Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Filippo, abbassando lo sguardo sul seno turgido e semicoperto della voluttuosa creatura si sentì nelle vene un fenomeno, come se in esse fosse corso, non del sangue, ma della lava incandescente. - Che cosa dovresti fare per diventarmi simpatico? - rispose Nanà svincolandosi da lui. - È più facile ch'io ti dica quello che non dovresti fare. Vedi, Filippo, per me il cedere non è questione come per tante altre, nè di tempo, nè di fatti, nè di gratitudine, nè di compassione. A me gli uomini sono simpatici o sono antipatici a prima vista. Dopo due minuti che li ho veduti o che li ho intesi a parlare, io potrei dirti: di questo non sarò mai l'amante, di quello lo sarei stata in tre ore, s'egli mi avesse voluta. - Ma tu di me lo fosti già una volta! - Appunto perchè allora mi apparisti amabile. - Ed oggi no? - No. - Perchè? Nanà, parlando girandolava per la camera ed era giunta dinanzi al camino. - Ecco, per esempio - diss'ella alzando il coperchio della scatola fatta di lumachine e di conchigliette - ecco qua. A me sarebbe impossibile l'innamorarmi di un uomo, il quale tiene in casa sua di queste porcherie. - Che ne so io? C'era, l'ho lasciata e la mi serve. Nella scatola, Nanà vide delle fotografie. Ne levò una, la guardò con un sorriso pieno di ironia, poi domandò: - Chi è questa? - È la mia amorosa - rispose Filippo con un'alzata d'ingegno. - Davvero? Te ne faccio i miei complimenti. È molto bella. - Ti pare? - C'è mai pericolo che essa mi trovi qui? - No. Essa non viene qui. Vado io da lei. - Perchè non me l'hai detto subito che avevi un'amante di questa forza? - Perchè essa ama me, ma io non amo lei. - Chi ami tu? - Lo sai bene. - Vorresti darmi ad intendere che tu sei innamorato ancora di me? - Ora che ti ho riveduta, sono certo di esserlo, perchè tu sei sempre per me la più bella donna dell'universo. Nanà vibrò al giovine uno di que' suoi sguardi ben intenzionati, che avrebbero avuto la potenza di far rizzare i capelli in capo a un morto. Filippo spasimava. - Nanà, sii buona - le disse egli; e prendendole le mani se la attirò sul petto, la recinse col braccio, le disse all'orecchio parecchie frasi insensate e senza sintassi, ma che volevano dir tutte chiaramente la stessa cosa. Nanà lasciava fare e udiva con voluttà quel vaniloquio. Ad un tratto sclamò: - Mi hai detto che essa è innamorata di te? - Molto. - E soffrirebbe se tu la dovessi lasciare? - Credo che ne soffrirebbe assai. - Vuoi tu lasciarla per amor mio? - Me lo domandi? - rispose come gemendo lo sciagurato Filippo. - Me lo giuri? - Te lo giuro. - Che pegno, che sicurtà mi puoi dare che lo farai? - Quella che tu vorrai impormi. - Se io esigessi che tu non l'avessi a vedere mai più? - Obbedirei. - Se io volessi che tu stracciassi in mille pezzi questo suo ritratto? - Ecco - disse Marliani facendo il ritratto in pezzi. - Se io volessi che tu gettassi dalla finestra queste lumachine? - Ecco. E afferrata la scatola Marliani aperse le imposte, diè un'occhiata di sotto nel cortile e vi scaraventò la scatola. - Se io esigessi che tu non avessi più mai a portar le bretelle? - Ecco! E Marliani, raccolte le forbici che stavano a terra, e presi in mano i tiranti, li tagliuzzò in varî pezzi. - Sei contenta? - Sì. - Vuoi altro? - No. Adesso che sono persuasa, va pure a chiudere l'uscio a chiave. La mattina seguente al bel primo svegliarsi si affacciarono alla mente di Filippo Marliani due imagini e due idee importantissime, di cui l'una voluttuosamente splendida, l'altra sgarbatamente molesta. La prima era Nanà. Quella donna che tutti desideravano, che aveva prodotta nella gioventù dorata di Milano una insolita effervescenza, per posseder la quale molti avrebbero dato, se non la vita, gran parte dei loro averi, era ridivenuta senza farlo basire, la sua amorosa. La seconda idea, che attraversava e che smorzava quella superba gioia era la ripetizione di un fastidio e di un rimorso che già egli aveva risentito il dì prima, non appena Nanà lo aveva lasciato solo nella sua cameretta. Era prodotta da due fatti egualmente gravi e umilianti: quello di trovarsi senza più il becco d'un quattrino indosso, e quello di non aver potuto pagare nelle ventiquattr'ore il debito di giuoco di ottocento franchi, contratto la notte dianzi. Egli, infatti, di nascosto di Nanà, la quale - credeva. - non avrebbe voluto più accettare il suo dono le aveva scivolato nel portamonete il suo ultimo biglietto da mille franchi, che avrebbe dovuto servire a quell'ufficio indispensabile per chi voglia comparire ancora in una sala di giucco. E si trovava perfettamente al verde. E - ciò che non è indifferente a notarsi - non teneva più in casa neppur un filo con cui far danaro. L'abbiamo veduto fare la barba ai solini da collo sfilacciati. Segno di grande arsura! Se non che l'anima umana è così avida di felicità e si sottrae così volentieri al dolore e all'umiliazione, che sulle prime il pensiero di Filippo figgendosi ardentemente nell'imagine di Nanà gli fe' riprovare soltanto la gioia e l'estasi vivissima d'averla ancora posseduta. - Nanà, mia Nanà, bella Nanà terribile - andava egli dicendo mentre si vestiva; e non si saziava di ripetere quel nome come per tener occupata la mente e ributtar indietro le idee importune. - Che splendida creatura! Che occhi, che capelli, che denti, che profumo di donna sana! Ma l'orgasmo erotico durò poco. Bisognava pensar all'avvenire, e provvedere alla vita. Quell'ultimo biglietto da mille, che avrebbe dovuto servire, per tre quarti a pagar un debito di giucco, e pel resto ad essere arrischiato, e a produrre chissà che risorsa, sfumato in quel modo gli toglieva la speranza di potere la sera tentare di nuovo la sorte. Ad ogni modo in bisca egli non ci sarebbe andato che di sera. Ma intanto? I due piccoli problemi della giornata: la colazione ed il pranzo, come si risolveranno? "Potrei - cominciò passando in rassegna i mezzi leciti - potrei andar in cerca d'un amico e farmi invitare da lui dicendo di avere dimenticato a casa il portamonete. O potrei anche fingere al restaurant di averlo lasciato a casa. Ma questo stratagemma andrà bene un paio di volte! E poi? Chi me ne darà? Erano però i due espedienti più ragionevoli pel momento; risolse di metter in pratica l'uno o l'altro a seconda del caso, e uscì. Non trovando l'amico da cui farsi invitare fece colazione come il solito al suo caffè, ordinò al cameriere di fargli il conto, poi frugando in tasca colla più gran disinvoltura del mondo, finse d'aver lasciati a casa dei biglietti da mille, che ci avrebbero dovuto esser dentro, e si levò tutto turbato per paura che... la donna che rigoverna la camera... non si sa mai!... - Si figuri! - gli aveva già detto il cameriere, prima ch'ei fingesse quelle smanie. - Pagherà domani! Anche quel pagherà domani fece a Filippo un effetto singolare... "Chi è che mi insegna come si fa a guadagnar danaro?" - pensava avviandosi senza saper dove. - Domani se non pesco danaro non potrò neppur tornar qui a far colazione. Gli amici li ho già gonfiati tutti. Non c'è più da cavarne nulla. È terribile!" La farsa del portamonete lasciato a casa fu ripetuto da lui per il pranzo in altro luogo. Ma venne il vero punto tòpico, anche per Filippo Marliani; quello cioè di non poter più passare dinanzi a certi caffè nè a certe trattorie per non farsi vedere, e di non saper più quale albergo scegliere ancora da mistificare. Per capir bene questa situazione in tutta la sua verità, in tutti i suoi spaventevoli particolari, in tutti i suoi segreti inesplorati, è necessario saper bene che cosa voglia dire patir la fame per mancanza fin di un paio di soldi da comperarsi almeno del pane. E si badi! A questa fame, per mancanza di pane, non vanno soggetti che gli uomini della condizione di Filippo Marliani, a cui è vietato il guadagnar sia pure due soldi. Il miserabile, che vuol lavorare, non sa che cosa sia. Se non trova da guadagnar i due soldi, stende magari la mano all'elemosina e li raccatta. Marliani no. Per capir bene, ripeto, questa situazione, è necessario l'essere andato qualche volta a letto verso il tramonto, quando la fame più assaetta lo stomaco, a tentar di dormire per non provar gli spasimi e l'umiliazione. È necessario sapere qual grado di carattere e di probità abbisogni ad un uomo che veste di panno per affrontare e cacciare indietro le idee invadenti, che fanno ressa e rivolta in faccia al senso morale, protestando rabbioso contro la ingiustizia distributiva, contro il sistema sociale, contro tutto ciò che i politici chiamano l'ordine stabilito. Filippo Marliani però non pensava che del suo trovarsi in quell'orrendo disagio aveva colpa lui stesso. Amava meglio prendersela contro l'ordine stabilito. Camminando alla ventura delle ore intere, resistendo all'idea di andar a trovare Nanà, alla quale non voleva presentarsi a mani e a tasche vuote, egli andava facendo, senz'accorgersi, una quantità di ragionamenti nuovi e di piccole operazioni strane, inusate, senza senso comune. Era capace di tener dei quarti d'ora gli occhi a terra, sperando di trovare sul cammino un biglietto da mille, smarrito da qualche banchiere distratto, o un brillante uscito fuori da un orecchino di donna, o una borsetta piena d'oro, perduta da qualche inglese in viaggio. E in quel momento l'idea dell'obbligo di portar queste cose al Municipio, non gli era nemmeno apparsa in ombra. Nella sua testa non sbucciavano che idee malsane, come in un campo sterile e dimenticato non germogliano che male erbaccie. Disperando a un tratto di trovare pe' sassi qualche oggetto di valore, alzò gli occhi a caso e si trovò accanto alla vetrina di un cambiavalute. Si fermò di botto ed ebbe anche la stupidità di credere che questo fosse un buon augurio. Là dinanzi, cogli occhi intenti sulle monete d'oro e sui biglietti di banca sciorinati nell'interno della vetrina, il povero affamato sentì svilupparsi nel capo dei miasmi di cupidigia morbosa, e nel pugno una smania di sferrar un colpo nella lastra di vetro. Cose tutte che non aveva mai provate di sua vita. "Se si potesse far un buco senza che nessuno se ne accorgesse? Lì c'è appunto un biglietto da mille. Andrei a pranzo, poi stasera pagherei il debito, poi cogli altri dugento... chissà!" Guardossi intorno come trasognato. Rinsavì; ebbe vergogna de' proprî pensieri; odiò quelle tentazioni; pure il suo sguardo, tra lo spaventato e il suppligante, pareva dire ancora: Chi mi dà un biglietto da mille? Si staccò da quella vetrina - già, per la intenzione, ladro! - proseguì il suo cammino sempre intontito e in preda al più desolante scoraggiamento. La fame aumentava. Intorno a' suoi pensieri scattavano, ondeggiando come in nebbia opaca, delle fantasticherie di delitto e di rapina. A un certo punto fece anche improvvisa comparsa l'idea del suicidio, ed ei l'accolse di fronte come un ospite che non si attende, ma che fa piacere a vederlo. "No - diss'egli dopo averci pensato su qualche poco - sono sempre in tempo per questo." "E Nanà?" Questo nome ch'egli aveva dimenticato dacchè il pùngolo della fame era incominciato e il suo amor proprio era stato messo a così dura prova dalla necessità di fingere parecchie volte la scena del portamonete dimenticato in tre o quattro restaurants dov'era conosciuto - gli portò al cuore un'angoscia intollerabile. "Ah, bisogna uscirne a ogni costo - pensò. - Io non posso lasciare Nanà. Essa mi abbisogna più che il pane da sfamarmi. Non vivo così! È troppo tormento! È necessario ch'io abbia molto danaro. Essa non mi ama al punto da volermi gratuitamente, per me solo. Essa fu mia ancora... senza interesse... è vero. Ma chissà... per temperamento forse. Ma non vorrei io stesso!" La risultante di tale ragionamento fu questa frase: "È necessario aver danaro." E fra tutte le mariuolerie di cui potesse avere in testa un'idea, andò cercandone qualcuna da metter subito in pratica. Tutt'a un tratto un'idea luminosa lo colpì. Gli tornarono in mente certe parole misteriose che aveva udite per caso, alcuni mesi prima... da un certo tale... parole a cui allora non aveva posto la più piccola attenzione e che ora gli comparivano, come ad un brick che naufraga, l'ancora di salvezza. Fu per lui un momento d'immenso sollievo; la speranza, la meretrice dell'anima, illuminò il suo volto che era divenuto a poco a poco emaciato, e senza pensarci sopra più che tanto, s'avviò. "Chissà che non sia in tempo io stesso a pigliar quel posto" - diceva fra sè. - "Il signor Giacomino me ne saprà dire qualche cosa." Andò difilato in piazza del Duomo. Là cercò l'omnibus per Porta Garibaldi, e tutto infervorato nella sua idea, senza pensare che non teneva in tasca neppur il becco d'un quattrino, vi si cacciò dentro. L'omnibus si mosse e il conduttore gli stese la mano per avere il prezzo della corsa. Fu allora che Marliani si ricordò di non aver danaro. Ma avvezzo ormai a fingere quella manovra del portamonete, mise bravamente la mano destra nella tasca interna dell'abito, poi frugò di qua, frugò di là, fingendo una crescente inquietudine, e finì collo sclamare: - Cristo! M'han rubato il portafogli! - Màghero allora! - disse il conduttore dell'omnibus. - Sicuro. O me l'han rubato o l'ho lasciato in... quella bottega.... Oh povero me! - Scenda, scenda... non importa. Pagherà un'altra volta. Filippo non se lo fece dire due volte. Discese, fe' mostra di rifar la strada verso quella bottega, poi, quando l'omnibus fu scomparso, svoltò di nuovo verso Porta Garibaldi. Giunto a un centinaio di passi oltre il teatro Fossati, entrò in una bottega di parrucchiere - che oggi non c'è più - e ad un figuro di vecchietto che stava là seduto su uno sgabello col sedile a vite, ad aspettare forse qualche pratica, disse: - Lei è il signor Giovannino, non è vero? - Per servirla. Vuol fare la barba? - No, per ora. La faremo dopo, in caso. Io sono venuto da lei per vedere se.... Si ricorda lei di avermi veduto, sarà un paio di mesi, col signor Silvestre Bonaventuri? - Mi ricordo. Lei è il signor Filippo Marliani. - Bravo! Allora ella disse al mio amico che non gli era ancora riuscito di trovare un giovine un po' educato e vestito bene, che volesse assumersi quell'incarico, ancorchè avesse offerto cinquecento franchi al mese.... Si ricorda? - Altro che ricordarmi. - Ebbene, l'ha trovato? - domandò il Marliani col cuore in sospeso; giacchè quella risposta poteva forse decidere della sua vita. - No - rispose il signor Giovannino. - Tutti hanno paura di cader in trappola. - Si può sapere di che si tratta? Se si tratta di avere del coraggio, sono qua. Il signor Giovannino espose la faccenda a Marliani. Questi domandò se si poteva parlare coi signori che proponevano l'affare. - Sicuro che si può. Me ne parlarono giusto anche stamattina. La signora Bibiana sopratutti è scaldata e vorrebbe trovare un giovine come dice lei, che sarebbe certo di far fortuna. - Chi è la signora Bibiana? - È quella che ha il morto. Una vedovona, che ce ne voglion tre di noi per abbracciarla. - Potrei parlare a questi signori? - Lei? È pronto lei ad accettare? - Sì - rispose secco il Marliani. - È giusto l'ora che son riuniti in bottega - soggiunse il parrucchiere. - Andiamoci allora. - Andiamo pure. Cecco, dove sei? Cecco uscì dalla retro-bottega- Io vado un momento con questo signore, e torno subito. Così detto, uscì seguito da Marliani. Dati una ventina di passi parlando fra loro sottovoce, il parrucchiere svoltò dentro in una bottega da rigattiere. Una donnicciuola che se ne stava ebetamente seduta in un canto di quella uggiosa camera all'avvicinarsi dei due sconosciuti allungò il collo e ravvisato il signor Giovannino tornò a raggomitolarsi nella sua cretina immobilità. Il parrucchiere si avvicinò ad un uscio a due battenti socchiusi, che s'apriva nella parte di faccia all'entrata e che metteva in una tetanzuccia o retrobottega e fe' cenno a Marliani di fermarsi. Mise l'occhio allo spiraglio e pronunciò a voce melliflua: - È permesso? - Avanti - s'intese rispondere una voce secca; e sgarbata dal didentro. Il vecchietto si volse al suo compagno gli fè cenno di venir innanzi e schiuse l'uscio. Nella stanza dove erano per entrare il parrucchiere e Filippo Marliani stavano raccolte tre persone due uomini e una donna. Gli uomini erano entrambi in quell'età che non è giovinezza ma che non si potrebbe ancor dire maturità. La donna nei quarant'anni, che vestiva con volgare eleganza e mostrava un viso campagnuolo e rubicondo da farla giudicare per una fittavola o per la moglie d'un pizzicagnolo, era la signora Bibiana. Quelle persone se ne stavano sedute in silenzio a ridosso della luce che entrava da due finestre a vetri smerigliati, a destra e a sinistra d'un altro uscio, che metteva nel cortile. In tal modo i tratti del loro viso restavano in ombra mentre essi avevano il destro di vedere perfettamente rischiarato il volto di chi fosse venuto a parlar con loro. Facevano come certe donne sul tramonto che vogliono nascondere le grinze ai loro visitatori. - Venga avanti signor Giovannino - disse un di coloro al parrucchiere, che aveva domandato licenza di entrare. Questi si fermò accanto all'uscio lasciando il passo a Filippo Marliani. Gli occhi dei radunati si fissarono curiosamente; nelle sembianze del giovane sconosciuto. - La chiuda l'uscio - disse la signora Bibiana al signor Giovannino. - E lei ripigliò volgendosi a Filippo con un sorriso - la tenga pure il suo cappello in capo e s'accomodi. - Comodissimo - rispose questi sedendosi sulla prima sedia che si trovò d'accanto. In questa il parrucchiere domandò licenza di andarsene, ma venne trattenuto dalla donna. - Che fretta! Stia qui un pò anche lei a sentire. Poi voltasi al Marliani: - Lei sarà già informato spero della cosa. - Gli ho spiegato io l'affare all'ingrosso - rispose il signor Giovannino. Egli è pronto a firmare il contratto basta che entro domani gli sieno sborsate due mila lire. - Andiamo adagio - sclamò uno dei tre uomini levando la mano verso il vecchio - una cosa per volta e senza alzar la voce che nessuno qui è sordo. La donna volgendosi allora al giovine riprese. - Capirà anche lei... signor... signor? - Marliani - rispose questi. - Signor Marliani, che prima di stringere un contratto importante come questo, bisogna conoscersi un poco, perchè dove c'è da obbligarsi in faccia ai terzi; le cautele dei galantuomi non sono mai bastanti. - Troppo giusto - disse Marliani piegando il capo in segno di assentimento. Ma i suoi occhi si socchiusero nello stesso tempo con una espressione di ironica malizia. Quel sorriso non isfuggì all'occhio della donna la quale dissimulando riprese. - Dica dunque lei le sue intenzioni su quello che già le comunicò il signor Giovannino. - Il signor Giovannino mi propose di entrare come socio e col mio nome in una ditta commerciale senza esposizione da parte mia di alcun capitale - rispose Marliani. - Va bene - rispose la signora Bibiana. - I signori che lei vede qui riuniti sarebbero appunto i soci fondatori di una casa in pannine, di cui ella assumerebbe la gerenza alle condizioni che forse già conosce. - Le condizioni sarebbero di firmare col mio nome le cambiali della ditta. - Primo. - Nel caso di fallimento ch'io sia pronto a subire tutte le conseguenze conservando il massimo segreto sugli affari della casa. - Va bene. - Che in caso fosse necessario per salvare la ditta di far in prigione l'anno ed il giorno, io debbo esser pronto a prestarmi, e nel caso invece che la ditta credesse meglio, ch'io sia pronto a fuggire. Il giovine si fermò per avere un segno di assentimento. Le tre persone che gli stavano di contro erano immobili come cariatidi. - Non credo si esigano da me altri sacrifizi - rispose il giovine con una espressione di mal celata amarezza. Uno dei due uomini che non aveva ancora aperta bocca, alla nuova intonazione con cui il Marliani aveva pronunciate le ultime parole gli ficcò in viso gli occhi e disse: - Non sono sagrifizî codesti; sono condizioni naturalissime in chiunque si assume obblighi di questa specie. Non c'è nulla che sia fuori del consueto, anzi non faceva neppur bisogno di parlarne, giacchè poi si spera di non aver bisogno di fallire o di andar in prigione o di scappare. - Ho voluto enumerarli! - rispose il Marliani per mostrare a loro signori che io conosco le eventualità a cui posso andare incontro mettendomi in questo affare e per togliere loro il sospetto che io possa essere un novizio o un guastamestiere. - Ora parliamo delle condizioni in favore - disse la signora Bibiana. - Il signor Giovannino ha parlato di due mila lire subito. - Mi sono indispensabili. - Due mila lire è una bella somma - sclamò uno dei tre - ci vorrebbe una piccola garanzia. Marliani si alzò in piedi. - Cari signori - disse - se avessi una garanzia non sarei venuto a esporre il mio nome ai pericoli d'una gerenza commerciale di cui non dovrò tenere la cassa, nè avere neppure una piccola parte nell'amministrazione. Se avessi una garanzia andrei a levar i denari al dieci o al dodici per cento dal primo onesto banchiere che passa in strada, e il signor Giovannino non sarebbe venuto ad offrirmi di fare il prestanome. - Lei s'inganna - rispose la signora Bibiana con voce insinuante. - Io le dirò che prima di tutto non è vero che lei dovrà servire soltanto di prestanome perchè invece dovrà trattare in persona con me gli affari della ditta, far qualche viaggio e avere la sua brava parte di utili nei dividendi. - Se ce ne saranno - osservò uno dei tre. - Sicuro già, se ce ne saranno! - sclamò la donna stizzosamente. - In secondo luogo lei s'inganna se al giorno d'oggi crede di poter trovar danaro al dieci o al dodici per cento, a mena che non porga la garanzia di un proprietario. - Vedo insomma che lor signori non sono disposti a sborsarmi le duemila lire di cui ho bisogno - disse il Marliani. - Caro signore - rispose la donna sempre più dolce. - Il commercio è arenato. Per vivere col decoro che porterà la di lei posizione di rappresentante la ditta Marliani e C. bisognerà che noi le fissiamo anche una bella mesata. Vede bene che farle oggi una anticipazione di due mila lire ci sarebbe impossibile. - Di quanto sarebbe questa mesata? - domandò il Marliani. - Di trecento franchi - rispose la donna. Marliani si alzò e mosse un passo verso la porta lisciando il pelo del suo cappello a tuba e disse: - Siccome i patti non sono quelli che m'aveva lasciato sperare il signor Giovannino, che mi parlò di cinquecento franchi al mese, così mi duole di non poter accettare, e mi tocca di rivolgermi ad altre offerte. - A un'altra volta - rispose uno dei due uomini. - E nel caso che la ditta si risolvesse a fare maggiori sacrifizî il signor Giovannino lo avviserà. Marliani uscì lasciando l'uscio socchiuso. Si capiva che la signora Bibiana era desolata. Un bel giovine di quella fatta! - La chiuda quell'uscio, Giovannino - disse ella. Poi voltasi ai compagni proruppe: - Non bisogna lasciarlo scappare. Sembra fatto a posta pel nostro affare. - Ritornerà. Scommettiamo che ritorna da sè senza mandarlo a chiamare? - Ora una notizia - riprese la signora Bibiana. Sapete che in casa O'Stiary ci ho messo il Giacomo come palafreniere. Egli mi ha dato nuove informazioni sullo stato delle sostanze del conte Enrico suo padrone, che ha firmata ieri un'altra cambiale di diecimila a fine novembre. - Sono buone queste notizie? - Eccellenti. I fondi valgono circa mezzo milione, il palazzo trecentomila, la rendita altri duecentomila. Con Bonaventuri a tutt'oggi è compromesso per quattrocentomila franchi, dei quali fatto il calcolo, gliene avremo sborsati a dir molto duecento. Egli ha poi perduto molto al giuoco dalla Luisa! È sfortunato! In casa della Luisa de' suoi danari ne saranno rimasti per circa cinquantamila. A noi di questi è toccata la metà, dunque bisogna detrarla dai duecento mila. Restano centosettantacinquemila. Sono dunque duecento venticinquemila lire nette in tre anni! Faccio il calcolo che in un paio d'anni ancora, lavorando con prudenza e con disinvoltura potremo portargli via il milione netto come il pomo di Tell. - Tanto meglio. - Ecco dunque il da farsi per domani. Lei Giovannino la cerchi di rivedere il signor Marliani e di indurlo ad accettare la rappresentanza della ditta. Gli dica che ci ha persuasi di portare la cifra della mesata a quattrocento. Gli dica anche che per garanzia della sua riputazione commerciale la ditta è pronta a depositare presso la Banca nazionale o presso la Banca Spagliardi una trentina di mila lire. Lei, signor Bonaventuri - continuò volgendosi ad uno dei due seduti - domani andrà a combinar l'affare con questa signora francese, che chiede cinquemila franchi a tre mesi. Si faccia mostrare le gioie, e se può cerchi di far il pegno. Lei, signor Paolino - ripigliò la signora Bibiana volgendosi all'altro, un uomo sui trentacinque anni, anche lui bene in arnese, con anelli di brillanti al dito mignolo e un catenone d'oro al farsetto - lei, stasera, come siamo intesi, andrà in conversazione dalla Luisa, dove so che ci deve essere anche il conte O'Stiary e comincerà a parlare della vincita fatta in Borsa dal Marliani, e della sua intenzione di mettersi in commercio. Per ora non ho altro a dire. Io debbo andarmene. A domani qui, verso le due. Al domani il signor Giovannino andò a trovare il Marliani che si lasciò persuadere a tornar nel luogo infetto. La signora Bibiana, facendogli già l'occhio pio, trasse di tasca un foglio e cominciò a leggerlo sottovoce al giovane e a' suoi compagni. Era il contratto per la fondazione della società di commercio sotto la ditta Marliani e C.. C..Poi mise sul tavolo un biglietto da mille e una cambiale che il Marliani firmò. Furono fatte poche parole. Quando anche l'atto fu approvato e sottoscritto colla più grande serietà, come se fosse il più regolare e santo contratto del mondo, il signore dai brillanti in dito riprese la parola. - Andremo poi dal notaio per le altre formalità di legge. Prima però la permetta che le esponga qualche cosa. Lei non è un ragazzo e deve avere una certa pratica di mondo; sapere perciò che le parole sono parole e i fatti sono fatti. Noi facciamo sagrifizio di lire mille e le presentiamo inoltre un avvenire. Naturalmente la cambiale è in nostre mani e sarà rinnovata alla scadenza fino a che a lei non piaccia di pagarla... e basta così. Marliani strinse le labbra. - Dal canto suo lei dovrà informarsi alle nostre istruzioni. Prima di tutto ella dovrà sempre andar vestito all'ultima moda, come si conviene al gerente della ditta Marliani e C., che avrà depositato un capitale di trentamila lire presso la Banca. In secondo luogo è necessario che ella cominci a mettersi in buona vista presso i negozianti e presso i banchieri; e che non dia menomamente a supporre di conoscerci e di essere nostro socio, giacchè siccome, glielo dico francamente, noi tutti qui, qual più, qual meno siamo rimasti sotto a delle disgrazie, così è bene che alla Camera di Commercio e in piazza non si sospettino legami fra noi. - Ma - osservò Marliani - il contratto sottoscritto poc'anzi non deve essere noto? - No signore; questo sarà un contratto inter nos per garantire i nostri reciproci diritti e doveri in caso di contestazioni che speriamo non abbiano a sorgere mai. Per la Camera di Commercio v'è un'altra modula a cui penseremo più tardi; del resto lei deve persuadersi che adesso per fare e per ottenere tutto a questo mondo non c'è che l'apparenza. Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai molto bene, di frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi credere conte, o per lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare dei biglietti di visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di battesimo è? - Filippo. - Conte Filippo Marliani andrebbe a maraviglia. - Le faccio osservare che io sono già molto conosciuto a Milano. - Bene, abbandoniamo la contea e lasciamo supporre che lei abbia fatta una vincita in lotto. - Ma io non mi presterò mai a gabbare il mondo così - disse il Marliani. - Lei non deve che lasciarlo credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo noi a propalare la notizia come si deve. Lei non dovrà far altro che dissimulare e non dire di no. Questo è facile. - Manco male! - biascicò il Marliani che di transazione in transazione si lasciava persuadere a diventar un fior di briccone. - Fra quindici giorni esporremo la ditta al pubblico e cominceremo gli affari. Intanto dirameremo al commercio le circolari e scriveremo le lettere firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il locale della ditta è già preso. È in via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo andarvi insieme a vederlo. Su questo invito della signora Bibiana la congrega si sciolse e Marliani, colla grassona, entrarono in un brougham e a cortine calate si fecero portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il Marliani corse difilato a pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille, per avere il quale aveva venduta la coscienza di galantuomo.

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Racconti 3

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. «Lo ama tanto!» «Non t'inganni?» «No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!» replicò. «Osserva meglio» insistei. «Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!» E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. «Ora ti sveglio - la suggestionai. - Non dovrai ricordarti di niente». «Non mi ricorderò di niente». Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che cosí doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. «Cosí!» E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico resultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro. - Eh, via! Non dire cosí! - esclamò Blesio. - A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero -. Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: - Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo piú nel sonno magnetico cosí facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: «Sta' ferma! Cosí!» che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate piú volte. «Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?» ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: «Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiú, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!» E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiú, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. «Sei diventata una veggente» le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. «Male! - ella rispose con improvvisa serietà. - È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!» Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro -. Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa piú manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò novamente d'impedirgli di proseguire. - Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse. - Forse? ... Troppo dovresti dire. - riprese Raimondo Palli. - Troppo! E, implorando con lo sguardo, continuò: - Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque piú solido intelletto. Non osai piú d'interrogarla: «Mi ami? Di', mi ami davvero?» Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso; e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: «Perché dubiti di me? Lo sento; non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?» Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter piú sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitú. Come? Non sarei piú stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: «Sí, è una buona idea; dovresti attuarla». O pure: «Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà». O pure: «No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare». O pure: «Dici bene, questa speranza è un gran conforto anche per me!». E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le piú precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i piú riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre piú squisite delicatezze d'animo, sempre piú fine penetrazioni d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo cosí dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: «Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti». Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? «No! - riflettevo subito. - Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balia!» Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva piú il mio influsso; era già piú forte di me. - Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista - lo interruppe Blesio. - Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commovono fortemente. - Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire - rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. - Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata, si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza, quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza, nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa cosí lontana da me, come in quelle lunghe giornate che piú mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, cosí come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: «Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!» «Non pensare assurdità!» risposi bruscamente. «Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: "Oh, Dio, ella indovina!"» Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: «Oh, Dio, ella indovina». «Come avvenga non so - riprese Delia. - C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffri ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!» Non ricordo piú quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi «Perdonami! Ti faccio soffrire!» Ma il giorno dopo e cosí tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò piú, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le piú riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi. E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io era stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: «Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?» corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita piú bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sí, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non aveva badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato -. Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano piú triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: - Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della dea, assai piú di essi, prendeva cosí mirabili chiaro scuri, riflessi cosí formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! «No, non è cosí! - balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. - No, non è cosí!» E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. «No, non è cosí! ... Non è cosí!» E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: «Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sí!» E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva piú! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! «Mi amava davvero?» Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu! - E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

. - Ai suoi ordini, signor marchese - rispose umilmente don Paolo socchiudendo gli occhi e abbassando la testa. - Io temo che non facciamo peggio - intervenne la marchesa con voce che sembrava umida di lagrime recenti. - Lasciamo che operi il tempo e la riflessione. - La gioventú di oggi è caparbia; faremmo peggio assai mostrando alla marchesina che noi non abbiamo piena coscienza della nostra autorità. Io non posso tollerare che una Santacroce si ribelli alla volontà dei suoi genitori. È già stata eccessiva concessione l'apparenza di consultarla ... Il cappellano sa di che cosa si tratta -. Don Paolo accennò di sí con la testa, atteggiandosi a una mossa di dispiacere in conferma delle parole del marchese. - Da quattro giorni non esce di camera, col pretesto di un fiero dolor di capo. Buttata vestita sul letto, tiene chiusi gli scuri dell'imposta del balcone e rifiuta di ricevere il dottore. Io non sono andato da lei per farle cosí intendere la mia collera. Oggi non è neppure intervenuta al sacrificio della santa messa ... È troppo! Bisogna finirla! - Il marchese aveva parlato lentamente, a bassa voce, tracciando dei segni sul tappeto della tavola col cucchiaino di argento quasi vi scrivesse in strani caratteri quel che diceva; e pronunciando le ultime parole, picchiato sdegnosamente su la tavola col cucchiaino due volte, lo aveva rigettato lontano, facendogli urtare il piattino della tazza del prete. - Ho sentito dire nella farmacia Russo - ruppe il silenzio don Paolo - che il signor barone sarà qui tra qualche giorno. - Si parla già in pubblico del matrimonio? - E se ne rallegrano tutti, signor marchese. Il barone di Pietrerase è ottimo partito. Il principe suo fratello è vecchio e non ha figli; un giorno o l'altro la marchesina potrà essere principessa di Cavanna ... - I Cavanna sono nati ieri di fronte ai Santacroce - lo interruppe severamente il marchese. - La probabilità del principato non entra per niente nella mia decisione. - Lo credo! Lo credo! - si affrettò a ripetere don Paolo per scancellare la cattiva impressione prodotta dalle sue imprudenti parole. - Non ho cercato io il barone di Pietrerase, né so come gli sia venuta l'idea di domandare la mano della marchesina. Non l'ha neppure veduta, credo, o di sfuggita in qualche occasione; a Catania forse, l'ultima volta che siamo andati colà per la malattia della marchesa. È uomo all'antica, buon amministratore dei suoi beni ... Il feudo di Pietrerase confina col nostro di Saccorotto ... Ho preso le piú scrupolose informazioni ... Eccellenti, riguardo ai principi politici e alla morale. Negli ultimi avvenimenti si è tenuto dignitosamente da parte; ha rifiutato di essere consigliere provinciale ... Lo avevano eletto non ostante le sue franche dichiarazioni; e non si è lasciato sedurre dai voti degli elettori. Noi nobili non dobbiamo attendere che ci abbandonino in un canto; siamo di altri tempi e dobbiamo volontariamente ridurci a vivere e a morire come in un mondo a parte ... finché dura la tempesta, come la chiamano, democratica. Quando Dio vorrà ... - Presto, eccellenza; cosí non può durare! - disse don Paolo - La marchesina dunque… - egli soggiunse timidamente. - La marchesina pretende ... Ditelo voi, marchesa, che cosa pretende, voi che le avete parlato di questo matrimonio ... - Senza nessuna ragione ... rifiuta - balbettò la marchesa. - Come se noi potessimo proporle un partito indegno di lei! - Oh, eccellenza! - esclamò don Paolo. - Io ho la mia maniera di tagliare i nodi; sono un po' brutale. Non ho comunicato alla marchesina la mia decisa volontà, cedendo al troppo benevolo desiderio di sua madre. Ho avuto torto. «Senza nessuna ragione!» Lo avete già udito ... Prima dell'autorità paterna, facciamo pure sentirle il peso di quella di Dio! Onora il padre e la madre, dice il decalogo, e si onorano soprattutto obbedendo. Dopo il confessore, interverrò io. Non voglio discutere con mia figlia. Quando il marchese mio padre mi disse: «Tu sposerai la baronessina Grimaldi» risposi soltanto: «Come vuole vostra eccellenza!» Allora usava cosí. Il nostro matrimonio è stato felice. Se il Signore mi avesse concesso un figlio, non mi sarei comportato diversamente con lui. L'autorità paterna è di diritto divino, come quella dei re, anzi prima di quella dei re -. Nella vasta sala da pranzo la voce del marchese si affiochiva quasi sperdendosi per la volta elevata, coperta di pitture sbiadite, o insinuandosi tra le credenze di noce scolpito che coprivano le pareti e tra le larghe pieghe delle pesanti tende scure dei quattro usci che sembrava la segregassero dal resto di quel palazzo dove parecchie generazioni di Santacroce erano vissute in orgogliosa solitudine, ora resa piú grande dal cupo carattere dell'ultimo marchese che vedeva estinguersi malinconicamente la sua razza per difetto di un erede. Don Paolo, tutte le volte che attraversava gli ampi saloni nei giorni che il suo ufficio di cappellano e di confessore lo faceva «salire al palazzo», sentiva un senso d'intimidazione e di freddo, come se egli penetrasse in un posto pieno di religioso mistero. Per gli abitanti di R*** la mole grigia, coi grandi balconi con ringhiere bombate di ferro battuto su le mensole rose dal tempo e dall'umido, con le imposte stinte che combaciavano male, e l'immenso portone sempre chiuso, mole dominatrice dall'alto della collina su tutte le altre case del paese, era il «palazzo» per antonomasia. «Salire al palazzo» significava andare dal marchese di Santacroce, giacché il marchese e la marchesa uscivano di rado, e quasi unicamente per recarsi nel feudo di Serralonga in primavera e in autunno, mutando la loro prigionia nell'antica cittaduzza che la posizione su l'altura teneva appartata da ogni contatto di vita commerciale, con l'altra nel feudo dove un gran casamento mezzo rustico, con immensi stanzoni anch'esso, circondato da un muro con feritoie che formava cortile, dava appena qualche differenza al tenore di vita della famiglia. Prima del '60@, '60, il marchese esercitava una specie di dominio su i cittadini di R***, tradizionale residuo di quello dei suoi antenati quando essi erano padroni del borgo, poi divenuto cittaduzza libera, passata alla Camera Reginale per vicende politiche che avevano prodotto la decadenza della famiglia Santacroce e ne avevano stremato i vasti possedimenti e le ricchezze. Il padre del marchese, don Alvaro Gutierrez-Guerrero, avea regnato da tirannello. Ai suoi tempi era stato adattato a lui il vecchio proverbio: «Non si muove foglia che Dio nol voglia»; se non che invece di Dio, si metteva irriverentemente ma esattamente «il marchese». La tirannia, del resto molto benigna, del padre era passata nelle mani del suo erede, che continuava a venir consultato in tutti gli affari privati, e aggiustava liti, annodava matrimoni, dotando le ragazze povere senza richiedere, come si diceva facessero i suoi antenati fino al suo genitore, certi diritti contro cui i contadini non osavano di ribellarsi. Nel comune, nella matrice, decurioni e canonici non deliberavano niente prima di domandarsi: - Che ne dirà il marchese? - E quando il marchese aveva risposto: - Fate cosí! - la sua parola diventava sentenza inappellabile; si faceva cosí. Il '60@ '60 aveva cangiato di punto in bianco ogni cosa. A R*** quattro teste sventate, come il marchese le qualificava, avevano fatto la rivoluzione senza consultarlo, ed erano andati ad attaccargli la bandiera tricolore a una delle colonne del portone, quasi per significargli che il suo regno era finito. Il marchese aveva avuto tanto spirito da non far togliere la bandiera, nell'attesa che i soldati del re venissero a toglierla loro, come nel '49@; '49; e si era chiuso in casa, stupito ogni giorno piú che la «rivoluzione» prendesse piede, ma pur lusingandosi sempre che, non ostante Garibaldi e Vittorio Emanuele, il buon diritto, quello dei Borboni, dovesse finalmente trionfare. Poi, deluso, si era rassegnato, con una vaga speranza in fondo al cuore, che il guardiano dei pp. cappuccini prima e, dopo, don Paolo Forti alimentavano fiaccamente recando, di tratto in tratto, qualche notizia lassú di quel che avveniva nel mondo e che il marchese ascoltava con orecchio diffidente, crollando la testa per compiangere la tristizia dei tempi. Egli e la marchesa vivevano smarriti pei saloni del palazzo, tra le poche vecchie persone di servizio tenute in segregazione assieme con loro; egli occupandosi a riordinare antiche scritture di famiglia, oppresso dal rammarico che il titolo di marchese di Santacroce dovesse passare, dopo la sua morte, a un lontano parente col quale da quasi mezzo secolo, per ragioni d'interessi, i Santacroce non avevano avuto piú relazione di sorta alcuna; la marchesa immersa in pratiche religiose o di carità nascosta, specialmente da che la marchesina era stata affidata alle cure della settantenne zia del marchese, badessa in un convento di benedettine in Catania. Otto anni dopo, essi si erano figurati di ritirare dal convento una ingenua educanda e invece si erano trovati dinanzi una giovine seria, chiusa, che aveva negli occhi e nella fronte qualche cosa d'incomprensibile e d'inquietante. Il marchese avea notato subito che la loro figliuola parlava poco. Infatti rispondeva con semplici monosillabi alle interrogazioni. La marchesa domandandole un giorno se era stata contenta della vita di convento, avea sentito rispondersi: - Non lo so -. E non si era attentata di chiederle spiegazioni di quelle strane parole. La vecchia badessa l'aveva molto viziata, un po' facendole fare quel che piú le pareva e piaceva, un po' - e non ce n'era bisogno - sviluppando coi consigli e con l'esempio l'alterigia naturale in una Santacroce per eredità e pel prestigio del nome. La marchesina Cecilia, o Cilia , come la chiamavano, non era una bellezza appariscente. Le linee del viso rigide, quasi dure, e il naso solido e aquilino della sua razza venivano però raddolciti dagli occhi neri e grandi e dalle labbra tumide e sensuali. Il mento, solido anch'esso, ne indicava il carattere fermo, ostinato, e la voce, gutturale ma sommamente melodiosa, dava alle sue parole un'indefinibile malia che non faceva badare alla bassa statura della sua personcina e alla lieve sproporzione tra il busto e le gambe per cui somigliava alla madre. Dalla madre aveva ereditato anche le mani piccole con dita sottili e i piedini ben fatti, le une e gli altri suo orgoglio in convento tra le quattro educande di nobili famiglie con le quali aveva avuto qualche contatto, perché una Santacroce, diceva la zia badessa, doveva stimarsi tale da dover tenere in distanza la «nobiltà» che poteva contare appena due secoli di esistenza. Cosí, durante gli anni passati tra le monache, ella si era sentita invadere da un senso di isolamento e di tristezza irrequieta, di mano in mano che i ricordi dell'infanzia vissuta nel malinconico palazzo di R*** le si erano schiariti nella memoria, quasi costringendola a rivivere con l'immaginazione quelle giornate interminabili, quelle serate paurose delle quali ora comprendeva meglio tutta la vacuità e tutta la desolazione e a cui neppure il suo orgoglio di casta riusciva a farla compiutamente rassegnare. A traverso le doppie grate del parlatorio, a traverso la grande grata di legno dorato del coro che dominava dall'alto la chiesa luminosa, piena, le domeniche, di elegante pubblico di signore e di signori accorsi ad assistere alla messa cantata, uno sbuffo, un'onda, un profumo di vita piú allegra, piú agitata penetrava nel convento, dove non tutte le monache erano, quantunque di nobili famiglie, impassibili e fredde come la zia badessa, né cosí assorte nelle pratiche religiose da sfuggire, quali pericolose e malsane, le relazioni col mondo profano. La zia le avea ripetuto, in parecchie occasioni, che la sua condizione la destinava a un'alleanza con qualcuna delle poche famiglie siciliane degne di ricevere l'onore di accogliere - poiché il Signore avea voluto cosí! - l'ultimo bagliore dei Santacroce. Anche la badessa reputava immensa disgrazia che quel titolo dovesse passare, per mancanza di erede maschio, a uno del ramo cadetto quasi povero e incapace di portarlo con la dignità e l'austerità mantenute onorevolmente finora. E siccome, parlandole del futuro matrimonio, la badessa soggiungeva sempre: - A questo penseranno i tuoi genitori; ci penserò pure io, se il Signore vorrà concedermene la grazia! - l'idea che la coscienza e la volontà di lei non dovessero contare per niente nella decisione intorno all'avvenire che l'attendeva le aveva lungamente torturato l'animo, inasprendoglielo sordamente e fortificandolo - forse invano! ella rifletteva - per una lotta nella quale già capiva di dover essere perditrice. E ogni volta che la zia tornava a parlargliene, la marchesina fissava negli occhi quel viso pallido, rugoso, con labbra sottili e un che di maschile nei lineamenti che le rammentavano quelli del padre. E le sembrava di scorgere nella voce lenta e sommessa della vecchia monaca benedettina un accento di rancore e di rimpianto, misto con un altero senso di rassegnazione che avrebbe voluto nascondere o attenuare quel rimpianto e quel rancore. Era stata, forse, vittima anche lei delle circostanze e dei pregiudizi di razza, sacrificata a un primogenito, eliminata dalla vita comune per quell'inesorabile volontà che non avrebbe consultato neppur lei il giorno in cui suo padre ne avrebbe deciso la sorte! E si era sentita oppressa, sopraffatta dalla fatalità, rientrando in quel palazzo dei Santacroce isolato lassú in cima alla collina di R***; e che le sembrava assai piú cupo del convento, dove almeno le pratiche e le feste religiose servivano da distrazione giornaliera e da svago impazientemente atteso e quasi infantilmente goduto. La messa che don Paolo Forti veniva a dire, le domeniche e le feste, nella cappella di famiglia era cerimonia fredda e compassata, in confronto anche della messa bassa di tutti i giorni a cui ella aveva assistito in convento. Quei quattro ceri accesi davanti al quadro di santa Margherita da Cortona, quell'altare disadorno, con la predella di legno che risonava sotto i grossolani scarponi del prete a ogni passo ch'egli moveva, quei vecchi seggioloni col piano e le spalliere coperti di cuoio, dietro i quali ella udiva il sommesso borbottio del rosario e i colpi di tosse delle poche persone della servitú inginocchiate sul freddo pavimento di mattoni di Valenza, le mettevano tale sgomento e tale tristezza nell'animo che le impedivano di concentrarsi e di pregare. E durante la settimana? Una o due visite di vecchie signore e lo spettacolo della campagna che si stendeva, a perdita d'occhio, a piè della collina, fino alla catena delle Madonie coperte di neve e fino alle falde dell'Etna che, sotto il sole, svaniva quasi sul cielo azzurro, niente altro. Giacché i balconi della camera e del salottino della marchesina rispondevano su la parte opposta a quella dove stava arrampicata la cittaduzza di R*** e i balconi delle stanze che guardavano da questo lato, per ordine del marchese, rimanevano sempre chiusi a testimoniare la sua protesta contro le «novità» finché esse duravano e che, contro ogni sua illusione, persistevano a durare. Fortunatamente in convento ella aveva appreso a suonare il pianoforte e vi si era appassionata sotto la direzione della suora che insegnava il canto fermo alle educande. E tutta quella vecchia musica sacra più particolarmente studiata avea sviluppato in modo severo il suo gusto. Il Palestrina, il Bach, lo Scarlatti, il Mozart, le erano divenuti cari anche per le difficoltà da superare nell'esecuzione. Soltanto all'uscita del convento ella avea voluto provvedersi di una larga scelta di cose moderne, accettando tutto quel che dal negoziante di musica le era stato proposto; e il suo salottino appartato, da mattina a sera, risonava di melodie prima ignorate, ora studiate e interpretate con fina intelligenza e che divenivano tale rivelazione per lei da darle fremiti, da agitarla e lasciarla stanca e spossata dopo le molte ore consacrate ad esse in quelle giornate di primavera cosí splendide e cosí eccitanti nella solitudine della sua vita. Don Paolo Porti aveva intuito sin da principio che qualche cosa di segreto, d'inafferrabile stava in fondo all'animo della giovane silenziosa, e avea tentato di scoprirlo nella confessione, consigliato dalla marchesa; ma inutilmente. E fermatosi, quella domenica, su la soglia della camera tenuta al buio, mentre la marchesa entrava ad annunziare alla figlia la insolita visita, egli non sperava affatto di essere piú fortunato nel nuovo tentativo. La marchesa avea aperto gli scuri, invitando don Paolo a farsi avanti. - Ho pregato per voscenza nel sacrificio della santa messa - egli disse dopo alcune parole di scusa pel disturbo di quella visita. - Brutta cosa l'emicrania! Ne soffro pure io qualche volta ... - Grazie! - rispose la marchesina che aveva aperto gli occhi, senza moversi dalla posizione in cui si trovava. Don Paolo si sentí turbare dagli sguardi di sospetto e di diffidenza con cui si vedeva fissato. Appena la marchesa, col pretesto di un ordine da dare, lo lasciava là, seduto a piè del lettino dove la marchesina era coricata vestita, coperta soltanto fino a metà del corpo con uno scialle, egli abbassava gli occhi e non trovava parole per riprendere la conversazione. - Indovino perché mammà vi ha condotto qui - disse la marchesina, rompendo il lungo intervallo di silenzio, quasi impietosita dell'imbarazzo del prete. - Che cosa vogliono da me? - Quel che una figlia rispettosa e obbediente deve ai suoi genitori. Le parlo da indegno ministro di Dio, da confessore. - Mi vogliono maritare con uno che non conosco neppure di vista. - Pensano all'avvenire di voscenza, alla sua situazione nel mondo. E giacché si sono decisi per questa scelta, vuol dire che vi trovano tutte le eccellenti condizioni morali e materiali degne della loro nobilissima casa. I genitori s'ingannano di rado. - E il mio cuore non conta nulla? - Il suo cuore sarà tutto della persona che avrà la fortuna di sposarla. Voscenza ha l'esempio della mamma, di una santa ... - E se ... Ella s'interruppe, irrigidendosi, facendo un visibile sforzo di contenersi. - So che ha risposto con un rifiuto - disse il prete. - Oh! Una Santacroce non deve avere volontà di fronte ai genitori. Vi sono doveri che s'impongono innanzi tutto quando si occupa, per nascita, una posizione elevata come la sua. Le donne della famiglia Santacroce sono state sempre mirabili modelli su questo punto. La signora marchesina non vorrà dare un gran dispiacere a suo padre ... che ha già impegnata la parola col barone di Pietrerase. Gran signore anche lui, il barone ... Il principe suo fratello non ha figli ... Io le auguro di vederla principessa, un giorno o l'altro. Il titolo toccherebbe di diritto al barone. I Cavanna, dice bene il signor marchese, non possono competere coi Santacroce per nobiltà, ma sono tra le piú illustri e ricche famiglie siciliane. - E se io volessi sposare un altro? - lo interruppe la marchesina sollevandosi sopra un gomito e appoggiando la testa sul palmo della mano. - Mi confido col confessore ... Sono stata di poco coraggio; non ne ho detto niente a mia madre. - Un altro? ... Chi? Giacché mi parla come a confessore ... - Il nome non importa ... per ora. - Se è degno della sua famiglia, il marchese certamente non si opporrà. - Non è nobile, né ricco. - In questo caso ... Una Santacroce non può discendere in basso. Sarebbe un gran dolore pei suoi genitori; sarebbe un fatto senza precedenti in famiglia ... una cosa impossibile! - Rimarrò zitella. - La signora marchesina deve riflettere ... - Ho riflettuto. Non credo che si voglia la mia infelicità. - Se la prepara voscenza stessa, con le proprie mani. Non si ostinerà, oso di lusingarmi. Io, suo confessore, non verrei a consigliarle di sottomettersi, se credessi di fare opera contraria al mio sacro ministero. Non si offenda se immagino che la poca esperienza del mondo, la giovinezza, e, forse, una mal riposta passioncina la illudono in questo momento. - Al confessore si deve dire tutto. Mi sarei confidata con mammà se non sapessi che ella non ha altra volontà all'infuori di quella di mio padre. Ho voluto risparmiarle un dispiacere. Dirò tutto al confessore. Sí, io amo un altro, da due anni, e so di essere amata. Tutti e due abbiamo però compreso le difficoltà che oggi si oppongono alla nostra unione, e ci siamo rassegnati. Se mio padre vorrà disporre di me altrimenti, io forse non resisterò ai suoi ordini, quantunque in questo momento sia già decisa a resistere. Avrà un gran peso su la coscienza mio padre! Quel che farò dopo non so ... - Niente che possa recar disonore alla sua nobile famiglia, ne sono sicuro - la interruppe don Paolo. - Il barone di Pietrerase è un gran signore anche lui; saprà darle tutte le felicità che si possono conseguire in questo mondo ... - Preferirei di essere infelice ma libera di agire a modo mio. - Guardi, marchesina. Crede voscenza che io sia un cattivo prete? Ho i miei difetti ... ma, insomma! ... Ebbene io sono stato fatto prete per forza. Mio padre mi mise il collare da chierico a dieci anni; poi mi mandò in seminario ... E una volta che ebbi l'ardire, prima di prendere gli ordini minori - ero grande e grosso, a diciotto anni - una volta che ebbi l'ardire di dirgli che avrei voluto essere medico, avvocato, agrimensore, o altro ma non sacerdote, mio padre mi schiaffeggiò come un ragazzino, mi saziò di pugni e pedate - era manesco, Dio l'abbia in gloria! - e cosí mi levò di capo ogni voglia di ribellarmi alla sua volontà. Ora dico che fece bene. Sono contento del mio stato; e quando osservo tanti altri che furono in seminario con me, e che buttarono via il collare anche dopo di aver ricevuto gli ordini minori, benedico quegli schiaffi, quei pugni, quelle pedate. - E se suo padre si fosse ingannato? Se lei fosse riuscito un cattivo prete? - Bisogna aver fede in Dio, marchesina! ... Che cosa dovrò dunque riferire alla marchesa? Attende ansiosamente la risposta, povera signora. Forse, se dipendesse da lei ... - Ditele che le chiedo perdono del dispiacere che le faccio, ma che rifiuto, rifiuto ... rifiuto! Mi lascino in pace. Vogliono sbarazzarsi di me? Io non do noia a nessuno in questa casa ... Perché mio padre dovrebbe mantenere la sua parola al barone? ... Poteva darla? - Allora ... - rispose don Paolo, esitando - Allora sarà meglio fare cosí. Dia retta al mio consiglio. Io riferirò al marchese e alla marchesa che voscenza, da figlia buona e obbediente, si sottomette alla loro volontà ... Mi lasci dire. La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

CENERE

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Deledda, Grazia 3 occorrenze

aggiunse, abbassando la voce. «È peccato mortale, rubare. Va a riprenderli e rimettili nel cassetto.» «Poh! Poh! Sei matto?» «Ed io lo dico a mia madre!» «Tua madre!», disse l'altro con ironia. «Va a cercarla!» Intanto camminavano lentamente, ed Anania guardava sempre la scodella. «Siamo ladri!», disse a bassa voce. «Il denaro è di mio padre, e tu sei un mammalucco. Andrò via io solo, io solo ed io solo!» «Va, che tu non possa più ritornare! Ma io ... io lo dirò a ... a zia Tatàna» (sì, ora si vergognò di dire mia madre!). «Spia!», proruppe Bustianeddu, minacciandolo coi pugni stretti. «Se tu parli ti ammazzo come una lucertola, ti rompo i denti con una pietra, ti faccio cacciar le viscere per gli occhi.» Anania abbassò le spalle, pauroso di rovesciar il brodo e di ricevere i pugni dell'amico, ma non ritirò la minaccia di rivelare ogni cosa a zia Tatàna. «Che diavolo ti han detto dentro quel cortile?», proseguì l'altro, fremente. «Che ti ha detto quella servaccia? Parla.» «Niente. Ma io non voglio essere un ladro.» «Tu sei un bastardo», gridò allora Bustianeddu, «ecco cosa sei. Ed io ora vado, riprendo i denari e non ti guardo più in faccia.» S'allontanò di corsa, lasciando Anania colpito da un dolore profondo. Ladro, bastardo, abbandonato! Era troppo, era troppo! Egli pianse e le sue lagrime caddero entro la scodella. «Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

, diss'egli, abbassando la voce e portandosi le mani alla bocca. «Oh, benedetto!», rispose la vecchia sollevando le braccia. «Che ci hai da veder tu? Tu non sai nulla!» «E allora vado ... » Ma invece andò da Bustianeddu, poi nell'orto per congedarsi da zio Pera ed anche dai fichi d'India, dai cardi, dal panorama, dall'orizzonte ... Trovò il vecchio sdraiato sull'erba col randello posato anch'esso sull'erba con attitudine di riposo. «Dunque parto zio Pera, addio: state bene e divertitevi!» «Eh?», chiese il vecchio, che diventava sordo e cieco. «Parto!», gridò Anania. «Vado a Cagliari per studiare ... » «Il mare? Sì, a Cagliari c'è il mare. Dio ti accompagni e ti benedica, figlio mio. Il vecchio zio Pera non ha nulla da darti, ma pregherà per te ... » «Avete niente da comandarmi?», chiese Anania, curvandosi, con le mani sulle ginocchia. Il vecchio si sollevò, lo guardò fisso e sorrise: «Che vuoi che ti comandi? Anch'io devo partire!». «Anche voi?», esclamò lo studente, sorridendo per la smania che tutti, anche i vecchi decrepiti, avevano di partire. «Anch'io.» «E per dove, zio Pera?» «Ah, per un paese lontano!», disse il vecchio stendendo la mano verso l'orizzonte. «Per l'Eternità!» Soltanto sul tardi, dopo esser passato e ripassato sotto le finestre di Margherita senza poter scorgere la fanciulla, Anania entrò e chiese del padrino. «Non c'è nessuno in casa. Se attendi rientreranno fra poco», disse la serva con arroganza. «Perché non sei venuto prima?» «Perché faccio quel che mi pare e piace», diss'egli entrando. «È giusto, meglio perdere il tempo con quella schifosa d'Agata che venire a riverire i benefattori.» «Auff!», egli sbuffò, appoggiandosi alla finestra dello studio. Ah, la serva lo umiliava come in quella notte lontana quando egli con Bustianeddu eran venuti per chiedere una scodella di brodo: nulla era cambiato; egli era sempre un servo, un beneficato. Lagrime di rabbia gli inumidirono gli occhi. «Ma io sono un uomo!», pensò. «Posso rinunziare a tutto, lavorare la terra, fare il soldato, ma non esser vile. Ora me ne vado.» E si staccò dalla finestra, ma sfiorando la scrivania già illuminata dalla luna, scorse fra le carte buttate su alla rinfusa una busta rosea a righe verdi. Il sangue gli salì al capo; le orecchie gli arsero, percosse da una vibrazione metallica; incoscientemente si curvò e prese la busta. Sì, era quella, squarciata e vuota. Gli parve di toccare la spoglia di una cosa per lui sacra, ch'era stata violata; ah, tutto, tutto era finito per lui, l'anima sua era vuota e sbranata come quella busta. D'un tratto una viva luce inondò la stanza; egli vide Margherita entrare, ed ebbe appena il tempo di lasciar cadere la busta, ma si accorse che la fanciulla aveva indovinato il suo atto, ed una viva vergogna si unì al suo dolore. «Buona sera», disse Margherita deponendo il lume sulla scrivania, «ti hanno lasciato al buio.» «Buona sera», egli mormorò, deciso a spiegarsi e poi fuggire e non lasciarsi vedere mai più. «Siedi.» Egli la fissava con occhi attoniti; sì, quella era Margherita, ma in quel momento egli la odiava. «Scusa», cominciò a balbettare. «Non l'ho fatto apposta, non sono un vile, io, ma ho veduta quella ... questa busta», la toccò col dito, «e non ho potuto ... L'ho guardata ... » «È tua?» «È mia.» Margherita arrossì e si confuse, mentre Anania, come liberato da un peso, cominciava a distinguere le cose e a ragionare. Il suo orgoglio, offeso dalla vergogna patita, lo consigliava a dire che l'invio del sonetto era stato uno scherzo; ma Margherita, nel suo vestito da passeggio, con la vita stretta da un nastro verde lucente, era così bella e pura che mentire con lei sarebbe stato come mentire con un angelo! Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

«Sì», egli riprese, abbassando la voce, e fermandosi davanti a Olì, «i vostri viaggi son finiti. Ragioniamo un po': è inutile piangere, anzi dovete rallegrarvi perché avete ritrovato un buon figliuolo che vi restituirà bene per male: quindi dovete aspettarvi da lui molto bene. Di qui voi non vi muoverete più, finché non l'ordinerò io. Capite? capite?», ripeté, sollevando di nuovo la voce, e battendosi la mano sul petto. «Adesso sono io il padrone: non sono più il bimbo di sette anni, che voi avete vilmente ingannato e abbandonato; non sono più l'immondezza che voi avete buttato via; sono un uomo ora, capite? e saprò difendermi, sì, saprò difendermi, saprò, perché voi finora non avete fatto altro che offendermi, uccidermi giorno per giorno, sempre a tradimento, sempre! sempre! e rovinarmi, capite, rovinarmi sempre più, sempre più, come si rovina una casa, un muro, così, pietra per pietra, così ... » Egli faceva atto di buttar giù un muro; si curvava, sudava, quasi oppresso da una vera fatica fisica; ma d'un tratto, improvvisamente, guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell'essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? ciò che ella aveva fatto? E d'altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d'un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l'ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei. Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorché la miserabile creatura che gli stava davanti. «Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia», pensò. «E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.» Olì continuava a piangere. «Finitela», diss'egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli si volse alla vedova e le fece cenno di confortarla e farla tacere. «Non vedi che ha paura?», mormorò la vedova, passandogli vicina. «Su! su!», disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. «Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po' di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po' fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d'oro.» Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenii di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po' ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l'uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa. «Ne vuoi ancora?», domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. «Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Da' qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla! Hai sentito? Su, figlia!» Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell'acqua dove usava lavarsi venti anni prima: volle pulire la chicchera, poi si lavò, e s'asciugò col grembiale bucherellato. Le sue labbra tremavano, qualche singhiozzo le gonfiava ancora il petto, i suoi occhi arrossati e cerchiati, enormi nel viso piccolo, sfuggivano lo sguardo freddo di Anania. Egli guardava il grembiale bucherellato e pensava: «Bisognerà subito farle una veste: è veramente lurida. Ho ancora sessanta lire delle lezioni date a Nuoro: ho fatto bene a fare quelle ripetizioni ... Ne troverò anche altre. Venderò anche i libri ... Sì, occorre subito vestirla e calzarla ... Avrà anche fame ... ». Quasi indovinando il suo pensiero, zia Grathia disse ad Olì: «Hai fame? Se hai fame dimmelo pure, subito: non star lì vergognosa; chi si vergogna patisce. Hai fame? No?». «No», rispose Olì con voce rauca. Anania si turbò nell'udire quella voce: era ancora la voce d'un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l'unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita. «Ebbene, allora siedi qui», disse zia Grathia avvicinando due sgabelli al focolare, «siedi qui, figlia, e tu siedi qui, gioiello mio. Sedete qui entrambi e discorrete ... ». Fece sedere Olì, e pretendeva di fare altrettanto con Anania, ma egli si scosse bruscamente. «Lasciatemi dunque; non sono un bimbo, vi ho detto! D'altronde», egli riprese, camminando su e giù per la cucina, «c'è poco da discorrere. Ho già detto quanto dovevo dire. Ella rimarrà qui finché io non ordinerò altrimenti: voi ora le comprerete le scarpe e un vestito ... vi darò i danari ... , ma di questo parleremo poi ... Intanto», e alzò la voce, per significare che si rivolgeva ad Olì, «rispondete voi: che cosa rispondete dunque?» Credendo che egli parlasse con la vedova, Olì non rispose. «Hai sentito?», le disse zia Grathia, con voce dolce. «Che cosa rispondi?» «Io?», ella chiese a bassa voce. «Sì, tu.» «Io ... nulla.» «Avete debiti?», domandò Anania. «No.» «Verso il cantoniere, no?». «No. Si hanno tenuto tutto quanto avevo.» «Che cosa avevate?» «I bottoni d'argento della camicia, le scarpe nuove, dodici lire in argento.» «Che cosa possedete ora?» «Nulla. Come mi vedi, mi scrivi», diss'ella, toccandosi il grembiale. La sua voce era cupa, cavernosa. «Avete qualche carta?» «Cosa?» «Qualche carta», spiegò zia Grathia. «Sì, la fede di nascita?» «Sì, la fede di nascita», ella rispose toccandosi il petto. «L'ho qui.» «Fate vedere». Ella trasse una carta gialliccia, macchiata d'olio e di sudore, mentre Anania ripensava amaramente alle ricerche e alle indagini fatte per scoprire se Maria Obinu possedeva carte rivelatrici. Zia Grathia prese la carta e gliela diede; egli la svolse, la lesse, la restituì. «Perché ve la siete procurata?», domandò. «Per sposarmi con Celestino ... » «Il cieco», spiegò la vedova, e aggiunse borbottando: «quell'immondezza vile». Anania tacque, e continuò a camminare su e giù per la cucina: il vento sibilava incessantemente intorno alla casetta; dalle fessure del tetto piovevano alcune striscie di sole che disegnavano fantastiche monete d'oro sul pavimento nero. Anania camminava divertendosi automaticamente a mettere i piedi su quelle monete, come usava una volta, da bambino: si domandava che cosa gli restava da fare e gli sembrava d'aver già esaurito una parte del suo grave compito. «Io ora chiamerò di là zia Grathia», pensava, «e le consegnerò i danari perché le compri le vesti e le scarpe e le dia da mangiare, poi partirò e vedrò ... Qui non mi resta altro da fare: è tutto fatto ... È tutto fatto!», ripeté fra sé con infinita tristezza. «Tutto è finito.» Gli venne in mente di sedersi accanto a sua madre, di chiederle come aveva vissuto, di rivolgerle una sola parola di dolcezza e di perdono: ma non poteva, non poteva: il solo guardarla lo disgustava; gli pareva che ella puzzasse (e in realtà ella emanava quello sgradevole odore tutto speciale dei mendicanti), e non vedeva l'ora di andarsene, di fuggire, di togliersi dagli occhi quella vista dolorosa. Eppure qualche cosa lo tratteneva; egli sentiva che la scena non poteva terminare così, dopo poche frasi; pensava che Olì forse, fra la sua paura e la sua vergogna, gioiva d'aver un figlio bello, forte, civile; e nel suo disgusto, nel suo dolore anch'egli provava un meschino conforto dicendo a se stesso: «Almeno non è sfrontata: forse si può redimere ancora. È incosciente, ma non sfrontata. Non si ribellerà». Eppure ella si ribellò. «Ecco», egli ricominciò, dopo un lungo silenzio, «voi rimarrete qui finché non avrò aggiustato i miei affari. Zia Grathia comprerà le vesti e le scarpe ... » La voce rauca e dolente risuonò forte: «Io non voglio nulla. Io no ... ». «Come no?», egli chiese, fermandosi di botto davanti al focolare. «Io non resto.» «Che cosa?», egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. «Spiegatevi meglio.» Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perché osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perché ora ella osava ribellarglisi, perché voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d'un delitto? «Spiegatevi!», egli ripeté, dominando a stento la sua collera. E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome. Zia Grathia lo fissava, pronta anch'essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse. «Ascoltami», disse Olì animandosi, «non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L'unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata ... » «Dove vuoi andare?», chiese la vedova. «Anch'io gli ho detto queste cose, ma egli non capisce la ragione: ci sarebbe però un mezzo ... Rimani qui egualmente, invece di andar per il mondo: non diremo chi tu sei ed egli vivrà tranquillo come se tu fossi lontana. Perché, povera te, se vai via di qui, dove andrai?» «Dove Dio vuole ... » «Dio?», proruppe Anania, dandosi forti pugni sul petto. «Dio ora vi comanda di obbedirmi. Non osate neppur più ripetere che non volete restare qui. Non osate», egli disse come in delirio. «Credete che io scherzi, forse? Non osate muovere un passo senza ordine mio; altrimenti sarò capace di tutto ... » «Per il tuo bene», ella insisté. «Ascoltami almeno: non essere feroce con me, mentre sei indulgente con tuo padre, con quel miserabile che fu la mia rovina.» «Ella ha ragione!», disse la vedova. «Tacete!», impose Anania. Olì prese ancor più coraggio. «Io non so parlare, Ananì ... io ora non so parlare perché le disgrazie mi hanno reso stupida; ma una sola cosa ti domando: non avrei tutto da guadagnare restando qui? Se voglio andar via non è per il tuo bene? Rispondi. Ah, egli neppure mi ascolta!», disse poi, rivolta alla vedova. Anania camminava nuovamente su e giù per la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: «Ascolto!». Ella riprese umilmente: «Perché dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d'impedimento: lasciami andare ... per il tuo bene ... ». «No!», egli ripeté. «Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento ... » Egli s'aggirò su se stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell'anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà ... Ma subito ebbe vergogna di se stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina. «No!» «Tu sei una belva», mormorò Olì, «non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami ... » «No!» «Una belva davvero!», confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. «C'è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo! Fuori, se sentono, crederanno che c'è un toro selvatico, chiuso qui dentro. Son queste le cose che ti hanno insegnato a scuola?» «A scuola mi hanno insegnato questa ed altre cose», egli disse, abbassando la voce che gli si era fatta rauca. «Mi hanno insegnato che l'uomo non deve lasciarsi disonorare, a costo di morirne ... Ma voi non potete capire certe cose! Infine, tagliamo corto, e state zitte tutt'e due ... » «Io non capisco? Io capisco benissimo», protestò la vecchia. «Nonna, voi capite davvero. Ricordatevi ... Ma basta, basta!», esclamò egli, agitando le mani, stanco, nauseato. Le parole della vecchia lo avevano colpito; egli ritornava cosciente, ricordava che si era sempre ritenuto un essere superiore, e voleva porre fine alla scena dolorosa e volgare. «Basta», ripeté a se stesso, lasciandosi cader seduto in un angolo della cucina e prendendosi la testa fra le mani. «Ho detto no e basta. Finitela ora», aggiunse con voce affranta. Ma Olì s'accorse benissimo che era invece il momento di combattere: ella non aveva più paura, e osò tutto. «Senti», disse con voce umile, sempre più umile, «perché vuoi rovinarti, "figlio mio?" (Sì, ella ebbe il coraggio di dir così, ed egli non protestò). Io so tutto ... Tu devi sposarti con una fanciulla ricca e bella: se ella viene a conoscere che tu non mi rinneghi, ti rifiuterà. Ed ha ragione: perché una rosa non può stare vicina ad una immondezza ... Fallo per lei; lasciami andare, ella crederà sempre che io non esista più. Ella è un'anima innocente; perché dovrebbe soffrire? Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente ... sì ... involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare». Egli ebbe desiderio di gridare: «Eppure voi non mi avete fatto altro che del male», ma si vinse. A che serviva gridare? Era inutile e indecoroso; no, egli non voleva più gridare: solo, col capo sempre stretto fra le mani, con voce nello stesso tempo lamentosa e rabbiosa, continuò a rispondere: «No, no, no». In fondo sentiva che Olì aveva ragione, e capiva che ella veramente voleva andarsene per non renderlo infelice, ma appunto l'idea che in quel momento ella era più generosa e più cosciente di lui lo irritava e gliela rendeva odiosa. Ella si era trasformata: i suoi occhi illuminati lo guardavano supplichevoli e amorosi; quando ripeteva: «lasciami andare» la sua voce vibrava e tutto il suo volto esprimeva una tristezza senza nome. Forse un sogno soave, che giammai prima d'allora aveva rischiarato l'orrore della sua esistenza, le sfiorava l'anima: restare, vivere per lui, trovar finalmente pace. Ma dal profondo dell'anima primitiva un istinto di bene, - la scintilla che si cela anche nella selce, - la spingeva a non badare a quel sogno. Una sete di sacrifizio la divorava, ed Anania lo capiva, e sentiva finalmente che ella voleva a modo suo compiere il proprio dovere, come egli a modo suo voleva compiere il suo. Egli però era il più forte e voleva e doveva vincere con tutti i mezzi, anche con la violenza, anche con la necessaria crudeltà del medico che per guarire il malato gli apre la carne coi ferri. Ad un tratto ella si gettò per terra, ricominciò a piangere, supplicò, gridò. Anania rispose sempre no. «Che farò dunque io?», ella singhiozzò. «Nostra Signora mia, cosa farò io? Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

Demetrio Pianelli

663130
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Chiudeva il libro, tenendovi dentro l'indice, recitava un gloria colle labbra, abbassando un poco la testa fino a toccare col naso il velluto cremisi della sua Via al Cielo , tornava a rialzare il capo, a riaprire gli occhi sereni e buoni verso l'altare. Che avesse ragione Paolino? La Pardi non stava mai tranquilla, e, piú di una volta, da vero diavolo tentatore, cercò di far ridere Beatrice sul conto di quel bellissimo suo cognato in redingotto. Dio, che bellezza!… Beatrice una volta le fece segno di finirla. La diavolessa s'inginocchiò in terra e si raccolse in una fervida preghiera. Il Signore stava per discendere in mezzo agli innocenti. I ragazzi del coro cominciarono un soave: O sacrum convivium , a sole voci, che richiamò la mente di Demetrio dalle strane divagazioni in cui cominciava a perdersi. Stese in terra il suo fazzoletto di cotone, fresco di bucato, s'inginocchiò e strinse l'anima sua a pensieri piú casti e religiosi. "C'è una grande Provvidenza al di sopra delle nostre tegole, delle nostre miserie e della nostra presunzione, e soltanto chi la nega è indegno di meritarsela. "È questa fede nella forza superiore che sorregge il povero zoppo nel momento che perde il suo bastone, che trae a riva il naufrago nell'atto che la sua barca sta per affondare, che versa la consolazione nella lampada del cuore. "Tu fa il bene per il bene e lascia che Dio aggiusti il conto. Dio è un ricco cassiere che non scappa mai. "Non è l'arte del saper vivere che fa, ma il viver bene, anche sbagliando. "Il bene che tu fai nella buona intenzione e nella carità del prossimo non si perde mai. Se hai speso tutto il tuo denaro per isfamare gli infelici, se ti sei spogliato quasi ignudo per vestire gli orfanelli, se hai asciugato le lagrime della vedova ... ." Demetrio alzò un momento la testa e lanciò un'occhiata ancora a quella donna, che spiccava sopra il fondo marmoreo del pulpito ... "Se hai fatto del bene, ringrazia Dio che ha voluto procurarti le occasioni e t'ha preferito al ricco e al potente. "Non invidiare dunque la fortuna del tuo vicino, salva il tuo credito intatto per l'eternità, e non lasciarti deviare dalle concupiscenze." "Zio Demetrio, è adesso che Arabella diventa un tabernacolo?" chiese Naldo pian pianino con una voce commossa. Arabella aveva nel cuore il suo Signore e se lo teneva ardente e stretto colle mani. Tutto l'essere suo era una fiamma, una soavissima fiamma d'amore, che s'irradiava visibilmente attraverso le rosee carni e alla nebbia del velo. Beatrice sentí gli occhi riempirsi di lagrime, e con quegli occhi lucenti andò a cercare gli altri figliuoli quasi per trarli anch'essi nella dolce comunione degli spiriti. Demetrio, che s'era tolto Naldo in braccio perché potesse vedere piú bene, sentí a quello sguardo correre una scintilla per tutto il corpo, e gli parve che la chiesa si riempisse di fiammelle e di frantumi di vetro. "Che cosa era venuto a dire quel benedetto Paolino?" Nell'uscire di chiesa egli provò una dolce vertigine, come se il profumo di tutti quei fiori lo avesse soavemente inebbriato, o fosse veramente disceso anche in lui uno spirito santo a rischiarare le povere pareti della sua vita interiore. Mamma, figliuoli e amici s'incontrarono di nuovo davanti la chiesa in mezzo al gran bisbiglio della gente che usciva. I bambini saltarono al collo di Arabella, si baciarono, fecero un lieto chiasso. Beatrice col viso ancor fresco di lagrime venne lei per la prima a stendere la mano al cognato e disse qualche parola per avviare la pace, parola che Demetrio non afferrò. "Sí, sí, sí ... " egli seguitava a ripetere, e rideva di quel riso che non esce dalla bocca e par che indurisca le mascelle. Sentiva anche lui una punta come quella d'un bastone schiacciato tra una costola e l'altra. "Sí, sí, sí ... " tornò a dire in seguito a qualche cosa che Beatrice gli domandò e di cui non arrivò ancora a prendere il senso. Quel gran sole di fuori lo abbagliava, lo stordiva; scosse il capo per togliersi d'addosso la vertigine, e gli parve, fra tanti veli bianchi che lo circondavano, di trovarsi perduto in mezzo a una nuvola. Scambiati i saluti e i complimenti coi Grissini, colla Pardi, col Bonfanti, la nostra brigatella, coi ragazzi davanti in crocchio, si avviò verso il centro. Lo zio Demetrio voleva pagare a tutti la colazione al caffè Biffi in Galleria. I ragazzi parlarono tutti insieme (c'era anche Ferruccio) saltando intorno all'Arabella, che col Signore in corpo mandava la contentezza attraverso alla nuvola bianca del suo velo. Demetrio camminava a fianco di Beatrice, distaccato, sui ciottoli, per lasciare tutto il marciapiede a lei; e pareva soltanto occupato a curar le carrozze, che sbucavano da tutte le parti. "Che bella giornata!" disse egli dopo un bel tratto, alzando gli occhi e facendo un mezzo giro sulle gambe. "Bello essere in campagna!" osservò Beatrice. "Proprio davvero ... Guardate alle carrozze!" Camminarono un altro poco in silenzio. Demetrio una volta si specchiò in una vetrina e non si riconobbe subito. Non era abituato a portare il cilindro e a far da cavalier servente a una bella signora. Beatrice osservò per conto suo che la cerimonia non poteva essere piú commovente, che pareva un giardino la chiesa. "Proprio davvero!" esclamò Demetrio, mentre si domandava in cuor suo se non era il momento di buttar fuori il nome di Paolino e di tirare il discorso sul famoso argomento; ma appunto in quel momento uscí una carrozza da una delle vie laterali e lo zio corse a prendere Naldo. Beatrice si trovò a fianco di Arabella, che si attaccò al braccio della sua bella mammetta. "Ho pregato tanto anche per te, mamma." "Brava." In quel benedetto crocevia della piazza del Duomo, da dove si irradiano gli omnibus e i tram, lo zio prese per mano anche Mario e gridò alle donne: attente alle carrozze! Pareva il capitano che salva la nave dagli scogli, e gli deve esser passata questa idea nella mente. Entrarono nella Galleria. Non c'era molta gente in quell'ora mattutina — lo zio osservò che l'orologio in cima all'arco segnava le otto e mezzo. — Il bel mosaico del pavimento, quasi sgombro, spiccava in tutta la nitidezza de' suoi marmi e de' suoi arabeschi nel chiaro riverbero che il cupolone di vetro, tocco dal sole, sbatteva nel vasto ambiente, sui cristalli dei negozi, sui globi, sugli ori delle ditte, sugli stucchi delle pareti liscie come specchi, su tutto ciò che poteva prendere e rimandare la luce in un giuoco di luci. Una fresca arietta volava attraverso ai bracci dell'edificio, che pulito e splendido, si preparava a una nuova giornata della sua vita rumorosa ed elegante. Beatrice, che da molti mesi non poneva il piede in quel magnifico salone pubblico, sollevò con un sospiro un monte di meste ricordanze, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità delle belle botteghe, dove brillavano i gioielli, le porcellane, i ventagli, gli specchi e le avrebbe fatte passar tutte, se i ragazzi non avessero reclamato. Oltre la fame, Demetrio voleva esser all'ufficio per le nove. Entrarono subito al Biffi che rimesso a fresco da poco tempo con stucchi nuovi, specchi nuovi, velluti nuovi, pareva un pezzo di paradiso. Sedettero a un tavolino presso uno dei grandi cristalli che dànno sull'ottagono, da dove si può vedere il vasto piazzale pubblico, con tutte le botteghe in giro, con sopra la tazza immensa e trasparente della cupola, un vero barbaglio per chi ci va una volta tanto. Beatrice si rimirò subito nello specchio di fronte, badò a sedersi bene, lieta in cuor suo — senza dirlo a sé stessa — perché i camerieri s'erano voltati tutti al suo entrare. Al Biffi era venuta l'ultima volta col povero Cesarino la vigilia di Natale, ma s'era angustiata per un ufficiale di cavalleria, che non aveva mai cessato di fissarla come se avesse voluto bruciarla cogli occhi. Cesarino finí coll'accorgersene e nel tornare a casa l'aveva fatta piangere. "Pren ... prendete un caffè e latte?" domandò Demetrio, guardando in terra. "Un caffè e panna, volentieri" rispose Beatrice. "Allora, uno, due, tre, quattro, cinque e sei caffè e panna," disse al cameriere, contando col dito teso gl'invitati, "del pane e quattro paste ... ." E sedette in faccia a Beatrice, senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala sbirciavano, ridendo sotto i bei baffi, il redingotto e il cilindro ancor nuovo fiammante. Mentre si aspettava, lo zio, che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava, ma non avrebbe osato guardarla per paura ... Paura di che? Lo sa Dio ... Finalmente arrivò un gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa esitava ad accettare: "Andiamo, andiamo," disse con una certa furia screanzata, "che sciocchezze!" E nel dir queste parole sentí di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo, alle orecchie, alla radice dei capelli. Per fortuna capitò che Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti, anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi giovinotti. "Bisogna che io me ne vada ... finite con comodo" tornò a dire. "Ci rivedremo piú tardi, stasera ... ." I ragazzi gridarono: "Riverisco, zio, riverisco ... grazie." Egli uscí in fretta in fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva bisogno d'aria ... Passò davanti al cristallo, guardò nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato, salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio, era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino!

