiere, l' offerta era alta ed alto anche il rischio, perché per i liquidi ci vogliono recipienti. È il grande problema dell' imballaggio, che ogni chimico esperto conosce: e lo conosceva bene il Padre Eterno, che lo ha risolto brillantemente, da par suo, con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia multipla degli aranci, e la nostra pelle, perché liquidi infine siamo anche noi. Ora, a quel tempo non esisteva il polietilene, che mi avrebbe fatto comodo perché è flessibile, leggero e splendidamente impermeabile: ma è anche un po' troppo incorruttibile, e non per niente il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono. In mancanza di adatti imballaggi e confezioni, la refurtiva ideale avrebbe quindi dovuto essere solida, non deperibile, non ingombrante, e soprattutto nuova. Doveva essere di alto valore unitario, cioè non voluminosa, perché spesso eravamo perquisiti all' ingresso nel campo dopo il lavoro; e doveva infine essere utile o desiderata da almeno una delle categorie sociali che componevano il complicato universo del Lager. Avevo fatto in laboratorio vari tentativi. Avevo rubato qualche centinaio di grammi di acidi grassi, faticosamente ottenuti per ossidazione della paraffina da qualche mio collega dall' altra parte della barricata: ne avevo mangiato una metà, e saziavano veramente la fame, ma avevano un sapore così sgradevole che rinunciai a vendere il resto. Avevo provato a fare delle frittelle con cotone idrofilo, che tenevo premuto contro la piastra di un fornello elettrico; avevano un vago sapore di zucchero bruciato, ma si presentavano così male che non le giudicai commerciabili: quanto a vendere direttamente il cotone all' infermeria del Lager, provai una volta, ma era troppo ingombrante e poco quotato. Mi sforzai anche di ingerire e digerire la glicerina, fondandomi sul semplicistico ragionamento che, essendo questa un prodotto della scissione dei grassi, deve pure in qualche modo essere metabolizzata e fornire calorie: e forse ne forniva, ma a spese di sgradevoli effetti secondari. C' era un barattolo misterioso su di uno scaffale. Conteneva una ventina di cilindretti grigi, duri, incolori, insapori, e non aveva etichetta. Questo era molto strano, perché quello era un laboratorio tedesco. Sì, certo, i russi erano a pochi chilometri, la catastrofe era nell' aria, quasi visibile; c' erano bombardamenti tutti i giorni; tutti sapevano che la guerra stava per finire: ma infine alcune costanti devono pure sussistere, e fra queste c' era la nostra fame, e che quel laboratorio era tedesco, e che i tedeschi non dimenticano mai le etichette. Infatti, tutti gli altri barattoli e bottiglie del laboratorio avevano etichette nitide, scritte a macchina, o a mano in bei caratteri gotici: solo quello non ne aveva. In quella situazione, non disponevo certamente dell' attrezzatura e della tranquillità necessarie per identificare la natura dei cilindretti. A buon conto, ne nascosi tre in tasca e me li portai la sera in campo. Erano lunghi forse venticinque millimetri, e con un diametro di quattro o cinque. Li mostrai al mio amico Alberto. Alberto cavò di tasca un coltellino e provò ad inciderne uno: era duro, resisteva alla lama. Provò a raschiarlo: si udì un piccolo crepitio e scaturì un fascio di scintille gialle. A questo punto la diagnosi era facile: si trattava di ferro-cerio, la lega di cui sono fatte le comuni pietrine per accendisigaro. Perché erano così grandi? Alberto, che per qualche settimana aveva lavorato da manovale insieme con una squadra di saldatori, mi spiegò che vengono montati sulla punta dei cannelli ossiacetilenici, per accendere la fiamma. A questo punto mi sentivo scettico sulle possibilità commerciali della mia refurtiva: poteva magari servire ad accendere il fuoco, ma in Lager i fiammiferi (illegali) non scarseggiavano certo. Alberto mi redarguì. Per lui la rinuncia, il pessimismo, lo sconforto, erano abominevoli e colpevoli: non accettava l' universo concentrazionario, lo rifiutava con l' istinto e con la ragione, non se ne lasciava inquinare. Era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena. Un suo gesto, una sua parola, un suo rigo, avevano virtù liberatoria, erano un buco nel tessuto rigido del Lager, e tutti quelli che lo avvicinavano se ne accorgevano, anche coloro che non capivano la sua lingua. Credo che nessuno, in quel luogo, sia stato amato quanto lui. Mi redarguì: non bisogna scoraggiarsi mai, perché è dannoso, e quindi immorale, quasi indecente. Avevo rubato il cerio: bene, ora si trattava di piazzarlo, di lanciarlo. Ci avrebbe pensato lui, lo avrebbe fatto diventare una novità, un articolo di alto valore commerciale. Prometeo era stato sciocco a donare il fuoco agli uomini invece di venderlo: avrebbe fatto quattrini, placato Giove ed evitato il guaio dell' avvoltoio. Noi dovevamo essere più astuti. Questo discorso, della necessità di essere astuti, non era nuovo fra noi: Alberto me lo aveva svolto sovente, e prima di lui altri nel mondo libero, e moltissimi altri ancora me lo ripeterono poi, infinite volte fino ad oggi, con modesto risultato; anzi, col risultato paradosso di sviluppare in me una pericolosa tendenza alla simbiosi con un autentico astuto, il quale ricavasse (o ritenesse di ricavare) dalla convivenza con me vantaggi temporali o spirituali. Alberto era un simbionte ideale, perché si asteneva dall' esercitare la sua astuzia ai miei danni. Io non sapevo, ma lui sì (sapeva sempre tutto di tutti, eppure non conosceva il tedesco né il polacco, e poco il francese), che nel cantiere esisteva un' industria clandestina di accendini: ignoti artefici, nei ritagli di tempo, li fabbricavano per le persone importanti e per gli operai civili. Ora, per gli accendini occorrono le pietrine, ed occorrono di una certa misura: bisognava dunque assottigliare quelle che io avevo sotto mano. Assottigliarle quanto, e come? "Non fare difficoltà, mi disse: ci penso io. Tu pensa a rubare il resto". Il giorno dopo non ebbi difficoltà a seguire il consiglio di Alberto. Verso le dieci di mattina proruppero le sirene del Fliegeralarm, dell' allarme aereo. Non era una novità, oramai, ma ogni volta che questo avveniva ci sentivamo, noi e tutti, percossi di angoscia fino in fondo alle midolla. Non sembrava un suono terreno, non era una sirena come quelle delle fabbriche, era un suono di enorme volume che, simultaneamente in tutta la zona e ritmicamente, saliva fino ad un acuto spasmodico e ridiscendeva ad un brontolio di tuono. Non doveva essere stato un ritrovato casuale, perché nulla in Germania era casuale, e del resto era troppo conforme allo scopo ed allo sfondo: ho spesso pensato che fosse stato elaborato da un musico malefico, che vi aveva racchiuso furore e pianto, l' urlo del lupo alla luna e il respiro del tifone: così doveva suonare il corno di Astolfo. Provocava il panico, non solo perché preannunciava le bombe, ma anche per il suo intrinseco orrore, quasi il lamento di una bestia ferita grande fino all' orizzonte. I tedeschi avevano più paura di noi davanti agli attacchi aerei: noi, irrazionalmente, non li temevamo, perché li sapevamo diretti non contro noi, ma contro i nostri nemici. Nel giro di secondi mi trovai solo nel laboratorio, intascai tutto il cerio ed uscii all' aperto per ricongiungermi col mio Kommando: il cielo era già pieno del ronzio dei bombardieri, e ne scendevano, ondeggiando mollemente, volantini gialli che recavano atroci parole di irrisione: Im Bauch kein Fett, Niente lardo nella pancia, Acht Uhr ins Bett; Alle otto vai a letto; Der Arsch kaum warm, Appena il culo è caldo, Fliegeralarm: Allarme aereo! A noi era consentito l' accesso ai rifugi antiaerei: ci raccoglievamo nelle vaste aree non ancora fabbricate, nei dintorni del cantiere. Mentre le bombe cominciavano a cadere, sdraiato sul fango congelato e sull' erba grama tastavo i cilindretti nella tasca, e meditavo sulla stranezza del mio destino, dei nostri destini di foglie sul ramo, e dei destini umani in generale. Secondo Alberto, una pietrina da accendino era quotata una razione di pane, cioè un giorno di vita; io avevo rubato almeno quaranta cilindretti, da ognuno dei quali si potevano ricavare tre pietrine finite. In totale, centoventi pietrine, due mesi di vita per me e due per Alberto, e in due mesi i russi sarebbero arrivati e ci avrebbero liberati; e ci avrebbe infine liberati il cerio, elemento di cui non sapevo nulla, salvo quella sua unica applicazione pratica, e che esso appartiene alla equivoca ed eretica famiglia delle Terre Rare, e che il suo nome non ha nulla a che vedere con la cera, e neppure ricorda lo scopritore; ricorda invece (grande modestia dei chimici d' altri tempi!) il pianetino Cerere, essendo stati il metallo e l' astro scoperti nello stesso anno 1.01; e forse era questo un affettuoso-ironico omaggio agli accoppiamenti alchimistici: come il Sole era l' oro e Marte il ferro, così Cerere doveva essere il cerio. A sera io portai in campo i cilindretti, ed Alberto un pezzo di lamiera con un foro rotondo: era il calibro prescritto a cui avremmo dovuto assottigliare i cilindri per trasformarli in pietrine e quindi in pane. Quanto seguì è da giudicarsi con cautela. Alberto disse che i cilindri si dovevano ridurre raschiandoli con un coltello, di nascosto, perché nessun concorrente ci rubasse il segreto. Quando? Di notte. Dove? Nella baracca di legno, sotto le coperte e sopra il saccone pieno di trucioli, e cioè rischiando di provocare un incendio, e più realisticamente rischiando l' impiccagione: poiché a questa pena erano condannati, fra l' altro, tutti coloro che accendevano un fiammifero in baracca. Si esita sempre nel giudicare le azioni temerarie, proprie od altrui, dopo che queste sono andate a buon fine: forse non erano dunque abbastanza temerarie? O forse è vero che esiste un Dio che protegge i bambini, gli stolti e gli ebbri? O forse ancora, queste hanno più peso e più calore delle altre innumerevoli andate a fine cattivo, e perciò si raccontano più volentieri? Ma noi non ci ponemmo allora queste domande: il Lager ci aveva donato una folle famigliarità col pericolo e con la morte, e rischiare il capestro per mangiare di più ci sembrava una scelta logica, anzi ovvia. Mentre i compagni dormivano, lavorammo di coltello, notte dopo notte. Lo scenario era tetro da piangere: una sola lampadina elettrica illuminava fiocamente il grande capannone di legno, e si distinguevano nella penombra, come in una vasta caverna, i visi dei compagni stravolti dal sonno e dai sogni: tinti di morte, dimenavano le mascelle, sognando di mangiare. A molti pendevano fuori dalla sponda del giaciglio un braccio o una gamba nudi e scheletrici: altri gemevano o parlavano nel sonno. Ma noi due eravamo vivi e non cedevamo al sonno. Tenevamo sollevata la coperta con le ginocchia, e sotto quella tenda improvvisata raschiavamo i cilindri, alla cieca e a tasto: ad ogni colpo si udiva un sottile crepitio, e si vedeva nascere un fascio di stelline gialle. A intervalli, provavamo se il cilindretto passava nel foro-campione: se no, continuavamo a raschiare; se sì, rompevamo il troncone assottigliato e lo mettevamo accuratamente da parte. Lavorammo tre notti: non accadde nulla, nessuno si accorse del nostro tramestio, né le coperte né il saccone presero fuoco, e in questo modo ci conquistammo il pane che ci resse in vita fino all' arrivo dei russi e ci confortammo nella fiducia e nell' amicizia che ci univa. Quanto avvenne di me è scritto altrove. Alberto se ne partì a piedi coi più quando il fronte fu prossimo: i tedeschi li fecero camminare per giorni e notti nella neve e nel gelo, abbattendo tutti quelli che non potevano proseguire; poi li caricarono su vagoni scoperti, che portarono i pochi superstiti verso un nuovo capitolo di schiavitù, a Buchenwald ed a Mauthausen. Non più di un quarto dei partenti sopravvisse alla marcia. Alberto non è ritornato, e di lui non resta traccia: un suo compaesano, mezzo visionario e mezzo imbroglione, visse per qualche anno, dopo la fine della guerra, spacciando a sua madre, a pagamento, false notizie consolatorie.

Pagina 0558

La stampa terza pagina 1986

681502
Levi, Primo 5 occorrenze

È quindi abbastanza probabile che io abbia modestamente contribuito all' organizzazione delle cosiddette saraski sovietiche, e non è impossibile che il misterioso lavoro di Goldbaum fosse quello descritto da Solzenicyn. Risposi agli Z. che avrei dovuto recarmi a Londra in aprile: un loro viaggio in Italia era inutile, avremmo potuto vederci là. Vennero all' appuntamento in sette, appartenenti a tre generazioni, mi assediarono, e subito mi mostrarono due fotografie di Gerhard, scattate verso il 1939. Provai una specie di abbagliamento; a distanza di quasi mezzo secolo, il viso era quello, coincideva perfettamente con quello che io, senza saperlo, recavo stampato nella memoria patologica che serbo di quel periodo: a volte, ma solo per quanto riguarda Auschwitz, mi sento fratello di Ireneo Funes "el memorioso" descritto da Borges, quello che ricordava ogni foglia di ogni albero che avesse visto, e che "aveva più ricordi da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini vissuti da quando esiste il mondo". Non occorrevano altre prove: lo dissi alla nipote, leader della famiglia, ma invece di allentarsi la loro pressione si fece più forte; non parlo per metafore, avrei dovuto intrattenermi anche con altre persone, ma gli Z. mi avevano incapsulato come fanno i leucociti attorno a un germe, mi premevano intorno e mi tempestavano di domande e di informazioni. Alle domande non seppi rispondere, salvo che a una: no, Goldbaum non doveva aver sofferto troppo per la fame; lo attestava il fatto stesso dell' averlo io subito riconosciuto in fotografia. Mancavano dalla mia immagine mentale i segni della fame estrema, inconfondibili e a me noti; il suo mestiere, fino agli ultimi giorni, gli doveva aver risparmiato almeno quella sofferenza. E fu sciolto anche il nodo dell' Olanda. Era una conferma ulteriore: la nipote mi disse che al tempo dell' annessione dell' Austria Gerhard si era rifugiato in Olanda, dove, ormai padrone della lingua, aveva lavorato alla Philips fino all' invasione nazista. Apparteneva alla Resistenza olandese; come me, era stato arrestato come partigiano, e poi riconosciuto come ebreo. L' affettuoso e tumultuoso clan degli Z. venne disperso a fatica da un improvvisato "servizio d' ordine", ma prima di lasciarmi la nipote mi consegnò un involto. Conteneva una sciarpa di lana: la porterò nel prossimo inverno. Per ora, l' ho riposta in un cassetto, provando la sensazione di chi tocchi un oggetto piovuto dal cosmo, come le pietre lunari, o come gli "apporti" vantati dagli spiritisti.

Pagina 0081

La rima è un' invenzione abbastanza tarda, ma "probabile": voglio dire, è una di quelle invenzioni che stanno nell' aria, e poi si materializzano in diversi luoghi. La si trova infatti in tradizioni poetiche lontanissime fra loro nel tempo e nello spazio. La sua eclissi odierna, nella poesia occidentale, mi pare inspiegabile, ed è certamente temporanea. Ha troppe virtù, è troppo bella per sparire. Segnala con discrezione la fine del verso o della strofa. Ristabilisce l' antica parentela fra poesia e musica, entrambe figlie del nostro bisogno di ritmo: c' è chi sostiene che lo acquistiamo prima della nascita, ascoltando il battito del cuore materno, per cui saremmo tutti poeti fin dalla matrice. Sottolinea le parole-chiave, quelle su cui va attirata l' attenzione del lettore. Ma vorrei insistere su due altri vantaggi della rima, uno a favore di chi legge versi, l' altro a favore di chi scrive. Chi legge buoni versi desidera portarseli dietro, ricordarli, possederli. Spesso non ha neppure bisogno di studiarli: tutto va come se l' incisione avvenisse spontaneamente, naturalmente, senza dolore (mentre è dolorosa, o almeno faticosa, l' incisione di testi di cui non percepiamo la bellezza). Ora, per la registrazione in memoria la rima è d' aiuto fondamentale: un verso trascina l' altro o gli altri, il verso dimenticato può essere ricostruito, almeno approssimativamente. L' effetto è così forte che, nel magazzino misterioso ma limitato della nostra memoria, la poesia senza rima spesso cede posto a quella rimata, anche se questa è meno nobile. Ne segue una conseguenza pragmatica: i poeti che desiderano essere ricordati ("portati in cuore": e in molte lingue studiare "a memoria" si rende con "per cuore") non dovrebbero trascurare questa virtù della rima. L' altra virtù è più sottile. Chi si prefigge di comporre in rima si impone un vincolo, che però è remunerativo. Egli si impegna a terminare un verso non con la parola dettata dalla logica discorsiva, bensì con un' altra, più strana, che va attinta fra le poche che terminano "alla maniera giusta". È quindi costretto a sviarsi, a uscire dalla strada facile perché prevedibile; ora, leggere ciò che prevediamo ci annoia e non ci informa. Il vincolo della rima obbliga il poeta all' imprevedibile: lo forza a inventare, a "trovare"; ad arricchire il suo lessico con termini inusitati; a torcere la sua sintassi; insomma, a innovare. La sua situazione è simile a quella del muratore che accetti di usare mattoni irregolari, poliedrici o prismatici, commisti a quelli comuni; il suo edificio sarà meno liscio, meno funzionale, forse anche meno solido, ma dirà di più alla fantasia di chi lo guarda, e porterà il segno di chi l' ha costruito. La rima, e in generale la regola, acquistano quindi anche la funzione di rivelatori della personalità di chi scrive; e in effetti si osserva che le distanze reciproche sono maggiori tra i poeti che tra i prosatori. L' attribuzione di una poesia è più facile che quella di una prosa. Di fronte all' ostacolo metrico, l' autore è costretto (si costringe) a un volteggio che è acrobatico, e il cui stile è strettamente suo: firma ogni verso, che lo voglia, lo sappia, o no.