Il Caramella si guardò un momento intorno e, tirando con una insolita affabilità il signor fittabile (lo giudicò subito per tale) in un andito piú scuro, abbassando le palpebre sugli occhi, prese a dire sottovoce: "L'è sempre la storia che el pesce grosso el mangia el piscinin. Il signor qui ... il mio capo ... sa ... il cavaliere ... il commendatore ... " e indicava un uscio dietro di sé, movendo il pollice dietro la spalla "l'è una brava persona, ma el g'ha il suo lato debole, ghe piacciono un poco le donnette ... Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra ." Il Caramella citò il testo con grande serietà. "Pare che tra lui e il Pianelli ci fosse un qui pro quo , mi capisce? a proposito di una sua cognata, alla quale il qui ... (e indicava l'uscio) el ghe faceva, pare, gli occhi del gatto. Io poi non so, la contano in mille maniere, ci sarebbe stato di mezzo anche un braccialetto, per conseguenza; ma chi le sa queste cose?.. il ... qui intendeva di pagare il conto, il Pianelli non ne voleva sapere, e, tira molla , se ne son dette un sacco in ufficio, che non ci sta nemmeno per la dignità del funzionario. Il Pianelli gridava come un disperato, avrà avuto le sue ragioni: l'altro, naturale, si è o non si è superiori, e detto fatto el me ciappa la penna, el te me scrive al Ministero, e in quattro e quattr'otto te me lo confezionano a Grossetto nel napoletano. Conosco da un pezzo il Pianelli e, dininguardi! so come la pensa: è un po' ostinato anche lui nelle sue idee, ti e mur , ma metterei la mano nel fuoco, figurarsi! Ma intanto chi ha avuto ha avuto. Questa l'è la favola, caro el mio signore." Il Caramella strinse le labbra, cacciò indietro le gomita, aprí le mani come due ventagli e lasciò che "quel signore" tirasse lui la morale della favola. Paolino, a intendere queste novità, rimase un momento a bocca aperta, coll'aria goffa del campagnolo che vede per la prima volta il santo Duomo. Balbettò qualche monosillabo, e, tirando la parola colle corde, dimandò: "Questa cognata, è forse ... ." "Dev'essere una donna del buon tempo. Prima ha fatto ammazzare il marito, adesso fa perdere l'impiego al cognato. Ci dicono la bella pigotta ... ." "La bella ... ." "L'è sempre la storia del cherchè la fam . Questi uomini hanno passata l'età del giudizio e devono aver cambiati anche i primi denti: ma ha cominciato Adamo a sbagliare il primo bottone (e sí che non era vestito) e sarà sempre cosí." Il Caramella cominciava a ridere del suo riso amaro di critico incontentabile, quando un altro squillo di campanello lo chiamò nella stanza del commendatore. "Vado, mi chiama il qui…" disse e sparí. Paolino discese per la seconda volta le scale, non vedendo davanti a sé che una nuvola bianca, col passo vacillante del convalescente che esce per la prima volta di casa dopo un mese di febbre. Colla testa grossa, incapace di concepire, traversò Milano e si trovò per miracolo o per misericordia di Dio sulla porta del cugino in San Clemente. "Non c'è" disse la portinaia. "Va e viene come un tramvai." "Non va piú all'ufficio?" "Io non so: non ha piú ore." Paolino guardò la facciata della casa, come se cercasse un consiglio alle finestre, e, non avendo piú nulla a fare, tornò alle Cascine. Che viaggio! Chi si raccapezzava? Demetrio, l'impiego, il commendatore, la bella pigotta , la scena in ufficio, erano altrettanti fantasmi che si mescolavano e si connettevano con lo strano contegno del cugino, col suo ostinato rifiuto, colla sua calcolata freddezza, che faceva un vivo contrasto coll'entusiasmo del primo giorno, quando s'era parlato per la prima volta al Numero Cinque in piazza Fontana e che s'era vuotato il primo bicchiere alla salute della sposa. Demetrio oggi non voleva bere piú del suo vino, rifiutava di assistere ad un'intima cerimonia di famiglia, non si lasciava piú vedere alle Cascine, non apriva la bocca sulla sua disgrazia. Nemmeno Beatrice pareva informata di questa dolorosa faccenda. E la storia di questo braccialetto? che opinione aveva la gente di questa donna? aveva essa ammazzato il primo marito?.. che ... che ... diavoleria?.. Che Demetrio fosse innamorato anche lui? non pareva possibile, dal momento che l'innamorato era quell'altro ... Ma potevano essere innamorati tutti e due. Niente di strano, dal momento che s'era innamorato anche lui alla distanza di quattro miglia. O santi Apostoli! e come la chiamavano a Milano? La bella pigotta ? che villania, che scherzo, che scempiaggine! Che tutto quello che era accaduto fin qui fosse uno scherzo di cattivo genere? ch'egli fosse la burletta di quella donna, la quale dopo aver ammazzato un marito volesse sposare un altro per ... O che pensieri! diventava matto a immaginare queste atrocità?… "Carolina, Carolina" disse, entrando in casa col cappello sul cucuzzolo, cogli occhi strabuffati, col passo dell'uomo che ha perduto il centro di gravità. "Carolina." "Che cosa c'è? che cosa è accaduto?" esclamò la sorella, lasciando cadere una matassa di filo che stava dipanando dall'arcolaio. "Vieni di sopra ... ." "Vengo, santa Maria! ma che cosa è accaduto?" "Taci, non far scene. Chiudi l'uscio" disse Paolino quando furono in camera. Gettò il cappello sul letto, sedette anche lui sul letto, si asciugò col fazzoletto la testa. "Ti senti male? parla, in nome di quella benedetta Madonna" pregava la buona sorella, a cui tremavano le gambe in prevenzione. Paolino, dopo aver soffiato come un mantice, cominciò a raccontare quel che aveva udito a Milano, di Demetrio, del commendatore, di Beatrice, del braccialetto; e, quando gli parve di aver detto tutto, si abbandonò senza fiato sul cuscino. "È tutto qui?" esclamò Carolina, alzando le mani al cielo. "Credevo che ti avessero rubato il portafogli. Si vede che sei cresciuto sempre in mezzo alle oche. Che caso! Si sa, una bella donna dà sempre da parlare alla gente. Potrebbe essere anche Sant Orsola e ci sarà sempre la lingua che si diverte a mettere male. Che importa a te se a Milano la chiamano come la chiamano? è tutt’invidia che parla." "E il braccialetto?" "Il braccialetto sarà un regaluccio di un adoratore. L'ha forse accettato? Caro mio, se non volevi questi fastidi dovevi contentarti di sposare una donna come le altre ... ." "Sei qui colle tue sciocchezze" saltò su a dire Paolino, con un tono aspro e dispettoso, non volendo concedere che la sorella potesse aver ragione su questo argomento. "Vuoi la donna bella? e allora non bisogna pretendere che la gente si strappi gli occhi dal capo per farti piacere. Il mio povero parere te l'avevo dato ... ." "Vuoi finire di fare la Perpetua?" "Ecco il pagamento d'essermi occupata tanto di te. Non parlo piú." "Ma se ... ." "Non parlo piú, sta sicuro, anima mia." "Tu vuoi sempre ... ." "Amen, non mi intrigherò piú." E coll'animo punto e addolorato la povera donna scese in cucina a preparare il pranzo. Quando mai qualcuno in quarant’anni l'aveva chiamata Perpetua? Alle Cascine essa era la mamma, la provvidenza, la consigliera ascoltata da tutti e non c'era grosso fastidio in una casa, di cui ella non sapeva sciogliere i gruppi e trovare il capo come in una matassa di filo. Doveva essere proprio lui, Paolino, il suo cuore, il suo cucco, a chiamarla Perpetua! Paolino non era piú il buon ragazzo di una volta: quella donna l'aveva stregato e cambiato di bianco in nero. Sempre inquieto, distratto, stizzoso, rabbioso, insofferente e svogliato negli affari, freddo fin nelle cose di religione, sarebbe stato peggio naturalmente andando avanti. Quel giorno che la signora Beatrice fosse diventata la padrona di casa, il posto della povera Carolina doveva essere dopo la serva, per non dire dopo la scopa. Questi malinconici pensieri passavano come uno stormo di corvi nell'animo suo, mentre colla mestola in mano davanti al camino aspettava, cogli occhi tuffati nella pentola, che la minestra finisse di cuocere. A tavola i due fratelli mangiarono di poca voglia e quasi senza parlare. Né, per quanto si voltassero nel letto, ciascuno per le ragioni sue, riuscí la notte a togliersi di dosso le spine che la bella rosa aveva seminato nelle lenzuola. Demetrio intanto seguitava a vendere. Non restava quasi piú che il letto per dormire, qualche sedia, i pochi vasi, le gabbie. Le erbe, le lunghe tredescanzie, le piccole edere, i bei ciuffetti di musco languivano di sete, s'impoverivano nella polvere, essiccavano di malinconia come il loro padrone. La valigia era preparata. Non potendo portare con sé anche i compagni della sua solitudine, pensò di dare la libertà ai canarini, rendendo cosí felici dal fondo della sua tristezza quelle piccole creature. Collocò le tre gabbie sul davanzale della finestra, cogli sportelli aperti verso lo spazio e sedette ad aspettare che i canarini si sprigionassero da loro stessi. Giovedí, che in questi ultimi giorni s'era attaccato al padrone, venne a sedersi accanto, col muso in aria, cogli occhi vaganti ora verso lo zio, ora verso le gabbie. La giornata di fin di luglio si avvicinava al suo tramonto. Lunghe e taglienti lame d'oro immobili nell'aria immobile mandavano nel lento spegnersi del crepuscolo un chiarore caldo come un riverbero di rame infocato, mentre dai tetti neri e bruciati esalava la vampa di una gran giornata di sole. Era arrivato il tempo di andarsene. Sentendo ogni giorno, quasi ogni ora, quasi ogni minuto diminuire le ragioni della vita, nel tedioso ozio forzato che somigliava all'inerte agonia di un condannato a morte, Demetrio anticipava di qualche giorno la sua partenza anche per sottrarsi alle insistenze di Paolino, che gli scriveva continuamente delle cartoline enigmatiche. Strada facendo, avrebbe potuto fermarsi un paio d'ore a San Donato dov'era sepolta la sua povera mamma, per dirle addio, o a rivederci, per attingere un po' di forza davanti all'erba che la ricopriva. Gli sorrideva anche l'idea di una fermata a Genova al cospetto del mare che non aveva mai veduto, nella speranza di far morire nell'immensità dello spettacolo i suoi piccoli pensieri e i suoi piccoli dolori. Chi sa se avrebbe potuto vivere lontano dal suo paese, tra gente sconosciuta, in un mestiere ingrato, vedovo (non c'è altra parola), vedovo per sempre di quella donna, che aveva suscitate e sconvolte tutte le forze piú oscure e piú chiuse della sua esistenza? Fu ridestato da un vivissimo cinguettío. Qualcuno dei canarini era già uscito dalla gabbia e stava sulla soglia dello sportellino, davanti all'aria vuota, in atto di curiosità e di trepidazione. Altri, agitati da una voglia quasi convulsa, saltavano di legno in legno, arruffando le piume, girando il collo, spiando coll'occhietto piccolo e rubicondo attraverso ai ferri, come se non si fidassero delle cose. Il loro padrone soleva tutte le volte che apriva gli sportelli avvicinare le imposte e piú d'uno aveva dato della testa nel vetro, come la dànno gli uomini di buona fede nelle piú trasparenti illusioni. Si capisce come non si fidassero troppo. Fu Giallino il primo, un novello che Demetrio proteggeva piú degli altri con qualche parzialità, che dopo aver sollevato il becco alla grande aria del cielo, dopo aver gridato di gioia, sollevò le ali ... ma ebbe paura. Il suo cuoricino batteva con precipizio: due volte tentò abbandonarsi, ma la paura del vuoto, spaventoso anche per lui, lo tenne aggrappato al legnetto. Amoretto, colle penne miste di verde, gli diede quasi una spinta. Demetrio sentí un frullo d'ala, guardò attraverso ai ferruzzi e scorse Giallino ansante e spaurito nella conca di un tegolo. "Ingrato anche tu ... " mormorò sorridendo. Amoretto gli tenne dietro e andò a posarsi sul cappello di ferro di un fumaiolo. Il Marchesino — cosí chiamato per il suo garbo — saltò sulla gabbia e volò di qua e di là per la stanza, seguíto dagli occhi di Giovedí, finché venne a posarsi sulla spalla del padrone. Demetrio lo prese delicatamente nel palmo, lo fece saltare sul dito e presentandolo a Giovedí, cominciò a dire: "Dunque si parte tutti quanti dimani. Mandiamo avanti questo signore a preparare gli alloggi? ... " E dopo aver accarezzato il canarino sulle ali, sporse la mano nel vuoto e gli diede la libertà. L'uccellino con un volo frettoloso e sgomentato andò a cadere sulla gronda di un tetto. La femmina lo seguí, gli volò d'appresso e sulla gronda si concertarono sul da fare. Qualche altro era già partito senza dir nulla. Le nubi d'oro cominciavano a scolorire. Sempre seduto in faccia alla finestra, Demetrio contemplava le gabbie vuote, assorto, immerso nel malinconico silenzio di quelle piccole case deserte, velando gli occhi d'una riflessione piena di mestizia. Si sentiva malato ancora, d'un male che non è febbre, ma che filtra come una febbre ghiacciata nelle midolle delle ossa. Giovedí, posata una zampa sul ginocchio, fece sentire ch’egli era lí. "Sí, tu ci sei, tu non vai via senza di me, tu sei fedele fino alla morte: tu vuoi bene a chi ti ha fatto un po' di bene!" La bestia rispondeva socchiudendo gli occhi, attraverso ai quali brillava un lume di tenerezza. Demetrio gli strinse il muso nelle mani e seguitò anche lui a parlargli cogli occhi, carezzandolo. Il silenzio dei tetti spopolati penetrava il cuore. Al chiaror sanguigno era succeduta una luce languida di un azzurro verdognolo, in cui svanivano, come piume di un immenso ventaglio, strisce lunghe di cirri bianchi e altissimi. L'uscio si aprí lentamente. Amor di Dio! era lei ... Era proprio Beatrice, un poco accesa per la fatica del salire. Era lei nel suo velo grande cascante sulle spalle, nel quale spiccavano i bei colori del viso ovale, la bianchezza del collo e la grandezza degli occhi. Giovedí, conosciuta la padrona, le corse incontro, spiccando salti di gioia, abbaiando, piagnucolando e tornò verso Demetrio, soffiando nella polvere, gonfiando le nari, leccandogli i piedi. "Che ... che miracolo?" mormorò Demetrio, alzandosi e rimanendo immobile colla mano appoggiata alla sedia. "Siete a Milano?" "Sí, per questa notte ... Son venuta a prendere Arabella che fa gli esami dimani. Ma devo prima parlarvi." Beatrice trovò Demetrio molto abbattuto e invecchiato, e lui s'umiliò al cospetto di una signora che pareva cresciuta di nobiltà nell'eleganza degli abiti nuovi e signorili. "Che cosa è accaduto?" chiese ella per la prima, mentre abbracciava con una rapida occhiata la povertà della stanza in disordine e la valigia fatta e pronta sopra la tavola. "Che cosa?" chiese distrattamente Demetrio fingendo di non capire il senso della domanda. "Sono venuta apposta anche per questo, e non voglio partire senza conoscere la verità." "Quale verità? sedetevi." Demetrio mandò avanti una sedia, dove Beatrice si pose a sedere, mentre egli tornava ad appoggiarsi colla vita alla tavola. "Paolino aveva bisogno di parlarvi, è venuto a Milano, andò a cercarvi all'ufficio e ha sentito ... " "Che cosa?" chiese con un filo di voce Demetrio, abbassando gli occhi. "Ha sentito che avete avuta una brutta scena col cavaliere in seguito alla quale siete stato licenziato. È vero?" "Non licenziato" mormorò languidamente con un tenue sorriso. "O vi hanno traslocato in un paese lontano: è vero? Perché non avete seguíto il mio consiglio? Avete forse voluto difendermi troppo ... e v'è capitato male." "Troppo? non si difende mai troppo una povera donna insidiata, calunniata" esclamò Demetrio con un tono vibrato e caldo di voce. "Voi non ne avete nessuna colpa." "Povera me, come sono disgraziata!" scoppiò a dire Beatrice, portando in fretta e furia il fazzolettino agli occhi. "Paolino è tornato a casa tutto fuori di sé, ha fatto una scena colla Carolina, vuole che io gli spieghi questo mistero del braccialetto, suppone non so quali tradimenti ... Che gli devo dire, per amor di Dio? Questo matrimonio si doveva fare in agosto e invece s'è scoperto che non si potrà fare prima dell'inverno: anche questa circostanza aiuta a rendere Paolino inquieto e di malumore. Scrivetegli voi, per carità, o lasciatevi vedere una volta. Voi solo potrete dimostrargli che io non ho avuta nessuna colpa in tutta questa scena dolorosa, dissiperete tutti i suoi sospetti, distruggerete le calunnie della gente cattiva." "Io?" esclamò Demetrio come se parlasse a sé stesso. Appoggiato colle mani alla tavola, fissò uno sguardo gentile e carezzevole su quella povera donna, che aveva ancora una volta tanto bisogno di lui: e provò in fondo al cuore ancora una volta una vanitosa compiacenza, un soave orgoglio di sé. Per un bizzarro ritorno d'impressioni gli venne in mente la prima volta ch'egli s'era incontrato in Beatrice, in casa sua, nel salotto elegante, e che la povera donna, dall'alto del suo trono di cartapesta, aveva disprezzato i consigli d'un galantuomo: quante cose da quel giorno in poi! quante mortificazioni, quanta pazienza, quanta rassegnazione c'era voluto per non perdere i frutti di una buona intenzione! Chi aveva vinto? La gente che giudica all'ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri, cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a lui nella luce blanda d'un tramonto di estate, esultava ancora nella coscienza di un trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti, né ai fortunati. Beatrice non era salita per la seconda volta alla modesta soffitta per consolare le malinconie di un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e consigli a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria dunque? Ecco quello che passò rapidamente e senza ordine nel suo cuore, mentre Beatrice finiva di piangere. Il signor Paolino, nell'estasi della sua fortuna, alla vigilia di un ineffabile godimento, non aveva saputo resistere all'insidia del male. Una parola sinistra, una voce in aria, raccolta nell'anticamera d'un ufficio, era bastata come una goccia d'aceto a corrompere il latte della sua felicità; il sospetto, la diffidenza, l'ingiuria si mescolavano già ad un amore tutto fatto di bisogni e di ciechi desiderii, a un amore che non resiste alle prove dure e tiranniche della vita. Se un povero impiegatello destituito e traslocato, che aveva dovuto vendere il letto per mettere insieme i denari del viaggio, avesse in quel momento ritirata la mano dalla testa di quella donna: avesse — obbedendo a una ruvida istigazione dell'invidia e della passione — rifiutata una spiegazione a un uomo che non la meritava piú, che cosa sarebbe stato di Beatrice e de' suoi figliuoli? che cosa sarebbe stato di Paolino? Questa paurosa apprensione egli lesse bene negli occhi lagrimosi di Beatrice, quando si alzarono verso di lui quasi in atto di invocare misericordia. Se egli fosse stato un uomo cattivo ... ma che cattivo? se egli fosse stato soltanto una persona rispettabile come il suo superiore, o un galantuomo dei soliti sul genere di Paolino, avrebbe ben saputo trarre da questo gruppo di circostanze almeno l'interesse dei suoi sacrifici. È bene o male essere un po' diversi dagli altri? "Beatrice" disse, distaccandosi dalla tavola e avvicinandosi due passi. Si fermò davanti a lei in una attitudine tranquilla di padre indulgente e amoroso, e, lasciando sgorgare l'onda delle parole secondo l'ispirazione del cuore, soggiunse: "Io scriverò al signor Paolino, non solo per difendere la vostra innocenza e per risolvere tutti gli equivoci che possono essere nati, in mezzo a tante ciarle; ma gli dirò anche quanto si faccia torto e quanto divenga indegno di voi con delle diffidenze, che ingiuriano una donna onesta non meno delle insidie di chi la tenta coi piccoli regali." Beatrice, scossa dal suono vibrato con cui Demetrio pronunciò queste parole, alzò gli occhi e stette a sentire senza battere palpebra. Le fece subito piacere l'energia con cui suo cognato prometteva di difenderla. Era venuta apposta per avere in lui un valido avvocato difensore. Guai se Paolino si fosse intiepidito e avesse mandato a monte ogni cosa! che avrebbe dovuto fare co’ suoi tre figliuoli? e la vergogna, e le ciarle della gente, e la nuova miseria piú grande se non piú spaventosa della vecchia? Ecco cosa dicevano i suoi occhi, mentre Demetrio, fisso alla linea ancora luminosa del lontano tramonto, colle mani giunte, quasi appoggiate alla bocca, con una visibile tensione di tutti i nervi, seguitava: "Gli dirò che non vi merita, perché non ha avuto fede precisamente in ciò che voi avete di piú prezioso e di piú nobile, la vostra onestà. Questo sentimento, questa preziosa eredità, voi, anche povera, la lascerete in dote alla vostra Arabella" il nome della fanciulla fu come un gruppo che fermò un istante il discorso "e il signor Paolino non ci ha creduto. Anch'io, è vero, ho diffidato una volta, anch'io ho accolto leggermente le voci della malizia, ma erano diverse circostanze, e non vi amavo ... allora ... come dice di amarvi quest'uomo che vi manca di rispetto ... ." Beatrice aprí un poco la bocca a un fiato di sorpresa. Perché si corrucciava tanto suo cognato? Demetrio si accorse anche lui d'essersi lasciato trasportare un po' troppo. Si fermò, abbassò gli occhi verso di lei, stentando le parole, che si sprofondavano nella gola, parlando insomma attraverso al singhiozzo: "Gli scriverò," disse, "gli scriverò dimani da Genova ... Addio, state bene ... Aggiusterò tutto: addio!.. siate felice ... ." Beatrice, quasi sollevata da lui, s'alzò lentamente senza togliere gli occhi dal viso di suo cognato, che, dopo averla commossa in modo straordinario, si commoveva anche lui fino alle lagrime, e diceva parole strane, agitando la mano nervosa e smarrita davanti alla bocca, tremando in tutta la persona magra e rannicchiata come un uomo che cerca di fuggire da un tremendo disastro. Che aveva quel povero uomo? che fosse ancora ammalato? che gli rincrescesse di partire e di lasciare la sua gente? Furono tre o quattro questioni, che si presentarono insieme in quel momento all'intelletto non sublime della povera donna, che, abituata a vivere di sé, incapace di supporre mali lontani diversi dai suoi, e pur sentendosi cagione delle lagrime di Demetrio, stava lí in piedi, vittima anch'essa della sua meraviglia, lontana ancora molti passi dalla verità, incapace di andarle incontro. "Voi partite dimani? È proprio vero? È per causa mia che vi tocca di partire?" chiese con un naturale tremito di voce. "Non per causa vostra ... È il destino cosí. È forse meglio per me ... ." Rimasero un altro mezzo minuto l'uno in faccia all'altra senza poter parlare, egli combattendo una estrema e violenta battaglia colle sue lagrime, essa quasi stordita dal suo stesso non capire. Seguitava ad interrogare quel poverino cogli occhi grandi, incantati, senza un'idea chiara di quel che desiderasse sapere da lui, ma agitata da un senso misterioso di pietà e di paura. Demetrio con la faccia piú stravolta che rallegrata da un sorriso d'uomo malato, agitò ancora la mano nel vuoto, come se cercasse di ravvivare un discorso rimasto spezzato. "Che cosa avete, povero Demetrio?" A questa dimanda e piú che alle parole al suono intenerito della voce, come se tutta la vita gli rifluisse nel cuore, affascinato e tratto dalla sua stessa debolezza e da una vertigine soave, si abbandonò verso quella tenera compassione di donna, come un bambino impaurito, che corre a rifugiarsi nella gonna della madre. La stanza si riempí della luce ch'egli aveva negli occhi, in cui guizzavano le scintille del crepuscolo; la pregò ancora una volta, sigillando la bocca colle dita, di compatirlo, di andar via: la spinse anzi un poco verso la porta, allungando il braccio e la mano con cui teneva nervosamente stretta la piccola mano di lei, si attaccò, per non andare in terra, alla sponda della sedia, vi si rannicchiò, vi si rimpicciolí sopra, e gridando piú che pronunciando: "Andate via ... per carità ... " lasciò irrompere senza piú nessun freno quel torrente amaro di dolori, che lo rendevano cosí debole e vile. A uno scoppio cosí improvviso di lagrime, dalle quali usciva una confessione non meno impreveduta che imbarazzante, il volto di Beatrice si offuscò forse per la prima volta in vita sua di una nuvola di cupa tristezza. Sulle prime non osò credere; si sforzò anzi di non capire ciò che diventava sempre piú evidente, cioè che Demetrio l'amava. Si guardò intorno, come se cercasse di orizzontarsi in quel mondo di affezioni e di afflizioni nuove che il piangere di Demetrio andava suscitando vicino a lei. Si chinò un poco verso il meschino, provò a parlare, ma che cosa doveva dire? Avrebbe voluto che ciò non fosse, gliene rincresceva: che poteva fare lei? quando aveva dato un motivo a questo uomo di credere? All'urto di queste varie questioni, che balzavano e cozzavano nella sua testa, sentí anch'essa una gran voglia di piangere, come una fanciullina che, uscita troppo lontana da casa sua, si trova còlta dalla sera e comincia a temere di perdere la strada. Si sarebbe detto che la violenta necessità di non mostrarsi dura e cattiva coll'unico uomo che le aveva fatto tanto bene, spremesse quanto c'era di buono, di caritatevole, di delicato nel suo cuore. Provò un forte soffocamento di respiro, il petto le si gonfiò, il cuore cominciò a battere con immenso dolore, come se qualche cosa si rompesse in lei, come se in questo primo sforzo intelligente della sua vita, dalla bambola uscisse la donna. Certo qualche cosa di vivo e di caldo sgorgava da quel patimento. "Perdonatemi, Beatrice, sono malato, non so piú quello che mi dico e quello che mi faccio. Sono quattro mesi che soffro cosí, senza parlare mai con nessuno: e sarei partito cosí, senza piú vedervi, se voi non venivate quassú a cogliermi in un momento di malinconia." Demetrio parlava senza alzare la testa dalle mani. "Per amore dei vostri figliuoli, che ho amato come se fossero miei, non fate nessun conto delle mie parole, non dite niente, dimenticatevi anche voi ... Non ricordate se non quel po' di bene che ho voluto ai figli di Cesarino ... Andate via ... ." "Io non potrò mai dimenticare quello che avete fatto per me ... " provò a dire la donna, con una voce che risonò anche al suo orecchio in un tono piú caldo e diverso dal solito. "Avete detto bene: è il destino ... Abbiate pazienza, Demetrio." "Sí, sí, sí!" esclamò Demetrio, sollevando la testa e sporgendo sulla sedia le due mani giunte, come se volesse rinnovare una preghiera. "Sono uno sciocco ... lo so: addio, non vogliatemi male." E cercò di sorridere per togliere al discorso quanto vi poteva essere di penoso e d'imbarazzante per lei. "Abbiate pazienza ... " ripeté meccanicamente Beatrice, avviandosi verso l'uscio, tremando, stentando il passo, come se due forze contrarie si disputassero la sua pigra volontà. Sulla soglia si fermò, chinò la testa quasi contro lo stipite, soffrendo della sua ignoranza che non le suggeriva nulla da dire, nemmeno una parola di cortesia e di carità verso un uomo che aveva sacrificato tutto per lei, il suo pane, la sua pace, la sua libertà, il suo cuore, soffrendo in silenzio, senza chiedere mai nulla per sé. Si fece improvvisamente pallida ... Demetrio, accovacciato, piú che seduto sulla sedia, la contemplava coll'avidità con cui il morente segue l'ultima striscia di lume che tremola nella sua pupilla. Poi chinò un poco la testa. La credeva partita ... Beatrice, appoggiata colla mano all'uscio, si volse ancora una volta e con una voce ancora piú commossa esclamò: "Mi perdonate, Demetrio? vi ricorderete ancora dei miei figliuoli? volete che vi mandi Arabella? Il Signore compenserà le vostre buone intenzioni ... , fatevi coraggio: non datemi questo rimorso di sapere che, mentre io sono felice, voi soffrite tanto. Scrivete qualche volta e se possiamo fare qualche cosa per voi ... ." Di mano in mano che ella parlava, lasciando che le parole uscissero naturalmente, egli sentiva ritornare il calore della vita e il senso delle cose. Nella luce quasi estinta del crepuscolo, Demetrio vide avanzarsi di nuovo quella donna e sopraffarlo colla grandezza della di lei persona. Una mano si posava sulla sua testa, da cui scese un brivido a invadere il corpo. Sentí ancora un bisbiglio confuso di parole, e un'onda tiepida che lo travolgeva: e credette che fosse arrivato l'ultimo momento della vita. Quando si rivegliò, si trovò steso in terra ai piedi della sedia. Un raggio di luna, entrando dalla finestra aperta, disegnava sull'ammattonato i graticci delle gabbie vuote. Quando Beatrice venne via dalla casa di Demetrio era quasi buio, e, camminando tra la gente, si sentí come sola e perduta in una grande città. La scena straziante a cui aveva assistito, la miseria di quella stanza lassú, l'abbattimento fisico e morale del cognato, l'idea del castigo che, per cagion sua, se non proprio per colpa sua, cadeva addosso al povero disgraziato, la paura che Paolino tirasse da tutto ciò un pretesto per non mantenere la sua promessa e la lasciasse sulla strada, lei e i figliuoli, questi furono gli spaventi che l'accompagnarono a casa. Una volta arrivata e chiusa dentro, sentí anche lassú il doloroso silenzio d'una casa abbandonata che si sfascia. Della poca roba salvata dalle mani dei creditori, parte era andata alle Cascine, parte giaceva in disordine accatastata ai muri. Di intatto non rimanevano che la stanza da letto, dove avrebbe dormito forse per l'ultima volta in compagnia di Arabella, che, finiti gli esami, doveva seguire la mamma a Chiaravalle. La ragazza, che in questo matrimonio della mamma rappresentava una parte passiva di silenziosa protesta, andava cercando una scusa per rimanere a Milano presso i Grissini, o in collegio presso le monache, che d'estate conducono le allieve al mare. Ma il signor Paolino si lamentava già della mancanza della figliuola, e non era il momento di disgustarlo anche in una piccola cosa. Che brutta notte passò per l'ultima volta nel suo letto grande la vedova! Arabella, quantunque provasse un piccolo brivido nelle ossa, quando entrò a occupare il posto del suo povero papà, tuttavia, vinta dal sonno facile della sua età, verso le undici si addormentò. Ma la mamma contò tutte le ore e tutti i quarti senza poter raccogliere un'ombra di sonno. Troppe cose uscivano dal cuore, come il sangue cola da una fresca ferita. Ma piú ancora che il cuore, la testa andava mulinando e annaspando pensieri sopra pensieri, reminiscenze, casi sopra casi, immagini scomparse da un pezzo, risuscitando morti e vivi, avvicinando le cose piú secondarie, con tal precipizio, che piú di una volta si sollevò dal cuscino e si passò la mano sulla fronte. Quella testa, cosí poco abituata a riflettere, soffriva sotto la matassa delle cose che il destino le imponeva di dipanare. Ella lesse e rilesse, si può dire da capo, tutto il libro della sua vita. Si rivide fanciulla in collegio a Lodi, presso le Dame inglesi, non fra le prime, e nemmeno fra le ultime della sua classe; da Lodi tornò a Melegnano ancora a tempo per godere gli ultimi raggi della fortuna di suo padre; fu per alcuni anni una corte bandita. Prima che venissero i giorni tristi, eccola a Milano a braccio di Cesarino. Il suo noviziato di sposa fu pieno di care novità e di dolci sorprese. Cesarino, quantunque facile a irritarsi e di gusti difficili, non aveva mai risparmiato sacrifici, perché sua moglie facesse una buona figura nella società. Agli anni felici erano seguiti i mesi della espiazione. Ricordò il primo incontro con Demetrio, il piangere, il soffrire ch'ella aveva fatto sotto il suo bastone. In casa era la miseria e la fame; di fuori il fallimento di suo padre, l'insidia dei protettori, le trappole delle false amiche. Essa aveva vissuto piú in quei pochi mesi che in tutti gli anni prima. Ed ora, mentre stava per tirare il fiato e ricomporre la sua fortuna, ecco una nuova tribolazione. Quantunque Paolino parlasse soltanto del braccialetto e del cavaliere, era evidente che il contegno scontroso e freddo del cugino aveva fatto nascere in lui il sospetto che anche Demetrio avesse del fuoco al cuore. Forse tra lor due s'erano già dette delle parole vive, e nulla era di piú naturale che Paolino s'ingelosisse e mandasse a monte il matrimonio. Ella dunque era chiamata a scegliere tra questi due uomini, ossia non era piú nemmeno il caso di scegliere. Il suo destino non poteva essere che uno solo, quello di salvare un pane ai suoi figliuoli. Era dover suo di dimostrare a Paolino che mai aveva pensato a Demetrio, che nessuno gli era stato al mondo piú antipatico e piú odioso ... In questa lotta di due uomini, per non dire di due ombre, si mescolava nei brevi sopori della fantasia un'altra ombra, quella di Cesarino, che pareva quasi contento che tutto andasse a monte senza che Beatrice, immersa nel superficiale dormiveglia delle ore mattutine, potesse afferrarne il motivo. Sentí Arabella che parlava in sogno. Suonavano in quella tre ore a San Lorenzo. La bambina, che si era addormentata sopra una paurosa sensazione, e che continuava anch'essa ne' suoi sogni a leggere il piccolo libro della sua vita, a un certo punto balzò a sedere sul letto, esterrefatta, e gridò: "No, papà, no, papà ... Mandate via quel cane ... Mandate via quel cane ... ." "Arabella, che hai? che cosa dici?" dimandò la mamma, balzando anch'essa a sedere sul letto, stringendo la ragazza nelle braccia. Questa si lasciò prendere e cercò un rifugio nel seno della mamma. I cuori di quelle due donne battevano e balzavano insieme sotto i colpi della paura. Rimasero abbracciate fino alla mattina, tremando insieme e sospirando lo spuntar del dí. Beatrice pensò che gli spaventi d’Arabella derivassero da qualche bisogno che la pover'anima del suo Cesarino avesse nel mondo di là, e invitò la figliuola a togliersi subito dalle lenzuola per andare insieme fino al cimitero a pregare e a salutare ancora una volta il papà prima di lasciar Milano. Demetrio aveva fatto porre un piccolo sasso sulla fossa, approfittando di quello stesso che era servito per papà Vincenzo e che, passato il termine decennale, egli avrebbe dovuto rimettere pagando di nuovo il posto. Nel bisogno di fare qualche economia, sperò che il buon vecchio non se ne avrebbe avuto a male, e fece collocare la pietra con le altre parole sulla fossa del suo figliuolo prediletto, compiendo cosí quell'opera di misericordia e di perdono, che era cominciata per lui quasi trent'anni prima. Le due donne stavano ancora vestendosi, quando una forte scampanellata le fece trasalire. Chi poteva essere a quell'ora? Beatrice si fece il segno della croce e andò a dimandare all'uscio. "Sono io, il Berretta ... " disse la nota voce del portinaio. "Che cosa c'è?" dimandò aprendo la porta. "M'avete fatto un tal spavento!" "C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice." "Un signore? non vi ha detto il suo nome?" "No, o forse non ho capito." "Non lo conoscete?" "Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia…" "Ditegli che veniamo subito abbasso ... " soggiunse Beatrice con un tremito nella voce. S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia. Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela. Sotto il portico, a’ piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui. Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette. I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta. Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta. Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse: "Leggi tu." Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane: "Che bisogno?" "No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri ... ." "Che cosa ho detto?" "Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque." "Se è per capriccio tuo ... ." Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora. "È la signora Pianelli che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera. "Oh!" fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa vuole la signora delle Cascine?" "T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina." "Che onore!" declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra. "Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento ... ." "Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?" "Non ho questo bene." "Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo." Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò: "Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano." Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti. Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet , nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone. "Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo." Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo. "Che ne dici, dunque? debbo accettare?" "Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te." "Non ne ho nessuna voglia" soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro. "Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira. "Non ho nemmeno un vestito adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi. "Per questo siamo in un Milano ... ." In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa. Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante. Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri. Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno. Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei. Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

Giacomo l'idealista

663177
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

. - Sí, sí, ma intanto - brontolò il conte, abbassando la sua testa precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa, in cui entrava, non so come, il principe di Galles - intanto noi roviniamo la nostra agricoltura. - Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete un partito vecchio, senza ideali. La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria dell'esercito. - Noi non ti lasceremo partire, Giacinto - soggiunse la contessa, che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza trasparente; - noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i nostri figliuoli. - In quanto a' tuoi figliuoli - brontolò il conte, ridendo nel piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro pollo inglese - non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli. Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di mammà, che rimbeccò con spirito: - La colpa è della tua politica moderata. Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e, balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse: - Te la sei meritata questa volta, Vico. - Tu, taci - ribatté il conte, minacciando il giovane col dito - ne sappiamo di belle della tua politica liberale. Giacinto arrossí, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel salottino. - Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano. Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino. Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia giudizio. Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e, raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole. Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrí una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave: - Ebbene? devo fare una predica? - Sono cosí pentito, cara contessa, - rispose il giovine, voltando la sigaretta fra le dita - che potrei già scrivere un quaresimale. - La povera mammà è desolata. - È desolata, ma non sa trovare un rimedio. - Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno scandalo? - Ha parlato con questo signor cugino, sí o no? - Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna. Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di cosí gravi circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro. Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle cameriere. Ma come è potuto accadere? - Come, come, - balbettò con una spallata chinandosi ad accendere la sigaretta alla fiamma del camino. - È cosí facile immaginare, Dio buono . - Diremo che è stata anche questa una passione africana, - disse col suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle scarpette gli alari dorati. - È almeno bella questa Lucia del Ronchetto? - Non mi tormenti, via! - replicò egli, non senza una certa scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la sigaretta nel fuoco. - Povero Giacinto, mi piace di vederti cosí contrito e umiliato. Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, cosí un sasso, una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi quindi se Víco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e, se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza scapito una sfida da lui e portare cosí la controversia sul terreno cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello limiterebbe la questione personale e obbligherebbe piú tardi le due parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche, non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua ragazzata? Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna, passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola, del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava come oppresso sotto il peso della sua responsabilità. - Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto papà. - Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui, l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato. - O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! - riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a soggiungere: - Io non dico che tu non possa trovare qualche altro rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate, mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle dai giornali, quando non c'è piú tempo di far nulla. Nella sua alta posizione egli è piú di noi in grado di misurare il pericolo e anche di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa piangendo il suo peccato. - Andrò a farmi ammazzare in Africa - borbottò tra il rustico e lo spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la chiave, non si potesse sfondare l'uscio? - Per Dio! - disse ingrossando la voce per far comparire piú rauca la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise cosí malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe , che la rovesciò e le ruppe il naso. - Che cosa si vuole, per Dio? che mi tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia cameriera? - Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il diavolo non sia poi cosí brutto come ce lo immaginiamo. Non andar poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo. Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una chicchera e l'offrí al giovine, stando in piedi sotto la grande specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con nitido splendore. Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono col ridere come due ragazzi.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

Malombra

670408
Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

La fiamma aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languor i inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all'orecchio di Marina e sussurrarle: "Che hai?" Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosa, si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi né voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stesso, forse, era quasi fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno a sé un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti alla graziosa persona col truce proposito d'infiltrarlesi nel sangue, di avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle la vita e l'anima per mettersi al loro posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall'uso del mondo non l'avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile velo di scetticismo che copriva sempre il pensiero in tempo di calma come una crittogama di acque stagnanti, si era squarciato e disperso nell'incomprensibile turbamento di spirito che l'avev a assalita tornando al Palazzo. La sua prima impressione nell'afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento. L'avea vinta subito con un atto di volontà, con il proposito di esaminar freddamente, d'intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa di quanto aveva letto, udì una imperiosa voce interiore che le disse: "No, non è vero." E subito dopo diffidò di questa voce stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse passato il suo pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava farlo tornare indietro, fargli rifare, passo passo, la via. Quella donna non era sana di mente. Lo diceva la tradizione, lo confessava lei stessa, lo significava la concitazione, il disordine febbrile delle sue idee, quand'anche il concetto sostanziale dello scritto non bastasse per sé a dimostrarlo. Questo concetto di una seconda esistenza terrena aveva esso almeno qualche cosa di originale che potesse far sospettare un'ispirazione superiore, far prendere sul serio le visioni di Cecilia? No, era una ipotesi antica come il mondo, notissima, che l'infelice poteva ass ai facilmente avere udita o letta, che aveva trovato, al dì del dolore, nella propria memoria. Allora essa l'aveva afferrata, ne aveva tratto il suo ristoro, ne aveva vissuto: l'idea era diventata, a questo modo, sangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente ciò ch'ella chiedeva loro con la più grande energia di volontà e di immaginazione. Avean risposto con fuoco, sì. Con chiarezza? No. Che significavano i capelli, il guanto, lo specchio? perché far paragonare la mano, i ca pelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o di risorgere? Lo scritto era dunque un frutto del delirio. Solo qualche ricordo della vita anteriore che si destasse ora nell'animo di lei, Marina, potrebbe dimostrare l'opposto. Apriti, anima! Ella interrogò se stessa sui ricordi accennati nel manoscritto come chi si curva sopra un pozzo buio e profondo e chiama e sta in ascolto se qualche voce, se qualche eco risponda. Camogli? Nessuna eco, nessuna memoria. Genova? Silenzio. Suor Pellegrina Concetta, Renato? Silenzio. Palazzo Doria, palazzo Brignole, Busalla, Oleggio? Silenzio, sempre silenzio. Così talvolta, ad alta notte, in qualche sala d'aspetto ingombra di gente e male illuminata da un fumoso lume a petrolio, si grida una sequela di nomi di paesi e di città lontane; nessuno si move; nessuno risponde. Aspettano un altro treno. Ma chi sa se vi hanno viaggiatori per quella linea che non hanno udito perché dormono nei lo ro mantelli, laggiù all'altro capo della sala, seduti dietro la gente ritta? "È una pazzia" si disse Marina, "e io che mi stillo il cervello a questo modo, sono ridicola! Ridicola!" ripeté ad alta voce e balzò in piedi. La parola uscita dalle labbra le parve più aspra della parola stessa concepita nel pensiero. Più aspra, non solo; anche eccessiva e falsa. Ne rimase ferita come se non l'avesse pronunciata lei. In pari tempo le entrò prima nel cuore, poi per tutte le membra una agitazione sorda, un'alternativa di stanchezza e d'impaziente ardore, una cupa resistenza alla volontà. Meraviglioso il caso che l'aveva portata, nel fiore della gioventù e della bellezza, da Parigi, a quella stanza disabitata da settant'anni! Meraviglioso il caso che aveva appiccato l'anello all'uncino del segreto, sì che ella potesse leggere: "Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice!" Delirio! Ma dove era una traccia di vaniloquio in quello scritto? Concitazione sì, disordine sì, ma una prigionia di cinque anni, un concetto così straordinario nella mente! Concetto antico! Ma non sarebbe questa una ragione di credere? Marina tremò, le parve sentirsi chiamare, pregare da tante anime ignote che avevano avuta questa fede, le parve seguire un momento il loro slancio. E il sangue le correva sempre più tempestoso, la intelligenza, la volontà venivano mancando. Non ricordava Camogli né Genova, Renato né Pellegrina Concetta, non un giorno della esistenza precedente, non un'ora; ma quanti istanti! Quante volte non le era balenata la ricordanza di istanti perduti fra le tenebre d'un passato ignoto! Quella sera stessa, le campane! Le corse un ghiaccio pel sangue, un'oppressione indicibile la strinse alla gola. Ebbe allora lo sgomento di affogare, l'istinto di salvarsi. Abbracciò quest'idea che non poteva esser lei Cecilia, perché c'era del sangue d'Ormengo nelle sue v ene; ma il cuore implacabile disse: "No, che importa il sangue? Tu odii, hai sempre odiato tuo zio, la vendetta è più squisita così; Dio, perché tu la compia meglio, ti ha posto dentro, irriconoscibile, alla famiglia del nemico." Ma ella adesso aveva paura, voleva sottrarsi alla lotta; diè di piglio al lume e passò nella camera da letto. Le finestre erano aperte; un soffio di vento le spense la candela. Volle riaccenderla, ma non sapeva che si facesse, e non vi riuscì. Si gittò spossata alla finestra per aver ristoro. Colà le tornò subito a mente come, la sera del suo arrivo al Palazzo, guardando da quella finestra, nella notte, avesse creduto riconoscere un antico sogno, una immagine sinistra, apparsale altre volte nelle ore gaie d ella sua vita mondana. Fu l'ultimo colpo; una commozione senza nome le oscurò il pensiero e la vista, credette udire mille sussurri levarsi intorno a lei, mescolarsi per l'aria, confondersi in una voce sola; si portò ambe le mani alla fronte e cadde a terra. Nell'oscuro lume delle stelle diffuso sul pavimento davanti alla finestra giaceva la bianca persona come sciolta dal sonno. Chi avrebbe detto che vi fosse là una donna svenuta? Nel palazzo tutti dormivano; i grilli e gli usignoli cantavano allegramente; i soffi brevi e vivaci della chiara notte di aprile entravano curiosi per le finestre aperte, frugavano, bisbigliavano dappertutto; e da una barca lontana indugiatasi più delle altre sul lago veniva il canto spensierato: E cossa l'è sta Merica? L'è un mazzolin di fiori Cattato alla mattina Par darlo alla Mariettina Che siamo di bandonar. Solo lo zampillo del cortile raccontava in aria di mistero agli arum una storia lunga lunga ch'era ascoltata con religioso silenzio. In tutto il cortile non si moveva fronda. Era forse la storia della donna svenuta là presso, ma non riusciva possibile a orecchio umano intenderne sillaba, né sapere, perciò, se la donna vi fosse chiamata Marina di Malombra o Cecilia Varrega. Conseguenza di quella notte fu per Marina una violenta febbre cerebrale di cui nessuno poté indovinare la causa. È quasi impossibile che l'inferma non si sia fatta sfuggire durante il delirio qualche allusione al fatto straordinario onde avea riportato impressioni sì gravi; ma quelle allusioni dovettero essere assai rade e vaghe, perché non fecero sospettare di nulla. La volontà gagliarda di Marina, benché sconnessa e rotta dal male, lavorava ancora per un impulso ricevuto prima. Essa voleva tacere. La pres enza del conte Cesare era il più terribile cimento per lei. Quando vedeva il conte, e anche solo all'udirne i passi pel corridoio vicino, l'ammalata diventava furibonda, urlava, smaniava senza articolar parola; per modo che, dopo i primi giorni di malattia, le visite dello zio cessarono. Questa ripugnanza fu molto commentata dai domestici e dalle comari pettegole di R... Si fabbricarono parecchie novelle assurde. La interpretazione più creduta fu che il conte voleva sposare Marina, contro la inclinazione di lei, e che la ragazza n'era impazzita. Il chiarissimo professore B..., chiamato da Milano in aiuto del povero pitòr che non sapeva più in qual mondo si fosse, credette di dover tastare il conte su questo delicato argomento dell'antipatia violenta che l'ammalata gli dimostrava, e lo fece con moltissimo garbo, mettendo avanti l'interesse medico della questione. La risposta del conte non fu altrettanto diplomatica. "Mia nipote" diss'egli "mi deve forse qualche beneficio; non però tanto grande da odiarmi per questo. Ella è una giovane molto intelligente e io sono un vecchio quasi rimbambito; ho motivo di credere che siamo, in molte cose, agli antipodi; malgrado tutto questo non mi è mai passato pel capo di sposarla, come probabilmente vi avrà detto il nostro medico, il quale beve come una spugna tutto quello ch'è stupido; e non lo fa apposta. Tornando a mia nipote, le nostre prime impressioni reciproche furono disgust ose più del necessario; però ci abbiamo versato su molto zucchero, e, per parte mia, non sentivo più quel sapore. Del resto io credo, caro professore, che quando uno ha messo il suo cervello a rovescio, se dice nero, bisogna intender bianco." La scienza del prof. B..., aiutata dall'umile ignoranza del suo collega, vinse il male. Dopo un mese e mezzo Marina comparve in loggia. Era pallida, aveva gli occhi assai più grandi del solito e velati da un languore attonito. Si sarebbe detto che il vento dovesse curvarla come un sottile getto di acqua. Il vigore e la bellezza tornarono rapidamente, ma un osservatore attento avrebbe notato che l'espressione di quella fisonomia era mutata. Tutte le linee apparivano più decise; l'occhio aveva tratto tratto d egli stupori insoliti, oppure un fuoco triste che non gli si era mai veduto. Quel velo di dissimulazione, in cui Marina si era venuta avvolgendo, scomparve. La memoria delle sue piccole ipocrisie d'una volta la irritava. La sua eleganza, prima correttissima per non offendere l'austero zio e per accordarsi con l'ambiente, pigliò un accento strano, provocatore. Candidi stormi di biglietti stemmati, cifrati e profumati si incrocicchiarono daccapo nel regio antro postale di R... Uno stillicidio di drammi e di r omanzi francesi si avviò dalla libreria Dumolard al Palazzo. Il piano gittò a tutte le ore, fosse o no il conte in biblioteca, un fuoco vivo di Bellini, di Verdi e di Meyerbeer e Mozart. Meyerbeer e Mozart erano i soli due maestri cui Marina perdonava d'esser tedeschi; al primo in grazia della sua cittadinanza francese, al secondo in grazia del solo Don Giovanni. Ricominciarono le corse sfrenate pel lago e pei monti, malgrado venti e piogge, di giorno e di notte; corse nelle quali il Rico faceva con entusiasmo la parte di guida, di cavaliere devoto e di cane fedele. Inoltre, con grande stupore degli abitanti di R..., Marina si pose a frequentare la chiesa, dove in passato non aveva mai posto piede. Per vero dire questo suo risveglio di pietà era assai bizzarro, perché alla messa festiva non la si vedeva mai comparire. Andava in chiesa quando non c'era nessuno, talvo lta di mattina, talvolta di sera. Un giorno che la trovò chiusa andò risolutamente dal curato a cercar la chiave. La serva del curato ebbe a rimaner di stucco aprendo l'uscio alla "Signora del Palazzo", e più ancora udendosene chiedere la chiave della chiesa. Il suo primo istinto fu di chiuderle la porta in faccia, non che di rifiutare la chiave; ma le labbra osarono solo dire che ne avrebbe riferito al padrone, al quale corse subito raccomandandogli di trovare un pretesto per non dar la chiave a quella str ega. Il padrone la rimproverò aspramente e andò egli stesso ad aprir la chiesa a Marina, che aveva già conosciuta in qualcuna delle sue rade visite al Palazzo. Non è difficile immaginare come procedessero, in tale stato di cose, le relazioni fra zio e nipote. Essi potevano paragonarsi a due punte metalliche fortemente elettrizzate, che non s'accostano mai l'una all'altra senza scambiare scintille che vorrebbero essere folgori. A viaggiare Marina non ci pensava più. Durante la sua convalescenza il medico gliene aveva parlato, facendole presentire, per incarico avutone, l'assenso del conte. Ella rispose che non intendeva affatto muoversi dal Palazzo, che l'aria le f aceva benissimo e che il signor dottore non ne capiva niente. Ella e il conte non si vedevano, si può dire, che a pranzo, ma si combattevano sempre. Persino le suppellettili del palazzo erano penetrate di quella sorda inimicizia e parevano pigliar parte quando per l'uno quando per l'altra. Certe finestre, certi usci si pronunciavano due o tre volte al giorno. Marina li faceva aprire, il conte li faceva chiudere. Un povero vecchio seggiolone del corridoio dei paesaggi vi perdette il suo decoro e la sua quiete. Quasi ogni giorno un decreto lo traslocava in faccia a un g rande Canaletto, e un altro decreto lo ricacciava al posto di prima. Fanny, nell'esercizio delle sue funzioni, portava sempre alto il nome e i voleri della sua "signora"; gli altri domestici accampavano quelli del padrone; la buona Giovanna cercava di metter pace, ma non riusciva spesso che a guadagnarsi qualche impertinenza di Fanny, e se ne struggeva in silenzio. Il conte abborriva i profumi, per cui Marina ne usava un po' più che non permetta il buon gusto. Libri francesi dimenticati qua e là per la casa ridevano in viso al vecchio gallofobo che ne fremeva sino al vertice de' capelli. I fiori più belli del giardino sparivano appena sbocciati, malgrado il tempestare del conte contro il poco vigile giardiniere e contro Fanny a cui gli piaceva attribuire quei guasti. Con lei, naturalmente, non si imponeva ritegni; per poco un giorno non la gittò nel lago. Fu una fortuna per Fanny, perché il conte, pentito di quell'eccesso, non mandò ad effetto il suo proposito di farla inesorabilmente cacciare. Però i rabbuff i spesseggiavano sempre e violenti, molte volte più del ragionevole, perché miravano a passar lei da banda a banda e cogliere Marina. A fronte di questa il conte, di solito, si frenava, fosse per la memoria di sua sorella che aveva molto amata, o per un sentimento cavalleresco, o per timore di uscire da' giusti limiti. Il nuovo contegno della giovane aveva provocato sulle prime recisi rimproveri fatti da lui con un tono tra il grave e l'acerbo, ribattuti da lei con freddezza nervosa, piena di recondita emozione. Il conte si ritrasse tosto da quella via pericolosa e si appigliò al sistema del silenzio accigliato; silenzio carico di elettri cità, interrotto soltanto, come si è già detto, da fugaci scintille, da lampi di sdegno per parte dell'altra. Qualche volta scoppiavano dei mezzi temporali che lasciavano il tempo scuro di prima. Il povero Steinegge non godeva punto fra questi due litiganti: Marina trovava modo di offenderlo a ogni momento. "Signor conte" diss'egli un giorno al conte Cesare "so che ho la disgrazia di dispiacere molto alla signora marchesina. È forse la mia vecchia fisonomia che non posso cambiare. Se la mia presenza può aum entare i vostri piccoli differenti di famiglia, ditemelo! Io vado." Il conte gli rispose che, per ora, in casa sua ci comandava lui; che se il principe di Metternich offrisse al signor Steinegge il posto di direttore delle sue cantine di Johannisberg, si permetterebbe al detto Steinegge di partire, altrimenti, no. Circa un anno dopo la scoperta del segreto, Marina ebbe dal libraio Dumolard, insieme a quattro o cinque novità francesi, un libro italiano. Era un racconto stampato dalla tipografia V... - Portava per titolo: Un sogno, racconto originale italiano di Lorenzo. - Possiamo aggiungere che la copia spedita a Marina e trattenuta da lei per noncuranza, era la trentesima spacciata in due mesi dalla pubblicazione. Marina non aveva punto stima de' libri italiani e pochissima voglia di legger questo. Se lo lesse fu per una storditaggine di Fanny che glielo portò una mattina a bordo di Saetta invece dell'Homme de neige. Giunta nella sua rada prediletta della Malombra, si accorse dell'errore, e dopo la prima dispettosa sorpresa, si rassegnò a tentar di leggere. Il soggetto del libro è questo: Un giovanotto spossato ed esaltato da soverchie fatiche cerebrali, ha un sogno di straordinaria vivezza nel quale egli crede vedere rappresentato sotto forme allegoriche il proprio avvenire. I fatti, interpretati da lui secondo questa convinzione, vengono confermando la prima parte del sogno. Passano quindici anni. Tutta la prima parte del sogno, serena e lieta, si è avverata. Ora è la seconda parte, di cui si aspetta il compimento. Questa seconda parte predice un amore impet uoso, violento, un delirio dello spirito e dei sensi onde il protagonista dev'essere tratto a catastrofi spaventose. A trentasei anni, costui, padre di famiglia, uomo grave che vive ritirato dal mondo per la segreta paura del suo sogno, si trova con grande angoscia preso d'amore per una donna cui fu avvicinato da necessità ineluttabili. Questa donna è per altezza d'animo un ideale più facile a trovarsi oggidì nella vita che nei romanzi. Essa divide la passione di lui malgrado sforzi eroici di volontà. Lotta no ambedue per dividersi, per salvarsi; ma il cielo, la terra e gli uomini cospirano per farli cadere. Sull'orlo dell'abisso in cui troveranno la sventura, il disonore e fors'anco la morte, sfugge all'uomo il segreto della fatalità misteriosa che lo perseguita e cui non vale a resistere. In quel momento supremo la donna magnanima si sdegna di cedere al destino e non al proprio cuore, non alla felicità dell'amante. Con lo sdegno la sua coscienza religiosa si rialza. Gli amanti si dividono innocenti. L'uomo a poco a poco dimentica, vive tranquillo e felice. La donna muore. Il racconto è scritto con pochissima esperienza della società e delle cose, ma con qualche acume d'osservazione psicologica. Le descrizioni della natura sono tollerabili, l'elemento fantastico non vi è adoperato troppo male. Insomma, se non vi fosse tanto calore virtuoso, se non vi mancassero affatto gli studi fotografici di appartamenti e di vesti, non che le prove che l'autore conosce un poco anche il nudo, se lo stile fosse più facile e borghese; sovra tutto se vi si dicesse bono e bona invece di quel bu ono e buona che bastano a rivelare un povero ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto affatto indegno di comparire tra gli scrittori odierni, una testa da parrucca; se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l'autore si fosse date le mani attorno, Un sogno avrebbe probabilmente trovato miglior fortuna. A Marina parve andare a sangue, perché quando l'aperse l'ombra violacea della montagna copriva gran tratto di lago oltre la rada; quando lo posò, il sole brillava per le vette dei boschi pendenti sopra il suo capo e l'ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda in un bel verde smeraldo. Tornò al Palazzo con la mente piena di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l'autore, parlargli. Credeva egli in quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo? Se il destino era stato vinto, poteva dirsi destino? Se non poteva dirsi destino, v'hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, rappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo da colpire fortemente la nostra fantasia? Nessuno rispondeva a tanta furia di domande e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi né come avrebbe diretta la lettera, buttò giù d'un fiato otto fitte paginette di una calligrafia inglese alquanto irregolare, battezzata già da miss Sarah per angloitaliana. Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche alle serie, e colorire la grazia con l'alterezza. Sottoscrisse "Ce cilia" e, dopo un istante di incertezza, aggiunse il seguente poscritto: Vorrei pur sapere se credete possibile che un'anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l'etereo autore di Un sogno non usa di colombe né di rondinelle postali, come si potrebbe sospettare, mandi semplicemente la sua risposta al dottor R.... ferma in posta. Milano. Poi Marina scrisse quest'altro biglietto alla signora Giulia De Bella: Aiutami a fare una piccola follìa ben timida e ben savia. Sono tutta meravigliata di aver letto, non so più bene se per amore o per forza, un romanzo italiano. Arriccia il tuo nasino ma ascolta. Questo romanzo è un buon signore timido con i guanti troppo scuri e la cravatta troppo chiara ch'entra impacciato nel tuo salon, saluta mezza dozzina di persone prima di te, oscilla un quarto d'ora tra una poltrona, una seggiola e uno sgabello, e si decide finalmente pel posto più lontano dalle signore. Ma poi, quan do parla, non somiglia a nessun altro del tuo circolo. Ha delle idee, del fuoco, è un uomo. Ne hai, cara, degli uomini nel tuo circolo? Se ne hai, pardon. Non importa punto conoscere il nome né la persona dell'autore che ci si dice semplicemente Lorenzo. Potrebb'essere borghese, Matteo e biondo. M'è venuto invece il capriccio di una corrispondenza letteraria e ne posso avere tanto pochi dei capricci, che li soddisfo tutti subito. Y. che scrive a X.! Deve essere delizioso, specialmente se X. risponderà a Y. Potrebbe accadere che X. fosse una consonante di spirito; questa divertirebbe assai la povera Y. che si annoia come una regina. Ora X. non ha nemmanco a sa pere di dove gli piova la mia lettera; vedi se non è una follìa savia! Tu dunque, amica mia, farai gettare alla posta l'accluso dispaccio diretto all'autore di Un sogno presso la tipografia V... Ma, come pensi bene, non basta. Ti compiaceresti di far cercare fra qualche giorno alla posta se vi fossero lettere per il dottor R... e di spedirmele se ve ne sono? Gli ho dato, contando sopra te, questo indirizzo, il meno compromettente possibile. La cosa è tanto innocente che potresti desiderar di chiedere il per messo di tuo marito per farla. In ogni caso taci il mio nome. Vi sarà poi qualche cosa per te. Ti manderò un pezzo di lago pel tuo giardino di via Bigli, per le manchettes della S... e per le mani illustri del professor G... I miei omaggi à ton très-haut seigneur et maître, se lo vedi. Addio, cara. Sto rileggendo un libro vecchio, l'Amour di Stendhal. È scritto au bistouri. Marina La signora De Bella, che aveva fatto per curiosità qualche follìa meno savia di questa, rispose tra scherzosa e corrucciata, minacciò l'amica con la punta della sua morale di gomma e conchiuse accettando; con la riserva sottintesa di leggere le lettere prima di spedirle. Ell'era, sovra tutto, una donna di coscienza. La risposta dell'autore di Un sogno non si fece attendere lungamente. Egli vi sosteneva con maggior cuore che vigore logico le opinioni espresse nel suo romanzo intorno alla fatalità e alla potenza invincibile dello spirito umano che vuole. Dimostrava come, negli avvenimenti a cui deve necessariamente concorrere la volontà dell'uomo con atti che toccano la sua coscienza morale, questa volontà sia un elemento principale che ne determina la forma; un'incognita variabile che introdotta nei calcoli fondati su l eggi naturali fisse ne rende sempre incerto il risultato. Negava poscia l'azione prestabilita e necessaria della volontà che assente al male. Posto in sodo come basti alla dimostrazione della libertà umana che l'uomo possa sempre decidersi per il bene, sosteneva che lo può. Diceva che può sempre attingere l'impulso determinante al bene, dal fondo dell'anima sua stessa, da un punto di misterioso contatto con Dio ond'entra in lei una forza non calcolabile. È un gran torto, soggiungeva, della psicologia modern a, di non avere sufficientemente osservato i fatti interiori che vengono in appoggio di tale contatto. Colà sta la grande guarentigia della libertà umana. Quest'azione divina ch'entra dunque innegabilmente nell'origine delle azioni umane, non si oppone ella per sua natura al male morale, e non esclude, a priori, che sia mai necessario? Il mistico scrittore cercava poi dimostrare che neppure alla prescienza divina potrebbe appoggiarsi una teoria fatalista, perché prescienza e divinità sono due termini contraddittori, inconciliabili, come tempo e infinito, e nulla se ne può dedurre. Tutti questi argomenti erano posti innanzi con una ingenua foga che poteva salvare l'autore di Un sogno della taccia di pedante, ma generava il sospetto che egli volesse convincere, oltre alla sua corrispondente, se stesso. Spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, proseguiva, ve ne hanno certo, e possono anche illudere con le apparenze della fatalità. Tutto fa credere che, come noi esercitiamo un potere sopra gli esseri che ci sono inferiori, così siamo soggetti, entro certi limiti, all'azione di altri esseri che ci superano in potenza. Siamo forse soliti attribuire al caso quello che è opera loro. I sogni profetici, i presentimenti, le subitanee inspirazioni artistiche, le illuminazioni fugaci della nostra mente, i ciechi impulsi al bene e al male, certe inesplicabili allegrezze e malinconie, certi movimenti involontari della nostra memoria, sono probabilmente opere di spiriti superiori, parte buoni, parte malvagi. Tali considerazioni, scriveva Lorenzo, cadono tutte se non si ammette Dio. Esprimeva quindi la speranza che Cecilia non fosse atea, nel qual caso, avrebbe, a malincuore, troncato ogni corrispondenza con lei. Veniva in seguito alla pluralità delle esistenze terrestri. Lorenzo credeva alla pluralità delle esistenze. Lo stato dello spirito nel corpo umano è indubbiamente, diceva, uno stato di repressione, uno stato di pena, la quale non può riferirsi che a colpe commesse prima della incarnazione terrestre. I dolori degli innocenti e, in genere, la distribuzione ineguale del dolore e del piacere tra gli uomini, senza riguardo ai meriti e ai demeriti della vita presente; la sorte delle anime che escono pure dalla vita dopo un'ora della loro venuta ottenendo quel premio che a d altri costa lunghi anni di lotte durissime, non possono meglio spiegarsi che con l'attribuire alla nostra esistenza attuale un carattere di espiazione insieme a quello di preparazione. Ammesso il principio della pluralità delle esistenze, l'autore di Un sogno diceva che la ragione umana non può andare più avanti, e che il problema se le nostre vite anteriori sieno state terrestri o siderali va lasciato alla fantasia. La lunghissima lettera, un volume, finiva col voto molto poeticamente espresso che la corrispondenza misteriosa avrebbe continuato. La signora De Bella venne presto a capo, con le sue dita industriose, della busta, ma non resse a tanta filosofia e dalla prima pagina saltò alla chiusa: poi scrisse sulla sopraccarta: "Sono sicura ch'è perfettamente morale; è così pesante!" Marina invece divorò lo scritto. Sorrise appena dell'ingenuità di quell'uomo che rispondeva con tanta foga a un'incognita. Palpitò leggendo il nome di Cecilia a capo della lettera e nella chiusa. Naturalissimo che ci fosse; ma pure n'ebbe una impressione profonda. Passato qualche tempo, riscrisse dissimulando affatto le sue vere impressioni. Non parlava più in questa seconda lettera di fatalità né di esistenze precedenti; come per trarre scintille di spirito dal suo corrispondente, se ne aveva, lo veniva pungendo in mille modi. Scherzava sulla pedanteria della sua risposta, sulla sua pietà, sulla goffaggine del suo pseudonimo: gli chiedeva con un tono di curiosità impertinente se vi fosse qualche cosa di vero nel suo racconto, se avesse pubblicati altri lavori, perch é si tenesse celato. La lettera fu ricevuta da Corrado Silla un quindici giorni prima della sua partenza per il Palazzo. Noi sappiamo come rispose.

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

"Senti, senti", rispose, e si mise a recitare una ballata di Carrer, Al bosco nacque, povera bambina, Gerolimina, rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempre da capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbassando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino a che Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entrò con essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire in pace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essere un tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si rimise subito. Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pacificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver coscienza di un altro dovere che oramai gl'incombeva di fronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasi sacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, contro lei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e soffrire; e poi ... e poi ... se Iddio santo vorrà che il cannone tuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla austriaca che la faccia piangere e pregare anche lei! Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere della sera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitarle a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanza tranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto a venire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosa direbbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano, disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette alla scrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia. Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendeva le scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo e non espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato. "Sono le quattro", diss'ella. "Se vuoi partire manca mezz'ora." Occorreva partire alle quattro e mezzo per essere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar il primo battello che veniva da Colico. Invece di andar a Como e quindi a Milano come s'era annunciato ufficialmente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S. Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimento e il Generoso. Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliare Maria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò a sé. "Parto", le disse piano. "Ieri sera sono stato cattivo, con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diversamente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio temperamento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore." "Per parte mia non ne sento affatto", rispose Luisa con dolcezza, come uno che facilmente è benigno perché si sente superiore. Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fu preso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio che non aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, si inginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro una manina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salotto vi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò se veniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto, la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca, l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con un piede sullo scalino e un piede sulla prua del battello. La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diede il buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odorata la burrasca. Due minuti ancora e il pesante battello spinto da Ismaele con la remata lenta e tranquilla "di viaggio" passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al finestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellata senza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro, passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio! Passarono il Camposanto, la "Zocca de Mainé", la stradicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franco non guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte, nel casottino del battello ed egli non poteva vedere sua moglie, che non parlava. "Vieni a Porlezza per le carte del notaio", diss'egli, "o proprio per accompagnar me?" "Anche questo!", mormorò Luisa, tristemente. "Ho voluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne sei offeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose. Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza soffrire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso questa strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai. Non farmi abbassare a dirlo adesso!" "Non farmi abbassare!" esclamò Franco. "Io non capisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Dio mio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona di te stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esattamente, li conservi sempre così netti, così freddi!" Luisa mormoro: "Sì, siamo diversi". Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno. Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlò e cercò che il discorso non cadesse fino a che la villa non fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabilito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la valigia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne aveva già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di portarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la villa della nonna con le sue suggestioni sinistre, passo. Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte, durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontrati alla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi. E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto le rupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, addio, tempo passato. "Ricordati", disse Franco quasi duramente, "che Maria deve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È un comando che ti do." "Lo avrei fatto anche senza comando", rispose Luisa. "So che Maria non appartiene solo a me." Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida della Valsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago segnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viaggiatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza che ne sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso da bisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di furto per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gridare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar di lena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di far presto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio. Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetro dell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse un grande interesse di udirne le parole. Quando approdarono si voltò a sua moglie. "Esci anche tu?" Ella rispose: "Se credi". Uscirono. Una carrettella era sulla riva, pronta. "Guarda", disse Luisa, "che nella borsa troverai da far colazione." Si abbracciarono, si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre o quattro curiosi. "Fa che Maria", disse Franco, "mi perdoni di esser partito così", e furono le ultime sue parole perché il Toni Pollìn insisteva, "presto, presto!". La carrettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di frustate per la stretta, scura viuzza di Porlezza. Franco viaggiava sul Falco, da Campo verso Argegno, quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa e gli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indirizzo di carattere di sua moglie: "per te". L'aperse avidamente e lesse: Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che soffro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette delle quali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venir da te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti così duro con me. Debbo aver molto peccato contro la Verità perché mi sieno così difficili e amari i primi passi che faccio seguendo lei. Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto suscettibile: adesso sento che le tue parole umilianti non potrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte di me, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la mia coscienza della verità. Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io spero che possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima. Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellina che abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidato e vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noi quando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Io non t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adesso sono io che spero di conquistare te. Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegno senza muoversi dal suo posto.