Pagina 0114

Fra i molti desideri del lettore di quotidiani ce n' è uno il cui soddisfacimento mi pare abbastanza poco costoso. Sarebbe opportuno che il cronista addetto alla descrizione degli incidenti, o a maggior ragione delle catastrofi, si servisse di un linguaggio adeguato e preciso, come fanno il suo collega cronista teatrale, lo sportivo, il finanziario eccetera. Ho in mente, già lo si sarà intuito, due casi recenti: la sciagura della Val di Fiemme e lo scandalo dei vini austriaci. Sarebbe sciocco pretendere che le relative cronache fossero state subito affidate a un geologo e rispettivamente a un enologo. Sarebbe utopico postulare un cronista capace di precipitarsi in Val di Fiemme e di smascherare al primo colpo le bugie dette sul luogo, in buona o mala fede, resistendo all' urto degli interessi locali, che (come sempre in casi simili) sono enormi. Eppure, non sarebbe stato difficile, anche per un "generico", interrogare la gente del posto, e sapere e descrivere come erano fatti i due bacini di decantazione, quanto erano grandi, da quanto tempo erano lì, com' erano gli argini. Abbiamo visto, nei giorni seguenti, una fotografia dell' impianto così come si presentava prima della sciagura: era malamente leggibile, ma spaventosa; dunque i due argini verso valle erano così, ripidissimi, quasi a picco? Ed erano, come è stato detto, di terra battuta? Un geometra del luogo, uno studente, non avrebbero dovuto avere difficoltà a darcene uno schizzo. Non è una richiesta dettata solo dalla curiosità: il cittadino non deve e non vuole accontentarsi delle interviste e delle relazioni dei periti, vuole e deve giudicare da sé, e deve averne gli elementi. Se colpa c' è, ha il diritto di indignarsi, ma desidera essere messo in condizione di scegliere in modo autonomo la qualità, la quantità e (soprattutto) l' indirizzo della sua indignazione. Diffida, o dovrebbe diffidare, della barbarica istituzione del capro espiatorio. Sa che la sentenza verrà, se verrà, a distanza di mesi o anni, e che sarà scritta nel linguaggio astruso dei magistrati ibridato con quello altrettanto astruso dei tecnici: perciò vuole avere la possibilità di costruirsi una sua propria opinione, anche se questa non potrà avere forma né effetti giuridici. Vuole capire, il che è un suo diritto; e vuole anche dire la sua: è questa una magra soddisfazione che non gli va tolta. La dirà comunque, la sua, ma se sarà stato informato in modo chiaro e corretto, la sua opinione acquisterà il peso che le viene conferito da un minimo di competenza. Il giornale deve sforzarsi di fornirgliela, quanto più presto è possibile: eviterà così assoluzioni o condanne frettolose; indifferenza, fatalismo o cacce all' untore; tranquillità pericolose o paure ingiustificate. È giusto che gli eventuali responsabili siano puniti; ma, affinché fatti simili non si ripetano, è necessario che esista una competenza diffusa, che probabilmente non esisteva fra le centinaia di persone che, a tutti i livelli, hanno messo mano a quegli argini; e ci sono cose che si vedono meglio dal basso che dall' alto. La questione del vino austriaco, almeno per il momento, sa più di imbroglio che di tragedia: si parla di un solo decesso, e per di più è assai dubbia la sua correlazione col vino bevuto. E chiaro che, in questo caso, il cronista italiano non ha potuto fare altro che ripetere, quanto meglio ha potuto, le notizie riportate dal suo collega straniero: ma questo collega è stato frettoloso e approssimativo, più proclive a destare scandalo che a fornire dati concreti. Il fatto che il glicole dietilenico, o dietilenglicole (non "glicol dietilene", che chimicamente non ha senso), sia usato come anticongelante per l' acqua che circola nei radiatori delle auto è inesatto: per questo scopo si usa di norma il glicole etilenico, suo fratello minore, che costa meno e a parità di concentrazione rende meglio; è anche più tossico, ma non risulta che nei vini sia stato trovato. Comunque, il fatto che l' uno o l' altro prodotto siano usati come anticongelanti non ha alcuna rilevanza giuridica: insistervi, come è stato fatto in tutti i giornali d' Europa, serve solo a confondere le idee. Il lettore si domanda, giustamente, che cosa può avere spinto quella gente a usare una sostanza per uno scopo così insolito: come chi legasse un salame col filo di ferro, o spazzasse le strade con una vanga. Se il sofisticatore fosse stato uno solo, si potrebbe pensare alla follia, ma erano tanti .... Ha invece rilevanza giuridica la tossicità del glicole dietilenico. Non è altissima; e, del resto, è evidente che nessun industriale sano di mente metterebbe un potente veleno nel proprio vino. Tuttavia, secondo i testi di tossicologia, è circa cinque volte più tossico dell' alcol etilico, che non è poi dire tanto poco. Nel 1937, il suo uso incauto in un farmaco ha provocato in America sessanta morti, che ne avevano ingerito una decina di grammi al giorno per diversi giorni consecutivi. Come si vede, siamo sui limiti del pericolo, se è vero che alcune bottiglie austriache ne contenevano 6 grammi per litro e anche più. Inoltre, è sempre arduo prevedere che effetto provocheranno due veleni (qui, l' alcol e il glicole), ingeriti simultaneamente: possono potenziarsi a vicenda, o viceversa l' uno può inibire l' altro; tutte questioni di cui quei produttori non pare si siano preoccupati. Si spiega facilmente perché il glicole sia stato usato. In molti paesi è vietato addolcire i vini con zucchero o con glucosio; ora, il glicole ha un sapore dolciastro che a me è decisamente sgradevole, ma che pare simuli quello di alcuni vini pregiati. Dal punto di vista del vinificatore disposto alla frode, ha un vantaggio sostanziale: è una sostanza pudica e poco appariscente, la sua presenza non salta agli occhi né del chimico analista né del consumatore. Ora, al chimico si richiede di controllare se un prodotto è conforme a determinare norme; non gli si può chiedere di accertarsi che il prodotto non contenga imprevedibili sostanze estranee, perché i composti chimici noti sono milioni. A quanto pare, un enologo austriaco dalla facile astuzia, e dalla scarsa correttezza professionale, ha dato ai suoi molti clienti il consiglio frodolento: volete dolcificare i vostri vini troppo "secchi"? La legge vi vieta gli zuccheri, che del resto non sfuggirebbero all' analisi: voi allora aggiungete il glicole, che è un po' meno innocuo e dolcifica un po' meno, ma che nessun chimico penserà di andare a cercare. E infatti, per chissà quanti anni, nessun chimico lo ha trovato: infatti, il chimico trova il composto che cerca (quando c' è: a volte, se è poco esperto, anche quando non c' è), ma per trovare quello che non cerca deve essere estremamente abile o sfacciatamente fortunato. Si spiega meno facilmente perché, in certi vini, se ne sia trovata una percentuale talmente bassa da non poter avere alcun effetto, né positivo (di addolcire) né negativo (di nuocere al bevitore). Ma il vino passa per parecchie mani: non è escluso che vino abusivamente dolcificato sia stato miscelato con vino genuino da qualche produttore, forse inconsapevole della frode: non per questo egli sarà meno responsabile, e non gli sarà facile adesso provarne la sua innocenza.

Pagina 0134

Come di norma, quando il mulino cominciò a macinare male le palle vennero estratte per sostituirle con altre nuove; ebbene, in buona parte non erano più sferiche, ma presentavano dodici facce pentagone abbastanza regolari; erano insomma pentagonododecaedri con gli spigoli arrotondati. Ho chiesto a molti colleghi, e non mi risulta che il fatto si sia mai verificato in altri mulini o in altre fabbriche. Perché è avvenuto, e perché quella volta sola? Se i tre corpi del reato, improbabili ma non certo paranormali, non fossero lì a dimostrare di esistere con la loro ostinata presenza, penserei che la mia memoria dei tre eventi da cui essi sono nati si fosse inquinata o accresciuta con gli anni, come avviene della memoria dei sogni premonitori.

Pagina 0138

Non nasconderti dietro l' ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall' uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla. Quanto alla ricerca di base, essa può e deve proseguire: se l' abbandonassimo tradiremmo la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di esistere.

Pagina 0162

Vizio di forma

681682
Levi, Primo 2 occorrenze

Insomma, non era un lavoro stupido: era un lavoro che si poteva fare bene oppure male, qualche volta era anche abbastanza interessante, uno di quei lavori che dànno occasione di compiacersi della propria prontezza, della propria inventiva e della propria logica. Però, del risultato ultimo delle sue azioni non aveva un' idea precisa: sapeva soltanto che di camere buie ce n' erano un centinaio, e che tutti i dati decisionali convergevano da qualche parte, in una centrale di smistamento. Sapeva anche che in qualche modo il suo lavoro veniva giudicato, ma non sapeva se isolatamente o in cumulo col lavoro di altri: quando suonava la sirena si accendevano altre lampadine rosse, sull' architrave della porta, e il loro numero era un giudizio e un consuntivo. Spesso se ne accendevano sette od otto: una volta sola se ne erano accese dieci, mai se ne erano accese meno di cinque, perciò aveva l' impressione che le sue cose non andassero troppo male. Suonò la sirena, si accesero sette lampadine. Uscì, si fermò un minuto in corridoio per abituare gli occhi alla luce, poi scese in strada, raggiunse l' auto e mise in moto. Il traffico era già molto intenso, e stentò ad inserirsi nella corrente che percorreva il viale. Freno, frizione, dentro la prima. Acceleratore, frizione, seconda, acceleratore, freno, prima, freno ancora, il semaforo è rosso. Sono quaranta secondi e sembrano quarant' anni, chissà perché: non c' è tempo più lungo di quello che si passa ai semafori. Non aveva altra speranza né altro desiderio che quello di arrivare a casa. Dieci semafori, venti. Ad ognuno, una coda sempre più lunga, lunga tre rossi, lunga cinque rossi; poi un po' meglio, il traffico più fluido della periferia opposta. Guardare nello specchietto, far fronte alla breve piccola ira e alla fretta maligna di quello che ti sta dietro e vorrebbe che tu non ci fossi, lampeggiatore di sinistra, quando volti a sinistra ti senti sempre un po' colpevole. Voltare a sinistra, con precauzione: ecco il portone, ecco un posto libero, frizione, freno, chiavetta, freno a mano, antifurto, per oggi è finita. Splende il lumino rosso dell' ascensore: aspettare che sia libero. Si spegne: premere il bottone, il lumino si riaccende, aspettare che sia disceso. Aspettare per metà del tempo libero: è tempo libero, questo? Alla fine si accesero nell' ordine giusto i lumi del terzo, del secondo e del primo piano, si lesse PRESENTE e la porta si aprì. Di nuovo lumini rossi, primo, secondo, fino al nono piano, ci siamo. Premette il pulsante del campanello, qui non c' è da aspettare: aspettò poco, infatti, si udì la voce pacata di Maria dire "vengo", i suoi passi, poi la porta si aprì. Non si stupì di vedere accesa la lampadina rossa fra le clavicole di Maria: era accesa già da sei giorni, e c' era da attendersi che brillasse della sua luce melanconica per qualche giorno ancora. A Luigi sarebbe piaciuto che Maria la nascondesse, la incappucciasse in qualche modo; Maria diceva di sì ma spesso se ne dimenticava, specialmente in casa;o altre volte la nascondeva male, e la si vedeva luccicare sotto il foulard, o di notte attraverso le lenzuola, che era la cosa più triste. Forse, sotto sotto, e senza confessarlo neppure a se stessa, aveva paura delle ispezioni. Si studiò di non guardare la lampadina, anzi, di dimenticarla: in fondo, chiedeva anche altro a Maria, molto altro. Cercò di parlarle del suo lavoro, di come aveva passato la giornata; le chiese di lei, delle sue ore di solitudine, ma la conversazione non diventava viva, guizzava un momento e poi si spegneva, come un fuoco di legna umida. La lampadina invece no: splendeva ferma e costante, il più pesante dei divieti perché era lì, in casa loro e di tutti, minuscola eppure salda come una muraglia, in tutti i giorni fecondi, fra ogni coppia di coniugi che avesse già due figli. Luigi tacque a lungo, poi disse: _ Io ... io vado a prendere il cacciavite. _ No, _ disse Maria, _ lo sai che non si riesce, rimane sempre una traccia. E poi ... e se poi nascesse un bambino? Ne abbiamo già due, non sai quanto ce lo tasserebbero? Era chiaro che, ancora una volta, non sarebbero stati capaci di parlare d' altro. Maria disse: _ Sai la Mancuso? Ricordi, no? la signora qui sotto, quella così elegante, del settimo piano. Ebbene, ha fatto domanda di cambiare il modello di Stato con il nuovo 520 IBM: dice che è tutta un' altra cosa. _ Ma costa un occhio della testa, e poi il conto è lo stesso. _ Certo, ma non ti accorgi neppure di averlo indosso, e le pile durano un anno. Poi mi ha anche detto che in Parlamento c' è una sottocommissione che sta discutendo un modello per uomini. _ Che stupidaggine! Gli uomini avrebbero la luce rossa sempre. _ Eh no, non è così semplice. Chi guida è sempre la donna, e anche lei porta la lampadina, ma il dispositivo di blocco lo porta anche l' uomo. C' è un trasmettitore, la moglie trasmette e il marito riceve, e nei giorni rossi resta bloccato. In fondo mi pare giusto: mi pare molto più morale. Luigi si sentì improvvisamente sommergere dalla stanchezza. Baciò Maria, la lasciò davanti al televisore ed andò a coricarsi. Non stentò a prendere sonno, ma si svegliò al mattino assai prima che si accendesse la spia rossa della sveglia silenziosa. Si alzò, e soltanto allora, nella camera buia, notò che la lampada di Maria si era spenta: ma era ormai troppo tardi, e gli rincresceva svegliarla. Passò in rassegna la spia rossa dello scaldabagno, quella del rasoio elettrico, del tostapane e della serratura di sicurezza; poi scese in strada, entrò nell' auto, ed assistette all' accendersi delle spie rosse della dinamo e del freno a mano. Azionò il lampeggiatore di sinistra, il quale significava che incominciava una nuova giornata. Si avviò verso il lavoro, e strada facendo calcolò che le lampade rosse di una sua giornata erano in media duecento: settantamila in un anno, tre milioni e mezzo in cinquant' anni di vita attiva. Allora gli parve che la calotta cranica gli si indurisse, come se ricoperta da un' enorme callosità adatta a percuotere contro i muri, quasi un corno di rinoceronte, ma più patto e più ottuso.