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

E dopo una pausa soggiungeva abbassando ancora la voce, e guardandola con passione: "E lei, non lo hai mai sentito quel bisogno?". "È troppo curioso" rispondeva Rachele arrossendo. E quel rossore voleva dire di sì, che aveva scritto, che se ne vergognava un pochino, ma che ardeva dal desiderio di comunicargli quegli sfoghi epistolari, e di leggere quelli di lui. Giovanni aveva già molto domata la sua timidezza da scolaretto. Osava fissare lungamente la bella fanciulla negli occhi, e non arrossiva più. Essa pure lo guardava tratto tratto, tanto più se erano un po' lontani, ed allora si dicevano cose appassionate con quei lunghi sguardi mesti. Le parole non avrebbero potuto dirne di più. Omai s'intendevano, e con quel muto linguaggio si comunicavano questo desiderio comune: "Se fossimo soli!". La sera Rachele stava spesso sul terrazzo in fondo al giardino, e Giovanni passeggiava sulla strada di là dal fossato cogli occhi sempre rivolti a lei. E lei lo seguiva collo sguardo tenace. E quando s'allontanava, egli si voltava indietro ad ogni passo, si fermava, tornava a guardare, tornava a fermarsi, e soltanto allo svoltare della contrada, quando aveva passeggiato tanto che s'era fatto buio e si vedevano appena, si toglieva il cappello lentamente per prolungare quel saluto, che lei rendeva con un lieve chinare del capo. Quell'ora dell'imbrunire era il loro pensiero di tutto il giorno. Dopo la prima volta, senza dirselo, erano tornati tutti e due ogni sera, lei sul terrazzo e lui sulla strada. Era sempre la stessa cosa, lo stesso passeggiare, lo stesso guardarsi, lo stesso saluto. Ma era un godimento infinito e provavano un vero dolore quando, per una causa qualunque, dovevano mancare al muto convegno. Ed il giorno dopo chi aveva mancato assumeva l'aria compunta d'un colpevole, e chi era stato deluso all'appuntamento si mostrava sdegnato. Poi, a forza d'occhiate, che, a quella distanza del resto, non avevano altra espressione che la fissità, riescivano a turbarsi a vicenda, a commoversi, a suscitarsi nell'animo quella tempesta di affetti, che fa battere il cuore fuor di misura, e rende incapaci di tutt'altro sentimento che contemplare, amare, desiderare. La festa di sant'Alessandro era passata; si cominciava già a parlarne un po' meno; e chiunque possedeva un tralcio di vite al sole, pensava alla vendemmia. Il Dottorino non aveva il menomo stelo di sua proprietà in tutto il regno vegetale; il garofano che fioriva sulla sua finestra, in una vecchia zuppiera senza manico, era della Matta, e persino la zuppiera era stata sua soltanto abusivamente perché non l'aveva pagata mai. Ma il Dottorino era l'anima delle vendemmie come dei pranzi. "Potete fidarvi, che dell'uva non ve ne mangio" diceva. "La volpe, che trovava acerba soltanto quella a cui non poteva arrivare, non era furba quanto me. Non sapeva che è sempre acerba anche quella che si ha nel paniere, perché l'uva, per maturare, ha bisogno dell'aria del tino". Figurarsi se quei signori vignaiuoli non pensavano a portargli una buona bottiglia d'uva matura ed a gustarla con lui! Ne conoscevano troppo gli effetti sullo spirito giocondo del Dottorino, per non provocarli. Un giorno Giovanni si scontrò con suo padre sulla strada di Ghemme, ed il Dottorino lo invitò a seguirlo nel vigneto dei signor Pedrotti, dove raccoglievano l'uva bianca, e rimanevano tutto il giorno. Per quella sera Rachele non andrebbe sul terrazzo. Giovanni provò una deferenza per l'autore de' suoi giorni!... Non fece che voltar strada e camminargli a fianco, finché, giunti al vigneto, si dispersero in due filari diversi, perché il vecchio prendeva la più breve per arrivare al villino. C'era tutta la società elegante di Fontanetto a quella vendemmia. Giovanni udiva le chiacchierine delle signore traverso il filare di viti. "È dolce come il miele" diceva la moglie del segretario col viso arcigno come se dicesse: "È veleno". "Io ho sempre desiderio dei grappoli a cui non arrivo colla mano" rispondeva la voce acerba d'una giovinetta. "Allora eccone uno che ti farebbe voglia" osservò Rachele; e si accoccolò protendendo un braccio traverso il fogliame fitto che radeva il suolo, ed appoggiandosi coll'altra al terreno arso e cretoso. Ma il grappolo era indietro indietro, dall'altro lato del filare, e non le riesciva di coglierlo. Invece sentì qualche cosa di caldo solleticarle il palmo, e, quando ritirò la mano che qualcuno aveva trattenuta, s'avvide che stringeva un garofano. "Cos'è? Perché hai gridato?" domandò la segretaria. "Perché mi sono graffiata tra i rami" rispose la Rachele che aveva riconosciuto le labbra amorose, ed il garofano della finestra di Giovanni. Poi, come se cercasse altri grappoli attraenti, si fece innanzi affrettando gradatamente il passo finché si curvò, scomparve sotto i tralci di vite, e si perdette nel vigneto. Nessuno le tenne dietro. Ciascuno era libero d'andare dove amava meglio. S'era fatta innanzi senza una risoluzione precisa. Sapeva che Giovanni era là, ed il cuore la spingeva ad isolarsi. Dopo un tratto, aveva veduto la bella testa bruna traverso la vite, incorniciata di pampini come la testa di Bacco. Egli la guardava fissamente cogli occhi ardenti e mesti. E quegli occhi la attiravano irresistibilmente. A capo chino, rossa in volto, camminando a rilento, si fece innanzi fino a lui, come una magnetizzata. Allora egli si chinò, sollevò i rami facendole un piccolo arco verdeggiante, ed ella passò in silenzio. I rami ricaddero, ed i due giovani si trovarono l'uno in faccia all'altro, pallidi, commossi, palpitanti, in un filare vendemmiato. Giovanni le prese le mani e le disse: "Parto doman l'altro. Per un anno non ci vedremo più". Rachele chinò il capo e non rispose. La persona alta di Giovanni si stringeva a quella di lei, ed il suo viso, curvo sulla testa bionda della giovinetta, s'infiammava tutto del desiderio di stringerla fra le sue braccia. Il suo alito caldo le faceva tremolare i riccioli sulle tempia, le solleticava la nuca e l'orecchio. Rachele mise un sospirone come se avesse un gran peso sul cuore. Egli pure sospirò; poi, come per consolarsi di quell'affanno che li opprimeva tutti e due in mezzo a tanta ebbrezza d'amore, si pose il braccio della Rachele sotto il suo, e la tirò innanzi appoggiata così come una sposa, senza cessare di stringerle la mano. Egli susurrò: "Sarai sempre mia?" "Sì" disse Rachele sospirando ancora. Poi soggiunse: "Saremo uniti come fratello e sorella". Era una fisima che aveva letta in un romanzo. A Giovanni parve l'ultima espressione dell'ingenuità verginale; un sogno di poesia celeste. Sentì di doverla adorare in ginocchio per quella parola, e le promise di sì, che l'amerebbe a quel modo. In quel momento aveva la convinzione di potersi innalzare a quella idealità. E, dopo questo, non trovarono più nulla da dire. Continuarono a camminare in silenzio, con una grande mestizia sul volto ed un gran peso sul cuore, stringendosi le mani per confortarsi a vicenda, muti e gravi, come chi ha compiuto un atto solenne. In capo al filare si separarono. S'erano tenuti stretti fin allora; ma, al momento di darle un bacio, Giovanni ebbe soggezione dell'aria aperta, dell'orizzonte vasto, e la attirò sotto un ciliegio, da cui pendevano abbandonati i rami foltissimi di una vite vendemmiata. Sotto quell'arco verde, nascondendosi dall'aria, dal cielo, stese le braccia con uno sguardo supplichevole. Voleva che Rachele vi si abbandonasse da sé. E vi si abbandonò; e si strinsero un momento con una passione, che smentiva l'idealità dei loro propositi. Ma, per quel momento, non c'era a temere. Tutti i Cherubini e Serafini, i Troni e le Dominazioni, e perfino le undicimila vergini che fanno corona al Padre Eterno, avrebbero potuto contemplare quell'abbraccio amoroso e desolato senza aver bisogno di velarsi la faccia. Quando il Dottorino e suo figlio scesero dal vigneto, la Matta stava alla finestra, mondando amorosamente la pianta del garofano. Ne aveva contati i fiori più volte; era sicura che ne mancava uno. La mattina Giovanni era uscito con un garofano all'occhiello. La Matta rideva e cantava forte, e tornava a mondare, ad inaffiare, a contare i fiori della sua pianta. Quando Giovanni rientrò, la serva gli si fece incontro ridendo e guardandogli l'occhiello dell'abito. Ma ad un tratto cessò di ridere e se ne andò in cucina. Il garofano non c'era più. Più tardi il Dottorino era fermo sulla porta di strada. Tutta la brigata, che aveva pranzato al vigneto dei Pedrotti, scendeva la contrada, e, giunta alla porta del Dottorino, si fermò a salutarlo. La Matta s'affacciò alla finestra, ma non rideva più come il mattino. Guardava la signorina Pedrotti. La vedeva grande e bella, e ben vestita, e pensava con soddisfazione: "Ora non giocherà più con Giovanni". In quella Giovanni uscì sul balcone della sua camera, e gridò: "Buona sera!" "Buona sera! Buona sera!" risposero tutti. Poi la voce limpida ed un po' tremante di Rachele disse ancora: "Buona sera!". Ed intanto guardava Giovanni, ed odorava il garofano. Il mattino seguente, quando Giovanni aperse la finestra per cogliere un altro di quei fiori, non trovò più neppure la zuppiera rotta. La Matta non riescì mai a capire le sue domande, né a rispondergli cosa fosse avvenuto della pianta di garofano. Si stringeva nelle spalle, e diceva come al solito: "Io non so" Del resto Giovanni non osava neppure insistere colle interrogazioni, perché la Matta era tanto crucciata quei giorni; non mangiava ed aveva sempre gli occhi rossi e gonfi di nuove lacrime. Forse c'era qualcuno malato in casa della sua balia. Gli anni si succedevano. Giovanni aveva davvero un ingegno eccezionale, studiava con ardore, parlava bene, scriveva con arte, ed era anche poeta. Colla sua istruzione e coll'età, cresceva anche il suo amore e si faceva serio. A misura che il giovinetto diventava uomo ed imparava a conoscere il mondo, rettificava i giudizi erronei dell'inesperienza, e la sua passione diveniva meno romanzesca e più vera. L'unione fraterna, che aveva accettata un momento colla fantasia, lo faceva sorridere. Era tornato sempre nell'autunno a Fontanetto, ma, appunto perché s'era fatto uomo, non aveva più ottenuto d'esser solo con Rachele. Ma ormai si sentivano uniti come se si fossero fidanzati. I loro occhi, che si attiravano come se li unisse una corrente elettrica, le loro mani che si stringevano febbrilmente l'una all'altra, e si staccavano lente ed a stento, li legavano come una promessa. Avevano una lunga storia d'amore calda, viva, interessantissima da rammentare, e tutta così, senza parole. Anche il signor Pedrotti era espansivo con Giovanni, mostrava di volergli bene. L'ultimo anno poi, quando il giovine tornò colla laurea, gli fece tali dimostrazioni d'affetto da rassicurarlo completamente. Era evidente che nulla avrebbe amato meglio che di chiamarlo suo figlio. Intanto però era venuta l'antivigilia della partenza di Giovanni per Milano, dove andava a cominciare la sua carriera legale; era finito l'ultimo pranzo in casa Pedrotti; e le cose stavano sempre allo stesso punto. Quel giorno però il signor Pedrotti era stato affettuosissimo per Giovanni. Lo aveva abbracciato chiamandolo ripetutamente: "Il nostro avvocato". "Eccoti avviato ad una bella carriera" gli aveva detto. "Non mancarmi, sai. Bada che ho promesso di fare di te un grand'uomo. Ho avuto fede in te; ed ora che hai la laurea, tocca a te darmi ragione". Poi l'aveva abbracciato ancora ed aveva detto: "Chissà che non ti vediamo deputato e non dobbiamo ricorrere a te per il bene del nostro paese. Chissà! Se lo vuoi... Volere è potere. Tutto questo era detto bonariamente, ma in realtà, più per ricordare la parte ch'egli aveva avuto al conseguimento di quella laurea, e per atteggiarsi a protettore, che per ammirazione di Giovanni. Ma Giovanni raccoglieva quelle parole religiosamente. "Ho avuto fede in te". "Volere è potere". Egli voleva ottenere Rachele; e poiché il padre di lei aveva fede nel suo ingegno, perché non potrebbe? Anche Rachele pensava forse così, perché osservava con occhio di compiacenza quelle amorevolezze del babbo verso il suo innamorato. Più tardi, quando Rachele gli porse la chicchera del caffè, Giovanni le susurrò: "Bisogna ch'io le parli prima di partire". "Parli" disse lei, fermandosi come per porgergli la zuccheriera. Egli afferrò colla molletta un pezzo di zucchero, e riprese: "No, dobbiamo esser soli". Ella non fece nessun atto di sdegno, e lo guardò soltanto esitante, come per dire che non era possibile: "Il giardino è buio, non si può uscire". "Ora no; ma domani, se verrà sul terrazzo, io traverserò il Sissone al ponte dove l'acqua è bassa, e verrò sotto..." Egli non vedeva altro mezzo per innalzarsi fino all'unica erede del signor Pedrotti, che allontanarsi dal suo paese e da lei e lavorare lungamente e con coraggio in una grande città. Ma temeva che, mentre egli preparava laggiù il suo avvenire, un altro, un ricco possidente, venisse a domandare Rachele a suo padre, e se la portasse via. Questo pensiero lo tribolava, e diminuiva il suo coraggio. Aveva bisogno di levarselo dal cuore come una spina. Per questo aveva risoluto di domandare prima a Rachele, poi al signor Pedrotti una promessa solenne, da portarsi con sé come un talismano. Il giorno dopo Rachele ebbe l'emicrania, e preferì prendere l'aria tranquillamente sul terrazzo, mentre il signor Pedrotti saliva co' suoi amici al vigneto, dove le viti erano sfrondate, e non offrivano più riparo agli amanti, i vini avevano finito di bollire nei tini, ed i possidenti sedevano a giocare una partita di bazzica nel salotto del villino, colle vetrate chiuse. Giovanni giunse sotto il terrazzo per la via del fossato, e si fermò col capo in su, mezzo nascosto dai rovi che crescevano sulla ripa. Rachele era appoggiata al parapetto del terrazzo, tutta convulsa e pallida, come se avesse l'emicrania davvero. Era la stessa ora silenziosa, la stessa aria umida e fredda d'autunno, la stessa penombra, lo stesso isolamento di tre anni prima. Ma in quei tre anni le loro anime erano maturate alla vita; erano scese dalle nuvole. Giovanni era avvocato ed aveva ventidue anni. Non ebbe esitazioni; non rigirò le frasi. Era l'ambiente dell'amore, l'ambiente della confidenza, l'ambiente del tu. Non poteva arrivare neppure a prenderle le mani, ma alzò verso di lei il volto innamorato, e colla sua bella voce le disse: "Senti, Rachele; ho bisogno che tu rinunci ad amarmi come un fratello. Non siamo più due giovinetti ingenui: lo sai, lo comprendi che quell'amore ideale non mi basta". "Sì, lo so" sospirò la Rachele, tutta rossa e vergognosa, ma sincera. Egli la guardò lungamente in silenzio, mettendo in quello sguardo tutto l'ardore delle carezze che avrebbe voluto farle se avesse potuto giungere fino a lei; poi tornò a dire: "Mi permetti di domandarti a tuo padre prima di partire?". "Oh sì, sì!" susurrò la Rachele amorosamente. Egli continuò come se parlasse fra sé, rapito in estasi da quel consenso, che era la più grande delle espressioni d'amore. "Spero che non avrai a pentirti di questa parola, cara. Vedrai; non sono delle illusioni giovanili che mi creo. Ho la certezza di farmi un bel nome, di acquistarmi una situazione degna di te. Tu non sai, nessuno sa, la forza e le inspirazioni buone che mi dà il tuo amore. Se diverrò qualche cosa, lo dovrò a te, perché sei tu che mi sproni alle ambizioni nobili, al lavoro, al bene. È per ottener te, che desidero prendere un posto nel mondo, e guadagnare del denaro". Queste parole le diceva sommessamente, con tale accento di passione, che Rachele si sentiva stemprare il cuore nell'udirle. Non rispondeva che collo sguardo fisso ed appassionato. Egli riprese: "Credi che avrei studiato, che avrei un grado accademico a quest'ora, se non fosse per te? Io ho nel cuore tutti i germi delle passioni, e le tentazioni laggiù a Torino li riscaldavano potentemente per svilupparli. Se non avessi avuto quel gran desiderio di te che mi riempie l'anima, avrei presa la vita allegramente, avrei perduti i miei anni di studio, avrei disgustato tuo padre e gli altri, e sarei tornato qui a custodire le pecore, come diceva il mio babbo, o sarei rimasto uno degli spostati che vivono di ripieghi in città fra la miseria ed il vizio. Sei tu che m'hai salvato e m'hai spinto al bene. Ed ora devi sostenermi ancora, mettendoti là, al termine delle mie fatiche, come il mio premio, la mia meta, la gioia ed il riposo della mia vita". Alzò tutte e due le mani, come per implorare di stringere le sue malgrado la distanza. Ella si sporse, si curvò sul parapetto; ma non si raggiunsero. Allora Giovanni si sentì preso da scoraggiamento al vedersi così diviso da lei, e le disse: "Oh Dio! E se il tuo babbo mi dicesse di no?". "Per carità; non pensarlo" rispose Rachele. "Sarebbe terribile". "Ma se mai, di', cosa faresti?". "Morirei" susurrò la giovinetta. "No, no. Questi sono romanzi" disse Giovanni con impazienza. "E poi, io non voglio che tu muoia. Voglio che tu viva e che tu sia mia ad ogni costo. Di', lo sarai?" "Sì". "Anche se tuo padre non vuole?" "Questo è impossibile". "Perché?". "Perché... non so; non potrei resistere a mio padre: l'ho sempre obbedito, e lui m'ha sempre voluto bene...". Poi, come scacciando un'immagine triste, soggiunse: "Ma via non pensiamo al male. Ti dimostra tanta affezione: ha detto oggi che ha fede in te. Perché vuoi che ti rifiuti?". "È vero" ripetè Giovanni, "non pensiamo al male". Poi, cercando di aggrapparsi alla riva, domandò: "Mi vuoi bene?". Ella portò alle labbra la punta delle dita, e gli mandò un bacio senza sorridergli, seria e commossa come chi assume un impegno grave. Giovanni s'aggrappò con una mano sola alla ripa, per sollevarsi fino ad un piedino di lei che sporgeva tra le colonnette del terrazzo, lo strinse amorosamente coll'altra mano e lo baciò. La vasta pianura era coperta di nebbia e pareva il mare. Si distingueva appena, al di là del fossato nero, la linea cretosa della strada comunale. Sull'orlo della strada passava e ripassava un'ombra nella nebbia, e tratto tratto si fermava a guardar Rachele, ed a guardare giù nel fossato. "Addio" susurrò la Rachele. "Bisogna andar via, ci guardano". Ma Giovanni la rassicurò mentre s'allontanava: "Non badarci; è la Matta". Giovanni passò la notte a disporre ogni cosa per la sua partenza. Non andava più all'Università; non riceveva più la pensione dei suoi mecenati. Andava a Milano nello studio d'un avvocato famoso, dove doveva fare il suo tirocinio, per poi esordire nel foro. Egli non dubitava di nulla. I suoi anni di studio erano stati una serie di trionfi. La stima dell'avvocato Berti, che lo prendeva con sé, gli appianava la via. E l'amore gli giubilava nel cuore. Il Dottorino quella notte rientrò in casa assai tardi. Aveva bevuto qua e là ed era allegro. Nel passare dinanzi all'uscio aperto della cucina, gli parve di vedere, sullo scalino del focolare spento, un corpo raggomitolato che si dondolava gemendo. "È il gatto" pensò il Dottorino a cui il vino aveva tolto il senso esatto delle proporzioni; e tirò via. Ma non era il gatto; e fino al mattino quel corpo raggomitolato continuò a dondolarsi ed a gemere nell'oscurità. Giovanni si vestì cantando un'aria d'amore. Le sue note di tenore non erano mai risonate così alte e belle. Scese le scale cantando, e, giù nella via, nel silenzio del mattino, s'udì perdersi in lontananza quella voce solitaria. Errò per le straduzze dei colli cantando ancora, declamando versi, cominciando dei castelli in aria, interrompendoli, riprendendoli daccapo, agitato, impaziente. Finalmente alle dieci entrò al castello, e domandò di parlare al signor Pedrotti. Ma la sola vista del servitore che l'introdusse, diminuì d'un grado la sua sicurezza. Traversò la stanza da pranzo deserta: e le grandi credenze spolverate, le piramidi di piatti di porcellana, le buste d'argenteria chiuse, colla cifra sulla placca, lo rattristarono. Che distanza, mio Dio, dalla sua nudità a quella ricchezza! Poi passò pel salone buio, colle cortine abbassate, le imposte chiuse; e gli enormi seggioloni coperti dalle fodere grigie, coi sedili sovrabbondanti e protesi, gli parvero un'adunanza di proprietari panciuti, che stessero ad aspettare con sussiego la sua domanda per discuterne fra loro. Finalmente entrò nello studio, freddo, rigido nella sua nudità. C'erano poche sedie ed una scrivania; ma ai due lati della scrivania si rizzavano due alti casellari con una infinità di cassette, e sopra ogni cassetta era scritto, in grossi caratteri di stampa, il nome di una possessione. Il signor Pedrotti stava scrivendo in un libro mastro; alzò un momento il capo e disse: "Ah! Dunque te ne vai? Aspetta un momento che finisca questa nota". Tutto il coraggio di Giovanni era svanito. Si sentiva tremare il cuore al momento d'affrontare la grande questione. Leggeva macchinalmente i nomi delle terre: Il Gentilino, La Peveraccia, Sant'Antonio al Fosso... Erano piccole proprietà, ma erano proprietà; egli le conosceva tutte, e ne ignorava il valore. Le contò; erano quattordici. E gli parvero quattordici nemici chiamati là per attestare della sua miseria. Il signor Pedrotti chiuse il libro, e si alzò tornando a dire: "Dunque te ne vai, figliolo?". "Sì. Vado a cominciare la mia carriera..." rispose Giovanni. "E fai le tue visite di congedo?" domandò il proprietario, tanto per parlare. "Sì..." "Sei stato dal conte Valli, e dal parroco?..." "No, sono venuto prima da lei..." "Bravo, ti ringrazio. Vuoi restare a colazione qui? Saluterai anche Rachele". Giovanni si sentiva venir freddo, aveva le mani diacce e bagnate di sudore, ed il cuore gli balzava così forte che ne aveva il respiro corto e la voce tremante. Ma tuttavia quell'accoglienza buona lo incoraggiava, e, fermo nel suo proposito, disse: "No, grazie. Sono venuto per parlare a lei... d'una cosa importante... pel mio avvenire...". "Di' pure; in quel che posso" rispose il signor Pedrotti con aria di protezione. Poi soggiunge, vedendolo intimorito: "Ma non aver paura, il tuo avvenire è sicuro; hai ingegno, sei appoggiato ad un avvocato valente... Lavora, abbi coraggio, e vedrai; sai che ho sempre avuto fede in te. Il mondo è dei giovani, mio caro". "Sì; ma bisogna che i vecchi, cioè, quelli che non sono più giovani, ci aiutino un poco". "E ti hanno aiutato mi pare" disse il Pedrotti un poco adombrato dalla parola vecchi, e dalla paura che Giovanni non apprezzasse abbastanza le sue larghezze passate e ne domandasse di nuove. "Sì: e se sono qualche cosa, lo devo a loro" assentì Giovanni sempre più tremante. "Ma sa, tutti abbiamo delle aspirazioni; io vorrei diventare qualche cosa di più". "È giusto. L'ambizione fa i grandi uomini e le grandi cose" sentenziò il Pedrotti, usando una frase che aveva letta nel suo giornale. "Ebbene, mi fa piacere che dica così, perché ho una grande, grande ambizione" balbettò Giovanni, che ormai non poteva più frenare gli sbalzi della sua voce soffocata e commossa. "Bravo! E, si può conoscerla quest'ambizione?" domandò bonariamente il proprietario. "Vuoi diventare deputato?". "No. Voglio... voglio... sposare sua figlia" susurrò Giovanni con un mormorio appena percettibile. Il signor Pedrotti si rizzò sulla poltrona; lo guardò fisso cogli occhi sgranati, e stette un tratto senza trovare una parola da rispondere. Poi ripeté, come se non fosse certo d'aver capito: "Sposare mia figlia!". Giovanni chinò il capo come un colpevole, e lanciò il suo miglior argomento cavato dal fondo del cuore: "Le voglio tanto bene!". "Ti ringrazio dell'onore" disse con ironia il signor Pedrotti. "E lei pure vuol bene a me" soggiunse Giovanni, in cui l'indignazione era pronta, e ravvivava il coraggio. "Me ne congratulo tanto, ma sai cos'ha di dote mia figlia?" "Io non gliel'ho domandato, e la sposerei soltanto quando avessi altrettanto anch'io". "Ah bene: allora ne riparleremo". Ed il proprietario si rizzò indispettito come per chiudere la seduta. Ma Giovanni aveva ripreso ardire a quel rifiuto scortese, ed insistette: "Mi basta che lei prometta di non darla ad altri, e di concederla a me quando mi sarò fatto un nome ed una rendita". "Oh! io non firmo cambiali a così lunga scadenza" disse il signor Pedrotti facendo una spallucciata ed avviandosi all'uscio. "Non m'ha detto che ha fede in me?" domandò Giovanni con accento di rimprovero. "Oh, mi pare che basti!" gridò il possidente con un impeto di rabbia e picchiando un piede in terra. "T'ho dato retta anche troppo. Cosa ti credi d'esser diventato, per quello straccio di laurea che abbiamo pagato noi? Mia figlia non è per te, né ora, né mai. Mettitelo bene in testa. Voglio che faccia un matrimonio degno di lei e di me". "Ma posso diventarlo anch'io degno di lei" ribattè Giovanni fremente di sdegno. "Nossignore!" proruppe l'altro gettandogli quella parola in faccia come una ceffata. "Nossignore! Il figlio del Dottorino non sarà mai degno di mia figlia. Vattene, e che io non ti veda mai più vicino alla mia casa. Per Dio!" E sbatacchiò l'uscio dietro il povero innamorato, con un rumore più eloquente delle sue stesse parole. Giovanni traversò il paese quasi di corsa, col viso infiammato, e tutti i nervi vibranti di sdegno. Salì nella sua stanza; vi si rinchiuse con impeto, come se, alla sua volta, sbatacchiasse l'uscio in faccia a quel ricco che lo aveva disprezzato. Poi si mise a scrivere a Rachele: "Tuo padre è un villano, tuo padre non ha cuore" e tirò via a narrare febbrilmente tutto il dialogo avuto col castellano, intercalato da continui io dissi, egli rispose Ma dopo i primi periodi, fermandosi per riordinare il discorso nella sua memoria, si trovò nel falso in quella parte di denigrare il padre presso la figlia. Gli parve di rimetterci della sua dignità, e preferì scrivere quanto gli stava più a cuore. Ieri fummo troppo ottimisti. Non abbiamo voluto prevedere il male, ed il male è venuto, e ci trova impreparati. Tuo padre mi ha negata la promessa che imploravo, e mi ha chiusa la porta della tua casa. Sono profondamente offeso: ma se tuttavia potessi sperare in te, non sarei scoraggiato. Mi sentirei capace di provargli che l'ingegno è assai più della ricchezza. Ieri m'hai detto una parola terribile. M'hai detto che non potresti resistere a tuo padre. Dunque gli obbedirai? Mi respingerai da te, per sposare qualche ricco, proprietario di fondi più o meno irrigatorii? Non ho il coraggio di pensarlo. Desidero, spero e domando che tu mi serbi la promessa d'esser mia, d'aspettarmi. È una domanda ardita, e sarebbe da parte tua una grave promessa. Pensaci. Amante e disperato come sono, non voglio tuttavia strappartela con un'illusione. Non verrà presto il giorno della felicità. Saranno degli anni che dovrai aspettarmi; io mi sento l'energia e la capacità di fare una bella carriera. Ma per presentarmi a tuo padre, dopo quanto m'ha detto, non basta che io abbia una bella rinomanza, e buoni guadagni. Debbo avere un capitale da mettere sull'altro piatto della bilancia, per far riscontro a quell'odiosa dote che ti darà; ed un capitale non si accumula facilmente. Forse passerà lungo tempo, prima ch'io possa reclamare l'adempimento della tua dolce promessa. Ed intanto saremo divisi, nessuno ti parlerà di me. Tuo padre ti presenterà altri pretendenti cari al suo cuore, e tu dovrai respingerli, lottare; e s'egli indovinerà la causa de' tuoi rifiuti, saranno scene di discordia che ti avveleneranno la vita. È molto, è troppo domandare tanto ad un povero cuore di donna; ed io stesso, che ti rivolgo quest'ultima preghiera in nome del mio amore, del nostro amore, non oso sperare che tu l'esaudisca. Ma se mai, se nel tuo cuore c'è forza bastante per questo sacrificio, metti una parola, un sì, nel volume dei Promessi Sposi che ti prestai e che la Matta ridomanderà per avere un pretesto di presentarsi in casa tua, dove io sarei discacciato. O Rachele! Se troverò quella parola scritta da te, ti benedirò dal fondo dell'anima; e mi darà tanta forza, tanto ardore, che mi sentirò padrone del mondo. Consacrerò tutte le ore, tutti i minuti della mia vita a lavorare per compensarti del tuo nobile sacrifizio, e quando sarò spossato, consacrerò ancora i miei riposi ad adorarti. Ma è troppo sperare. Non voglio illudermi. Tu sei donna e sei giovine. Tuo padre ti ama, e ti sei avvezza ad obbedirlo in tutto. È il tuo dovere, povera cara. Il libro verrà senza la gioia che aspetto. Ed io penserò che mi ami, che soffri, che piangi, ma che ti rassegni, e mi abbandoni al mio destino. Mi farai un gran male, cara; un gran male. Ma ti amo tanto, che ti perdonerò. Quand'ebbe scritto, chiuse la lettera, e scese a cercare la Matta. La trovò in cucina accoccolata sullo scalino del focolare che si dondolava gemendo. La chiamò, e le disse, spiccando le parole perché potesse capirle: "Vai al castello. Di' che ti mando io a riprendere quel libro che ho prestato alla signorina". La Matta stava tutta imbronciata ed a capo chino, come se non volesse obbedire. "Hai capito?" domandò Giovanni. Ella si contorse tutta e borbottò: "Io non so". Ma Giovanni s'impazientì, ed insistette colla voce alterata: "Ho assolutamente bisogno che tu faccia quest'imbasciata. Ripeti come dico io". E tornò a dire: "Mi manda il signor Giovanni...". La Matta lo guardava fisso; lo vide pallido, agitato, tremante; allora, con tutta l'attenzione di cui era capace, imparò la lezione. Quand'ebbe detto, Giovanni riprese dandole una lettera: "Quando sarai entrata dalla signorina, e nessuno ti potrà vedere, le darai questa lettera; ma bada, che non veda nessuno". La Matta prese la lettera esitando, ed uscì lentamente e di mala voglia. "Sbrigati!" le gridò dietro Giovanni. "Per amor del cielo, sbrigati!". Ella accelerò un momento il passo; ma, appena ebbe svoltato la cantonata, si fermò, cavò di tasca la lettera, la osservò da tutte le parti, guardò la soprascritta; ma non seppe leggere che gli o. La ripose sospirando, e tirò via lentamente verso il castello. Giovanni intanto fremeva; contava i minuti. Finalmente, non reggendo più alla sua impazienza, uscì incontro alla serva. La vide che tornava rasentando il fossato del castello, a passo lento, a capo chino. Appena s'accorse di lui, voltò indietro come se volesse sfuggirlo. Ma egli la raggiunse, e le tolse di mano il libro. "No, lo porto io" disse la Matta. Giovanni non diede retta. Ella stese la mano per pigliare il volume. Tremava, era turbata e diceva: "Vuol portarlo lei? Tocca a me di portarlo". Ma Giovanni la respinse e corse a casa, tenendo stretto il libro fra le mani. Appena fu in camera aperse la copertina tremando, e non ci trovò nulla; scosse nervosamente il volume, e non ne uscì nulla. Allora, pallido, ansimante, colle mani convulse, passò tutti i fogli ad uno ad uno. Ma non trovò nulla. "Ah, lo prevedevo!" sospirò. "L'ha detto che non avrebbe mai potuto resistere a suo padre". Poi soggiunse: "Anche lei! Ebbene vedrà...". Uscì, camminò frettoloso pel paese, entrò a congedarsi dai suoi protettori, coll'aria spavalda, parlando con agitazione febbrile del suo avvenire, della sua prossima fortuna. Aveva un'aria di sfida che quei signori trovavano strana. Gli rispondevano meravigliati: "Ma bene, bene, ragazzo. Se farai fortuna, meglio per te. Io te l'auguro". E poi quand'era uscito pensavano crollando il capo: "Con chi l'ha? Sembra che abbia bevuto". Giovanni tornò a casa col carrozzino che doveva condurlo a Borgomanero alla stazione della strada ferrata. Entrando nella sua camera per pigliare la valigia, sorprese la Matta che guardava ancora curiosamente il volume riportato dal castello. "Lascia stare!" le disse con dispetto. E strappandoglielo dalle mani, gettò la preziosa seconda edizione dei Promessi Sposi sull'ultimo palchetto in alto della libreria. Poi salutò in fretta suo padre, salì nel biroccino e partì. "Anche lei! Ebbene, vedrà!" aveva borbottato ancora Giovanni ripassando, nel calessino sgangherato, accanto al fossato del castello. O la Rachele s'era lasciata convincere dalle ragioni grossolane di suo padre, o aveva ceduto, anche non convinta, alla sua autorità. Ad ogni modo non aveva saputo amarlo coll'energia ch'egli sperava; aveva diffidato di lui. Questo gli metteva una grande amarezza nell'anima; ma non lo scoraggiava; lo spronava più che mai a lavorare, a conquistare un posto in società per poterle dire: "Vedi che hai avuto torto a dubitare di me!". Aveva creduto un momento d'aver bisogno d'una promessa di lei per sostenere il suo coraggio; ed ora invece la mancanza di quella promessa rinfocava il suo ardore, perché gli dava la paura di non giungere in tempo. Bisognava che s'affrettasse, che diventasse rinomato e ricco presto, subito, finché la Rachele era fanciulla, prima che un altro la sposasse. Quest'idea gli accendeva la febbre nel sangue. Egli confondeva il lungo avvenire col fuggevole presente, gli pareva di dover correre sempre, affrettarsi sempre, non perdere un minuto, come se incominciasse una gara alla corsa con un competitore immaginario. Il passo del ronzino malandato che lo trascinava trotterellando verso la stazione di Borgomanero lo faceva fremere d'impazienza. Quando fu nella carrozza di ferrovia trovò lenta la locomotiva come il ronzino, si dimenò sul sedile, alzò ed abbassò i vetri, cavò fuori l'orologio, poi l'orario, contò le stazioni, fece il controllo dei minuti, ed a Novara si lagnò con un impiegato, perché c'erano stati novantacinque secondi di ritardo. Quasi due minuti perduti pel suo avvenire. I primi tempi del suo soggiorno a Milano furono come un secchio d'acqua su quell'ardore. Il signor Pedrotti, nel raccomandare quel povero figliolo all'avvocato Berti un mese prima, gli aveva scritto: "Badi che non ha altro, fuorché quello che potrà guadagnare nel suo studio; cerchi di procurargli un alloggio economico, e se è possibile, anche una pensione adatta a' suoi mezzi, da povero figliolo com'è". L'avvocato Berti gli aveva assegnate cinquanta lire al mese, e gli aveva trovata una camera presso un fabbricante di zoccoli e forme da scarpe, a due passi dal suo studio. Non era veramente una camera; anzi, due anni prima, faceva parte dei metri cubi di spazio che costituivano la bottega. Poi il fornaio aveva preso moglie, ed allora aveva fatto dividere per metà la bottega tagliandola orizzontalmente, e nel mezzanino superiore aveva posto il letto coniugale. Più tardi la moglie, che era sparagnina, aveva immaginato di rizzare un tramezzo nel mezzanino, e farne due. Così, da una sola bottega, avevano finito per cavar fuori una bottega e due stanze. La prima stanza, però, era una specie di atrio aperto, perché vi metteva capo, mediante un largo buco praticato nell'assito, la scala a chiocciola che poneva in comunicazione la bottega coi mezzanini. Ma questo non aveva impedito di collocarvi un letto contro la parete, una tavola greggia dall'altra parte, due seggiole, e di affittare quella stanza mobiliata per dodici lire al mese. La scarsità dei mobili però non lasciava il vuoto nella stanza. Le pareti ed il soffitto erano riccamente ornati da mazzi enormi di zoccoli e forme, che, riuniti pei talloni, si allargavano come i raggi d'una ruota, come le punte d'una bomba. Intorno all'arco della bottega, che serviva di finestra al mezzanino, lungo la scala, e tutt'intorno all'apertura che sbucava nella stanza, pendevano disuguali ed appuntati quegli innumerevoli piedi. Bisognava salire guardinghi, badar bene dove si arrivava col capo, e non portar mai il lume acceso. Era l'alloggio toccato a Giovanni; egli non era schifiltoso. "Poiché costa poco" aveva detto, "e per questo prezzo non si può aver di meglio...". E la moglie del fornaio, incoraggiata da quella facilità di contentatura, s'era arrischiata a dirgli: "Se poi volesse adattarsi anche a mangiare la minestra con noi...". "Ma ti pare!" l'aveva interrotta il marito. "Eh! Lascia, lo dico nel suo interesse, perché gli costerebbe poco; del resto se non gli conviene..." Ed a Giovanni era convenuto, a trenta centesimi al giorno, compreso un sorso di vino. Ma alla bella prima aveva dovuto convincersi, che, pel suo stomaco di vent'anni, quella non poteva essere che la colazione; ed ancora, lasciandogli un florido appetito pel pasto seguente. Pel desinare aveva quindi dovuto pensare a trovarsi una pensione, dove pagava trenta lire al mese. Così furono collocate le cinquanta lire del suo stipendio, più una. Quell'una e le spese di lume, lavatura, stiratura, vestiti, scarpe e tutto il resto, bisognò che il giovine avvocato s'industriasse a guadagnarsele. Dallo stesso avvocato Berti poté avere l'incarico di copiare atti legali, di riordinare e di mettere in netto dei vecchi minutari, e tratto tratto di tradurre qualche brano d'un trattato inglese o tedesco. A questo modo Giovanni riuscì a sbarcare alla peggio il suo magro lunario. Ma il Berti lo occupava nello studio tutte le ore del giorno, e non gli rimanevano, per quei lavori e guadagni supplementari, che le prime ore del mattino, e la sera. Per poco che dormisse, nelle ventiquattro ore della giornata non ce n'era una di troppo per lui. Quel mezzanino non aveva camino né stufa. L'assito mal connesso lasciava entrare l'aria fredda della bottega, dov'era un continuo aprire l'uscio, e dove le mura stillavano umidità. Il fornaio diceva che era meglio così, perché non c'era pericolo che la sua mercanzia di legno secco prendesse fuoco. Ma questa considerazione non impediva a Giovanni di sentirsi le membra irrigidite e le mani paralizzate dal gelo nelle lunghe sere d'inverno, che passava solitario a scrivere al lume d'una lucernetta a petrolio. Ed anche questa era causa di continui rabbuffi da parte del fornaio. Appena la sua grossa testa, ricciuta in giro e calva nel mezzo come quella d'un san Giuseppe, spuntava dal suolo, alzandosi a misura che saliva la scala, si cominciavano a sentire delle ispirazioni rumorose, come di chi cerca di riconoscere un odore; poi una serie di "Uhm! Uhm!" gli contraeva le grosse labbra, e finalmente, mentre il passo pesante dell'omaccione faceva tremare la stanza, lo s'udiva borbottare: "Questo maledetto petrolio! Con tanto legno intorno! Ma! Ma!". Giovanni tirava via a scrivere. Ma le recriminazioni proseguivano dall'altra parte del tavolato fra i due coniugi, che in causa di quel tenue tramezzo, non aveva segreti pel loro inquilino. Del resto non erano cattiva gente; ed il giovine avvocato, che badava alla sua meta, li lasciava dire. Sovente nel dicembre, quando il freddo era più intenso, l'udire quei due, che si voltolavano tepidamente nel loro letto di foglie di grano turco, evocando quelle immagini ardenti di fuoco e d'incendio, gli dava una tale smania, che avrebbe voluto erigere una pira di forme, di zoccoli e di trucioli, e sgranchirsi deliziosamente alla vampa. Ma poi pensava a Rachele, e diceva: "Un giorno saprà quanto ho sofferto per lei". E ci metteva dell'orgoglio a sfidare quei patimenti, ed a sentirsi eroico. Nel segreto della sua stanza trovava modo di gloriarsi così della sua povertà. Ma fuori ne era sovente umiliato. Fin dai primi tempi della sua entrata nello studio, gli altri praticanti gli avevano detto ch'era l'uso fra loro di festeggiare con un pranzo la venuta di un nuovo compagno, il quale poi, dal canto suo, ricambiava con un pranzo la cortesia ricevuta. Giovanni aveva lasciato cadere il discorso. Ma l'anziano dello studio, che conosceva le circostanze d'un esordiente povero, aveva soggiunto per incoraggiarlo: "Non sono banchetti da Lucullo, sa? Si desina a cinque lire a testa". Ma erano quattro; e venti lire erano ancora una somma esorbitante per Giovanni. Per qualche tempo non se n'era riparlato, ed egli pensava, tra contento e mortificato: "L'avranno capita". L'avevano capita infatti, e dopo tre settimane l'anziano disse a Giovanni a nome di tutti, e presenti tutti: "Sa? Abbiamo combinato di pregarla di venire a desinare con noi alla Magnetta, per festeggiare il suo ingresso nello studio. È il solito pranzo... se vuol favorirci...". Giovanni rimase male, e si fece tutto rosso. Sentiva che avrebbe dovuto rispondere che ringraziava, e sperava che il tal giorno, prossimo, avrebbero favorito tutti loro a pranzo con lui... Ma pensava a' suoi pochi quattrini, al nessun credito, e l'impossibilità gli strozzava le parole in gola. Allora l'anziano, che era uomo di buon cuore, soggiunse: "Non importa che lei ce lo renda, sa! Senza complimenti...". Era una ceffata, e Giovanni se ne sentì tutto indolorito. Quella sera la sua povertà gli fu grave di molto; avrebbe dato dei pugni contro il cielo. Entrando nella bottega i trucioli che scricchiolavano sotto i suoi passi lo impazientirono; li cacciò di qua e di là coi piedi, borbottando, e s'avviò su per la scala, senza badare ai pendagli di zoccoli e forme che sporgevano da tutte le parti. Al primo mazzo di forme che gli urtò un fianco, lo respinse con mal garbo. "Badi!" gridò il fornaio dalla bottega. Ma Giovanni aveva esaurita la sua misura di pazienza; crollò dispettosamente le spalle e riprese a salire in furia, spingendo gli ingombri a destra ed a manca. Nell'arrivare in cima, urtò col capo in un mazzo enorme di zoccoli, che uscì dall'uncino, e cadde rotolando, percotendo, rimbalzando con un fracasso di cocci e di ghiaia. Il fornaio e la moglie balzarono in piedi urlando tutti e due, e per tutta la sera, dalla bottega, coi rumori della pialla e della sega, salirono al mezzanino le recriminazioni dei due coniugi scandolezzati. Più tardi Giovanni, che, incapace di lavorare, s'era cacciato in letto a ruminare la sua vergogna, li vide traversare la sua stanza portando con aria funebre il mazzo di zoccoli caduto, come un ferito che la loro pietà fosse costretta a ricoverare altrove, per metterlo al sicuro contro gli attentati di quel nemico violento, a cui lanciavano occhiate sdegnose. Dopo d'allora la vita del giovine avvocato si fece anche più penosa. In casa nessuno gli rivolgeva più la parola. Mangiava la colazione in silenzio, mentre la zoccolaia si agitava per la bottega sfaccendando e scopando, ed il marito le diceva tratto tratto con ironia: "Bada a non spingere i trucioli fra i piedi al signore. Aspetta a scopare che non lo impolveri". E la sera, quando Giovanni saliva in camera, il grosso operaio lo precedeva lungo la scala colle braccia stese per allontanare gli zoccoli e le forme, facendogli come un derisorio arco di trionfo. Allo studio poi, era sempre imbarazzato per quel pranzo che non aveva ricambiato. Era un'ombra che si frapponeva tra lui e gli altri praticanti, ed impediva la confidenza. C'era una serie di discorsi che evitava per non richiamare quell'idea che lo faceva arrossire. Non parlava di locande, né di pranzi, né d'inviti, e, se un altro domandava ad un compagno: "Vuoi che oggi pranziamo insieme?", gli pareva un'allusione ironica e si sentiva rodere. Un giorno s'accorse che i praticanti avevano un pranzo in comune pel natalizio d'uno di loro, e ne parlavano piano per non essere uditi da lui. Questa delicatezza lo ferì come un insulto. Si propose di ricambiare ad ogni costo il banchetto ricevuto. Soppresse il vino nel suo pranzo d'ogni giorno, vegliò più tardi al lavoro, e, dopo due mesi, si trovò in caso di fare il grande invito, con venticinque lire raggranellate e lesinate a soldo a soldo. Aveva calcolato che non ci voleva di meno per la mancia al cameriere, il caffè, i sigari, e le spese imprevedute. Erano venticinque goccie del suo sangue. Ma quando uscì dalla locanda seguito dai tre praticanti, colla testa un po' grave per un bicchiere di cattivo vino di più, e la borsa leggera per quelle venticinque lire di meno, gli parve d'avere ottenuta una riabilitazione, e pensò rivolgendo la mente a Rachele: "Voglio poterle dire che, anche nei giorni più difficili, non mi sono lasciato avvilire". E l'approvazione di lei, che sentiva d'aver meritata, lo compensò delle privazioni sofferte, assai più che la vanità d'aver ricambiato l'invito. C'erano delle epoche in cui la sua povertà gli riesciva penosa di molto. Una era il carnevale, e specialmente la fine, l'ultima settimana. Tutto il giorno, fra i suoi compagni di studio, era un continuo ciarlare di serate godute e da godere; un discorrere sconclusionato, a sbalzi, con delle allusioni che Giovanni capiva alla sua maniera e che lo eccitavano: "Quale preferivi ieri sera? La bionda? Non sei di cattivo gusto. Che carnagione! E che abbigliatura! Quella ne spende de' quattrini! Brrr!". Giovanni si metteva a scrivere in fretta, faceva scricchiolare la penna per assordarsi; ma quelle parole s'insinuavano tra le frasi legali che andava stendendo sulla carta, gli empivano la fantasia di visioni, di desideri, di curiosità acute. Era impaziente d'uscire di là per distrarsi da quelle idee; ma quando ne usciva era peggio: le strade erano affollate di gente rumorosa, allegra, ben pasciuta; pareva che la città fosse piena di denaro; i più umili operai ne spendevano e si davano bel tempo. C'era un formicolio di piccoli industriali e commercianti vagabondi, che andavano vendendo stampe, caricature, bosinate, fiori di carta, coccarde, medaglie, e decorazioni burlesche del Carnevalone; a Giovanni però non offrivano la loro mercanzia; lo guardavano con un ghigno ironico, come se dicessero: "Costui è a secco". I negozi di comestibili avevano delle mostre tentatrici; le oche grasse, i polli grossi e bianchi protendevano i loro ventri enormi accanto alle aragoste melanconiche, che movevano tratto tratto una zampa colla languidezza della loro vita agonizzante. I salami prendevano in quei giorni delle proporzioni esagerate, ed i formaggi preziosi, i tartufi, i pesci rari, i vini squisiti ingombravano le vetrine, attestando il grande assegnamento che i negozianti potevano fare sulla ghiottoneria e sulla prodigalità della gente. Presso ogni osteria, presso ogni caffè in certe ore si udiva un formidabile acciottolare di piatti, un acuto tintinnìo di bicchieri, di posate, e dalle cucine sotterranee salivano delle vampate d'aria calda ed odorosa, che evocava subitaneamente nella fantasia di Giovanni l'immagine d'una bella stanza da pranzo riscaldata, d'una tavola ben imbandita ed inondata di luce con tutte le imposte chiuse, dove si potesse isolarsi dal resto del mondo, nella beatitudine d'un buon pranzo e d'una compagnia allegra e spensierata. Quei giorni il suo desinare gli sembrava stomachevole; lo mangiava dispettosamente, tribolato dai pensieri ghiotti, e la sera non poteva lavorare; aveva l'animo amareggiato; non c'era più proporzione fra quanto guadagnava col suo lavoro, e quanto avrebbe dovuto spendere per appagare i suoi desideri; ed il lavoro gli pareva inutile. Usciva, si confondeva colla folla, si fermava alla porta dei teatri, dove la gente faceva coda per entrare. Tutte quelle persone, centinaia, migliaia di persone, avevano oltre al denaro necessario per vivere, anche quello superfluo per divertirsi. Lui solo non ne aveva; e s'aggirava, vestito leggermente, colle membra assiderate, al freddo, nella nebbia, pensando con avidità l'atmosfera ardente e soffocata dei teatri. Vedeva le maschere che correvano trepidanti dalle carrozze da nolo all'ingresso della Scala, e sparivano. Erano corpi di donne ravvolti in bianchi mantelli imbottiti, che li facevano apparire enormi; e gambe rosee, cilestrine, scarlatte, terminate da stivaletti di seta, portavano quella massa sproporzionata con certi passi precipitati, impazienti quando la folla ritardava d'un minuto il loro ingresso al veglione, frementi di precipitarsi in quel vortice di danze, di salti, di follie. Vedeva le signore scendere dalle carrozze padronali in gran toletta, coi lunghi strascichi di raso e di velluto per andar a vedere decorosamente il veglione dal loro palchetto; passavano altere lasciandosi dietro un profumo acuto. Gli uomini che le accompagnavano avevano il soprabito chiuso fino al mento, e lungo che copriva tutta la persona. Ma i guanti grigioperla che sporgevano dalle maniche ed il cappello a molla, facevano indovinare l'abito nero, la cravatta bianca, il largo sparato, il costume da serata. Giovanni se li figurava come se li vedesse in teatro già usciti dalla loro crisalide, quei grandi farfalloni neri; se li figurava belli e gaudenti, ed una malinconia profonda gl'inondava il cuore. Si stringeva intorno il suo soprabito insufficiente contro il gelo, e tremando, battendo i denti, s'affrettava verso un piccolo caffè, dove beveva un ponce per riscaldarsi, si sgranchiva un momento in quell'atmosfera calda ma impregnata d'odori d'alcool e di dolciumi, densa di fumo, opprimente, poi andava a letto per non vedere i godimenti che gli erano negati. Ma nella bassa soffitta gli giungevano ancora le grida stonate delle maschere, il rotare lento delle carrozze, assordato dalla neve come da un tappeto, o stridente sul lastrico diacciato. Il carnovale lo perseguitava anche nel letto; tutto raggricchiato per riscaldarsi sotto le scarse coperte, col capo di sotto per fuggire i fili d'aria pungenti che filtravano dai serramenti, pensava i piaceri della vita, facendoli coll'ardore dell'immaginazione più belli del vero. Si figurava i palazzi delle Mille ed una notte splendori di luce non mai visti, bellezze di donne ideali, nudità improbabili, sfarzo regale di stoffe e di gemme, ed ebbrezze d'amore. Poi, quand'era prostrato dalle lotte interne, dalle lunghe brame insoddisfatte, venivano i giorni pazzi, in cui, fin dal mattino, i carri delle maschere percorrevano le contrade a suon di banda, e le botteghe erano chiuse, e le insegne coperte da una tela bianca per proteggerle dai coriandoli. Nessuno lavorava più. Nelle strade, sui balconi, tutti gridavano. Si spandevano coriandoli da ogni parte, se ne vuotavano dei sacchi, se ne sprecavano centinaia di quintali, allegramente, ridendo, come se non costassero nulla; si gettavano fiori, arance, confetti, con una smania di buttarli via, col gusto, la rabbia dello sperpero. Pareva che tutta la popolazione, soprafatta da una ricchezza improvvisa ed esuberante, s'affrettasse a cacciar fuori dalle case quella sovrabbondanza d'averi che le ingombrava, e gioisse, tripudiasse nel levarsi d'attorno il peso di quelle superiorità eccessive. Le bande suonavano inni di gioia, tutte le voci s'alzavano in un immenso grido assordante; signori e facchini, uomini e donne, tutti giubilavano, danzavano sulle piazze, ardevano roghi, si mascheravano, gestivano pazzamente; tutti invasi da una follia gioconda. E Giovanni si sentiva solo a non aver la sua parte in quella festa dell'abbondanza e dell'allegria, solo ad aver freddo e fame; e ne provava una rabbia, un rammarico così intenso, che in mezzo a quella grande pazzia di giubilo gli pareva d'impazzir di dolore. Un'altra epoca di tortura per lui era l'estate, l'opprimente estate di Milano. Nato e cresciuto in campagna, avvezzo all'aria pura, alle colline verdi, alle gite solitarie sotto l'ombra dei grandi alberi, appena veniva la primavera sentiva la nostalgia della campagna; ed a misura che l'estate progrediva, quel desiderio d'aria pura si faceva acuto come uno spasimo. Tutti se ne andavano ai bagni, alle acque, in montagna, in Brianza, sui laghi; nelle contrade di Milano Giovanni non incontrava che gente laboriosa e stanca come lui; uomini d'affari, commercianti che avevano la famiglia in villa e la raggiungevano la domenica, impiegati che aspettavano il loro mese di congedo per fare una breve villeggiatura. Lui solo non aveva nessuno da raggiungere nei giorni festivi, non aspettava nessun congedo, doveva lavorar sempre, lavorare ogni giorno per vivere ogni giorno. La sua soffitta diveniva inabitabile; c'erano dei giorni in cui il caldo saliva a trentotto fin a quaranta gradi; allora c'era un'afa pesante che toglieva il respiro: mentre scriveva, il sudore dalla fronte, dalle tempia, gli sgocciolava sulla carta; le carni gli bruciavano; aveva sempre sete, ed ingollava con disgusto bicchieri e bicchieri d'acqua tepida, indigesta, che lo metteva tutto in sudore, e lo prostrava. La sera faceva delle lunghe passeggiate in cerca d'aria; ma sulle strade maestre, arse tutto il giorno dal sole, i piedi gli affondavano fino alla caviglia nella polvere, e ne sollevavano un tal nuvolo intorno, che gli andava in gola, lo soffocava, e lo imbiancava tutto. Lungo la strada di circonvallazione ed i bastioni, non faceva che percorrere tutta la scala degli odori puzzolenti. Al puzzo stomachevole d'una conceria, succedeva l'odore agrodolce, nauseabondo d'una tintoria che faceva il solletico in gola; più innanzi una filanda appestava l'aria col fetore dei bozzoli macerati, e gli orti spandevano intorno le esalazioni malsane del guano e dei letami. Tutto quanto era suscettibile di guastarsi sotto quei calori tropicali mandava un odore di putrefazione. Le botteghe dei salumai, i macelli, le latterie, i depositi di formaggi, le latrine, gli orinatoi, i rigagnoli, il naviglio, le spazzature delle case, tutto puzzava, tutto contribuiva a corrompere l'aria con un lezzo di fracidume, di sucideria, che sollevava lo stomaco. I pochi signori che si trovavano in città andavano in giro colla cravatta sciolta, col cappello in mano, servendosene come di un ventaglio; alcuni smettevano persino il solino. Gli operai erano scamiciati, colle maniche rimboccate e lo sparato aperto sul petto peloso; i portinai uscivano la sera sulle porte in mutande, coi piedi nudi nelle ciabatte. La domenica poi tutti uscivano dai dazi, andavano ad ammucchiarsi nelle osterie suburbane sotto i piccoli pergolati piantati in un cortile arido, che danno una languida illusione di campagna; mangiavano male, bevevano peggio, mal serviti, accaldati, impolverati; poi s'affollavano, s'ammonticchiavano negli omnibus per tornare in città, sbuffando, sudando l'uno sull'altro, asfissiandosi a vicenda colle esalazioni acri delle traspirazioni, delle digestioni difficili, delle ubbriachezze. Giovanni aveva provato una volta sola quella scampagnata degli Ambrosiani, e ne aveva avuto la febbre. Stanco, snervato, si trovava più infelice che mai in quell'ambiente al quale i suoi polmoni da campagnuolo non potevano avvezzarsi. Aveva delle visioni tormentose di grandi estensioni verdi, di acqua limpida, di alberi, di ombre, di meriggi ardenti nell'alto silenzio e nell'aria pura dei monti. Sognava una casetta bianca, colle gelosie verdi, in una vasta campagna solitaria; ci pensava con un ardore da innamorato. E quando incontrava una carrozza con un baule legato a cassetta che s'avviava verso la stazione, verso i campi, verso le frescure verdi, verso l'aria fine, provava una smania ardente d'attaccarsi dietro come un monello, poi rimaneva più triste, più scoraggiato, e malediva il destino che lo inchiodava inerte e miserabile, in una città dove aveva creduto di trovare la fortuna, la gloria e tutte le dolcezze della vita. La prima volta che il Berti gli affidò una causa, Giovanni si credé giunto alla meta desiderata. Era una causa civile fra due piccoli proprietari per un muro limitrofo. Una lite di puntigliuzzi puerili che non presentava nessun interesse. Ma egli ci si pose dentro con tutta l'anima; studiò le origini dei due possidenti e delle rispettive possessioni, risalendo alle memorie più remote. Fece uno spreco enorme di zelo, scrisse dei fascicoli di appunti, studiò la questione con un'acutezza di vedute, che sarebbe proprio il caso di chiamare degna di miglior causa. La sera, invece di sgobbare sui soliti lavori di traduzione o di copiatura, riandava tutto quello studio fatto e rifatto. Si preparava in mente il discorso che voleva pronunciare all'udienza, lo allargava, lo particolareggiava. Poi voleva udirne il suono, voleva provare i gesti. E si rizzava in piedi, serio senza troppa solennità, salutava in giro l'assito del mezzanino, e cominciava ad arringare semplicemente e con calma gli zoccoli e le forme che gli pendevano intorno. A grado a grado si animava, gli pareva di vedere, tramezzo a quei piedi grotteschi di legno, comparire la faccia bianca di Rachele che gli sorrideva per incoraggiarlo, e la parola gli veniva spontanea ed elegante coll'illusione d'essere ascoltato da lei, e si riscaldava, ed alzava la voce, finché lo zoccolaio spaurito sporgeva il capo ornato del beretto da notte per vedere se prendeva fuoco la casa. Quando si metteva a letto, stanco ed esaltato, sentiva in sé l'anima d'un legale illustre e s'inebbriava colla visione d'una vittoria che doveva stabilire la sua riputazione; pensava all'impressione che quella splendida riescita doveva produrre a Fontanetto. Gli pareva di vedere i mecenati inchinarsi a lui, il Pedrotti stendergli le braccia in atto di scusa, e tutte le comari e comarette del paese uscire sulle botteghe e sugli usci, e gridarsi l'una all'altra: "Eh! Il figlio del Dottorino? L'avvocato Mazza? Che gloria! ed ora sposa la figlia del signor Pedrotti del Castello!". Allora il suo spirito si smarriva nei sogni d'amore; saliva in un vagone solo con Rachele pel viaggio di nozze e chiudeva la sportello. Infatti, quando la causa fu discussa, Giovanni parlò come avrebbe potuto fare un avvocato provetto. Un collega, che per caso si trovava presente, andò a stringergli la mano, ed il suo cliente lo pagò generosamente. Ma fuori dall'aula del tribunale, nessuno s'interessò alle vicende di quel muro limitrofo, i giornali, naturalmente, non ne fecero parola, e, tre giorni dopo, quel grande avvenimento della vita di Giovanni era completamente passato, senza lasciare nessuna traccia, senza produrre altri cambiamenti nell'esistenza del giovine praticante, fuorché un po' più di quattrini nella borsa. Alla prima egli non poteva persuadersene. Quando rientrava nella bottega del fornaio, e dava la buona sera a quell'uomo scamiciato, sentiva di fare una degnazione, e pensava: "Se sapesse chi sono!". Il mattino, quando mangiava la minestra in un angolo della bottega presso il camino, si ricordava un vecchio piatto di terraglia che una contadina della Bicocca mostrava a tutti dicendo: "Vede? Qui dentro ha mangiato due ova Carlo Alberto. Mangiava come noi, tal quale. E dopo ho saputo che era il Re. Madonna santa!". Ma i giorni ed i mesi si succedevano; passò più d'un anno; ed i formai non erano ancora nel caso di meravigliarsi che Giovanni mangiasse come loro. Anzi la donna gli faceva sentire, senza punta riverenza, che mangiava un po' più di loro. Intanto, a misura che andava innanzi estendeva il circolo delle sue relazioni; gli erano toccate altre cause di poca importanza, ed era entrato in rapporti cordiali con due o tre clienti. I suoi compagni di studio avevano assistito alle sue arringhe, si erano mostrati entusiasti del suo ingegno e s'erano offerti di presentarlo al signor Tale, al cavalier Talaltro, persone influenti... Giovanni aveva accettate con premura le loro offerte. Ma quante noie, quanti sopracapi gli costavano quelle visite! Doveva provvedersi di guanti, di cravatte; doveva avere un cappello lucido, ed una camicia fine e ben insaldata; più volte dovette rinnovare le scarpe, che, senza quel caso, avrebbero potuto durare un altro mese. Per una visita ad un Commendatore fu ridotto a farsi prestare una pezzuola dalla zoccolaia, perché le sue erano tutte rammendate. Ma era nuova, un po' grossa; gli faceva una sporgenza nell'abito come se avesse avuto un panino in tasca; e quando ebbe bisogno di servirsene, si distese in pieghe ed angoli rigidi come di carta, e scricchiolò tal quale. E, dopo tante seccature, i risultati di quelle presentazioni ufficiose si riducevano quasi sempre a nulla. Il personaggio a cui un amico zelante lo presentava enumerando le sue qualità, il grado accademico, l'ingegno, la facondia, la sventura immeritata, ecc., ecc., rispondeva: "Ma bravo, bravo! Mi fa tanto piacere...". "Se mai potesse giovargli colla sua influenza..." suggeriva l'amico. A questo appello diretto, la potenza più o meno autentica lasciava cadere dall'alto una promessa più o meno vaga: "Ma senza dubbio! Ci conti. La terrò presente...". E Giovanni non ne sentiva più parlare, se non dall'amico che lo aveva presentato, per ricordargli che era in dovere di fare una visita in quella casa dove lo avevano accolto tanto bene. Nei casi eccezionalmente fortunati lo consultavano circa una vecchia lite, gli affidavano una causa di poco momento o un incarico ingrato. Egli ci si adoprava con zelo. Lo pagavano un po' meno di quanto avrebbero dovuto, in causa dell'amico, della presentazione, ecc., ecc., e tutto finiva lì. Allora si sentiva oppresso dallo scoraggiamento. Al poco che aveva occasione di poter fare metteva tanto studio, tanto impegno, che non poteva a meno di tenerne gran conto. Sapeva d'aver fatto tutto quello di cui era capace, e diceva: "Se con tanto lavoro non m'è riescito di farmi una rinomanza, è finita: vuol dire che non ci riescirò mai". Ed allora percorreva col pensiero una lunga esistenza di sacrifici e di fatiche ignorate per mantenersi in una mediocrità punto dorata; pensava a Rachele, che, non udendo più parlare di lui, avrebbe finito per sposare un altro; e se la vedeva passare dinanzi in tutto lo splendore d'una sposa ricca, mentre egli continuava a logorarsi la vita, unicamente per mangiar pane. In un giorno di sgomento pensò: "Le donne sono onnipotenti. Se mi facessi aiutare da qualcuna?". E si fece presentare alla signora di un grande imprenditore di strade ferrate. Era una donna di spirito indipendente, che aveva fatto a meno delle cerimonie ecclesiastiche e legali nella sua unione col ricco banchiere, e nelle precedenti. Giovanni era giovine e bello, e trovò grazia agli occhi della signora. Essa gli promise la clientela del banchiere, uomo prodigiosamente litigioso, che non badava a spendere, pur d'avere un buon avvocato, ed avrebbe certo data la preferenza ad uno raccomandato da lei. Ma era necessario che Giovanni frequentasse la casa, che l'imprenditore s'avvezzasse a lui, imparasse a conoscerlo, e poi... e poi... Mille promesse, di cui la bella donna mantenne soltanto quelle che avevano fatto i suoi occhi neri, e che dipendevano esclusivamente da lei. Ma in capo ad otto giorni Giovanni ne fu tanto disgustato che pensò di non rimettere più i piedi nella sua casa. Quella breve relazione non portò la menoma alterazione nei sentimenti del giovine avvocato per Rachele. Anzi, alla prima se la figurò piangente, desolata, e nella compunzione dell'anima pentita, sentì di amarla anche più, per tutto quel dolore che le aveva dato. Quand'era solo si metteva realmente in ginocchio dinanzi all'immagine che evocava della giovinetta, e le domandava perdono, e si sfogava in proteste, in giuramenti, in lacrime amare. Dopo quel disinganno ebbe un lungo periodo di abbattimento. Non si commoveva più quando gli affidavano una causa. Le sue illusioni erano sfrondate, e sapeva che, con quelle piccole liti, non c'era per lui da cavare un ragno dal buco. Tuttavia glie ne capitavano abbastanza di frequente, ed a poco a poco perdette l'abitudine delle scarpe logore, degli abiti spelati, e lasciò il mezzanino del fornaio. Ma, insieme alla miseria, era passata anche l'illusione della futura grandezza, ed era venuta la prosaica e triste mediocrità. Ho sbagliato carriera, pensava. Coll'avvocatura non si arricchisce. E si sentiva avvilito, al pensiero che dopo tre anni non era ancora in grado di presentarsi al castellano di Fontanetto, senza farlo sorridere di compassione a' suoi famosi guadagni di trecento lire al mese o giù di lì. Gli venne la curiosa idea di tornare alle grandi economie che aveva abbandonate, per metter da parte una somma ed arrischiare poi delle operazioni alla Borsa. Sapeva di patrimoni colossali che erano stati iniziati a quel modo, e diceva: "Chissà?". S'era fatto ingegnoso, durante i suoi anni difficili, nell'arte di vivere con meno denaro possibile. Ed infervorato nel pensiero di fare quell'ultimo sforzo per arrivare a Rachele prima che gli fosse tolta, non gli riescì grave d'abbandonare la sua nuova vita relativamente agiata; lo fece con entusiasmo, godendo in sé delle privazioni che s'imponeva, e per ogni scudo che aggiungeva a' suoi risparmi, giubilava come un avaro. Dopo un anno stava per avere mille e cinquecento lire, quando ricevette una lettera da suo padre che gli scriveva: "Sono pieno di debiti e di malanni; e, dacché non sono più in grado di dire le barzellette per tenerli allegri, i signori non mi danno più da pranzo. Non ho gran fede nella generosità umana e tanto meno nella voce del sangue. Ma spero che, per non tollerare che tuo padre vada mendicando, il che ti farebbe torto, penserai a provvedermi il necessario per questi ultimi anni. Non sono mai stato un padre tenero, ma è certo che fino a dodici anni, o bene o male, t'ho dato da vivere. Ed è ben difficile ch'io ti resti altrettanto tempo sulle spalle...". Giovanni tremava tutto nel leggere quella lettera. Gli pareva di sentirsi trascinare in un abisso. S'era creato un lieve sostegno, ed ora gli mancava sotto i piedi, ed acquistava la certezza che gli mancherebbe sempre. Omai quanto guadagnava era appena sufficente per lui e pel padre. Privandosi della somma raccolta, non poteva sperare di raggranellarla di nuovo. Tuttavia non gli venne neppure un momento l'idea di sottrarsi a quel dovere. Era un pezzo che non piangeva; e pianse disperatamente su quella lettera. Suo padre aveva mangiato e bevuto e s'era divertito, mentre lui si struggeva in quel lavoro da formica, per arrivare alla fanciulla che amava. Ed ora quel padre aveva il diritto di prendere il frutto de' suoi sudori e dei suoi sacrifici, e di dirgli: "Rinuncia alle tue speranze spontaneamente, o ti ci faccio rinunciare svergognandoti collo spettacolo della mia indigenza". Il suo cuore si ribellava a quell'ingiustizia, fremeva sotto la pressione di quel dovere gravoso, e, quando chiuse il denaro in una lettera raccomandata, non provò la soddisfazione di chi sente di far del bene, non si commosse della sorte miseranda del Dottorino, ma sentì un gran vuoto nel cuore, un grande sgomento dell'avvenire, un rammarico inenarrabile per la speranza che perdeva; e calcando con ira il quinto soggello sulla cera disciolta, mormorò: "Maledizione!". Era infatti una maledizione, una iettatura, una fatalità che perseguitava lui come perseguita tanti altri e lo condannava a vivere ignorato col suo ingegno, la sua scienza e tutte le sue superiorità. Omai, stanco d'aver lottato quattro anni inutilmente, scoraggiato da quell'ultimo colpo, s'abbandonava alla sua sorte, non isperava più. Pensava a' suoi sogni di fortuna ed a Rachele come ad una gloriosa visione svanita. Scacciava con vero spavento il pensiero che avrebbe potuto incontrarla al braccio d'un altro, e desiderava non rivederla mai più. Sentiva che si sarebbe vergognato dinanzi a lei. Aveva mancato alle sue promesse audaci, era stato presuntuoso, e la cattiva riescita lo accusava d'essere stato un presuntuoso ignorante. In fondo aveva più che mai la convinzione del contrario. Ma non è dato a nessuno di salire sui tetti e gridare alle turbe: "Badate ch'io sono un grand'uomo. Lasciatemi fare questo e quest'altro, e ve lo proverò". Bisogna che le circostanze ci aiutino; noi non possiamo che profittarne. Ma le circostanze non erano state favorevoli al povero Giovanni. Un giorno l'avvocato Berti lo chiamò nel suo studio, e gli comunicò un processo pendente per omicidio. Un acquavitaio aveva ucciso in rissa un servitore. Era un assassinio volgare, non c'era da fare una brillante difesa, e l'avvocato illustre la affidava al giovine sostituto. Giovanni prese a studiare la causa con quell'interessamento da artista che metteva sempre nei suoi lavori. Ma non era possibile negare la responsabilità dell'accusato. Oltrecché risultava chiara dalle prime inchieste e deposizioni, l'accusato stesso la confessava. Egli era inoltre un uomo intrattabile. Quando Giovanni lo vide, ne fu impressionato penosamente. Stava seduto nell'angolo più buio del carcere, coi gomiti sulle ginocchia e le guancie duramente appoggiate sui pugni chiusi, che gli raggrinzavano gli zigomi, e li rialzavano a nascondere gli occhi. Aveva sessant'anni, ma pareva un vecchione; aveva la testa calva e la barba bianca. Il suo sguardo era duro; il viso imbronciato come d'un uomo collerico. La presenza del giovine avvocato parve seccarlo più che altro. Non si mosse affatto al vederlo, e quando Giovanni gli si presentò come suo difensore, si strinse nelle spalle, e rispose: "Ho ucciso quell'uomo, non nego nulla. Non c'è bisogno del difensore". Per quanto Giovanni lo interrogasse, non volle dir altro. Quel cinismo cupo parve anormale al giovine avvocato. Egli si rivolse al carceriere: "Cosa dice l'imputato del suo processo?" "Non dice nulla perché non parla mai". "Come impiega la giornata?" "Sta quasi sempre seduto a quel modo. Qualche volta legge, o scrive colla matita sul muro". Giovanni volle vedere il libro in cui leggeva. Era una bibbia sporca e sdrucita, che si apriva da sé alla pagina dove parla d'un ricco, il quale avendo cento pecore aveva rubata la pecora unica d'un povero. Sul muro trovò pure delle sentenze contro i ricchi, alcune prese da libri devoti o da canzoni popolari; altre, meno felici, di sua invenzione. Sopra un'imposta c'era scritto: "Nel cuore dei ricchi c'è un serpente". Alla testa del pagliericcio si leggeva: "Il diavolo mette i suoi demoni nella pelle bianca dei ricchi per tentare i poveri". "Se ti chiami nobile ed hai del denaro, godi a questo mondo la tua vita da ladro, perché in quell'altro sarai carbone da riscaldare i poveri". Poi c'erano i nomi famosi che la rivoluzione francese ha resi popolari anche fra noi: Marat, Robespierre, Danton e sopra c'era scritto a grandi caratteri: "Evviva!". E sotto: "Gloria eterna!" Giovanni dopo quelle strane letture domandò all'imputato: "Siete socialista?". Egli non capì e non rispose. "Non vi piace come va il mondo" tornò a dire l'avvocato, "e vorreste cambiarlo?" Il vecchio prese con violenza la brocca dell'acqua che aveva accanto, e la capovolse furiosamente, senza curarsi dell'acqua che allagò il pavimento. "Vorreste capovolgerlo?" insistè Giovanni. "Eh!" sospirò il vecchio. Poi si strinse alto nelle spalle, e sospirò più forte: "Omai, a cosa servirebbe?". "Ma c'è un ricco che v'ha fatto qualche torto?" interrogò l'avvocato. L'imputato si rizzò sdegnato, quasi minaccioso, e gridò: "A me nessuno ha fatto torto, capisce? Sono povero, ma onorato. Ho ammazzato. Ebbene? Ma sul mio nome non c'è nulla da dire". Giovanni non ci raccapezzava nulla, perché l'uomo ucciso dall'acquavitaio era un povero servitore. Questi era entrato per bere nella bottega, ed il vecchio, al vederlo, senza precedenti di parole, gli si era avventato contro, urlando: "Ah, ladro, svergognato, servo dei ricchi, te la do io, ora, te la do!" E, con un coltellaccio che aveva afferrato sul banco, gli aveva squarciata la gola. C'erano cinque testimoni che s'erano trovati nella bottega, e narravano il fatto, che l'imputato non pensava affatto a smentire. Giovanni, preso alle strette, non poté scoprire nulla a favore dell'assassino. Ma domandò una perizia medica. L'idea fissa di quell'uomo era l'odio dei signori; poteva essere una mania, o un vecchio rancore. Nel primo caso, i medici gli avrebbero fatto giustizia; nel secondo l'avvocato avrebbe potuto arrivare ad indovinare il suo segreto, e forse a salvarlo. Intanto la perizia, che il tribunale accordò, dava tempo ad altre ricerche. Giovanni non tardò a mettersi in campagna. Quell'uccisione, improvvisa e violenta, doveva essere premeditata; e, per essere premeditata, doveva avere una causa. La sola causa che confessava l'imputato era l'odio pei ricchi; aveva ucciso quell'uomo perché era il servitore d'un ricco. Ma bastarono poche informazioni presso i frequentatori del negozio, per provare che di servitori di ricchi ce ne bazzicavano parecchi, e che l'acquavitaio li trattava bruscamente, ma non ne aveva mai offeso né provocato nessuno. Era dunque quel dato servitore che odiava, e nella causa di quest'odio poteva stare la scusa, o, almeno, una forte attenuante pel colpevole. Questi però diceva che non conosceva affatto la sua vittima. Che non l'aveva mai veduta prima di quel giorno. Bisognava indagare il suo passato per risalire alla causa vera che l'aveva spinto al delitto. Ma quell'acquavitaio Galbusera aveva sloggiato tante volte in quegli ultimi anni che i casigliani dell'ultimo casamento che aveva abitato lo conoscevano da poco, e non sapevano dirne nulla. Giovanni risalì la catena di quegli sloggi, da Porta Romana andò a S. Celso. Là il suo cliente era stato sei mesi, ma la bottega l'aveva in fondo alla via Gozzadini, fin dal semestre prima, quando stava a Porta Romana. Finalmente, a forza di correre e bussare a tante porte, in una catapecchia a Porta Ticinese, dove l'acquavitaio aveva abitato molti anni prima, Giovanni seppe che in quel tempo il vecchio aveva una figlia. Avevano sloggiato improvvisamente senza aspettare la scadenza del San Michele; però non avevano lasciato debiti, e la pigione era stata pagata. Che cosa era avvenuto di quella figlia del vedovo? Giovanni andò al carcere e ne domandò a lui. "Mia figlia è morta" rispose l'imputato. "E lei, la prego di non immischiarsi altro ne' fatti miei". Il vecchio s'era fatto tutto rosso, ed aveva parlato con tanta eccitazione che Giovanni si convinse d'aver posto il dito sopra una piaga. L'uomo ucciso dal padre doveva essere il seduttore della figlia. Dalla perizia medica era risultato che l'acquavitaio possedeva le piene facoltà intellettuali. In capo a pochi giorni si dovevano riprendere i dibattimenti. Intanto i giornali, nell'annunciare che quel processo per assassinio era stato rimandato, perché il difensore dell'Ambrogio Galbusera aveva domandata la perizia medica, avevano riferite le ragioni addotte in appoggio a quella domanda, che erano le invettive furiose del Galbusera contro i signori e le sue frasi stravaganti scritte sul muro della prigione. E questo era bastato perché quel processo, che al principio non aveva inspirato nessun interesse, suscitasse alquanta curiosità. Questa curiosità crebbe enormemente, quando ad un tratto si seppe che nel seguito del processo si troverebbe implicato il principale rappresentante d'una grande famiglia milanese, notissimo, oltre che pel nome storico che portava, pel suo sfarzo, per le sue avventure galanti, pe' suoi scialosi capricci, che assai spesso fornivano materia alla cronaca cittadina. Come accade, nacque gara tra cronisti a dare le informazioni più particolareggiate sul clamoroso scandalo che si preparava; ed il nome del giovine avvocato Giovanni Mazza fu su tutte le bocche, insieme a quello del signore citato fra i testimoni a difesa. Si seppe che la scoperta delle cause segrete del misfatto era dovuta allo zelo ed all'acume finissimo dell'avvocato Mazza; e la fantasia popolare eccitata creò una leggenda su questo giovine che aveva rifatta e compiuta da solo l'istruttoria del processo, ed aveva vinta, a forza di coraggio e d'energia, l'influenza che potenti personaggi avevano tentato di esercitare, per impedire che la verità fosse chiarita. Ecco, in sunto, la storia che i giornali narrarono e che i dibattimenti confermarono. Dodici anni prima del delitto, il Galbusera aveva bottega a Porta Ticinese, era vedovo con una figlia di quindici anni, che andava da una cucitrice ad imparare il mestiere. Il cocchiere Teodoro Donadio aveva cominciato a frequentare con assiduità la bottega dell'acquavitaio nelle ore della sera. Ben presto tutti s'erano accorti che faceva la corte alla giovinetta. Allora il Galbusera lo aveva preso a parte, e gli aveva detto che le donne della sua famiglia erano sempre state oneste, e che questa era la sua gloria. Se aveva intenzione di sposare sua figlia lo invitava a dichiararlo, ed a farsi conoscere; altrimenti egli non gli avrebbe permesso di comprometterla colle sue galanterie. Il Donadio aveva domandato tempo qualche giorno a rispondere, e poco dopo era tornato, accompagnato da un sigaraio della contrada, il quale era incaricato di domandare in nome suo la mano della Maddalena Galbusera. Il Donadio aveva soggiunto che egli serviva in una buona casa, che guadagnava a sufficenza per mantenere una famiglia e che certo il suo padrone non avrebbe avuto difficoltà a permettergli di prender moglie. Il Galbusera aveva incaricato il sigaraio, nel quale aveva fiducia, di presentarsi al marchese Trestelle, che era il padrone di Donadio, a prendere informazioni del cocchiere, ed a sentire se realmente non c'era pericolo che il matrimonio avesse a fargli perdere il posto. Il sigaraio non era stato ricevuto dal marchese Trestelle, ma dal suo segretario, il quale aveva preso nota dell'imbasciata, ed il giorno dopo aveva portato egli stesso la risposta del padrone: questi diceva ogni bene del Donadio, ed approvava il matrimonio. Le nozze erano state fissate pel San Michele, perché allora il Marchese sperava di poter dare due stanze agli sposi nelle soffitte d'una sua casa. Mancavano cinque mesi, ma non erano di troppo per cucire il modesto corredo. Del resto Maddalena era tanto giovine, che il padre aveva piacere di aspettare che avesse almeno compiti i sedici anni. Quando tutto era stato combinato, Donadio aveva cominciato ad andare ogni sera a prendere la sua sposa dalla cucitrice. Sovente la incontrava anche il mattino, e la accompagnava. Al negozio del futuro suocero si fermava più poco, ed aveva finito per non fermarvisi affatto, perché tanto vedeva Maddalena fuori, e preferiva di non far scene dinanzi agli avventori. Tornando dal magazzino la ragazza diceva: "Mi è venuto a prendere. M'ha accompagnata fin qui...". Una volta però, quando la relazione durava da circa quattro mesi, Donadio era stato quindici giorni senza farsi vedere; Maddalena era malinconica, ed il padre s'accorgeva che piangeva molto. Ci doveva essere qualche guaio fra gli sposi. Egli aveva interrogata la ragazza, che per un poco aveva negato la sua afflizione, ma presa alle strette, aveva finito per confessar tutto. Ed ecco la confessione di Maddalena. Fin dai primi giorni, Donadio, nell'accompagnarla a casa, aveva incontrato il suo padrone. Erano in via Arena. Non c'era nessuno, ed il Marchese s'era degnato di domandare al cocchiere se quella era la sua sposa, e di farle dei complimenti. Poi s'erano incontrati altre volte, ed in quelle circostanze il servitore si tirava da parte, e lasciava che il signore s'intrattenesse con lei. Il Marchese era più bello, più gentile, più raffinato del cocchiere. E la giovine cucitrice si era lasciata dire delle belle parole. Se n'erano veduti degli altri marchesi e conti sposare delle ragazzette; a quindici anni si crede tutto possibile. Dacché quel signore lo prometteva... Soltanto, in causa della sua alta condizione, egli non poteva farlo sapere fino all'ultimo momento; bisognava lasciar credere che lo sposo fosse il cocchiere... Intanto ogni mattina il padrone si trovava fuori di porta colla carrozza. Donadio conduceva Maddalena fin là, ella saliva accanto al Marchese e passava la giornata con lui. Un mese circa prima del San Michele, servo e padrone avevano cessato di farsi vedere. La ragazza era andata al magazzino dove la maestra la trattava con diffidenza in causa della sua poca assiduità, e le ragazze parlavano della sua relazione signorile, che avevano scoperta. Vedendo passare i giorni e le settimane senza che il Marchese si facesse più vivo, l'afflizione aveva sopraffatta la giovinetta, che s'era confidata alla maestra cucitrice, e questa le aveva detto che da quindici giorni il Marchese Trestelle aveva sposata la figlia di un ricco banchiere di Genova, e che, dopo il viaggio di nozze, sarebbe andato a stabilirsi a Genova presso la famiglia della sposa. Quanto al cocchiere Donadio, fosse o no col padrone, era scomparso da Milano. E Maddalena era incinta. Dopo questa confessione della figlia, il Galbusera aveva lasciata improvvisamente la casa di Porta Ticinese senza aspettare la scadenza, per nascondere la sua vergogna. La maestra cucitrice, alla quale Maddalena s'era confidata, l'aveva raccomandata ad una levatrice di Monza, dove la fanciulla avrebbe potuto rimanere sconosciuta. Due mesi dopo la giovinetta era morta di un parto immaturo. Galbusera aveva passati dieci anni a ruminare la sua collera, il suo dolore e la sua vergogna, schivando i vecchi conoscenti, mutando quartiere ogni volta che sospettava d'essere riconosciuto, tremando al pensiero d'incontrare Donadio o il suo padrone. Un giorno il Donadio era entrato nella sua bottega; ed egli lo aveva ucciso. È impossibile descrivere la commozione prodotta in Milano dai dibattimenti di questo processo. E non solo in Milano, ma in tutta Italia se ne parlò. Era capitato in un momento in cui le cose politiche offrivano poco interesse, ed i giornali si gettarono affamati su quel dramma criminale. La passione di partito, come al solito, concorse ad infiammare gli spiriti. I fogli repubblicani e socialisti descrissero l'assassino come un eroe, e portarono a cielo persino le sentenze tracciate sul muro, ed i bigliettini sgrammaticati che scriveva Galbusera nel carcere. Mentre qualche giornale conservatore insinuò a mezza bocca che l'ingerenza attribuita al marchese Trestelle era una macchina montata per spillargli del denaro, e per diffamare la classe sociale a cui apparteneva. Il sapersi fatto segno all'attenzione generale, fu un colpo di sprone potentissimo per l'ingegno di Giovanni. Fino dalle prime udienze, nella discussione di alcuni incidenti, fu meravigliato egli stesso del calore della sua parola e del vigore dei suoi ragionamenti. L'udienza in cui comparve il marchese Trestelle - udienza i cui particolari furono la sera stessa telegrafati distesamente a tutti i giornali d'Italia - fu un trionfo per l'avvocato Mazza, tanta fu l'arte con cui riescì ad ottenere dal teste la confessione completa della verità, e tanto felici furono le apostrofi, ora sarcastiche, ora sdegnose, con cui umiliò l'albagia di quell'individuo, e gl'inflisse la condanna morale che la sua condotta si era meritata. La sua arringa, che coronò i dibattimenti, superò l'aspettativa dell'uditorio, ed è tuttora ricordata nel foro milanese come un modello d'eloquenza. Non fu una difesa legale; fu uno studio psicologico e sociale, nel quale le figure dell'imputato, della vittima, del seduttore e della giovinetta, furono ritratti come tipi impersonali, per modo che la discussione prese un carattere elevatissimo. Quella causa, la quale, alla prima, era sembrata nulla più che uno scandalo volgare, si trasformò grazie all'arringa del Mazza, e prese aspetti affatto nuovi. Si mutò in una grande tragedia, piena di profondi insegnamenti. Quando Giovanni si pose a sedere, affranto dalla fatica durata, il presidente non ebbe forza di frenare il clamore degli applausi e delle acclamazioni. Quanti erano nella sala, avvocati, letterati, magistrati, giornalisti, tutti unanimi pensarono: "Un grande ingegno s'è rivelato". Nessuna fortuna mancò in quell'occasione a Giovanni; il verdetto de' giurati non fu completamente negativo, ma, escludendo la premeditazione e ammettendo la "forza semi-irresistibile", ridusse leggera la pena. I giornalisti offersero un banchetto al nuovo criminalista illustre. I giovani legali ne organizzarono un secondo. Ed egli, in mezzo a quelle feste, ripensò sorridendo il lontano banchetto di cinque lire dei praticanti dello studio, che gli era costato tante umiliazioni e tanti sacrifici. E ripensò con un tripudio di gioia alle speranze che aveva credute morte. Le vide risorgere più belle, perché d'un tratto, da un giorno all'altro, aveva raggiunta quella rinomanza, che sembrava essergli sfuggita per sempre. Ormai la sua situazione era assicurata; l'avvenire gli si presentava glorioso, ed i denari non potevano mancar di venire. Ad ogni articolo di giornale che gli giungeva pieno d'encomi, pensava: "Lo leggerà Rachele; suo padre pure lo leggerà". E tornava colla fantasia a quel triste giorno d'autunno, in cui passando, sconsolato e respinto, lungo il fossato del castello, aveva esclamato: "Anche lei! Ebbene, vedrà!". Ecco; ora lo vedeva di che cosa era stato capace. "Ah! M'è costato caro, ma sono riescito!" diceva. Ed era glorioso della sua costanza, degli stenti sofferti. Era felice di sentirsi giovine e d'avere tanto avvenire dinanzi a sé. Dopo quel processo cominciò per Giovanni una vita nuova, tutta movimento, tutta azione, in cui le ventiquattro ore del giorno non bastavano ai suoi affari. I clienti si facevano sempre più numerosi. Un circolo politico lo nominò relatore per le elezioni. Fu invitato a collaborare in vari periodici legali, e scrisse articoli sopra un progetto di legge pendente, che furono commentati dai più accreditati giornali. Il suo ingegno, la sua dottrina, rimasti ignorati fin allora, si rivelarono potentemente, ed in breve tempo il suo nome acquistò grande notorietà e divenne popolare. In cinque anni che aveva passati coll'avvocato Berti, non era mai stato presentato alla moglie del principale. L'aveva veduta parecchie volte entrare con un grande fruscio di seta nello studio del marito, lasciandosi dietro un'ondata di profumo alla violetta, che gli aveva data una grande idea della sua eleganza. Qualche volta lei lo aveva guardato traverso il velo di trina, ma non gli aveva mai rivolta la parola. Il giorno dopo il famoso processo dell'acquavitaio Galbusera, l'avvocato disse a Giovanni: "Mia moglie desidera conoscerti. Vieni domani a sera a prendere il tè da noi. Ti presenterò". Non c'era mai stata intimità fra loro. Il principale gli dava del tu come ad un subalterno, ad un giovinetto, non come ad un amico. Tuttavia Giovanni aveva acquistata bastante esperienza, per comprendere quel cambiamento improvviso; e sorrise di quell'uomo d'ingegno che, conoscendolo da cinque anni, aveva aspettato, ad apprezzarlo, che lo avessero apprezzato prima il pubblico ed i giornali. L'entrare in casa di quel superiore diretto, il presentarsi a quella matrona, alla quale egli attribuiva quasi il doppio della sua età, lo metteva in soggezione. Infatti la signora Berti aveva varcata di qualche anno la quarantina. Ma non aveva figli, era bella, prendeva una cura grandissima della sua persona, vestiva con eleganza, frequentava i teatri e le feste da ballo, scollata, colle braccia nude, coi fiori in capo: danzava, faceva le chiacchierine galanti coi giovinotti, amava che le facessero la corte, e lo lasciava comprendere. Giovanni aveva capito facilmente da' suoi modi leziosi, e dalle occhiate, e dal vestire, che quella signora aveva delle pretese giovanili; ed era impensierito del modo di mettere d'accordo quelle aspirazioni coll'età di lei, e colla qualità di moglie del suo principale; due cose che lo intimidivano. Quando entrò in casa Berti, l'avvocato lo accolse come un camerata; appena lo vide, gli andò incontro colle mani stese; poi gli prese il braccio confidenzialmente e, nel fargli traversare due sale per condurlo da sua moglie, gli disse: "Trattiamoci da amici, dammi del tu. Qui non c'è più principale né sostituto. In casa mia ricevo i miei amici...". E fermandosi per ripetere una stretta di mano soggiunse: "ed i miei colleghi". Poi gli affermò che ormai, dopo il processo Galbusera, egli aveva preso posto fra gli avvocati più valenti di Milano, e tirò via a discorrere del suo genere di eloquenza forense, confrontandolo col proprio, discutendo le sue argomentazioni, ammirando le sue trovate. Giovanni fu commosso, e strinse egli pure cordialmente la mano di quell'uomo, che aveva giudicato artifizioso e rettorico, e che ora cominciava a conoscere sotto un altro aspetto. Il Berti non ci metteva studio nelle tirate sentimentali che da tanti anni formavano la sua gloria; era realmente un uomo sentimentale malgrado i suoi cinquant'anni. Aveva la fantasia poetica, il cuore appassionato; era una natura romantica. Durava fatica a tenersi un po' in sussiego coi giovani di studio, perché amava la gioventù, si univa volontieri ai suoi spassi, ne aveva l'ingenuità, la spensieratezza, lo spirito avventuroso. Dapprincipio le difese di Giovanni, serrate, positive, senza quelle tirate declamatorie colle quali egli faceva piangere le signore ed abbarbagliava i giurati, gli erano sembrate fredde: "Non ha sangue nelle vene, costui" diceva. "Non sa commovere; non fa nulla pei suoi clienti". Ma quando aveva udita nel processo Galbusera la parola del giovine avvocato attingere tanta efficacia dalla semplice esposizione dei fatti, ne era stato vivamente impressionato, ed aveva risentito un sincero piacere del trionfo del suo sostituto. Rimanendo rettorico, perché era nato ed invecchiato così, capiva il merito d'un sistema differente e più verista. La cordialità della signora fu meno candida. Lei pure era contenta realmente d'avere nel suo salotto il giovine avvocato che faceva parlare di sé tutta Milano; ma era contenta per vanità, non per sentita ammirazione di lui. Tanto lei che il marito avevano delle aspirazioni giovanili. Ma nel Berti erano effetto d'una natura entusiastica e sentimentale, che l'età non era riescita a disilludere. Nella signora erano vanità e civetteria. Tutta la sera ella prestò un'attenzione quasi esclusiva a quel nuovo venuto illustre; lo presentò alle signore, che fecero a gara nell'invitarlo alle loro serate, e ad ogni invito rispose per lui: "Sì; te lo condurrò martedì, te lo condurrò domenica. Sono io che lo patrocino, come allievo di mio marito...". Poi soggiungeva, ridendo come chi dice una cosa stravagante: "Gli faccio da mamma". E Giovanni era obbligato a protestare che era troppo giovine, e bella, e che una mammina così inspirava tutt'altro che riverenza, tutt'altro... Un po' colla sua protettrice, un po' da solo, Giovanni fece il giro delle conversazioni di Milano. La sua bella figura, i suoi modi d'una semplicità elegante, il contegno dignitoso, l'umore giocondo, e soprattutto il suo spirito brillante, lo rendevano simpatico a tutti. Gli uomini lo consultavano sulle questioni politiche e sociali, e facevano gran caso del suo parere. Le signore si dolevano perché non ballava, dicevano che alla sua età era una pedanteria, e lo invitavano loro stesse per una polka, per una quadriglia, col pretesto d'insegnargli a danzare, ma, in realtà, perché amavano di passeggiare al suo braccio per le sale, di conversare con lui, di sentirlo dire dei complimenti, un po' diversi da quelli convenzionali che udivano sempre. Infatti Giovanni cominciò a ballare, e nel carnovale seguente prese parte alle danze, sebbene molto moderatamente, e divenne uno dei giovani più ricercati ed alla moda. Ma l'impianto di uno studio e d'un piccolo quartiere, il vestire elegante, il vivere in una locanda buona e ben frequentata, come conveniva alla sua nuova situazione, erano cose dispendiose assai. C'era sempre nel suo cuore lo sgomento di avvezzarsi a farla da parassita come suo padre, e che un giorno s'avesse a dire di lui: "Vive alla mensa dei signori come il Dottorino". Misericordia! Per evitar questo, prodigava mazzi di fiori, gingilli artistici, palchi in teatro alle famiglie che lo invitavano a serate ed a pranzi. Tutto questo gli costava caro. I suoi guadagni bastavano appena per le sue spese e pel sussidio che mandava a suo padre; ed in mezzo a' suoi trionfi, era sempre lontano, lontano assai, dall'ideale del signor Pedrotti: "Un marito ricco per sua figlia". Ma questo pensiero non lo perseguitava più tanto. La memoria di Rachele, sempre soavissima quando gli tornava alla mente, vi tornava con minore insistenza. L'idea di sposarla era sempre fissa in lui, come un patto contratto con sé medesimo, come un destino. Ma le impazienze ardenti di raggiungere quella meta non le provava più, ed altri ardori, altre impazienze ne avevano preso il posto nel suo cuore. Dacché era liberato dalle cure affannose della vita materiale d'ogni giorno, dacché s'era adagiato in un'esistenza comoda e si vedeva circondato dal lusso e dalla bellezza, la sua potente vitalità giovanile gli aveva ridestata nell'anima la sete dei piaceri, tanto più viva, quanto più lunga ne era stata la privazione. Si sentiva affascinato dalla bellezza provocante delle dame, che gli sorridevano e gli stendevano la mano. Contemplava avidamente le loro spalle e le braccia nude, e quando non eran vestite da serata, le ripensava, le rivedeva coll'immaginazione, traverso i velluti e le sete. I fuggevoli amoretti delle sartorine e delle crestaie, che avevano interrotta di tratto in tratto l'uggia della sua vita da giovinotto povero senza occupargli né la fantasia né il cuore, ormai non lo allettavano più. Nella sua natura da poeta era istintivo l'amore dell'eleganza. Amava le donne belle, ben vestite, che parlano bene. Amava di entrare nella loro atmosfera signorile, di mettersi ai loro piedi sopra un ricco tappeto, di sedere con esse sui divani di raso, di sentire il profumo dei loro capelli e dei loro guanti. Anelava alla sua parte di felicità, al romanzo tempestoso della gioventù, si trovava nell'ambiente che poteva crearlo, e si compiaceva, coll'immaginazione appassionata, a figurarselo pieno di emozioni e di gioie. Una sera, che in una festa da ballo s'era nascosto fra due vasi di camelie, per abbandonarsi all'estasi snervante di quei sogni, si vide dinanzi un braccio meravigliosamente bello, ed una voce soave ed affannosa gli disse: "Per carità, venga a ballare questa quadriglia. Ho dovuto ritirarmi per ravviarmi i capelli, e sono rimasta senza ballerino". Egli si rizzò sbalordito, cogli occhi fissi su quelle braccia, su quelle spalle, su quel seno, su tutta quella pelle bianco-rosata da bionda, che gli pareva la realtà della sua visione d'amore. Seguì la bella donna trasognato e muto, sbagliò tutte le figure della quadriglia a cui non badava punto; non cessò mai di fissare la sua ballerina con uno sguardo avido. Si sentiva oppresso. Aveva incontrata parecchie volte quella signora, era stato in casa sua, la conosceva, sapeva che era bella, ma non aveva mai provata nessuna commozione accanto a lei. Si erano trattati con quella certa confidenza compagnevole e gioviale che le donne avvezze alla società accordano spesso ai gentiluomini, e spesso Giovanni parlando di lei aveva detto: "Mi piace, perché non ha la pretesa che le si faccia la corte. Si può parlare con lei come con un amico". Invece, in quel momento d'eccitazione gli parve che quella bellezza fosse fatta per lui, che la rivelazione di quelle forme, provocantemente nude, fosse una conseguenza delle sue fantasticherie amorose; che le avesse evocate, e gli fossero apparse. Non parlava affatto, ed aveva l'aria turbata ed infelice. "Che cos'ha, avvocato?" gli domandò la contessa. "Siete troppo bella!" rispose Giovanni colla voce sommessa ed affannosa d'un uomo appassionato. La contessa rimase sbalordita. Ebbe un sussulto come se avesse ricevuto un colpo nel petto. Comprese che avrebbe dovuto risentirsi, rimproverare il suo cavaliere troppo audace, oppure voltargli le sue belle spalle e piantarlo solo. Ma in realtà non provò nessun risentimento. Aveva infatti ricevuto qualche cosa come un colpo nel petto, come l'urto d'una pila elettrica. Lo stesso turbamento che opprimeva Giovanni oppresse anche lei. Finirono la quadriglia muti, agitati, in uno di quegli affannosi silenzi d'amore, più eloquenti ed espansivi di qualunque parola. Le loro mani s'incontravano tremando, si stringevano a lungo, si separavano lentamente e con rammarico; i loro sguardi s'incrociavano e rimanevano avvinti come due lame calamitate; i loro petti erano oppressi da una grande malinconia, da uno sgomento ignoto, e lei aveva voglia di piangere. La contessa Gemma Castellani di Monte era una donna ambiziosa e scettica. Fin dall'adolescenza aveva amato il lusso sfrenatamente, e quella passione, crescendo cogli anni, aveva invaso tutto il suo cuore. Da bimba in collegio aveva sempre ricercate le compagne ricche e nobili, disprezzando quelle che non avevano una mamma elegante, delle carrozze e dei servitori in livrea. Fatta più grande, poi, desiderava un ricco matrimonio ed un titolo di nobiltà con tale ardore che non le rimaneva cuore per altri sentimenti. L'amore la faceva sorridere. Se udiva di due sposi innamorati che si isolavano per vivere l'uno all'altra, crollava le spalle con disdegno e diceva: "Che gusti!". In fatto di matrimonio s'interessava soltanto di conoscere la rendita, il corredo e le toelette della sposa; se questa andrebbe in società, se riceverebbe molto, se avrebbe molti cavalli e belle carrozze. Per conto suo, in fondo in fondo all'anima, aveva anche una speranza vaga di cavalcate eleganti e di lunghi abiti all'amazzone. Ma era figlia d'un banchiere che aveva una numerosa famiglia e che, per non dissestare i suoi affari, non poteva darle più di centomila lire di dote. Sua madre le aveva fatto capire che con una dote così modesta non bisognava manifestare molte esigenze per non impaurire i pretendenti. E la bella Gemma, che per nulla al mondo non avrebbe voluto diventare una zitellona, s'era tenuto in cuore il suo cavallo da sella, salvo a tirarlo fuori e ad imporlo al marito quando fosse ben sicura che questi non potesse sfuggirle. Ma faceva grande assegnamento sulla sua bellezza, e non volle sacrificare i suoi sogni d'ambizione ai giovani agenti di cambio, avvocati, piccoli possidenti, che le offersero il loro cuore ed una situazione modesta. Un giorno le fu presentato, in una casa aristocratica, un generale in ritiro, che aveva il titolo di conte, trenta capelli bianchi per tutta capigliatura, e sessant'anni sonati. Qualcuno bene informato disse che era milionario, e la bella Gemma confidò alla padrona di casa che nessun giovinotto le aveva mai fatta un'impressione tanto buona come quell'uomo "dall'aspetto nobile e dalla fronte intelligente". Del resto non era vecchio; lei non credeva che avesse più di cinquant'anni; certo non li dimostrava; ed a cinquant'anni un uomo è sul fiore dell'età. Lei aveva diciannove anni appena; ma era sicura che, se l'avesse domandata in moglie, non avrebbe avuto difficoltà a sposarlo; un marito deve avere acquistata una lunga esperienza della vita, per essere guida sicura ad una giovine sposa. Lei non capiva come si potesse affidare il proprio avvenire, la propria felicità ad un giovinotto spensierato... Sapeva con chi parlava, la bella Gemma. La sua confidente riferì i discorsi della giovinetta al generale milionario; riferì di nuovo a lei l'espressione della gratitudine del conte, e quanto avrebbe desiderato di possedere una giovine sposa così bella e ragionevole; ma, alla sua età, non osava domandarla; temeva di rendersi ridicolo... "So bene che lui non ci pensa" disse Gemma. "Neppur io ci penso; non ho mai sognato che mi toccasse una simile fortuna. So che il babbo ha in vista un banchiere ricchissimo, un giovinetto... Lo sposerò; ma se m'avesse domandato quest'uomo serio, l'avrei accettato con maggior fiducia..." Daccapo la signora confidente riferì quegli incoraggiamenti impliciti della sua giovine amica, e, dopo due mesi, la figlia del banchiere diveniva contessa e milionaria, ed aveva fra i suoi doni di nozze un bel cavallo da sella. Erano passati i primi sette anni di matrimonio con una rapidità vertiginosa. La contessa Gemma correva con una smania febbrile di festa in festa; lusso, divertimenti d'ogni sorta, ricevimenti sfarzosi che assorbivano in una serata la rendita di un anno, villeggiature splendide, l'avevano inebbriata. S'era abituata subito al suo titolo, ma si compiaceva sempre di sentirselo dire; e gli elogi alla sua eleganza, le ammirazioni, per quanto iperboliche, non la saziavano mai. Nei primi tempi il marito, prendendo sul serio la sua missione di guida presso la giovine sposa, aveva cercato di frenare quella foga esagerata, e ne erano nati dei dissensi, che avevano rese anche più vive per la contessa quelle soddisfazioni che doveva ottenere al prezzo di lotte acerbe. Era ancora un trionfo della sua vanità l'aver vinta l'opposizione del marito. Alla fine il generale s'era rassegnato ad essere semplicemente una guida materiale, per accompagnare sua moglie dovunque ella sapeva di trovare una soddisfazione d'amore proprio o un diletto. Alle bagnature di Baden e di Vichy, alle invernate di Nizza, alle mostre mondiali di Parigi e di Londra, ai ricevimenti di corte il vecchio soldato compariva immancabilmente presentando la sua bella dama. Con un simile treno di vita cinquantamila lire di rendita sono ben poco; si fecero dei debiti, si tirò innanzi finché si poté, ma all'ultimo s'era dovuto darsi vinti ai creditori, e ridurre le spese alla modesta rendita che era rimasta per non finir male. Allora la superba signora aveva abbandonate le società aristocratiche dove, per nulla al mondo, avrebbe voluto comparire meno splendidamente di prima, e s'era messa nei circoli della borghesia, nei quali si poteva far buona figura anche con una carrozza ad un solo cavallo, e senza nessun cavallo da sella. Ed ecco in che modo Giovanni l'aveva incontrata in casa della signora Berti, e delle sue conoscenti. La galanteria aveva sempre lusingata la vanità della contessa, ma la passione non aveva mai parlato al suo cuore. Il suo stesso lusso, il suo orgoglio, avevano intimidito gli amori nascenti. Quanto a lei, amava troppo se stessa, troppo le premeva di far parlare di sé come della dama più elegante di Milano, per aver mente e cuore ad innamorarsi. Forte della sua bellezza e della sua gioventù non aveva bisogno di civetterie per farsi ammirare: e quella mancanza di civetteria, e l'altezza che le veniva dalla grande opinione che aveva di sé, le avevano fatta una riputazione d'onestà ed era stata la sua salvaguardia. Era considerata una fortezza inespugnabile. C'era voluta tutta l'eccitazione, il rapimento, la follia a cui era giunto Giovanni quella sera, nella lotta tra la sua imperiosa vitalità giovanile ed i suoi desiderii d'amore insoddisfatti, per gettare così in faccia ad una signora, che tutti giudicavano onesta, quelle tre parole ardenti come un bacio: "Siete troppo bella!". La contessa aveva ventotto anni, e di tutte le ebbrezze dell'amore non aveva conosciute che le carezze del suo vecchio marito. La passione, latente nel suo cuore, si accese come una fiamma all'urto di quello sguardo, al suono di quella voce. Ella non pensò di resistere a quel fascino come non aveva pensato mai di resistere a nessuno de' suoi desiderii. Il suo egoismo era grande come una passione; non sapeva negar nulla a se stessa. Quella notte, rientrando dal ballo, sola nella sua stanza, pianse di gioia e d'impazienza, ripensando le strette di mano e gli occhi neri e profondi di Giovanni. Dove l'avrebbe riveduto? Quando? Era tutto un orizzonte inesplorato di delizie che le si apriva dinanzi: una vita nuova. Dopo l'orgoglio di sapersi ammirata e bella, l'orgoglio più intenso di sapersi amata e la gioia d'amare. Giovanni si sentiva attirato da quella donna. La ricercava, la seguiva, la avvolgeva in una rete di passione. E quando la lontana immagine di Rachele gli si presentava alla mente, non più come una visione di cielo, ma come una meta da cui si allontanava, egli diceva come per tranquillarsi: "Questo amore passeggero per una donna maritata è un fiore che si coglie per via. Non impegna a nulla". Ma per nessuna cosa al mondo avrebbe rinunciato a cogliere quel fiore. Andava dappertutto dove sapeva di trovare la contessa; le stava sempre accanto coll'occhio avidamente fisso sulla sua persona bella. Coglieva l'occasione, nelle figure delle quadriglie, per stringerle la mano, e pareva che tra quelle mani ci fosse un filo conduttore d'elettricità che le facesse tremare all'unisono, e le congiungesse così fortemente, che il distaccarle era una pena e, separate, si ricercavano. Giovanni ballava poco. Ma una sera, trovandosi accanto alla contessa mentre intonavano una polka, le porse la mano in silenzio, ed ella accettò. Allora se la strinse al cuore come se volesse rapirla, la riscaldò, la arse in quell'abbraccio, le sfiorò i capelli, la accarezzò tutta quanta nella stretta delle due persone congiunte, poi, nel ricondurla a sedere, le serrò le mani con una forza che compendiava tutte le strette amorose, supplichevoli, ardenti, intime con cui aveva parlato a quella mano cara durante il ballo. Ma non le disse nulla. Era felice di quella passione calda che lo invadeva tutto. Si sentiva amato, s'inebriava, s'inteneriva in quelle mute dolcezze; amava di assaporarle; non sentiva il bisogno di precipitare il romanzo colle spiegazioni che lo avrebbero abbreviato. Sapeva che una spiegazione verrebbe. Vedeva la gioia suprema che lo aspettava, e lasciava che venisse da sé, di tenerezza in tenerezza, temendo quasi che, affrettando il momento supremo, avesse a perdere una di quelle sfumature del sentimento, uno di quegli episodi puerili e muti, che lo deliziavano. Pensava le spalle bianche, la vita flessibile, i capelli biondi della contessa Gemma, ricordava fremendo le sue strette di mano febbrili, i suoi lunghi sguardi innamorati; ed ardeva tutto all'idea che quella donna sarebbe sua. Dove? Come? Quando? Non ne sapeva nulla, ma era certo di possederla; e quella certezza lo inebbriava. Un giorno la signora Berti gli aveva dato appuntamento in casa sua, perché doveva presentarlo a qualcheduno misteriosamente. Infatti Giovanni trovò nel salotto della sua amica la signora del banchiere Ipsilonne, il quale era seriamente compromesso in un processo che si stava iniziando per una grossa falsificazione a danno dello stato. Una somiglianza fatale della sua scrittura con una delle firme falsificate lo accusava, e, dei due periti calligrafici chiamati dal tribunale, uno dichiarava di conoscere la mano di scritto del banchiere, e l'altro esitava, senza osare di negare la sua colpabilità. Ma in realtà egli era innocente. La moglie desolata giurava per lui, e si raccomandava a Giovanni perché ne assumesse la difesa, coll'impegno, coll'amore che aveva posto nella difesa del povero acquavitaio omicida. Era un processo interessantissimo, che prometteva all'avvocato un nuovo trionfo, e la causa di quell'uomo integro, fatalmente implicato in una truffa vergognosa, lo appassionò. Mise il suo tempo, la sua mente, il suo cuore al servizio del nuovo cliente. Impose silenzio alla sua passione, e, senza accordarsi il tempo per rivedere e salutare la contessa, si recò a Napoli, a Roma ed a Torino, per assumere documenti, prove e testimoni in favore del banchiere. Poi tornò a precipizio, perché la mattina seguente dovevano cominciare i dibattimenti. Giunse a Milano coll'ultimo treno della sera, dopo essere stato assente più di una settimana. Rientrando in casa trovò un telegramma del parroco di Fontanetto che lo aspettava da sei giorni. Partecipo con dolore morte dottor Mazza, tuo padre. Trovato esanime in letto stamane; spirato, pare, iersera. Regolamenti sanitari vietano differire sepoltura oltre ventiquatt'ore. Telegrafa ordini funerali. Dopo sei giorni i funerali dovevano essere fatti e dimenticati. Non era molto che Giovanni aveva spedita al padre una piccola somma; poi c'erano i mobili di casa. Egli pensò che ormai non c'era più bisogno de' suoi ordini, e tanto meno della sua presenza a Fontanetto, che del resto il processo del domani rendeva assolutamente impossibile. Egli aveva fatto il suo dovere, anche a costo di grandi sacrifici, sovvenendo il padre nella sua miseria; ma non era un figlio devoto. La vita da parassita, le ubbriacchezze del Dottorino, la sua servilità verso i signori, le sue violenze in casa, e l'ultimo degradamento del delirium tremens a cui lo sapeva ridotto, non lo invogliavano a correre al suo paese, per raccogliere l'eredità di sprezzo, che doveva essere l'unica successione del povero morto. Sapeva che in quel momento non avrebbe inspirata nessuna simpatia, perché era troppo viva la memoria di quell'ignobile vita e di quell'ignobile morte. E d'altra parte non gli premeva più tanto di produrre un'impressione favorevole a Fontanetto. Non s'era bastantemente arricchito per domandare Rachele, pensava. Ma in realtà, mentre cinque anni prima quel momento gli era sembrato tanto lontano, ora trovava che era troppo presto per ammogliarsi. Rispose con un telegramma, che la notizia gli era pervenuta troppo tardi e per conseguenza non aveva potuto assistere ai funerali; che confidava nel parroco, il quale certo aveva fatte le cose ammodo. Giovanni pensò con profonda tristezza la vita miserabilmente trascinata per trent'anni da suo padre, la sua morte vergognosa, tutta quell'esistenza oscura, senza elevatezza e senza affetti, e ne sentì un infinito rimpianto Il Dottorino aveva forza ed ingegno. Senza dubbio avrebbe potuto far qualche cosa; ed era passato così. Ed egli era suo figlio; forse aveva ereditato il germe del carattere paterno; forse le passioni abbiette che avevano rovinato il padre gli stavano latenti nel cuore aspettando un momento di snervatezza, d'inerzia, per svilupparsi e per vincerlo. Questo pensiero lo impaurì, gli riaccese più viva nel sangue la smania del lavoro, l'ambizione della gloria che incalza, il desiderio della ricchezza per assicurarsi l'indipendenza. E passò tutta la notte allo studio del suo grande processo per prepararsi alla difesa. I dibattimenti durarono una settimana, e furono una serie di trionfi pel giovine avvocato. Ormai era noto e famoso; ogni sua parola era aspettata, ripetuta in giro, riferita dai giornali. Il fatto solo ch'egli doveva parlare, faceva accorrere una folla di gente, stenografi, giornalisti; le sue frasi erano ridette, commentate nelle conversazioni, i suoi criterii facevano legge per molti, ed erano discussi e presi in considerazione anche dalle persone più serie. Ogni sera egli trovava alla sua porta un fascio di biglietti da visita, riceveva lettere di congratulazione, parole d'ammirazione e d'amicizia. Egli però era ancora sotto l'impressione triste della morte del Dottorino. Rientrando in casa, gli pareva sempre di doverci trovare il cadavere di suo padre, decrepito anzi tempo, morto nell'ubbriacchezza. Avrebbe voluto non pensarci, e non poteva. Ogni giorno vedeva nella tribuna la contessa che stava ad ascoltarlo. Era splendida di bellezza e d'eleganza, ed attirava tutti gli sguardi. Ma lei non guardava che il giovine difensore. Giungeva presto; quand'egli entrava era già là ad aspettarlo. Gli fissava in volto i suoi occhi d'un turchino metallico, e rimaneva immobile, cogliendo al volo lo sguardo di lui quando alzava il capo, lanciandogli un'occhiata tagliente, acuta, penetrante, che gli andava all'anima traverso le pupille. Durante la sua difesa, più volte egli la guardò; era appassionato e commosso, e sentiva il desiderio d'un volto amico. Lei era sempre nella stessa posizione, coll'occhio intento su lui, come per forza magnetica. La pupilla azzurrina era velata da uno strato vitreo: piangeva; non colla pezzuola, né con una mano sugli occhi; piangeva lasciandosi cadere lungo le guancie le lacrime lente, che pendevano tremolanti ai lati del mento, e si staccavano come perle per caderle sul seno, dove segnavano dei larghi dischi plumbei sulla seta cenerina del vestito. Giovanni era turbato da quegli sguardi, da quelle lacrime, da quella bellezza affascinante, da quell'amore prepotente che sfidava le convenienze per rivelarsi a lui. In quei giorni di tristezza sentiva d'amare la contessa con una tenerezza dolce da sposo. Non provava gl'impeti di passione sfrenata di un mese prima, non aveva il desiderio febbrile di stringerla, di stritolarla sul suo cuore, di mordere le sue carni rosee da bionda. Avrebbe voluto sederle accanto in un misterioso silenzio, e piangere sul suo seno. Ogni giorno si proponeva di andar da lei; ma differiva sempre. Si deliziava di quell'aspettativa, della stessa intensità del suo desiderio. E non cessava di pensare a lei. Il Dottorino era caduto in un tale stato d'ebetismo, che era passato dall'ubbriachezza alla morte senza forse avvedersene, certo senza poter chiamare aiuto, né aiutarsi. La Matta l'aveva trovato freddo, stecchito nel suo letto, ed era corsa ad avvertire il parroco, e questi l'aveva mandata a chiamare il procaccio per spedirlo subito a fare il telegramma a Borgomanero. "È pel signor Giovanni" diceva la Matta al procaccio. Ed era in tale orgasmo all'idea di rivedere Giovanni che non pensava più alla tragedia che era avvenuta in casa. Si fermava all'ingresso delle botteghe, e susurrava come chi teme di destare qualcuno che dorme: "È morto il padrone! È morto briaco!". E faceva atti di meraviglia; pareva che ricevesse lei quella notizia invece di darla. E quando lo stupore dei bottegai era passato un pochino, ripigliava, raggiante di gioia, come se fossero trascorsi degli anni, e non ci fosse nessun rapporto tra la nuova luttuosa della morte, e l'avvenimento felice che annunciava: "Ora il padrone è il signor Giovanni; servirò lui". La sera il parroco, vedendo che il figlio non veniva né rispondeva, disse che bisognava seppellire il cadavere. La Matta rimase atterrita. Guardò il morto, che aveva la bocca contorta come se la schernisse dalla sua cassa, e pensò che stava per andarsene. Poi pensò alla lontananza ignota del padrone giovine, e si mise a piangere ed a gemere: "Oh Dio! Come farò a trovarlo? Come farò?" Era sempre stato il suo ideale, povera donna, di servire un giorno Giovanni, di vivere con lui. Nella devozione del suo amore da schiava, non aveva mai desiderato altro che di servirlo; ma lo aveva desiderato con un'intensità passionale, ne aveva fatta la méta della sua vita in questo mondo; e quando in chiesa pensava vagamente al paradiso si figurava ancora Giovanni in alto, e lei a' suoi piedi; un atteggiamento cui non avrebbe osato aspirare nel suo stato presente, ma che le pareva d'una dolcezza paradisiaca. Intanto pregustava piaceri più terreni. Passava delle ore incantevoli ad immaginarsi di preparare un pranzo per Giovanni. Sapeva che amava il risotto, pensava tutta la cucinatura d'un risotto squisito; vi aggiungeva idealmente dei funghi, e fin dei tartufi; e rideva di gioia all'illusione di vederglielo mangiare e di sentirsi dire: "Com'è buono!". Si faceva insegnare dalle cuoche del farmacista e del parroco una quantità d'intingoli complicati, per nutrire i suoi sogni d'amore. Ed ora dov'era mai quel padrone che voleva servire con tanto cuore? Dove trovarlo? E se si fosse smarrita per via? Ed anche il morto se ne andava. Lei non lo aveva amato; ma ne aveva presa cura perché era il padre di Giovanni, e perché sentiva vagamente che quel vecchio inebetito era un legame tra la casa ed il giovine assente. Il morto fu messo sotterra; e quando la Matta tornò dal cimitero, sfigurata dal piangere lungo e disperato, trovò il parroco, che era tornato prima di lei, e faceva esaminare a parecchi creditori i mobili del defunto. I denari che riceveva dal figlio il Dottorino li spendeva all'osteria, dall'acquavitaio, dal tabaccaio; ed aveva lasciati dei debiti presso tutti i bottegai e presso il padrone di casa. "È un debito di quattrocento lire in tutto" diceva il parroco. "Poi ci sarebbe quel poco funerale, e la messa... Sul figlio non c'è da contare, perché non ha nemmanco risposto e non è venuto; ma, vendendo i mobili, se ne caverà una piccola somma che forse basterà a pagar tutti". La Matta, che era stata ad ascoltare a bocca aperta, si fece pallida e tremò. Vendere i mobili! I mobili, fra i quali aveva sognato di vivere il resto de' suoi giorni con Giovanni! Il suo letto; la tavola dove pensava sempre d'apparecchiargli da pranzo. E quei libri che gli piacevano tanto! Rimase un poco assorbita in riflessioni difficili, senza più badare ai discorsi degli altri che parlavano di vendita amichevole di asta giudiziaria di altre cose che lei non capiva. Poi se ne andò, corse ad aprire la sua cassa, e ne tolse il libretto della cassa di risparmio, che portò al parroco, ridendo di gioia cogli occhi ancora gonfi di pianto. "Cosa vuoi farne?" domandò il parroco. "Comperare i mobili..." implorò la povera donna. "Sarebbe un prestito che faresti al figlio del tuo padrone?" "Sono suoi" disse la Matta con generosa convinzione. "E il padrone è lui". "Ma dei mobili cosa vuoi farne?" "Portarli al padrone. Ma bisogna insegnarmi la strada". Il parroco rimase perplesso. Non voleva abusare della generosità stupida della povera serva. D'altra parte sapeva che i mobili del Dottorino non potevano fruttare in tutto che un centinaio di lire. Invece, le cinquecento lire all'incirca che offriva la Matta erano bastanti per pagare i creditori ed anche la parrocchia. Ci pensò a lungo, perché non aveva la mente molto svegliata; ma finì per trovare una soluzione: "Tu comperi i mobili per conto dell'avvocato" disse alla Matta. "Più, gli presti il rimanente della somma per pagare i debiti di suo padre. Io farò in modo che ti rimanga da pagare il viaggio ed il trasporto dei mobili. E tu, andando a Milano colla roba, gli dirai la cosa com'è, e ti farai restituire il fatto tuo. Gli dirai che, se non ha fede nella tua parola, scriva pure a me, ch'io attesterò del prestito che gli hai fatto di cinquecento lire...". Di tutto questo la Matta non capì nulla, assorta com'era nell'idea d'andare a Milano da Giovanni e di portargli i suoi mobili, che dovevano fargli tanto piacere. Dove fosse Milano, come potrebbe arrivarvi, non ci pensava più. Il parroco le avrebbe insegnata la strada. Andava a servire Giovanni, a fargli da pranzo, a spazzolargli i vestiti, a rifargli il letto. Come si proponeva di rivoltare le foglie del pagliericcio! di farle stare sollevate perché il letto fosse morbido! Lei non conosceva ancora i pagliericci elastici. Diceva alle vicine: "Ora non gli mancherà più nulla, poveretto. Ora sono io che lo servo!". E lo diceva con un intenerimento, con un senso d'abnegazione, come se, dacché era lontano da lei, nessuno gli avesse più resi quei servigi, e stesse squallidamente abbandonato, aspettando lei. Era trasfigurata dalla gioia. Salutava tutti dicendo: "Non mi vedrete più". Ma quella parola tristissima delle separazioni eterne, la ripeteva giubilando: non poteva cessare di ridere; quel riso era diventato una contrazione involontaria del volto; una convulsione di gioia. Passò parecchi giorni e spesso vegliò anche la notte per pulire, involgere, imballare, sempre col pensiero smarrito nelle visioni, lungamente vagheggiate, di piatti in cucinatura, destinati a Giovanni, delle scarpe di lui infilzate nel suo braccio, e lustrate, lustrate, fino alla lucentezza d'uno specchio, fino ad indolorirle la spalla pel resto della giornata. La partenza da Fontanetto sul carro, la strada ferrata, che vide per la prima volta a Novara, non la distrassero dalle sue fantasie. Osservò con ispavento i facchini che portavano i mobili verso i carri delle merci, lontani dalla carrozza di terza classe, dove il carrettiere, dandole il biglietto, aveva indicato a lei di salire; poi si avviò verso le merci per viaggiare accanto al suo deposito. Ci vollero spiegazioni infinite per farla tornare al suo posto. Guardava con diffidenza quel pezzo di carta che doveva farle restituire i mobili a Milano e lo teneva preziosamente stretto in mano, sebbene dubitasse del suo valore. Il carrettiere le disse: "Vedrete come si va presto là dentro. Altro che sul carro!" Ma lei non gli diede retta rispose soltanto: "Siete sicuro che me li restituiranno quando sarò a Milano?" Si avvide appena della rapidità della corsa; non poteva essere bastantemente rapida pel suo desiderio. Scendendo a Milano si gettò sul primo impiegato delle ferrovie che vide, col suo biglietto in mano, e non badò a nulla, fuorché alla ricerca dei mobili. Il facchino che li caricava, vedendo quella specie di selvaggia, le disse: "È la prima volta che venite a Milano?" La Matta stese ansiosamente le mani verso uno stipo sgangherato che egli stava sollevando e non rispose. "Vedrete com'è grande e bella Milano!" tornò a dire il facchino. "Più del vostro paese. Di dove siete?" "Badate che non si rompa; posatelo pianino" gridò la Matta tutta assorta nella responsabilità di quello stipo. Percorse le contrade, a piedi, dietro i due carri tirati dai facchini, cogli occhi fissi sui mobili, senza badare ad altro. In piazza del Duomo il facchino ciarliero si voltò per godere della sua meraviglia. Ma la Matta non guardava il Duomo. Pensava che stava per veder Giovanni, per comparirgli dinanzi improvvisamente, le batteva il cuore, ed aveva una inesplicabile paura. Poi pensava alla gioia che proverebbe ricevendo i suoi mobili. "Tanta bella grazia di Dio che volevano vendere!" Il facchino le gridò: "Ohe! Guardate un po' in su. È più bello del San Gaudenzio di Novara". La Matta alzò gli occhi; vide una massa bianca e smisurata colla Madonna in cima, si fece il segno della croce, poi riprese a camminare a capo chino. "Stupidi villani!" mormorò il facchino ambrosiano; e diede un urtone al carro dei mobili, per vendicarsi. La Matta aveva un bigliettino che le aveva dato il parroco coll'indirizzo di Giovanni, Via del Capuccio N... Non aveva voluto darlo al facchino, l'aveva presentato tutto spiegazzato a due o tre persone domandando ansiosamente: "Dov'è? Da che parte si va?" Ed aveva preteso di dirigere i facchini dietro quelle indicazioni. Furono essi invece che la guidarono, e si fermarono al portone che a lei, incapace di leggere i numeri, sarebbe sfuggito. Giovanni non era in casa. Lo scrivano dello studio aperse l'uscio, e rimase sbalordito al vedere quella contadina seguita da due uomini carichi di vecchi mobili. Il giovine avvocato non aveva che lo studio, con un salottino annesso, e la camera da letto. Lo scrivano esitava a lasciar ingombrare le stanze con quelle anticaglie. Ma la Matta lo guardò ben bene in aria di sfida, e gli disse: "Sono i suoi mobili, ed io sono la sua serva". D'altra parte i facchini grugnivano "che non potevano rimaner sull'uscio eternamente con quei pesi sul capo". Bisognò lasciarli deporre il carico, una volta, due, tre, finché ebbero vuotati i carri. C'era una stia sulla scrivania dell'avvocato, e la vecchia libreria vuota, posata contro l'armadio della camera da letto, ne nascondeva lo specchio. Nel vano del balcone entrò come una nicchia il cassone dei libri, e dappertutto seggiole zoppicanti, materassi rotolati, fodere da pagliaricci, credenze. La Matta contemplò avidamente il mobiglio del piccolo quartiere che le parve splendido. "Questa però non è roba sua", pensava. Aveva una vaga rimembranza di discorsi uditi quando Giovanni era all'università, che non aveva bisogno di portarsi un letto né altro perché gli dava tutti i mobili la padrona di casa. "Sono più belli dei suoi" diceva fra sé guardando il letto di ferro vuoto, e le modeste poltroncine di damasco di lana, "ma sono troppo belli, danno soggezione. Non si potrebbe prendere la rincorsa e saltare su quel tavolino, lucido a quel modo; ci resterebbe l'impronta dei piedi..." E, tutta rasserenata a quell'idea gioconda dei salti che Giovanni faceva da fanciullo, riprese a sorridere alle vecchie tavole che ingombravano il passaggio. "Come si troverà più libero fra questi mobili suoi che conosce..." E si figurò di vederlo rallegrarsi di quegli oggetti come di vecchi amici; le pareva che dovesse guardarli ad uno ad uno, e ridere delle memorie che gli richiamavano, e quasi accarezzarli, e poi dire a lei che era contento di riavere la sua roba, e che aveva fatto tanto bene a portargliela, guai se l'avessero venduta! E fregarsi le mani, e saltare, e dire: "Ora sì che mi sentirò in casa mia, e staremo bene!" Era tutta animata evocando col pensiero l'immagine del bel giovinetto che era partito dal paese cinque anni prima, ma se lo figurava più gaio, più felice pel dono che lei gli portava. Guardò i suoi abiti appesi ad un attaccapanni, li rivoltò da ogni lato, introdusse timidamente una mano nella fodera d'una manica, poi sorrise e disse forte: "È seta!" Vicina al letto c'era una poltroncina, e sul tappeto una pianella capovolta. La raccolse, cercò sotto il letto la compagna, e le dispose una accanto all'altra. Accarezzò lo schienale imbottito della poltrona, passò leggermente una mano sul sedile; le batteva forte il cuore; si sentiva opprimere; cedendo ad un'attrazione irresistibile, si guardò intorno come se temesse di venir sorpresa, poi si mise a sedere sull'orlo di quella poltroncina dove sedeva lui. Una specie di ebbrezza la invadeva; tremava tutta; era commossa e finì per abbandonarsi ad un pianto silenzioso e dolce. Finalmente s'udì il campanello. La Matta balzò in piedi e corse all'uscio dello studio. Era lui che tornava di certo; e lei era là in casa sua a riceverlo, a servirlo. Come doveva essere contento di vederla là! Le si struggeva il cuore dalla tenerezza. Diede un'occhiata rapida al letto laggiù in fondo alla camera, ed all'uscio, e le splendevano gli occhi come due fiamme. Forse pensava se traverso la toppa si potesse vederlo dormire, come laggiù nella stanza di Fontanetto. S'udì lo scrivano aprire l'uscio del salotto, poi una bella voce, sonora come una musica di chiesa, disse in tuono di grande meraviglia: "Che cosa c'è?" "È giunta una contadina... La sua serva..." rispose lo scrivano. La Matta che s'era sentita commossa fin nelle viscere da quella voce, ringoiò un singhiozzo che la strozzava, e s'affacciò all'ingresso del salotto gridando: "Son io, signor Giovanni, son io!". Poi si mise le mani giunte fra le ginocchia, e stette a guardarlo dondolandosi e ridendo, ridendo finché gliene rimasero gli occhi pieni di lacrime. "Oh! sei tu, poveretta! Come va? Come va?" disse Giovanni cordialmente. La Matta non poté che rimettersi a ridere, perché quel gruppo in gola non la lasciava parlare. "Mi fa piacere di vederti" soggiunse l'avvocato, battendole una mano sulla spalla. "Brava! mi fa piacere". Questa volta il gruppo uscì dalla gola in un singhiozzo, e la povera donna si nascose il volto nelle cocche della pezzuola del capo che le pendevano sotto il mento. "Via via" tornò a dirle Giovanni affettuosamente, "non agitarti. Siedi. Riposati. Parleremo più tardi". Ed entrò nella sua camera. Ma ne uscì presto, stette un momento sull'uscio per assicurarsi che il primo impeto di commozione era passato poi disse: "E così? Com'è che hai portati questi mobili?" "Sono suoi" rispose la Matta, ed il suo volto s'irradiò di gioia nel dargli quella nuova consolante. "E tu hai fatto il viaggio apposta per accompagnarli?" domandò Giovanni, senza esternare il piacere che la Matta s'aspettava. "Sei stata ben buona, e te ne ringrazio". La Matta ripeté ancora: "Era giusto; sono suoi". "E non ci sono debiti da pagare laggiù?" "No, no. È pagato tutto". Giovanni aveva mandato sufficiente denaro a suo padre per poter credere facilmente che fosse morto senza lasciar debiti, ed avanzando da pagare i funerali. Fece un giro nello studio, guardando la stia sulla scrivania, due panche da letto ritte contro un casellario, pigliando in mano una vecchia cassetta pel sale, che era sulla tavola dello scrivano; poi tornò dalla Matta e ripeté i ringraziamenti. "Sei stata troppo buona davvero. Non metteva conto di venire fin qui per questi cenci. Si sarebbe potuto venderli là; oppure avresti potuto tenerli". "Oh, sono suoi" disse per la terza volta la povera donna col cuore serrato. "Non importa" riprese Giovanni, "te li regalerei volentieri in compenso delle cure che hai avute pel povero babbo". La Matta si sentiva gelare il sangue di dentro. Non era l'accoglienza che s'era aspettata; le pareva che la mettesse fuori dell'uscio, e tremava tutta di vedersi sola nel mondo. Giovanni, vedendo che rimaneva a capo chino senza rispondere, credette di comprendere, e ripigliò: "Ma forse non sapresti dove metterla questa roba; non puoi portartela in casa dei padroni. Dove andrai ora?" le domandò con affettuosa premura. "Hai trovato da collocarti?" Fu un colpo di pistola in mezzo al cuore per quella serva devota. Non la voleva! Non ci pensava nemmeno di tenerla con sé! Quella delusione la colpì così dolorosamente che si lasciò ricadere sulla sedia e si mise a piangere ed a sospirare: "Oh povera me! O povera donna me!" Giovanni le sedette accanto, cercò di consolarla. "Non affliggerti così. Se non hai padrone, lo troverai; intanto puoi rimanere qualche giorno qui, e poi ti darò del denaro perché tu possa aspettare in casa della tua balia finché non ti capiti da collocarti bene. Sai che non sei una donna abbandonata. Ho de' doveri verso di te, e li riconosco volentieri..." Passeggiò su e giù per la stanza, come impacciato dalla presenza di quella donna, poi guardò l'orologio e vide che erano le sei: "Ma tu avrai fame" disse con premura. "Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano". La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa. "Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?" domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza. Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: "Io non so". Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: "Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò". Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire. E pensò che lei era come quell'asino. Si rizzò convulsa, scese le scale barcollando, Giovanni la seguì. Provava una grande pietà per quella povera creatura. La condusse egli stesso in un piccolo albergo modesto, dove altre volte aveva mangiati i suoi modesti pranzi da una lira, e la raccomandò all'albergatrice. Poi le disse prendendole una mano come avrebbe fatto con una signora: "Sei stanca, poveretta. Ora mangerai bene, berrai un buon bicchiere di vino, e ti metterai a letto. Addio; stai di buon animo. Vieni a trovarmi prima di partire. E se hai bisogno di me, ricordati". Se ne andò commosso e pensoso. Quella comparsa gli faceva tornare alla mente vaghe e lontane le immagini del passato: il suo poetico amore, mezzo morto, soffocato dalla passione che lo divorava. Ma quello era l'amore dell'avvenire, l'amore dell'età tranquilla, il riposo, la pace. Ora aveva nell'anima la tempesta. Quell'ultimo giorno la contessa lo aveva magnetizzato, bruciato coi suoi lunghi sguardi. In certi momenti era penetrata nel suo cuore fino a fargli tremare la voce, a mettergli un singhiozzo in gola. Colla fissità innamorata di quegli occhi larghi e chiari gli aveva detto ancora ed ancora che lo amava, che era sua. Ed egli sentiva che era vinto, che non potrebbero più vivere separati, che avevano assaporate tutte le note dell'incantevole preludio dell'amore, che erano giunti a quello stato d'esaltamento che rende felici od uccide. E per essi non c'erano ostacoli, non dovevano morire. Quella notte vegliò febbrilmente sognando l'ultimo rapimento dell'amore confessato, la gioia ineffabile e crudele di possedere quella donna, d'abbandonarsi a lei, di confondere le loro vite in una passione colpevole. Il mattino fece sgombrare lo studio dei vecchi mobili di suo padre. Incaricò lo scrivano di farli mettere sul solaio, e di riporre i libri nella libreria. Aspettava qualche cosa; era agitato; avrebbe voluto che la sua casa fosse bella. Non osava pensare che la contessa poteva venire; ma aspettava qualche cosa da lei; era certo di vederla; quel giorno sarebbe andato e le avrebbe detto che la amava. Ma sperava che lo scrivesse prima lei. Andò a sedere alla scrivania; ma era impaziente. Ad ogni scampanellata guardava l'uscio ansiosamente; se tardavano ad entrare, gridava allo scrivano che era andato ad aprire: "Chi è?" Una volta lo scrivano gli rispose: "È il cameriere della locanda. Viene per quella donna di ieri..." "Ah! Va bene, pagalo" rispose Giovanni distratto. Ma poco dopo lo scrivano rientrò: "Dice che vuol parlare con lei". Giovanni accennò col capo di sì, e guardò il cameriere per invitarlo a parlare. Questi crollò il capo, poi disse: "Era disperata, povera donna!" "Disperata! Perché?" "Non so. Non ha voluto parlare. Andò a rannicchiarsi in un angolo della bottega e rimase tutta la sera cogli occhi da spiritata. Urlava come un cane rabbioso, e si cacciava le unghie nella fronte". "Ma cosa aveva?" domandò Giovanni. "Sie... Aveva un bell'interrogarla in tutti modi, anche la padrona. Non rispondeva nulla, la respingeva ed urlava più forte. C'è voluto tutto a farla andare in camera quando si dovette chiudere l'albergo. E tutta notte l'abbiamo udita gemere. Poi questa mattina la padrona la trovò ancora rannicchiata in terra; non s'era messa a letto. Disse che voleva tornare al suo paese, e non ci fu verso. Bisognò metterla nell'omnibus e condurla alla stazione pel primo treno di Novara. Non sapeva neppure prendere il biglietto; l'ho preso io..." Giovanni rimase impensierito. Aveva ascoltato un po' distrattamente, ma pure s'interessava della povera serva; disse a mezza voce: "Cosa potrà avere? Ma!". Poi pensò che i campagnoli non sanno stare lontano dai loro paesi. Quella poi non se ne era scostata mai, ed era un po' scema; s'era spaurita... Prima che il cameriere uscisse, s'udì un tocco del campanello; e portarono una lettera a Giovanni. Era la lettera della contessa. Egli si alzò, e corse a leggerla solo nella sua stanza. Alla Matta non pensò più. La bella contessa Gemma, avvezza ad appagare tutte le sue brame ad ogni costo, appena s'era sentita nascere nel cuore un amore, vi si era abbandonata senza la minima resistenza; l'aveva anzi fomentato coll'immaginazione, aveva pregustate con delizia le sorprese di quella nuova gioia che si prometteva. S'era figurata l'ora inebbriante e soave della confessione; le parole ardenti, gli sguardi innamorati e profondi, le carezze febbrili; ed aveva vissuto quell'ora col pensiero, coll'ansia del desiderio; ne aveva provate le emozioni, intense fino allo spasimo, fino al delirio; e di giorno in giorno aveva detto: "Sarà domani". Poi i domani s'erano succeduti monotoni e lenti senza portare nessun avvenimento nel suo romanzo d'amore; ed allora la contessa s'era sentito stringere il cuore da apprensioni paurose: "Se non lo vedessi più? Se non mi amasse? Se quella sera avesse ceduto ad un'eccitazione momentanea e poi l'avesse scordata come si scorda un'ora d'ubbriachezza?". Ed allora le era parso che le mancasse qualche cosa di profondamente caro, di necessario alla sua esistenza; aveva provato un bisogno potente che, comunque fosse, ubbriachezza, eccitazione, delirio, quella sensazione durasse nell'animo di Giovanni; oppure si rinnovasse, se quel breve tempo l'aveva dissipata. E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 2 occorrenze

Una biblioteca è un cimitero - ripetè l'illustre critico abbassando la voce. La bella duchessa lo scrutò con occhio benevolo e soggiunse sorridendo: - Mi avete detto altre volte che dobbiamo ai frati le prime biblioteche: la prima delle ultime si è aperta ieri, la - Vittorio Emanuele". Non vi è mai sembrato che le vecchie biblioteche sentano fin troppo il convento? Ne ho visitate poche, ma ne ho sempre ricevuto la stessa impressione: che scaffali poveri e gelidi, che panche da chiesa o da refettorio! In fondo a tutte un tavolone con una lucerna sepolcrale pendente dal soffitto. Generalmente erano costrutte a navata. Gli uomini, che vi studiavano, dovevano essere penitenti, i libri di autori morti, tutte le opere un testamento. D'estate vi si sentiva un freddo d'inverno, d'inverno vi si sarà gelato addirittura. Una volta, sola con un domenicano, calvo e terribile, udendo il pavimento echeggiare sotto il mio passo leggero di donna gli domandai se v'erano sotto le prigioni. - E vi rispose? - Sorridendo che v'era la cantina. Ebbene abbiamo ragione noi moderni di volere allegri i cimiteri e le biblioteche. - Forse! ma saranno senza monumenti. - Accettereste per caso la formula di Victor Hugo, il libro ha ucciso il monumento mentre - ella aggiunse con sardonico sorriso - i nostri municipi non fanno che smentirla tutti i giorni? Oramai mancano le piazze per le statue. - La formula di Victor Hugo è terribile quanto giusta, ma sciaguratamente ce n'è un'altra più terribile, che egli forse non ha presentito: se il libro ha ucciso il monumento, il monumento è morto anche nel libro. Non si scrivono più capolavori. - Perchè? - Le ragioni sono troppe, dirne una sola, che le riassuma tutte, non è forse meno difficile di un capolavoro. Perchè non siamo noi più belli? Uno scienziato vi risponderà: perchè nella nostra educazione coltiviamo lo spirito trascurando il corpo, e così crederà di avere risposto. Ma questo è un effetto non una causa. Prima che il culto del corpo venisse trascurato, nello spirito sarà stata mortalmente ferita l'idea della bellezza. Perchè? Perchè non abbiamo noi più fede? Se la fede è una visione, l'arte è un processo fotografico che la fissa. Quale è dunque il nostro concetto della vita? Quale il nostro concetto della morte? Come ogni visione è un fatto individuale, così i sensi del corpo e le facoltà dello spirito in ogni individuo hanno una potenza forse indeterminabile ma predeterminata. La prima condizione per fare un capolavoro è dunque che esso esista nella zona, che la vita di un individuo può abbracciare. Ora la nostra vita individuale ha confini ben tracciati, abbastanza difesi, dai quali nessuna invasione di fatti o di idee possa irrompere devastando le pianure o affumicando gli orizzonti, entro cui deve formarsi la visione del capolavoro? Oggi che tutte le barriere sono abbattute fra popolo e popolo, e si fanno le ferrovie sotto il letto dell'oceano, e si sventrano le montagne, che cosa è la patria? Pei popoli, che dicono di averla, è il sentimento di un fatto già trascorso; pei popoli, che non l'hanno ancora, il sentimento di un fatto futuro. I popoli liberi dichiarandosi uguali vogliono uniformare leggi e costumanze, conciliare tutti gli interessi per annullare tutte le differenze; i popoli schiavi aspirano alla patria per smarrirla all'indomani nella fratellanza universale. La patria è il mondo, non vi è dunque più patria. Quale è la nostra religione? - La mia? - esclamò la duchessa con un sorriso - aspetto che me lo diciate. - La vostra risposta invece di essere spiritosa è profonda. Noi non abbiamo più religione: il sentimento religioso è rimasto perchè immortale, ma delle sue molte costruzioni nessuna è ancora dritta in fondo alle coscienze. Rovine dunque! Al principio del nostro secolo la poesia le ha cantate, adesso anche il canto è cessato perchè furono distrutte anche le rovine. La critica arrivò d'ogni lato con un'orda di scienziati, che si divisero ringhiosamente i rottami vantandosi con essi di ripetere l'edificio. Qualche volta son arrivati a ridisegnarne la pianta, e urlarono al miracolo, come se la pianta del Campidoglio rifatta dal Canina, quand'anche vera, potesse valere, non dirò nella coscienza di un popolo, ma nella immaginazione di un artista lo spettacolo del Campidoglio quale l'anima di Roma l'aveva profeticamente intuito, dieci secoli di storia composto, e l'anima di Roma morente l'aveva veduto per l'ultima volta fra le fiamme e la bufera dei barbari trionfanti. Che cosa è oggi la famiglia? La sovranità del padre, l'autorità del cognome, la catena della tradizione, tutto è spezzato. Una volta ogni famiglia era una dinastia, adesso è una democrazia, che sta per diventare demagogia: il padre si vanta amico del figlio, la madre sorella delle figlie. Rovine dunque! Anticamente la famiglia fu una torre nello stato che era una fortezza, nella patria che era un mondo contro il mondo; poi nel medioevo la torre diventò un palazzo, il palazzo una casa, oggi i ricchi hanno un appartamento e i poveri una camera. Ecco la famiglia: il gruppo è rimasto perchè insolubile, ma l'edificio, che s'innalzava sopra di esso come sopra tre cariatidi, padre, madre e figlio, è crollato. - Voi mi spaventate - disse la duchessa, diventando seria suo malgrado. - Perchè? Lo sapete pure che la vita dell'individuo nell'umanità è una rovina, che passa, in una rovina, che resta. Le rovine vi spaventano? Ma non siamo noi stessi un risultato di rovine, non siamo noi composti coi ruderi di venti civiltà, che si frantumarono compenetrandosi? Ieri Renan, il vostro scrittore prediletto, inseguito dal dubbio attraverso la propria nobile ed immensa erudizione, si domandava in un ammirabile opuscolo: che cosa è una nazione? Renan, che nell'estrema sensibilità della propria fibra ha sentito tutte le malattie del nostro secolo, vicino forse a morire s'accorge che la nazione sta morendo. La vita antica aveva due termini, individuo e stato; la vita moderna ne la ancora tre, individuo, stato e umanità; la vita futura tornerà ad averne due, individuo e umanità. Che cosa è la nazione? L'orda. La patria? L'accampamento. Così la storia si mise in cammino, ha scritto con frase immortale il Quinet. Quando la tenda diventò di sasso e il terrapieno una muraglia, l'accampamento si trasformò in città: allora l'orda si mutò in popolo, e la patria arrivava fin dove gli ultimi armati dell'orda potevano accampare lungi dalla città. Lì era il confine della patria, l'orbita tracciata a quel popolo dalla sua doppia forza di attrazione e di ripulsione nel sistema storico del mondo. Adesso le città non hanno più mura e i doganieri passeggiano su tutti i confini invitando i viaggiatori a varcarli: non vi è più patria, non vi sarà dunque più nazione. - Ed è per questo che non si scrivono più capolavori? - Chi sa? Il capolavoro è un quadro: vi sono dunque condizioni di luce e necessità di prospettiva, che lo dominano: poi un quadro dev'essere composto in modo che esprima più di quello che fa vedere. Ogni angolo di campagna non è quindi un paesaggio, nè ogni crocchio un gruppo. Un capolavoro - seguitò l'illustre critico correggendosi con atto nervoso - è anzitutto una visione, che ha bisogno di formarsi nel popolo prima di tradursi nell'opera dell'artista. Laonde occorre che nello spirito del popolo, dal quale deve sorgere, istinto, sentimento e idea, queste tre forme della vita, non si siano offese collo svolgersi; che la sua filosofia non sia troppo alta nè la sua religione troppo bassa, che la sua scienza sappia analizzare ma non ancora decomporre, che la sua civiltà sia arrivata a quel grado e la sua storia a quel punto, nel quale l'una tocca l'apogeo e l'altra trova la coscienza; bisogna finalmente che la stessa perfezione necessaria all'artista per estrarlo si sia prima verificata nel popolo per produrlo. A venti o a settanta anni non si scrive un capolavoro, non si fonda una religione, non si costituisce un impero: le reggi della vita sono identiche nell'individuo e nel popolo. Ci vuole dunque una unità fisica di razza, una unità morale di sentimento, una unità ideale di pensiero; se il popolo non sarà uno come razza, non arriverà alla necessaria intensità di sensazione: se non sarà uno moralmente, mancherà l'unità di composizione; se non sarà uno idealmente, quella di significato alla sua opera. Orbene siamo noi uni come razza, per esempio, noi italiani? Oggi una statistica sta contando il colore dei capelli e degli occhi per apprendere la proporzione fra le razze, che ci compongono; sono molte, troppe anzi. Tutti i barbari attraversarono l'Italia per andare a Roma e nel partirsene ci lasciarono dei bambini per compenso dei tesori rubati o distrutti. Prima del cristianesimo Roma era diventata l'emporio di tutte le religioni: il cristianesimo le divorò, ma esse gli rifiorirono in pustule sulla pelle. Il vapore e il telegrafo hanno reso costante quello che era momentaneo, cioè il passaggio di un popolo attraverso un altro; il commercio ci offre i prodotti, la scienza, le ragioni, l'arte gli spettacoli di tutti i popoli. Noi soccombiamo sotto il peso delle nostre conquiste: lo stato non difende più la nostra personalità storica, l'umanità non ci ha ancora dato la propria. Il cielo non è più per noi che un deserto popolato di mondi, la terra un laboratorio gremito di viventi; la critica ha distrutto la leggenda senza creare la storia, la religione ha perduto Dio conservando i santi, la scienza non ha sorpreso il fenomeno che per disperare di rinvenire la legge. Tutti i medici sostengono oggi che l'ingegno è una nevrosi, e infatti basta guardare la fisonomia d'un uomo d'ingegno per vedere quella di un malato: negli uomini moderni la testa è più grossa e il petto più angusto che nelle statue antiche. L'ultima filosofia, la massima, l'hegeliana, risolve l'universo in una idea: l'ultima scienza, il darwinismo, conclude nell'uomo all'animale; l'ultima affermazione cattolica è stata la necessità del potere temporale, l'ultimo grido della poesia una bestemmia, l'ultima parola dello stato una parola di abdicazione: libertà! - Lo so che non siete liberale: e allora? Egli si fermò. Evidentemente il lungo discorso lo aveva affaticato: la sua bella faccia di pensatore colla fronte alta sotto i lunghi capelli grigi perdette lo splendore della ispirazione, i suoi occhi si appannarono, un'ombra gli si distese sulla bocca e vi spense il sorriso. Quindi reclinando la testa sul petto parve seguire giù nell'oscurità di un baratro lo sprofondarsi di una visione, ma improvvisamente si raddrizzò, e con quella voce lenta e dolce, che ammaliava subito il pubblico dall'alto della cattedra, riprese: - Sainte-Beuve pel primo ha trovato l'immagine paragonando Renè a una torre e le altre opere di Chateaubriand ad un gruppo di case agglomerate sulla sua base. Oggi che il libro ha ucciso il monumento e il monumento è morto nel libro, giacchè non si scrivono più capolavori, l'immagine trovata da Sainte-Beuve per Chateaubriand vale per tutti, e chi fabbrica una capanna, chi una casa, un palazzo, una villa, una città. Guardate Balzac, che Sainte-Beuve, il primo critico del secolo, ha negato: Balzac, il primo genio del secolo, che si dibatte trent'anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi, e invece di alzare un monumento fonda una città. I suoi quaranta volumi sono tanti rioni, nei quali si muove una popolazione identica e diversa siccome in tutte le città: non manca una bottega, una industria, un istituto, una scuola. Dalla pescivendola alla principessa del sangue o dell'avventura la città possiede tutte le categorie e le varietà femminili; vi saranno trenta pittori, cento giornalisti, poeti e scienziati, preti e demagoghi, assassini e gendarmi, burocratici e soldati, parlamento e prigioni, ospedali e teatri, genio e follia, misticismo ed usura: plebe venuta dalla campagna, o germogliata fra il selciato, o nata dal fermento delle immondizie accumulate negli angiporti. Vi sono i martiri oscuri e gli eroi decorati, veri o falsi: Napoleone I vi passa parecchie volte nelle sue varie campagne, i Borboni vi soggiornano molti anni, Svedenborg vi arriva dalla Scandinavia. Vi è il passeggio pubblico costantemente pieno di carrozze, il corso rumoroso di folla; nei quartieri aristocratici la ricchezza moltiplica il frastuono e la luce, si profonde in capolavori e in aborti, ripete tutte le sue eterne grandezze e i suoi eterni obbrobrii. Nei quartieri bassi la miseria prosegue la propria vita di stenti aiutandosi di crimini e di eroismi, ingegnandosi con gioie minuscole e con piaceri bestiali, bestemmiando Dio e credendo nei signori. Ma le stagioni passano, e il clima varia dal gelo alla canicola, mentre migliaia di persone vivono in quella città, e la loro vita vi produce centinaia di drammi, migliaia di sentimenti e di idee. Balzac ha fondato da solo questa città, nella quale tutti verranno poi a costruire. - Ah! - esclamò la duchessa - comprendo. - Badate al primo, Flaubert. Un altro, il quale ha sognato il capolavoro, e penetrato della sua unità decise che ogni artista non può scriverne più di uno, giacchè bisogna attendere per esso il momento armonico di tutte le facoltà dello spirito con tutte le circostanze esterne. Flaubert verrà a fabbricare nella città di Balzac. Vedete quella casa? È la casa di Madame Bovary, forse la più bella della città. Critici ed artisti non si stancano di lodarne la disposizione interna, l'eccellenza dei materiali, l'armonia della facciata e dei fianchi: sciaguratamente critici ed artisti oggi non sono più buoni giudici, e però se molte case di Balzac, per esempio quelle di Eugenie Grandet o di Cousine Bette, mi paiono migliori, la casa di Madame Bovary resterà un eterno modello delle case borghesi al nostro secolo. Vedete dietro di essa quel magnifico mostruoso edifizio? Sono i palazzi di Salambò, ancora un'opera di Flaubert: Madame Bovary doveva essere il capolavoro, Salambò il monumento: il capolavoro è forse più bello del monumento, ma vorrei aver fatto piuttosto Salambò che Madame Bovary. Siete stanca? - No. - Allora, passeggiamo. Guardate, via Alessandro Dumas figlio: le due case all'imboccatura sono di Margherita Gauthier e di Clemenceau, lo scultore, più innanzi in quel vasto palazzo c'è il salone del Demi-monde. Via Emilio Augier: questa è più larga, di stile più solido e moderno. Vedete le finestre al secondo piano della terza casa a sinistra? Là stanno Les Lionnes pauvres, l'altra di facciata appartiene a Maitre Guerin, poi vi è quella del Gendre Poiret e subito dopo il palazzo degli Effrontès. Quest'altra strada, che ha un solo palazzotto elegante, ma pretenzioso, verniciato, leggete: via Octave Feuillet questo è il palazzotto di Camors. Via Champfleury: oggi è poco frequentata, in fondo vi è lo studio di Courbet il pittore. Vicolo Edmondo Duranty; è corto, senza sfondo. Oramai arriviamo alla grarnde piazza De Gonconrt. La vedete? È formata di grandi fabbricati irregolari, palazzi del settecento, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, dopo la rivoluzione. Voltatevi, quella Certosa è di Stendhal, osservate la sua statua, alta in atteggiamento rigido dal profilo tagliente, che domina sul largo piedestallo Rouge et Noir. Egli solo aiutò Balzac nella fondazione della città: adesso avete dinanzi due strade, via De Goncourt, l'altra più recente via Alfonso Daudet. Per quale volete mettervi? - Per la più grande, via Goncourt. - Gettiamo nullameno uno sguardo nell'altra, ne vale la pena. Quel palazzo sontuoso e barocco è del Nabab, negli altri dappresso e che paiono alberghi stanno a pensione gli ex Re in esilio: quella è la piccola casa di Jacque il macchinista, nell'ultima in fondo abitò Numa Roumestan il ministro. Adesso entriamo in via De Goncourt: è una bella strada. Ecco lo studio di Manette Salomon, l'ospedale di Soeur Filomene, la casa della Faustin, in quella casipola nacque la povera Elisa, in quell'altra abitarono i fratelli Zenganno, più in là Renata Mauperin. Quella palazzina, a due passi, con una piccola facciata da museo, è la Maison de l'Artiste, una specie di bazar pieno di mobili, di quadri e di cianfrusaglie. Un momento: osservate quella casa, che si avanza stranamente sulla strada: è di aspetto povero sotto la decenza, è la casa di Germinie Lacerteux. Svoltando si entra nel quartiere di Zola, il più vasto dei quartieri recenti, quantunque sia ancora in costruzione. L'enorme fabbricato che si prolunga dalla casa di Germinie Lacerteux, ripetendone il disegno, dall'insegna della grande liquoreria presso la porta si chiama L'Assomoir: è quello che ha fatto il nome all'ingegnere, no all'architetto, perchè questa volta l'ingegnere è un grande artista. Esaminate come Zola ha riprodotto minuziosamente il cattivo stile parigino moderno nel palazzotto dicontro; questa volta l'esattezza arriva al capolavoro, è il palazzotto della Curèe. Più in là sorge la casa dell'altro Rougon Son Exellence, in fondo alla strada l'immenso, prodigioso mercato, il vero Ventre de Paris. - È bello? - Un mercato difficilmente può esserlo, ma è immenso, prodigioso. Avete ancora notata quella altana? Là abitava Elena Mouret colla figlia, la povera piccina nervosa. - Quell'altana è un capolavoro. - Di costruzione non direi, ma vi si respira un'aria più pura, e sulla conca di questo mercato è di un effetto eccellente. Vogliamo salirvi? - Perchè no? - rispose finalmente la duchessa - forse dalla sua altezza si scorge il grande giardino del Paradou. - Spero che non vi piacerà. Giammai artificio violentò maggiormente la natura: è la farragine del mercato dentro il giardino. - Forse avete ragione, ma il giardiniere è stato nullameno un grande poeta. - E lo sarebbe parso doppiamente, se avesse saputo un po' meno la nomenclatura. La duchessa si arrese. - Ritorniamo - disse poi. - Non vi sembra che il quartiere sia bello e soprattutto grande? - Senza dubbio, ma vi sento due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose. - È moderno. - La città di Balzac lo è del pari e non mi fa pesare sulla coscienza la volgarità di questo quartiere. Poi non tutto vi è compiuto: si capisce che vi abita soltanto la nuova borghesia e il popolino, nessuna famiglia illustre, nessun grand'uomo è ancora venuto a stabilirvisi. Da solo questo quartiere non potrebbe vivere e nemmeno diventare una città. - Infatti tutto vi è come provvisorio, la vita non vi ha conservato nulla. - Vi manca persino una chiesa. - No, girate quell'angolo: ecco la chiesa, forse meglio la cappella di Lourdes: nella volta egri ha dipinto i quattro evangeli. - Povero Zola! il terzo non potè finirlo. - Non ve ne lagnate: Zola della religione non sentiva che l'idolatria e in lui l'artista era finito assai prima che l'uomo morisse. La sua opera conclude al dottor Pascal, l'eroe della scienza, che vorrebbe da questa trarre una morale, una religione nuova, e invece sprofonda nel l'animalità di un incesto. Zola era un pessimista inguaribile: onesto, dolorosamente ammalato della propria onestà, vide e disegnò come nessuno prima di lui l'abbiezione del popolo sino alle classi più alte, ma non vide altro. Tutto quanto la vita ha di nobile, di eroico, di veramente tragico gli sfuggì, eppure la vita dura nella storia soltanto per questa eccellenza di pochi, che vi funzionano come un sale antiputrido: eroismo di pensiero, eroismo di cuore. Ma vinto nel giorno tardo del suo trionfo Zola ebbe paura, e si rifugiò in un sogno ancora più anarchico che socialista: allora non vide più. Le sue ultime figure furono di cartone dipinto, la sua musica rimase un frastuono, il suo colore una macchia, il suo pensiero si oscurò, il suo cuore rimbambì. - Siete violento nelle verità. - La verità lo è sempre finchè combatte: nessun artista ha potuto salvarsi entrando nel socialismo: guardate Zola, Tolstoi, oggi tocca ad Anatole France. Il socialismo è dunque ancora falso, vuoto forse, se i poeti, che hanno sempre l'istinto e la nostalgia del nuovo, non estrarne una novità e vi perdono il senso dell'arte. La duchessa sorrise. - Torniamo nella città di Balzac. - Temereste smarrirvi altrimenti. - Impossibile! ho sempre tenuto d'occhio il grande campanile della chiesta di Svedenborg, il campanile di Seraphitus. E talmente alto che nulla può nasconderlo. - Forse talvolta le nuvole. - Ah! - proruppe quasi stizzosamente la duchessa - non avrete dunque mai un momento di entusiasmo, sarete sempre un critico? Quindi illuminandosi in viso: - Giacchè volevate salire meco sull'altana di Zola, accompagnatemi sul campanile di Seraphitus: là saremo più in alto, in un'aria, in una luce più pura. - E vedremo tutta la città e il suo bel territorio, i villaggi vicini, la grande rocca di Hugo, indefinibile e portentosa agglomerazione di castelli, le ville eleganti di George Sand, il capriccioso villino di Musset, il vecchio Maniero di Lamartine... - seguitò con accento quasi ironico. - Seraphitus! - mormorò la duchessa. - Voi vi chinerete dall'alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibIrE. - No. - Non vorrete dunque guardare? - Sì, ma in alto. L'illustre critico non rispose.