Pagina 0093

Fanno i fiori, che sono abbastanza belli e perfino un po' profumati, e poi queste palline, le vedi? perché pensano anche loro all' avvenire. Per la gramigna, invece, non ha pietà: _ È inutile che la tagli a pezzi con la zappa: tanto poi ogni pezzo ricresce, come i draghi delle favole. Anzi, è proprio un drago: se guardi bene, vedi i denti, le unghie e le scaglie. Ammazza le altre piante, e lei non muore mai, perché sta sottoterra; quello che vedi fuori è niente, quelle foglioline sottili dall' aria innocente, che sembrano quasi erba. Ma più scavi e più trovi, e se scavi profondo trovi uno scheletro tutto nero e nodoso, duro come il ferro e vecchio non so quanto: ecco, quello è la gramigna. Ci passano su le mucche e la calpestano e non muore: se la seppellisci in una tomba di pietra, spacca la pietra e si fa la via per uscire. L' unica è il fuoco. Io con la gramigna non ci parlo. Le ho chiesto se parla con le altre piante, e mi ha detto che certamente. Anche suo padre e sua madre, ma lei meglio di loro: non è proprio un parlare con la bocca, come noi, ma è chiaro che le piante fanno dei segni e delle smorfie, quando vogliono qualche cosa, e capiscono i nostri: però bisogna non perdere la pazienza e cercare di farsi capire, perché in generale le piante sono molto lente, sia a capire, sia a esprimersi, sia a muoversi. _ Vedi questo? _ mi ha detto, indicando uno dei nostri limoni: _ si lamenta, è un pezzo che si lamenta, e tu se non capisci non te ne accorgi, e intanto lui soffre. _ Si lamenta di che cosa? L' acqua non gli manca, e lo trattiamo preciso come gli altri. _ Non so, non è sempre facile capire. Vedi che da questa parte ha tutte le foglie accartocciate: è da questa parte che qualcosa non va. Forse urta con le radici contro una roccia: vedi che, sempre dalla stessa parte, fa una brutta ruga nel tronco. Secondo Clotilde, tutto quello che cresce dalla terra, ed ha foglie verdi, è "gente come noi", con cui si trova modo di andare d' accordo; appunto per questo non si deve tenere piante e fiori nei vasi, perché è come chiudere le bestie in gabbia: diventano o stupide o cattive, insomma non sono più le stesse, ed è un egoismo nostro metterle così allo stretto solo per il piacere di guardarle. La gramigna, appunto, fa eccezione, perché non viene dalla terra, ma da sottoterra, e questo è il regno dei tesori, dei draghi e dei morti. Nella sua opinione, il sottosuolo è un paese complicato come il nostro, solo è buio mentre qui è luce; ci sono caverne, gallerie, ruscelli, fiumi e laghi, e in più ci sono le vene dei metalli, che sono tutti velenosi e malefici tranne il ferro, che entro certi limiti è amico dell' uomo. Ci sono anche tesori: alcuni nascosti dagli uomini in tempi remoti, altri che giacciono laggiù da sempre, oro e diamanti. Qui abitano i morti, ma di essi Clotilde non ama parlare. Il mese scorso, una escavatrice era al lavoro nella proprietà che confina con la loro: Clotilde assistette pallida e affascinata all' opera poderosa della macchina finché il livello dello scavo non giunse ai tre metri, poi scomparve per vari giorni, e tornò solo quando la macchina se ne fu andata e si vide che nel gran buco non c' era che terra e pietra, pozze d' acqua ferma, e qualche radice denudata. Mi ha anche raccontato che non tutte le piante sono d' accordo. Ce ne sono di addomesticate, come le mucche e le galline, che non saprebbero fare a meno dell' uomo, ma ce ne sono altre che protestano, cercano di scappare, e qualche volta ci riescono. Se non ci stai attento, inselvatichiscono e non dànno più frutto, o lo dànno come piace a loro e non come piace a noi: aspro, duro, tutto nòcciolo. Una pianta, se non è tutta addomesticata, ha nostalgia, specie se sta in vicinanza di un bosco selvatico. Vorrebbe tornare al bosco, e che solo le api si curassero di fecondarla, e gli uccelli e il vento di disseminarla. Mi ha mostrato i peschi del loro frutteto, ed era proprio come lei diceva, gli alberi più vicini alla recinzione tendevano i rami oltre, come braccia. _ Vieni con me: ti devo mostrare una cosa _. Mi condusse su per la collina, in mezzo a un bosco che quasi nessuno conosce, tanto è fitto di sterpi. È poi come difeso da una cornice di vecchie terrazze in sfacelo, e queste sono ricoperte da una sorta di edera spinosa, di cui non conosco il nome. È bella a vedersi, con foglie a ferro di lancia, lucide, di un verde squillante macchiettato di bianco; ma il fusto, i rametti, e perfino il rovescio delle foglie stesse, sono irti di spine adunche, barbate come teste di frecce: se solo sfiorano la carne, vi penetrano e portano via il pezzo. Strada facendo, e mentre io avevo appena fiato per governare i miei passi e dar voce a qualche sillaba di assenso, Clotilde parlava. Mi diceva di avere saputo poco prima una notizia importante, e di averla saputa da un rosmarino, che è poi un tipo speciale, amico dell' uomo ma a distanza, un po' come i gatti; gli piace fare da sé, e quel saporino aromatico che va tanto bene per l' arrosto è una sua invenzione: agli uomini piace, invece gli insetti lo trovano amaro. È un repellente, insomma, che lui ha inventato mille e mille anni fa, quando l' uomo non c' era ancora; e infatti non vedrai mai un rosmarino smangiato dai bruchi o dalle lumache. Anche le foglie a forma di ago sono una bella invenzione, ma non del rosmarino. Le hanno inventate i pini e gli abeti, ancora molto tempo prima: sono una buona difesa, perché le bestioline che mangiano le foglie incominciano sempre dalla punta, e se la trovano legnosa ed acuminata perdono subito il coraggio. Il rosmarino le aveva fatto dei gesti per farle capire che doveva andare in quel bosco, a una certa distanza e in una certa direzione, e che avrebbe trovato una cosa importante: lei c' era già andata pochi giorni avanti, ed era proprio vero, e voleva farlo vedere anche a me. Soltanto, le era un po' dispiaciuto che il rosmarino avesse fatto la spia. Mi insegnò un sentiero mezzo sepolto dai rovi, per cui riuscimmo a penetrare nel bosco senza troppi graffi: ed ecco, nel centro del bosco c' era una piccola radura circolare che non c' era mai stata prima. In quel punto, il terreno era quasi piano, e il suolo appariva liscio, battuto, senza un solo filo d' erba e senza un sasso. Tre o quattro sassi tuttavia c' erano, a un metro circa dalla periferia, e Clotilde mi disse che li aveva messi lei come riferimenti, per verificare quello che il rosmarino le aveva fatto capire: e cioè che quella era una scuola di alberi, un posto segreto dove gli alberi si insegnano l' un l' altro a camminare, in odio agli uomini e a loro insaputa. Mi condusse per mano (ha una mano poco infantile, ruvida e forte) lungo il cerchio, e mi fece vedere molte piccole cose, impercettibili: che, intorno a ogni tronco, il terreno era smosso, screpolato e come costipato verso l' esterno, e invece depresso verso l' interno; che tutti i tronchi pendevano un poco all' infuori, e anche i rampicanti correvano radialmente verso l' esterno. Beninteso, io non sono affatto sicuro che segni simili non si ravvisino anche altrove, in altre radure, o forse in tutte, e che non abbiano un significato diverso, o magari non ne abbiano alcuno: ma Clotilde era piena di eccitazione. _ Ce ne sono di intelligenti e di stupide, di pigre e di svelte, e anche le più furbe non è che arrivino tanto lontano. Ma questo qui, per esempio, _ e mi indicò un ginepro, _ è parecchio che lo tengo d' occhio, e non mi fido di lui _. Quel ginepro, mi disse, si era spostato di almeno un metro in quattro giorni. Aveva trovato il modo giusto, a poco a poco lasciava morire tutte le radici da un lato e rinforzava quelle dall' altro, e voleva che tutti facessero come lui. Era ambizioso e paziente: tutte le piante sono pazienti, questa è la loro forza; ma appunto, lui era anche ambizioso, ed era stato uno dei primi a capire che una pianta che si sposti può conquistare un paese e liberarsi dall' uomo. _ Liberarsi, tutte lo vorrebbero, ma non sanno come, dopo tanti anni che comandiamo noi. Alcuni alberi, come gli olivi, si sono rassegnati da secoli, però si vergognano, e si vede bene dal modo come crescono, tutti storti e disperati. Altri, come i peschi e i mandorli, si sono arresi e fanno i frutti, ma, lo sai anche tu, appena possono ritornano selvaggi. Altri ancora non so: i castagni e le querce è difficile capire cosa vogliono; forse sono troppo vecchi e troppo di legno, e ormai non vogliono più niente, come succede ai vecchi: solo che dopo l' estate venga l' inverno, e dopo l' inverno l' estate. C' era poi un ciliegio selvatico che parlava. Non era che parlasse in italiano, ma era come quando si fa conversazione con gli olandesi che vengono al mare di luglio, che insomma non si capisce parola per parola, ma dai gesti e dall' intonazione uno finisce col rendersi conto abbastanza bene di quel che vogliono dire. Quel ciliegio parlava col fruscìo delle fronde, che si udiva accostando l' orecchio al tronco, e diceva cose su cui Clotilde non era d' accordo: che non si devono fare fiori, perché sono una lusinga all' uomo, né frutti, che sono uno spreco e un dono non dovuto. Bisogna combattere l' uomo, non purificare più l' aria per lui, sradicarsi e partire, anche a costo di morire o di ritornare selvaggi. Accostai anch' io l' orecchio al tronco, ma non colsi che un mormorio indistinto, benché forse un po' più sonoro di quello che producevano le altre piante. Si era ormai fatto buio, e non c' era luna. I lumi del paese e della spiaggia ci davano solo un' idea vaga della direzione che avremmo dovuto seguire per discendere: in breve ci trovammo malamente intrigati nei rovi e nei terrazzi in rovina. Bisognava saltare giù alla cieca dall' uno all' altro, cercando d' indovinare nel buio crescente se avremmo preso terra su sassi, o su spini, o su suolo consolidato. Dopo un' ora di discesa eravamo entrambi stanchi, scorticati e inquieti, e i lumi in basso erano lontani come prima. Si udì a un tratto un cane abbaiare. Ci fermammo: veniva proprio verso di noi, galoppando orizzontalmente lungo una delle terrazze. Poteva essere un bene o un male: dalla voce, non doveva essere un cane molto grosso, però abbaiava con sdegno e con tenacia, fin quando gli mancava il fiato, e allora lo si sentiva aspirare l' aria con un corto rantolo convulso. In breve fu a pochi metri sotto di noi, e fu chiaro che non abbaiava per capriccio, ma per dovere: non intendeva lasciarci entrare nel suo territorio. Clotilde gli chiese scusa per l' invasione, e gli spiegò che avevamo perso la strada e non volevamo altro che andarcene; perciò, lui faceva bene ad abbaiare, era il suo mestiere, ma se ci avesse insegnato la strada che portava a casa sua avrebbe fatto meglio, e non avrebbe perso tempo lui e neanche noi. Parlava con voce così tranquilla e persuasiva che il cane si quietò subito: lo intravvedevamo sotto di noi come una vaga chiazza bianca e nera. Scendemmo di pochi passi, e sentimmo sotto i piedi la durezza elastica della terra battuta. Il cane si incamminò a mezza costa verso destra, uggiolava ogni tanto, e si fermava a vedere se lo seguivamo. Dopo un quarto d' ora arrivammo così alla casa del cane, accolti da un tremulo coro di belati caprini: di lì, nonostante l' oscurità, trovammo facilmente un viottolo ben segnato che scendeva al paese.