- domandò con un tremito nella voce sottile, abbassando vezzosamente il volto sotto il mascherino per guardare la scarpetta scollata, in pelle bronzina, a bottoncini rotondi sopra un fianco, che teneva ancora alzata. - Talento di calzolaio! - l'altro replicò, mentre il gruppo delle maschere si scioglieva come per incanto a quel nome di principessa. Infatti Lelio Fornari, non ancora celebre, ma già abbastanza noto per un romanzo crudele di satira contro le signore della città, aveva pronunciato quel titolo con una inflessione di voce ben diversa dal tono mordace, col quale da mezz'ora teneva testa agli attacchi di tutte quelle mascherine borghesi. In fondo il suo spirito, bizzarro ed altero, si compiaceva di tale minimo trionfo al veglione del grande club cittadino, ove capitavano talvolta anche le dame dell'aristocrazia clericale. La principessa era allora fra esse quella più in voga. Quindi Lelio Fornari inchinandosi elegantemente le offerse il braccio senza parlare; ella accettò. Ma una delle prime maschere tornò indietro sbarrando loro il passo. - Guardatene - si rivolse alla principessa col tono confidenziale da maschera a maschera: - è un uomo cattivo. Lelio, che la conosceva, sdegnò di rispondere. - Non amerà che i tuoi piedi. - Sarebbero mai più piccoli del suo cuore? - ribatté con accento canzonatorio la principessa. - Un uomo, che insulta le signore nei propri libri! - Vi lagnate dunque per qualche amica? - Vi avrebbe riconosciuta! - esclamò la principessa, aggravando quella ironia. La mascherina, moglie di un maggiore di fanteria, una brunetta piccante, che non mancava mai ad una festa del club e si lasciava corteggiare troppo palesemente da tutti, trasalì sotto la maschera. - Da che cosa credereste di avermi indovinata? - La principessa si volse aspettando. - Dai piedi - rispose insolentemente Lelio: - voi siete molto più piccola, eppure li avete più grandi della principessa. La folla delle maschere si pigiava in due immensi saloni, rumorosamente, sotto la luce cruda dei lampadari a gas, che gli enormi specchi incastrati nella parete ripetevano all'infinito per una infilata luminosa, come un altro corso di maschere silenziose nel baccanale dei propri vestiti. La principessa sospesa al braccio di Lelio, che glielo premeva insensibilmente profittando di tutte le spinte, disse: - Siete stato brutale. - Vi piacerei per questo difetto? - No. - Ne ho altri. - Sentiamo: ditemi prima i migliori. - Vi amo. - Così presto? - Perché così presto? Vi siete pure accorta che vi seguo per strada da sei mesi. - Davvero! - Egli non rispose. - Allora ditemi anche perché mi amate. - Non lo so. - Ditemi come. - Nemmeno. - Non sapete proprio altro? - Altro... cioè... - Ebbene? - Questo rientra ne' miei difetti peggiori. - Sentiamo egualmente. - So che un giorno mi permetterete di amarvi. Una franca risata le agitò dinanzi alle labbra la blonda di merletto nero. - Ma chi può averlo detto? - Voi stessa. - Oh! diventate enigmatico. - Tutti gli enigmi non sono tali se non perché debbono venire sciolti. Io vi seguo da sei mesi, ve l'ho detto quantunque lo sapeste già; ve ne accorgeste subito, la prima volta, all'angolo del Pavaglione, allorché, urtandovi quasi, io mi arrestai, sorpreso dalla strana espressione del vostro volto. - Strana! - ella ripeté quasi irritata di non ricevere un complimento migliore. - Oh! non siete bella, ecco la vostra superiorità. Se aveste le forme statuarie e il viso classico della contessa Ghigi, non vi avrei nemmeno guardata: la bellezza che si può misurare al compasso non serve più che negli esemplari d'accademia e pei romanzieri della vecchia scuola. Allora una modella dovrebbe essere la donna più adorata e più adorabile, mentre invece la si paga ad ore, e nessuno pensa a lei se non per paragonarla a qualche altra meno difettosa, perché nella sua classe la vera bellezza è la statua. - Conosco questa vostra teoria, l'avete già sviluppata nell'ultimo romanzo. - Aspettate: ecco quello che non vi ho messo. Voi sorrideste all'urto, col quale vi respinsi quasi allo svoltar di quell'angolo: eravate vestita di una lana azzurra listata di bianco, cogli stivalini alti, un piccolo cappello da uomo, una bizzarria di acconciatura, che vi attirava tutti gli sguardi e che voi sola potevate arrischiare in provincia. - Avete buona memoria. - Io mi volsi, tornai indietro per seguirvi: non vi avevo ancora veduta. La vostra figurina snella mi ondulava dinanzi con passo quasi saltellato piegando appena la testa per ricevere un saluto fra la gente, che si rivolgeva a guardarvi, e che avevate quasi l'aria di allontanare colla graziosa alterigia del portamento. Mi erano rimasti impressi i vostri occhi: dovevano essere glauchi, di un verde-mare inesplicabile nella mobilità del suo colore fra le iridi improvvise degli sguardi. Vi sorpassai; mi vedeste, mi fermai in fondo al portico per studiarvi meglio, poi vi seguii dappertutto, sino al vostro palazzo. Vi avevo veduta. - Non ero bella. - Per fortuna. - Altrimenti non mi avreste amata? - Ve l'ho pur detto. - Ma davvero non vi piacciono le belle signore? - Né signore, né belle. - Cosicché...? - Voi non siete né l'una né l'altra. Ella non s'irritò, presa in quella bizzarra conversazione, che il luogo e l'abito potevano permettere; tornò a ridere. - Perché mi amate dunque? - Non lo so, vi dirò invece perché mi piacete. Questo lo so bene. Vi conosco come voi stessa forse non vi conoscete, benché sentiate che la vostra forza di donna non sta nella bellezza e nel vostro titolo di principessa. Erano passati nel secondo salone, più vasto, parato di una carta gialla, e un po' meno affollato. Molti avevano già notato la nuova maschera di Lelio e la studiavano acutamente, indovinando dall'aria altera di lui che dovesse essere qualche gran dama. Lelio Fornari non era simpatico. Sebbene fosse quasi bello e le brillanti qualità del suo spirito lo rendessero prezioso in tutte le conversazioni, si temeva troppo la mordacità improvvisa dei suoi frizzi, spesso anche troppo veri, e si seguitava a negargli l'importanza dell'ingegno, meno per l'arditezza della sua originalità che per l'immodestia battagliera, colla quale egli l'adoperava. Si trovò quindi serrato nuovamente in un gruppo di maschere, cui si aggiunsero alcuni eleganti, in marsina, colle camicie lucenti come la porcellana, gli occhi vividi della curiosità leggermente sguaiata di tutti i veglioni. La principessa era tutt'altro che una maschera signorile: non aveva che uno scialle bianco, antico, a ricami finissimi e frangiato sopra un abito di seta nera a sottana corta; nessuna altra traccia di ricchezza. Portava lo scialle sulla testa come le donne del popolo, con un mascherino nero, volgarissimo, i guanti a due soli bottoni. Nullameno l'eleganza del portamento, e quella indefinibile disinvoltura delle grandi dame, lasciavano trapelare da tale borghese acconciatura un sentore aristocratico con qualche acredine di mistero, che attirava la gente. - Finirai in un suo romanzo, mascherina. - Oh! i romanzi scritti! - ella ghignò sotto la blonda. - Ti ha letto! - esclamò il conte Turolla, uno dei più eleganti. - Sarei allora al suo braccio? - replicò in falsetto la principessa. Tutti scoppiarono a ridere. Lelio tacque: evidentemente quell'intoppo l'irritava. - Hai dunque perduto il tuo spirito? - lo aggredì una mascherina afferrandogli l'altro braccio. - Mascherina, voi dovete averlo già innamorato: vedete, non è più riconoscibile! - Non m'innamoro mai. - Vanteria! - esclamò la mascherina. - Abilità, altrimenti non si è mai amati. La principessa lo guardò involontariamente. - Adesso improvviserai una teorica - intervenne daccapo il conte Turolla; - l'amore vero è contagioso. - Non vi sono più amori veri; voi stesso, conte, ne siete una prova. Sareste così elegante se credeste alla possibilità di essere amato per voi stesso? - L'altro non seppe rispondere subito. - Toccato! conte! - gli si rivolse la principessa. - Toqué - egli ribatté con un mediocre gioco di parole. - E di me, senza dubbio - ella rispose tirando il proprio cavaliere fuori del gruppo, e gittando al conte sotto la maschera con voce di scherno: - Ma, e Cornelia? - Sarà coi Gracchi. - A gracidare. - Ih! ih! oh! - Allora Lelio profittò del chiasso provocato da quelle scempiaggini per fare due altri salti e perdersi nella folla. - Idioti! - mormorò la principessa. - Sono i vostri cortigiani. - Infatti mi dicono talvolta che sono bella - replicò appoggiandoglisi al braccio; e tradendo così il desiderio di riprendere con lui l'interrotta conversazione. - Hanno ragione perché non vi conoscono. Infatti che cosa siete per loro? La principessa Montalto di origine vecchia, con un gran patrimonio, un gran nome e un magnifico palazzo, nel quale li ricevete quando non siete o a Roma o in villa. Avete dei cavalli, date delle feste, invitando, benché la vostra sia una famiglia clericale, quasi tutte le persone eleganti di ogni classe e di ogni partito. Vi debbono ben dire che siete bella, poi lo credono. Siete alta, sottile, avete un portamento inimitabile, una freschezza di gran fiore. Le vostre eleganze parigine disorientano i loro gusti e i loro giudizi provinciali; qualche volta, in teatro o in carrozza, vi obliate in pose da sognatrice. Lelio, che la guardava negli occhi, glieli vide battere improvvisamente: le loro ciglia troppo lunghe passavano dai fori del mascherino come una peluria di seta. - Per voi non sono così? - Io vi conosco. - Senza avermi mai parlato prima d'ora. - Mai. - Siete stravagante. - Confessate che da quattro anni, i quattro anni del vostro matrimonio, non siete mai stata come vi credono i vostri cortigiani. - Vorreste il mio segreto. - Sono io che ve lo dirò. Ella ebbe un gesto. - Bisogna amarvi per averlo indovinato. Voi non siete la principessa di Montalto nata contessa Malavolti; eravate come straniera nella casa fredda di vostra madre, siete appena un'ospite in quella di vostro marito. Dovunque siate nata e comunque viviate, in voi è qualche cosa di diverso dalla famiglia e dalla razza, cui appartenete. Il vostro mondo non è questo, l'ignorate voi stessa, e nemmeno io saprei dirvelo; ma deve essere lontano, in una di quelle regioni e di quelle epoche nelle quali il disordine era la poesia della vita, e ogni passione alzava la bandiera della propria libertà. Adesso invece vi manca tutto, siete malcontenta, annoiata: la vostra eleganza non è che un omaggio reso alla folla, e che essa vi restituisce col suo gusto infantile delle cose rare. - Per farmi il ritratto, ecco che disegnate una testa di fantasia. - La vostra è appunto una testa fantastica. I vostri capelli troppo crespi per una signora sembrano aver conservato l'arsura dei grandi soli, ma non sono veramente belli che spettinati, mentre invece li bipartite a madonna con una violenza di contrasto, che dà al vostro volto una espressione beffarda di idealità. Avete gli occhi verdi, la bocca larga ed ardente, la pelle bruna, ombrata di peluria; il vostro sorriso è quasi sempre violento, la vostra voce invece è sottile e dolce come quella di un bambino. Nessuna delle altre signore è così: esse non sono più che piccole borghesi, di una educazione più corretta, ma di un gusto raramente fino. La loro bellezza, quando sono belle, è nota anticipatamente: è una riproduzione più o meno castigata dei modelli, che servirono così bene ai nostri grandi vecchi pittori di razza latina. - Sono dunque una gitana? - Nel corpo, ma avete tutto il mare negli occhi e... - E? - Ve lo dirò più tardi: voi non avete mai amato, non amerete mai. - Nemmeno mia madre, nemmeno i miei figli, se ne avrò? - Nemmeno. - Mi concedete poco - ribatté sardonicamente. - Nullameno vorreste amare - egli seguitò scrutandola con acutezza negli occhi. - I vostri capricci, costretti a storpiarsi per passare attraverso il piccolo mondo elegante delle vostre relazioni, vi rendono cattiva: lo sentite voi stessa, talvolta al punto di insuperbirne. Ella abbassò la testa come colpita dalla verità di questa analisi. - Avete finito? - Quello che volevo dirvi adesso? Sì. - E voi solo mi amate? - Sì. - Perché? - Ve l'ho pur detto: non siete né signora, né bella; avete qualche cosa della donna fuori della nostra civiltà, la quale non ha saputo farne che una dama o una serva. - Siete un romantico. - Può essere, ma vi ho indovinata. - Chi sa! - Perché siete venuta a parlarmi? - Per sentirvi rispondere. - E adesso? - Fatevi presentare. - Quando? - Appena mi sarò tratta la maschera per il cotillon. La sua voce breve sembrava dare un ordine. Alla sua volta Lelio Fornari s'imbarazzò: dopo tutta quell'arditezza di fraseologia la semplicità della conclusione lo sorprendeva. - Irma! - esclamò improvvisamente come in un impeto di passione. - Lelio - ella ribatté quasi col medesimo accento sfuggendogli dal braccio, e perdendosi fra la folla prima che egli riuscisse a riafferrarla. - Battuto al primo capitolo! - gli sussurrò una voce all'orecchio, mentre altre maschere lo riassalivano senza lasciargli il tempo di riprendere il solito tono di braveria spirituale. Il veglione non era che a mezzo, e malgrado l'ampiezza di quei due saloni, si poteva appena ballare. Nel meno vasto, tutto a stucchi e a specchi, un suonatore noleggiato, bel vecchio dal colorito rosso e dalla testa calva, suonava quasi sempre dei valtzer appena la piccola orchestra taceva nell'altro; ma la ressa delle maschere era tale che solo nel mezzo si era potuto aprire un circolo per le coppie più ballerine. Gli ispettori del club, col nastrino azzurro all'occhiello della marsina, s'affannavano indarno a conservare l'ordine del ballo, presi anch'essi nello stordimento di tutta quella confusione educata, fra l'abbarbaglio dei colori, la stravaganza dei costumi, lo scintillìo, l'addensarsi subitaneo dei gruppi, che una parola bastava a sciogliere talvolta, mentre spesso ingrossavano come nella violenza di un tumulto. Era tutta la borghesia di Bologna, ricca, avida di piacere in quegli ultimi giorni di carnevale, e che la confidente promiscuità della maschera liberava amabilmente dalla fatica di fingere come nelle altre feste una eleganza di modi superiori alla sua vita. Le signore più note per sfarzo erano già state riconosciute e girellavano con dietro un crocchio di ammiratori; altre, fanciulle o mogli di piccoli impiegati, camuffate alla meglio, andavano sole o s'arrestavano agli angoli, respinte da quella folla più felice, allineandosi involontariamente alle pareti come quei rimasugli ributtati dalle acque del mare senza cessa alla riva, e che vi rimangono come una indefinibile orlatura. Poi l'onda delle maschere sboccando dalle porte dei due saloni dilagava per tutte le altre sale del club, ove alcuni vecchi solitari giuocavano ostinatamente la partita di tutte le sere, o qua e là sui divani qualche coppia dalla posa impacciata sembrava attendere sempre un momento più opportuno per restringere ancora il proprio duetto. Nella sala del camino un giovane deputato della città, grassoccio e bonario come un curato di campagna, discuteva di politica fra l'attenzione di pochi, paghi di affettare così per l'allegria di quel veglione una trascuranza di gente superiore. E la lunga fila delle mamme e delle zie venute sino lì a rimorchio da tutte le case, anche le più lontane della città, passavano in una processione lenta, come di ombre nere e silenziose fra gli scoppi irrefrenabili delle voci e i passi, le piccole corse saltellanti delle coppie più giovani, che sfuggivano pazzamente per ritornare subito indietro cogli occhi ardenti, il volto roseo, lasciando quasi sempre una traccia acuta di profumo. Lelio Fornari appena poté rompere la folla uscì dalla porticina del salone giallo a sinistra, presso il palcoscenico, e pel corridoio a specchi, fra due file di sofà gremiti di maschere e di marsine, venne sino alla sala del caminetto. Il giovane deputato gli rivolse la parola. - Già stanco lei! - Si soffoca. E gettandosi sulla poltrona accese una sigaretta. Ma anche lì seguitarono per lui i saluti e i frizzi delle maschere. Realmente era seccato: una noia improvvisa di quel grande gaudio volgare gli era entrata nell'animo dopo quel colloquio così facile e insieme temerario colla principessa. Adesso scrutava nella memoria i suoi più effimeri atteggiamenti, meravigliandosi di quanto aveva potuto dirle senza che ella se ne mostrasse minimamente offesa. Come mai si era tanto inoltrato? Perché l'altra glielo aveva permesso? Lelio Fornari non era ricco. Malgrado la facilità di essere accolto per la sua nascita e per la sua educazione anche nei migliori saloni del piccolo olimpo bolognese, egli non aveva davvero molte relazioni: sdegnava la piccola borghesia, quantunque affollata di belle ragazze, e temeva d'ingolfarsi in spese maggiori delle proprie risorse frequentando troppo l'alta società. Le sere, quando non lavorava, o qualche cagione improvvisa non lo traeva solitario per le vie più remote della vecchia città, le passava tutte al "Caffè delle Scienze" fra un gruppo di amici, già invidiosi della sua piccola gloria, ma con tutto l'ardore delle più nuove idee nel cervello e la gioconda virulenza della giovinezza nel sangue. Naturalmente egli li dominava. Lo conoscevano, o almeno credevano di conoscerlo ancora più orgoglioso che ambizioso, di un pessimismo affettato in quella sua posa di non innamorarsi e di non credere all'amore delle donne. Egli invece ne soffriva segretamente. Un piccolo ventaglio lo percosse sulla spalla. Egli balzò in piedi, ma la maschera dallo scialle bianco, frangiato a bellissimi ricami, passò oltre al braccio del prefetto, un omiciattolo sulla quarantina già calvo, con due fedine bionde e due gambe grottescamente arcate, che gli davano malgrado la solennità della fisonomia un'aria bizzarra di pagliaccio. Poi la mascherina ripassò gettandogli dagli occhi verdi un rapido sguardo abbagliante. Il circolo si era diradato intorno al caminetto. - La conosce quella mascherina? - chiese il giovane deputato a Lelio Fornari. - Ho appena qualche sospetto. - Io credo di averla riconosciuta. Lelio già ricomposto aspettò la rivelazione, ma l'altro, che voleva essere pregato, tacque. - Vuoi fare un giro con me, cattivo? - arrivò saltellando quella mascherina, la brunetta del maggiore, che aveva tentato di turbargli il primo incontro colla principessa. Allora Lelio ridiventò amabile. - Temo di attirarmi troppi odi. - Vieni egualmente, sono io che ti difenderò. - Avresti il coraggio di comprometterti per così poco? - Ella ebbe un grazioso movimento di testa, prendendogli il braccio per trascinarlo dietro la principessa, della quale si vedeva lo scialle bianco riflesso nell'ultimo specchio in fondo all'appartamento. - Tu ami la principessa. - No. - Provamelo. - Non vi è che un modo. - Quale? - Provare invece che ti amo, lo accetteresti? - Prima che mi sia offerto? È vero che non sono una signora, me lo hai detto dianzi: tratti così con tutte le altre donne? - Senti, mascherina, in questo momento tu mi abbomini: vorresti vendicarti di tutto il male che non ti ho fatto. La principessa tornava indietro; Lelio ebbe un fremito, sul suo viso apparve come uno sdegno di noia. - Me ne vado, me ne vado, non voglio rendere altri geloso - gli urlò sul viso la mascherina piantandolo improvvisamente in mezzo alla stanza così che la principessa udisse; e fuggì con un grande svolazzo di sottane tutta contenta di aver potuto compiere quella piccola malignità. Allora Lelio scioccamente si mise dietro alla principessa rimproverandosi di fare una così magra figura, e pensando a quale degli amici avrebbe chiesto il favore di quella presentazione. Ma il cotillon tardava. Nell'allegria crescente delle sale passavano dei soffi di follia e di passione; l'aria troppo riscaldata da quell'eccesso d'illuminazione a gas si era riempita di profumi e di una polvere sollevata dallo scalpiccio di tutti quei piedi, che turbinava sulle larghe fiamme dei becchi dorati; tutti i visi si erano animati, i gesti parevano febbrili, le voci salivano sino alle urla più squarrate per ridiscendere ad un murmure sommesso nella stretta dei colloqui ostinati, fra lo stridore vitreo delle malignità e le tentazioni di tutte quelle carezze arrischiate o sopportate. Persino molti vecchi si erano lasciati vincere dall'orgasmo generale, e passavano a braccetto di qualche maschera affettando di satireggiare sè medesimi nell'esagerazione del portamento, ma in fondo trepidanti di una tale ripresa di giovinezza, che li rituffava nell'onda inebriante della vita dopo tanti anni trascorsi in secco sull'ultimo lido. Solo la processione delle mamme e delle zie, ammantellate di nero, seguitava colla stessa lentezza annoiata, riposandosi a grandi distanze da un divano all'altro, o nel passare davanti ad una pendola la consultavano con lunghe occhiate, mentre la ressa fuggente delle mascherine le urtava momentaneamente, e qualcuna affannata, saltellante, nell'iride dei propri colori, stringeva all'improvviso una di esse al collo, le sussurrava fra il nero del cappuccio qualche parola, e scappava furbescamente prima di ricevere la risposta. Quindi le ombre proseguivano crollando il capo con una rassegnazione contenta della gioia altrui. I più annoiati erano i pochi provinciali, perché anche Bologna come tutte le capitali per quanto piccole ha questa categoria alle proprie feste, e i giovanetti di primo carnevale, cui la confidente facilità degli altri eleganti faceva soffrire nell'amor proprio; quindi si raggruppavano qua e là per riunire tutte le loro debolezze in un assalto di maldicenza, o isolati sopra una poltrona tentavano tratto tratto di ostentare la noia. Alcuni bevevano. Lelio Fornari si riconobbe ridicolo. Tutto il suo orgoglio era prostrato da quelle poche scherzose parole della principessa, che dicendogli di farsi presentare aveva risposto così repentinamente al suo urlo inconsapevole. - Irma! Girellò ancora pel vasto appartamento seguendola da lontano per attendere almeno qualche gesto, ma ella sembrava averlo dimenticato. Benché riconosciuta già da tutti, seguitava a tenere la maschera per divertirsi di quel frastuono senza prendervi troppa parte, barattando qualche stretta di mano colle più intime conoscenze, che le si inchinavano ossequiosamente come se fosse già smascherata. E a poco a poco il suo codazzo si era ingrossato, molte signore in toeletta da ballo venivano a complimentarla, altre l'avevano invitata a cena. - E Giulio, tuo marito? - È a Roma. Le sale per la cena erano al pianterreno, ma un piccolo gruppo di signore con quella prepotenza aristocratica, cui i circoli borghesi non sanno mai resistere, si era fatta apparecchiare una tavola nell'ultimo gabinetto presso il botteghino del caffè, malgrado il tintinnìo dei bacili e dei bicchieri, che ne usciva come da uno sbocco di officina. Lelio a poca distanza dalla principessa in quel momento, avrebbe dato un anno della propria superba giovinezza per essere fra quegli invitati, ma tutto il suo ingegno e la sua educazione non potevano meritargli simile onore. Il conte Turolla invece, capitando in quel punto, offrì il braccio alla principessa, che lo pregò di trarle il mascherino. Egli levò prima delicatamente i due lunghi spilloni, che le fissavano lo scialle sul mazzo dei capelli, quindi tirando al disopra di questo la fettuccia elastica le liberò il viso. La principessa apparve rossa, cogli occhi gonfi, tutta in sudore: la sottile peluria delle sue gote pareva brinata. - Oh! - esclamò scherzosamente - chissà come sono! E si avviò la prima senza degnare Lelio Fornari nemmeno di uno sguardo. Questa indifferenza, che qualunque altro di quel piccolo mondo aristocratico avrebbe preso per una necessità dell'etichetta, ferì profondamente l'amor proprio del giovane romanziere. Tutti gli odi malati della sua vanità proruppero come una muta di cani al primo allentare dei guinzagli dietro le orme fuggenti di una volpe. Nessuno degli eleganti invitati a quella breve cena olimpica valeva quanto lui, che senza titoli sapeva di discendere da un'antica famiglia feudale, forse con poco lustro nelle cronache, ma di un sangue più puro, se mai sangue puro poté conservarsi nelle famiglie, che quello medesimo dei Montalto. Sciaguratamente una stessa decadenza economica aveva forzato tutti i suoi parenti a destreggiarsi nelle professioni: alcuni erano rimasti in campagna, mutati in piccoli proprietari, economi ed incolti senza più alcun orgoglio di tradizione. Suo padre era fra questi. Egli invece aveva studiato legge, ma non ne avrebbe mai esercitato il mestiere subdolo e proficuo, meno ancora per una ripugnanza dell'ingegno che per la nativa alterezza del carattere. Viveva quindi parcamente colla pensione assegnatagli dal vecchio padre sulla dote materna la prima metà dell'anno a Bologna, e nella estate si ritirava sui monti ad una villa assai malandata col nobile pretesto di comporvi qualche libro. Tutto ciò gli sembrava ancora di un grande tono aristocratico, sebbene quella vita a Bologna gl'infliggesse tratto tratto dolorose umiliazioni. Infatti dal grosso club cittadino avendo voluto passare all'altro dei nobili frammezzato anch'esso di borghesi importanti, benché un qualche arricchito troppo presto venisse periodicamente escluso, si era urtato a parecchie difficoltà di antipatie. Non vi si giuocava e non vi si faceva grande lusso, ma la poca pensione ve lo esponeva egualmente ad amari riserbi nell'evitare certe partite di piacere o nell'accettare certi inviti. Infatti egli rimproverava sovente a se medesimo questa debolezza. La sua larga cultura filosofica, gli istinti ribelli, che nella prima giovinezza, quando in Italia il socialismo non era ancora partito, lo avevano tratto passionatamente nel campo dei novatori più rivoluzionari, e un buon senso sicuro, cui doveva le migliori osservazioni ne' suoi romanzi ancora saturi di vecchio romanticismo, gli mettevano facilmente a nudo l'inane vanità di tale pretensione. E non pertanto l'alterigia inguaribile dello spirito, esagerata ancora dalla finezza del suo gusto, lo condannava inesorabilmente a cercare l'eletta compagnia mondana fra gente, alla quale gli sarebbe stato impossibile comunicare le proprie idee, e che giudicava i suoi libri un semplice dilettantismo. Quindi tale noncuranza della principessa lo sferzò a sangue sul cuore. "Una civetta come tutte le altre!" mormorò poco dopo mentalmente rituffandosi nel veglione. Ma lo spettacolo gli parve allora anche più volgare. Nessuna maschera era elegante, nessun costume rivelava un'idea o almeno una sufficiente cultura nell'imitazione: poco lusso e non molta grazia. Oramai tutte le signore erano discese a cena; rimanevano le figlie e le mogli degli impiegati, che profittando dell'intervallo cominciavano a ballare senza più soggezione degli altri, in un allegro oblio della propria meschinità. Qualche coppia vagava a braccetto, assorta, beata momentaneamente di una intimità chissà da quanto tempo sospirata. Egli non volle ballare: alcune fra quelle ragazze senza maschera lo ammirarono sinceramente. "Che buffonata!" pensò all'improvviso insolentendo tristamente contro quel sollazzo di una piccola gente curvata tutto l'anno sotto il peso della economia domestica. Tuttavia una vanità anche più piccola lo attirava irresistibilmente verso quell'ultimo gabinetto, nel quale cenava la principessa. Resistette, poi colla solita sofistica di tutte le passioni si persuase di vincere una falsa paura coll'andarvi, e traversò il vasto appartamento fino allo stanzino del caffè per chiedere delle sigarette. Nel passare per quell'ultimo gabinetto, ove non sedevano a tavola che quattro uomini e quattro donne, nessuno gli badò; egli ripassò altero, senza guardare, avendo già rinunciato internamente a quella presentazione. - To'! non ceni? - gli chiese gaiamente un maestro di pianoforte, allegro giullare torinese non senza qualche piccola qualità di artista, che divertiva tutte le signore di Bologna. - Non ho fame. - Sei innamorato? Ah! tu no, me lo ero scordato. - E tu dove ceni? - Dalla contessa Ghigi, la divina; dev'essere laggiù nell'ultima saletta colla principessa Montalto, la marchesa Ruffoni e la signorina Antici. Me lo hanno detto. Tu non conosci alcuna di loro? - Alcuna. - Vuoi che ti presenti?... fra noi artisti.... Lelio Fornari frenò a stento un sorriso di albagia. - Come vorrai. - Allora vieni con me. - Alla loro tavola? - C'inviteranno: ci vado a posta. - Tu puoi farlo, io no; non le conosco. L'altro s'ingannò sul tono sardonico delle parole. - Dopo, non mancherà tempo. Quale ti piace di più? - Nessuna veramente. - Io preferirei la principessa come donna. E il giullare commentò questa preferenza con un gesto lubrico. - Allora presentami a lei. - Ciao. Lelio Fornari tornò nella sala del caminetto. Il giovane deputato, in colloquio grave col prefetto, parlava dell'ultima crisi ministeriale così incostituzionalmente risolta dal presidente Agostino Depretis; il prefetto andava guardingo, mentre l'altro ripeteva con una certa enfasi i soliti luoghi comuni dei giornali. Egli si mescolò alla conversazione. Più colto e perspicace d'entrambi si mise a difendere Depretis, disegnando un po' confusamente la sua complessa figura di vecchio parlamentare. Naturalmente la discussione si rinfocolò, ma egli otteneva così di trattenerli finché ripassasse tutto quel gruppo di signore colla principessa, e allora il prefetto le avrebbe indubbiamente fermate fornendo al maestro Armandi un momento opportuno per la presentazione. Poi non gli spiaceva di farsi vedere da lei in tale compagnia semi-diplomatica. Quindi il suo spirito aizzato trovò qualche paradosso originale: Agostino Depretis, così profondamente scettico dopo essere stato così caldo rivoluzionario, era la più viva espressione del momento politico in Italia. - Chi può credere adesso fra l'epopea, che si dissolve, e la commedia, che riannoda la vita suscitata dall'epopea? È l'ora dei volteggiatori politici: la sinistra arrivata al potere ne impara le difficoltà tradendo tutto il proprio programma. Agostino Depretis è forse ancora il solo fra tutti quelli che gli mutano intorno, il quale conservi alto il sentimento della grandezza nazionale. - Egli inizia una nuova êra di corruzione - proruppe il deputato. - L'avrà dominata. - È certamente un uomo superiore - replicò il prefetto contento dell'aiuto imprevedibile, che gli veniva dal giovane romanziere. - Ah! ecco un gruppo di signore. Infatti la principessa si avanzava prima fra il conte Turolla ed Armandi; questi affettava grottescamente delle arie da domestico. Il prefetto e il deputato s'inoltrarono per salutarle, si formò crocchio: Lelio rimaneva un po' dietro al prefetto. Allora Armandi lo presentò: la principessa ricevette il suo inchino, gli tese la mano colla solita cortesia, e passò oltre senza parlare. Lelio e il deputato rimasero addietro, soli. - La più bella è sempre la contessa Ghigi: la principessa non è che piccante. Lelio Fornari sollevò bruscamente la testa come sotto la puntura di una ironia, ma quando tornò nel salone gli dissero che la contessa Ghigi e la principessa Montalto se n'erano già andate.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679050
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- L'ho già, - rispose la ragazza abbassando la testa, volendo dire che lei come tutti gli abitanti di Bibbiena, erano sottoposti all'ubbidienza della famiglia Saccone, che era entrata nei diritti dell'arcivescovo Tarlati di Arezzo. - Se io dunque sono il tuo padrone, Nicolina, a me spetta il primo bacio. E il Conte l'abbracciò; ma mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l'anello di ferro che portava nell'indice, e le domandò da chi l'aveva avuto. Nicolina rispose che l'aveva trovato sulla proda di un fosso nel far l'erba. - Se è così l'anello mi spetta, perché sono il padrone della terra. E ridendo lo tolse di dito alla ragazza e se lo mise nel mignolo. Ma subito sentì accendersi il sangue e il cuore da un violento amore per Nicolina, e guardandola fisso con gli occhi scintillanti, le disse a bassa voce: - Bisogna che questo anello sia quello della nostra unione, Nicolina. Sali meco su questo cavallo e ti condurrò in una villa dove c'è tutto quello che puoi desiderare; avrai vesti di seta, gioielli e paggi. Nicolina fu così stupefatta da queste parole che non seppe rispondere; allora il Conte la sollevò da terra, la pose a sedere sulla sella e il cavallo partì di trotto facendo le faville sui ciottoli della strada. Il Diavolo, che era nascosto dietro un muricciolo, fece una capriola dalla contentezza e poi, riprendendo l'aspetto umile del Frate cercatore, si diresse verso la casa dei Dovizii. Questi erano tre fratelli, possidenti di terreni. Ognuno aveva la sua parte di terra, che coltivava a modo suo; ma il patrimonio paterno restava indiviso, e i fratelli vivevano fra loro d'amore e d'accordo. Il Frate li trovò riuniti in una stanza terrena occupati a tagliare col coltello i dentali per l'aratro. Nel veder fra' Leonardo si alzarono e vollero offrirgli da bere, ma il Diavolo li ringraziò. - No, brava gente, son venuto soltanto a prendere l'elemosina per il convento. - Scusateci, fra' Leonardo, ora siamo da voi. Si preparano i dentali per l'aratro, ché quelli che abbiamo son consumati, - disse il maggiore de' tre fratelli. - Eppure, - continuò il secondo, - furon fatti da poco col legno di querciolo; ma la nostra terra è dura come il sasso, e si suda molto a lavorarla. - Figuratevi, - aggiunse il terzo fratello Dovizii, - che in una giornata si stancano due paia di manzi; a mantenere tante bestie c'è da andare in rovina. - Capisco che vi lamentiate, figli miei, - rispose il Diavolo, - e voglio aiutarvi. Questo dentale fu fabbricato da san Giuseppe. Quando vi s'innesta il vomero, esso lavora tutto il giorno da sé e fa tanti solchi quanti non ne farebbero quattro aratri tirati dai manzi. Disgraziatamente questo dentale non può avere altro che un padrone e bisogna che appartenga a uno solo di voialtri. - Tiriamo a sorte per vedere a chi tocca! - esclamarono i fratelli. Il Frate acconsentì, e quando i Dovizii ebbero tirato, il dentale toccò al minore, che aveva nome Ciapo. Fra' Leonardo glielo diede e andò via avendo ricevuto una larga elemosina, dopo di aver raccomandato ai due fratelli maggiori di non esser gelosi del minore. Questi andò a prender l'aratro, lo portò in un campo, che non era stato lavorato da tre anni, e inserì il vomero nel nuovo dentale. Subito il vomero si mise in moto, volando sulla terra come un uccello cacciato dalla tempesta e facendo un solco più profondo per due volte di quello che suol fare il vomero. I due fratelli maggiori, che erano andati per vedere, rimasero immobili dalla sorpresa, ma in quel momento sparì dall'animo loro l'affetto per il fratello e provarono per lui un'invidia indicibile. Ciapo, invece, si gonfiava d'orgoglio. - È stato fortunato davvero di vincere il dentale! - sussurrarono essi a bassa voce, - noi avevamo tanti diritti quanto lui, ma il caso lo ha favorito. Ciapo udì questi discorsi e si volse irato. - Non fate come i reprobi, - disse, - che chiamano caso la volontà di Dio. Se ho ottenuto questo dono prezioso, vuol dire che ero stimato più degno di voi di riceverlo. I due fratelli gli risposero per le rime e lo chiamarono vanaglorioso. Quest'epiteto fece andare in bestia Ciapo. - Andatevene! Andatevene! - esclamò, - non mi fate uscir dai gangheri, perché con il mio aratro posso ammassare in breve molte ricchezze, e quando sarò un signore, se mi salta il ticchio, vi riduco alla miseria. Questa minaccia fece salire ai due fratelli maggiori tutto il sangue alla testa. Essi erano ciechi di rabbia e dissero: - Abbi giudizio, borioso maledetto, perché se tu ci minacci, ti spoglieremo di ciò che costituisce la tua superbia! - Se avete il coraggio, fatelo pure, - rispose Ciapo alzando il roncolo che portava alla cintura e ponendosi a difesa del suo tesoro. I fratelli, pazzi di furore, vedendogli in mano quel ferro, estrassero i coltelli e lo crivellarono di ferite, cessando soltanto quando Ciapo cadde morto davanti a loro. Una risata maligna echeggiò in quel momento dietro a una siepe. Era il Diavolo che rideva dalla contentezza e se ne andava felice dell'opera sua. Prima di giungere in Bibbiena, lasciò le vesti di Frate cercatore, e prendendo l'aspetto di un mercante di buoi, entrò in una osteria e chiese da cena. La serva gli portò in tavola un par di rocchi di salsicce, una frittata e un fiasco di vino. Mentre il Diavolo mangiava, entrò un uomo tutto commosso, narrando che i vecchi Sbrigoli erano crepati a tavola dal troppo mangiare e dal troppo bere. Il Diavolo si strofinò le mani e ordinò alla serva un altro fiasco di vino, ma di quello vecchio, stravecchio. Mentre sorseggiava il primo bicchiere entrò nell'osteria un altro uomo, annunziando che il conte Marco, mentre cavalcava per recarsi a una sua villa, dopo aver rubato la bella Nicolina Verri, era stato sorpreso dalla piena, guadando l'Archiano, ed era morto. - Anche la ragazza? - domandò il Diavolo. - S'intende, e il cavallo pure, - rispose l'uomo. - Il cadavere del conte Marco è stato ripescato, ma nessuno ha avuto ancora tanto coraggio da portare la notizia del disastro al padre suo. Il Diavolo, dalla contentezza, scese nell'orto e ballò come un burattino. Quando si fu rimesso a tavola, altri giunsero nell'osteria raccontando che i due fratelli Dovizii avevano ucciso Ciapo, e poi, dallo spavento del delitto commesso, si erano dati alla fuga. Il Diavolo mandò un grido di gioia e chiese che gli portassero un fiasco di vin santo. Intanto la gente era sgomenta da quel succedersi di disgrazie e di delitti in poche ore, e si faceva il segno della croce temendo che fosse prossimo il giorno del giudizio. Il Diavolo centellinava l'ultimo bicchierino di vin santo quando Gesù Cristo si presentò sull'uscio. - Satana, - disse, - la giornata è trascorsa e tu devi tornare alle fiamme dell'Inferno. - Son pronto, Nazzareno, - rispose Satanasso asciugandosi la bocca, - ma ti assicuro che non farò il viaggio solo. Porto meco tutti quelli che ti eran cari in questo paese. - Quali arti diaboliche hai tu impiegato per condurre a te quelle anime timorate di Dio? - domandò Gesù Cristo. - Un mezzo semplicissimo: li ho beneficati. Tu mi avevi proibito di tormentare gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii, e io non ho trasgredito la tua volontà; invece di molestarli, li ho arricchiti. Questo fatto ti servirà d'esempio, Nazzareno. Tu saprai un'altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli. Addio! E il Diavolo fece un lancio e sparì nell'oscurità della notte. Mentre Gesù Cristo, afflitto dalla dannazione di quelle anime, riprendeva il pellegrinaggio, alla luce delle torce vide recare sopra una barella il cadavere del conte Marco, che riportavano al palazzo. Poi, ammanettati in mezzo ai soldati, scòrse i due fratelli Dovizii. Il Signore si coprì la faccia e pianse esclamando: - Il Diavolo è più potente di me! - Come raccontate bene, Regina! - esclamò Vezzosa. Vi si starebbe a sentir degli anni. Me l'avevano detto che non ci era nessuno che narrasse le novelle come voi, ma non ci credevo. Ora non posso più dire così, ed è un piacere davvero l'ascoltarvi. - La mamma, - rispose la Carola, - ci fa parer corte le veglie d'inverno, e se tu ci fai bene attenzione, ogni novella contiene uno o più ammaestramenti. Io lo dico sempre, ai miei figliuoli, che son ben felici di avere una nonna come lei. Cecco aveva una voglia matta di unire le sue lodi a quelle altrui, ma la presenza delle donne di fuori lo tratteneva e avrebbe taciuto se la Vezzosa non l'avesse stuzzicato dicendo: - Scommetto che di quanti siamo qui, il solo che non piglia gusto alle novelle della Regina, è Cecco. Lui, assuefatto in città, deve ridere delle nostre fandonie. - Io? - rispose Cecco arrossendo. - Sì, proprio voi; al reggimento disimparate tutte le usanze del paese, e invece di sentir raccontare volentieri i fatti veri o immaginarî che riguardano il Casentino, leggete i fattacci che stampano i giornali. Ne ho visti tanti che sono ritornati da fare il soldato, e tutti avevan cambiato pensiero e disprezzavano ciò che prima piaceva loro. - Vi sbagliate, Vezzosa, - rispose Cecco vincendo il ritegno. - Io sono stato volentieri sotto le armi, perché ho imparato a montare a cavallo, a puntare un cannone, a sopportare le fatiche delle marce, e, all'occorrenza, sarei buono anch'io a difendere il nostro paese, che non è il Casentino solo, ma bensì tutta l'Italia. Ma anche quando ero nelle grandi città, il mio pensiero si volgeva sempre qui, e non vedevo il momento di tornare a casa per abbracciare la mia vecchietta e aiutare i fratelli. Io non credo che si possa essere buoni soldati, se non si comincia dal fissare le proprie affezioni a una casa, a un pezzetto di terra, e da queste non si estendano a una regione e poi alla grande patria, che il soldato deve essere pronto a difendere. - Cecco, voi parlate come un libro e non l'avrei mai creduto; ma già siete figliuolo della Regina. Godo davvero di sentire che voi siete rimasto un buon casentinese anche sotto le armi; vuol dire che alla vostra casa e alla vostra mamma siete affezionato davvero. Cecco non rispose, ma scambiò con la Regina uno sguardo pieno d'affetto. - Quand'è mamma che ci racconterete un'altra novella? - domandò la Carola. - Domenica, se non c'è nulla in contrario. - Allora, Vezzosa, non mancare domenica prossima; e siccome sarà entrato il carnevale, dopo la novella farete due salti. Avverti le compagne, e Cecco suonerà l'organino. - Cecco ballerà, - disse Vezzosa. - In paese non ce n'è tanti dei ballerini come lui, ed è meglio che suoni chi non può dimenar le gambe. Il bell'artigliere non poteva soffrire che quella ragazza si occupasse sempre di lui, e per levarle ogni speranza disse: - Su di me non ci contate, io non so ballare. - Si vedrà! - rispose Vezzosa che non voleva darsi per vinta. Per dare un'altra piega al discorso, Cecco disse: - Si può sapere, mamma, quello che ci racconterete domenica? - Se posso rammentarmene bene, vi racconterò la novella di Adamo il falsario; me la raccontava sempre la mia nonna; ma sono tanti e tanti anni che può essermi uscita di mente. - Oh, ve la rammenterete, nonna! - esclamò l'Annina, - voi non dimenticate mai nulla, e domenica saprete farvi onore davanti a molta gente! Poi balleremo e voi ci starete a vedere. - Io andrò a letto, bimba; alla mia età si ha bisogno di riposo. - Ora ne avete bisogno davvero, andate a letto, mamma. La vecchia, aiutata da Cecco, si alzò e andò in camera. Quando il bell'artigliere fu tornato in cucina, Vezzosa gli si piantò davanti, dicendogli: - Siamo tutte donne sole; vi dispiace, Cecco, di accompagnarci? Egli non poté rifiutarsi e uscì fischiando; ma invece di mettersi accanto alla Vezzosa, com'ella avrebbe voluto, s'imbrancò con i bambini, e con lei non scambiò altro che la felice notte sull'uscio di casa.

E, abbassando il capo senza aggiungere altro, andò al suo lavoro, ripensando alla bestialità fatta col dare una matrigna alle figliuole. La Regina confermò il fatto, piangendo dalla felicità e raccomandò a Vezzosa di essere per Cecco buona e affettuosa compagna. - Almeno quando non ci sarò più io per volergli bene, ci sarai tu, ed egli potrà consolarsi con te della mia mancanza, - diceva la vecchia. La domenica, Vezzosa, che non era più malata, ma bianca e rossa come un fiore, fu invitata a desinare a casa Marcucci, e le dettero a tavola il posto accanto a Cecco, che doveva occupare in seguito, quando sarebbe stata la moglie di lui . Maso aveva invitato anche il resto della famiglia di Vezzosa, ma la matrigna, che era in furore per non averla potuta accasare a modo suo, non volle accettare, e così convenne anche a Momo di stare a casa sua. Non fu un desinare, ma un pranzo in tutta regola, quello che i Marcucci offrirono a Vezzosa. Cappone lesso, un buon fritto, tordi arrosto, ammazzati da Cecco, cenci dolci e vin buono. E di questo pranzo non godé soltanto Vezzosa, ma anche il pievano e due amici di Cecco, che erano stati soldati con lui e si erano recati da Bibbiena al podere di Farneta, dietro invito dello sposo. Vezzosa non s'era messa in fronzoli; aveva la sua sottana di flanella, il giacchetto eguale e un grembiule di seta. Di gioie nulla, altro che i piccoli pendenti d'oro, che Cecco le fece togliere per ornarla delle buccole con le perle, regalo compratole a Firenze, dove aveva fatto una gita il venerdì col pretesto di vendere della canapa. Naturalmente quella domenica fu bevuto più del consueto, e il desinare terminò quasi a notte. Mentre gli uomini fumavano a tavola, Vezzosa si rimboccò le maniche del vestito, si mise un grembiale da cucina, e aiutò le altre donne a sparecchiare e a rigovernare. Cecco, non le toglieva gli occhi da dosso, badava a dire alla mamma sua: - L'ha già preso il suo posto in casa, e vedrete come lo saprà tenere! Come è graziosa anche nel far le faccende; par fatta di un'altra pasta di noi, zotici villani! Ed era vero. Vezzosa non si abbassava nel prestare umili servigi. Aveva un certo fare che nobilitava ogni opera delle mani, e una destrezza che già le future cognate le invidiavano. Quando la cucina fu tutta in ordine, ella andò a sedersi accanto a Regina, e le disse sorridendole: - Mamma, aspettiamo la novella! La vecchia la guardò con compiacenza e prese a dire: - C'era una volta a Bibbiena una ragazza per nome Amabile, che era reputata in paese la bella delle belle. Il padre di lei faceva il tessitore di panni, dunque Amabile non era punto, ma punto ricca. Però le piaceva di comparire, e avrebbe fatto a meno di desinare pur di mettersi un fronzolo nuovo. Dovete sapere che da anni e anni a Bibbiena c'è la costumanza di far baldoria l'ultimo giorno di carnevale. In quel dì una comitiva di Fondaccini, con nastri celesti e merli, vivi o morti, legati per le zampe al cappello, gira di giorno la città suonando il trescone sul violino o sull'organetto. Ogni tanto questa comitiva dei Fondaccini si ferma davanti alla casa di qualche persona facoltosa, acclama il proprietario che dispensa denari e rinfreschi. Nello stesso tempo un'altra comitiva, detta dei Piazzolini, percorre altre strade, e a una cert'ora si ferma in Piazza Grande. Costì uomini e donne si mettono in giro alla fonte e cantano la canzone del Pomo Bello. Appena suona la campana della torre, tutta questa gente va in Piazzolina, dove i Fondaccini hanno acceso il Pomo Bello, che è un rogo formato di fascine di ginepro. Mentre la fiamma avvolge il rogo, anche i Fondaccini cantano la canzone del Pomo Bello, suonano il trescone, e le ragazze e i giovinotti ballano a più non posso. Ora avvenne che Amabile, la bella fra le belle di Bibbiena, si trovasse sulla Piazzolina quando fu incendiato il Pomo Bello. Ella era accompagnata dal padre, che, essendo uomo faceto, cantava a squarciagola: e le ronzava intorno Bindo, un altro tessitore, che era tanto innamorato di lei che pareva lo avesse stregato. Amabile, che era vana e ambiziosa, lo teneva a bada, ma non gli dava troppe speranze, perché il giovanotto non aveva terre al sole. Quell'ultima sera di carnevale, dunque, era mescolato alla folla un giovine signore di casa Dovizî, venuto da qualche giorno da Pisa, dove compieva gli studî. Costui appena vide Amabile se ne innamorò a tal segno che non si rammentò neppure che la ragazza era di bassa condizione, e lui di famiglia nobile. Voleva lasciare gli studî e non moversi più da Bibbiena, e dopo aver ballato con lei e averle dette tante dolci parole, consumò la strada davanti la casa di Amabile cantando le ultime strofe della canzone del Pomo Bello, che dicono: La Brunettina mia, Coll'acqua della fonte, La si bagna la fronte, Il viso e il petto. Un bianco guarnellino, Ell'ha con che si veste, E pel dí delle feste, Quello adopra. La voce del giovane si faceva specialmente forte per cantare gli ultimi quattro versi, che sono questi: S'io fossi in campo acciso, Fra suoni e canti, Io mi vedrei davanti, Il suo bel viso. Amabile, cui non era sfuggita la cortesia del giovine signore, capì che era lui che cantava, e disse fra sé: - Bindo non mi avrà certo; di qui a poco, sarò la moglie del bel cavaliere. Il dì appresso ella stava filando sull'uscio di casa, quando Desiderio Dovizî, passando di là, la salutò cortesemente. Ella rispose al saluto, e con belle maniere lo invitò a fermarsi per scambiare alcune parole. Desiderio accondiscese, e da quel giorno non cessò di passare dalla casa di Amabile, finché le due chiacchiere diventarono lunghi discorsi. A farla breve, egli, che era sempre più consumato dalla fiamma d'amore, le promise di sposarla appena terminati gli studî. Amabile era al colmo della felicità, perché aveva sempre bramato di crescere di grado e di vestire abiti di drappo, come aveva veduto portare alle signore del castello di Bibbiena. Ma intanto che i due giovani parlavano del loro avvenire, il fratello maggiore di Desiderio, cui non era sfuggita la passione del giovane per la bella fra le belle, gli ordinò di tornarsene a Pisa agli studî. Desiderio, prima di partire, pose in dito ad Amabile un ricco anello, e si fece promettere di restargli fedele. In capo a tre mesi egli sarebbe tornato e allora avrebbero pensato a celebrare le nozze. Amabile pianse in sulle prime, ma il timore di guastarsi i begli occhi, che tutti decantavano, la fece smettere, e, ripreso il fuso, tornò sulla porta a cantare per svagarsi. I giovinotti, che si erano allontanati per lasciare il campo libero a messer Desiderio, appena lo videro partire ricominciarono a ronzare intorno ad Amabile, la quale li trattava gentilmente, e alle loro parole melate rispondeva senza scoraggiarli, come sogliono far le ragazze che desiderano di sentirsi sempre adulare. Intanto messer Desiderio non s'era fatto vivo, e Amabile si cominciava ad annoiare di doverlo attendere tanto tempo, Un giorno ella era andata a merenda a Fonte Chiara da una sua comare, e verso sera se ne tornava a Bibbiena, quando le si accostò un cavaliere montato sopra un bellissimo cavallo morello: - Che cosa desiderate, signor cavaliere? - domandò Amabile alzando su di lui i bellissimi occhi. - Bella fra le belle, vorrei offrirti questa rosa, meno fresca delle tue labbra, - rispose il signore. Amabile fece una risata. - Voi non sapete certo che io sono promessa sposa, e che non posso accettare neppure un fiore da altri che dal mio sposo. Il cavaliere non rispose, ma balzato di sella infilò il braccio nella briglia e si mise a camminare accanto ad Amabile, sussurrandole nell'orecchio paroline dolci. Fra le altre cose egli le disse: - Se la bella fra le belle non vuole accettare una rosa, posso offrirle un bel fiore d'argento, poiché mio padre mi ha lasciato tanti fiorini d'oro da caricare tre carri. - Anche il mio sposo è ricco e non mi ricuserebbe nulla, - rispose Amabile. Quand'ebbero fatto un pezzo di strada il cavaliere disse: - Oltre l'eredità di mio padre, ho anche i beni che mi ha lasciati mia madre, i quali consistono in campi e vigneti; e se la bella fra le belle ricusa il fiore d'argento, posso offrirglielo d'oro. - Non vi ascolto, - rispose Amabile turbata. Così doveva parlare il serpente alla nostra prima madre. Fecero un altro pezzo di strada e il cavaliere disse: - Fin qui ho parlato alla bella fra le belle soltanto dei beni ereditati da mio padre e da mia madre; ma ho ancora dei boschi immensi lasciatimi da mio zio, e se il fiore d'oro le par cosa troppo misera, posso offrirgliene uno tutto scintillante di diamanti e rubini. Questa volta Amabile rispose: - Tacete, messer lo cavaliere, voi volete la mia dannazione. Ma lo sconosciuto continuò a parlare a voce bassa di ciò che voleva offrire alla bella fra le belle. Prima di tutto abiti più ricchi di quelli di una regina e un palazzo degno di un re di corona. Amabile non poté resistere a siffatte tentazioni. Ella si tolse di dito l'anello da sposa e l'offrì al cavaliere, e invece di tornare a casa si lasciò condurre lontano, nel luogo ove doveva trovare il palazzo promessole. Ma più che camminavano, più il cielo si faceva scuro, e a una a una sparivan le stelle. Nella campagna non si udiva altro canto che quello sinistro della civetta. Allora ella ebbe paura e disse allo sconosciuto: - Signor cavaliere, è tanto che camminiamo e non vedo dinanzi a me altro che una spianata, che somiglia a un camposanto. - È il cortile del mio palazzo, - rispose il signore. - Vedo una croce come quelle che piantano sul margine delle vie, nel luogo ove fu commesso un delitto. - È la banderuola del mio tetto, - rispose lo sconosciuto. Amabile fece alcuni passi e poi si fermò. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s'è impietosito e mi ha dato le sembianze d'uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l'ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l'alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell'abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l'anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

Quando vi fu dentro, abbassando gli occhi sul petto, gli venne fatto di vedere, insieme con altre medaglie di bronzo e d'argento, quella d'oro con l'effigie di san Marco, datagli dalla madre al momento della partenza, e, intenerito da quel ricordo, disse: - San Marco benedetto, voi che prendeste a simbolo il leone, aiutatemi a domare la terribile fiera! E con un bacio ardente, deposto sull'immagine, suggellò la preghiera. In quel momento gli parve che gli occhi del santo Evangelista, ch'egli invocava, brillassero di una luce vivissima e che la testa circondata dall'aureola si abbassasse in atto di annuire. Questo bastò a Valfredo per riacquistare fede nell'impresa e, uscito dall'acqua, stava per rivestirsi, quando si vide davanti uno dei mori, che formavano la guardia del Sultano. Questi, vedendo luccicar sul petto al cristiano la medaglia d'oro, stese la mano per afferrarla, ma Valfredo, che era agile e forte, spiccò un salto all'indietro, e afferrato un sasso minacciò di lanciarlo sulla testa a chi osava avvicinarglisi. Il moro non si lasciò intimidire da quella minaccia, e tolta dal fodero la terribile scimitarra che portava al fianco, la brandì e si slanciò contro Valfredo, il quale, indovinata l'intenzione del nemico, senza esitare, lanciò con gesto rapido la pietra. Essa colpì in pieno petto il moro, che cadde rantolando per terra. - San Marco benedetto, e tu, madre mia, abbiatevi un giuramento: nessuno mi toglierà questa medaglia, doppiamente sacra, altro che dopo la mia morte! - disse Valfredo. E, rivestitosi in fretta, lasciò il suo nemico agonizzante per terra, e si allontanò. Ma poco dopo sopraggiunse una squadra di guardie che, raccolto il ferito, seppe da lui, prima che spirasse, che il feritore non era altri che il cristiano addetto alla guardia del leone d'Africa. Questa indicazione bastò perché Valfredo fosse subito arrestato e condotto incatenato alla presenza del Sultano. Il genovese serviva al solito d'interprete fra il sovrano de' Turchi e il cavaliere di Romena. - Can d'un cristiano, - disse il primo, - perché hai uccisa una delle mie guardie? - Signore, - rispose Valfredo, - io possiedo un talismano che deve servirmi a domare il feroce leone e renderlo docile come una pecorella. Mentre uscivo da una vasca del giardino, nella quale avevo cercato refrigerio ai bollori meridiani, la guardia mi s'è avvicinata e ha voluto rubarmi il mio talismano. Io mi son fatto indietro ed egli ha sguainata la scimitarra per mozzarmi la testa. In quel momento, non avendo armi per difendermi, ho afferrato un sasso e l'ho colpito. Signore, io non ho difeso soltanto la mia vita, ma ho voluto conservare il talismano che deve procurarti la soddisfazione di vedere a' tuoi piedi, reso mansueto, il terribile leone del deserto. - Se è così, cristiano, hai fatto bene ad uccidere la guardia; ma io non ho molta pazienza di attendere, e voglio che non più dentro ad un mese, ma dentro una settimana, tu mi conduca davanti il leone sciolto, al quale in presenza mia tu conterai i peli della criniera. Hai capito? Valfredo capiva purtroppo, ma non si perdeva d'animo. Gli furono tolte le catene e venne rimesso in libertà. Egli si grattò il capo, non sapendo come cominciare l'educazione del leone, e ritornò dintorno alla gabbia. Il leone lo salutò con un ruggito, che pareva una cannonata. - Le disposizioni della belva sono buone; si principia bene davvero! - esclamò Valfredo. Mentre stava pensando al modo di addomesticare il leone, capitò accanto a lui un veneziano prigioniero. - Amico, - gli disse, - per tutto il palazzo non si parla altro che di te e della bella medaglia d'oro che porti al collo. Vuoi giuocarla contro questo prezioso pugnale che io tengo nascosto nelle vesti? E gli faceva vedere un'arma dalla impugnatura d'argento, tempestata di pietre preziose, e nello stesso tempo toglieva di tasca due dadi. Valfredo, alla vista del pugnale e soprattutto dei dadi che aveva sempre maneggiati con tanta passione di giocatore, si sentì rimescolare il sangue, e già stava per cedere all'invito, quando gli parve di scorgere dinanzi agli occhi la faccia rannuvolata di san Marco. - No, - rispose con fermezza, - io non cederò alla tentazione e non arrischierò il mio talismano contro il tuo pugnale prezioso; tu fai in questo momento con me la parte del Diavolo. Vattene! Il veneziano si offese della repulsa, e, pieno d'ira, si gettò addosso a Valfredo per piantargli l'arma nel cuore. Ma Valfredo, più pronto, gli afferrò la mano, lo disarmò, e come sfregio gli fece una leggiera scalfittura sulla guancia, poi se ne andò. Dopo un'ora, incatenato di nuovo, Valfredo era alla presenza del Sultano. - Dunque, can d'un cristiano, non vuoi concedermi un momento di pace e dovrò sempre occuparmi di te? Prima mi uccidi una guardia, ora mi ferisci uno schiavo, che io tenevo in gran conto perché era abilissimo nei lavori d'orafo ed ha arricchito il mio tesoro di gioielli ed armi preziose! Che dici a tua difesa? - Nulla, - rispose Valfredo, cui il genovese serviva d'interprete, - quel veneziano voleva che io giocassi il mio talismano, ed essendomi rifiutato, egli ha tentato di uccidermi, ed io l'ho disarmato e ferito al volto. Del resto, signore, la sua ferita è così lieve che, se egli volesse, potrebbe subito tornare al lavoro. - Lieve o non lieve che sia, tu gliel'hai fatta, quella ferita, e devi essere punito. Non ti concedo più una settimana, ma un giorno per ammansire il leone, tanto da contargli in presenza mia i peli della criniera. Va'! Il cavalier di Romena, per ordine del Sultano, fu riposto in libertà, e afflitto e sconsolato andò in un punto solitario del giardino e si buttò in ginocchio. - San Marco benedetto, datemi un suggerimento, un'ispirazione per uscire da questo impiccio, perché io non so davvero come fare per ammansire il leone! Se mi aiutate, vi prometto, per l'eterna salute mia, di porre il mio braccio in difesa della fede e della città di Venezia, che vi ha eretto un tempio splendido e vi ha scelto a protettore. Subito dopo che aveva pronunziato questa promessa, si sentì invaso da una forza e da un coraggio straordinario. Gli pareva che avrebbe spezzato una incudine di ferro con una mano e avrebbe divelto dalla terra uno degli alberi giganteschi del giardino. Volle provarsi, e, cinto infatti con le braccia il tronco robusto di un albero, si mise a tirarlo. Con tre strattoni le radici si sollevarono dalla terra, come avrebbe fatto una pianta di rose da un vaso. Animato da questo primo esperimento, Valfredo aprì la gabbia del leone, e vi penetrò. La fiera ruggì, e con gli occhi spalancati, la bocca aperta, fece un lancio per saltargli addosso e piantargli nel petto i potenti artigli; ma Valfredo, invocato che ebbe san Marco, stese le mani, e, afferrato il leone per le gambe, lo mantenne a distanza. La fiera ruggiva, mandava schiuma dalla bocca e lampi dagli occhi, ma non poteva moversi, trattenuta dalle ferree mani del giovine cavaliere. La belva e l'uomo stettero così un pezzo con gli occhi fissi, e fu il leone che dovette abbassare lo sguardo dinanzi a Valfredo. Allora questi liberò le zampe dalla stretta; ma appena il terribile avversario si sentì padrone dei suoi potenti mezzi di offesa, con la bocca spalancata si avventò alle gambe del giovine, il quale, prima che le zanne gli lacerassero le calze, afferrò per le ganasce l'animale e lo costrinse a rimanere a bocca aperta senza poterlo mordere, senza poter fare nessun movimento. Dapprima, il terribile abitatore del deserto, fremette; ma poi, a poco a poco, si ammansì, e piegate le ginocchia rimase in atteggiamento umile dinanzi al suo soggiogatore. Le mani ferree si staccarono dalle ganasce del mostro, il quale non si mosse e con la lingua incominciò a leccare le palme di Valfredo. - San Marco, vi ringrazio di avermi fatto il miracolo! - esclamò il cavalier di Romena. - Ora sono salvo. E senza timore alcuno spalancò la gabbia e andò nel giardino. Il leone lo seguiva scodinzolando, ma i giardinieri, vedendolo, fuggivano spaventati, cosicché la notizia che Valfredo aveva domato il leone, giunse a palazzo prima che egli vi conducesse la fiera. Le guardie però non vollero lasciarlo entrare con quella compagnia, e il giovine cavaliere dovette attendere un ordine del Sultano. Intanto egli si era seduto sopra uno scalino di marmo e il leone gli stava accucciato ai piedi come un mansueto cagnolino. Poco dopo giunse l'ordine del Sultano, e allora Valfredo fu introdotto nella sala del trono alla presenza del temuto signore. - Cristiano, compi ciò che ti ho imposto, - ordinò. Valfredo non rispose, ma inginocchiatosi a fianco dell'animale incominciò a contargli i peli della criniera. Il conto riusciva lungo, perché la criniera del re del deserto era foltissima; ma il leone non si moveva e si lasciava toccare senza dar segno alcuno di tedio o di ribellione. Il Sultano non fiatava, ma le guardie, con la scimitarra sguainata, stavano pronte per difenderlo. Quando Valfredo ebbe terminato di contare, disse: - Vedi, potente signore, che io ho compiuto in un giorno un miracolo. Avevi una fiera e io l'ho ridotta più mansueta di un agnello. Questo leone potrai tenerlo ai piedi del tuo trono, ed esso darà maggior idea della tua possanza e sarai paragonato agli antichi imperatori di Roma e di Bisanzio. Non ti pare che in cambio di questo servizio io meriti qualche ricompensa? - E l'avrai, infatti, cane d'infedele! - rispose il Sultano. - Guardie, legatelo, e fra un'ora voglio che il suo cadavere penzoli dalla forca. Fremé Valfredo a tanta ingratitudine, e quando vide le guardie che si avanzavano per legarlo, urlò: - A me, leone di san Marco! A quel grido la fiera si scosse, ruggì, e, gettandosi addosso alle guardie, le sbranò; poi, saliti i gradini del trono, piantò gli artigli nel petto al Sultano e lo ridusse in pochi istanti boccheggiante cadavere. Le altre guardie fuggirono spaventate a rinchiudersi nelle cantine del palazzo. Ovunque era lo scompiglio. Si udiva il rumore di porte sbatacchiate, di catenacci scorrenti nei ferrei anelli. Valfredo era rimasto solo col leone, in presenza del cadavere del Sultano. Allora, animato da insolito ardimento, si slanciò nei giardini, preceduto dalla fiera, gridando: - A me, cristiani, per il leone di san Marco, noi siamo liberi! A un tratto una folla di prigionieri di tutte le nazioni, circondò il cavaliere di Romena. Accorrevano dal ponte, dalle galere, dai giardini, da ogni banda, carichi di ceppi, ma sorridenti a quel grido che prometteva loro la libertà. Invano i soldati turchi cercavano di sbandarli; il leone ne disperdeva le schiere, e la falange dei prigionieri avanzava sempre verso la rada del palazzo, nella quale si cullavano le dorate galere su cui sventolava l'orifiamma. I prigionieri se ne impossessarono mercè il leone, che fece strage dei mori che le costudivano, e poco dopo essi spiegavano le vele al vento e navigavano alla volta dell'Adriatico, verso la terra della libertà! Allorché le sentinelle della torre di Malamocco videro giungere le dorate galere sormontate dall'orifiamma, dettero l'allarme. Ma Valfredo scese in una imbarcazione, chiese di parlamentare e fu condotto dal Doge, al quale narrò dell'uccisione miracolosa del grande nemico della Repubblica e della liberazione di tanti cristiani, trattenuti lungo tempo in dure catene. Vennero fatti solenni rendimenti di grazia al protettore di Venezia per quel fatto, e quando Valfredo espresse il suo desiderio di porre il suo braccio e la sua spada al servizio della Serenissima, il Doge e il Consiglio lo investirono del comando delle navi prese ai Turchi. E su quelle Valfredo corse vittorioso i mari, sempre accompagnato dal leone, che era docile con i cristiani e ferocissimo con gli infedeli, sbranandone quanti più poteva. Il cavalier di Romena salì ai più alti onori e acquistò grandi ricchezze. Già inoltrato negli anni, tornò a Romena. Il padre suo era morto, morta la buona madre che lo aveva pianto così amaramente per lunghi anni, e i suoi fratelli eran tutti vecchi. Essi, che avevano contribuito a farlo scacciare dal padre, ora, sapendolo ricco, lo accarezzavano e lo circondavano di attenzioni, apparentemente affettuose, ma dalle quali egli non si lasciava ingannare. Valfredo si trattenne alcuni mesi nel castello di Romena, e in quel tempo, chiamati da Firenze architetti, scultori e pittori, fece costruire una ricca cappella in onore di san Marco, nella quale ordinò che fosse trasportato il cadavere della buona madre sua, di colei che lo aveva protetto nell'esilio. Vi potete figurare se il leone, che era il compagno inseparabile di Valfredo, destasse la curiosità degli abitanti del Casentino! Essi scendevano dai monti più alti per vederlo, e il leone, che era docile e buono con quelli che amavano il padrone, riprendeva i suoi istinti bestiali appena si accorgeva che qualcuno tentava di far male a Valfredo. Infatti sbranò un cugino del suo padrone perché lo diffamava, e staccò con una zannata la mano destra di un perfido suo nipote, il quale, non contento dei molti doni avuti da lui, gli aveva rubato una grossa somma in tanti fiorini d'oro della Serenissima Repubblica di Venezia. Quella belva pareva guidata da una intelligenza soprannaturale e si sarebbe detto che l'anima del santo protettore della città del mare si fosse trasfusa in lui. Valfredo visse molti anni e morì a Venezia carico d'onori. Il giorno stesso della sua morte fu trovato stecchito anche il leone, la cui pelle servì di lenzuolo funebre al cavalier di Romena. - La vostra novella, - disse Vezzosa quando si accòrse che la Regina aveva terminato di narrare, - ha prodotto il solito benefico effetto sopra di noi. Vedete, mamma, i volti nostri non esprimono più l'ansietà; voi ci avete divagati e noi siamo più calmi, più fiduciosi e più forti. Però, nonostante l'assicurazione che Vezzosa aveva data alla Regina, la conversazione languì. Nessuno osava parlare vedendo Maso col capo chino e gli occhi fissi in terra, come nei giorni della morte di un manzo o dello sperpero della raccolta; e quel silenzio e quell'abbattimento del capoccia si rifletteva su tutta la famiglia. Questo silenzio si sarebbe prolungato chi sa quanto, se un incidente non fosse venuto a interromperlo. - Una lettera! - gridò dalla viottola un frate converso di Camaldoli che tornava da Poppi. - Presto, datemi un mulo prima che faccia notte. Mentre i ragazzi correvano nella stalla a prendere il trapelo, Vezzosa aveva preso la lettera a lei diretta e la leggeva alla luce dell'ultimo chiarore crepuscolare. Non appena ebbe terminato di leggerla, esclamò: - Le nostre speranze non sono deluse, le nostre fatiche non sono state sprecate. Sentite: la moglie del nuovo ispettore, la buona signora Durini, mi dice che sua madre e suo padre prendono tre stanze da noi per quattro mesi e ci dànno cento lire al mese e il servizio a parte. Sperano che li provvederemo di vino, d'olio, di farina, di legna, di tutto, insomma. Dobbiamo rispondere subito, se siamo, o no, contenti della somma che ci offrono, perché essi cercano una villeggiatura. Il padre della signora Durini è stato ammalato ed ha bisogno di rimettersi. - Sia ringraziato il Cielo che ha esaudite le mie preghiere! - esclamò la buona Regina con le lacrime agli occhi. - E quando giungerebbero? - domandò la Carola. - Martedì, che è il primo luglio. Maso era il più attaccato all'interesse di tutti i Marcucci. Prima di dare una risposta egli si consultò coi fratelli e domandò loro se non credevano che dall'affitto di una parte della casa potessero ricavare un utile maggiore. Aveva sentito dire che il segretario comunale di Poppi aveva affittato quattro stanze e la cucina per centottanta lire al mese, e che l'Amorosi, il locandiere di Bibbiena, prendeva da ogni camera quarantacinque lire. Non potevano essi pretendere di più? Eppoi, due vecchi soli, che cosa avrebbero consumato? Non credevano i fratelli che se la famiglia fosse stata più numerosa, avrebbero guadagnato di più vendendo il vino, l'olio, i polli e il resto? I fratelli gli fecero però osservare che questo era un affare fatto, e se aspettavano una offerta più lucrosa, rischiavano di perdere il mese di luglio e forse l'intiera stagione. - Maso, non vi riconosco; - disse la Vezzosa, - lasciare il certo per l'incerto, scusate, mi sembra una bella pazzia. Inoltre, una famiglia molto numerosa, con bambini, per esempio, sperpererebbe le frutta e l'uva. Non vi lasciate tentare da un guadagno maggiore, e accettate questo di cento lire, che ci piovono dal Cielo. Chi sa che non doveste pentirvi di aver dato un calcio alla fortuna! Scusate se io, ultima venuta in casa, m'ingerisco di queste cose; ma darei metà del sangue mio per levarvi dalle angustie. - Ti devo proprio dare ascolto? - disse il capoccia a Vezzosa. - Vi prego, per quanto ho di più caro a questo mondo, che è il mio Cecco, accettate. - Vada dunque per cento lire! - disse il capoccia. - Vezzosa, tu che sai mettere in carta tanto benino, scrivi alla signora Durini che i suoi genitori possono pure venire quando vogliono e da noi troveranno un piatto di buon cuore, che è tutto ciò che i poveri possono offrire. Quella sera i Marcucci cenarono con grande appetito e la notte dormirono tranquillamente, sicuri ormai che una buona sommetta sarebbe entrata nella cassa della famiglia. E la mattina dopo, donne e uomini erano di nuovo tutti in faccende per lustrare ancora e pulire tutta la casa, Pareva che aspettassero l'acqua benedetta, tanto si davano da fare. Vezzosa mandò i ragazzi nei boschi in cerca di rami di quercia, e alle bimbe dette incarico di portare quanti fiori avessero potuto trovare. Essi tornarono carichi, e Vezzosa disponeva i rami sulle porte a guisa di festoni, e i fiori nei rozzi vasi di vetro e anche nei bicchieri. - Fanno allegria! Fanno festa! - ella diceva a mano a mano che coi fiori adornava le stanze. - I signori debbono ricevere una buona impressione della nostra casa e debbono conservarla ... Bambini miei, - aggiunse poi rivolta ai nipotini, - a voi spetta di esser molto cortesi con i villeggianti, per tre ragioni: sono gente anziana, sono signori e sono nostri ospiti, avete capito? I bambini avevan capito benissimo e si proponevano di rendere lieto il soggiorno di Farneta ai genitori della signora Durini.