Pagina 0235

Lilit

682103
Levi, Primo 2 occorrenze

Lavorava con applicazione ed abilità, in silenzio o canticchiando a bocca chiusa: dopo una mezz' ora il legno era già affusolato ad una estremità, e Achtiti lo controllava ad intervalli, piegandolo sul ginocchio per sentire se era già abbastanza cedevole. Forse percepì una traccia di impazienza nell' atteggiamento o nel commenti dei due, perché interruppe il suo lavorio, scappò fra le capanne, e ne ritornò accompagnato da un ragazzo. Gli affidò il secondo ramo ed un altro raschiatoio, e da allora in poi lavorarono in due: del resto, il ragazzo non era meno svelto di Achtiti, era evidente che anche per lui fare archi non era un mestiere nuovo. Quando i due legni furono assottigliati nella misura e sagoma giuste, Achtiti prese a lisciarli con un ciottolo ruvido, che a Wilkins parve un frammento di pietra da cote. _ Non sembra che abbia fretta, _ disse Goldbaum. _ I Siriono non hanno mai fretta: la fretta è una malattia nostra, _ rispose Wilkins. _ Loro però hanno altre malattie. _ Certo. Però non è detto che non si possa concepire una civiltà senza malattie. _ Cosa credi che voglia da noi? _ Io credo di averlo capito, _ disse Wilkins. Achtiti continuava a lisciare i legni con diligenza, rigirandoli da tutte le parti ed esplorandone la superficie con le dita e con gli occhi, che era costretto ad aguzzare perché era un po' presbite. Alla fine, legò insieme, sovrapponendole per un breve tratto, le due estremità non sgrossate e tese fra le punte una corda di budella ritorte: aveva una certa aria di orgoglio, e mostrò ai due che pizzicandola, la corda suonava a lungo, come quella di un' arpa. Mandò il ragazzo a prendere una freccia, prese la mira e la scagliò: la freccia si infisse tremolando nel tronco di una palma lontana una cinquantina di metri. Allora, con un gesto enfatico porse l' arco a Wilkins, facendogli cenno che era suo, lo tenesse, lo provasse. Poi cavò dalla scatola incominciata due fiammiferi, ne porse uno a Wilkins ed uno a Goldbaum, si accovacciò a terra, intrecciò le braccia sui ginocchi e rimase in attesa: ma senza impazienza. Goldbaum rimase interdetto, col suo fiammifero in mano; poi disse: _ Sì, credo d' aver capito anch' io. _ Già, _ rispose Wilkins; _ come discorso, è abbastanza chiaro: noi miseri Siriono, se non abbiamo un raschiatoio, ce lo facciamo; e se restiamo senza arco, col raschiatoio ci fabbrichiamo l' arco, e magari lo lisciamo anche, perché faccia piacere vederlo e tenerlo in mano. Voi stregoni stranieri, che rubate la voce degli uomini e la mettete in uno scatolino, siete rimasti senza fiammiferi: su, fabbricateli. _ Allora? _ Bisognerà spiegargli i nostri limiti _. A due voci, o meglio a quattro mani, cercarono di convincere Achtiti che è bensì vero che un fiammifero è piccolo, molto più piccolo di un arco (questo era un argomento a cui Achtiti sembrava tenere molto), ma che la capocchia del fiammifero conteneva una virtù (come spiegare?) residente lontano da loro, nel sole, nel profondo della terra, di là dei fiumi e della foresta. Erano penosamente consci dell' inadeguatezza della loro difesa: Achtiti sporgeva verso di loro le labbra a imbuto, scuoteva il capo, e diceva al ragazzo cose che lo facevano ridere. _ Gli dirà che siamo cattivi stregoni, furfanti buoni solo a vendere fumo, _ disse Goldbaum. Achtiti era un uomo metodico: disse qualche altra cosa al ragazzo, che afferrò l' arco ed alcune frecce e si mise a venti passi da loro con aria risoluta ; si allontanò, e tornò con uno dei coltelli ritrovati sul luogo del campo base, e che il fuoco aveva stemprati ed ossidati malamente. Raccattò da terra uno degli orologi e lo porse a Wilkins; Wilkins, col viso terreo di chi si presenta impreparato ad un esame importante fece un segno di impotenza: aprì la cassa dell' orologio e fece vedere ad Achtiti gli ingranaggi minuti, il bilanciere snello che non si fermava mai, i minuscoli rubini, e poi le proprie dita: impossibile! Lo stesso, o press' a poco, avvenne col registratore magnetico, che però Achtiti non voleva toccare: lo fece raccogliere da terra da Wilkins stesso, e si teneva le orecchie turate per timore di udirne la voce. E il coltello? Achtiti pareva voler fare intendere che si trattava di una specie di esame di riparazione, o insomma di una prova elementare, buona per qualsiasi sempliciotto, stregone o no: avanti, fabbricate un coltello. Un coltello, via, non è una specie di bestiolina con un cuore che batte, ed è facile ucciderla, ma molto difficile farla ritornare viva: non si muove, non fa rumori e si divide in due pezzi soltanto, e loro stessi ne possedevano tre o quattro, comperati dieci anni prima e pagati poco, una bracciata di papaie e due pelli di caimano. _ Rispondi tu: io ne ho abbastanza _. Goldbaum dimostrò minore talento mimico e senso diplomatico del suo collega; si sbracciò invano in una gesticolazione che neppure Wilkins comprese, ed Achtiti, per la prima volta, scoppiò a ridere: ma era un riso poco rassicurante. _ Che cosa volevi dirgli? _ Che forse saremmo riusciti a fare un coltello; ma che ci occorrevano delle pietre speciali, altre pietre che bruciano e che in questo paese non ci sono; molto fuoco e molto tempo. _ Io non avevo capito, ma lui probabilmente sì. Aveva ragione a ridere: avrà pensato che volevamo soltanto prendere tempo fino a che non vengano a prenderci. È il trucco numero uno di tutti gli stregoni e di tutti i profeti. Achtiti chiamò, ed arrivarono sette od otto guerrieri robusti. Afferrarono i due e li chiusero in una capanna di solidi tronchi; non c' erano aperture, la luce entrava soltanto dagli interstizi del tetto. Goldbaum Chiese: _ Credi che qui ci staremo a lungo? _; Wilkins rispose: _ Temo di no; spero di sì. Ma i Siriono non sono gente feroce. Si accontentarono di lasciarli là dentro ad espiare le loro bugie, fornendo loro acqua in abbondanza e poco cibo. Per qualche oscuro motivo, forse perché si sentiva offeso, Achtiti non si fece più vedere. Goldbaum disse: _ Io sono un bravo fotografo, ma senza lenti e senza pellicole .... Forse potrei fabbricare una camera oscura: cosa ne dici? _ Li faresti divertire. Ma ci chiedono qualche cosa di più: di dimostrare, in concreto, che la nostra civiltà è superiore alla loro: che i nostri stregoni sono più bravi dei loro. _ Non è che io sappia fare tante altre cose, con le mie mani. So guidare l' auto. So anche cambiare una lampadina o un fusibile. Disintasare un lavandino, attaccarmi un bottone; ma qui non ci sono né lavandini né aghi. Wilkins meditava. _ No, _ disse, _ qui ci vorrebbe qualcosa di più essenziale. Se ci fanno uscire, proverò a smontare il magnetofono; come sia fatto dentro non lo so bene, ma se c' è un magnete permanente siamo a posto: lo facciamo galleggiare sull' acqua di una scodella e gli regaliamo la bussola, e insieme l' arte di fare le bussole. _ Non credo che in un magnetofono ci siano dei magneti, _ rispose Goldbaum: _ e non sono neppure sicuro che una bussola gli serva molto. A loro basta il sole: non sono dei navigatori, e quando si mettono per la foresta seguono soltanto le piste segnate. _ Come si fa la polvere da sparo? Forse non è difficile: non basta mescolare carbone, zolfo e salnitro? _ Teoricamente sì: ma dove trovi il salnitro qui, in mezzo alle paludi? E lo zolfo ci sarà magari, ma chissà dove; e infine, a che cosa gli serve la polvere, se non hanno una canna forata qualunque? _ Ecco, mi viene un' idea. Qui la gente muore per un graffio: di setticemia o di tetano. Facciamo fermentare il loro orzo, distilliamo l' infuso e gli facciamo l' alcool; magari gli piace anche berlo, anche se non è tanto morale. Non mi pare che conoscano né eccitanti né stupefacenti: sarebbe una bella stregoneria. Goldbaum era stanco. _ Lievito non ne abbiamo, io non credo che sarei capace di selezionarne uno, e neppure tu. E poi vorrei vederti alle prese coi vasai locali, per farti costruire una storta. Forse non è del tutto impossibile, ma è un' impresa che ci costerebbe mesi, e qui è questione di giorni. Non era chiaro se i Siriono intendessero farli morire di fame, o se volessero soltanto mantenerli con la minima spesa, in attesa che arrivasse la lancia su per il fiume, o che maturasse in loro l' idea decisiva e convincente. Le loro giornate passavano sempre più torpide, in un dormiveglia fatto di calore umido, di zanzare, di fame e di umiliazione. Eppure, tutti e due, avevano studiato per quasi vent' anni, sapevano molte cose su tutte le civiltà umane antiche e recenti, si erano interessati a tutte le tecnologie primitive, alle metallurgie dei Caldei, alle ceramiche micenee, alla tessitura dei precolombiani: e adesso, forse (forse!) sarebbero stati capaci di scheggiare una selce perché Achtiti glielo aveva insegnato, e non erano stati in condizione di insegnare ad Achtiti proprio niente: solo a raccontargli a gesti meraviglie a cui lui non aveva creduto, ed a mostrargli i miracoli che loro due avevano portato con sé, fabbricati da altre mani sotto un altro cielo. Dopo quasi un mese di prigionia erano a corto di idee, e si sentivano ridotti all' impotenza definitiva. L' intero, colossale edificio della tecnologia moderna era fuori della loro portata: avevano dovuto confessarsi a vicenda che neppure uno dei ritrovati di cui la loro civiltà andava fiera poteva essere trasmesso ai Siriono. Mancavano le materie prime da cui partire o, se c' erano nelle vicinanze, loro non sarebbero stati capaci di riconoscerle o isolarle; nessuna delle arti che loro conoscevano sarebbe stata giudicata utile ai Siriono. Se uno di loro fosse stato bravo a disegnare, avrebbero potuto fare il ritratto di Achtiti, e se non altro destare la sua meraviglia. Se avessero avuto un anno di tempo, avrebbero forse potuto convincere i loro ospiti dell' utilità dell' alfabeto, adattarlo al loro linguaggio, ed insegnare ad Achtiti l' arte della scrittura. Per qualche ora discussero il progetto di fabbricare sapone per i Siriono: avrebbero ricavato la potassa dalla cenere di legno, e l' olio dai semi di una palma locale; ma a che cosa avrebbe servito il sapone ai Siriono? Abiti non ne avevano, e non sarebbe stato facile persuaderli dell' utilità di lavarsi col sapone. Alla fine, si erano ridotti ad un progetto modesto: avrebbero insegnato loro a fabbricare candele. Modesto, ma irreprensibile; i Siriono avevano sego, sego di pécari, che usavano per ungersi i capelli, ed anche per gli stoppini non c' erano difficoltà, si potevano ricavare dal pelo dei pécari stessi. I Siriono avrebbero apprezzato il vantaggio di illuminare a notte l' interno delle loro capanne. Certo avrebbero preferito imparare a fabbricarsi un fucile o un motore fuoribordo: le candele non erano molto, ma valeva la pena di provare. Stavano proprio cercando di rimettersi in contatto con Achtiti, per contrattare con lui la libertà contro le candele, quando sentirono un grande tramestio fuori della loro prigione. Poco dopo la porta fu aperta tra clamori incomprensibili, ed Achtiti fece loro cenno di uscire nella luce abbagliante del giorno: la lancia era arrivata. Il congedo non fu lungo né cerimonioso. Achtiti si era subito allontanato dalla porta della prigione; si accovacciò sui talloni voltando loro la schiena, e rimase immobile, come pietrificato, mentre i guerrieri Siriono conducevano i due alla sponda. Due o tre donne, ridendo e strillando, si scoprirono il ventre verso di loro; tutti gli altri del villaggio, anche i bambini, dondolavano il capo cantando "luu, luu", e mostravano loro le due mani molli e come disarticolate, lasciandole ciondolare dai polsi come frutti troppo maturi. Wilkins e Goldbaum non avevano bagaglio. Salirono sulla lancia, che era pilotata da Suarez in persona, e lo pregarono di partire più presto che poteva. I Siriono non sono inventati. Esistono veramente, o almeno esistevano fin verso il 1945, ma quanto si sa di loro fa pensare che, almeno come popolo, non sopravvivranno a lungo. Sono stati descritti da Allan R. Holmberg in una recente monografia ("The Siriono of Eastern Bolivia"): conducono un' esistenza minimale, che oscilla fra il nomadismo ed un' agricoltura primitiva. Non conoscono i metalli, non posseggono termini per i numeri superiori al tre, e, benché debbano sovente attraversare paludi e fiumi, non sanno costruire imbarcazioni; sanno però che un tempo le sapevano costruire, e si tramanda fra loro la notizia di un eroe, il cui nome era quello della Luna, che aveva insegnato al loro popolo (allora molto più numeroso) tre arti: accendere il fuoco, scavare piroghe e fabbricare archi. Di queste, oggi solo l' ultima sopravvive: anche il modo di fare il fuoco lo hanno dimenticato. Hanno raccontato a Holmberg che in un tempo non troppo lontano (due, tre generazioni addietro: press' a poco all' epoca in cui fra noi nascevano i primi motori a combustione interna, si diffondeva l' illuminazione elettrica e si cominciava a comprendere la fine struttura dell' atomo) alcuni fra loro sapevano fare il fuoco frullando uno stecco nel foro di un' assicella; ma a quel tempo i Siriono vivevano in un altro territorio, dal clima quasi desertico, in cui era facile trovare legna secca ed esca. Ora vivono fra paludi e foreste, in perpetua umidità: non trovando più legna secca, il metodo dell' assicella non è più stato praticato, ed è stato dimenticato. Il fuoco, però, l' hanno conservato. In ognuno dei loro villaggi o delle loro bande vaganti c' è almeno una donna anziana, il cui compito è di mantenere vivo il fuoco in un braciere di tufo. Quest' arte non è così difficile come quella di accendere il fuoco per strofinio, ma non è neppure elementare: specialmente nella stagione delle piogge occorre alimentare la fiammella coi fiori di una palma, che vengono fatti essiccare al calore della fiamma stessa. Queste vecchie vestali sono molto diligenti, perché se il loro fuoco muore anch' esse vengono messe a morte: non per punizione, ma perché vengono giudicate inutili. Tutti i Siriono che sono giudicati inutili perché incapaci di cacciare, di generare e di arare con l' aratro a piolo sono lasciati morire. Un Siriono è vecchio a quarant' anni. Ripeto, non sono notizie inventate. Sono state riportate dallo "Scientific American" nell' ottobre 1969, ed hanno un suono sinistro: insegnano che non dappertutto e non in ogni tempo l' umanità è destinata a progredire.

Pagina 0181

Aveva indosso una giacca a vento, e sotto un maglione nero a giro collo; i pantaloni erano di velluto bruno, abbastanza logori, con due rinforzi di cuoio all' interno delle cosce. Un luogo incongruo: a cosa avrebbero potuto servire? A cavalcare una scopa? Ma non aveva l' aria di una strega: sembrava un tipo piuttosto casalingo. Anche il resto della ragazza era robusto e tozzo: Riccardo calcolò che se si fossero alzati entrambi in piedi lei gli sarebbe arrivata a stento alla spalla. In effetti, lei poco dopo si levò in piedi, ma la verifica non fu possibile perché lui era rimasto seduto. La ragazza dunque si alzò, frugò nella borsa che era sulla reticella, e ne cavò un libro, al che Riccardo si fece tutt' occhi come Argo. Non era un giallo né un romanzo di fantascienza né un Oscar Mondadori: era un vecchio volume dimesso, dalla copertina floscia ed appassita, su cui Riccardo lesse a poco a poco: "Catalogue of the Petrarch Collection, bequeathed by ..." non riuscì a decifrare da chi la collezione era stata bequeathed, e quel bequeathed lo intrigava, ma il resto del titolo gli tolse ogni traccia di sonno. Aveva anche lui un libro nella valigia, ma non si prestava a ricambiare il messaggio, era un tascabile di sesso e orrore: meglio lasciarlo dov' era. Gli vennero in mente le bozze di stampa che doveva consegnare a Napoli, le cavò fuori e si mise a correggerle con ostentazione, quantunque fossero già corrette; ma presto smise di armeggiare perché la ragazza si era addormentata. A poco a poco, nel sonno, la sua stretta sul libro si indebolì; il volume si richiuse, le scivolò fra le ginocchia e finì sul pavimento. Riccardo non osò raccattarlo. Dormiva tranquilla e composta, e Riccardo ne approfittò per un inventario più esteso ed approfondito. Dalle scarpe, pesanti ed informi, sembrava proprio che la ragazza fosse inglese: americana no, aveva un' aria troppo domestica. Il viso però non concordava, non aveva nulla d' inglese: era rotondo ed olivastro, i capelli erano castani con una scriminatura, pulita, all' antica. Un viso dormiente, o comunque un viso che non parla, non esprime molto: può essere indifferentemente rozzo o delicato, intelligente o sciocco; lo puoi distinguere solo quando si anima nella parola. Visto così, si poteva solo dire che era giovanile ed arguto; il naso era corto e volto all' in su, la bocca larga ma ben modellata, gli zigomi e gli occhi di un taglio vagamente orientale. Poco dopo si addormentò anche Riccardo, e subito fu consapevole di essere un grande poeta, pio, colto ed inquieto; era reduce dall' incoronazione in Roma, dove aveva vinto il Premio Strega, ed era in viaggio verso la Valchiusa in un vagone speciale assurdamente suntuoso, dalla tappezzeria costellata d' api e di gigli di Francia. Il materasso su cui riposava, però, frusciava fastidiosamente, perché era pieno di foglie secche di lauro, e di fronde di lauro era piena anche la sua valigia. Ciononostante, la ragazza lì di fronte, che, pur non assomigliandole affatto, coincideva ampiamente con Laura, non si curava né dei suoi trionfi né di lui, anzi, pareva che neppure si accorgesse della sua presenza. Lui si sentiva in qualche modo obbligato a rivolgerle la parola, o almeno a tenderle la mano, ma era impedito da un singolare impaccio. Era un impaccio materiale, quasi comico: insomma, per dirla chiara si sentiva incollato a quel materasso, incollato tutto, dalla testa ai piedi, come una mosca sulla carta moschicida. Stando così le cose, neppure lo desiderava veramente, di parlarle. Di tutti i versi splendidi che a suo tempo aveva scritti per lei, non gliene veniva in mente neanche uno, e d' altronde non era neppure del tutto malcontento di essere incollato, perché quella ragazza era moglie di un cavaliere dal nome sinistro (questo nome tuttavia non riusciva a ricordarlo), famoso per la sua gelosia e la sua crudeltà. C' erano poi altri motivi per sentirsi appiccicati alla cuccetta: in competizione con la giovane straniera esisteva intorno a lui un' altra giovane donna di identità ambigua ; di natura, anzi, decisamente duplice, dal momento che viveva a Torino in via Gioberti nel 1966 e simultaneamente da qualche parte in Provenza nel 1366. Su incongruenze di questo genere lui avrebbe potuto benissimo passarci sopra, ma quella era un tipo che non ammetteva compromessi, e non avrebbe accettato concorrenti, neppure nel 1366. Che fare? Riccardo la ricacciò nel subcosciente: per il momento stava meglio lì. Provava poi anche un disagio più profondo e più serio. Era lecito, era decente per un buon cristiano, inventarsi una donna distillandola dai propri sogni allo scopo di amarne l' immagine per tutta una vita, e adoperare questo amore allo scopo di diventare un poeta famoso, e diventare un poeta allo scopo di non morire del tutto, e insieme frequentare quell' altra di via Gioberti? Non era un' ipocrisia? Già si sentiva pesare addosso la cappa degli ipocriti, dorata fuori, plumbea dentro, quando il treno rallentò e si arrestò in una stazione. Una voce femminile-meccanica, ma sicuramente toscana, annunciò nelle tenebre che quella era la Stazione di Pisa, Stazione di Pisa, e che per Firenze e Volterra si cambiava. Riccardo si svegliò; la ragazza (totalmente ridimensionata) anche: si stirò, sbadigliò con garbo, abbozzò un sorriso timido, e disse: _ Pisa. Vituperio de le genti _. Aveva proprio un forte accento inglese. Riccardo, ancora confuso dal sonno e dal sogno, boccheggiò per un istante, e poi replicò correttamente: _ ... del bel paese là dove il sì suona, _ ma non gli riuscì di rammentare il verso successivo. Era rimasto sbalordito dalla ouverture della ragazza: tuttavia si ripromise di mostrarle la Capraia e la Gorgona, non appena il treno si fosse mosso, e se la luna fosse uscita di tra le nuvole. Ma la luna non uscì, e lui si dovette accontentare della spiegazione teorica: di come cioè le due innocue isolette, viste da Pisa in prospettiva, potessero in effetti fare venire in mente, ad un poeta un po' arrabbiato, l' immagine barocca e truce della diga sulla foce dell' Arno, così che a Pisa si annieghi ogni persona. Secondo ogni apparenza se ne accontentò anche la ragazza, che sembrava abbastanza al corrente della faccenda del conte Ugolino, ma cascava dal sonno. Sbadigliò ancora, guardò l' orologio (lo guardò anche Riccardo: era l' una e quaranta), chiese pro forma: _ Si può distendere le membra? _ e senza attendere la risposta si tolse le scarpe e si sdraiò sul sedile occupando tutti i tre posti. Non portava calze; i piedi erano solidi ma graziosi e freschi, quasi infantili. Riccardo stentò a riprendere sonno. "... dove le belle membra pose colei che sola a me par donna": nessun italiano dirà mai "membra", è una di quelle parole che si possono scrivere ma non pronunciare, per via di un nostro misterioso tabù nazionale. Ce ne sono tante: chi, parlando, direbbe mai "poiché" o "alcuni" o "ascoltare"? Nessuno: lui, per esempio, si sarebbe fatto scuoiare prima, come del resto qualsiasi piemontese o lombardo si farebbe scuoiare vivo prima di usare un passato remoto. Su cinque parole che il lessico riporta, una almeno è ineffabile, come le brutte parole. All' alba, poco oltre Roma, la ragazza si svegliò, anzi, si ridestò. Riccardo le offerte una sigaretta, e lei accese per sé e per lui. Attaccare discorso non fu difficile: in pochi minuti Riccardo apprese l' essenziale. Che lei studiava letteratura moderna; che era in Italia per la prima volta, e con pochi quattrini, ma che una zia sposata ad un italiano l' aspettava a Salerno. La pronuncia italiana l' aveva studiata sui dischi, e tutto il resto sui trecentisti, in specie proprio sul Canzoniere del Petrarca, che era l' argomento della sua tesi. Riccardo si accingeva a raccontare le tristezze e le lotte, le amarezze e le vittorie della sua vita, il suo scoramento ricorrente, e insieme la sua sicurezza profonda che sarebbe diventato un giorno uno scrittore celebre e stimato, e la noia sfibrante del suo lavoro quotidiano (ma non le avrebbe detto che lavorava in un' agenzia pubblicitaria: quello no), però la ragazza non lo lasciò neppure incominciare. Finita la sigaretta, tirò fuori un piccolo specchio, fece una smorfia disinvolta e divertita, disse: _ Faccio proprio paura! _ ed uscì dallo scompartimento: annunciò che andava a pettinarsi e a lavarsi le sembianze. Riccardo, rimasto solo, incominciò a far calcoli. Poteva proseguire anche lui fino a Salerno: avrebbe potuto farle da guida, i luoghi li conosceva bene, quattrini ne aveva; ma c' erano le bozze da consegnare a Napoli e il bozzetto che il cliente doveva approvare. Oppure poteva proporre alla ragazza di scendere a Napoli anche lei: a Napoli il fattore campo sarebbe stato favorevole a lui, del Petrarca non si ricordava più molto (lo rimpianse sinceramente, per la prima volta in vita sua: e poi dicono che la cultura classica non serve!), ma insomma sperava che sarebbe riuscito ad essere più divertente della zia di Salerno. Oppure lasciarla andare a Salerno, e proporle un appuntamento a Napoli per il giorno dopo: sarebbe ritornato a Torino con un giorno (o magari due: perché no?) di ritardo, ma un pretesto l' avrebbe trovato. Uno sciopero: scioperi ce n' è sempre. Ma frattanto la ragazza era rientrata nello scompartimento, e subito dopo il treno cominciò a frenare. Riccardo non era un uomo dalle decisioni rapide e facili: si alzò e tolse la valigia dalla reticella, l' aprì e ne ricompose il contenuto, ma intanto, consapevole dello sguardo curioso della ragazza, andava almanaccando febbrilmente una formula di commiato che non lo impegnasse troppo, e insieme non apparisse definitiva. Quando il treno fu fermo nella stazione di Napoli, si voltò, e si trovò davanti lo sguardo della ragazza. Era uno sguardo fermo e gentile, ma con una connotazione d' attesa: sembrava che lei gli leggesse dentro in chiaro, come in un libro. Riccardo le chiese: _ Perché non scende a Napoli con me? _ La ragazza fece di no con il capo. Lo guardava fisso, sorrideva, ed anche lei aveva l' aria di almanaccare, di andare inseguendo una risposta che non si lasciava acchiappare. Si rosicchiava un dito, in atteggiamento infantile; poi, agitandolo solennemente, scandì: _ Quanto piacce al mondo è breve sogno. _ Si pronuncia "sogno", _ disse Riccardo, e si avviò nel corridoio per discendere dal vagone.

Pagina 0240

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

682165
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ne so abbastanza d'altronde, - mormorò il ministro. - Andiamo ad avvertire subito il favorito e prendiamo le nostre misure per sorprendere quei misteriosi congiurati. Fortunatamente abbiamo i seikki e quelli sono guerrieri che non hanno paura di nessuno. - Date prima i vostri ordini, signore - disse il maggiordomo. - Lasciala riposare tranquilla e se si sveglia trattala coi dovuti riguardi. Può essere sotto la protezione del governatore del Bengala ed il rajah non ha alcun desiderio di far entrare gli inglesi in questa faccenda. Domani puoi venire alla corte? - Sì, mio signore. Ho un fratello che fa il chitmudgar. - Veglia attentamente. - Tutti i servi sono stati armati. - Il ministro uscì accompagnato dal maggiordomo e scese nel giardino che si estendeva dietro alla casa. Otto uomini, tutti armati, stavano intorno ad uno di quei palanchini chiamati dâk con due portatori di torce. - Al palazzo del rajah, - comandò il ministro. - Presto: ho molta fretta. -

IL RE DEL MARE

682248
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli. Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime. La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti. I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò. Trecento metri più oltre s'alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d'assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe. Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s'alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna. - Tangusa, - disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, - dove si trova il passaggio? - Di fronte a noi, signore. - Non cadremo in mezzo alle spine? - Vi guido io. - Siete pronti? - chiese Yanez rivolgendosi ai pirati. - Pronti tutti, capitano. - Caricate al grido "Viva Mompracem!" onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti! I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche. Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola: - Viva Mompracem! I tagliatori di teste, sorpresi da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l'animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta. Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò: - Fermi! Sono amici! Aprite la porta! - Ohe, amico Tremal-Naik, - gridò Yanez con voce giuliva. - Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki. - Yanez! - esclamò l'indiano, con una vera esplosione di gioia. - Chi credevi che fosse dunque? - Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa! Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria. Un uomo di statura piuttosto alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po' abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese. Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino. - Qui, sul mio petto, amico Yanez! - aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. - È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia? - Muore di salute. - E la tua Surama? - Mi ama sempre intensamente. E Darma dov'è che non la vedo? - La tigre o mia figlia? - L'una e l'altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia. - Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri. - Come! il maharatto non è qui? - esclamò Yanez. - Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem. - Lo ritroveremo più tardi. - Vieni, amico, - disse Tremal-Naik. - Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem. S'avviò verso il bengalow che s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù. - Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, - disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. - Arresta il sudore. - Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane, amico mio, - disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. - Ed ora spiegami questo mistero. - Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto? - Colla Marianna e dopo d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta. - Dove l'hai lasciata? - All'imbarcadero. - È numeroso l'equipaggio? - Ha forze uguali alle mie. Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto. - Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, - disse Yanez che se n'era accorto. - Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati. - Dal pellegrino? - Sì, Yanez. - L'avrai veduto, tu, quel briccone. - Io? Mai! - Non sai nemmeno tu chi è? - chiese Yanez al colmo dello stupore. - No, - rispose Tremal-Naik. - Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita. - E lui si è guardato bene dall'obbedire? - Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia. - Tanta audacia ha avuto quel miserabile! - esclamò Yanez, indignato. - Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi. - Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, - rispose l'indiano. - Chi è dunque? - Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano. - Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto. - Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto. - Quale? - È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. - disse Tremal-Naik. - Gettalo fuori. - Che potesse essere qualche thug. Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente pallido. - Sei ben certo, Tremal-Naik, - disse poi con voce grave, - che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura? - E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni? - Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine. Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse: - No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug. - Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie? - Le hanno saccheggiate e poi arse. - Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem. - Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari. - E hai fatto un buco nell'acqua, - disse Yanez, ridendo. - Purtroppo. - E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo? - Ti chiedo solo ventiquattro ore, - rispose Tremal-Naik, - per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave. - E correremo al più presto verso Mompracem, - disse Yanez. - La nostra presenza è necessaria laggiù. Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito. - C'è qualche cosa in aria? - chiese. - Ma ... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia. - E quali? - Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese. - E anche la sua ingratitudine, - disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe? - Lui! Ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di ... Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase. - Hai udito? - esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Sì, il cannone tuona verso il sud. - I dayaki attaccano la Marianna! - Seguimi sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

Il Re del Mare s'avanzava a piccolo vapore, per non consumare troppo combustibile, anzi Sandokan, per maggior economia, aveva fatto spiegare le vele basse sul trinchetto e sull'albero maestro, essendo il vento abbastanza fresco e non del tutto sfavorevole. Dopo i consigli del capitano americano, il formidabile pirata era diventato eccessivamente economico nel consumo del combustibile, non potendo provvedersi in alcun porto dopo l'audace dichiarazione di guerra, e durante la traversata fra Labuan e il golfo di Sarawak non aveva fatto uso che delle vele, manovra d'altronde più familiare ai suoi uomini, quantunque non pochi di loro fossero stati già istruiti nel servizio delle macchine dagli americani rimasti a bordo. Yanez e Tremal-Naik, appoggiati alla murata di prora, il cui capo di banda era stato imbottito da amache arrotolate per riparo dei fucilieri, scrutavano attentamente l'orizzonte, mentre Sandokan visitava le batterie e i pezzi per vedere se tutto era in ordine. A levante le coste apparivano confusamente, diventando sempre più elevate di miglio in miglio che s'avvicinavano al dirupato e altissimo promontorio di Sirik, che chiude verso occidente la vasta baia o golfo di Sarawak. Nessun lume però brillava, quantunque in quei luoghi si trovasse la cittadella di Redjang. La notte trascorse così in una continua esplorazione, senza risultato alcuno, ma appena cominciò a diffondersi un po' di luce, si udì subito la voce della vedetta installata sulle crocette del trinchetto a gridare a squarciagola: - Fumo a levante! Yanez, Tremal-Naik e Sandokan si erano subito issati sulle griselle di babordo del trinchetto, innalzandosi fino alla coffa e videro subito, là dove il mare pareva confondersi col cielo, un pennacchio di fumo alzarsi nettamente nella limpida atmosfera mattutina. - Viene dalla foce del Redjang, - disse Yanez. - Scommetterei cento sterline contro una sigaretta che quella è la nave di sir Moreland. - L'hai veduta tu quella nave? - chiese Sandokan a Tremal-Naik. - No, - rispose l'indiano. - Mi hanno detto però che stava completando le sue provviste di carbone alla foce del secondo braccio del Redjang. - Vi è un deposito di combustibili colà? - Udii a parlare d'un praho carico di carbone mandato da Sarawak. Non deve esservi nemmeno una misera borgata su quelle spiaggie. - Peccato, - disse Sandokan. - Ma io ho udito a raccontare che ve n'è uno alla foce del Sarawak invece, su di un'isoletta e dove va a provvedersi la squadra del rajah. - Chi te lo ha detto? - sir Moreland. - Se ci va la squadra del rajah, possiamo bene andarci anche noi, è vero Yanez? - E senza pagarlo, - rispose il portoghese, che non dubitava mai di nulla. - Ecco la prora che comincia ad emergere. Muovono su di noi, Sandokan, ed a tutto vapore. Devono aver scorto anche essi il nostro fumo. Sandokan si levò da una tasca un cannocchiale, lo allungò più che potè e lo puntò sulla nave il cui scafo si cominciava a distinguere anche a occhio nudo. - Una bella nave infatti, - disse. - Lo si direbbe un incrociatore e di forte tonnellaggio. Vedo molti uomini a bordo. - Corre su di noi? - chiese Yanez. - A tiraggio forzato, credo. Teme che noi scappiamo. No, mio caro, non ne abbiamo alcun desiderio. È qui che noi cominceremo le ostilità. - Lo caleremo a fondo? - Mi rincresce pel capitano, - disse Tremal-Naik. - Contraccambiamo molto male la sua ospitalità. - Dorata, ma senza libertà, - disse Yanez. - Prepariamoci, - disse Sandokan. Scesero in coperta, dove s'incontrarono con Darma e con Surama che erano allora salite. - Ci attaccano, mio sahib6?- chiese l'indiana a Yanez. - E farà molto caldo qui fra poco, Surama, - rispose il portoghese. - Noi vinceremo, è vero? - Come abbiamo vinti i thugs di Suyodhana. - È la nave di sir Moreland? - chiese Darma, con una certa ansietà, che non isfuggì all'astuto portoghese. - Almeno lo supponiamo. Poi, prendendola per un braccio e traendola verso la torre di prora, le chiese, sorridendo: - Che cos'hai Darma? È già la terza volta che, udendo parlare del capitano, mi sembri commossa. - Io! - esclamò la fanciulla, arrossendo leggermente. - Vi siete ingannato, signor Yanez. - Per Giove! Che la vecchiaia mi abbia indebolita la vista? - Oh no, ci vedete ancora troppo bene. - Allora? Darma volse il capo verso il mare, fissando i suoi sguardi sulla nave nemica, che forzava la sue macchine e dicendo: - È una grossa nave anche quella. - Che non varrà la nostra - rispose Yanez. - Costringetela ad arrendersi piuttosto che affondarla. Potrebbe esservi utile. - Se è comandata da sir Moreland non abbasserà la bandiera. Quell'uomo, quantunque giovane, deve essere un valoroso e si batterà finchè tutto il suo equipaggio non sarà distrutto. - E non accorderete quartiere a nessuno? - Quando la nave calerà a picco vedremo di salvare i superstiti, te lo prometto, Darma. Ritirati nella cabina con Surama. Qui stanno per piovere le granate. La voce formidabile, sonora come lo squillo d'una tromba, della Tigre della Malesia, echeggiò in quel momento sul ponte: - A tutto vapore, ingegnere di macchina! Pronti pei fuochi di bordata! Dietro le brande i fucilieri! La nave avversaria che doveva essere fornita di macchine poderose, non era più che a duemila metri e muoveva diritta sul Re del Mare delle tigri di Mompracem, come se avesse avuto intenzione di speronarlo o per lo meno di abbordarlo. Era un bell'incrociatore e fornito di sperone, con tre alberi e due ciminiere. Pareva che fosse potentemente armato a giudicarlo dal numero dei suoi sabordi e anche in coperta si scorgevano parecchi pezzi, ma non protetti da torri blindate come quelli delle tigri di Mompracem. Dietro le murate e perfino sulle coffe si vedevano numerosi fucilieri e sul ponte di comando parecchi ufficiali. - Ah! - disse Sandokan, che lo contemplava con occhio tranquillo. - Vuoi misurarti pel primo colle tigri di Mompracem? Siamo pronti a riceverti. Mentre le due fanciulle sgombravano rapidamente la coperta rifugiandosi nel quadro di poppa, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si ritrassero nella torretta di comando dove potevano mettersi in comunicazione col personale di macchina. Gli artiglieri americani, assieme ai migliori puntatori malesi, attendevano dietro ai loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano. Ad un tratto una detonazione scoppiò al largo, mentre un getto di fuoco sfuggiva da uno dei due pezzi di prora dell'incrociatore. Si udì un rauco sibilo, che s'avvicinava rapidissimo attraverso gli strati d'aria, poi una vampa s'alzò sull'orlo della prima torretta di babordo del Re del Mare, mentre delle schegge passavano sibilando sopra i fucilieri appiattati dietro le murate. - Granata da dodici pollici! - aveva esclamato Yanez. - Buon tiro! La voce di Sandokan si fece udire subito. - Artiglieri, non vi trattengo più! I due pezzi da caccia di prora avvamparono nell'istesso tempo, mentre quelli della batteria di tribordo, trovandosi a buon tiro, tuonavano a loro volta con rimbombo tale da far tremare tutta la nave. L'incrociatore, che aveva già guadagnato altri cinquecento metri e che manovrava in modo da presentare all'avversario il suo fianco di babordo, fu sollecito a rispondere. Palle e granate cominciavano a cadere in gran numero su entrambi i vascelli, scrosciando lungo i fianchi di ferro e scheggiando i ponti, smussando i pennoni e massacrando le manovre. Le granate, scoppiando, lanciavano in alto getti di fuoco, minacciando ad ogni istante di incendiare le alberature. I fucilieri, coricati dietro le murate, a loro volta avevano aperto il fuoco, facendo delle scariche nutrite. Una fitta nuvola di fumo avvolgeva le due navi, rotta da lampi, mentre il fracasso era diventato così formidabile da soffocare la voce dei comandanti. La nave americana, meglio protetta, meglio armata e anche più rapida, e montata da un equipaggio ormai incanutito fra il fumo delle battaglie, aveva buon gioco contro l'avversario. Le sue poderose artiglierie battevano terribilmente l'incrociatore, coprendolo di fuoco e di ferro, demolendogli le murate, massacrando le sue manovre e aprendogli fori considerevoli nello scafo. Invano la povera nave, che aveva creduto di annientare facilmente i pirati di Mompracem, cercava di tener testa a quell'uragano di ferro che cadeva sui suoi ponti con un orrendo frastuono, facendo strage degli artiglieri della coperta e dei fucilieri. Le sue palle rimbalzavano sulle piastre metalliche del Re del Mare e le sue granate non riuscivano a demolire le torri blindate, dietro le quali gli artiglieri di Mompracem, sotto la direzione dei quartiermastri americani, sparavano al sicuro. Sandokan aveva fatto ritirare sotto coperta i suoi fucilieri, avendo compresa l'inutilità di quegli uomini, necessari sui prahos, ma non su simili navi, e aveva dato il comando di muovere addosso all'incrociatore per dargli l'ultimo colpo. Il Re del Mare, quasi ancora incolume, nonostante il furioso e ininterrotto cannoneggiamento dell'avversario, si era slanciato innanzi descrivendo una immensa curva attorno all'incrociatore che si era fermato. A quattrocento metri gli scaricò addosso una terribile bordata coi pezzi del ponte e quelli di babordo, demattandolo e rasandolo come un pontone. Perfino le due ciminiere erano rovinate in coperta, divelte da due granate scoppiate alla loro base. - È finito, - disse Yanez. - Intimiamogli la resa. - Se si arrenderanno, - rispose Sandokan. Lasciò che il vento diradasse il fumo e fece innalzare sulla cima dell'alberetto maestro la bandiera bianca. La risposta fu una bordata che fulminò metà dei timonieri del Re del Mare. - Non ne avete abbastanza? - gridò Sandokan. - Calatelo a fondo! Fuoco! Fuoco senza tregua! Il cannoneggiamento ricominciò con un crescendo spaventevole. Il Re del Mare continuava la sua rapida corsa circolare opprimendo il disgraziato incrociatore sotto un fuoco spaventevole. La nave americana faceva meraviglie. Pareva un vulcano avvampante, pronto a tutto distruggere. L'incrociatore nondimeno opponeva una resistenza eroica, quantunque ormai fosse ridotto ad un ammasso di rovine. I due pezzi della coperta, smontati da quella grandine di granate, non rispondevano più. Il ponte era pieno di morti e di feriti mescolati a pezzi di murate, a pennoni spaccati, a lembi di manovre cadute dalle alberature sotto gli ultimi uragani di mitraglia ordinati da Sandokan. Getti di fuoco correvano da prora a poppa, illuminando sinistramente il mare, mentre dagli ombrinali di babordo e di tribordo sfuggivano getti di sangue. La nave si sfasciava sotto i colpi furiosi, mortali del Re del Mare. - Basta! - gridò ad un tratto Yanez, che dalla torre di comando assisteva a quella strage. - Cessate il fuoco! Le scialuppe in mare! Sandokan che guardava freddamente, terribilmente impassibile, si volse verso il portoghese, dicendogli: - Che cosa comandi, fratello? - Che il massacro cessi. La Tigre della Malesia ebbe un momento di esitazione, poi rispose: - Hai ragione: salviamo i superstiti. Quegli uomini o meglio il loro comandante è un eroe! Mettete in acqua le scialuppe!