Se non ora quando

680618
Levi, Primo 1 occorrenze

Era una lunga leva che terminava in una suola d' acciaio a forma di cuneo; abbassando la leva la suola si alzava di qualche millimetro. _ Serve proprio a spingere i vagoni, _ spiegò: _ c' è in tutti gli scali merci. Tutto sta a smuoverli, poi vanno _. Fasciò la pantofola con uno straccio perché non facesse rumore, la infilò sotto una delle ruote e abbassò la leva. Il vagone si mosse, impercettibilmente, poi si fermò. _ Bene, _ sussurrò Gedale. _ Quanto è lunga la galleria? _ Seicento metri. Poco oltre c' è un bivio; di lì parte un raccordo che attraversa il bosco e porta a una fonderia abbandonata. È meglio che mandiate il vagone sul raccordo: lo potrete scaricare senza che nessuno vi veda. Andiamo? Ma Gedale aveva qualcosa in mente. Mandò quattro uomini a raccogliere una dozzina di zucche e le fece mettere nei tralicci che reggevano una linea elettrica di alimentazione, una per traliccio. _ A cosa servono? _ chiese Mendel. _ A niente, _ rispose Gedale. _ Servono a far sì che i tedeschi si chiedano a che cosa servono. Noi avremo perso due minuti; loro sono metodici, e ne perderanno molti di più. L' azzurrino disse a tutti di stare pronti e ripeté la manovra con la pantofola: _ Ecco, adesso spingete _. Il vagone si mosse di nuovo e procedette, silenzioso e lentissimo. _ Dopo andrà meglio, _ disse il polacco. _ Il raccordo è in discesa _. Gedale mandò avanti Arié, perché avvisasse la banda che il vagone era in arrivo: venissero incontro lungo il binario di raccordo, e si preparassero a scaricare. _ Ma sono dieci tonnellate! _ disse Mottel. _ Come faremo a scaricarlo tutto? Gedale non sembrava preoccupato. _ Qualcuno ci aiuterà. Noi ne terremo solo una parte, il resto lo cederemo ai contadini. Uscirono dalla galleria e si trovarono in un banco di nebbia, attraverso il quale filtrava la prima luce dell' alba. Videro emergere dalla nebbia figure umane, sei, dodici, di più: troppi per essere le avanguardie della banda. Una voce energica gridò in polacco "Stòj": una dozzina di uomini armati, in uniforme, sbarravano la linea. Approfittando della sorpresa, l' azzurrino scattò via e sparì nella nebbia; Gedale e gli altri fecero del loro meglio per frenare la corsa del vagone, che tuttavia proseguì per una decina di metri finché Mottel non si arrampicò sulla cabina ed azionò il freno a mano. La voce di prima ripeté "Stòj!", rafforzando l' ordine con una breve raffica di mitra, e poi ingiunse: _ Rece do gòry! Le mani in alto! _ Gedale obbedì, e dopo di lui tutti gli altri: erano armati solo di pistole e coltelli, avevano lasciato le armi automatiche presso il grosso della banda: non c' era neanche da pensare di opporre resistenza. Si fece avanti un giovane snello, dal viso serio e dalle fattezze regolari: portava occhiali cerchiati d' acciaio. _ Chi è il vostro capo? _ Sono io, _ rispose Gedale. _ Chi siete? Dove portate quel vagone? _ Siamo partigiani ebrei; alcuni russi, altri polacchi. Veniamo da lontano. Il vagone lo abbiamo portato via ai tedeschi. _ Che siate partigiani, lo dovrete dimostrare. Comunque, questa zona la controlliamo noi. _ Voi chi? _ Noi dell' Armia Krajowa, dell' Armata Interna polacca. Venite con noi. Se tentate di fuggire vi spariamo. _ Tenente, verremo e non fuggiremo; ma fra poco i tedeschi saranno qui. Non è un peccato lasciargli un vagone di patate? _ Qui i tedeschi non vengono, o non subito. Ci temono; ci attaccano se ci trovano isolati, ma nel bosco non entrano. Il vagone lo porteremo nel bosco. Delle patate che cosa ne volete fare? _ In parte tenercele, in parte distribuirle ai contadini. _ Per ora le teniamo noi. Avanti, continuate a spingere, _ disse Edek, il tenente: però distaccò sei dei suoi uomini che aiutassero ed accelerassero il cammino del vagone. Durante la marcia si affiancò a Gedale e gli chiese ancora: _ Quanti siete? _ Tu lo vedi: siamo otto. _ Non è vero, _ disse Edek. _ Siete stati visti giorni fa mentre marciavate, e siete molti di più. Non c' è bisogno che tu mi dica bugie; noi non abbiamo nulla contro di voi, purché non ci disturbiate. Ci sono ebrei anche nelle nostre file. _ Siamo trentotto, _ disse Gedale. _ Una trentina sono armati e in grado di combattere. Cinque sono donne. _ Le donne non combattono? _ Una combatte e un uomo non combatte; anzi, due. _ Perché? _ Uno è troppo giovane e non è tanto sveglio. L' altro è troppo vecchio ed è stato ferito. Se anche Gedale avesse insistito nella sua bugia sarebbe stato inutile: la marcia del vagone era silenziosa, la nebbia si era infittita, e il grosso dei gedalisti, che avanzava fiducioso incontro a Gedale, si trovò in vista dell' avanguardia di Edek prima che potesse tentare di nascondersi. I partigiani polacchi (erano un centinaio) li circondarono e li fecero proseguire con le armi e i bagagli; Gedale spiegò a Dov quanto era accaduto. Dopo un' ora di cammino si trovarono nel fitto del bosco. Edek diede ordine di fermare: i loro quartieri non erano lontani. Mandò una staffetta, ed in breve fu organizzato lo scarico del vagone. Ebrei e polacchi lavorarono di lena, un sacco per uomo, facendo la spola fra il vagone e il campo. Il vagone fu spinto fino alla fabbrica abbandonata, i sacchi accatastati nel magazzino del campo, e i gedalisti al completo rinchiusi in una delle baracche in legno seminterrate che servivano di base al distaccamento di Edek. I partigiani polacchi erano bene armati, efficienti, freddi e corretti. Offrirono da mangiare agli ebrei, che tuttavia, dopo quella notte di movimento, desideravano piuttosto dormire. Il grosso del plotone polacco uscì armato nel primo mattino; nella baracca rimasero solo alcune sentinelle, ed i gedalisti furono lasciati in pace, le donne su brandine militari, gli uomini sulla paglia pulita. Ma dovettero cedere "temporaneamente" le loro armi, che furono inventariate ed accatastate in un' altra baracca. Edek e i suoi tornarono verso sera, e fu distribuito il rancio: minestra di cereali, birra in lattine e scatolette di carne con l' etichetta scritta in inglese. _ Siete gente ricca, _ disse Dov ammirato. _ È roba che viene con i paracadute, _ disse Edek. _ La gettano gli americani ma viene dall' Inghilterra; è il nostro governo di Londra che ce la manda. Gli americani hanno poco tempo e fanno i lanci alla carlona: vengono da Brindisi, in Italia, al limite della loro autonomia. Arrivano, lanciano e ripartono, così metà dei lanci vanno a finire in mano ai tedeschi; ma per noi ce n' è sempre abbastanza perché oramai siamo pochi. _ Avete avuto molti morti? _ chiese Mendel. _ Morti, e dispersi, e altri che si sono stancati e sono tornati a casa. _ Perché tornano a casa? Non hanno paura che i tedeschi li deportino? _ Hanno paura, ma se ne vanno lo stesso. Non sanno più perché si combatte, né per chi. _ E tu, per chi combatti? _ chiese Gedale. _ Per la Polonia: per la libertà della Polonia, ma è una guerra disperata. È difficile combattere così. _ Ma la Polonia sarà libera: i tedeschi se ne andranno, hanno già perduto, arretrano su tutti i fronti. Edek, attraverso gli occhiali, volse lo sguardo sui suoi tre interlocutori, Dov, Mendel e Gedale. Era di parecchio più giovane di loro, ma sembrava oppresso da un peso che gli altri non conoscevano. _ Voi dove andate? _ chiese alla fine. _ Andiamo lontano, _ rispose Gedale. _ Vogliamo combattere contro i tedeschi fino alla fine della guerra; e, chissà, forse anche dopo. Poi cercheremo di andarcene. Vogliamo andare in Palestina; in Europa per noi non c' è più posto. La guerra contro gli ebrei, Hitler l' ha vinta, e anche i suoi allievi hanno fatto un buon lavoro. Il suo vangelo lo hanno imparato tutti: i russi, i lituani, gli ucraini, i croati, gli slovacchi _. Gedale esitò, poi aggiunse: _ Lo avete imparato anche voi; o forse lo sapevate già da prima. Dimmi, tenente: siamo vostri ospiti o vostri prigionieri? _ Dammi tempo, _ rispose Edek, _ fra poco ti saprò rispondere. Ma ti volevo dire, frattanto, che l' idea delle zucche è stata buona. _ Come sai delle zucche? _ Qui intorno abbiamo amici dappertutto. Abbiamo amici anche tra i ferrovieri, e ci hanno raccontato che finora i tedeschi del presidio non hanno osato toccarle. Hanno bloccato la linea e hanno fatto venire da Cracovia una squadra di artificieri. Hanno dato più importanza alle zucche che al vagone che avete portato via. Aprì due pacchetti di "Lucky Strike" e offerse le sigarette in giro fra lo stupore ammirato dei gedalisti; poi riprese: _ Non dovete essere ingiusti, anche se qualche polacco è stato ingiusto con voi. Non tutti siamo stati vostri nemici. _ Non tutti ma molti, _ disse Gedale. Edek sospirò. _ La Polonia è un triste paese. È un paese infelice da sempre, schiacciato da vicini troppo potenti. È difficile essere infelici e non odiare, e noi abbiamo odiato tutti per tutti i secoli della nostra servitù e della nostra divisione. Abbiamo odiato i russi, i tedeschi, i cechi, i lituani e gli ucraini; abbiamo odiato anche voi, perché eravate disseminati nel nostro paese ma non volevate diventare come noi, sciogliervi in noi, e noi non vi capivamo. Abbiamo incominciato a capirvi quando siete insorti a Varsavia. Ci avete indicato la via; ci avete insegnato che si può combattere anche quando si è disperati. _ Ma allora era tardi, _ disse Gedale, _ noi eravamo tutti morti. _ Era tardi. Ma adesso voi siete più ricchi di noi: voi sapete dove andare. Avete una meta e una speranza. _ Perché non dovreste sperare anche voi? _ disse Dov. _ La guerra finirà, e costruiremo un mondo nuovo, senza schiavitù e senza ingiustizia. Edek disse: _ La guerra non finirà mai. Da questa guerra nascerà un' altra guerra, e sarà guerra sempre. Gli americani e i russi non saranno mai amici, e la Polonia non ha amici, anche se adesso gli Alleati ci aiutano. I russi vorrebbero che noi non esistessimo, che non fossimo mai stati creati. I tedeschi, quando ci hanno invasi nel 1939, hanno subito deportato e ucciso i nostri professori, scrittori e preti; ma i russi che avanzavano dai loro confini hanno fatto lo stesso, e per di più hanno consegnato alla Gestapo i comunisti polacchi che si erano rifugiati da loro. Non volevano che la Polonia avesse un' anima, né gli uni né gli altri; non lo volevano quando erano alleati, non lo vogliono neanche adesso che sono nemici. I russi sono stati contenti che la rivolta di Varsavia fallisse e che i tedeschi sterminassero gli insorti: mentre noi morivamo, loro aspettavano sull' altra sponda del fiume. Intervenne Dov: _ Tenente, io sono russo. Ebreo ma russo, e molti di noi sono nati in Russia, e quel ragazzo alto che vedi laggiù è un russo cristiano che segue la nostra strada. Questo (e indicò Mendel) e tanti altri che sono morti, erano militari dell' Armata Rossa: anch' io lo ero. Prima di incominciare il nostro viaggio, abbiamo combattuto da russi prima che da ebrei: da russi e per i russi. Sono i russi che stanno liberando l' Europa. Pagano col loro sangue, sono morti a milioni, e le cose che tu dici mi sembrano ingiuste. Io stesso, che ero stanco e ferito, sono stato curato a Kiev, e poi i russi mi hanno riportato fra i miei compagni. _ I russi scacceranno i nazisti dal nostro paese, _ disse Edek, _ ma poi non se ne andranno. Non bisogna confondere i desideri con la realtà; la Russia di Stalin è la Russia dello Zar: vuole una Polonia russa, non vuole una Polonia polacca. Per questo la nostra guerra è disperata: dobbiamo difendere noi stessi e la popolazione dai nazisti, ma dobbiamo anche guardarci le spalle, perché i russi che avanzano, dell' Armia Krajowa non ne vogliono sapere. Quando ci trovano, ci inseriscono alla spicciolata nei loro reparti; se rifiutiamo, ci disarmano e ci deportano in Siberia. _ E voi perché rifiutate? _ chiese Dov. _ Perché siamo polacchi. Perché vogliamo dimostrare al mondo che ancora esistiamo. Se occorre, lo dimostreremo morendo. Mendel guardò Dov, e Dov restituì lo sguardo. A tutti e due era tornata a mente la frase che Dov aveva gridata a Mendel a Novoselki, in mezzo alla battaglia: "Stiamo combattendo per tre righe nei libri di storia". Mendel raccontò l' episodio a Edek, ed Edek rispose: _ È stupido essere nemici. Passarono alcuni giorni in cui Edek tentò invano di mettersi in contatto con i suoi superiori e di avere istruzioni sul da farsi. I polacchi avevano una ricetrasmittente moderna e potente, ma la usavano poco: dopo il crollo di Varsavia, l' Armia Krajowa era in piena crisi, forse più morale che materiale; i contatti saltavano l' uno dopo l' altro, e molti fra i capi erano morti od erano stati fermati dai russi. Tornò finalmente una staffetta, ed Edek, con un pallido sorriso, disse a Gedale: _ Va tutto bene. Non siete prigionieri, ma ospiti; e presto diventerete alleati, sempre che lo vogliate. Edek era studente in medicina ed aveva ventitre anni. Era appena iscritto al Primo Anno, a Cracovia, nel 1939, quando i tedeschi avevano convocato l' intero corpo accademico. Alcuni docenti avevano fiutato l' inganno e non si erano presentati; tutti gli altri erano stati immediatamente deportati a Sachsenhausen. _ Allora, tutti noi, professori e studenti, abbiamo cominciato a organizzare una università segreta, perché non volevamo che la cultura polacca morisse. Allo stesso modo, abbiamo avuto in quegli anni un governo, una chiesa e un esercito segreti: l' intera Polonia viveva sotto terra. Io studiavo, e insieme lavoravo in una stamperia clandestina; ma anche per studiare mi dovevo nascondere. Hitler e Himmler avevano deciso che per i polacchi dovevano bastare quattro anni di scuola elementare, era sufficiente che imparassero a contare fino a cinquecento e a fare la loro firma; che sapessero leggere e scrivere era inutile, anzi nocivo. Così, io e i miei compagni di corso abbiamo studiato anatomia e fisiologia sui trattati, senza mai vedere un microscopio neanche da lontano, senza dissecare un cadavere, senza frequentare una corsia d' ospedale. Ma a Varsavia in agosto c' ero anch' io, e ho visto più feriti, ammalati e morti che non un medico militare alla fine della sua carriera. _ Niente di male, _ gli disse Gedale, _ avrai avuto la pratica prima della teoria. Anche a camminare e a parlare si impara con la pratica, non è vero? Verrà la pace e tu diventerai un medico famoso, ne sono sicuro _. La simpatia indiscreta che Gedale manifestava nei riguardi di tutti gli esseri umani sembrava moltiplicata per dieci nel caso di Edek. Mendel gli chiese perché e Gedale rispose che non lo sapeva. Poi però ci ripensò: _ Forse è per la novità. Era un pezzo che non incontravo uno con la penna nel taschino e la cravatta. Nella foresta non ce n' erano. _ Ma Edek la cravatta non ce l' ha! _ Ce l' ha in spirito. Tutto va come se ce l' avesse. Passavano le lunghe sere di pioggia e di attesa conversando e fumando; qualche volta Gedale suonava anche il violino. Ma nel campo dei polacchi non si beveva: Edek era un comandante umano e ragionevole ma su alcuni argomenti era rigido, ed aveva tante piccole fissazioni. Dopo una rissa che mesi prima era stata provocata da un suo gregario ubriaco, Edek aveva proibito l' alcool, ed insisteva su questo divieto con un rigore da puritano. Aveva chiesto a Gedale di fare altrettanto con i suoi perché non dessero il cattivo esempio, e Gedale aveva accettato a malincuore. Aveva anche paura dei cani. Non volle saperne dei due poveri cani gedalisti, quelli che avevano guidato la banda attraverso le mine di Turov e ne conoscevano i componenti uno per uno. Trovò il pretesto che i cani avrebbero potuto rivelare la posizione del campo abbaiando di notte, e nonostante le proteste di Gedale li fece vendere in un villaggio vicino. Edek era riservato e faceva poche domande, ma anche lui era curioso dei gedalisti, e in specie di Gedale e dei suoi trascorsi. _ Eh, chissà che grande violinista sarei diventato! disse Gedale ridendo. _ Mio padre ci teneva: il violino, diceva, ingombra poco, qualunque cosa succeda te lo porti dietro dappertutto; e il talento ingombra ancora meno e non paga dogana. Giri il mondo, dài concerti e guadagni; e magari diventi anche americano, come Jascha Heifetz. A me suonare piaceva ma studiare no; invece di andare a lezione di musica scappavo a pattinare sul ghiaccio d' inverno, o a nuotare d' estate. Mio padre era un piccolo commerciante, nel '23 è andato in fallimento, così ha cominciato a bere ed è morto quando io avevo solo dodici anni. Eravamo senza soldi, e mia madre mi ha messo a bottega; ero commesso in un negozio di scarpe, ma a suonare ho continuato, così, per consolarmi, dopo che ero stato tutta la giornata con i piedi dei clienti in mano. Scrivevo anche poesie: tristi e neanche tanto belle. Le dedicavo alle clienti che avevano il piede grazioso, ma le ho perse tutte. _ Suonare mi ha sempre tenuto compagnia. Suonavo invece di pensare; anzi, devo dirti che pensare non è mai stato il mio forte: voglio dire, pensare alla maniera seria, ricavare le conseguenze dalle premesse. Suonare era il mio modo di pensare, e anche adesso che faccio un mestiere diverso, ebbene, le idee migliori mi vengono in mente quando suono il violino. _ Per esempio l' idea delle zucche? _ chiese Edek. _ No, no, _ rispose Gedale con modestia. _ L' idea delle zucche mi è venuta guardando le zucche. _ E come ti è venuta l' idea di fare questo mestiere diverso? _ Mi è venuta dal cielo: me l' ha portata una suora _. Mentre parlava, Gedale aveva preso il violino, e senza veramente suonarlo accarezzava con l' archetto le corde, cavandone note svagate e sommesse. _ Una suora, sì. Quando a Bialystok sono arrivati i tedeschi, mia madre è riuscita a farsi accettare in un convento. Io da principio ero restio a farmi rinchiudere, stavo con una ragazza, dormivamo ogni notte in un luogo diverso. Devo dirti: a quel tempo avevo già ventiquattro anni, ma vivevo come se dormissi, giorno per giorno, come avrebbe fatto una bestia. Non mi rendevo conto, né del pericolo né del mio dovere. _ Poi i tedeschi hanno chiuso gli ebrei nel ghetto. Mia madre mi ha fatto sapere che nel convento avrebbero accettato anche me, e io ci sono andato. Mia madre era russa; era una donna forte, sapeva comandare, e a me piaceva che lei mi comandasse. No, non ero travestito: le suore mi avevano sistemato in un sottoscala. Non hanno cercato di battezzarmi, ci ospitavano per pietà, senza secondi fini, e a loro rischio. Mi portavano da mangiare, e io nel convento ci stavo bene: non ero un guerriero, ero un bambino di ventiquattro anni bravo a vendere scarpe e a suonare il violino. Avrei aspettato nel sottoscala la fine della guerra: la guerra era affare d' altri, dei tedeschi, dei russi; era come un uragano, quando viene un uragano la gente di buon senso cerca un riparo. _ La suora che mi portava da mangiare era giovane e allegra, come sono allegre le suore. Un giorno, era il marzo del '43, insieme col pane mi ha consegnato un biglietto: veniva dal ghetto, era scritto in jiddisch, era firmato da un mio amico, e diceva: "Vieni con noi: il tuo posto è qui". Diceva che dal ghetto i tedeschi avevano incominciato a deportare a Treblinka i bambini e gli ammalati, che presto avrebbero liquidato tutti, e che bisognava prepararsi a resistere. Mentre leggevo, la suora mi guardava con un viso molto serio, e io ho capito che lei sapeva che cosa c' era scritto. Poi mi ha chiesto se c' era risposta: io le ho detto che ci avrei pensato, e il giorno dopo le ho domandato come aveva avuto il biglietto. Lei mi ha risposto che nel ghetto c' erano parecchi ebrei battezzati, e che le suore avevano avuto il permesso di portargli delle medicine. Le ho detto che ero pronto a partire, e lei mi ha detto di aspettare fino a notte. È venuta da me prima del mattutino e mi ha detto di seguirla; mi ha condotto in un ripostiglio, teneva in mano una lanterna, me l' ha data perché io la reggessi, e mi ha detto: "Si volti, Panie". Sentivo frusciare i suoi abiti e mi sono venuti dei pensieri profani; ma poi lei mi ha permesso di voltarmi, e mi ha porto due pistole. Mi ha dato i contatti per entrare nel ghetto e mi ha augurato buona fortuna. Nel ghetto i giovani armati erano pochi ma decisi: come fosse fatto un fucile, lo avevano imparato su un' enciclopedia, e a sparare avevano imparato sul posto. Abbiamo combattuto insieme per otto giorni; eravamo duecento, sono morti quasi tutti. Io ed altri cinque ci siamo aperti la strada fino a Kossovo e ci siamo ricongiunti con gli insorti di quel ghetto. Il crocchio intorno a Edek e Gedale era andato via via accrescendosi. Non soltanto i polacchi, ma anche parecchi fra gli ebrei avevano ascoltato quella storia che non tutti conoscevano. Quando Gedale ebbe finito, Edek disincrociò le gambe, si raddrizzò sullo sgabello, si ravviò i capelli, si stirò i pantaloni sulle ginocchia, e chiese con sussiego: _ Quali sono le vostre opinioni politiche? Gedale cavò dal violino l' equivalente di una risata: _ Striate, vaiolate e macchiettate, come le pecore di Labano! _ Si volse in giro: attorno al tavolo, nella luce cruda della lanterna a carburo, intercalati ai visi larghi e biondi dei polacchi, additò al tenente i mustacchi caucasici di Arié, la capigliatura canuta e ben pettinata di Dov, Jòzek dagli occhi astuti, Line fragile e tesa, Mendel dal viso segnato e stanco, Pavel mezzo sciamano e mezzo gladiatore, le facce selvatiche degli uomini di Ruzany e di Blizna, Isidor e le due Ròkhele che cascavano dal sonno: _ Vedi, anche noi siamo merce assortita. Poi riprese il violino e continuò: _ Scherzi a parte, tenente, capisco il perché della tua domanda, ma sono imbarazzato a risponderti. Non siamo ortodossi, non siamo regolari, non siamo legati da un giuramento. Nessuno di noi ha avuto molto tempo per meditare e chiarirsi le idee; ognuno di noi ha dietro di sé un brutto passato, diverso per ognuno. Quelli di noi che sono nati in Russia hanno succhiato il comunismo con il latte della madre: sì, proprio le loro madri e i loro padri hanno fatto di loro dei bolscevichi, perché la rivoluzione di ottobre aveva emancipato gli ebrei, li aveva resi cittadini con pieni diritti. A modo loro sono rimasti comunisti, ma nessuno di noi ama più Stalin dopo che ha fatto il patto con Hitler; e del resto Stalin non ci ha mai amati molto. _ Quanto a me e agli altri che sono nati in Polonia, le nostre idee sono varie, ma qualcosa abbiamo in comune, fra noi e con gli ebrei russi. Tutti, quale più, quale meno; quale presto, quale tardi, ci siamo sentiti stranieri in patria. Tutti abbiamo desiderato una patria diversa, in cui vivere come tutti gli altri popoli, senza sentirci intrusi e senza essere segnati a dito come stranieri, ma nessuno di noi ha mai pensato di recingere un campo e di dire "questa terra è mia". Non desideriamo diventare proprietari: desideriamo rendere fertile la terra sterile della Palestina, piantare aranci e ulivi nel deserto e farlo fruttificare. Non vogliamo i kolchoz di Stalin: vogliamo comunità in cui tutti siano liberi e uguali, senza costrizione e senza violenza: in cui si possa faticare di giorno, e alla sera suonare il violino; in cui non ci sia denaro, ma ognuno lavori secondo le sue capacità e riceva secondo i suoi bisogni. Sembra un sogno ma non è: questo mondo è già stato creato dai nostri fratelli più previdenti e coraggiosi di noi, che sono emigrati laggiù prima che l' Europa diventasse un Lager. _ In questo senso ci puoi chiamare socialisti, ma non siamo diventati partigiani per le nostre idee politiche. Combattiamo per salvarci dai tedeschi, per vendicarci, per aprirci la strada; ma soprattutto, perdonami la parola grossa, per dignità. E infine devo dirti questo: molti fra noi non avevano mai gustato il sapore della libertà, e l' hanno imparato a conoscere qui, nelle foreste, nelle paludi e nel pericolo, insieme con l' avventura e la fraternità. _ E tu sei di questi, non è vero? _ Io sono di questi, e non rimpiango niente, neppure gli amici che ho visto morire. Se non avessi trovato questo mestiere, forse sarei rimasto un bambino: adesso sarei un bambino di ventisette anni, e alla fine della guerra, se mi fossi salvato, avrei ricominciato a fare poesie e a vendere scarpe. _ O saresti diventato un violinista celebre. _ È difficile, _ disse Gedale, _ un bambino non diventa violinista: o se sì, rimane un violinista bambino. Edek che aveva ventitre anni guardò serio Gedale che ne aveva ventisette: _ Sei sicuro di non essere rimasto un po' bambino? Gedale posò il violino: _ Non sempre; solo quando lo voglio. Qui no. _ Da chi prendete ordini? _ chiese ancora Edek. _ Siamo un gruppo autonomo, ma seguiamo le indicazioni della Organizzazione Ebraica di Combattimento, dove e quando riusciamo a mantenere i contatti, e le indicazioni sono queste: distruggere le linee di comunicazione tedesche; uccidere i nazisti responsabili delle stragi; spostarsi verso occidente; ed evitare i contatti con i russi, perché finora ci hanno aiutati, ma non è chiaro che cosa vorranno fare di noi in avvenire. Edek disse: _ Per noi va bene così. La guerra sembrava lontana. Per più settimane aveva piovuto senza interruzione, ed il campo dei polacchi era assediato dal fango; ma anche al fronte pareva che le operazioni fossero state sospese. Il rombo dell' artiglieria non si sentiva più, anche il ronzio degli aerei si faceva sentire di rado: aerei sconosciuti, irreali, forse amici o forse nemici, inaccessibili nei loro tragitti segreti al di sopra delle nuvole. Lanci non ce n' erano più stati, ed i viveri cominciavano a scarseggiare. Ai primi di novembre spiovve, e poco dopo Edek ricevette un messaggio-radio. Era una richiesta d' aiuto, urgente, che veniva dal Comando: nei monti della Santa Croce, ad ottanta chilometri a nord-est, una compagnia dell' Armia Krajowa era stata accerchiata dalla Wehrmacht, e si trovava in una situazione disperata. Bisognava partire subito in suo soccorso. Edek fece preparare settanta dei suoi uomini; e come Gedale, un lunghissimo anno prima, aveva invitato Dov ad una funesta partita di caccia, così adesso Edek invitò Gedale ed i suoi a partecipare alla spedizione. Gedale accettò subito, ma non volentieri: era la prima volta che si chiedeva ai suoi uomini e a lui di combattere i tedeschi in campo aperto; non più contro un presidio isolato, come in aprile a Ljuban, ma contro la fanteria e l' artiglieria tedesca, con la sua esperienza e la sua organizzazione: eppure anche a Ljuban i morti ebrei erano stati decine. Per contro, questa volta non erano soli: i polacchi di Edek erano risoluti, esperti, bene armati, ed animati da un odio contro i tedeschi che superava quello degli ebrei stessi. Gedale scelse venti dei suoi, ed il plotone composito si mise in via. I campi erano impregnati di pioggia, Edek aveva fretta, e scelse la via più diretta, contro ogni ortodossia partigiana: si marciava lungo la ferrovia, in fila per tre, sulle traversine di legno, dal tramonto all' alba ed anche oltre l' alba. Niente pattuglie di protezione ai fianchi della colonna, niente retroguardia; un' avanguardia di soli sei uomini, di cui faceva parte Mendel, oltre a Edek stesso. Mendel si stupì della temerarietà dell' azione, ma Edek lo rassicurò, conosceva quel paese: i contadini non li avrebbero denunziati, erano favorevoli ai partigiani, e chi non era favorevole temeva le loro rappresaglie. Il 16 di novembre giunsero in vista di Kielce: a Kielce c' era una caserma tedesca piena di ausiliari ucraini, e Edek fu costretto ad aggirare la città perdendo tempo prezioso. Subito oltre, incontrarono le prime ondulazioni del terreno: colline boscose e tetre, fasciate da strie di nebbia che navigavano lente nel vento sfrangiandosi sulle cime degli abeti. Secondo le informazioni ricevute da Edek, il campo di battaglia doveva essere vicino, nell' avvallamento fra Gòrno e Bieliny, ma di battaglia non colsero alcuna traccia; Edek dispose che tutti si riposassero per qualche ora, fino alla prima luce. Alla prima luce la nebbia si era infittita. Si sentì qualche sparo isolato, brevi raffiche di mitragliatrice, poi silenzio, e nel silenzio la voce di un altoparlante. Era fioca, veniva di lontano, probabilmente dall' altra parte dell' accerchiamento. Si capiva male, le parole arrivavano a brandelli, col capriccio del vento: erano parole polacche, i tedeschi esortavano i polacchi alla resa. Poi riprese la sparatoria, debole e sparsa; Edek diede l' ordine di avanzare. A mezza costa del pendio, presero posizione dietro i cespugli e gli alberi ed aprirono il fuoco nella direzione in cui si presumeva fossero i tedeschi. Era una battaglia cieca; la nebbia era così fitta che a rigore sarebbe stato superfluo defilarsi, ma proprio per questo velario che li circondava, e che limitava la visibilità a una ventina di metri, la sensazione del pericolo era più acuta: l' offesa poteva venire da tutte le parti. La reazione dei tedeschi fu rabbiosa ma breve e mal coordinata: aprì il fuoco una mitragliatrice pesante, poi una seconda, entrambe sulla sinistra dello schieramento di Edek. Mendel vide scheggiarsi la corteccia degli alberi davanti a sé, cercò riparo e sparò col parabellum nella direzione da cui sembrava provenire la raffica. Edek ordinò una seconda salva, più prolungata: forse voleva dare ai tedeschi l' impressione che il reparto sopraggiunto fosse più forte, però erano pallottole sprecate. Dopo qualche minuto si udirono le esplosioni di partenza dell' artiglieria, anche queste lontane e sulla sinistra, e pochi secondi dopo gli scoppi d' arrivo delle granate: cadevano a caso, dietro e davanti; queste erano più vicine, una cadde poco lontano da Mendel, ma si conficcò nella terra molle senza esplodere; un' altra piombò alla sua destra, Mendel vide la vampata attraverso la cortina di nebbia. Accorse, e trovò sul posto Marian, il luogotenente di Edek: la granata aveva stroncato un alberello, e nella terra smossa giacevano due polacchi uccisi. _ Non sparano dall' alto, _ disse Marian, sono sulla strada di Gòrno. Non devono essere tanti. Il bombardamento cessò di colpo, non ci furono altri spari, e verso le dieci si udì un brusio attutito di motori. _ Se ne vanno! _ disse Marian. _ Forse ci credono più forti di quanto siamo, _ rispose Mendel. _ Non credo. Ma la nebbia non piace neanche a loro. Il ronzio dei mezzi tedeschi si fece più indistinto, fino ad estinguersi. Edek ordinò di avanzare in silenzio. Di tronco in tronco, gli uomini presero a salire, senza incontrare resistenza né alcun segno di vita. Poco più in alto gli alberi si facevano rari, e poi scomparvero: anche la nebbia si era alzata, e divenne visibile il campo di battaglia. La sommità del colle era una brughiera spoglia, solcata da tracce di sentieri e da un' unica strada in terra battuta che portava ad una costruzione massiccia, forse una vecchia fortezza. Il terreno era pieno di morti, alcuni già freddi e rigidi, molti mutilati o lacerati da ferite orrende. Non tutti erano polacchi dell' Armia Krajowa: un gruppo compatto, che doveva essersi difeso fino all' estremo, era costituito da partigiani russi; altri, ai margini del campo, erano della Wehrmacht. _ Sono morti tutti. Non capisco a chi chiedevano di arrendersi, _ disse Gedale: senza rendersene conto, parlava a bassa voce, come in una chiesa. _ Non lo so, _ rispose Edek. _ Forse gli spari che abbiamo sentito arrivando erano quelli degli ultimi rimasti. Mendel disse: _ La nebbia prima era molto fitta, e loro chiedevano di arrendersi ai morti. _ Forse, _ disse Marian, _ il discorso dell' altoparlante era inciso su un disco: i tedeschi lo hanno fatto altre volte. Esplorarono il terreno, esaminando i corpi uno per uno: forse qualcuno poteva essere ancora vivo. Nessuno era vivo; alcuni portavano alla nuca o alla tempia il segno del colpo di grazia. Anche dentro la fortezza non c' erano che morti, russi e polacchi, in buona parte asserragliati nella torretta che era stata sfracellata da un colpo di artiglieria. Notarono che alcuni dei cadaveri erano estremamente magri. Perché? _ Allora è vera la voce che correva, _ disse Marian. _ Quale voce? _ chiede Mendel. _ Che sui monti della Santa Croce c' era una prigione, e che i tedeschi facevano morire di fame i prigionieri _. Infatti, nei sotterranei del forte trovarono corridoi e celle, le cui porte di legno erano state sfondate. Mendel trovò parole scarabocchiate col carbone su una parete, e chiamò Edek perché le decifrasse. _ Sono tre versi di un nostro poeta, _ disse Edek. _ Dicono cosi: Maria, non partorire in Polonia, Se non vuoi vedere tuo figlio Inchiodato alla croce appena nato. _ Quando li ha scritti, questo poeta? _ chiese Gedale. _ Non lo so. Ma per il mio paese, qualunque secolo sarebbe stato buono. Mendel taceva, e si sentiva invadere da pensieri smisurati e confusi. Non noi soltanto. Il mare del dolore non ha sponde, non ha fondo, nessuno lo può scandagliare. Eccoli qui, i polacchi, i fanatici della Croce, quelli che hanno accoltellato i nostri padri, e hanno invaso la Russia per soffocare la rivoluzione. E anche Edek è polacco. E adesso muoiono come noi, insieme con noi. Hanno pagato, non sei contento? No, non sono contento, il debito non si è ridotto, è cresciuto, nessuno lo potrà pagare più. Vorrei che non morisse più nessuno. Neppure i tedeschi? Non lo so. Ci penserò dopo, quando tutto sarà finito. Forse ammazzare i tedeschi è come quando il chirurgo fa un' operazione: tagliare un braccio è orribile, ma va fatto e si fa. Che la guerra finisca, Signore a cui non credo. Se ci sei, fa' finire la guerra. Presto e dappertutto. Hitler è già vinto, questi morti non servono più a nessuno. Accanto a lui, in piedi come lui nell' erica sporca di sangue e fradicia di pioggia, Edek terreo in viso lo stava guardando. _ Preghi, ebreo? _ gli chiese: ma in bocca a Edek la parola "ebreo" non aveva veleno. Perché? Perché ognuno è l' ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi. Perché Edek è un uomo mite che ha imparato a combattere; ha scelto come me ed è mio fratello, anche se lui è polacco e ha studiato, e io sono un russo di villaggio e un orologiaio ebreo. Mendel non rispose alla domanda di Edek, e Edek continuò: _ Dovresti. Dovrei anch' io, e non sono più capace. Non credo che serva, né a me né ad altri. Forse tu vivrai ed io morrò, e allora racconta quello che hai visto sui monti della Santa Croce. Cerca di capire, racconta e cerca di far capire. Questi che sono morti con noi sono russi, ma sono russi anche quelli che ci strappano il fucile dalle mani. Racconta, tu che aspetti ancora il Messia; forse verrà per voi, ma per i polacchi è venuto invano. Sembrava proprio che Edek rispondesse alle domande che Mendel poneva a se stesso, che gli leggesse nel fondo del cervello, nel letto segreto dove nascono i pensieri. Ma non è così strano, pensò Mendel; due buoni orologi segnano la stessa ora, anche se sono di marche diverse. Basta che partano insieme. Edek e Gedale fecero l' appello; mancavano quattro dei polacchi, ed uno degli ebrei, Jòzek, il falsario. Non era morto da falsario. Lo trovarono in fondo a una forra, col ventre lacerato: forse aveva chiamato a lungo e nessuno lo aveva udito. Seppellire i morti? _ O tutti o nessuno, _ disse Edek, _ e tutti non si può. Togliamogli solo i documenti e i piastrini, chi li ha _. Senza documenti erano i corpi di molti ragazzi, che Edek e Marian riconobbero come appartenenti ai Battaglioni Contadini polacchi. Ritornarono al campo in silenzio, a testa bassa, come un' armata sconfitta. Non c' era più fretta, procedevano in ordine sparso, di notte, per campi e boschi. Nel bosco di Sobkòw si accorsero di avere perso l' orientamento; l' unica bussola che il plotone possedeva era rimasta in tasca a Zbigniew, uno dei polacchi morti: nessuno si era ricordato di recuperarla. A malincuore, Edek decise di aspettare l' alba, e poi di seguire una delle piste fino a qualche villaggio, avrebbero chiesto la strada ai contadini. Ma nell' alba nebbiosa Arié trovò, fra le radici di un frassino, un uccellino intirizzito, e disse che la strada l' avrebbe indicata lui. Lo raccattò, lo riscaldò tenendolo sul petto sotto la camicia, gli porse briciole di pane che aveva rammollite con la saliva, e quando si fu rianimato lo lasciò volare via. L' uccello sparì nella nebbia in una direzione ben definita, senza esitare: _ È quello il sud? _ chiese Marian. _ No, _ rispose Arié, _ è uno storno, e gli storni, quando viene l' inverno, volano verso ovest. _ Mi piacerebbe essere uno storno, _ disse Mottel _. Arrivarono al campo senza errori, ed Arié acquistò prestigio. Seguirono settimane d' inerzia e di tensione. Aveva incominciato a far freddo, e il gelo aveva consolidato il fango, e le strade grosse e piccole si erano riempite di convogli tedeschi in marcia verso il fronte o di ritorno verso le retrovie. Passavano reparti motorizzati dell' artiglieria, carri armati "Tigre" già mimetizzati in bianco in attesa della neve, truppe tedesche su autocarri, truppe ausiliarie ucraine su carrette o appiedate; c' erano centri della polizia militare o della Gestapo in tutti i villaggi, e i collegamenti dei partigiani si erano fatti più difficili. Le ronde tedesche fermavano tutti i giovani e li scaraventavano a scavare fossati anticarro, terrapieni e trincee: le staffette, uomini e donne, si spostavano solo di notte. La sola via di comunicazione del reparto di Edek col mondo era la radio, ma la radio taceva, o diffondeva notizie inquietanti e contraddittorie. Radio Londra era trionfale ed ironica. Dava i tedeschi e i giapponesi per vinti, ma insieme ammetteva che i tedeschi avevano attaccato in forze nelle Ardenne: dove saranno le Ardenne? Ricomincerà tutto da capo, con i tedeschi che dilagano in Francia? Anche la radio tedesca era trionfale, il Führer era invincibile, la guerra vera stava appena adesso per cominciare, la Grande Germania possedeva armi nuove, segrete, assolute, contro cui non c' era difesa. Passò il Natale, passò il Capodanno 1945. Nel campo dei polacchi crescevano l' incertezza e lo scoraggiamento, i due grandi nemici dei partigiani. Edek si sentiva abbandonato: non riceveva ordini né informazioni, non sapeva più chi aveva intorno. Alcuni dei suoi uomini erano spariti; se n' erano andati, così, in silenzio, con le armi o senza. Anche all' interno del campo la disciplina si era allentata; nascevano litigi, che spesso si dilatavano in risse. Per il momento, attriti fra polacchi ed ebrei non ne erano ancora nati, ma mezze parole ed occhiate di traverso li facevano sentire imminenti. A dispetto degli ordini di Edek, era ricomparsa la vodka, dapprima nascosta, poi alla luce del sole. Si erano diffusi anche i pidocchi, pessimo segno: difendersi non era facile, polveri e medicine non ce n' erano, ed Edek non sapeva come provvedere. Marian, sanguigno e taurino, già maresciallo nell' esercito polacco, tenne una pubblica dimostrazione: accese un piccolo fuoco di legna dentro una delle baracche, su una lamiera, e fece vedere che se si tengono stesi gli abiti a una certa distanza dalla fiamma, i pidocchi scoppiano senza che il tessuto si indebolisca. Ma era un circolo vizioso: i pidocchi nascono dalla demoralizzazione, e creano altra demoralizzazione. Line si staccò da Mendel. Fu triste, come tutti i distacchi, ma non stupì nessuno: era nell' aria da tempo, fino dall' assalto al Lager di Chmielnik. Mendel ne soffrì, ma di una sofferenza grigia e fiacca, senza il dardo della disperazione. Line non era mai stata sua, se non nella carne, né Mendel era stato di lei. Si erano saziati l' uno dell' altra, spesso, con piacere e con furia, ma avevano parlato poco, e quasi sempre i loro discorsi si erano inceppati nell' incomprensione o nella discordia. Line non aveva mai dubbi, e non tollerava i dubbi di Mendel: quando questi affioravano (e affioravano proprio al momento della stanchezza e della verità, quando i loro corpi si scioglievano l' uno dall' altro), Line si induriva, e Mendel aveva paura di lei. Aveva anche, oscuramente, vergogna di se stesso, ed è difficile amare una donna che faccia nascere la vergogna e la paura. Confusamente, indistintamente, Mendel sentiva che Line aveva ragione. No, non aveva ragione, era nella ragione, dalla parte della ragione. Un partigiano, ebreo o russo o polacco, un combattente, dev' essere come Line, non come Mendel. Non deve dubitare: il dubbio te lo ritrovi sul mirino del fucile, e ti devia il colpo peggio della paura. Ecco, Line ha ucciso Leonid e non porta pena. Ucciderebbe anche me, se io fossi uno scorticato come era lui; se io non avessi addosso una pelle callosa, un' armatura. Non lucida e sonante, ma opaca e tenace; i colpi mi arrivano, ma smussati. Ammaccano senza ferire. Eppure Line ridestava il suo desiderio, e Mendel fu ferito quando seppe che Line era la donna di Marian. Ferito, e insieme offeso, e malignamente soddisfatto e ipocritamente indignato. Una schikse, dunque, una che va con tutti, anche con i polacchi. Vergogna, Mendel, non è per questo che ti sei fatto partigiano. Un polacco vale quanto te; anzi, forse più di te, se Line ha preferito Marian. Rivke non lo avrebbe fatto. Già, non lo avrebbe fatto, ma Rivke non c' è più, Rivke è a Strelka sotto un metro di calce e un metro di terra, Rivke non è di questo mondo. Apparteneva all' ordine, al mondo delle cose giuste fatte alle ore giuste: faceva cucina, teneva pulita la casa, perché a quel tempo gli uomini e le donne vivevano in una casa. Teneva i conti, anche i miei, e mi faceva coraggio quando ne avevo bisogno: mi ha fatto coraggio perfino il giorno che è scoppiata la guerra e io sono partito per il fronte. Non si lavava tanto, le ragazze moderne a Strelka si lavavano più di lei, si lavava una volta al mese come è prescritto, ma eravamo una carne. Una balebusteh, era: una regina della casa. Comandava, e io non me ne accorgevo. Con occhio accidioso, Mendel vedeva comporsi nel campo altri legami distratti ed effimeri. Sissl ed Arié: bene, buon per loro, in lietezza e prosperità; speriamo che lui non la picchi, i georgiani picchiano le mogli, e Arié è più georgiano che ebreo. Hanno le ossa solide, e non solo le ossa: faranno dei bei bambini, buoni chalutzim, buoni coloni per la Terra d' Israele, se mai ci arriveremo. Speriamo anche che nessun polacco guardi Sissl troppo da vicino, perché Arié è svelto col coltello. Ròkhele Nera e Piotr. Bene anche questi, era un pezzo che la faccenda maturava. Piotr, fra i polacchi, era più isolato degli ebrei, e una donna è il miglior rimedio contro la solitudine. O anche solo mezza donna: la situazione non era chiara, e del resto Mendel non aveva voglia di indagare, ma sembrava che la Nera si tirasse dietro anche Mietek, il radiotelegrafista. Peccato per Edek, più che tutti gli altri Edek avrebbe avuto bisogno di una donna, o insomma di una compagnia, di qualcuno che condividesse la sua sofferenza: ma Edek cercava invece di isolarsi, di scavarsi una nicchia, di tirare su un muro fra sé e il mondo. Bella e Gedale: su questa coppia nessuno aveva niente da dire. Erano una coppia da sempre, una coppia incredibilmente stabile, senza che se ne capisse la ragione. Gedale, così libero nelle parole e nei fatti, così imprevedibile, sembrava legato a Bella da un ormeggio ben saldo, come una nave al molo. Bella non era bella, appariva di parecchio più anziana di Gedale, non combatteva, alle faccende quotidiane della banda collaborava pigramente, malvolentieri, criticando gli altri (soprattutto le altre) a ragione o a torto. Si portava dietro scampoli incongrui della sua precedente vita borghese, di cui nessuno sapeva nulla: rimasugli goffi ed ingombranti, anche materialmente, abitudini a cui tutti avevano rinunciato ed a cui Bella non intendeva rinunciare. Accadeva spesso, quasi ritualmente, che Gedale pigliasse il volo su un programma, un piano, o anche solo su un discorso fantasioso ed allegro, e che Bella lo richiamasse a terra con una osservazione piatta e scontata. Allora Gedale si rivolgeva a lei con irritazione simulata, come se tutti e due recitassero a soggetto: _ Bella, perché mi tarpi le ali? _ Dopo quasi otto mesi di convivenza, e dopo tante vicende comuni, Mendel non cessava di domandarsi che cosa tenesse Gedale vincolato a Bella: del resto, non solo sotto questo aspetto Gedale era difficile da interpretare, e impossibile prevedere i suoi atti. Forse Gedale sapeva di non avere freni, ed aveva bisogno di trovarne fuori di sé; forse sentiva accanto a sé, impersonate in Bella, le virtù e le gioie del tempo di pace, la sicurezza, il buon senso, l' economia, la comodità. Gioie modeste e scolorite, ma tutti, sapendolo o no, le rimpiangevano e speravano di ritrovarle, al termine della strage e del cammino. Gedale era irrequieto, ma non aveva ceduto all' onda di riflusso che, partita dai polacchi, aveva trascinato con sé in maggiore o minor misura anche i gedalisti. Ricordava a Mendel lo storno che Arié aveva trovato: come quello, era impaziente di riprendere la via. Girava per il campo, ossessionava il radiotelegrafista, discuteva con Edek, con Dov, con Line, con Mendel stesso. Suonava ancora il violino, ma non più con abbandono: volta a volta, con noia o con frenesia. Ròkhele Bianca non era né inquieta né scoraggiata. Non era più sola: da quando la banda aveva trovato asilo nel campo polacco, accadeva sempre più di rado di incontrarla separata da Isidor. Da principio nessuno si era stupito, Isidor tendeva a mettersi nei guai, o almeno a fare sciocchezze, e che la Bianca gli facesse un poco da mamma sembrava naturale. Prima, di Isidor si era curata Sissl, ed anzi, fra le due donne era sorta un' ombra di rivalità, ma adesso Sissl aveva altro per la testa. Quanto alla Bianca stessa, sembrava aver bisogno di qualcuno che avesse bisogno di lei. Teneva d' occhio il ragazzo, badava che si coprisse e si tenesse pulito e all' occorrenza lo rimproverava con autorità materna. Ora, a partire dai primi di dicembre sia i due, sia il rapporto che li legava andarono incontro ad un mutamento mal definibile ma palese a tutti. Isidor parlava meno e meglio; non farneticava più di vendette impossibili, non portava più il coltello alla cintura, ed invece aveva chiesto a Edek e a Gedale di prendere parte alle esercitazioni di tiro. Il suo sguardo si era fatto più attento, cercava di rendersi utile, il suo passo era diventato più rapido e sicuro, e perfino le spalle sembravano essersi allargate un poco. Faceva domande: poche, ma non insulse né puerili. Quanto a Ròkhele, appariva ad un tempo maturata e ringiovanita. Per meglio dire: mentre prima non aveva avuto un' età, adesso ce l' aveva; sorprendeva, rallegrava vederla ritornare giorno per giorno ai suoi ventisei anni, fino allora mortificati dalla timidezza e dal lutto. Non teneva più gli occhi rivolti al suolo, e tutti si accorsero che i suoi occhi erano belli: grandi, bruni, affettuosi. Elegante non era certo (nessuna delle cinque donne lo era) ma non era più un fagotto informe; la si vedeva, al lume della lanterna, lavorare d' ago per adattare alla sua taglia gli abiti militari che per mesi aveva indossati senza prendersene cura. Adesso, anche la Bianca aveva capelli, gambe, un seno, un corpo. Quando accadeva di incontrare i due insieme, fra le baracche del campo, Isidor non camminava più dietro a Ròkhele, ma al suo fianco; più alto di lei, piegava impercettibilmente il capo nella direzione della donna, come a farle riparo. Una sera in cui Isidor era in corvée di pulizia, la Bianca chiamò Mendel in disparte: gli voleva parlare in segreto. _ Che vuoi, Ròkhele? Che cosa posso fare per te? chiese Mendel. _ Dovresti sposarci, _ disse la Bianca arrossendo. Mendel aperse la bocca, la richiuse, e poi disse: _ Che cosa ti viene mai in mente? Io non sono un rabbino, e neppure un sindaco; documenti non ne avete, potreste anche essere già sposati. E Isidor ha solo diciassette anni. E ti pare che questo sia il momento di sposarsi? La Bianca disse: _ Lo so bene che la regola non è questa; lo so che ci sono delle difficoltà. Ma l' età non conta: un uomo si può sposare già a tredici anni, lo dice il Talmud. E che io sono vedova lo sanno tutti. Mendel non trovava le parole. _ È un nonsenso, una narischkeit! Un capriccio che domani ti sarà passato. E perché sei venuta proprio da me? Oltre a tutto, io non sono neppure un ebreo pio. Non ha senso, è come se tu mi chiedessi di volare o di fare un incantesimo. _ Vengo da te perché sei un giusto, e perché io vivo in peccato. _ Se tu vivi in peccato, io non ci posso fare nulla: è una cosa che riguarda solo voi due. E poi, secondo me i peccati non sono quelli che fate voi, sono un' altra cosa, sono quelli che fanno i tedeschi. E che io sia un giusto è da vedersi. Ròkhele non si arrese: _ È come quando si è su una nave o su un' isola: se non c' è un rabbino, il matrimonio lo può fare uno qualunque. Se è un giusto è meglio, ma basta una persona qualunque: anzi, lo deve fare, è una mitzvà. Mendel attinse a memorie giacenti da secoli: _ Perché il matrimonio sia valido ci vuole la Ketubà, il contratto: tu ti dovrai impegnare a dare a Isidor una dote, e lui dovrà garantire che ti può mantenere. Mantenerti, lui, Isidor. Ti pare serio? _ La Ketubà è una formalità, ma il matrimonio è un cosa seria; e io e Isidor ci vogliamo bene. _ Lascia almeno che io ci pensi su fino a domani. Una faccenda così non mi costa né fatica né denaro, ma mi sembra un imbroglio: è come se tu mi dicessi "Caro Mendel, imbrogliami", mi capisci? e se ti accontento, il peccato lo faccio io. Non potresti aspettare che la guerra finisca? Trovereste un rabbino, e potreste fare le cose in regola. Io non saprei neppure quali parole dire: bisognerà dirle in ebraico, no? E io l' ebraico l' ho dimenticato, e se sbaglio tu crederai di essere sposa e invece sarai rimasta nubile. _ Le parole le detterò io e non importa che siano in ebraico: qualunque lingua va bene, il Signore le capisce tutte. _ Io non credo nel Signore, _ disse Mendel. _ Non importa. Basta che ci crediamo io e Isidor. _ Insomma, non capisco che fretta avete. Ròkhele Bianca disse: _ Sono incinta. Il giorno dopo Mendel riferì il dialogo a Gedale. Si aspettava che scoppiasse a ridere, invece Gedale, molto serio, rispose che certamente Mendel doveva accettare: _ Bisogna che te lo dica, in questa storia c' entro anch' io. Isidor non era mai stato con una donna. Me lo ha detto tempo fa, un giorno che io lo canzonavo un poco: era il giorno del mulino a vento. Ho visto che soffriva; mi ha detto che non aveva mai avuto il coraggio. Aveva solo tredici anni quando ha dovuto nascondersi sotto la stalla, ci è stato quattro anni, poi gli sono successe le cose che sai. "Bisogna aiutarlo", ho pensato: per un verso mi sembrava una mitzvà,per un altro mi incuriosiva l' esperimento. Cosi ne ho parlato con Ròkhele, che anche lei era rimasta sola, e le ho proposto di occuparsi di lui. Ecco, se n' è occupata. lo però non avrei creduto che la faccenda sarebbe andata avanti così in fretta e così bene. _ Sei sicuro che questo sia un bene? _ chiese Mendel. _ Non so, ma credo di sì. Mi pare un segno buono, anche se loro sono due nebech. Anzi, proprio perché sono due nebech. Vergognandosi un poco, Mendel sposò Isidor e Ròkhele Bianca meglio che poté.

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Se questo è un uomo

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Levi, Primo 1 occorrenze

L' impianto centrale di riscaldamento era stato abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora un po' di calore, ma a ogni ora che passava, la temperatura si andava abbassando, e si comprendeva che in breve avremmo sofferto il freddo. Fuori ci dovevano essere almeno 20ä sotto lo zero; la maggior parte dei malati non aveva che la camicia, e alcuni nemmeno quella. Nessuno sapeva quale fosse la nostra condizione. Alcune SS erano rimaste, alcune torrette di guardia erano ancora occupate. Verso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto un elenco dei malati, distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all' ultimo il loro amore nazionale per le classificazioni, e, nessun ebreo pensò più seriamente di vivere fino al giorno successivo. I due francesi non avevano capito ed erano spaventati. Tradussi loro di malavoglia il discorso della SS; trovavo irritante che avessero paura: non avevano ancora un mese di Lager, non avevano quasi ancora fame, non erano neppure ebrei, e avevano paura. Fu fatta ancora una distribuzione di pane. Passai il pomeriggio a leggere il libro lasciato dal medico: era molto interessante e lo ricordo con bizzarra precisione. Feci anche una visita al reparto accanto, in cerca di coperte: di là molti malati erano stati messi in uscita, le loro coperte erano rimaste libere. Ne presi con me alcune abbastanza calde. Quando seppe che venivano dal Reparto Dissenteria Arthur arricciò il naso: _ Y-avait point besoin de le dire _; infatti erano macchiate. Io pensavo che in ogni modo, dato ciò che ci aspettava, sarebbe stato meglio dormire ben coperti. Fu presto notte, ma la luce elettrica funzionava ancora. Vedemmo con tranquillo spavento che all' angolo della baracca stava una SS armata. Non avevo voglia di parlare, e non provavo timore se non nel modo esterno e condizionale che ho detto. Continuai a leggere fino a tarda ora. Non vi erano orologi, ma dovevano essere le ventitre quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano i fasci dei fotoelettrici. Fiorì in cielo un grappolo di luci intense, che si mantennero immobili illuminando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli apparecchi. Poi cominciò il bombardamento. Non era cosa nuova, scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi. Sembrava lontano, forse su Auschwitz. Ma ecco un' esplosione vicina, e, prima di poter formulare un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le orecchie. Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò, cadde a terra il cucchiaio che tenevo infisso in una commessura della parete di legno. Poi parve finito. Cagnolati, un giovane contadino, egli pure dei Vosgi, non doveva aver mai visto una incursione: era uscito nudo dal letto, si era appiattato in un angolo e urlava. Dopo pochi minuti fu evidente che il campo era stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza, altre due erano state polverizzate, ma erano tutte baracche vuote. Arrivarono decine di malati, nudi e miserabili, da una baracca minacciata dal fuoco: chiedevano ricovero. Impossibile accoglierli. Insistettero, supplicando e minacciando in molte lingue: dovemmo barricare la porta. Si trascinarono altrove, illuminati dalle fiamme, scalzi nella neve in fusione. A molti pendevano dietro i bendaggi disfatti. Per la nostra baracca non pareva ci fosse pericolo, a meno che il vento non girasse. I tedeschi non c' erano più. Le torrette erano vuote. Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell' ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi. Non si poteva dormire; un vetro era rotto e faceva molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare una stufa da installare, e procurarci carbone, legna e viveri. Sapevo che tutto questo era necessario, ma senza l' appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l' energia di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi. 19 gennaio. I francesi furono d' accordo. Ci alzammo all' alba, noi tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo freddo e paura. Gli altri malati ci guardarono con curiosità rispettosa: non sapevamo che ai malati non era permesso uscire dal Ka-Be? E se i tedeschi non erano ancora tutti partiti? Ma non dissero nulla, erano contenti che ci fosse qualcuno per fare la prova. I francesi non avevano alcuna idea della topografia del Lager, ma Charles era coraggioso e robusto, e Arthur era sagace e aveva un buon senso pratico di contadino. Uscimmo nel vento di una gelida giornata di nebbia, malamente avvolti in coperte. Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo che io abbia mai visto né sentito descrivere. Il Lager, appena morto, appariva già decomposto. Niente più acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse dei tetti, e le ceneri dell' incendio volavano alto e lontano. All' opera delle bombe si aggiungeva l' opera degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in grado di muoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi, sul terreno indurito dal gelo. Avevano rovistato tutte le baracche vuote in cerca di alimenti e di legna; avevano violato con furia insensata le camere degli odiati Blockälteste, grottescamente adorne, precluse fino al giorno prima ai comuni Häftlinge; non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato dovunque, inquinando la preziosa neve, unica sorgente d' acqua ormai per l' intero campo. Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne l' ultimo calore. Altri avevano trovato patate da qualche parte, e le arrostivano sulle braci dell' incendio, guardandosi intorno con occhi feroci. Pochi avevano avuto la forza di accendersi un vero fuoco, e vi facevano fondere la neve in recipienti di fortuna. Ci dirigemmo alle cucine più in fretta che potemmo, ma le patate erano già quasi finite. Ne riempimmo due sacchi, e li lasciammo in custodia ad Arthur. Tra le macerie del Prominenzblock, Charles ed io trovammo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa di ghisa, con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse con una carriola e caricammo; poi lasciò a me l' incarico di portarla in baracca e corse ai sacchi. Là trovò Arthur svenuto per il freddo; Charles si caricò entrambi i sacchi e li portò al sicuro, poi si occupò dell' amico. Intanto io, reggendomi a stento, cercavo di manovrare del mio meglio la pesante carriola. Si udì un fremito di motore, ed ecco, una SS in motocicletta entrò nel campo. Come sempre, quando vedevamo i loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di odio. Era troppo tardi per scomparire, e non volevo abbandonare la stufa. Il regolamento del Lager prescriveva di mettersi sull' attenti e di scoprirsi il capo. Io non avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta. Mi allontanai qualche passo dalla carriola e feci una specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò. Seppi più tardi quale pericolo avevo corso. Raggiunsi finalmente la soglia della nostra baracca, e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere. Si trattava di metterla in opera. Avevamo tutti e tre le mani paralizzate, e il metallo gelido si incollava alla pelle delle dita, ma era urgente che la stufa funzionasse, per scaldarci e per bollire le patate. Avevamo trovato legna e carbone, e anche brace proveniente dalle baracche bruciate. Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitre anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata. Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: "mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino", e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l' inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. Arthur si era ripreso abbastanza bene, ma da allora evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la manutenzione della stufa, la cottura delle patate, la pulizia della camera e l' assistenza ai malati. Charles ed io ci dividemmo i vari servizi all' esterno. C' era ancora un' ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito e un barattolo di lievito di birra, buttato nella neve da chissà chi; facemmo una distribuzione di patate bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo vagamente che potesse giovare contro l' avitaminosi. Venne l' oscurità; di tutto il campo la nostra era l' unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta, ma la statura imponente di Charles li teneva a bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la promiscuità inevitabile coi nostri malati rendeva pericolosissimo il soggiorno nella nostra camera, e che ammalarsi di difterite in quelle condizioni era più sicuramente mortale che saltare da un terzo piano. Io stesso, che ne ero conscio, non mi soffermavo troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abituato a pensare alla morte per malattia come ad un evento possibile, e in tal caso ineluttabile, e comunque al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un' altra camera, in un' altra baracca con minor pericolo di contagio; qui era la stufa, opera nostra, che diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un letto; e infine, ormai, un legame ci univa, noi, gli undici malati della Infektionsabteilung. Si sentiva di rado un fragore vicino e lontano di artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici. Nell' oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di molte cose passate e future. In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione. 20 gennaio. Giunse l' alba, ed ero io di turno per l' accensione della stufa. Oltre alla debolezza generale, le articolazioni dolenti mi ricordavano a ogni momento che la mia scarlattina era lungi dall' essere scomparsa. Il pensiero di dovermi tuffare nell' aria gelida in cerca di fuoco per le altre baracche mi faceva tremare di ribrezzo. Mi rammentai delle pietrine; cosparsi di spirito un foglietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi raschiai sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi a raschiare più forte la pietrina col coltello. Ed ecco: dopo qualche scintilla il mucchietto deflagrò, e dalla carta si levò la fiammella pallida dell' alcool. Arthur discese entusiasta dal letto e fece scaldare tre patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti; dopo di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo nuovamente in perlustrazione per il campo in sfacelo. Ci restavano viveri (e cioè patate) per due giorni soltanto; per l' acqua eravamo ridotti a fondere la neve, operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti, da cui si otteneva un liquido nerastro e torbido che era necessario filtrare. Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci. Malfermi sulle gambe, entravano e uscivano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti più vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva servire, e i più lungimiranti già meditavano fruttuosi mercati con i polacchi della campagna circostante. Nella cucina, due si accapigliavano per le ultime decine di patate putride. Si erano afferrati per gli stracci e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vituperandosi in yiddisch fra le labbra gelate. Nel cortile del magazzino stavano due grandi mucchi di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base della nostra alimentazione). Erano così gelati che non si potevano staccare se non col piccone. Charles ed io ci avvicendammo, tendendo tutte le nostre energie per ogni colpo, e ne estraemmo una cinquantina di chili. Vi fu anche altro: Charles trovò un pacco di sale e ("une fameuse trouvaille!") un bidone d' acqua di forse mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio. Caricammo ogni cosa su di un carrettino (servivano prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n' era un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo spingendolo faticosamente sulla neve. Per quel giorno ci accontentammo ancora di patate bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per l' indomani Arthur ci promise importanti innovazioni. Nel pomeriggio andai all' ex ambulatorio, in cerca di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non più una bottiglia intera, sul pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere nudo e contorto. Ma ecco qualcosa che ai miei predecessori era sfuggito: una batteria da autocarro. Toccai i poli col coltello: una piccola scintilla. Era carica. A sera la nostra camera aveva la luce. Stando a letto, vedevo dalla finestra un lungo tratto di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la Wehrmacht in fuga. Autoblinde, carri "tigre" mimetizzati in bianco, tedeschi a cavallo, tedeschi in bicicletta, tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i carri fossero visibili. Chiedeva Charles: _ C6a roule encore? _ C6a roule toujours. Sembrava non dovesse mai finire. 21 gennaio. Invece finì. Coll' alba del 21 la pianura ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d' occhio sotto il volo dei corvi, mortalmente triste. Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto. Ma già Charles aveva acceso la stufa, l' uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro: _ Vas-y, Primo, descends-toi de là-haut; il y a Jules à attraper par les oreilles .... "Jules" era il secchio della latrina, che ogni mattina bisognava afferrare per i manici, portare all' esterno e rovesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna della giornata, e se si pensa che non era possibile lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano ammalati di tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole. Dovevamo inaugurare i cavoli e le rape. Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all' appello. Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent' anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la difterite raramente perdona. Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso. Schenck era un commerciante slovacco, ebreo: convalescente di tifo, aveva un formidabile appetito. Così pure Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e ciarliero, ma utile alla nostra comunità per il suo comunicativo ottimismo. Mentre dunque i malati lavoravano di coltello, ciascuno seduto sulla sua cuccetta, Charles ed io ci dedicammo alla ricerca di una sede possibile per le operazioni di cucina. Una indescrivibile sporcizia aveva invaso ogni reparto del campo. Colmate tutte le latrine, della cui manutenzione naturalmente nessuno più si curava, i dissenterici (erano più di un centinaio) avevano insozzato ogni angolo del Ka-Be, riempito tutti i secchi, tutti i bidoni già destinati al rancio, tutte le gamelle. Non si poteva muovere un passo senza sorvegliare il piede; al buio era impossibile spostarsi. Pur soffrendo per il freddo, che si manteneva acuto, pensavamo con raccapriccio a quello che sarebbe accaduto se fosse sopraggiunto il disgelo: le infezioni avrebbero dilagato senza riparo, il fetore si sarebbe fatto soffocante, e inoltre, sciolta la neve, saremmo rimasti definitivamente senz' acqua. Dopo una lunga ricerca, trovammo infine, in un locale già adibito a lavatoio, pochi palmi di pavimento non eccessivamente imbrattato. Vi accendemmo un fuoco vivo, poi, per risparmiare tempo e complicazioni, ci disinfettammo le mani frizionandole con cloramina mista a neve. La notizia che una zuppa era in cottura si sparse rapidamente fra la folla dei semivivi; si formò sulla porta un assembramento di visi famelici. Charles, il mestolo levato, tenne loro un vigoroso breve discorso che, pur essendo in francese, non abbisognava di traduzione. I più si dispersero, ma uno si fece avanti: era un parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di polmoni. In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo a nostra disposizione per tagliarci abiti dalle numerose coperte rimaste in campo. Maxime si dimostrò veramente abile. Il giorno dopo Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni di ruvido tessuto a colori vistosi. A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l' orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell' orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi. Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa, e che, per quanto dipendeva da noi, alcune cose era necessario fare, altre necessario evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua propria gamella e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad altri la zuppa che eventualmente gli fosse avanzata; nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina; chi avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non si rivolgesse ad altri che a noi tre; Arthur particolarmente era incaricato di vigilare sulla disciplina e sull' igiene, e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e cucchiai sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo di scambiare quelli di un difterico con quelli di un tifoso. Ebbi l' impressione che i malati fossero ormai troppo indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur. 22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero un grave pericolo, Charles ed io quel mattino fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre esplorazioni al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico. Le guardie del campo dovevano essere partite con molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per metà di minestra ormai congelata, che divorammo con intenso godimento; boccali ancor colmi di birra trasformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di roba preziosa. Ci caricammo una bottiglia di vodka, medicinali vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbottite, una delle quali è oggi nella mia casa di Torino. Lieti e incoscienti, riportammo nella cameretta il frutto della sortita, affidandolo all' amministrazione di Arthur. Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz' ora più tardi. Alcune SS, forse disperse, ma armate, penetrarono nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi si erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li uccisero tutti metodicamente, con un colpo alla nuca, allineando poi i corpi contorti sulla neve della strada; indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti fino all' arrivo dei russi; nessuno ebbe la forza di dar loro sepoltura. D' altronde, in tutte le baracche v' erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno si curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla nostra finestra. Solo una parete di legno ci separava dal reparto dei dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i morti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati. Nessuno aveva più forza di uscire dalle coperte per cercare cibo, e chi prima lo aveva fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In uno stesso letto, avvinghiati per resistere meglio al freddo, proprio accanto alla parete divisoria, stavano due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io invece non parlavo che francese, per molto tempo non si accorsero della mia presenza. Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all' italiana da Charles, e da allora non smisero di gemere e di implorare. Naturalmente avrei voluto aiutarli, avendone i mezzi e la forza; se non altro per far smettere l' ossessione delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono finiti, vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a tentoni per il corridoio lercio e buio, fino al loro reparto, con una gamella d' acqua e gli avanzi della nostra zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile parete, l' intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di tutte le lingue d' Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti. La notte riservò brutte sorprese. Lakmaker, della cuccetta sotto la mia, era uno sciagurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio cardiaco, ed era brutto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado di comprenderlo. Forse causa di tutto fu la minestra di cavoli e rape, di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di raggiungere la latrina, ma era troppo debole e cadde a terra, piangendo e gridando forte. Charles accese la luce (l' accumulatore si dimostrò provvidenziale) e potemmo constatare la gravità dell' incidente. Il letto del ragazzo e il pavimento erano imbrattati. L' odore nel piccolo ambiente diventava rapidamente insopportabile. Non avevamo che una minima scorta d' acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione; né si poteva certo lasciarlo tutta la notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in mezzo alla lordura. Charles discese dal letto e si rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto, nell' unica posizione in cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemperò un po' di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso. Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva. 23 gennaio. Le nostre patate erano finite. Circolava da giorni per le baracche la voce che un enorme silo di patate fosse situato da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo. Qualche pioniere ignorato deve aver fatto pazienti ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il luogo: di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato era stato abbattuto, e una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall' apertura. Charles ed io partimmo, nel vento della pianura livida. Fummo oltre la barriera abbattuta. _ Dis donc, Primo, on est dehors! Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa. A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate, e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe più morto di fame. Ma l' estrazione non era lavoro da nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano all' esterno. Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell' atto dell' affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso l' apertura resasi libera. Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine. Ma non ne potè godere Sertelet, il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel giorno non riuscì più a inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo. Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire. Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene. 24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l' immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte. Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in grado di muoversi, o non avevano avuto l' energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di "rabiot pour les travailleurs" e un po' di fondo "pour les italiens d' à côtè". Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine. Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso di me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l' altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome. Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite. A sera, nella baracca 14 si cantava. Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall' atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano l' intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina. Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell' Elektromagazin; ricordo l' espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì: _ Che te ne vuoi fare? Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere "buoni prigionieri", gente adatta, che se la sa sempre cavare; _ Ich verstehe verschiedene Sachen .... _ (Me ne intendo di varie cose ...). 25 gennaio. Fu la volta di Sòmogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l' olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno e disse con voce ferma: _ Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più. Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare "Jawohl" ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, "Jawohl" ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell' artiglieria. Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l' abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell' attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell' armistizio in Italia, dell' inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell' uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sòmogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L' ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L' opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell' uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l' esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l' uomo è stato una cosa agli occhi dell' uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sòmogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. "L' pauv' vieux" taceva: aveva finito. Con l' ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l' urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo. _ La mort l' a chassé de son lit, _ definì Arthur. Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci. 27 gennaio. L' alba. Sul pavimento, l' infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sòmogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, "... rien de si dégoûtant que les débordements", dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sòmogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest' ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell' infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno. Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva. Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine, la p. 17. di questa edizione, là dove si legge che "scrivo quello che non saprei dire a nessuno": era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita. Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel 1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli: si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell' oblio, anche perché, in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha trovato nuova vita solo nel 195., quando è stato ristampato dall' editore Einaudi, e da allora l' interesse del pubblico non è più mancato. È stato tradotto in sei lingue, ridotto per la radio e per il teatro. È stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un favore che ha superato di molto le aspettative dell' editore e mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d' Italia, mi hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibilmente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l' avventura di Auschwitz e l' aveva raccontata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori studenti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande: ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata, a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di rispondere qui. 1. Come mia indole personale, non sono facile all' odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai coltivato entro me stesso l' odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l' odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro, si descrive un solo incontro dell' autore-protagonista con una SS (p. 200), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato. Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno mostruoso, giustamente e meritatamente, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi? Non molti anni dopo, l' Europa e l' Italia si sono accorti che questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall' essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava facendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova, un po' meno riconoscibile, un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell' odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all' odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico. 2. Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L' informazione è oggi "il quarto potere": almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere. È tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qualunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che preferisci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico, entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di "attività antiitaliane" o di tirarti in casa una perquisizione della polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condizionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento che si preferisce. In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall' alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripetono questa stessa unica verità; così pure fanno le radiotrasmittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in prigione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emettono sulle lunghezze d' onda appropriate un segnale di disturbo che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l' ascolto. Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo quelli graditi allo Stato: gli altri, devi andarteli a cercare all' estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono considerati più pericolosi della droga e dell' esplosivo, e se te li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni punito. Dei libri non graditi, o non più graditi, di epoche precedenti si fanno pubblici falò sulle piazze. Così era in Italia fra il 1924 e il 1945; così nella Germania nazionalsocialista; così è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l' Unione Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all' informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensì un suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina. È chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà. Nell' Italia fascista riuscì abbastanza bene l' operazione di assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l' impresa a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga superiori a Mussolini in quest' opera di controllo e di mascheramento della verità. Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l' esistenza dell' enorme apparato dei campi di concentramento non era possibile, ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un' atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estremamente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia di tedeschi furono rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti, socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici, e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva. Ciò nonostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l' abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via. Non senza ragione, Hitler temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate, avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti più volte dalle radio degli Alleati, non furono generalmente creduti. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l' ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all' Università di Monaco: A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un' altra dev' essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d' informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere. È certamente vero che il terrorismo di Stato è un' arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l' illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta. Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole. ". Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte più di frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l' idea della prigionia è legata immediatamente all' idea della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell' Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell' evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l' eroe, ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre l' evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa è invariabilmente coronata dal successo. Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L' evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente sulla piazza dell' Appello, spesso dopo torture crudeli; quando veniva scoperta una fuga, gli amici dell' evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, l' intera baracca veniva fatta stare in piedi per ventiquattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager i genitori del "colpevole". Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche; come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo. Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi "ariani" (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Negli altri campi le cose si svolsero analogamente. Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka, a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come l' analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli "stracci" non si ribellano. Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevalevano, l' esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e si giunse spesso, più che a rivolte aperte, ad attività di difesa abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riuscì ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende condizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sostituendo medici prigionieri ai medici SS; a "pilotare" le selezioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando prigionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resistere nel caso che, con l' avvicinarsi del fronte, i nazisti decidessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente i Lager. Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i paesi d' Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si capivano fra loro; soprattutto, erano più affamati, più deboli e più stanchi degli altri, perché le loro condizioni di vita erano più dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga carriera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ulteriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante, continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli incessanti arrivi di nuovi convogli. È comprensibile che in un tessuto umano così deteriorato e così instabile non attecchisse facilmente il germe della rivolta. Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detto, devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi "per la doccia", talvolta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini. Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l' affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza radicata che all' oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell' Europa fascista, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta molto più tardi, grazie soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania, nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l' Unione Sovietica rompendo l' accordo Ribbentrop-Molotov del settembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di prospettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora apparteneva solo ad una élite. 4. Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l' impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c' era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla "capitale": il mio campo, chiamato Mònowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L' intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l' ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C' è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio. Ho provato invece un' impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c' era fango, e c' è ancora fango, o polvere soffocante d' estate; le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com' erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