I CORSARI DELLE BERMUDE

682285
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Siamo abbastanza lontani per non temere l'esplosione della mina. - Dove finiremo? - Lo vedremo più tardi. - Orizzontiamoci, comandante, - disse il bretone. - Conosci Boston? - Ci sono stato due volte, ma vent'anni fa. Ora non so più come siano le sue vie, pure credo che una certa taverna esista ancora. Lavorava tanto, perciò il suo padrone non può essere fallito, né fuggito nell'America del Sud. - Sapresti trovarla? - Mah! Con questa oscurità non è cosa facile. Diamine, non ho una bussola piantata nel cervello. In quel momento avvenne uno scoppio che li scaraventò tutti e tre a terra. La mina era scoppiata con fracasso spaventevole, lanciando in aria le casematte ed una parte del bastione. - Povero pappagallo! - esclamò Testa di Pietra che si era prontamente rialzato tastandosi le costole. - A quest'ora viaggia verso l'altro mondo, colla velocità di trenta o quaranta nodi all'ora. Deve soffiare sempre buon vento in quel brutto paese. Urla spaventevoli echeggiavano. Alcuni soldati fuggivano come pazzi in tutte le direzioni gridando: - Aiuto! aiuto Dalle finestre delle case prospicienti il bastione erano caduti con gran fragore i vetri. Il Corsaro e Piccolo Flocco non avevano riportato nessuna contusione, essendo, in virtù delle loro buone gambe, abbastanza lontani dal luogo dello scoppio. - Capitano. - disse Testa di Pietra - pare che di pappagalli ne siano volati in buon numero, non so se in cielo o all'inferno. Nei quartieri vicini squillavano le trombe per chiamare a raccolta i soldati dispersi per la città, ed avviarli sul luogo del disastro. Già dei furgoni carichi d'inglesi e di assiani correvano all'impazzata, per portare i primi soccorsi. - Gettiamoci in una viuzza oscura - disse il Corsaro. - se ci scorgono ci manderanno al bastione e non ho nessun desiderio di rivederlo. Fila, Testa di Pietra. Il bretone prese la corsa attraverso terrapieni ingombri d'artiglierie e di carri e, raggiunte le prime case, si gettò dentro un viottolo, che nessuna lanterna illuminava e che pareva deserto. - Ci fosse almeno una taverna aperta! - disse. - Oh, ne troveremo! - rispose il Corsaro. - Gl'inglesi sono troppo buoni bevitori per farle chiudere, specialmente in queste notti. Finestre si aprivano e teste si disegnavano vagamente alla luce delle lanterne. Domande e risposte s'incrociavano fra gl'inquilini. - Che cosa è saltato? - Un forte di sicuro. - È saltata la torre di Oxford insieme col castello. - Ma no, lo scoppio è avvenuto in direzione opposta. - Poveri figliuoli! Dopo che il Corsaro aveva riacceso l'occhio di bue, si erano rimessi in marcia, tenendo la mano sinistra appoggiata sul calcio d'una delle loro pistole. Il bombardamento continuava malgrado il disastro. Le palle americane giungevano facilmente in città dall'altura, sfondavano tetti e spaccavano muraglie. Di quando in quando altre esplosioni si succedevano, seguite da urli di spavento e da un fragoroso crollare di rottami. Erano le grosse granate dei mortai della corvetta che facevano quelle prodezze. - Suona la musica a bordo della Tuonante - dice Testa di Pietra. - Se si chiama Tuonante deve ben tuonare, per il borgo di Batz! ... Bum! Questi sono i cannoni da caccia di poppa. Saprei distinguere la loro voce fra mille altri pezzi. Percorsero, quattro o cinque viottoli fiancheggiati da case basse ed oscure che parevano disabitate; poi si fermarono dinanzi ad una lampada sospesa, sopra una porta. - Albergo delle trenta corna di bisonte! - lesse Piccolo Flocco sull'insegna, e domandò: - Che si possa mangiare bisonte qui, mastro Testa di Pietra? - Che io sappia, i bisonti non portano che due corna, quindi là dentro ve ne dovrebbero essere almeno quindici sempre a disposizione degli avventori. - Chiudete il becco! - disse il Corsaro, mettendo le mani su un anello di ferro che voleva essere una maniglia e spalancando la porta dell'albergo delle Trenta corna di bisonte. Un'ondata di fumo puzzolente li investì. Avevano fumato molto là dentro, quella sera, malgrado il bombardamento. L'albergo non era altro che una tavernaccia d'infimo ordine, che consisteva in uno stanzone assai basso dalle pareti ben affumicate, con una mezza dozzina di tavolini sgangherati e di scanni in non migliore stato, e illuminata da un'unica candela di sego che dava più fumo che luce. Dietro il banco, un omaccione coi capelli e la barba rossa e due occhi grossi come quelli dei buoi, dall'aria stupida, fumava la pipa reggendosi la testa con una mano. Scorgendo il Corsaro si alzò dicendo: - Buona sera, gentleman: che cosa posso servire a Vostro Onore? - Portaci una bottiglia di gin o di brandy, purché sia buono, rispose sir William sedendosi al tavolino che era più vicino alla candela. - Ne ho ancora qualcuna, gentleman. Se foste giunto fra qualche giorno, con mio grande dispiacere avrei dovuto rimandarvi, perché non entra più nulla nella piazza, Quest'assedio è la mia rovina. - Raddoppia i prezzi delle bottiglie che ancora possiedi, mastro Taverna - disse Testa di Pietra. - Ecco un bel consiglio. - Infatti avete ragione. - Ma non cominciare da noi. I consigli si pagano sempre, specialmente quelli che danno gli avvocati. - Ah! siete avvocato? - Sì, del catrame, - rispose il bretone, scoppiando in una risata. Il taverniere lo guardò stupidamente, poi scosse la sua grossa testa fulva e scese in cantina. - Si può fumare, comandante? - chiese il bretone. - Fa' quello che vuoi - rispose il Corsaro, che era diventato improvvisamente di cattivo umore. Testa di Pietra trasse da una delle sue dodici tasche la preziosa reliquia di famiglia, la caricò con cura minuziosa e l'accese alla fiamma della candela. - Pare impossibile - disse, dopo essersi avvolto in una nuvola di fumo - tutte le volte che adopero questa pipa mi pare di trovarmi in Bretagna. - Nel castello dei tuoi avi - disse Piccolo Flocco con aria grave. - Sappi, per tua regola, ragazzaccio, che i miei avi dormivano sempre sul mare e non avevano quindi bisogno di castelli - rispose il bretone. - Su qualche barca sconquassata. - Briccone! Mio nonno andava a pescare il merluzzo fino sulle coste dell'Islanda, ed il suo skooner era considerato il miglior veliero di tutte le coste bretoni. Se fosse stata una carcassa, mio nonno sarebbe morto sul mare, mentre ha chiuso gli occhi sul suo letto. - Foderato di piume d'edredon. - Sicuro! Portava sempre dall'Islanda quelle preziose penne che tengono tanto caldo. Il ritorno del taverniere, armato d'una bottiglia discretamente polverosa e di tre tazze, interruppe quella disputa che avrebbe potuto andare molto per le lunghe, ma alla quale il Corsaro pareva non avesse prestato nemmeno orecchio. - Vecchia, mastro Taverna? - chiese il bretone. - Cinquant'anni. - Corpo di centomila corna di bisonte! In quale distilleria della Inghilterra l'hai veduta nascere, se non hai nemmeno quarant'anni? - Bisognerebbe domandarlo a mio padre - rispose serio serio il taverniere. - Fallo venire. - È morto vent'anni fa, dopo aver bevuto, in seguito ad una scommessa, tre bottiglie di whisky. - Beveva per incoraggiare gli avventori - disse Piccolo Flocco. - E vi ha lasciata la pelle. - E la cantina a voi, mastro Taverna, - disse il bretone. - assaggiamo dunque questo famoso ... che cos'è? - Gin - Che ha cinquant'anni di prigionia. Comandante, se è vero che è così vecchio, vi metterà di buon umore. Il Corsaro non rispose. Colla testa appoggiata al braccio sinistro, gli sguardi fissi dinanzi a sé, il volto pallido, non si occupava di quanto accadeva intorno a sé. Certo doveva pensare in quel momento a Mary di Wentwort. - Soffia tempesta! - sussurrò il bretone in un orecchio del giovane gabbiere. Il taverniere sturò la bottiglia, empì una tazza, e subito si vide cadere, insieme col liquido, una cosa nerastra che mastro Testa di Pietra si affrettò a prendere. - Corpo d'una barca sventrata! - urlò. - Cosa faceva tuo padre? Il conservatore di scorpioni sotto spirito? Il taverniere era rimasto stupefatto e guardava con due occhi smarriti un superbo scorpione, magnificamente conservato, che il bretone teneva stretto fra le sue dita. - Che cosa ci fa qui dentro questa bestiaccia? - chiese Testa di Pietra -, guardandolo di traverso. - Volevi forse avvelenarci perché siamo inglesi? Ti faremo tradurre dinanzi al Consiglio di guerra e fucilare come traditore. - Perdonate, - rispose il taverniere balbettando e tremando. Questa è la bottiglia dove metteva in infusione gli scorpioni. - E volevi darci ad intendere che era stata tappata cinquant'anni fa in non so quale distilleria gallese? - Ho sbagliato, non avevo un lume. - Avaro! dovevi accendere una candela. - Non se ne trovano quasi più a Boston, e bisogna economizzare quelle poche che ancora rimangono. - E perché fai raccolta di scorpioni? Per avvelenare i soldati inglesi? Si vede bene che sei un americano, forse amico di quella canaglia di Washington o di quell'altra pellaccia che si chiama Arnold. - No, no, mister. Li metto in infusione per sanare più rapidamente le ferite. - Per il borgo di Batz! Hai mai udito raccontare che un taverniere facesse anche il farmacista? - Mai - rispose seriamente il giovane gabbiere. - E nemmeno voi, comandante? Il Corsaro si limitò a sorridere e a crollare la testa. - Riporta nella cantina i tuoi scorpioni - disse Testa di Pietra - e portaci un'altra bottiglia. Non dimenticare che se vi trovo qualche serpente in infusione, ti faccio fucilare. Il taverniere scappò via colla bottiglia, dicendo: - Scendo col lume, questa volta. - Crepi l'avarizia! - gli gridò dietro Piccolo Flocco. Un istante dopo risaliva con un'altra bottiglia di aspetto più venerando, perché aveva un bel contorno di ragnatele polverose. - Cent'anni? - chiese il bretone. - No, sessanta - rispose il taverniere. - L'ha tappata tuo nonno? - Mia madre. - Allora dev'essere eccellente: cambia le tazze e vuota. - Non l'hai ancora finita, vecchio brontolone? - chiese il Corsaro. - Comandante, - rispose Testa di Pietra - chiacchiero come una dozzina di pappagalli per distrarvi. Siete di pessimo umore stanotte, mentre dovreste esser contento ora che siamo entrati nella piazza. Qui non c'è burrasca. - Puoi avere ragione - rispose il Corsaro con un pallido sorriso. Prese la tazza che gli stava dinanzi poi la vuotò d'un fiato. - Proprio messo in prigione sessant'anni fa? - chiese Testa di Pietra; ma sir William rispose con una scrollata di spalle. - All'assalto anche noi, Piccolo Flocco. - Sempre, mastro, - rispose il giovane gabbiere. E tracannarono, senza nemmeno gustarlo, il fortissimo liquore. - Che te ne pare, figliuolo mio? - chiese il bretone. - Non so. - La mia pipa è più forte. - Sfido io! vi hanno fumato tre o quattro uomini per un paio di secoli almeno! - Non so se siano veramente due secoli, - rispose Testa di Pietra - ma molti anni sono passati attraverso questa pipa. Il turco che l'ha fabbricata doveva essere un vero artista ed anche ... Una mossa brusca del Corsaro gli troncò la frase Sir William si era alzato ed aveva fissato il taverniere, il quale si era fermato presso il tavolino, come se aspettasse un giudizio sulla bottiglia. - Da quanti anni di trovi in Boston? - gli chiese. - Ci sono nato, Vostro Onore. Dunque, ti trovavi qui quando gli americani assediarono la piazza. - Sì, mio gentleman. - Allora conoscerai tutti i comandanti dell'armata. - Certo, signore. - Anche il marchese d'Halifax? - Ho avuto l'altissimo onore di portargli le mie ultime bottiglie di Bordeaux e di Champagne. - Ah! Dove abita? - Nel castello d'Oxford. Mi stupisco come Vostro Onore lo ignori - disse il taverniere. - Ci troviamo qui solamente da ieri, e non conosciamo affatto la città. - Abita nel castello d'Oxford? - esclamò Testa di Pietra. - So dove si trova, e vi saprei condurre ad occhi bendati, comandante. È il punto meglio fortificato della piazza: è vero, mastro Taverna? L'oste fece col capo un cenno affermativo. - Siediti - disse il Corsaro. Il taverniere obbedì, ma tenendo lo sgabello ad un paio di metri dalla tavola. - Hai mai veduto, nel castello, una fanciulla bionda? - Le ho portato due bottiglie di vino del Reno, mio gentIeman. Erano le ultime che tenevo nella cantina; due bottiglie che devono aver fatto molto onore all'Albergo delle trenta corna di bisonte. - Bum! - esclamò Testa di Pietra. - Vi erano certamente dentro scorpioni! - Ah, no, signore, - rispose il taverniere. - Non potrebbero conservarsi! - Per caso non ne avresti ancora una bottiglia? - Credo di si. - Portala subito: ma ti avverto che se vi trovo uno scorpione, parola di marinaio, dò fuoco alla tua baracca. Comandante, permettete che il vostro vecchio lupo di mare ve l'offra. Uomini che sono sfuggiti miracolosamente alla morte hanno ben diritto di bere più d'un bicchierotto e di quello prelibato. - Fa' come vuoi - rispose il Corsaro sorridendo. - Sei il più pazzo dei miei marinai. - Quando affermate ciò, ci credo, - rispose il bretone con gravità - e appena terminata la campagna, andrò a rinchiudermi in un manicomio.

I FIGLI DELL'ARIA

682332
Salgari, Emilio 3 occorrenze

Sono stati abbastanza puniti. - Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto. - Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta. - Non andremo a Lhassa? - chiese Fedoro. - No, ho fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India. - Attraversando il Nepal? - È probabile - rispose il capitano. - E dove finiremo? - Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze. - Non andremo a Calcutta? - insistette Fedoro. - Non desidero che mi si veda colà. Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo: - Guardate il Nigkorta: è stupendo. L'enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin- thang-la. Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso. Lo "Sparviero", costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all'ora. Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto. L'indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza. Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell'Himalaya. Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti. Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre. Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso. È più lungo del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo "Sparviero" lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi. - Noi spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani fuggiranno. - Se ci vedranno - disse il capitano. - Viaggeremo di notte? - Non amo che gl'inglesi mi scorgano. - Non volete aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso. - Per ora no. - Eppure avete attraversato l'America. - E chi mi ha veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California? - No, mai, signore. - Eppure io sono passato su tutte quelle città. - E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro "Sparviero"? - Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando. Lo "Sparviero" correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri. La gigantesca catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India. Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti. Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

. - E noi siamo abbastanza vicini per fucilarli - disse il capitano che li aveva raggiunti, portando tre splendidi Remington. - Volete provare! Il bersaglio non è che a mille metri ed è molto visibile. A voi, signor Rokoff; i cosacchi sono, in generale, dei buoni tiratori. - Cercherò di non smentire la loro fama, capitano. Mirerò il capofila, quello che monta quel cavalluccio morello. L'uomo o l'animale? - Il cavallo prima; d'altronde il mongolo a piedi è come il gaucho della pampa argentina. Non conta più, essendo un pessimo camminatore. - Vediamo - disse Rokoff. S'appoggiò alla balaustrata di poppa, si piantò bene sulle gambe, poi abbassò lentamente il fucile mirando con grande attenzione. L'arma rimase un momento ferma, tesa quasi orizzontalmente, poi uno sparo risuonò lungamente fra le collinette sabbiose del deserto. Il cavallo morello s'impennò violentemente rizzandosi sulle gambe posteriori e scuotendo la testa all'impazzata, poi cadde di quarto, sbalzando a terra il cavaliere prima che questi avesse avuto il tempo di sbarazzare i piedi dalle staffe. Altri tre cavalli che venivano dietro a corsa sfrenata, inciamparono nel caduto, stramazzando l'uno addosso all'altro e scavalcando gli uomini che li montavano. - Ben preso, signor Rokoff - disse il capitano. - Scommetterei un dollaro contro cento che la vostra palla ha colpito quell'animale in fronte. Vi ammiro. - Tiro come un cosacco delle steppe - rispose Rokoff, ridendo. I mongoli, sorpresi e anche spaventati da quel colpo maestro si erano arrestati intorno ai caduti urlando. La loro sosta fu brevissima. Appena videro i compagni rialzarsi, ripartirono al galoppo, sparando e vociando. - Ah! Non ne hanno abbastanza! - esclamò il capitano. - Vogliono farsi smontare? Sia! Stava per puntare il fucile, quando in aria si udì uno scricchiolio, poi il fuso si spostò, piegandosi un po' su un fianco. - Maledizione! - gridò il capitano. - L'ala ha ceduto! Macchinista, le eliche prima che la discesa cominci! Il fuso non si era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri. - Ci raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff. - I mongoli? - Sì. - Guadagnano già. - Ed il vento è debole - aggiunse Fedoro. - Signori, si tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o superate quelle colline. - Rokoff - disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra. - Ed a me quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli. Puntarono le armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi d'intervallo. Questa volta non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una superba volata in avanti. I mongoli, vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora giungere fino allo "Sparviero". La paura cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a continuare l'inseguimento. Conoscendo ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli. - La nostra scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano. - È stata una vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff. - Volete continuare capitano? - È inutile sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare. D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco lontane. - Non potranno superarle? - chiese Fedoro. - Non credo. Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. - Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti. - Nondimeno teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli. I mongoli invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia. Che cosa attendevano? Che lo "Sparviero" si decidesse a scendere o che, esausto capitombolasse? Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Il lebbroso si era fermato guardando la fossa, come per assicurarsi che fosse abbastanza profonda. Si volse quindi verso il corteo, li salutò sorridendo, poi estrasse dalla ho-pao (borsa usata da tutti i cinesi) che portava alla cintura una piccola fiala e la vuotò d'un colpo, senza che le sue mani provassero il menomo tremito. - Deve essere oppio - disse Fedoro. Ciò fatto il lebbroso, sempre calmo e tranquillo si sdraiò nella ricca cassa incrociando le mani sul petto e fece un segno col capo. I due portatori coprirono sollecitamente la bara, inchiodarono frettolosamente il coperchio e la calarono nella fossa, facendo precipitare la terra ammucchiata intorno. - Se ne va contento - disse Rokoff, stupito. - Questi cinesi non temono dunque la morte? - No - rispose Fedoro. - Figurati che si preparano la bara molti anni prima che la morte li colpisca e che se la tengono sempre sotto il letto. - E noi abbiamo lasciato fare! - Non era cosa che ci riguardasse - disse il capitano. - D'altronde non intervenendo abbiamo abbreviato le torture che quel disgraziato soffriva e forse da parecchi anni. Scendiamo e tagliamo il passo a quelle persone. Se il loro villaggio non è lontano, andremo a farci vendere del tè. Girarono la rupe e avendo trovato un sentieruzzo, si calarono nel burroncello, giungendovi quando gli uomini e donne stavano per lasciare la tomba del lebbroso. Vedendo comparire improvvisamente quei tre uomini armati di fucili, i cinesi si radunarono prontamente coprendo le loro donne le quali, credendo forse d'aver a che fare con dei briganti, si erano messe a urlare disperatamente. - Pace - disse il capitano in buon cinese. - Non temete nulla dall'uomo bianco, che è amico dei cinesi. Un vecchio, che aveva una coda lunghissima e due baffi che gli giungevano fino a mezzo petto, si fece innanzi, muovendo le mani in forma di ventaglio e ripetendo: isin! isin! parola che equivale ad un deferente saluto. - Chi è l'uomo che avete sepolto? - chiese il capitano. - Un lebbroso, signore, che era stanco di soffrire - rispose il vecchio, gettando uno sguardo spaventato sui tre stranieri. - Non l'avete costretto? - No, signore, lo giuro sui miei antenati. - Dov'è il vostro villaggio? - Laggiù, in fondo a quella valletta. - Siete in molti? Tutta la popolazione è qui. - Avete del tè da venderci? - Sì, signore. Me ne porterete quanto più potrete; vi avverto però che se vi farete attendere troppo o se fuggirete, manderò ad inseguirvi un drago enorme, il quale vi divorerà tutti. - Conosciamo abbastanza la potenza degli uomini bianchi per non esporci al rischio di provarla - rispose il vecchio, che continuava a tremare. - Siccome non mi fido di te, lascerai qui qualche ostaggio fino al tuo ritorno. - Ti lascerò la figlia del lebbroso. - Purché non abbia delle pustole. - Giudicherai tu stesso, signore, se è più sana di me. Vieni, Tsi! Una fanciulla di tredici o quattrodici anni, con un visetto grazioso che la faceva rassomigliare ad una europea, salvo la tinta della pelle che era d'un giallo sbiadito, e un'abbondante capigliatura raccolta in trecce, si fece innanzi, barcollando sulle due scarpettine quasi microscopiche. Come suo padre, il povero lebbroso, indossava un casacca di seta e portava dei larghi nin-ku, specie di calzoni che scendono fino alla noce dei piedi. Sulla testa aveva una di quelle piccole sciarpe chiamate nin-hiai, usate dalle piccole persone benestanti. Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682342
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Attraversò il bosco di cocchi perdendo parecchie ore e quantunque la notte fosse abbastanza inoltrata, rientrò nella jungla piegando verso il sud e continuò a marciare così fino a mezzanotte, fermandosi di quando in quando ad esaminare il terreno colla speranza di trovare qualche traccia del padrone. Disperando ormai di scoprire qualche indizio, stava per cercare un albero su cui passare il restante della notte, quando due sordi spari, tirati a poca distanza l'un dall'altro, lo colpirono. - To' - esclamò sorpreso. Un terzo sparo, più forte degli altri due, s'udì. - Il padrone! - gridò. - Questa volta non mi sfugge più! Sospese le sue ricerche e corse verso il sud colla celerità d'un cavallo, e mezz'ora dopo giungeva in un'ampia radura, in mezzo alla quale illuminata da uno splendido chiaro di luna, ergevasi una grandiosa pagoda. Fece alcuni passi innanzi, poi ritornò rapidamente indietro riguadagnando i bambù. Due uomini si erano mostrati all'aperto e muovevano verso la jungla, portando una terza persona che sembrava morta. - Cosa vuol dire ciò? - borbottò il maharatto, che cadeva di sorpresa in sorpresa. - Che vengano a seppellire quel cadavere nella jungla? S'allontanò ancor più, cacciandosi nel fitto d'un cespuglio, ma in un luogo da cui poteva vedere senza essere scoperto. I due portatori, che riconobbe per due indiani, attraversarono rapidamente la radura, arrestandosi presso i bambù. - Animo, Sonephur, - disse uno dei due. Facciamolo dondolare e scagliamolo là in mezzo. Sono certo che domani mattina non troveremo che le ossa, se le tigri saranno d'umore di lasciarle. - Lo credi? - chiese l'altro. - Sì, la nostra amata dea s'incaricherà d'inviargli una mezza dozzina di quelle bestie. Quest'indiano è un bel pezzo di carne e abbastanza giovane. I due miserabili scoppiarono in una sonora risata, a quell'atroce scherzo. - Prendilo bene, Sonephur. - Andiamo, uno, due ... I due indiani fecero oscillare il cadavere e lo scagliarono in mezzo alla jungla. - Buona fortuna! - gridò uno. - Buona notte, - disse l'altro. - Domani mattina verremo a farti una visita. Ed i due indiani s'allontanarono sghignazzando. Kammamuri aveva assistito a quella scena. Aspettò che i due indiani fossero molto lontani, poi uscì dal nascondiglio e spinto da una forte curiosità, s'avvicinò al cadavere. Un urlo strozzato gli uscì dalle labbra.- Il padrone! esclamò con voce straziante. - Oh! i maledetti! Infatti quel cadavere era Tremal-Naik. Aveva gli occhi chiusi, la faccia orribilmente alterata e in mezzo al petto, confitto sino al manico, un pugnale. Le vesti erano tutte lorde del sangue che usciva ancora dalla profonda ferita. - Padrone! mio povero padrone! - singhiozzò il maharatto. Appoggiò ambe le mani sul corpo di lui e trasalì come se fosse stato toccato da una pila elettrica. Gli pareva d'aver sentito il cuore a battere. Avvicinò l'orecchio e ascoltò rattenendo il respiro. Non vi era da ingannarsi: Tremal-Naik non era ancor morto poiché il cuore debolmente batteva. - Forse non è colpito a morte, - mormorò, tremando per l'emozione. - Calma, Kammamuri, e agiamo senza perdere tempo. Con precauzione tolse a Tremal-Naik il kurty mettendo a nudo l'ampio petto. Il pugnale gli era stato immerso fra la sesta e la settima costola, in direzione del cuore, ma senza averlo toccato. La ferita era terribile, ma forse non era mortale; Kammamuri che se ne intendeva più d'un medico, sperò di salvare l'infelice. Prese delicatamente l'arma e lentamente, senza scosse, la estrasse dalla ferita: un getto di sangue caldo e rosso uscì dalle labbra. Era buon segno. - Guarirà, - disse il maharatto. Stracciò un pezzo del kurty ed arrestò l'emorragia che poteva essere fatale pel ferito. Ora si trattava di avere un po' d'acqua e alcune foglie di youma da spremere sulla piaga, per affrettare la cicatrizzazione. - Bisogna a qualsiasi costo allontanarsi da qui per trovare qualche stagno, - mormorò poi. - Tremal-Naik è forte, un uomo d'acciaio e sopporterà il trasporto senza aggravare la ferita. Animo, Kammamuri. Raccolse tutte le sue forze, lo afferrò fra le braccia più delicatamente che poté, e s'allontano barcollando, dirigendosi verso l'est, ossia verso il fiume. Riposando ogni cento passi per tirare il fiato e per vedere se il padrone dava sempre segno di vita, grondante di sudore, reggendosi a mala pena sulle gambe, percorse più d'un miglio e si fermò sulle rive d'uno stagno d'acqua limpidissima, circondato da una triplice fila di piccoli banani e di cocchi. Depose il ferito su di un denso strato d'erbe, ed applicò sulla sanguinosa piaga delle pezzuole bagnate. A quel contatto un debole sospiro, che parve un gemito represso, uscì dalle labbra di Tremal-Naik. - Padrone! padrone! - chiamo il maharatto. Il ferito agitò le mani ed aprì gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno, fissandoli su Kammamuri. Un raggio di gioia illuminò il suo bronzeo volto. - Mi riconosci, padrone? - chiese il maharatto. Il ferito fece un cenno affermativo col capo e mosse le labbra come per parlare, ma non articolò che un suono confuso, incomprensibile. - Non puoi ancora parlare, - disse Kammamuri, - ma mi narrerai ogni cosa poi. Sta' certo, padrone, che ci vendicheremo dei miserabili che t'hanno conciato così malamente. Lo sguardo di Tremal-Naik brillò di un cupo fuoco e strinse le dita strappando le erbe. Egli lo aveva senza dubbio compreso. - Calma, calma, padrone. Ora troverò io alcune erbe che ti faranno molto bene, e fra quattro o cinque giorni abbandoneremo questi luoghi e ti condurrò alla capanna a terminare la tua guarigione. Gli raccomandò un'ultima volta silenzio e immobilità completa, batté le erbe per un raggio di trenta o quaranta passi per assicurarsi che non nascondevano alcuno di quei terribili serpenti detti rubdira mandali il cui morso fa, come si dice, sudar sangue, e si allontanò strisciando. Non corse molto, che trovò alcune pianticelle di youma, volgarmente chiamate lingua di serpente il cui succo è un balsamo prezioso per le ferite. Ne fece una buona raccolta e si disponeva a ritornare, ma fatti appena pochi passi s'arrestò colle mani sui calci delle pistole. Gli era sembrato di aver veduto una massa nera cacciarsi silenziosamente fra i bambù; aveva più la forma d'un animale, che d'un essere umano. Fiutò a più riprese l'aria e sentì un odore marcatissimo di selvatico. - Attento Kammamuri, - mormorò. Abbiamo una tigre vicina. Si mise fra i denti il coltellaccio e s'avanzò intrepidamente verso lo stagno guardando attentamente attorno. S'aspettava di trovarsi da un momento all'altro di fronte al feroce carnivoro, ma così non fu e giunse in mezzo agli alberi senza averlo nemmeno veduto. Tremal-Naik era nel medesimo luogo di prima e pareva assopito, di che si rallegrò il bravo maharatto. Si mise vicino la carabina e le pistole per esser pronto a servirsene, masticò le erbe, malgrado la loro insopportabile amarezza e le applicò sulla piaga. - Là, così va bene, - diss'egli stropicciandosi allegramente le mani. - Domani il padrone starà meglio e potremo sloggiare da questo luogo che non mi sembra molto sicuro. Gl'indiani fra poche ore si recheranno nella jungla e non trovando il cadavere, si metteranno senza dubbio in campagna. Non lasciamoci dunque prendere così ... Un miagolìo formidabile, famigliare alle tigri, simile ad un ruggito, gli troncò la frase. Volse rapidamente la testa, allungando istintivamente le mani verso le armi. Là, a quindici passi di distanza, raccolta su se stessa, come in atto di slanciarsi stava un'enorme tigre reale, che lo fissava con due occhi brillanti che avevano i riflessi azzurrini dell'acciaio.