A-issà è la Madonna (vale semplicemente "la donna"); del tutto criptico ed indecifrabile, ed era da prevedersi, è il termine "Odò", con cui, quando proprio non se ne poteva fare a meno, si alludeva al Cristo, abbassando la voce e guardandosi attorno con circospezione: di Cristo è bene parlare il meno possibile, perché il mito del Popolo Deicida è duro a morire. Altri numerosi termini erano tratti tali e quali dal rituale e dai libri sacri, che gli ebrei nati nel secolo scorso leggevano più o meno speditamente nell' originale ebraico, e spesso comprendevano in buona parte: ma, nell' uso gergale, tendevano a deformarne o ad allargarne arbitrariamente l' area semantica. Dalla radice "shafòkh", che vale "spandere" e compare nel Salmo 79 ("Spandi la Tua ira sulle genti che non Ti riconoscono, e sopra i regni che non invocano il Tuo Nome"), le nostre antiche madri avevano tratto la domestica espressione "fé sefòkh", fare sefòkh, con cui si descriveva con delicatezza il vomito infantile. Da "rùakh", plurale "rukhòd", che vali "alito", illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi ("Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque"), si era tratto "tiré 'n ruàkh", "tirare un vento", nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: "Davidìn, bat la cana, c' as sentô nèn le rôkhòd!": che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia: mio padre, ad esempio, ne possedeva due, una di bambù per i giorni feriali, e l' altra di malacca col manico placcato d' argento per la domenica. La canna non gli serviva per appoggiarsi (non ne aveva bisogno), bensì per rotearla giovialmente in aria, e per allontanare dal suo cammino i cani troppo insolenti; come uno scettro, insomma, per distinguersi dal volgo. "Berakhà" è la benedizione: un ebreo pio è tenuto a pronunziarne più centinaia al giorno, e lo fa con gioia profonda, poiché intrattiene così il millenario dialogo con l' Eterno, che in ogni berakhà viene lodato e ringraziato per i Suoi doni. Nonô Leônin era il mio bisnonno, abitava a Casale Monferrato ed aveva i piedi piatti; il vicolo davanti alla sua casa era acciottolato, e lui soffriva a percorrerlo. Un mattino uscì di casa e trovò il vicolo lastricato, ed esclamò dal profondo del cuore: "'N abrakhà a côi gôìm c' a l' an fàit i lòsi!": una benedizione a quegli infedeli che hanno fatto le lastre. In funzione di maledizione veniva invece usato il curioso nesso "medà meshônà", letteralmente "morte strana", ma in effetti calco del piemontese "assidènt". Allo stesso Nonô Leônìn si attribuisce l' imprecazione inesplicabile "c' ai takèissa 'na medà meshônà fàita a paraqua", gli prendesse un accidenti fatto a parapioggia. Né potrei dimenticare Barbaricô, più vicino nel tempo e nello spazio, tanto che poco è mancato (una sola generazione) a che egli fosse mio zio nell' accezione ristretta del termine. Di lui conservo un ricordo personale, e quindi articolato e complesso, non "figé dans un' attitude" come quello dei mitici personaggi che finora ho ricordati. A Barbaricô si addice a pennello la similitudine dei gas inerti con cui incominciano queste pagine. Aveva studiato medicina ed era diventato un buon medico, ma non gli piaceva il mondo. Gli piacevano cioè gli uomini, e particolarmente le donne, i prati, il cielo: ma non la fatica, il fracasso dei carri, le mene per la carriera, le brighe per il pane quotidiano, gli impegni, gli orari e le scadenze; nulla insomma di quello che caratterizzava la vita affannosa della città di Casale Monferrato nel 1.90. Avrebbe voluto evadere, ma era troppo pigro per farlo. Gli amici ed una donna, che lo amava e che lui sopportava con distratta benevolenza, lo convinsero a concorrere per il posto di medico a bordo di un transatlantico di linea; vinse agevolmente il concorso, fece un solo viaggio da Genova a Nuova York, ed al ritorno a Genova rassegnò le dimissioni, perché in America "a j' era trop bôrdél", c' era troppo fracasso. Dopo di allora prese stanza a Torino. Ebbe diverse donne, che tutte lo volevano redimere e sposare, ma lui riteneva troppo impegnativi sia il matrimonio, sia uno studio attrezzato e l' esercizio regolare della professione. Verso il 1930 era un vecchietto timido, rattrappito e trasandato, paurosamente miope; conviveva con una grossa gôià volgare, da cui tentava saltuariamente e debolmente di liberarsi, e che lui definiva volta a volta come "'na sôtià", "'na hamortà", "'na gran beemà" (una matta, un' asina, una gran bestia), ma senza acrimonia, ed anzi con una striatura di inesplicabile tenerezza. Questa gôià "a vôrìa fi5a félô samdé", voleva perfino farlo battezzare (letteralmente: distruggere); cosa che lui aveva sempre rifiutato, non per convinzione religiosa, ma per mancanza d' iniziativa e per indifferenza. Barbaricô aveva non meno di dodici fratelli e sorelle, che designavano la sua compagna col nome ironico e crudele di "Magna Môrfina": ironico perché la donna, poveretta, in quanto gôià ed in quanto priva di prole, non poteva essere una magna se non in senso estremamente limitato, e da intendersi anzi come il suo contrario, di "nonmagna", di esclusa e recisa dalla famiglia; crudele, perché conteneva un' allusione probabilmente falsa, e comunque impietosa, ad un certo suo sfruttamento del ricettario di Barbaricô. I due vivevano in una soffitta di Borgo Vanchiglia, sudicia e caotica. Lo zio era un ottimo medico, pieno di umana saggezza e d' intuito diagnostico, ma stava tutto il giorno sdraiato sulla sua cuccia a leggere libri e giornali vecchi: era un lettore attento, memore, eclettico ed infaticabile, benché la miopia lo costringesse a tenere gli stampati a tre dita dagli occhiali, che aveva spessi come fondi di bicchiere. Si alzava solo quando un cliente lo mandava a cercare, il che accadeva spesso, perché lui non si faceva pagare quasi mai; i suoi ammalati erano povera gente della borgata, da cui accettava come ricompensa mezza dozzina d' uova, o insalata dell' orto, o magari un paio di scarpe fruste. Dai clienti andava a piedi, perché non aveva i soldi per il tram; quando in strada intravvedeva, nella nebbia della miopia, una ragazza, le si avvicinava, e con sua sorpresa la esaminava accuratamente, girandole intorno ad un palmo di distanza. Non mangiava quasi niente, e più in generale non aveva bisogni; morì più che novantenne, con discrezione e dignità. Simile a Barbaricô nel suo rifiuto del mondo era Nona Fina, una di quattro sorelle che tutte si chiamavano Fina: questa singolarità anagrafica era dovuta al fatto che le quattro bambine erano state mandate successivamente a Bra dalla stessa balia, che si chiamava Delfina, e che chiamava così tutti i suoi "bailotti". Nona Fina abitava a Carmagnola, in un alloggio al primo piano, e faceva splendidi ricami all' uncinetto. A sessantott' anni ebbe un lieve malore, una caôdaña, come allora usavano le signore, ed oggi misteriosamente non usano più: da allora, per vent' anni e cioè fino alla sua morte, non uscì più dalla sua camera; al sabato, dal balconcino pieno di gerani, fragile ed esangue salutava con la mano la gente che usciva da "scòla". Ma doveva essere stata ben diversa nella sua giovinezza, se è vero quanto di lei si narra: che cioè, avendole suo marito condotto a casa come ospite il Rabbino di Moncalvo, uomo dotto ed illustre, lei gli avesse fatto mangiare a sua insaputa 'na côtletta 'd hasìr, una costoletta di maiale, perché non c' era altro in dispensa. Suo fratello Barbaraflìn (Raffaele), che prima della promozione a Barba era noto come 'l fieul 'd Môisé 'd Celìn, ormai già in età matura e ricchissimo per i mañòd guadagnati con le forniture militari, si era innamorato di una bellissima Dolce Valabrega di Gàssino; non osava dichiararsi, le scriveva lettere d' amore che non spediva, e scriveva a se stesso appassionate risposte. Anche Marchìn, ex-barba, ebbe un' infelice storia d' amore. Si era innamorato di Susanna (vale "giglio" in ebraico), donna alacre e pia, depositaria di una secolare ricetta per la confezione dei salami d' oca: questi salami si fanno utilizzando come involucro il collo stesso del volatile, e ne è seguito che nel Lassòn Acòdesh (nella "lingua santa", e cioè nel gergo di cui ci stiamo occupando) ben tre sinonimi per "collo" sono sopravvissuti. Il primo, mahané, è neutro e d' uso tecnico e generico; il secondo, savàr, si usa solo in metafore quali "a rôta 'd savàr", a rotta di collo: il terzo, khanèc, estremamente pregnante, allude al collo come percorso vitale, che può venire ostruito, occluso o reciso, e si usa in imprecazioni quali "c' at resta ant 'l khanèc", ti si possa fermare nel gozzo; "khanichésse" vale "impiccarsi". Di Susanna, dunque, Marchìn era commesso ed aiutante, sia nella misteriosa cucina-officina, sia nella bottega di vendita, nei cui scaffali erano disposti promiscuamente salami, arredi sacri, amuleti e libri di preghiere. Susanna lo rifiutò, e Marchìn si vendicò abominevolmente vendendo a un gòi la ricetta dei salami. È da pensare che questo gòi non ne abbia apprezzato il valore, dal momento che dopo la morte di Susanna (avvenuta in epoca storica) non è più stato possibile trovare in commercio salame d' oca degno del nome e della tradizione. Per questa sua spregevole ritorsione lo zio Marcìn perdette il diritto ad essere chiamato zio. Remoto fra tutti, portentosamente inerte, avvolto in uno spesso sudario di leggenda e d' incredibilità, e fossilizzato per ogni fibra nella sua qualità di zio, era Barbabramìn di Chieri, zio della mia nonna materna. Ancor giovane era già molto ricco, avendo acquistato dai nobili del luogo numerose cascine da Chieri fino all' Astigiano; facendo conto sulla sua eredità, i suoi parenti sperperarono tutti i loro averi in banchetti, balli e viaggi a Parigi. Ora avvenne che sua madre, la zia Milca ("Regina"), si ammalò, e dopo molto contendere col marito si indusse ad accettare di assumere una havertà, ossia una domestica, cosa che aveva recisamente rifiutata fino a quel tempo: infatti, presaga, non voleva donne per casa. Puntualmente, Barbabramìn fu colto d' amore per questa havertà, probabilmente la prima femmina meno che santa che gli fosse stato dato di avvicinare. Di costei non è stato tramandato il nome, bensì alcuni attributi. Era florida e bella, e possedeva splendide khalaviòd (seni: il termine è sconosciuto all' ebraico classico, dove tuttavia "khalàv" vale "latte"). Era naturalmente una gôià, era insolente e non sapeva leggere né scrivere; era invece un' abilissima cuoca. Era una contadina, "'na poñaltà", e andava scalza per casa. Proprio di tutto questo si innamorò lo zio: delle sue caviglie, della sua libertà di linguaggio, e dei mangiari che lei cucinava. Non disse niente alla ragazza, ma dichiarò a padre e madre che intendeva sposarla; i genitori andarono su tutte le furie, e lo zio si mise a letto. Ci rimase per ventidue anni. Su quanto abbia fatto Barbabramìn durante questi anni, le versioni divergono. Non c' è dubbio che li abbia in buona parte dormiti e giocati: si sa con certezza che andò in rovina economicamente, perché "non tagliava i cupòn" dei buoni del Tesoro, e perché aveva affidato l' amministrazione delle cascine ad un mamsér ("bastardo") che le aveva vendute per un boccone di pane ad un suo uomo di paglia; secondo i presagi della zia Milca, lo zio trascinò così nella sua rovina l' intero parentado, ed ancora oggi se ne lamentano le conseguenze. Si narra anche che abbia letto e studiato, e che, ritenuto infine sapiente e giusto, ricevesse dal suo letto delegazioni dei notabili di Chieri e dirimesse controversie; si narra ancora che, di questo medesimo letto, la via non fosse ignota a quella medesima havertà, e che almeno nei primi anni la volontaria clausura dello zio fosse interrotta da sortite notturne per andare a giocare a bigliardo nel caffè di sotto. Ma insomma a letto rimase, per quasi un quarto di secolo, e quando la zia Milca e lo zio Salomone morirono, sposò la havertà e se la portò nel letto definitivamente, perché era ormai talmente indebolito che le gambe non lo reggevano più. Morì povero, ma ricco d' anni e di fama, e in pace di spirito, nel 1..3. La Susanna dei salami d' oca era cugina di Nona Màlia, mia nonna paterna, che sopravvive in figura di agghindata minuscola ammaliatrice in alcune pose di studio eseguite verso il 1.70, e come una vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d' infanzia più lontani. Ancor oggi, inspiegabilmente, i piani più alti degli armadi restituiscono suoi preziosi cimeli: scialli di trina nera trapunti di pagliette iridate, nobili ricami di seta, un manicotto di martora straziato dalle tignole di quattro generazioni, posate d' argento massiccio segnate con le sue iniziali: come se, dopo quasi cinquant' anni, il suo spirito inquieto ancora visitasse la nostra casa. Ai suoi bei giorni era nota come "la Strassacoeur", la stracciacuori: rimase vedova molto presto, e corse voce che mio nonno si fosse ucciso disperato per le sue infedeltà. Allevò spartanamente tre figli e li fece studiare: ma in età avanzata si lasciò sposare da un vecchio medico cristiano, maestoso barbuto e taciturno, e da allora andò inclinando verso l' avarizia e la stranezza, quantunque in gioventù fosse stata regalmente prodiga, come sogliono essere le donne belle e molto amate. Col passare degli anni si estraniò totalmente dagli affetti famigliari (che del resto non doveva aver mai sentiti con profondità). Abitava col Dottore in via Po, in un alloggio fosco e cieco, intiepidito d' inverno solo da una stufetta Franklin, e non buttava via più niente, perché tutto poteva venire a taglio: neppure le croste del formaggio, né le stagnole dei cioccolatini, con cui confezionava palle argentate da mandare alle Missioni "per liberare un moretto". Forse per timore di sbagliare nella scelta definitiva, frequentava a giorni alterni la "Scòla" di via Pio-V e la parrocchia di Sant' Ottavio, e pare che andasse addirittura sacrilegamente a confessarsi. Morì più che ottantenne nel 192., assistita da un coro di vicine di casa scarmigliate, nerovestite e indementite come lei, condotte da una megera che si chiamava Madama Scìlimberg: fra i tormenti del blocco renale, la nonna sorvegliò la Scìlimberg fino al suo ultimo respiro, per timore che trovasse il maftèkh (la chiave) nascosto sotto il materasso, e le portasse via i mañòd e i hafassìm (i gioielli, che peraltro risultarono poi tutti falsi). Alla sua morte, i figli e le nuore si dedicarono per settimane, con sgomento e ribrezzo, a scegliere la montagna di relitti domestici da cui l' alloggio era invaso: Nona Màlia aveva conservato, indiscriminatamente, robe raffinate e pattume rivoltante. Dai severi armadi di noce intagliato uscirono eserciti di cimici abbagliate dalla luce, e poi lenzuola di lino mai usate, ed altre rattoppate e lise, logorate fino alla trasparenza; tendaggi e coperte di damasco "double face"; una collezione di colibrì impagliati, che appena toccati si sfecero in polvere; in cantina giacevano centinaia di bottiglie di vino prezioso girato in aceto. Si ritrovarono otto mantelli del Dottore, nuovi di zecca, imbottiti di naftalina, e l' unico che lei gli avesse mai concesso di usare, tutto toppe e rammendi, col bavero lucido d' untume, ed in tasca uno scudetto massonico. Non ricordo quasi nulla di lei, che mio padre chiamava Maman (anche in terza persona), ed amava descrivere con un suo ghiotto gusto del bizzarro, appena temperato da un velo di pietà filiale. Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia: percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l' Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che comprasse quest' ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell' infrangere le regole del Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sotto voce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità. Quando arrivavamo sul pianerottolo tenebroso dell' alloggio di via Po, mio padre suonava il campanello, ed alla nonna che veniva ad aprire gridava in un orecchio: "A l' è 'l prim 'd la scòla!", è il primo della classe. La nonna ci faceva entrare con visibile riluttanza, e ci guidava attraverso una filza di camere polverose e disabitate, una delle quali, costellata di strumenti sinistri, era lo studio semiabbandonato del Dottore. Il Dottore non si vedeva quasi mai, né io certo desideravo vederlo, dal giorno in cui avevo sorpreso mio padre raccontare a mia madre che, quando gli portavano in cura i bambini balbuzienti, lui gli tagliava con le forbici il filetto sotto la lingua. Arrivati nel salotto buono, mia nonna cavava da un recesso la scatola dei cioccolatini, sempre la stessa, e me ne offriva uno. Il cioccolatino era tarlato, ed io lo facevo sparire in tasca pieno d' imbarazzo.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente. Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito. Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi. - Sta per morire! - esclamò Sandokan. In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco. - Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? - disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato. - Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, - rispose il bengalese. - Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce. - Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia. - Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. - I bisonti, dopo d'aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti. Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi. Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d'alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata. Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello. D'altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell'attacco furioso degli jungli-kudgia. Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall'attacco di quei testardi animali; e poi su quell'isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d'areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d'un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura. Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all'ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa. Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Non può essere che la Santa Maria, - disse il conte, abbassando l'istrumento. - Io credo, don Barrejo, che avrete da menar le mani e che questa volta non vi mancherà l'occasione di mostrare ai miei marinai il valore dei guasconi. - Spero, Signor Conte, che voi non mi farete l'offesa di dubitare del coraggio dei costieri del mar di Biscaglia, - rispose l'avventuriero. - Non vi avrei arruolato. - Morte e dannazione eterna! Sarò il primo a saltare sulla Santa Maria. - Dopo di me, don Barrejo, - rispose il corsaro. - Nessuno deve passarmi avanti: sono il figlio d'un corsaro. - Ebbene, sarò il secondo, - disse il terribile guascone. - Ed io il terzo allora, - rispose una voce. Era Mendoza, il quale era salito inosservato sul ponte di comando. - Ah! siete voi, compare? - disse il guascone, mentre il conte scendeva sulla tolda per accertarsi se gli uomini erano tutti ai posti di combattimento. - Vi starò alle costole, signor guascone, - disse il lupo di mare. - Per sorvegliarmi? - chiese l'avventuriero, aggrottando la fronte. - Ma che? Per prendervi i dobloni che avete in tasca, affinché non cadano nelle mani degli spagnuoli e farvi celebrare un centinaio di messe, - rispose il basco, ridendo. - Mi augurate la morte forse? - Ad un guascone! Se non crepano mai! ... - Avete ragione, compare. - Nessuno li vuole: sono troppo pericolosi. - È proprio vero, - rispose don Barrejo, con accento grave. Siamo troppo terribili noi, del mare di Biscaglia. - Dì ponente o di levante? - Sempre di ponente. Quelli di levante non sono guasconi. - È vero: sono baschi quelli! - disse Mendoza, scoppiando in una risata. - Questi indiavolati guasconi hanno sempre ragione! - Sfido io! ... Siamo guasconi, sí o no? - Guasconissimi! ... - E allora è inutile discutere, - disse l'avventuriero. In quel momento il conte rimontava la scala del ponte di comando, seguito dal luogotenente. - È la Santa Maria, - disse a Mendoza che lo interrogava collo sguardo. - Non è piú possibile ingannarsi. Prendi tu la direzione del timone, in attesa di sparare un buon colpo di cannone. Mi occorre un albero di quel galeone. - L'avrete, signor conte, - rispose il lupo di mare. - Con cinquanta dobloni di regalo, se riuscirai. - Morte e dannazione! - esclamò il guascone, mordendosi le labbra. - Nel mio paese per un simile premio ammazzerebbero dieci persone. Perché mio padre non ha fatto di me un cannoniere? Il compare però mi pagherà il doblone che ha perduto nelle cantine della marchesa di Montelimar. Perdinci! Non l'ho mica dimenticato, e i guasconi hanno la memoria buona. Una viva agitazione regnava sulla fregata. La notizia che si trattava di abbordare un galeone spagnuolo, si era sparsa dovunque e l'intero equipaggio si preparava animosamente all'abbordaggio, certo di aver non poco da fare, sapendo che quei grossi velieri erano poderosamente armati e montati da marinai scelti, composti per la maggior parte di biscaglini. La Folgore si era messa in gran corsa per raggiungerlo. Tutte le vele erano state spiegate e Mendoza aveva presa la ribolla del timone. Il galeone, accortosi d'aver dietro la poppa una nave corsara, si era subito diretto verso la costa sandominghese, per cercare qualche rifugio in qualcuno dei numerosi porti o rade dell'isola, protette da qualche forte. Il conte però, accortosi a tempo delle sue intenzioni, aveva lanciata la Folgore lungo la spiaggia, per impedire al galeone di sfuggire all'abbordaggio. Essendo il vento piuttosto debole e contrario, con quattro bordate lunghissime si portò all'altezza del galeone, poi mosse arditamente verso il largo, facendo cosí capire agli spagnuoli che non vi erano altre speranze che la resa a discrezione o un combattimento disperato. - A me, Mendoza! - gridò il conte. - Questo è il buon momento! Il galeone non si trovava che ad un miglio di distanza e veleggiava pesantemente. Era uno di quei grossi navigli che gli spagnuoli adoperavano per trasportare in Europa i tesori strappati alle miniere allora inesauribili del Messico, del Guatemala e di Costarica, larghi di fianchi, a due ponti, ma troppo pesanti per poter gareggiare colle svelte navi dei filibustieri i quali, forti dell'appoggio dei bucanieri, pensavano piú alla velocità che al numero dei pezzi di cannone. - A te, Mendoza! - gridò il conte. - Spaccami l'albero maestro di quel galeone e fermalo in piena volata! - Se colla mia draghinassa potessi farlo, non esiterei un solo istante, - borbottò il guascone. - Il compare ha davvero una fortuna indiavolata, però mi pagherà il doblone! Il galeone, accortosi di essere inseguito da una grossa nave capace di disputargli e anche fargli pagare caramente la vittoria, aveva cambiato bruscamente rotta, forse colla speranza di rifugiarsi nel piccolo porto di Jacmel e mettersi sotto la protezione dei fortini colà eretti dagli spagnuoli. Ma aveva da fare con degli arditi uomini di mare, che conoscevano perfettamente le coste dell'isola e per di piú con una velocità troppo rapida, per poter sfuggire ad un abbordaggio. Il conte, accortosi dell'intenzione dei suoi avversarii, strinse verso la costa per tagliare loro il passo e impedire di cercare un rifugio. La Folgore, che conservava tutta la sua immensa velatura essendo il vento favorevolissimo, giungeva colla velocità d'una rondine marina. Giunta a cinquecento metri dal nemico sparò un colpo a sola polvere, ma il galeone non credette di obbedire all'intimazione. Vedendo che era impossibile raggiungere il piccolo porto, virò nuovamente al largo, mentre il suo equipaggio si preparava animosamente ad impegnare là lotta. - Ah! non volete fermarvi! - disse il conte. - A te allora, Mendoza. Il lupo di mare balzò verso il pezzo di caccia di tribordo e lo puntò sul galeone, il quale aveva, a sua volta, aggiunto nuove vele a quelle già spiegate, per far almeno correre per un po' ancora la fregata. - Che gli altri non facciano fuoco! - gridò il conte col portavoce. - Conservate i vostri colpi pel momento dell'abbordaggio. Mendoza, sei sicuro del tuo tiro? - Accordatemi almeno tre palle, - rispose il basco. - Anche sei, se vuoi. - Allora qualche albero andrà giú: che nessuno parli. - Nemmeno io? - chiese don Barrejo scherzando. - Voi meno degli altri, signor guascone. Un profondo silenzio regnava sulla fregata, rotto solo dal tamburellare delle vele e dai leggieri sibili della brezza la quale faceva vibrare cordami. Tutti gli occhi si erano fissati sul galeone, il quale continuava la sua fuga verso ponente, tendendo però sempre a gettarsi verso la costa che era visibilissima, e non lontana piú di sei o sette miglia. Mendoza continuava a rettificare la mira del pezzo, borbottando e soffiando come una foca. Si sa già che i tiri in mare, contro un corpo mobile e colle improvvise scosse che subisce la nave, sono sempre difficilissimi, specialmente su velieri, i quali non hanno una assoluta stabilità a causa dei soprassalti del vento. L'impresa del basco non era quindi una cosa da ridere. A un tratto una fortissima detonazione che scosse tutto il cassero della Folgore, rimbombò; il pezzo da caccia aveva finalmente fatto fuoco. Mendoza e il guascone che gli stava presso erano saltati in mezzo alla densa nuvola di fumo, mentre il conte ed il suo luogotenente si curvavano sul ponte di comando, come se cercassero di seguire la corsa del proiettile. Mendoza aveva mandato un grido di collera. Non era stato l'albero maestro del galeone a precipitare sulla tolda, bensí il pennone dell'immensa vela di gabbia era spaccato a qualche metro solo dalla coffa. - Ah, lupo mio, non hai strappato che una penna a quell'uccellaccio! - disse il conte. - Era un'ala che io volevo. - Ho ancora cinque palle a mia disposizione, capitano - rispose il basco. - Non ti disperare però: anche una penna è qualche cosa e quel galeone non correrà piú come prima. Un rimbombo spaventevole coprí le sue ultime parole. Il galeone aveva scaricato tutti i suoi pezzi di babordo d'un colpo solo, ma non avendo le artiglierie di quei tempi, ad eccezione dei lunghi pezzi da caccia, che un tiro molto debole, i proiettili non giunsero fino alla fregata. - Quella gente ha polvere e ferro da sprecare! - disse il conte. Che abbiano voluto solamente spaventarci? Oh, siamo troppo abituati a quella musica, non è vero, signor Verra? - Non produce piú alcun effetto su di noi - rispose il luogotenente, il quale stava caricando tranquillamente la sua pipa. - Prima che quelle palle giungano fino a noi, io avrò terminata la mia fumata. Intanto Mendoza, aiutato da alcuni filibustieri aveva ricaricato il pezzo non potendo per il momento servirsi dell'altro, a motivo della posizione che occupava il galeone. Per la seconda volta aveva corretto la mira. Gli spagnuoli avevano subito approfittato di quella sosta per rialzare la loro vela e fissare un lembo alla coffa, non potendo pensare a sostituire il pennone. - Compare, - disse il guascone al basco - badate di non perdere i dobloni, altrimenti non potrete piú restituire quello che avete perduto con me nelle cantine della marchesa. Mendoza non rispose; continuava a mirare attentamente, spostando lentamente la bocca del pezzo per mantenerlo sulla linea del galeone. Il colpo partí, seguito, dopo qualche istante, da un urrà fragoroso e dalle grida di: - Bravo, Mendoza! Non era un'altra penna che il basco aveva strappato alla nave avversaria. L'albero maestro, spaccato un po' sotto la coffa, era caduto attraverso il galeone, spezzando, col proprio peso, le sartie ed i paterazzi e facendo inclinare fortemente la nave sul babordo. La grande vela latina e quella quadrata soprastante erano pure cadute, ingombrando la tolda e coprendo buona parte dell'equipaggio. - Ecco un tiro meraviglioso! - esclamò il guascone. - Il mio doblone è al sicuro. - Siete soddisfatto, signor conte? - chiese Mendoza trionfante. Il signor di Ventimiglia, invece di rispondere, sguainò la spada, gridando con voce tonante: - All'abbordaggio, miei bravi! ... Fra dieci minuti il galeone sarà nelle nostre mani!

Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato, aspirando fragorosamente l'aria, e la cinquantina, che era guidata da un ufficiale, si era subito disposta su quattro linee abbassando le alabarde. - Camerata, - sussurrò Barrejo, rivolgendosi a Mendoza - voi occupatevi di quel cagnaccio e badate di non sbagliare il colpo o vi salterà alla gola. - È un affare che sbrigherò io, - rispose il filibustiere. - Alla cinquantina penseremo io e il signor conte. Tutti e tre avevano armato le pistole e si tenevano l'uno presso l'altro, pronti a sguainare le spade. Il doz cubano fiutava sempre, volgendo la testa massiccia verso l'enorme albero e ringhiando sordamente. Doveva aver sentito che là si nascondeva il nemico. Un grido s'alzò fra gli uomini d'avanguardia della cinquantina - Ay, perrito! Il cagnaccio, udendo quel comando, si slanciò furiosamente, sperando di azzannare i misteriosi avversari che non osavano mostrarsi. Mendoza, che lo teneva d'occhio, fu pronto a sparare e gli fracassò il cranio, mentre il conte ed il guascone facevano fuoco contro la cinquantina, tirando a casaccio. Allora gli spagnuoli, credendo d'aver dinanzi qualche grosso drappello di quei terribili bucanieri che non sbagliavano mai la mira, in un lampo si dileguarono, gettandosi in mezzo ai canneti delle paludi. - Ecco la cinquantina sgominata! - disse il guascone ridendo. Lavoriamo tuttavia di gambe, perché domani mattina tornerà qui e se si accorgerà, dalle nostre tracce, d'aver avuto da fare con soli tre uomini, ci darà una caccia terribile. Corriamo, signor conte! - E queste sono le splendide passeggiate che si fanno a San Domingo - disse Mendoza. - Preferisco quelle che si fanno sulla tolda della Nuova Castiglia. Si erano messi a correre, come se avessero altri molossi alle calcagna. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe di tutti, marciava con una rapidità incredibile lungo la fronte della boscaglia, dietro però la prima linea degli alberi, per paura che la cinquantina, rimessasi dalla sorpresa, si fosse nuovamente ordinata e formata per la caccia. - Questo briccone ha giurato di farmi morire completamente sfiatato! - brontolava Mendoza, il quale sbuffava come un bufalo. - Quanto durerà questa storia? Pareva proprio che il guascone possedesse una resistenza incredibile e muscoli di acciaio, poiché non rallentava nemmeno un momento la sua corsa. Il figlio del Corsaro Rosso si mostrava non meno resistente, anzi, aveva maggiore slancio, come se fosse già abituato alle lunghe corse. Quella galoppata furiosa durò un'ora, poi il guascone si fermò. - Può bastare - disse. - La cinquantina ha avuto piú paura di noi e non ha osato darci la caccia. Prima che ne incontri altre o che si rifornisca di cane, passerà del tempo e noi potremo raggiungere la villa della marchesa, senza essere piú disturbati. - Se non sapete nemmeno dove si trovi! - disse Mendoza, il quale aspirava, come un mantice da fucina, la fresca brezza notturna. - Camminando sempre, si va anche a Parigi - rispose Barrejo. - Nel mio paese si dice che tutte le vie conducono a Roma - aggiunse il conte. - Ma non alla villa di Montelimar - ribattè Mendoza il quale sembrava di pessimo umore. - Voi, camerata, brontolate sempre contro il vostro capitano - disse il guascone. - Anche questo è un brutto vizio. - Mi correggerò col tempo. - Siete ormai troppo vecchio per farlo. - I filibustieri sono sempre giovani. Lo sanno gli spagnuoli. - Oh, non lo nego, amico! Avete sempre il fuoco nel petto. - E non le vostre gambe. - Orsú, che cosa facciamo ora, don Barrejo? - chiese il conte. - Io per conto mio, farei colazione - disse Mendoza. - Questa corsa mi ha messo un appetito da pescecane. - Contentati di accendere la tua pipa, per ora - rispose il conte. - Se non basta, stringi bene la cintura. - Ottimo consiglio! - sentenziò gravemente il guascone. - Che non farà bene a nessuno - brontolò Mendoza - Mettetelo in pratica voi. - Ne avete qualche altro da suggerirci don Barrejo? - chiese il conte. - Sí, quello di sdraiarci in mezzo a queste fresche erbe e di tirare il fiato fino all'alba. - E i caimani? - chiese Mendoza. - prima avevate una gran paura di quelle bestiacce. - Sono lontani da qui, e poi non chiuderemo gli occhi - Visto e considerato che non vi è di meglio da fare, lo metto in esecuzione - disse il conte, lasciandosi cadere fra le erbe e allungandosi con visibile soddisfazione. - Sono due giorni che io e questo eterno brontolone non ci riposiamo: è vero, Mendoza? - Saranno forse di piú - rispose il filibustiere imitandolo. Il guascone guardò attentamente in tutte le direzioni, si chinò, accostò un orecchio a terra, ascoltò attentamente e poi, a sua volta, si allungò fra le fresche erbe, dicendo: - Nulla: possiamo riposarci. Non era però troppo facile socchiudere gli occhi. I grossi rospi muggivano sempre, con un crescendo spaventoso; i caimani facevano del loro meglio per imitarli ed i batraci gareggiavano fra di loro per fischiare con maggior furore, come se si fossero messi d'accordo per impedire a Mendoza di schiacciare un sonnellino, fosse pure d'un quarto d'ora. Era però molto tardi, e l'alba non doveva tardar molto a spuntare. Nel Golfo del Messico il sole tramonta presto e si alza anche molto presto. Alle tre e mezzo, durante l'estate, il cielo si tinge dei primi riflessi dell'aurora e le stelle scompaiono. I tre filibustieri - poiché ormai anche il guascone si poteva considerare come tale - si riposavano da un paio d'ore, tendendo continuamente gli orecchi, per paura che i cani delle cinquantine, li sorprendessero, quando le tenebre cominciarono a diradarsi. - In marcia, signor conte - disse il guascone, alzandosi rapidamente. - Cercherò di orientarmi. - È stata accomodata la bussola piantata in mezzo al vostro cervello? - chiese Mendoza beffardamente. - S'incaricherà il sole di rettificarla - rispose l'avventuriero. - Speriamo che sia un abile meccanico. - Vedrete, camerata. Stavano per mettersi in cammino, quando udirono a breve distanza uno sparo. - La cinquantina! - gridò Mendoza facendo un salto. - Sí, che spara con le sue alabarde! - osservò il guascone sorridendo. - Io scommetto invece che è la colazione che giunge. Signor conte, siete conosciuto fra i bucanieri? - Se non io, erano troppo noti i tre corsari: il Rosso, il Nero e il Verde. - Questa archibugiata deve averla sparata un bucaniere. - Andiamo a trovarlo - rispose il signor di Ventimiglia. Attraversarono di corsa una folta macchia e, giunti sul margine, scorsero, in mezzo ad una radura erbosa, un uomo piuttosto attempato, vestito malamente. Aveva un grembiale di pelle ed un largo cappello di feltro in testa e stava ritto accanto ad un gigantesco bue selvaggio il quale stava spirando. Vedendo quegli stranieri, il cacciatore fece alcuni passi indietro, e gridò con voce minacciosa: - Chi siete? Rispondete, o vi uccido prima che possiate giungere fino a me! - Siamo filibustieri, camuffati da spagnuoli - rispose il conte in francese purissimo, perché l'intimazione era stata fatta in quella lingua. - Io sono il figlio del Corsaro Rosso e nipote del Verde e del Nero. - Del Corsaro Nero! - gridò il bucaniere, lasciando cadere l'archibugio e facendosi innanzi. - Di quello che con Grammont, Laurent e Wan Horn ha espugnato Vera-Cruz? Io ho combattuto con lui! Tonnerre de Brest! Signore, sono ai vostri ordini! Comandate!

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Sì, immensamente, - rispose la fanciulla arrossendo e abbassando gli occhi. - La guerra è finita fra noi, - disse sir Moreland, - e la macchia di sangue è cancellata. Tremal-Naik benedite i vostri figli. - Ma chi siete voi? - gridarono ad una voce Yanez, Sandokan e Tremal-Naik. - Io sono ... il figlio di Suyodhana! Venite! Siete miei ospiti.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 9 occorrenze

Ambedue, pettinate dalla stessa pettinatrice popolare, a due soldi la pettinatura, avevano i capelli stirati sul sommo del capo, con la treccia fermata da grosse forcinelle di falsa tartaruga, con la frangetta spiovente sulla fronte e leggermente incipriata; ambedue portavano il vestito della popolana napoletana agiata, la gonna senza tunica e il semplice corpetto attillato che conserva il nome spagnuolo di baschina ambedue portavano la grossa catena d'oro al collo, il gioiello che non lasciavano mai, e che era il segno della loro formidabile potenza; ambedue portavano gli stivaletti di pelle, alti, coi tacchi di legno rumoreggianti; e ambedue, per pranzare, avevano lasciato il loro lavoro ordinario: - una gran coltre di cotonina rossa da una parte, di cotonina verde dall'altra, imbottita di bambagia, stesa sopra un grande telaio e che esse trapuntavano, a disegni di ruote, di stelle, di losanghe, un lavoro che compivano rapidamente, sedute una da una parte, l'altra dall'altra, col capo chino, col naso sul disegno, levando ed abbassando l'ago con un movimento monotono del braccio, - e il telaio era stato respinto in fondo alla stanza: si vedevano le due sedie smosse. Adesso, una servetta di quattordici anni, rossa di capelli, bianchissima di viso e macchiata di lentiggini, era venuta a portare la seconda pietanza, un pezzo di quel formaggio di Basilicata che è piuttosto un latticinio secco, la provola, insieme due grossi sedani. Con un'occhiata, la servetta interrogò donna Caterina, sulla sorte dei maccheroni che restavano in fondo al piatto: - Conservane due a Menichella, - disse la tenitrice di gioco piccolo, agliandosi una larga fetta di formaggio. - Sissignora, - mormorò la fanticella uscendo. Menichella era una poveraccia, di sessant'anni, a cui il figliuolo, guardia municipale, era morto in una rissa di camorristi, in piazza della Pignasecca, per un colpo di rivoltella nel ventre. Viveva di elemosina e ogni venerdì capitava a casa delle due sorelle Esposito, che le davano un piatto caldo, una mezza ciambella di pane, qualche straccio. Così facevano le sorelle Esposito, per omaggio alla bella Madonna Addolorata, di cui venerdì è il giorno. Il mercoledì facevano eguale elemosina a un povero cieco, detto Guarattelle, erché per molti anni aveva fatto il burattinaio, dedicando, le Esposito, questa carità alla Madonna del Carmine, di cui mercoledì è il giorno. E il lunedì egualmente, davano da mangiare a un bambino abbandonato, di dieci anni, di cui tutto il vicolo Rosariello di Portamedina, si occupava, procurandogli da mangiare, mentre le sorelle Esposito lo aiutavano in quel giorno fisso, a suffragio delle anime purganti, cui appartiene il lunedì. Era, in qualunque giorno, difficile che un povero battesse a quella porta, senza aver qualche cosa. - Fatelo per san Giuseppe, di cui ricorre la giornata! - Sia lodata la Trinità, oggi è domenica, fate elemosina. Roba da mangiare, un bicchiere di vino, qualche straccio, i pezzenti lo portavano via, sempre: denari, mai. Le sorelle Esposito avevano troppo grande rispetto per il soldo, ome esse dicevano, per farne carità; e spiegavano che era miglior carità dar da pranzo, che incitare al vizio, coi denari. I pezzenti restavano sul pianerottolo: le sorelle Esposito non li lasciavano entrare, temendo sempre pei valori che avevano in casa; portavano fuori il piatto di maccheroni, o di legumi, o di verdura; talvolta il pezzente lo mangiava sulla scala, seduto sullo scalino, borbottando delle benedizioni. Adesso avevano mangiato il formaggio affumicato col pane, lentamente, con quel movimento un po' caprigno delle mascelle, e strappando le successive spoglie dei sedani, le rosicchiavano con gran rumore, come frutta, per levarsi dalla bocca il sapore dell'olio. Quando ebbero finito, rimasero un po' immobili, guardando le chiazze azzurre della tovaglia, con le mani prosciolte in grembo, nel silenzio della digestione e dei loro lunghi calcoli mentali di donne d'affari. La fanticella, Peppina, aveva portato via tutto in un baleno e dall'attigua cucina si sentiva lo strascico delle sue ciabatte, ella andava e veniva, per lavare i pochi piatti, fermandosi ogni tanto a voltare nel tegame i suoi maccheroni che ella aveva messo a soffriggere di nuovo, visto che erano freddi. Ora le due sorelle si erano alzate e dopo avere scosso le gonne dalle molliche, erano andate a riprendere il loro posto, al telaio, curvando il capo, sollevando metodicamente la mano destra carica di anelli, tenendo la mano sinistra sotto il telaio, per trapuntare. Un tintinnìo del campanello si udì: le due sorelle scambiarono una rapida occhiata e ripresero il lavoro: esso, oltre quello che ci guadagnavano, serviva da loro paravento morale e materiale. Due ragazze, due sartine, entrarono, spingendosi a vicenda. La prima, più coraggiosa, era la bionda Antonietta, che lavorava da una sarta a strada Santa Chiara e andava a comperare la colazione per sé e per la sua compagna Nannina, dall'oste rimpetto al palazzo dell'Impresa del Lotto; ma tutte e due erano vestite miseramente, con certe grame gonnelluccie di lanetta, una giacchetta vistosa ma povera di altro colore e uno scialletto nero che volentieri esse lasciavano cadere sulle braccia, per mostrare il busto e un fiocchetto di nastro rosa, al collo. Nannina, la più piccola, era parente delle due sorelle Esposito, ma aveva un sacro terrore delle sue zie, piene di denaro, di gioielli, che la ricevevano sempre con una meditabonda e meditata freddezza. Pure si lasciarono baciar la mano dalla nipote: le due ragazze rimasero in piedi, presso il telaio, guardando quell'alacre lavoro, come mortificate. - Non sei andata al lavoro, oggi? - domandò donna Caterina a Nannina. - Ci sono andata. - rispose subito, volubilmente, la fanciulla, spinta dalle gomitate di Antonietta - ma la maestra ci ha mandato a fare certe spese, qui vicino, e siccome questa compagna mia voleva cercare un favore, a voi, così siamo venute… - Da chi lo voleva, il favore? - disse donna Concetta, levando il capo dalla coltre. - Da voi, proprio, zia… - balbettò la nipote. - Neh! - esclamò quella, con una profonda intonazione ironica, sorridendo e crollando il capo. Le ragazze tacquero, guardandosi: la cosa si metteva male, dal principio. La tenitrice di gioco piccolo, subitamente disinteressata dalla questione, con un paio di forbicette tagliava l'impuntura della coltre, dove era stata già trapuntata, e la sua baschina di lanetta marrone si copriva di piccoli fili bianchi. - Beh! avete perduta la lingua? Di che si tratta? - chiese, ridendo, donna Concetta. - Ecco, donna Concettina, ora ve lo dico io - riprese la biondina Antonietta, mordendosi le labbra per farle diventare rosse. - Mi vorrei fare un vestito nuovo per Pasqua, e un paio di stivaletti, e comperarmi la mussola per farmi tre o quattro camicie. A stringere, a stringere cucendo io tutto, quando ho finito la giornata dalla sarta, mi servono quaranta lire. Io non le ho, quaranta lire, e per metterle da parte, mi ci vorrebbe un anno. Siccome ho saputo che siete tanto buona e fate tanti favori alla povera gente, così ho fatto un pensiero, che voi mi avreste prestato queste quaranta lire. - Hai fatto un malo pensiero, - disse glacialmente l'usuraia. - E perché? Io posso scontare questo debito a un tanto la settimana; guadagno venticinque soldi al giorno; non debbo dare un soldo a nessuno; domandate a Nannina vostra nepote, che mi garantisce… - Nannina dovrebbe trovare qualcuno che garantisse lei… - borbottò donna Concetta. - Ma a che ti serve questo vestito? Quello che hai addosso, non ti basta? Quando non ci sono soldi, non si fanno vestiti! Quando mia sorella ed io non avevamo soldi, non ci facevamo vestiti! Siete tutte matte, voi altre ragazze di adesso.. - Zia, zia, fateglielo questo piacere. Ci ha l'innamorato, e si vergogna di far cattiva figura, - pregò la nipote, per l'amica. - Anch'io ci ho avuto l'innamorato, - replicò donna Concetta - e non se ne vergognava, quando io era mal vestita. - Gli uomini di adesso sono un'altra cosa… - mormorò la bionda Antonietta. - Sicché me lo fate questo favore? - Ragazza mia, io non ti conosco… - Io lavoro da Cristina Gagliardi, a Santa Chiara, numero 18, primo piano: abito a Strettola di Porto, numero 3, vi potete informare… Seguì un silenzio in cui, di nuovo, le ragazze scambiavano un'occhiata allarmata. - Al più, al più, - disse levando il capo, donna Concetta - io posso darti a credito della lanetta per farti un vestito e della mussolina per queste camicie…pregherò un mercante che mi conosce… un buon uomo… ma pagherai la roba di più. - Non importa, non importa, - interruppe subito Antonietta - fate voi… - Di che colore deve essere, questa lanetta? -chiese maternamente donna Concetta. - O blù marino, o verde bottiglia… blù marino mi piace di più… - Ti sta meglio: blù marino, fai una gran figura, - soggiunse Nannina, con aria d'importanza. - E non si scolorisce tanto facilmente, - finì di dire donna Concetta. - Quanti metri te ne servono? La ragazza contava fra sé, agitando le dita come se misurasse, guardandosi la persona, contando e ricontando. - Dieci metri, sì, dieci metri basteranno… - Cinque canne? Gesù! Già, te lo vorrai fare alla moda? - Donna Concettì, compatite… - rispose sorridendo Antonietta. - Va bene, va bene. Per ogni camicia ci vogliono quattro metri di mussola, sarebbero in tutto sedici metri… - E le scarpe? - chiese la ragazza, esitando. - Io non conosco calzolai, figlia mia. - Mi darete il resto delle quaranta lire in danari, - s'avventurò a dire la sartina. - Senti, figlia mia, - disse donna Concetta, - io vengo domani, che è sabato, dalla sarta a informarmi se veramente ti dànno venticinque soldi al giorno e se hai preso danaro anticipato. Là combino con la sarta che invece di darti la paga intiera della settimana, ogni sabato si ritenga due lire per me, per l'interesse delle quaranta lire. - Due lire?! - esclamò la ragazza, sgomentata da tutto quel discorso. - Già. Ne dovrei esigere quattro, un soldo a lira per settimana, ma tu sei una povera giovane e ti voglio aiutare veramente. La sarta mi dà le due lire, per l'interesse: tu poi, dal resto, sconti quello che vuoi del tuo debito, cinque lire, tre, due, come ti fa comodo. Hai capito? - Sì, sì… - esclamava, terrorizzata, la ragazza. - Più presto paghi, meglio per te. Io non desidero di meglio. Però ti avverto che se ti dovessi far pagare prima dalla sarta, o andartene via, o fare qualche altra simile birbonata, io ti arrivo, gioia mia, e ti faccio vedere chi è Concetta Esposito. Io me ne rido di andare in galera, per il sangue mio…mi sono spiegata? - Sissignora, sissignora, - balbettava Antonietta con le lacrime agli occhi. - Però sei sempre a tempo di non farne niente, - conchiuse donna Concetta, gelidamente, riabbassando il capo, per trapuntare la coltre. - No, no, - strillò la ragazza, - tutto quello che volete voi. Promettetemi che venite domani, a Santa Chiara, numero diciotto? - Ci vediamo domani, - disse licenziandola, donna Concetta. - E portate la roba? Portate i danari? - A questo ci debbo pensar io. - Addio, zia, - mormorò Nannina, più pallida e più spaventata della sua amica. - La Madonna vi accompagni, - dissero in coro le due sorelle Esposito, ricominciando a lavorare. Le ragazze se ne andarono silenziose, a capo chino, non trovando più forza né di parlare, né di sorridere. Una donna che saliva, in fretta, le urtò, borbottò uno scusate rettoloso, e andò a bussare alla porticina delle sorelle Esposito. Era Carmela, la sigaraia dagli occhi grandi e pieni di dolorosi pensieri, dal volto consunto: prima di entrare in casa, sospirò profondamente e un rapido rossore le coprì le guancie smunte. - È permesso? - disse, dalla saletta, con voce debole. - Entrate, - si rispose da dentro. - O sei tu, buona cristiana? - disse, riconoscendola, Concetta. - Di' la verità, sei venuta a restituirmi quei denari? La coscienza ti ha rimproverato alla fine, eh? Dà qua. - Voi avete voglia di scherzare, donna Concetta mia, - disse la misera, abbozzando un pallido sorriso. -Se avessi trentaquattro lire, vorrei fare trentaquattro salti. - Sono trentasette lire e mezzo, con l'interesse della passata settimana, - rettificò freddamente l'usuraia. - Come volete voi: chi vi nega niente? Voi dite trentasette e mezzo e io pure dico così. - Hai portato l'interesse, almeno? - Niente niente, - disse disperatamente la ragazza, chinando la testa. - La miseria mi rosica. Sono arrivata a guadagnare una lira e cinquanta al giorno, potrei stare come una signora, ma che! - E tu perché ti fai mangiare i denari? - domandò donna Concetta, cedendo al suo bisogno di far predica di saggezza alle sue debitrici. - Sei una bestia, ecco quello che sei. - Ma come, donna Concè? - gridò desolatamente Carmela; non ho da dare un tozzo di pane a mia madre vecchia? Quando mia sorella crepa di miseria con tre figli, che gliene sta morendo uno, che è una pietà, io le ho da negare la mezza lira? Quando mio cognato Gaetano, con tutti i suoi vizi, non ha da fumare, gli ho da negare i cinque o sei soldi! Con che core, donna Concetta mia? - È Raffaele che ti spolpa, è Raffaele! - canticchiò l'usuraia, infilando un'agucchiata di cotone rosso. - E che ci volete fare? - esclamò la ragazza, aprendo le braccia - quello era nato per fare il signore. Intanto io, se non pago lunedì il padron di casa, quello mi dà lo sfratto. Gli ho da dare trenta lire: ma gliene potessi dare almeno dieci! Ah se mi faceste questa carità, voi! - Tu sei pazza, figlia mia. - Donna Concetta, donna Concetta, che vi fanno a voi, dieci lire? E io ve le restituisco, lo sapete, io non ho mai preso un centesimo a nessuno. Non mi fate buttare sulla strada, donna Concetta, fatelo per chi vi è andato in paradiso! - No, no, no, - canterellò la copertaia. - Sentite, sentite, - soggiunse l'altra, affannosamente, - questi orecchini che porto, furono pagati diciassette lire, quattro ducati, dalla mia comare: io ve li dò, non ho altro, e voi me li restituirete, quando vi avrò restituito le dieci lire. - Io non impegno, - rispose donna Concetta, dopo aver sogguardato gli orecchini. - Ma non è pegno: è un piacere che mi fate. Se dovessi impegnare, mi darebbero cinque o sei lire: si terrebbero l'interesse anticipato e col denaro della cartella, dello scatolino e la mezzanìa, mi resterebbero tre o quattro lire. Fatelo solo per questa volta, donna Concetta, la Madonna vi guarda dal cielo! E convulsamente si levò gli orecchinetti di oro, un po' vecchi, li strofinò con un lembo del grembiule e li posò delicatamente sulla coperta: li guardava ancora, intensamente, licenziandosi da loro. Donna Concetta li prese con una smorfia di disgusto: con sua sorella che aveva levato il capo, scambiarono uno sguardo: la tenitrice di gioco piccolo parve le dicesse di sì, col battere delle palpebre. Muta rigida, donna Concetta si levò, portando via gli orecchinelli, entrando nell'altra stanza del quartiné, dove dormivano le due sorelle: si udirono stridere chiavi nelle serrature, aprirsi e chiudere dei cassetti, con intervalli di silenzio. Poi, donna Concetta ricomparve. Portava nella mano due rotoletti di carta giallastra. - Sono soldi: contali, - disse brevemente, posandoli innanzi a Carmela. - Non importa, non importa, rispose la poveretta, tremando di emozione. - Il Padre Eterno ve lo deve rendere in tanta salute, quello che fate a me. - Va bene, va bene. - conchiuse donna Concetta, rimettendosi al lavoro. - Ma ti avverto che io vendo gli orecchini, se non paghi. - Non dubitate, - mormorò Carmela, andandosene. Per un poco, le due sorelle rimasero sole, trapuntando. - Gli orecchini valgono dodici lire di oro - disse Caterina, che aveva l'occhio acuto. - Già, - disse donna Concetta. - Ma Carmela pagherà, è una buona figliuola. Di nuovo, si udì tinnire il campanello. - Pare il campanello della levatrice, osservò Caterina. Un passo strascicato si udì, col rumore come di una cassa che fosse posata per terra, in un angolo della saletta: e innanzi alle due sorelle comparve tutto storto, gobbo col fianco sollevato come se ancora tenesse la cassetta da lustrare, Michele, il lustrino. Salutò dicendo spagnolescamente: la vostra buona grazia, entre le mille rughe del suo volto di fanciullo rachitico invecchiato, parea emanassero malizia. Le sorelle lo guardavano, pazientemente, aspettando che egli parlasse. - Qui mi manda Gaetano Galiero, il tagliatore di guanti… - Bel galantuomo! - esclamò donna Concetta, mettendo una striscetta di carta nel suo anello da cucire, che le andava largo. - E se non fate parlare la gente, non ci capiremo mai! - soggiunse il gobbo, filosoficamente. - Gaetano ha grandi obblighi con voi, ma voi siete una bella femmina che non vi manca giudizio e gli perdonerete le sue mancanze. Beh! quello che non accade in un anno, accade in un giorno e quando meno ve lo aspettate, Gaetano è qui, coi denari. - Sì, sì… - dissero sogghignando le due sorelle. - E poi lo vedrete. Ma io sono venuto per parlarvi di un affare mio. Io faccio, ringraziamo Iddio, un'arte igliore di quella che fa Gaetano: sto vicino al caffè De Angelis, lla Carità, e non faccio per dire, ma pulisco le scarpe alla miglior nobiltà di Napoli. Quello che voglio guadagnare, guadagno. Io me ne rido della malannata. Quando piove, mi metto sotto l'arco della porta, nel caffè: e più fango si fa nella strada, più scarpe pulisco. Oh belle femmine mie, se avessi la testa buona, a quest'ora sarei un signore! Mah! Ora, per combinare un affare grosso assai, che mi può far mettere la carrozza, io ho bisogno di certi soldi: e poiché voi fate di questi piaceri alla gente, sono venuto a proporvi l'affare. Mi servono quaranta lire, da scontare a tre lire la settimana. Questo, sino a quando non ho fatto la combinazione rossa, perché allora vi restituisco capitale, interesse e vi fo pure un bellissimo regalo. - Non v'incomodate, - disse ironicamente donna Concetta. - Se non li prestate a me, questi soldi, a chi li volete prestare? - rispose audacemente lo sciancato. - Se sto una giornata innanzi al caffè, io mi guadagno due lire, lo sapete? Neanche un giovane i barbiere può dire questo! D'altronde quel posto la mia fortuna, è la mia bottega: se me ne vado di là, non guadagno un soldo, non vi posso scappare, dunque! Domandate al caffettiere, chi è Michele. I denari vostri nelle mie mani stanno sicuri. Il caffettiere vi dirà tutto. - Se il caffettiere garantisce per voi, io vi do i denari, - disse subito donna Concetta. - E allora me li darebbe lui, - obbiettò lo sciancato. - No, no, Michele non ha bisogno di garanzia. Venite domani che è sabato, alle nove, dal caffettiere: e sentirete il suo discorso: e vedrete che mi date non quaranta, ma sessanta lire. Sono galantuomo, sto in faccia a un pubblico, femmine mie. - Bè, ci vediamo domani. Sapete l'interesse? - disse donna Concetta. - Quello che voi volete, - replicò galantemente lo sciancato. - Anche una tazza di caffè, con una pagnottina dentro: al caffè sono padrone io! Avete comandi? - Preghiere sempre, - mormorarono le due donne, mentre egli se ne andava. Dopo una pausa di lavoro, Caterina osservò: - Gli hai detto di sì troppo presto. - Farò fare la garanzia al caffettiere. Eppoi è gobbo: porta fortuna, - soggiunse donna Concetta. - Se ci portasse fortuna, dovrebbe finire per noi questa vita così dura a scorticare, - riprese Caterina, che volentieri si lamentava della sua fortuna. - Eh! - disse l'altra sospirando. - Non abbiamo un uomo che ci dia mano forte, mai; perciò la giustizia ce la dobbiamo fare da noi, sempre. Ciccillo e Alfonso sono due scemi, è inutile… - Che ci vuoi fare! - sospirò l'altra. E le due sorelle, lasciando di lavorare, con le mani abbandonate sulla coperta rossa, si misero al loro segreto cruccio, a quella pena tormentosa che non confessavano a nessuno, a quei due fidanzati loro, due buoni operai dell'arsenale, i due fratelli Jannaccone, che le amavano, ma che non volevano sposarle, nessuno dei due, per il mestiere che esse facevano. Da tre anni esse combattevano quella lotta fra l'amore e il denaro, ma Ciccillo e Alfonso Jannaccone non volevano saperne: lo sposare una tenitrice di gioco piccolo una imprestatrice di denaro a usura, li avrebbe fatti vergognare innanzi a tutto l'arsenale. Erano due operai buoni, semplici, molto taciturni, che non spendevano la loro giornata, avevano qualche soldo da parte e venivano a passare la serata presso le due sorelle. Ostinati in quell'idea, una delle poche che avevano nel loro ingenuo cervello, nessuno slancio di amore e nessuna cupidigia di denaro arrivava a vincerne la cocciutaggine. Varie volte, le due sorelle, accanite al guadagno, offese aspramente da quel rifiuto, avevano litigato coi due fidanzati, li avevano cacciati di casa, ma per breve intervallo: la pace veniva fatta così, naturalmente. Caterina e Concetta promettevano di smettere. Ne dovevano avere del denaro e molto, da parte, le due donne, ma non ne parlavano mai: ed esse stesse, malgrado l'amore per Alfonso e Ciccillo Jannaccone, ritardavano ancora il matrimonio, per guadagnare ancora delle lire, non sapendo spezzare quel giro di affari usurarii, non volendo rinunziare ai vecchi crediti, non resistendo a crearne dei nuovi, e non intendendo la vergogna dei due innamorati, dolendosene come di una ingiustizia. Ah, pareva loro di fare atto di umanità, alle due sorelle, prestando il denaro a usura, facendo giuocare dei biglietti del lotto a un soldo e a due soldi, pareva loro atto di carità: poiché la povera buona gente napoletana, scorticata, strozzata, che prendeva il denaro da Concetta per darlo al Governo e a Caterina, le ringraziava, piangendo, benedicendole! Quando eran ben sole, nei momenti di espansione, le due sorelle si lagnavano del loro destino: altri che non fossero i due fratelli Jannaccone sarebbero stati assai felici di avere delle future spose così industriose, laboriose, con una dote: ma i due operai si ostinavano, invincibili, insistendo che non le avrebbero sposate mai, mai, se non lasciavano quel modo di guadagnar denari. Specialmente Ciccillo, il fidanzato di Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, ra duro come una pietra; anzi, ogni tanto, le diceva: - Caterina, un giorno o l'altro tu vai in carcere. - Pago per aver la libertà provvisoria ed esco! Poi, l'avvocato mi fa assolvere, - diceva lei, che conosceva la legge e gl'intrighi della legge. - Se vai in carcere, non vedi più la mia faccia, - ribatteva Ciccillo, accendendo un mozzicone. Sì, quando erano sole, sole, le due sorelle si disperavano. Ma l'amore dei quattrini era così forte, che faceva loro prorogare sempre l'epoca del doppio matrimonio. Pazientemente, i due operai aspettavano, comperando coi loro risparmi, lentamente, i mobili per mettere su casa, insieme, poiché non si erano mai divisi. - A Pasqua, - dicevano le due sorelle, pensando di finirla con tutti i loro impegni, per quell'epoca. - A Pasqua, - annuivano i due fratelli. - A settembre, - dicevano esse, nell'aprile, essendosi invescate più che mai in quella rete di sordidi affari. E sempre, quando erano sole, le due sorelle si lagnavano di essere maltrattate dal destino, di essere misconosciute dagli uomini che amavano e concludevano: - Ciccillo e Alfonso sono due scemi. Ma anche in quel giorno non rimasero a lungo sole. Il triste mestiere continuò sino a sera. Venne un pittore di santi, pittore nel senso che dipingeva il volto, le mani e i piedi dei santi di legno e stucco delle mille chiese di Napoli e di provincia: un pittore malaticcio, che chiedeva denaro e a cui fu concesso solo sulla promessa che avrebbe portato, l'indomani, una statuetta della Immacolata Concezione in abito azzurro cosparso di stelle, protettrice di Concetta, l'usuraia. Venne, disperatamente, Annarella, la sorella di Carmela, a chiedere in prestito, proprio per atto di carità, due lire per quel giorno, voleva fare un po' di brodo al suo bimbo malato: e lì una scena orribile avvenne, le due donne non credevano alle parole di Annarella, le voleva ancora burlare, ancora una volta, poiché ella e Gaetano suo marito avevano un grosso debito e non si vergognavano di prendersi il sangue della povera gente e di non restituirlo: Annarella strillava, piangeva, gridava che sarebbe andata a prendere il suo bambino, bruciante di febbre, per farlo vedere alle due sorelle; avrebbe fatto pietà ai sassi; e singhiozzando, gridava che anche loro avevano ragione, che tutti avevano ragione, ma che si movessero a pietà di quella creaturina che non ne aveva colpa, ora che era svezzata ella avrebbe trovato un altro mezzo servizio, se la Madonna l'aiutava: e infine, per fastidio, per non udire quei gridi, quei pianti, Concetta le diede quelle due lire, giurando e sacramentando che erano le ultime, per quanto era vero quel venerdì di marzo, in cui, forse, era morto Nostro Signore, - poiché non si sa in quale venerdì di marzo sia morto Gesù! Altra gente, fra imbarazzata, rabbiosa e dolente, venne per pagare vecchie rate d'interessi per offrire roba in pegno, per chiedere nuovo denaro; e i dibattiti passavano dalla umiltà all'asprezza, dalla minaccia alla preghiera, dalle promesse solenni alle transazioni vigliacche. Discutendo, litigando, minacciando, Concetta continuava a lavorare, dirimpetto a sua sorella, mentre veniva la sera: e non si stancava, con la parola sempre pronta ed efficace, con la frase sempre lucida, con la intuizione immediata del buono o del cattivo pagatore. Solo per un visitatore discreto, vestito pulitamente, con la faccia rasa dei servitori di buona casa, ella si levò e andò con lui, nella stanza attigua; dove parlottarono a bassa voce, qualche tempo. Si udì il solito rumore di chiavi che stridevano nelle serrature, di cassetti aperti e richiusi; il servitore uscì, con la sua aria riservata, seguito da Concetta. - È il maestro di casa del marchese Cavalcanti? - domandò Caterina quando egli fu partito. - Sì, - disse senz'altro Concetta. Cadeva quella dura e faticosa giornata di venerdì. Le due sorelle, ora che annottava, avevano lasciato di trapuntare la coperta: e Caterina, per la gran giornata del sabato che era la sua, preparava certi grossi registri, scritti a caratteri informi, tutti cifre, in cui ella si raccapezzava benissimo. Sotto il lume a petrolio, chinata sovra il registro, pensando, muoveva le labbra: e Concetta, vedendola immersa nel suo grave lavoro settimanale, taceva, rispettando quella sagace preparazione, sentendo che da essa, l'indomani, sarebbero sgorgati denari, denari, denari.