Il maleficio occulto

684137
Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

Lo sconosciuto portava la barba bionda; evidentemente egli pensava che la natura non gli aveva foggiato una testa abbastanza lunga e se l'era allungata per conto proprio con la barbetta a punta, rada sulle guancie e minacciosamente ricurva al vertice. Naso ricurvo; barba ricurva; mani dalle unghie ricurve; egli era un uomo che lanciato nello spazio, avrebbe trovato sempre maniera di aggrapparsi a qualche cosa, e ciò, non saprei per qual ragione, mi dispiaceva profondamente. Donna Clara, durante la nostra conversazione, si sarebbe detta una condannata a morir di fuoco lento; era nervosissima e giocherellava con un tagliacarte d'avorio; al mio orecchio giungeva anche il fruscio della sua gonna, segno certo ch'ella batteva il piccolo piede, discretamente, segretamente, ma con violenza e con rabbia. Di che parlammo, io e il gentiluomo del quale non avevo capito il nome? Non saprei dirlo ora. Mi studiavo d'essere assai prudente, senza mai affermar nulla, perché il mio interlocutore poteva essere clericale o socialista o avvocato o banchiere o professore e qualche mia opinione troppo recisa avrebbe potuto ferirlo. D'altra parte, rideva dentro di me del caso singolare; e la nervosità insolita di donna Clara mi distraeva sovente. Le lanciavo delle occhiate per capirne qualche cosa, ma ogni volta incontravo il suo sguardo prorompente diritto dai grandi occhi grigi, e vedevo la piccola bocca tumida, e udivo il fruscio ritmico della gonna, cose tutte che a poco a poco mi comunicavano una nervosità, sebben diversa, certo non meno opprimente di quella che affliggeva la giovane signora. - Se lei favorirà qualche volta da me - disse incidentalmente il gentiluomo - potrò mostrarle la mia collezione mineralogica. - Grazie, - risposi sorridendo. - Lei si occupa di mineralogia? - Sì, un poco. i - Io invece, in fatto di mineralogia non ho che un ricordo: il ricordo del mio professore di liceo, al quale ero vivamente antipatico. All'esame non ha avuto il coraggio di chiedermi se sapevo di quale ordine cavalleresco fosse insignito il commendatore del Don Giovanni Giovanni- Andiamo via, - osservò donna Clara. - Volete scherzare. - Niente affatto. E avendo io osservato umilmente che la domanda non mi pareva avesse alcun rapporto con la mia tesi di mineralogia, rispose che si trattava sempre di mineralogia, perché il Commendatore era di pietra. Donna Clara sorrise, ma l'incognito che avevo di fronte non ebbe la forza di nascondere una smorfia subitanea. I dilettanti, in generale, son gelosissimi dell'arte o della scienza che allieta il loro ozio, forse perché non se ne occupano abbastanza da uscirne ogni giorno col cuore pien di tedio e di odio; il dilettante di mineralogia parve offeso per un attimo e preoccupato, come se il mio spirito beffardo avesse potuto intaccargli e sgretolargli le pietruzze inestimabili sulle quali posava forse quotidianamente il naso ricurvo. - Del resto - aggiunsi con una bonarietà che non sapevo dissimulare - vedrò assai volentieri la raccolta, ed ella potrà istruirmi con i suoi schiarimenti. Il gentiluomo sconosciuto non rispose; capii che quella raccolta di minerali mi sfuggiva per sempre, ed il cuore mi si allargò. Gli occhi grigi di donna Clara, di sotto le lunghe ciglia sfavillarono, gettandomi uno sguardo, che bruciava come una saetta; poi ella, quasi a vincere l'uggia che cominciava a pesare su tutti e tre, si levò e premette il bottone del campanello elettrico. Qualche istante appresso, nel mentre, in silenzio, tutti e tre si beveva a lenti sorsi un tè dorato, guardando con attenzione il fondo delle tazze, io pensai che quell'uomo intendeva forse rimanere a lungo, guastandomi intera la serata, impedendomi di parlare a donna Clara con la intimità che ella mi aveva concessa, atteggiandosi infine, a mio nemico; e la tazza mi tremò nella mano. Fortunatamente io commisi un'altra storditaggine. Donna Clara, che sentiva una inimicizia spontanea e reciproca nascere tra i due uomini che ella andava scrutando, riprese la conversazione e mi domandò se avessi assistito all'ultima udienza di un processo indiziario che appassionava in quei giorni tutta Firenze. - No - risposi. - Da molto tempo non frequento i tribunali. L'ultimo processo al quale mi sono vivamente interessato, tre anni or sono, a Como, me ne disse abbastanza sull'intelligenza e il carattere dei giurati; e da allora non ho voluto perdere altro tempo a studiare come funzioni la giustizia. - Tre anni or sono, a Como? - ripetè il dilettante di mineralogia. - Sì, signore. In quei tempi mi divertivo a studiare i delitti e i delinquenti celebri; uno studio innocuo, non tema. Andavo ad assistere alle udienze e vedevo da vicino la belva, l'uomo primitivo, certe facce patibolari che avevano espressioni indicibili. Ascoltavo le perizie, ammiravo la profonda dottrina dei periti non disgiunta dall'inutilità assoluta della loro scienza; mi divertivo alle grullerie dei giurati, alle furberie degli avvocati, al cinismo degli imputati. I miei studii non sono mai stati spinti più oltre... M'interruppi, sentendo che il fruscio della gonna ricominciava: e con un certo spavento mi chiesi se il mio interlocutore non fosse anche uno psichiatra; il dilettantismo non ha limiti e un medesimo uomo è ben capace di studiare minerali e assassini, pietruzze e ladri, il quarzo e l'abigeato a vicenda. - Ma a Como, tre anni or sono... - mormorò il gentiluomo incognito rivolgendosi a donna Clara. - Sicuro - disse quella misteriosamente, non degnando nemmeno di aggiungere una parola che potesse rischiararmi. Io afferrai la teiera che mi stava innnanzi. e quantunque mi scottassi le dita, versai un'altra tazza di tè, la inzuccherai e mi occupai a scioglier lo zucchero col cucchiaino, a testa bassa, sentendo che cominciavo ad irritarmi e che per uscire da quella noiosa condizione bisognava chiedere un'altra volta il nome di colui che mi sedeva in faccia e che credeva in buona fede di essermi ormai noto. Decisi di continuare il mio discorso; forse in tal modo sarei giunto a spiegare l'enigma di quel disagio che aveva afferrato donna Clara e il mio interlocutore. Alzando gli occhi, vidi che quest'ultimo doveva soffrire; era impallidito, e il suo volto contratto, quella testa lunga in preda ad una dolorosa sensazione, mi commossero e mi esilararono insieme. - Fu un processo molto strano - aggiunsi d'un tratto. - L'assassinio di una baronessa..... - Scusate - disse donna Clara rapidamente. - Volete favorirmi l'albo che è sulla tavola, costà nel salotto attiguo? Io mi levai ripetendo: - Nel salotto? - Sì, nel salotto, sulla tavola di mezzo. Vi mostrerò alcune fotografie. Com'era facile immaginare, sulla tavola del salotto non c'era nulla, ed io girai in lungo e in largo, rovistando sugli scaffaletti., sui tavolini, in libreria bonariamente, quietamente e mi affacciai anche alla finestra per guardare il movimento nella strada. Quando rientrai alfine nella sala grande, vidi donna Clara che passeggiava innanzi e indietro, come sanno passeggiar le signore anche in una camera. Il mio dilettante di minerali era scomparso. - Che avete fatto? - esclamò donna Clara. - Ho cercato e non ho trovato nulla - risposi con umiltà, fermandomi sulla soglia. - Via, non fingete di non aver compreso... Vi domando che cosa avete fatto con quel disgraziato.... E ciò dicendo, la giovane appuntò il dito verso la poltrona ove un minuto prima sedeva il gentiluomo sconosciuto; e il gesto di lei aveva tale energia, che mi parve di rivedere quella malinconica testa lunga dal naso rostrato. - Ma prima di tutto, donna Clara - osservai, puntando io pure il dito contro la poltrona - prima di tutto, mi direte chi era quell'illustre incognito? - Come! - esclamò la giovane, guardandomi corrucciata. - Volete continuare nel vostro scherzo di pessimo gusto! Siete stato così cattivo, stasera, che di tanto in tanto eravate sciocco. Sì, sciocco, scusatemi la parola.... Io m'inchinai con rispetto. - Se non foste stato sciocco, non avrei potuto farvi perdonare una tale indelicatezza, una simile mancanza di tatto. E ora vi basta? Lo avete fatto andar via; non vi basta? Volete seguitar con me? - Donna Clara...... - Fate finta di non sapere chi fosse! Non ve l'ho presentato? A che servono le presentazioni? - Donna Clara, è quello che andavo chiedendomi: a che servono le presentazioni quando non si capisce il nome della persona presentata, e sotto pena di ridicolo non si può tornar daccapo a farsela presentare? A che servono? - Ma davvero? - interruppe la giovane. - Davvero non avete compreso? Non sapete chi è? - Perfettamente sconosciuto - assicurai levando la mano in segno di protesta solenne. - Come non fosse mai esistito!.... - Oh, ma è curiosa, sapete? Siete diventato sordo? E facevate conversazione con lui..... A raccontarla, nessuno lo crederebbe. - Non bisogna raccontarla, amica mia. Vedevo che a poco a poco donna Clara si lasciava vincere dalla sua naturale festosità; e rassicurato, mi inoltrai, andando a riprendere il mio posto di poco prima, innanzi alla poltrona del dilettante. Donna Clara mi raggiunse e sedette sul largo divano, al mio fianco. - Dunque - seguitai - volete dirmi con chi aveva l'onore?... La giovane rideva con la pezzuola alla bocca; e la testa rovesciata all'indietro, la testa bionda, tutta d'oro, luccicava stupendamente ai riflessi delle lampadine elettriche; ma quasi avesse sentito il mio sguardo, donna Clara si ricompose prestamente e mi fissò con gli occhi severi. - In ogni modo - ella osservò - . voi sapevate ch'egli si occupa di mineralogia, poiché ve lo ha detto egli medesimo, invitandovi a veder la sua collezione. E voi avete risposto a questa cortesia con quel vostro scipito aneddoto del commendatore di pietra. - Ho colpa io se il mio professore opinava che un commendatore di pietra era un minerale degno di studio? - Non torniamo daccapo. E la storia del processo di Como? - Ma se non ho neanche potuto dire una parola, che già mi avevate spedito a cercare un albo irreperibile..... - Vi ho salvato, ho salvato voi e lui. Vedo che bisogna proprio ripetervi il suo nome: egli è il barone Lorenzo Scavolino. Io stavo versandomi un piccolo bicchiere di cognac; e all'udire quel nome, lasciai cadere la fiala sulla tavola, che fu rapidamente cosparsa del mordace liquore; ma senza curarmene, guardai fisso donna Clara; poi, alzandomi, cominciai a passeggiare per la camera. - E' lui - dicevo a me stesso, poco importandomi che la giovane udisse il monologo a voce alta. - E' lui quello che me la vuol rapire; codesto uomo nullo, cotesto raccoglitore di ciottoli variopinti, cotesta figura ad uncini impreveduti..... Lui, lui, lui, la rovina del mio amore, della mia felicità, del mio orgoglio, l'agognatore a tutto quanto mi è più caro e più dolce al mondo....! Ah, l'ho visto: ah, è un bell'esemplare, con quel naso, con quegli occhi, con quella testa equina....! - Amico mio - interruppe donna Clara - calmatevi.... Ho suonato perché vengano a ripulire qui.... C'è un puzzo di cognac... Andai a sedermi innanzi al pianoforte, volgendo le spalle a donna Clara e vi rimasi finche non udii richiudersi la porta dietro il servo, che aveva portato fuori il tavolino gocciolante. Ma quando feci per riprendere la passeggiata e il monologo, sentii sulle spalle premere dolcemente le piccole mani di donna Clara. - Ve l'avevo detto, che un giorno avrei dovuto farvelo conoscere...... - Oh Clara! - esclamai, rivolgendomi e avvinghiando la donna con le braccia attorno al busto. - Clara, dammi ancora la tua bocca per farmi passar questo male. - No, no, no! - disse Clara guardandosi attorno e svincolandosi. Siete pazzo? -Ah, è una cosa terribile, amica mia - continuai, seduto sullo sgabello del pianoforte, mentre la donna stava a qualche passo da me, in piedi, addossata all'uscio che conduceva nel salotto, pronta a sfuggirmi. E' una cosa terribile questa idea di perdervi; m'imponete una tortura spaventosa; e siete lì, a guardarmi, senza un sorriso, immobile come una sfinge, a godervi la mia sofferenza; e con una parola potete ridarmi la vita e la gioia..... Non la sapete, questa parola? Non possono pronunciarla le vostre labbra?..... D'un tratto sentii che mia voce si era fatta piagnucolosa, ed ebbi l'intuizione che seduto così, o meglio rannicchiato sopra uno sgabello piccolino, e con quel viso scorato che dovevo avere, e con gli cchi lucidi di lagrime rattenute, ero insuperabilmente ridicolo. E subito dal cuore mi salì un'onda di sarcasmo amaro, che mi bruciò le lagrime. - Mi congratulo - dissi con voce naturale. - Non conoscevo ancora codesto prezioso modello di geologo innamorato; ma ora che l'ho visto, comprendo che sarebbe difficile trovarne uno simile. Avete fatto bene a non lasciarlo andar perduto: io lo metterei nella vetrina dei suoi minerali. Che bella testa, che barba, che naso! - Non cercavo un Apollo - interruppe donna Clara seccata. - Ah lo si vede, non dubitate; si vede benissimo che l'idea di un Apollo non vi è mai passata per la testa. Ma tra l'Apollo ed il barone Lorenzo Scavolino c'era posto per una figura umana. Quello non è un uomo; è un fanale da piazza, una cariatide grottesca, un portamantelli, il manico di un ombrellino. - Vi avverto - interruppe ancora la giovane - che più ne ridete e più me lo rendete caro. E' buono; si è piegato a sopportare la vostra presenza, quantunque egli sappia che io vi ho amato e che voi mi amate tuttora, almeno a quanto dite.... - Ma non tocca a lui sopportare o non sopportare la mia presenza: voi siete in casa vostra. - Non dite sciocchezze; egli pure ha qualche diritto; e avete visto; se n'è andato, ci ha lasciati soli, per un ordine mio. E' stato gentilissimo con voi..... - Sarà un ipocrita..... - Insomma, non vi permetto di insultare un assente, di giudicare un uomo che avete visto oggi per la prima volta!... Che cosa siete diventato? Donna Clara inoltrò, lanciandomi uno sguardo severo. Io le presi una mano, la baciai e la abbandonai, senza tentar più d'attirar la donna a me. - Avete ragione - dissi poi, sono in un periodo anormale e commetto delle vigliaccherie senz'avvedermene. Ho un dovere da compiere: il barone Lorenzo non sa nulla del malinteso che è avvenuto stasera; crederà ch'io abbia voluto prendermi gioco di lui; devo presentargli le mie scuse e dirgli che non sapevo d'avere innanzi a me il barone Scavolino. Andrò da lui domani: a quale albergo è disceso? Mentre parlavo, la giovane signora pareva mi scrutasse attentamente. - Siete sincero? - domandò. - Sì, mi sembra. Sì sono sincero. - Non andrete a provocarlo! - Amica mia, che cosa pensate di me ora? Ch'io vada in casa altrui a provocare un uomo che non mi ha fatto alcun male? Ch'io trascini il vostro nome in uno scandalo? - Scusatemi, ho torto.... E' all'albergo Savoia Savoia- A due passi di qui. Aveva paura di perdersi per Firenze? Egli può anche spiare quando vengo da voi e quando me ne vado: siete vigilata, amica mia. - Torniamo daccapo? Siete incapace di frenarvi? - interruppe Clara, bruscamente. Quando vi piglia il delirio della gelosia, non avete più limiti. - Sarà perché non vi amo. La giovane non rispose e sedette di nuovo sul divano. - Ascoltatemi - le dissi bruscamente, piantandomi innanzi a lei. Dobbiamo parlar di cose molto gravi. Quell'uomo non vi conviene. Sposatene un altro! - To' - rispose Clara, con l'accento toscano che dava alla sua voce un'intonazione anche più beffarda. - Sposarne un altro? E' una idea? - Clara, non è il momento di scherzare. Il barone è vedovo. - Son vedova anch'io. - Bella ragione! Se tutti i vedovi si sposan tra di loro, dove andrà a finire la volontà di Dio? - Vedete che scherzate anche voi? E' un ricordo del nostro amore.... Non fate gesti minacciosi! noi ci siamo amati scherzando. Voi ne usciste; io scherzando ci son rimasto, e vi amo ancora, più di prima. E' inutile ogni gesto solenne, anima mia, ve l'ho detto! Se voi non aveste saputo prender le cose del mondo dal loro lato comico, forse non vi avrei tanto amata; la vostra gioia, la vostra giocondità son l'indice della vostra esuberanza di vita. Il mio sarcasmo e l'ironia sono il risultato delle mie sofferenze. Questa diversità di sostanze nell'identità della forma ci ha attratti. Non è vero? Non è così? La donna tacque. - Non crediate che questo preambolo ci conduca a una scena sentimentale - continuai. - Voglio chiedervi semplicemente: avete mai pensato che avverrà di voi quando sarete moglie d'un uomo tragico? - Chi? Lorenzo? - esclamò Clara ridendo. - Quello è un uomo tragico; quell'innamorato delle pietre è degno di calzare il coturno; tutto è tragico in lui; il gesto, la voce, le sue predilezioni mineralogiche, la sua vedovanza.... E' vedovo perché gli hanno assassinata la moglie. Quale principio, mio Dio, per un uomo che vuole sposarne una seconda!... Quali visioni devono popolar le sue notti!... Che memorie, che dubbi, che rimpianti! - State attento, che ora il coturno me lo calzate voi! - osservò CLara ironicamente. - Lo so; deve averlo dimenticato il barone, poco fa, e me ne servo. E' una calzatura che non dà fastidio. Avete pensato, dunque, al giorno in cui questa creatura di Eschilo sarà vostro marito? Avete studiato il gesto largo e maestoso per dirgli: "Andiamo a spasso" e la muta eloquenza per significargli che avete bisogno dell'ombrellino? - Quanto siete noioso, amico mio. E' vedovo, sta bene: gli hanno assassinata la moglie. E poi? - Ma ciò non conta. Quel processo di Como fu molto misterioso, lo sapete. - Non ne so nulla... - Ve l'ho detto mille volte: vi ho assistito, e ne ho ritratta un'impressione duratura. Io sono certo che il vero colpevole è rimasto impunito. - Ma se l'accusato era confesso? - Ciò non prova nulla; era confesso per far piacere alla Parte Civile; io ne ho viste di peggio.... Fatto è che, ad essere proprio molto larghi, si può concedere ch'egli fu l'esecutore materiale del misfatto; ma dietro lui c'era qualcuno, c'era la mente, c'era chi aveva interesse a sopprimere la baronessa assai più vivo di quel che potesse animare il miserabile che uccideva per rubare.... - State inventando un romanzo? - interruppe Clara. - Il delitto è avvenuto così - seguitai tranquillamente. - Nella villa si rubava e tutti sapevano: si rubava così bene, con tal destrezza e con tal pratica di tempi e di luoghi, che era facile comprendere trattarsi di qualche famiglio, o di un servo, di persona della casa. Il barone, avvertito, non se ne diede mai per inteso. Era tanto ricco, non è vero? E poi, i suoi minerali nessuno glieli toccava: ah no, per le pietruzze i ladri hanno la stessa inclinazione che ho io! Il barone non si occupava di tali miserie: sapeva d'aver un ladro in casa, e taceva, non faceva ricerche, lasciava correre; mentr'egli rapiva alla terra i suoi tesori geologici, l'altro rapiva alla guardaroba la biancheria; i due dilettanti si tolleravano a vicenda. - E' risultato questo, al processo? - domandò la giovane, che sembrava annoiarsi un po' meno di prima. - Tutto ciò che vi racconto è il risultato delle testimonianze. - Ma non rimanete lì in piedi, come uno spettro. - E v'ha di più - continuai, sedendomi a fianco di Clara. - La povera baronessa aveva paura: il ladro misterioso era diventato d'una tale audacia, che un giorno erano spariti dei gioielli dalla camera da letto della signora. La baronessa voleva denunziare; e il barone assicurava che avrebbe denunziato non appena dalla villa si fosse recato a Como. Notate che non ve n'era bisogno: bastava una perquisizione; bastava anche meno, un po' di vigilanza alle abitudini dei servi. Il barone seguitava a raccoglier ciottoli colorati, e l'altro svaligiava metodicamente la guardaroba. - E' inverosimile - esclamò Clara, passandosi una mano sulla fronte. - La colpa non è mia, se è inverosimile. E' forse inverosimile che voi sposiate il barone? Eppure voi ci credete notte e giorno. Ma per tornare al fatto, è utile sapere che tra i coniugi Scavolino non è mai esistito l'accordo. Fossero i ciottoli, fosse il coturno, fosse il naso del barone, in casa c'era l'inferno. I maligni dicono che la raccolta dei minerali di cui si vanta il vostro amico, serviva spesso alle discussioni coniugali e di tanto in tanto le piriti, il quarzo, il feldspato volavano per le camere in tutte le direzioni..... - Badate, - osservò Clara, voi state commettendo una viltà.... - Sono le risultanze del processo. Del resto, se avete osservato il volto del barone Lorenzo, e non dubito che lo conosciate per benino, avrete visto una cicatrice presso l'occhio destro. E' un colpo di pirite: la pirite lanciata con mano energica produce quasi sempre questo effetto sul volto di chi la riceve. - Basta! - esclamò Clara alzandosi. - Non si dicono queste cose quando non se ne hanno le prove irrefutabili. Siete peggio d'una femmina invidiosa, questa sera. Il barone è caduto da cavallo. - Ah, vi ha spiegato!... Eppure è spiacevole che tre anni or sono voi non abbiate assistito a quel processo. A quest'ora certo, voi egualmente non mi amereste più, ma non amereste nemmeno il barone.... Devo andarmene? - aggiunsi, vedendo che la donna rimaneva in piedi. - Se credete. E' tardi. E domani passerete all'albergo per iscusarvi? - Ci penserò,.- dissi alzandomi alla mia volta. - Del resto, lo saprete da lui..... - Per qualche sera vi dispenso dal venirmi a trovare, - soggiunse Clara. M'inchinai. - Non mi date nemmeno la mano? - chiesi. Ella concesse la mano, mollemente, quasi distratta. Nell'esprimere la indifferenza sdegnosa, le donne sono insuperabili.