. - Tanto si dovrà svegliare più tardi, - rispose il padre, abbassando però la voce e socchiudendo le cortine. - Non la dobbiamo mostrare ai nostri invitati? - Sì: purché non si metta a strillare nel salone! - ribatté la giovane madre, con un sorriso fra la scherzosa paura e la beatitudine materna. - Bah! - esclamò il giovane padre, staccandosi dalla culla e venendo presso sua moglie. - Gli invitati staranno attenti a mangiar le paste, i dolci, a sorbire le granite, a ingoiare gelati. Vedrai che pappatoria, Luisella mia! Il lieve edificio dei nerissimi capelli di Luisa Fragalà era stato costruito con sapienza e con leggiadria: qualche ricciolo ombreggiava la breve fronte bruna e il giovanile volto ovale, dalle nere, sottili sopracciglia che sembravano arricciate, dai lunghi occhi d'Oriente di un bigio scintillante, fra dolce e malizioso, dal naso un po' lungo, un po' grosso, ma non goffo, dalla bocca infantile, rossa come un garofano, aveva un fascino di gioventù, di freschezza che facea sorridere di compiacenza l'ancora innamorato marito. Anche Cesare Fragalà era giovane e bello; un po' feminilmente bello, forse; aveva la pelle bianca come quella di una donna e i capelli castani ricciuti, ricciuti fin sulla fronte, fin sulle tempie, scoprendo, talvolta, la cute bianca della testa; il volto era rotondo, ancora un po' infantile, malgrado i ventotto anni; ma un pallore uguale, caldo, meridionale, tutto virile, era sulle guancie accuratamente rase; ma un paio di mustacchi castani, folti, un po' arricciati alle punte, correggevano subito il carattere feminile e infantile di quel volto d'uomo. E ambedue, nati borghesi, da razze non degeneri, avevano il carattere della gioventù napoletana, maschile e feminile: l'uomo robusto, ma indolente; naturalmente bello, e dedito assai alle cure della persona; con la tenerezza mescolata alla furberia e tralucente dal contrasto che si notava nella figura; con un'aria di grossolanità che si temperava nella bonomia: e la donna, bruna, fine, con quel sangue che pare abbia delle vampe scure, con quella risoluzione di volontà in certe linee del profilo e del mento, che indicano nel cuore feminile una forza segreta, latente, pronta a tutte le passioni e a tutti i sacrifici. E intorno a loro, tutto ad essi rassomigliava: il lusso un po' volgare del broccato crema e rosso, di cui erano parati i mobili e coperto il letto, e a cui rassomigliava, nel disegno, la carta di Francia che copriva le pareti; la toilette acchiusa in una cupola di merletto, prezioso lavoro fatto dalle mani della fidanzata, mentre aspettava il giorno delle nozze; e il grande armadio di legno bruno, a filettature di oro, l'armadio a tre porte di cristallo, l'armadio a tre specchi, che era in quell'epoca il grado supremo del lusso borghese; e le numerose immagini di santi, di santini, di santarelli, un san Luigi, tutto di argento, col volto di cera, un san Cesare, di stucco con una tonacella da frate, insieme ai rosarii, ai reliquiarii, al cero pasquale che formavano due trofei, ai due lati del letto maritale; e infine la lampadetta di argento accesa innanzi al piccolo Bambino Gesù, nella sua nicchietta; e nella stessa stanza coniugale, così, per tenerezza borghese, per quel senso invincibile di patriarcalità napoletana, la culla tutta infiorata di nastri, dove dormiva, nella sua cuffietta ricamata, la piccolina nata da un mese soltanto. Tutto era intonato, finanche i loro vestiti: Cesare Fragalà, aspettando presto i suoi invitati, era già in marsina, col fazzoletto nello sparato del panciotto, correttamente pettinato a furia di colpi di spazzola per domare le ribellioni dei suoi capelli ricciuti, - ma avendo una catena di orologio troppo brillante, dei bottoni di polsini troppo grossi e portando una cravatta di raso bianco, invece che una cravatta di battista bianca; Luisa Fragalà molto graziosa nel suo vestito di raso giallo, coperto, per farsi pettinare, da un accappatoio di mussola bianca, ma troppo fulgida di brillanti, alle orecchie, al collo e alle braccia. Giusto, in quel momento, finendola di pettinare, il parrucchiere le aveva fissato fra i neri capelli, sulla fronte, una stella di brillanti. - Non ci vuole altro? - chiese ella, con un lieve sospetto di essere poco adorna. - No - disse il parrucchiere, con aria convinta. - Meno cose si mettono nei capelli e miglior figura si fa, soggiunse, profondamente. - Vi pare? - Lasciatevi servire da chi conosce l'arte, - soggiunse l'artefice, mentre raccoglieva i pettini e i ferri da arricciare. - Stai benone, - mormorò il marito a uno sguardo interrogativo della moglie. E la considerava con una tenerezza appassionata, minutamente, per osservare se nulla mancasse. - Se mi riesce una combinazione, - soggiunse Cesare Fragalà, mentre il parrucchiere, a cui avea dato cinque lire e una di mancia, si licenziava silenziosamente, per non risvegliare la bambina. - Se mi riesce questa combinazione, Luisella, ti voglio comperare un filo di brillanti per il collo. - Che combinazione? - domandò ella, mentre si metteva della cipria sulle braccia mezzo nude. E aggrottò le sottili sopracciglia, con l'improvviso sospetto delle donne, contro tutti gli affari che esse non conoscono. - Poi ti dirò, - disse lui, ridacchiando. - Dimmelo adesso, - domandò lei, fermandosi, tenendo in mano i lunghi guanti. - Niente di fatto, ancora, Luisella, - mormorò lui, un po' confuso, annoiato dell'essersi lasciato sfuggire quelle parole. - Promettimi di non decidere mai niente, senz'avermi domandato, - diss'ella, levando una mano. - Prometto, - egli rispose, con una sincerità profonda. Ella si chetò: si sedette rassicurata, infilando i guanti, mentre suo marito, fermo innanzi allo specchio, si arrotondava ancora le punte dei mustacchi, macchinalmente, sorridendo alla propria immagine e alla vita. La famiglia Fragalà contava nientemeno che ottanta anni di prudenza commerciale e di crescente fortuna, avendo cominciato, il nonno di Cesare, con una misera botteguccia di pasticciere, in via Purgatorio ad Arco, a quartiere Pendino; anzi, peggio, dicevano gli invidiosi, essendo un venditore ambulante di pasticcini a un soldo, schierati sopra una tavoletta di legno portata sul capo, o sotto il braccio o sostenuta al collo da una correggia di cuoio. Infine, sulla tavoletta o in questa botteguccia, questi pasticcini erano fatti di una mediocre farina, conditi con zucchero di terza qualità e con uova di equivoca freschezza, cotti con lo strutto spesso assai rancido e ripieni piuttosto di mele cotte al forno o di cotogne cotte sotto la cenere, che di conserva di pesche o di conserva di amarena. Ma che importa! Tutti i meridionali, uomini, donne, fanciulli e vecchi, adorano i dolci, tutti i dolci, anche le ciambellette di biscotto, cosparse di un po' di zucchero anisato: i pasticcini a un soldo comparivano e scomparivano nella botteguccia di nonno Fragalà, insieme alle caramelle colorate e attaccaticcie, insieme alle ciambelline che portano il nome di ancinetti. onno Fragalà giunse presto, a furia di soldi, a produrre il pasticcetto da tre soldi, la cosiddetta sfogliatella, a sfogliatella che si divide in due qualità: la sfogliatella riccia, arga, piatta, sottile, come fatta a scaglie finissime e croccante sotto i denti, mentre la piccola quantità di crema di cui è ripiena si liquefà sulla lingua; e la sfogliatella frolla, rassa, rassa,grossa, due dita alta, con la pasta che si sfarina, mangiandola, e con un fitto strato di crema dentro, che copre le labbra e le mascelle. Bene è vero che il nonno Fragalà era accusato di mescolare una quantità d'ingredienti sporchi e pericolosi alle sue sfogliate: amido, gomma, zucchero rosso, grasso di vaccina, colla forte e financo crusca. Ma che importa! Nelle giornate di domenica e in tutte le altre feste comandate, le sfogliatelle si vendevano come il pane e più del pane, dalle nove alle due pomeridiane: alle due, nonno Fragalà chiudeva, perché non aveva più sfogliatelle da vendere, sebbene ne avesse preparate moltissime, e perché era un uomo timorato di Dio. Pian piano, egli aveva aperto un'altra bottega a San Pietro a Maiella, mettendovi un suo figliolo; poi più tardi un'altra bottega a strada Costantinopoli, verso il Museo Borbonico, mettendo un altro figliuolo; e infine, alla sua morte, il suo primogenito aveva osato di affrontare la via di Toledo, ma nella sua parte più alta, aprendo una pasticceria a tre porte, ioè con tre botteghe, all'angolo dello Spirito Santo, una magnificenza! Sussistevano ancora, in possesso degli altri minori fratelli Fragalà, le pasticcerie di via Purgatorio ad Arco, quella di via San Pietro a Maiella, quella di via Costantinopoli, tutte più o meno nerastre, sudicie, piene di mosche ronzanti, ma esalanti quell'inebriante odore di zucchero cotto, di miele cotto, di frutta cotte, di pasta croccante, che è la nostalgia dei ragazzi, delle donne, dei vecchi napoletani. Anzi, a Purgatorio ad Arco, i pasticcini si vendevano anche a due soldi, una media fra il soldo di nonno Fragalà e i tre soldi del pasticcetto moderno. Ma la bottega, ma le tre botteghe riunite di via Toledo, allo Spirito Santo, erano fiere nella loro insegna, pasticceria fondata nel 1802 lettere d'oro su marmo nero - tutte a marmi bianchi, a vetrine di nitidi cristalli ripiene di confetti colorati, a cassetti lucidi di metallo e di vetri limpidi, ripieni di biscotti, ad alti vasi rotondi pieni di pastiglie, forti e dolci, per lo stomaco guasto o per la tosse, a scaffaletti di cristallo, dove i pasticcetti, le sfogliatelle si mantenevano in fila. La pasticceria di via Toledo aveva un aspetto superbo, ma in mezzo alle sue ghiotte innovazioni non aveva tralasciata la vecchia e sicura specialità napoletana, la immortale sfogliatella, immortale e popolare sempre, malgrado il progresso della pasticceria, nelle sue due forme di riccia e di frolla; e alla domenica, tutte quelle patriarcali famiglie che uscivano dalle messe delle tante chiese intorno, Spirito Santo, Pellegrini, San Michele, San Domenico Soriano, andando o venendo, comperavano le sei, le otto sfogliatelle destinate a dare la gran nota finale, festiva, al pranzo della domenica. Il padre di Cesare Fragalà aveva aggiunto, alle sfogliatelle, anche tutte le altre specialità dolci che si mangiano a Napoli, in tutte le feste dell'anno: la pasta di mandorle o pasta reale a Natale; il sanguinaccio a carnevale; il biscotto quaresimale, n quaresima; il mustacciolo la pastiera Pasqua; l' osso di morto, atto di mandorle e zucchero candito, il giorno dei Morti; il torrone, per la festa di San Martino; e ancora tante altre, la croccante, li struffoli, l sosamiello, utti i dolci partenopei, a base di molte mandorle, di molto zucchero, di molto cioccolatte, dolci squisiti al palato e grevi allo stomaco, ma che sono la delizia della folla napoletana e che vanno in provincia, ogni festa, a cassette, a casse, a cassoni, a vagoni. Oh, sempre fra gl'invidiosi di casa Fragalà, vi erano quelli che susurravano contro i misteriosi ingredienti con cui quei dolci erano manipolati e colorati, ma erano malignità innocue, a cui gli avventori non davano retta, o di cui non si preoccupavano affatto, anche credendoci. Il napoletano filosofo, l'avventore di don Peppino Fragalà diceva: se si sapesse che cosa si mangia, nessuno vorrebbe più mangiare. La casa Fragalà era solida: Cesare Fragalà aveva ereditato da suo padre una bella fortuna e un credito intatto. È vero, egli aveva una certa ripulsione, nel suo istinto di borghese arricchito, per le brune botteghe dei suoi zii e dei suoi cugini, a Purgatorio ad Arco, a via San Pietro a Maiella, a via Costantinopoli, dove ronzavano fastidiosamente le mosche, come sature, come ammalate di indigestione di cattivo zucchero e di cattivo miele: ma era anche prudente, non disprezzava le sue origini e accoglieva volentieri i suoi parenti ai pranzi di famiglia: e quando doveva fare delle innovazioni alla sua bottega in via Toledo, ci pensava su, si consigliava - massime con la moglie. Tutto questo aveva pensato Luisa Fragalà, mentre si infilava lentamente i guanti e mentre suo marito era andato di là, in cucina, a vedere se tutti i rinfreschi erano preparati e se i servitori di piazza, presi per la circostanza, erano in tenuta corretta. Ora, ella si era alzata e tenendo in mano lo strascico di raso giallo, aveva anch'essa sollevata la cortina di merletto della culla e guardava appassionatamente sua figlia Agnesina. Oh, giammai, giammai suo marito Cesare avrebbe fatto nulla senza consultarla: l'aveva sposata per amore, senza un soldo, contro la volontà di tutti e la trattava quasi ella avesse portato ventimila ducati di dote, come una signora. Ora che vi era anche Agnesina, Agnesina Fragalà, figlia bella di papà, come egli diceva vezzeggiandola, era impossibile che costui nascondesse mai nulla alla Luisella, alla mammarella di Agnesina. Chissà, si trattava forse di quella grande bottega di pasticceria, in piazza San Ferdinando, nel centro della vita ricca napoletana, una bottega tutta moderna, che da un pezzo Cesare Fragalà sognava di aprire, senza osare di arrischiare un forte capitale. Forse era questo…e la bruna madre, dal volto fresco e piacente, sottovoce benedì la piccola creatura dormiente, e la pregò che facesse benedire dal Signore i disegni di suo padre e le speranze di sua madre. Uscendo dalla stanza, incontrò il marito: - E dove è la nutrice? - ella chiese. - Nella stanza vicino alla cucina, con donna Candida. - Andiamo a vedere - diss'ella avviandosi, seguita dal marito, attraversando la parte posteriore della casa, stanze di sbarazzo, stanze delle serve e riuscendo nell'anticucina. La balia di Frattamaggiore, una magnifica e grassa donna, dalle guancie rosee, dagli occhi grandi ma sporgenti, dalla espressione di beata serenità, aveva messo il suo vestito di damasco azzurro, guarnito di una larga fascia di raso giallo e così ricco di pieghe sui fianchi che pareva ondeggiasse, a ogni passo che ella faceva, largo, duro, come un edificio di stoffa. La balia portava un fazzoletto di crespo bianco sul petto, sopra cui ricadeva la collana d'oro, a grossi grani vuoti, a tre fili; un largo grembiale di battista le copriva il davanti del vestito, e sul grembiale erano incrociate le mani tutte inanellate. I capelli castani erano tirati strettamente, sulla nuca, da una grande pettinessa di argento e un grosso fiocco di raso azzurro ne pendeva. Accanto a lei, donna Candida, la levatrice, una invitata di obbligo, aveva indossato un vestito di seta rossa, dei grandi battesimi, e portava, sul petto, per spillo, una larga miniatura dove era ritratta la buona anima di don Nicodemo, suo marito; nei capelli bigiastri ella portava una camelia rossa di stoffa. Tanto lei che la nutrice, due personaggi importantissimi, aspettavano pazientemente, scambiando qualche parola. - Prosit! esclamò la levatrice, vedendo la bella puerpera. - Grazie, donna Candida. Siete venuta presto? Non vi seccherete di aspettare? Volete prendere qualche cosa? Nutrice, tu vuoi certo qualche cosa? - e la voce di Luisella aveva la gran tenerezza naturale, profonda, delle madri per le nutrici delle loro creature. - Come piace a Vostra Eccellenza, - disse la nutrice, levando i dolci occhi color dell'olio, un po' stupidi. Essendo andato di là Cesare Fragalà, un cameriere portò del marsala, biscotti, paste, confetti, canditi, alla balia e alla levatrice. Inteneriti, marito e moglie, ritti in piedi, guardavano le due donne che mangiavano quietamente, continuamente, di tutto; e quando esse si fermavano un momento, Luisella Fragalà spingeva il vassoio di argento verso la balia. E la levatrice che era donna compita, levando il primo bicchiere di Marsala, esclamò: - Alla salute di donn'Agnesina! Possa crescere bella e buona come la sua mamma! - Alla salute di quella piccerella ia! - disse la balia, ridendo. E il marito e la moglie, commossi, si guardarono, con le lagrime della contentezza negli occhi, ringraziando col capo. A un tratto, la madre disse: - Nutrice, la bambina piange. La nutrice si asciugò precipitosamente le labbra bagnate di vino, depose il candito che mangiava e scappò via, con un grande fruscìo di stoffe seriche, aprendosi il corpetto, macchinalmente, con quell'affettuoso e istintivo moto materno. Ma nel salone di ricevimento, tutto mobiliato di divani, poltrone, poltroncine e sedie in damasco color granato, a cornice di legno dorato, illuminato da grandi carcels appoggiate sopra il freddo marmo bigio delle mensole di legno dorato, e dal largo lampadario di bronzo dorato a pendolini sfaccettati di cristallo, la gente già cominciava ad arrivare. Quelli che si conoscevano, si erano riuniti in un gruppo e parlottavano a bassa voce fra loro, vivamente, per darsi l'aria di persone di spirito, di persone di società, senza guardare neppure gli invitati sconosciuti; e costoro, famiglia per famiglia, si erano messi negli angoli, avevano avvicinate le sedie e le poltrone, si erano formati in altrettante fortezze, donde gettavano intorno, sul lampadario e sulle persone, sul tappeto e sulle mensole, sguardi fra curiosi e diffidenti, subito smorzati dall'abbassamento delle palpebre, quando pareva loro di essere stati sorpresi. Giusto così, la famiglia di don Domenico Mayer, un impiegato all'Intendenza di Finanza abitante un quartierino al quinto piano di quell'alto, largo, immenso palazzo Rossi, a piazza Mercatello, un palazzo che sporge su quattro vie diverse, e dove spesso i vicini non si conoscono fra loro, neppure per nome, dove si possono passare anni, accanto, senza incontrarsi, tanto è l'imbroglio delle due grandi scale e delle due scale piccole. Don Domenico Mayer, dalla ciera misantropica e dal nero soprabito burocratico, guidava una misantropica famiglia, composta di sua moglie dalle guancie floscie e scialbe, sofferente sempre di nevralgie mascellari; di sua figlia Amalia, una giovanottona alta, grassa, con certi grossi occhi a fior di testa, grosso naso, grosse labbra, grosse treccie nere e sofferente di furiose convulsioni isteriche; di suo figlio Alfonso, detto da tutti famigliarmente Fofò e sofferente di un crescente cretinismo, di un appetito continuo. La misantropica famiglia si era formata in quadrato, le donne avevano raccolto le povere ma decenti gonne intorno alla sedia, il padre e il figlio stavano seduti in punta alla poltrona, rigidi, taciturni. Come loro si erano isolate altre famiglie, d'impiegati, di piccoli commercianti, di commessi, tenendo un contegno serio, stringendo i gomiti ai fianchi, passando talvolta, macchinalmente, la mano sul castoro lucido, nonché trentenne, dei loro soprabiti; mentre dall'altra parte vi erano tutti i Fragalà e con loro i Naddeo, forti negozianti di stoviglie a Rua Catalana; gli Antonacci, forti negozianti di panni e di pannine ai Mercanti; e i Durante, forti negozianti di baccalà alla Pietra del Pesce: tutti insieme, gli uomini in marsina, le donne in abito di broccato o di raso, coperte di gioielli, specialmente di braccialetti, come Luisella Fragalà. La cui leggiadra apparizione nel salone fu salutata da un generale movimento: tutti si alzarono, lasciarono i loro posti: i più arditi o i più famigliari la circondarono, mentre i più timidi si tenevano un po' lontani, aspettando compostamente di esser visti, di esser salutati. Tutti si rallegravano con lei per il rifiorimento della sua salute chiamandola mammà, mammà, ugurando meridionalmente questo ed altri cento, in buona salute, ioè altri cento figli, nientemeno: ed ella diventava rosea per il piacere, abbassava la testa, ringraziando, facendo scintillare la stella di diamanti che aveva nei capelli, che era poi l'oggetto dei commenti di tutte le altre Fragalà, di tutte le Naddeo, le Antonacci, le Durante e che era la segreta sospirosa ammirazione di tutte le altre invitate più umili, le cosidette mezze signore. oi mentre Cesare Fragalà chiacchierava con gli uomini, ridendo, passandosi la mano guantata fra i capelli ricciuti, vi fu un generale movimento di retrocessione verso i divani e le poltrone: tutti si sedettero. Luisella Fragalà, ritta in mezzo al salone, appena vedeva arrivare qualche signora, si avanzava sino alla porta, salutava, sorrideva, accompagnava la signora sino a una poltrona, formando un largo circolo feminile dove sugli opulenti petti, stretti nei vestiti di broccato, lentamente si agitavano i ventagli. Solo il divano di mezzo restava vuoto: era il posto d'onore, tutti lo guardavano e guardavano la porta, aspettando gli sconosciuti invitati che dovevano occuparlo, sapendo che senza di essi la festa non era realmente cominciata, sapendo che non si sarebbero offerti rinfreschi, se quegli invitati di gran pompa non fossero comparsi. Difatti, come il tempo passava, Luisella e Cesare scambiavano un'occhiata interrogativa. A un tratto, come una coppia entrava nel salone, Luisella Fragalà ebbe un rapido moto di gioia e abbraccio con effusione la signora, strinse la mano sorridendo, al signore: un mormorio vi fu nel salone, qualcuno si levò in piedi, un nome fu mormorato. Era proprio lui. don Gennaro Parascandolo, il famoso don Gennaro, l'uomo alto, forte, simpatico, con una fisionomia spirante onestà, lealtà, bontà, una persona la cui stretta di mano aveva qualche cosa di energicamente affettuoso, una persona il cui sorriso rincorava la gente più scorata, una persona il cui sguardo incoraggiava a vivere: un uomo ricchissimo, infine, il compare della piccola Agnesina Fragalà, un riccone senza figli. Ah, ne avevano avuto, dei figli, lui e la sua pallida moglie dai capelli brizzolati e dagli occhi malinconici, che restava volentieri chiusa nella sontuosa casa silente, e quando lo accompagnava. sembrava l'ombra di una donna, vivente fantasma di dolore! Avevano avuto tre bei figli due maschi e una femmina, tre figli belli, sani, forti, per i quali don Gennaro Parascandolo aveva fatto, per arricchirli, terribilmente e freddamente, il suo freddo e terribile mestiere di usuraio aristocratico: non meno di cinquemila lire, alla volta, ed anche duecentomila lire, in una volta sola, sempre con l'interesse del dieci per cento al mese: così, spietatamente, per i suoi figli. Ma, la difterite era entrata nella sua casa, furtivamente e irrimediabilmente: in venticinque giorni, non scienza dei più illustri medici, non disperazione di padre e di madre, non danaro profuso, nulla, nulla aveva potuto salvare i tre figli: tutti tre erano morti soffocati, in un modo così straziante che la ragione della signora Parascandolo, per molto tempo parve ne fosse profondamente colpita. E anche il robusto uomo parve crollato, un istante: non si riebbe che lentamente, lentamente, viaggiò più spesso, comparve a tutte le prime rappresentazioni, donò fiori e gioielli alle illustri attrici e alle illustri ballerine, ma tutto ciò con una suprema indifferenza, senza noia, ma senza allegrezza. Ogni tanto, raramente, compariva accanto a lui sua moglie, smorta creatura taciturna, incapace di togliere il pensiero e il cuore, anche per un momento, dai tre figli perduti: ma allora don Gennaro diventava gaio, sfoggiava un grosso buon umore borghese, a cui sua moglie rispondeva con qualche lieve, distratto sorriso. Giusto, quella sera, don Gennaro Parascandolo, poiché aveva deciso la sua ombra a uscire dall'ombra, era tutto lieto, e mentre Luisella Fragalà aveva condotto la signora Parascandolo al divano d'onore, egli circolava di gruppo in gruppo, seguito da Cesare Fragalà, scherzando, ridendo, mentre tutti, per dove egli passava, gli facevano coro, con quella tendenza all'adorazione della ricchezza che è in tutti, ma specialmente nella gente meridionale. Oh! erano gente ricca, i Naddeo, gli Antonacci, i Durante, i Fragalà, ma le cose del mondo possono cambiare, da un giorno all'altro: e don Gennaro era così ricco, e non sapeva proprio che cosa farsene, delle sue ricchezze! In quanto alla mezza gente ella sala, impiegati, piccoli commercianti, commessi, lo guardavano da lontano, rispettosamente, intimiditi dalle larghe spalle, dal largo torace, dalla testa leonina. E il nome era susurrato sempre, qua e là, con i commenti fatti a voce anche più bassa. - Don Gennaro Parascandolo… don Gennaro Parascandolo… Ma Luisella Fragalà e Cesare parve che avessero un'altra scossa elettrica, provocata dall'arrivo dell'altra persona che aspettavano. Era una vecchia signora che si avanzava gravemente, vestita di un antichissimo abito di seta marrone, alla foggia di trent'anni prima, una stoffa dura e forte come un cartone, arricciata a canna d'organo, e con amplissime maniche; sulle spalle aveva uno scialle di merletto nero, anch'esso molto antico e fermato sul petto da un largo spillo di rubini e turchesi, legato in argento; le mani magre, rattrappite dall'età, portavano i mezzi guanti di seta e stringevano una borsa di velluto nero, tutta ricamata a punto buono, portante da un lato un ritratto di un cagnolino, sopra un cuscino, e dall'altro la figura leziosa di una contadinella dall'ampio cappello di paglia. Luisella Fragalà, rialzando lo strascico di raso giallo, le corse incontro, le fece una profonda riverenza e si chinò a baciarle la mano, che la vecchia si lasciò baciare, conservando l'espressione arcigna del suo volto di vecchia civetta, col naso adunco, dagli occhietti rotondi e bigi. Un mormorio, nuovamente, percorse la sala: - La comare marchesa, la comare marchesa… Nessuno diceva che ella era la marchesa di Castelforte: ella era la comare marchesa, niente altro: non vi era che una sola comare marchesa nella famiglia Fragalà, ed era la madrina, la protettrice di Luisella, una dama rispettata e temuta da tutta la parentela, una marchesa, infine, una titolata, una nobile, una persona di razza superiore. Persino don Gennaro Parascandolo, che non aveva bisogno di nessuno, come tutti sapevano, andò a inchinarla, mentre la vecchia lo squadrava col suo sguardo. Ora, sul divano d'onore non vi era più posto: nel mezzo sedeva Luisella Fragalà, a destra vi era la comare marchesa che mostrava le sue scarpe di prunella nera e stringeva la sua borsa di velluto, a sinistra sedeva la signora Parascandolo, triste figura muta, vestita di un abito di Parigi e coperta di magnifiche gemme, ma curvante il capo sotto i ricordi, sempre, irrimediabilmente. E come tutti si furono seduti, nel salone si fecero due minuti di perfetto silenzio. Tutti aspettavano ancora, sogguardando furtivamente la porta, fingendo di pensare ad altro: delle signore nascondevano qualche lieve sbadiglio, dietro il ventaglio: le ragazze avevano quell'aria di sonnambule, che le fa parere distaccate da qualunque interesse umano:gli uomini si torcevano i mustacchi e i ragazzi avevano quell'aspetto di ebetismo assoluto, di cui Fofò Mayer era la nota più acuta. Ma Cesare Fragalà era sparito. E dopo tre minuti di quel silenzio comparvero i rinfreschi. E allora tutti si misero a discorrere, rumorosamente, fragorosamente, per aver un contegno disinvolto, fingendo di non badare ai rinfreschi. Ma ne arrivavano da tutte le parti, continuamente, diffondendo nel salone la letizia del desiderio che era per soddisfarsi, per la delizia di tutti quegli affamati di dolci, di quei golosi di roba dolce, uomini, donne, fanciulli, fanciulle, vecchi. Ai gelati grossi e rotondi come la luna piena, duri da dovervi conficcare profondamente il cucchiarino, di crema alla portoghese, di frutta, di fragola, di caffè bianco, di caffè di Levante, di cioccolatte, si alternavano le formette, elati più piccoli, più leggieri, formati a sfera, a romboide, a noce di cocco e contenuti graziosamente in certe conchiglie rosse e azzurre di cristallo, dai filetti d'oro: agli spumoni, metà crema e metà gelato, di tutte le mescolanze, crema e cioccolatte, mandarino e poncio, crema e pistacchio, crema e fragola, lattemiele e fragola, agli spumoni, adorazione delle donne e dei ragazzi, succedevano le gramolate di pesca, le gramolate di amarena, le granite di limone e di caffè, contenute in certi bicchieri di porcellana lattea, trasparente, che stavano fra la tazza e il bicchiere. Per dieci minuti non si udì che un tintinnare di piattini, di cucchiarini, di bicchieri: ma le entusiaste erano le signore che vedevano apparire gli spumoni, dai colori seducenti nella loro tenerezza, dal candido fiocco di spuma nel mezzo, e davano un gridolino di commozione e tendevano le mani, involontariamente; mentre altri più taciturni, più attivi, sorbivano la gramolata dopo la formetta, e assaggiavano il gelato dopo lo spumone, tanto per paragonare. Fra tanta gioia, i dialoghi si animavano, i cavalieri correvano di qua e di là, tenendo un piattino, un bicchiere, una tazza, servendo le signore, e anche servendosi, parlando da lontano, interpellandosi, richiamando i camerieri coi vassoi, facendo loro perdere un po' il capo, in quella confusione: - Uno spumone alla signora Naddeo! - Vi piacerebbe una gramolata di amarena? - Prendete un bicchiere di poncio allo sciampagna, non vi è di meglio per digerire il resto. - Chi vuol cambiare un gelato di fragola, con un caffè bianco? Vi assicuro che non vi fa nulla. Spumoni, gelati, granite, gramolate, tutt'acqua, signora mia. - Vi sarebbe un lattemiele e fragola? - L'ho io… - Mamma, dammi la crema, dammi la crema… Tutto contento, Cesare Fragalà correva da una parte e dall'altra, facendosi seguire dai camerieri: ad ogni vassoio che arrivava, la prima a averne era la comare marchesa, la seconda la signora Parascandolo: ma costei, appena assaggiato un cucchiaino di gelato, aveva subito posato il piattino, riabbassando gli occhi, distratta, come se non vedesse e non udisse tutto quello che accadeva intorno a lei. Invece la comare marchesa, pian piano, senz'affrettarsi, con la sua bocca rincagnata sulle gengive senza denti, sorbiva lentamente tutto, il gelato, la gramolata, la formetta, lo spumone, con un moto continuo delle mascelle, con un agitarsi del suo naso adunco, che scendeva sul labbro superiore. - Comare marchesa, assaggiate questo pistacchio. - Comare marchesa, preferireste il mandarino? Ella diceva sì, col capo, come un vecchio idolo cinese: e le mani rattrappite avevano lasciato la borsa di velluto nero, dopo averne cavato un ampio fazzoletto bianco, per tenere il piattino. Felice, Luisella Fragalà crollava il capo, ridendo di tutto quell'allegro rumorio. Ogni tanto il marito le si fermava innanzi un minuto: - Non prendi nulla? - domandava teneramente. - No, no, servi le altre signore. - Prendi qualche cosa, Luisella… - No, mi piace più vedere, - diceva lei, guardando intorno. Lo spettacolo, intorno, era così interessante! Le signore più sentimentali nella loro golosità, sorbivano delicatamente il sorbetto, tenendo il piattino sulla punta delle dita guantate, sollevando il dito mignolo ogni volta che approfondivano il cucchiaino, tenendo il fazzolettino di battista circondato di merletti sulle ginocchia, e mordendosi le labbra, dopo ogni cucchiaiata. Alcuni uomini, silenziosamente, seguivano passo passo il cameriere col vassoio, per fare una scelta sapiente, dopo di che si ritiravano in un angolo, a mangiare quietamente. I bimbi prendevano il gelato, tenendolo sulla sedia, mettendosi della crema sino al nasino, sporgendo le labbruccie rosse, mostrando tutta la delizia degli occhi innocenti, leccando lungamente il cucchiarino; mentre le ragazze, le grandi sonnambule, rifiutavano la tal cosa, rifiutavano la tale altra, con una smorfietta di disgusto, e finivano per prendere un po' di tutto, a metà, non ancora veramente golose; perfino la famiglia Mayer aveva vinto la propria misantropia: la signora non pensava alle sue nevralgie, don Domenico tentennava fra uno spumone e una formetta, mentre Amalia e Fofò si scambiavano i loro gelati, per avere il sapore di tutti. Nelle altre stanze, nell'anticamera, dovunque, finanche nelle stanze di sbarazzo, finanche dove dormiva la cuoca, e specialmente in cucina, era lo stesso tinnire di piattini, di tazze, di bicchieri, di cucchiaini; era la stessa, anzi maggiore allegrezza. Le serve di tutti i piani del palazzo Rossi erano accorse; era salito il portiere; il parrucchiere della signora Luisa era di ritorno; vi era il marito della balia; i cocchieri dei Naddeo e degli Antonacci che avevano vettura, erano saliti su; finanche la giornalista dell'angolo di Tarsia, finanche il postino dopo l'ultimo suo giro, ancora con la borsa delle lettere a tracolla; e intorno a Gelsomina la nutrice, intorno a donna Candida la levatrice, tutta quella umile gente di popolo che adora i sorbetti, faceva una baldoria, eccitata dalle parole del padrone, Cesare Fragalà, che ogni tanto passava, dalla lietezza del salone a quella della cucina, egualmente contento della contentezza altrui, sentendosi dilatare il cuore allo spettacolo di tutti coloro che mangiavano e bevevano, rispondendo famigliarmente agli auguri dei servi, delle serve, parlando loro in dialetto. Ora, di là, come un senso di riposo gastronomico si diffondeva; la gente si quietava, prendeva un aspetto composto; sorrideva beatamente dopo quel primo sfogo della golosità. Le conversazioni, prima illanguidite, avevano preso un tono mite, di gente sazia e tranquilla, piena di una squisita educazione: le signore sorridevano a fior di labbro, delicatamente, e le ragazze agitavano i loro ventagliucci, come sonnambule: gli uomini intavolavano delle discussioni pacate, serie, sui loro affari, sulla minuta politica quotidiana, sul poco movimento commerciale napoletano, di cui tutti soffrivano: e si tenevano in piedi, in gruppi, facendo certi gesti larghi e crollando il capo con gravità. La comare marchesa aveva ripreso la sua borsa di velluto e vi aveva incrociate sopra le mani rattrappite nei mezzi guanti: e come un torpore le immobilizzava la faccia, pareva una vecchia mummia dormente; mentre la signora Parascandolo, abbassando la testa, si perdeva nella contemplazione del suo ventaglio, un prezioso ventaglio antico che, certo, don Gennaro aveva avuto da qualche suo debitore disperato, in qualche vendita forzata. Fra queste due donne taciturne, Luisella Fragalà cominciava ad annoiarsi assai: il suo temperamento vivace la spingeva a levarsi su, ad andare in giro per il salone, discorrendo con le sue parenti ed amiche, magari andando di là, a vedere che faceva Agnesina, a vedere che cosa accadeva in cucina e in stanza da pranzo, dove udiva una grande baraonda; ma il suo posto d'onore era lì, su quel divano, il posto della padrona di casa, della madre di famiglia: sarebbe stato un delitto di lesa borghesia abbandonarlo; e continuava ad annoiarsi mortalmente, sorridendo di lontano alle sue amiche, mentre si soffiava col grande ventaglio di raso nero, cosparso di stelline d'oro. A un tratto, non potendone più, chiamò suo marito e gli parlò sottovoce, un momento: egli annuì col capo e sparve di là a organizzare il corteo. Gli invitati, abituati al programma borghese di queste feste, capirono subito e si misero a guardare verso la porta, ogni tanto, sapendo che cominciava un'altra parte dello spettacolo. - Qualche sorriso affettuoso si delineava di già: si levava un lieto susurrio. Dalla gran porta il corteo comparve. La piccola Agnesina col visetto tutto rosso nella sua cuffietta di merletto bianco dai nastri azzurri, con un corpettino di battista tutto ricami, le cui manicucce larghe e lunghe le coprivano le manine rosse, era distesa in un portabimbi, di raso azzurro e merletti bianchi, appoggiando il capo a un cuscino di raso e battista: e il portabimbi, che è nel medesimo tempo un lettuccio, una culla, un sacchetto e un vestito, stava sulle forti braccia di Gelsomina, la nutrice di Frattamaggiore, che portava il suo carico con una divozione profonda, come il chierico porta il messale, da un corno all'altro dell'altare, senza distogliere gli occhi dal volto di Agnesina che la fissava placidamente, con quegli occhietti chiari dei neonati, occhietti che sembrano di cristallo. Accanto a lei, in tutta la gravità del suo ufficio, vi era donna Candida, la levatrice, che per assodare la continuità del suo patronato, teneva la mano sul cuscino della bimba; dietro, il padre, Cesare Fragalà; e un po' più indietro, di nuovo, i camerieri coi vassoi pieni di canditi, di confetti, di pastine secche, di dolci caramellati, di frutta giulebbate, e con altri vassoi pieni di bicchieri di Marsala, di Malaga, di Lunel; e dietro ancora, facendo, osando fare capolino dalla porta, qualche serva curiosa e intenerita, che guardava, con gli occhi sgranati. All'apparire del corteo, non inatteso, poiché tutti sapevano che la creaturina sarebbe stata mostrata agli invitati, parenti ed amici, al suo apparire, dovunque scoppiò un applauso lungo, fragoroso, qua e là fatto più sordo dalle mani guantate di alcuni giovanotti eleganti: e un coro scoppiò feminile e maschile. - Evviva donn'Agnesina! - Evviva Agnesina! - Possa tu crescere santa! - Quanto è bella, quanto è cara! - Agnesina, Agnesina! - Evviva il papà e la mammà di Agnesina. Intanto la bambina, direttamente, era stata portata al bacio della comare marchesa che l'aveva tenuta al sacro fonte, la mattina, e che la baciò in fronte, leggermente, mentre metteva una carta bianca nella mano della nutrice, facendo una mossa di scontento, col suo naso adunco che le cadeva sulla bocca rincagnata. Applausi al bacio della comare marchesa. Poi, chinandosi, con la grossa faccia un po' pallida e come contratta da un triste pensiero, la baciò il compare, don Gennaro Parascandolo: forse altre feste di simil genere, gli altri battesimi dei suoi figliuoli gli erano passati nella mente, in quel minuto. Ma egli si rimise subito, rispose con un sorriso agli applausi anche più fragorosi della società. Quando la bimba fu baciata dalla madre, vi fu un minuto di silenzio, come se un'improvvisa gravità fosse caduta sulla gioconda riunione: la madre teneva il capo chinato sulla faccia della sua bambina, come se le soffiasse il suo alito, come se le parlasse, benedicendola, invocando per lei dal cielo tutte le benedizioni. Un silenzio: e poi di nuovo un grande chiasso, poiché la bimba era portata in giro, trionfalmente, e le donne davano in leggieri strilli di materna emozione, e se la sbaciucchiavano, mentre essa già cominciava a piagnucolare. E avendo levato il capo, Luisella Fragalà, a un tratto, addossata a uno stipite di porta, scorse una bizzarra figura, a lei sconosciuta. Luisella guardò due o tre volte, presa da una curiosità, quella figura, cercando di rammentarsi, dove l'avesse vista, qualche altra volta, ma fu invano: le era nuova. Chi poteva essere? Forse qualche persona condotta da un parente, da un amico, così senza neanche chieder permesso, con quella beata famigliarità, che dal popolo napoletano sale alle classi più alte. Certo, era una persona sconosciuta. E mentre la bimba troppo baciata continuava a piagnucolare, mentre la nutrice, la levatrice, le altre signore cercavano di consolarla, dicendole delle paroline amorose sopra un tono di cantilena, mentre pel salone si diffondeva un'altra volta l'allegrezza del cibo, del vino, della leccornia, Luisella Fragalà, singolarmente interessata, obbedendo a una voce interna, non poteva staccare gli occhi da quella bizzarra figura immobile. Era un uomo fra i trentacinque e i quaranta anni, col pallido volto emaciato, di chi ha fatto un lungo e disastroso viaggio: una fitta barba nera un po' riccia, incolta, scendeva dalle guance striate di un rosso malaticcio e nascondeva qualunque traccia di biancheria e di cravatta, al collo di quell'uomo; la fronte aveva lo stesso pallore esangue e due rughe vi si disegnavano, a ogni moto delle sopracciglia: i capelli erano castani, buttati indietro disordinatamente e lascianti scoperte le tempie dove erano un po' radi, dove, a guardar bene, a guardar minutamente, si vedeva, sotto la finezza della pelle, la rete delle vene azzurre, un po' ingrossate. Il collo era scarno: e a qualche movimento della testa, vi si disegnavano i tendini, come nelle zampe delle galline morte: ed erano scarne le mani abbandonate, buttate giù lungo il corpo. L'uomo era vestito poveramente, assai poveramente, con un paio di calzoni sale e pepe, un po' corti, che lasciavano vedere le scarpe non bene spolverate, scarpe alla prussiana, legate da un nastro che si era fatto rossiccio; con un panciotto e una giacchetta, sì, proprio una giacchetta, color marrone scuro. E tutto l'uomo aveva un aspetto nel medesimo tempo malaticcio e misterioso, miserabile e ignobile nella miseria; e i suoi occhi scuri vagavano, di qua e di là, senza fermarsi mai un minuto sullo stesso punto, avendo la stessa espressione di mistero e d'ignobilità di tutta la sua persona. - Chi sarà questo straccione? - domandò a sé stessa Luisella Fragalà, presa da un senso di collera e di paura. Tutti facevano baldoria, nuovamente, intorno ai vassoi dei dolci, dei dolci sopraffini che eran il fior fiore della cucina e della bottega Fragalà, a Toledo: alla naturale tendenza golosa si univa adesso la curiosità di certe forme, di certi colori, di certi sapori, che molti degli invitati avevano sempre ammirati nelle vetrine brillanti, nelle bomboniere di raso, nelle coppe di porcellana. Il dattero unito alla crema di pistacchio su cui il bicchiere di Malaga ha un sapore profondamente aromatico; lo squisito confetto alla rosa, dove qualche pezzettino di corteccia di limone, candito, mette una nota acuta, acre, eccitante il palato e che il vino di Marsala condisce così meravigliosamente; tutto quel molle, attraente, seducente, incantevole odore di vainiglia, che esce dal cioccolatte, dalla crema, dai biscotti di mandorle; tutta quella punta sopracuta di menta, di menta forte, che è nel medesimo tempo refrigerante ed eccitante, che infiamma la bocca, riscalda lo stomaco e dà sete: tutta questa unione di cose belle all'occhio, buone al palato, deliziose all'olfatto, avevano dato un novello esaltamento alla riunione a cui il vino largamente versato veniva ad aggiungere un principio di vera ebbrezza. - Chi sarà mai quel pezzente? - si domandò ancora Luisella Fragalà, sentendosi come offesa nel suo orgoglio di padrona di casa, nel suo amore della nettezza, da quell'uomo malaticcio, misero e sudicio. Si alzò macchinalmente, per sapere qualche cosa, da qualcuno, su quel bizzarro straccione che si era introdotto nella sua casa, lasciando la comare marchesa che aveva aperto di nuovo il suo fazzoletto bianco sulle ginocchia e sul fazzoletto aveva ammonticchiato ogni genere di dolci, mangiandone di tutti, lentamente e continuamente, lasciando la ricchissima e infelice signora Parascandolo, i cui occhi pieni di lacrime seguivano intentamente il portabimbi dove la piccola Agnesina continuava il suo giro per la sala. Giusto, Luisella Fragalà raggiunse il piccolo corteo, dove ora la piccolina strillava acutamente, mentre il giro finiva: e istintivamente, quando la nutrice Gelsomina si stava per fermare innanzi a quello strano personaggio, come se anche a lui volesse far baciare la bimba, Luisella Fragalà si interpose vivamente, squadrando con ribrezzo lo sconosciuto, che già si era avanzato per baciare, e dicendo rudemente alla balia, mentre metteva la mano sul cuscino della piccola Agnesina per proteggerla: - Vattene, nutrice, la bambina piange troppo. La nutrice uscì subito seguita da donna Candida, mentre la madre, dalla porta, le guardava che si allontanavano nelle altre stanze, quasi a proteggerle ancora contro un maleficio ignoto. Rientrando nel salone, Luisella Fragalà fu distratta per un momento dallo spettacolo che presentava: il tappeto era cosparso di quei cartoccetti pieghettati finemente, dove stanno i frutti canditi, come in un nido, di carte dorate e argentate dei diavolotti, di coverture metalliche scintillanti dei cioccolattini: sulle sedie, sui tavolini, sulle mensole ammonticchiati i dolci, tolti dai vassoi devastati; le signore si erano tolte i guanti, tenendo con due dita, sollevato il pezzo di candito, la pasta secca, il mandorlato, la sottile e attorcigliata caramella che mangiavano; gli uomini andavano e venivano da un vassoio all'altro, da un gruppo di donne a un altro, trasportandosi per mano i bambini, che piagnucolavano, tutti lucidi le labbra di zucchero colante e sporchi di cioccolatte. Alcuni altri, chiesto il permesso a Cesare Fragalà che lo aveva accordato, ridendo di quello scatenamento, raccoglievano in un fazzoletto dei dolci, posandoli con delicatezza, cercando di non farli schiacciare; ad altri, lo stesso Cesare, fattosi portare dei larghi fogli di carta, formava dei cartocci, alti e pesanti, finendo di svaligiare i vassoi. Tutte le mani erano attaccaticcie, tutte le bocche lucenti: sulle mensole i bicchieri di vino, posati, avevano lasciato dei circoli rossastri o giallastri, e un ciarlìo forte, continuo, inesauribile, accompagnava quel saccheggio, quella devastazione. - Cesare! - disse Luisella, chiamando suo marito. - Che vuoi, bella mia? - rispose costui, finendo di legare uno spago tricolore intorno a un cartoccio, con la grazia del venditore di dolci. - Dimmi una cosa… - Due cose, gioia mia. - Chi è quell'uomo, là, vicino alla porta? -Quello? - chiese Cesare, aguzzando gli occhi, come se non ci vedesse bene. È Giovannino Astuti, l'agente di cambio. - Nossignore, nossignore, Giovannino Astuti, lo conosco. Dico quell'altro, quell'altro… - Oh! - fece lui, con un lievissimo imbarazzo, è una persona qualunque… - Che persona? - diss'ella, duramente. - Un amico mio… - Un amico, quello straccione? - Non si possono avere amici ricchi, sempre, - ribattè, con una risatina che suonava falsa. - Capisco: ma non ci è ragione di far venire un pezzente, anche se ti è amico, in mezzo a una riunione di galantuomini - Oh Luisa, come sei nervosa, gioia mia! Un po' di carità… - La carità è una cosa, la convenienza è un'altra! - replicò ella, nella sua ostinazione. Non vedi come è sporco? - Oh sporco! - mormorò lui, nella sua costante bonomia. - È filosofo, non bada ai vestiti. - Infine, Cesare io vorrei che se ne andasse. - E come si fa? - chiese lui, confuso, mortificato dall'insistenza della moglie. - Gli si dice. - Ora gli dò prima un bicchiere di vino, Luisella: ancora un po' di pazienza e poi lo faccio andar via. Difatti, Cesare Fragalà si avvicinò allo sconosciuto e gli offrì dei dolci, del vino, parlandogli, sottovoce, guardandolo negli occhi. Costui accennò a un sorriso, con le labbra di un violetto smorto e cominciò a mangiar pian piano, con una piccola smorfia di difficoltà, come se non potesse bene deglutire. Prima di portare alla bocca il candito, la rosea pasta reale, il frutto giulebbato che Cesare Fragalà gli veniva man mano offrendo, invitandolo con gli occhi a gustarne, il misterioso personaggio guardava il dolce, con una ciera fra indecisa e diffidente: infine si risolveva a mangiarlo, facendo sempre quell'atto nervoso, penso, del volto di chi ha la gola stretta. Ed era restato in piedi, con quell'aspetto imbarazzato della propria persona, che è la incurabile infelicità di certi individui; spezzava un mandorlato scrocchiante, inghiottiva i grossi bocconi molli della pasta Margherita, uardandosi vagamente intorno, come se non osasse abbassare gli occhi sulle sue gambe e sulle sue scarpe. Pure, lentamente, continuava a mangiare; anzi Cesare Fragalà aveva fatto portare un vassoio di dolci sopra una mensola, accanto allo strano personaggio, donde gli veniva porgendo continuamente i cioccolattini i confetti di mandorle vainigliati, i quarti di mandarino, stillanti di sugo agrodolce. Anche, aveva fatto posare sulla mensola un vassoio di bicchieri di vino; ne aveva dati tre, uno dopo l'altro, al bizzarro personaggio che li aveva tracannati senza fiatare, levando il volto smunto, striato di rosso, levando l'ispida barba di convalescente uscito dall'ospedale. L'uomo seguitava a mangiare e a bere, continuamente, taciturno; mentre Cesare Fragalà, con un sorriso stentato che mal celava una certa preoccupazione, guardava l'uomo negli occhi, come se volesse leggergli in fondo all'anima. Intanto Luisella Fragalà, per distrarsi, per calmare il subitaneo moto d'impazienza che era scoppiato così vivacemente, girava di gruppo in gruppo, salutando, ringraziando, chiacchierando con le sue parenti, con le sue amiche. Oramai era corsa la voce, che la scintillante stella di brillanti che Luisella Fragalà portava nei capelli neri, era il dono del compare di Agnesina, di don Gennaro Parascandolo: degno dono di un compare così ricco. Nel cuor loro le Naddeo, le Antonacci, le Durante, e tutte le altre mercantesse, e tutte le mogli dei contabili, dei commessi, pensavano che Luisella Fragalà, nella sua avvedutezza coperta di cortesia, era stata molto furba a scegliersi un compare molto ricco; e calcolavano, alla prossima gravidanza, di fare lo stesso, pensando di scegliere, fra i tanti, un compare di battesimo che conoscesse e sapesse fare il dover suo, come quel carissimo don Gennaro Parascandolo. E dei piccoli aforismi maliziosetti correvano: - Chi ci pensa prima, non si pente poi. - Il signore, sempre signore è. - Vivi con chi è più di te e fagli le spese. Come Luisella Fragalà si accostava, tutto ciò si tramutava in un coro di ammirazione sul magnifico gioiello. Ella annuiva, abbassava il capo, arrossendo di orgoglio; e la stella, fra i neri capelli, scintillava, scintillava. Le donne avevano quel mormorio lungo di ammirazione, lusinghiero per chi lo fa e per la persona che lo riceve: mormorio pieno di compiacente soddisfazione, di tenerezza vanitosa, mentre gli occhi feminili s'illanguidiscono o lampeggiano. Qualcuna, per mostrarsi anche più amabile, sebbene fosse al corrente, domandava: - Il compare? - Sì, - rispondeva Luisella Fragalà, con un lieve sorriso. - Non poteva essere diversamente, - susurrava l'altra, con aria d'indovina felice. Altrove, due volte, Luisella aveva dovuto togliersi lo spillone dalla testa, perché le signore avevano voluto avere fra le mani il prezioso gioiello. Il gruppo si formava, le teste feminili si chinavano, piene di curiosità, piene di quell'invincibile trasporto per le gemme, che è in fondo al cuore della donna più modesta e più oscura: ed erano strilletti di ammirazione, interiezioni, interrogazioni che sorgevano, al balenare della stella di brillanti. Qualcuna arrivava finanche a volerne sapere il prezzo: ma Luisella Fragalà faceva un gesto largo d'ignoranza, un gesto che ampliava il valore della gemma: e questo mistero, questa cifra incognita acquistava, nella immaginazione feminile, una latitudine che imponeva loro rispetto. Tanto che a un certo punto, fra otto o dieci signore nel cui centro stava Luisella, per moto plebiscitario, un impeto di entusiasmo nacque, crebbe, finì con un'acclamazione: - Evviva il compare! Don Gennaro Parascandolo, facendo finta di niente, accorse, premuroso, con l'aria fra disinvolta e bonaria del napoletano che ha viaggiato. E si difese contro i complimenti, modestamente: quella era una cosa da nulla, due pietruzze insignificanti, due fondi di bicchiere: le signore contraddicevano vivamente, adulandolo, coprendolo di cortesie, col profondo istinto muliebre che fa loro prodigare parole e sorrisi, così, sapendo che qualche cosa finiranno per fruttare: e quando egli disse che donna Luisella Fragalà meritava non una stella, ma una corona di stelle, un applauso coprì la sua voce. Nel frattempo la padrona di casa aveva dato, ogni tanto, delle occhiate oblique verso il pezzente che le aveva urtato tanto i nervi; ma costui seguitava pianamente a mangiare e a bere, ritto in piedi, con quel moto lento delle mascelle, con la tensione dolorosa dei muscoli del collo, che somigliava alla zampa gialla di una gallina morta. Però qualche cosa di bizzarro avveniva intorno, di cui Luisella Fragalà si dovette dar conto, man mano che il fenomeno si propagava nel salone. Mentre il pezzente devastava il vassoio dei dolci, facendosi intorno ai piedi un circolo di cartine bianche intagliate, di cartine metalliche colorate ed anche di ossi di prugna, nel salone egli aveva attirato l'attenzione di coloro che vi erano e che avevano finito di mangiar dolci e di sorbire gelati. Nella vaga ora di digestione di tutte quelle leccornie, con lo stomaco pieno e il pacchetto di dolci da portare a casa, tutti i distratti, tutti i disoccupati, girando gli occhi attorno, avevano scorto quello strano miserabile, a cui con tanta compiacenza Cesare Fragalà dava da mangiare e da bere; e man mano, l'uno indicandolo all'altro, con un'occhiata, con una gomitata, con quella mimica significativa di occhi, di sopracciglia, di sorrisi, che costituisce il più espressivo fra i linguaggi, si erano indicati quel divoratore muto, che cominciava quando essi avevano finito, ma che pareva non dovesse finire, se non quando avesse distrutto l'ultimo dolce e bevuto l'ultimo bicchiere di vino. Qualcuno lo guardava con una certa ammirazione, dolente di non poterlo imitare in quella pappatoria continua: qualcun altro sorrideva, con indulgenza; qualcun altro aveva negli occhi come una luce di compassione per un disgraziato che pareva non avesse mai mangiato e mai bevuto; e qualche frase, qua e là, fra scherzosa e bonaria, si ripeteva, di persona in persona: - Che bello stomaco… - È la chiesa di San Pietro… - Salute e provvidenza… - Io gli farei un vestito, anzi che dargli da mangiare… - Santa Lucia gli guardi la vista, perché per l'appetito non ve ne è bisogno… Ma erano le solite esclamazioni un po' grasse, dinanzi a un forte mangiatore. Qualche uomo disoccupato si era accostato a Cesare Fragalà e all'incognito, per osservare meglio quel muto divoratore. A poco a poco, adesso, tutti quelli che erano nel salone mettevano gli occhi addosso al lungo mangiatore; e Luisella Fragalà sentiva le fiamme della vergogna salirle al viso, poiché tutti si erano accorti, adesso, dell'ignobile straccione che suo marito le aveva portato in casa e che ella doveva subire nel suo salone. Invano ella cercava, andando di gruppo in gruppo, parlando, ridendo, scherzando, agitando il suo ventaglio nero, di divergere l'attenzione: era inutile. La gente riunita nel salone aveva mangiato, aveva bevuto, aveva applaudito Agnesina, applaudita la stella di brillanti e il compare Parascandolo che gliel'aveva regalata; ora non sapendo più che cosa fare, si attaccava a quel curioso straccione, la cui presenza, certo, era una cosa inusitata in casa di Luisella Fragalà, buona ma fiera, caritatevole ma che non avrebbe introdotto mai un povero in salone. Oh era inutile che ella si arrovellasse, sentendosi salire le lacrime agli occhi; oramai tutti si erano acconti del pezzente mangione, tutti lo guardavano, anche le donne, anche le fanciulle, le grandi sonnambule che pare non vedano mai nulla. E gli stessi sorrisi di compassione, di scherzo, di scherno, d'indulgenza si dipingevano sulle labbra feminili, come si erano dipinti su quelle maschili; salvo che la curiosità muliebre, più ardente, più forte, non seppe resistere, e la signora Carmela Naddeo, piegandosi dietro il ventaglio, domandò a Luisella Fragalà: - Bella mia, chi è quell'affamato? - E chi lo conosce! - disse l'altra, con un vivo moto d'impazienza. - Cesarino, certamente. Gli dà da bere. - Cesare li raccoglie col carrettino, questi straccioni, - diss'ella, fremendo di collera. Ma ad un tratto, da uomo a uomo, da donna a donna, una parola sommessa, susurrata, corse, con uno strano stridore, con un sibilo di sillabe più fischiate che pronunziate. Chi, primo, aveva pronunziato quella sibilante parola? Qual era la persona che, conoscendolo, l'aveva pianamente soffiata, nelle sue avvolgenti e sinuose sillabe, all'orecchio del suo vicino? Chi lo aveva rivelato, il mistero dello sconosciuto? Chissà! Certo che in un minuto secondo, con la rapidità di una traccia di polvere pirica che svampa, tutti avevano saputo e ripetuto la mistica parola, per tutto il salone cremisi, e che essa ritornava su sé stessa, riavvolgendosi, negli archi, nei circoli delle sue lettere, formando come un magico cerchio, in cui entrò subito tutta l'assemblea, uomini, donne, fanciulli. E quando tutti ebbero saputo chi era quell'uomo, come una stupefazione li colse: i lumi delle lampade parve si fossero improvvisamente abbassati: un gran pallore parve caduto sulla vivezza dei volti, dei mobili, delle stoffe: un silenzio profondo si fece, dove ancora si trascinava, fioca, flebile, la mistica parola: - L' assistito, l' assistito 'istessa Luisella Fragalà, l'intrepida, impallidì nel bruno volto, e le mani che stringevano il ventaglio, tremarono. L' assistito aveva finito di mangiare e di bere, ora si riposava tranquillo, girando intorno il suo sguardo vago, incerto, non sapendo che cosa farsi delle sue mani scarne e giallastre; un po' di sangue gli era salito alle guance smunte, spuntando sotto la barbaccia nera; ma era un colorito malaticcio, a strie, un colorito di sangue guasto, di sangue povero, di sangue che è stato, o è consumato da una febbre che non si guarisce. Eppure così brutto, sporco, miserabile, ignobile come era, l' assistito veva concentrato su sé tutti gli sguardi, intenti, dell'assemblea; sguardi di curiosità, di lusinga, di ossequio, di speranza, sopratutto sguardi di rispettoso spavento, uno spavento fantastico che traluceva specialmente dagli occhi feminili. Poiché ancora le donne, nel lieve tremore dei loro nervi, ripetevano a sé stesse: - Dio mio, ecco l' assistito. come per una attrazione forte e naturale, man mano, intorno all' assistito un cerchio di persone si venne formando, stringendosi sempre più, un cerchio di facce lievemente ansiose, dove si leggeva il vivido lavorio della fantasia meridionale, la fuga di tutte quelle immaginazioni nel paese dei sogni e dei fantasmi. Alle persone meno timide, che per le prime si erano avvicinate, si venivano ad aggiungere le altre, più ritrose, ma infine vinte anch'esse, sognando anch'esse tutto il fantomatico corteo degli spiriti assistenti, l corteo degli spiriti buoni e degli spiriti cattivi, che ogni giorno, ogni notte, ogni ora del giorno e ogni ora della notte si agita, combatte, vince o è vinto intorno all'anima e intorno alla persona dell' assistito Il cerchio si era talmente ristretto che don Gennaro Parascandolo, uno dei primi accorsi, pur conservando il suo sorriso un po' scettico, si rivolse a Cesare Fragalà e gli disse: - Cesarino, presentami a questo signore. Cesare Fragalà che era molto imbarazzato, non trovando una via di uscita, colse al volo questa domanda e disse subito: - Il cav. Gennaro Parascandolo, mio compare: Pasqualino De Feo, un bravo amico. L' assistito sorrise vagamente e tese la mano: don Gennaro stese la sua e toccò una mano gelida e un po' molle di sudore, una di quelle mani repulsive che dànno un brivido di ribrezzo. Ma nessuna parola fu scambiata. Le donne che stavano fuori del cerchio e non osavano avvicinarsi, si domandavano, tormentate da un desiderio profondo: - Che dice, che dice? - Non dice nulla, - rispondeva donna Carmelina Naddeo, che era la più vicina all' assistito e che non lo perdeva d'occhio un sol minuto. Le donne si mordevano le labbra, intimidite dalla presenza degli uomini, un po' vergognose, non osando accostarsi all' assistito, entre ognuna di esse fremeva d'impazienza, fremeva di desiderio di sentire la fatidica parola di quell'uomo che viveva in continua comunicazione col mondo dei fantasmi e a cui gli spiriti buoni dicevano tutte le verità nascoste della vita, a cui gli spiriti che lo assistevano, rivelavano, ogni settimana, i cinque o almeno tre dei numeri del lotto. Che diceva? Nulla. Son gente che vive per lunghe ore, concentrata, perduta forse in un gran combattimento interiore, perduta dietro le voci dall'alto che le parlano e che ogni tanto, strappata alle sue visioni dalla realtà umana, pronuncia una frase, una frase fatale, dentro cui è il segreto che si vuole scoprire, avviluppato nel mistero di parole spesso informi, ma che s'intendono, miracolosamente, da chi ha una forte fede, una forte speranza. Tutti, uomini e donne, vinti da un grande sogno, balzati d'un tratto dalla quotidiana realtà nella ardente, consumatrice regione delle visioni, dimentichi del minuto presente, attendevano la parola dell' assistito, ome un verbo sovrumano. Ah, certo, don Gennaro Parascandolo conservava il suo sorriso di napoletano che ha viaggiato, che ha vissuto, che ha una grossa fortuna sicura; ma, in fondo al cuore, il vecchio istinto partenopeo, l'istinto del grosso guadagno, del guadagno illecito, ma non colpevole, senza fatica, improvviso, dovuto al caso, dovuto alla combinazione, a burla fatta al Governo, sorgeva, così, naturalmente, di fronte all'uomo che sapeva i segreti delle cose nascoste. Certo, certo, tutti quei Fragalà, quei Naddeo, quegli Antonacci, quei Durante, erano abituati a vendere i dolci stantii, le stoviglie di creta grossolana, i pannilana avariati e il puzzolente baccalà, nelle oscure botteghe nei freddi depositi i via Tribunali, di via Mercanti, alla Pietra del Pesce, alla via Marina: erano abituati a tutte le glacialità, le volgarità, le meschinità del commercio, dove per anni e anni si mette il soldo sopra il soldo, la lira sopra la lira, e infine, dopo due o tre generazioni, si arriva ad avere una fortuna: certo, tutti costoro sapevano che il valore del denaro è quello del lavoro, il valore dell'economia e della diligenza, ma che importa! Potere, per una frase detta da un misterioso personaggio, che costava solo la pena di raccogliere e d'interpretare, in una settimana, anzi in un sol giorno, guadagnare con una piccola posta una grossa somma, avere, in un giorno, il guadagno di venti anni di vendita di baccalà, di quarant'anni di vendita di zucchero marmoreo e di caffè arenoso, era un regalo così prelibato, era una visione così luminosa alle borghesi fantasie! Certo, tutti quei contabili, quei commessi di negozio avevano un'idea modesta, limitata del proprio avvenire, avevano vissuto di nulla, vivevano di poco, desideravano vivere con qualche cosetta di più, null'altro, umili a ogni desiderio; ma la figura dell' assistito quel pezzente così potente, quello straccione che discorreva ogni notte con gli spiriti superni e inferi, li buttava a un tratto in un mondo fantastico, dove i poveri miracolosamente si trasformavano in ricchi, dove essi, oscuri lavoratori, potevano, a un tratto, diventare dei signori. Ah, don Domenico Mayer, nipote, figliuolo, fratello, padre e zio d'impiegati, non aveva fede che nella santa burocrazia, gelida carriera di taciturni sofferenti: pure, stretto nel suo soprabitone nero, aveva lasciato in un cantuccio la sua misantropica famiglia, si era accostato al gruppo della gente che circondava Pasqualino De Feo, l' assistito, vibrava quelle sue occhiate fra severe ed ansiose, aspettando anch'esso la frase che lo doveva trarre, in un giorno solo, dall'ambiente sepolcrale della sua Intendenza di finanza. Ma le donne, le donne erano quelle che più ardevano nell'immaginazione! Certo, almeno dieci di esse, per la nascita, per il matrimonio, per le virtù proprie e per quelle dei loro parenti o mariti, erano ricche, possedevano la quiete della fortuna e l'avvenire dei figli assicurato: dieci di esse, almeno, godevano il lusso borghese dei mobili di broccato, dei gioielli, della biancheria a bizzeffe: e tutte le altre, per la saviezza, per la modestia, per l'economia, virtù proprie e virtù dei parenti e mariti, non mancavano del necessario - ma la vivace passione del sogno si era risvegliata in loro e le abbruciava; ma sorgevano loro nell'anima tutti i desiderii di benessere, di ricchezza, di lusso; ma esse volavano, volavano, pei campi del desiderio, con la forza, con la intensità che le donne più tranquille mettono in queste improvvise follie: ma le teneva una irrefrenata voglia di sapere il gran segreto; ma una crollante piramide di oro e di gioielli pareva accendesse di fiamme i loro occhi. Finanche la vecchia marchesa di Castelforte, curva, dal naso adunco, con la bocca rincagnata, rovina di una donna, avanzo isolato, solitario di una famiglia, senza parenti, senza eredi, avendo settant'anni e con la tomba per solo avvenire, si era levata su e portando seco la borsa di velluto nero, era venuta a tendere il suo profilo di vecchia civetta, fra due spalle di uomini. Perfino donna Carmela Naddeo, la bella, la ricca, la felice, la fortunata donna Carmela Naddeo, tendeva l'orecchio, convulsa di curiosità, istintivamente, dicendo a mezza voce: - Se mi dice i numeri, mi compro la stella di brillanti come quella di Luisella. Pure, l' assistito aceva: tanto che don Gennaro Parascandolo, sentendo dietro di sé l'impazienza della sala, arrischiò una domanda: - Vi è piaciuta la festa, don Pasqualino? Infine costui schiuse la bocca e dalle labbra sottili, violacee, tutte maculate dalla febbre, una voce bassa e fievole uscì: - Sì, - disse - è un bel battesimo. Anche il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano era bello… Immediatamente vi fu un mormorio, un agitazione nella sala; tutti parlavano fra loro, sottovoce o ad alta voce, commentando la frase, cercandone subito la spiegazione, formando circoli, crocchi, le donne discutendo fra loro, mentre il numero trentatré, l numero del Redentore, correva su tutte le bocche. Placidamente, come se prendesse la data di una cambiale, don Gennaro Parascandolo aveva trascritta la frase nel suo taccuino: e celandosi dietro una portiera, senza lasciare la sua gravità burocratica e misantropica, don Domenico Mayer ne aveva preso nota. La vecchia marchesa, che era sorda, andava domandando, rabbiosamente: - Che ha detto? Che ha detto? Finì per chiederlo a Luisella Fragalà, che, immobile, con gli occhi imbambolati, sedeva presso la malinconica signora Parascandolo, e Luisella non seppe dire altro: - Non so, comare marchesa, non ho inteso. Però don Gennaro Parascandolo, non contento, insisteva: - Vi sono piaciuti i dolci, don Pasqualino? Ho visto che li mangiavate con piacere. - Sì, - mormorò costui. - Io mangio, ma non mastico… - Non avete denti? - Non ho denti… E girò gli occhi intorno, in alto, vagamente, senza fissar mai nessuno, come se vedesse delle cose di là; fece un cenno con la mano, appoggiando tre dita sulla guancia. Vi fu lo stesso mormorio, la stessa agitazione: ma sorse anche una incertezza. La frase era ambigua: e il cenno con le tre dita, che significava? Anche don Gennaro Parascandolo, mentre prendeva la sua annotazione, si fermò, pensando: e il mistero di quella seconda frase, il mistero di quel cenno scatenava tutte quelle già frementi fantasie, in un mondo sovrasensibile. Oh la fede, la fede, ecco quello che ci voleva, per intendere le parole dell' assistito E ognuno, concentrando le potenze dell'anima, cercava di avere uno slancio sublime di fede, per sapere la verità, e per conoscere come si traducesse in numeri, e per cambiarla nei danari del lotto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A notte tarda, quando la casa fu vuotata di gente, Cesare Fragalà, insieme con le serve sonnacchiose, andò smorzando i lumi, chiudendo tutte le porte, come faceva, per prudenza, ogni sera. Rientrato nella stanza nuziale, trovò Luisella, semi spogliata, seduta nella penombra. La culla di Agnesina era stata portata nella stanza della nutrice; gli sposi erano soli. Pareva che la stanchezza li avesse ammutoliti. Pure, accostandosi alla sua giovane moglie, egli vide che ella piangeva, silenziosamente, a grosse lacrime che le si disfacevano sulle guance. - Che hai, Luisella, che hai? - chiese, abbracciandola, tremante anche lui di emozione. - Niente, - ella disse, piangendo ancora, nel silenzio, nella penombra.

- domandò don Pasqualino, abbassando le palpebre, quasi a celare il lampo dei suoi occhi accesi. - Sì. Quanto è? - Si deve far l'elemosina per quattro messe, in quattro parrocchie, domani mattina; faremo cinque lire la messa. Io debbo passare la notte in preghiere, mi fu imposto dallo spirito, acendomi chiudere nella chiesa del grande San Pasquale, a mezzanotte; ho promesso dieci lire di regalia al sagrestano, per farmi chiudere in chiesa: non sarebbe permesso a nessuno. Abbiamo detto di accendere quattro candele, innanzi all'altare di San Benedetto, di cui ricorre la festa, domani: dieci lire. Quaranta… sì, quaranta lire basteranno. Aveva fatto questo conto freddamente, tenendo gli occhi abbassati, ma con una chiarezza non consueta nel suo bizzarro parlar misterioso. Il marchese Carlo Cavalcanti annuiva col capo, a ogni nuova spesa annunciata dall' dall'assistito, rovandola ragionevole. -… E per voi? - chiese, dopo aver contate le quaranta lire nelle mani di don Pasqualino. - Sapete che non ho bisogno di niente, - disse quello, schivandosi. - E quando ci vediamo? - Domattina, dopo la mia veglia, se lo spirito i lascia vivo. Venerdì scorso mi bastonò talmente, che mi sentivo morire, - disse con enfasi, ma a bassa voce, l' assistito. Io fido in voi, - mormorò il marchese Carlo Cavalcanti. - Fidiamo in lui, ribattè l'altro, fervidamente, mostrando il bianco degli occhi. - Pregatelo, pregatelo, - scongiurò il marchese. Si lasciarono, dopo che il marchese ebbe strette due dita molli e umide, che don Pasqualino gli stendeva. De Feo risalì verso Tarsia, Cavalcanti discese verso Toledo: andava al Banco lotto numero 177, all'angolo del vico Nunzio, dove era tenitore del banco il bel don Crescenzo dalla barba castana, e dove giuocavano Cavalcanti e i suoi amici. La bianca bottega, sulle cui mura da poco era stata passata la calce, divampava di luce: tre becchi a gas erano accesi, in tutta la loro forza, sul grande banco di legno, ad alta graticciata di fil di ferro, che tagliava in fondo la bottega, andando da una parete all'altra. Dietro questo banco, seduti su tre alti seggioloni, di fronte a tre sportelletti aperti nella graticciata di ferro, lavoravano don Crescenzo e i suoi due commessi, i giovani, osì chiamati, malgrado che uno, don Baldassarre, avesse settant'anni e un'aria così decrepita che pareva avesse un secolo, malgrado che l'altro avesse uno di quei visi scialbi, dalle linee e dalle tinte indefinite, che non hanno età. Tenevano innanzi squadernato un grande registro, detto a madre figlia, ioè col duplice polizzino giallo: vi scrivevano sopra i numeri con una grossa penna, a tre punte, per avere una calligrafia molto forte e molto chiara: e scrivendo due volte i numeri, li ripetevano macchinalmente, si vedevano le loro labbra agitarsi, pronunciando le cifre: poi tagliavano il polizzino con un colpo secco delle grandi forbici che tenevano a destra, rapidissimamente lo passavano, per farlo asciugare, nell'arena nera contenuta in una scodella di legno, e lo consegnavano al giuocatore, dopo averne ritirata la moneta. Don Crescenzo conservava la sua bell'aria contenta, di soddisfatto mangiator di maccheroni, sorridendo nella sua barbetta nera, mentre il vecchissimo don Baldassarre, così curvo che pareva gobbo, col naso adunco, che pareva gli piombasse nella bocca rincagnata, sulle gengive senza denti, lavorava con molta flemma, e don Checchino, lo scialbo scrivano, scriveva correndo, per finire, per andarsene. Quando il marchese Cavalcanti giunse, verso le nove e mezzo, la bottega era piena di gente che giuocava. Il giuoco comincia debolmente la mattina del venerdì, nel pomeriggio va crescendo, e nella sera diventa una fiumana. Il marchese di Formosa fece un cenno, e don Crescenzo, premurosamente, aprì la porticina del banco e gli porse una sedia. Il venerdì sera il marchese Cavalcanti lo passava lì, in un cantuccio, seduto, guardando tutta la gente che giuocava, volendo eccitarsi in quello spettacolo ed eccitandosi fino a un grado forte di esaltazione. Egli aveva in tasca la sua giuocata, coi denari: ma non la faceva mai appena entrato, delibava questa voluttà, lungamente, guardandola delibare, di un tratto, a cento e cento altri. Folta di gente, la bottega: vi si entrava dalle due porte spalancate, una in via Toledo, una nel vicoletto del Nunzio, e la fiumana si avvolgeva e si svolgeva, continuamente, venendo a battere contro quel bancone di legno, unto da tanti contatti umani. La folla era di tutte le condizioni, di tutte le età, con tutta la varietà dei volti umani, belli e brutti, sani e malaticci, lieti, dolenti, stupefatti, ebeti, una folla venuta da tutte le strade, là intorno, dalle Chianche della Carità e dalla Corsea, dal Chiostro San Tommaso di Aquino e dal piccolo rione del Consiglio, da Toledo e dal vico San Liborio. Certo, a poca distanza, in giù, a via Magnocavallo, vi era un altro Banco lotto; a poca distanza, in su, in via Pignasecca, ve ne era un altro, di Banco lotto; e sempre, nel raggio circolare di due a trecento passi, ve ne erano degli altri, di Banco lotto, tutti aperti, tutti fiammeggianti di gas, tutti riboccanti di gente: ma se il venerdì sera e il sabato mattina, per le vie principali di Napoli, si aprisse un Banco lotto, ogni tre botteghe, tutte queste botteghe della popolarità della fortuna avrebbero la folla. Del resto, anche i Banco lotto hanno la loro simpatia e la loro antipatia, fruiscono della impopolarità o della popolarità: e quello del vico del Nunzio, come quello in piazza Plebiscito, come quello della Strada Nuova Monteoliveto, godevano una grande reputazione di fortuna. Vi si erano guadagnate somme enormi: e molta gente, quindi, si muoveva di lontano, per giuocare proprio lì la lira, le cinque lire, le cento lire. I tre gruppi di gente, innanzi ai tre sportelli del Banco lotto di don Crescenzo, si confondevano in un gruppo solo, fluente e rifluente, sempre: e il marchese di Formosa, col cappello messo un po'indietro, con la nobile fronte scoperta, su cui compariva qualche stilla di sudore, guardava questo spettacolo, con gli occhi incantati, tenendo, fra le gambe, la sua mazza di ebano. Ogni tanto, riconoscendo una persona amica o conoscente, innanzi a uno dei tre sportelletti, gli occhi scintillavano di soddisfazione, lusingato profondamente che la sua passione fosse la passione di tante altre illustri e buone persone. Spalancava gli occhi, per vedere tutto, per abbracciare quel quadro sempre cangiante, tendeva l'orecchio per cogliere tutti i dialoghi, tutti i soliloqui, - poiché spesso i giuocatori di lotto parlano da soli, ad alta voce, e anche in pubblico, - per udire fra i tanti numeri pronunziati, quali più fittamente ritornassero sulla bocca di tutti, per poterli giuocare nella serata o all'indomani. Faceva caldo e la luce era forte, in quella piccola bottega piena di gente: ma il marchese di Formosa provava un benessere singolare, un senso pieno e largo di vitalità, sembrandogli di essere ringiovanito, nel trionfo della salute e della forza. Intanto la folla non diminuiva, cresceva. Mentre innanzi allo sportelletto dello scialbo don Checchino lo scrivano, un gruppo di studenti tumultuava, strillando i propri numeri, ridendo e dandosi degli urtoni; allo sportello del vecchissimo don Baldassarre, innanzi alla minuta folla, erano due o tre forti giuocatori, che giuocavano filze intere di numeri, arrischiandovi diecine e centinaia di lire, che il commesso scriveva lentamente, flemmaticamente, rileggendoli, prima di consegnare i polizzini; e allo sportello di don Crescenzo, dove il lavoro i sbrigava più presto, la scena mutava ogni minuto, l'impiegato succedeva al soldato attendente che era venuto a giuocare i numeri pel colonnello, l'operaio torvo lasciava il posto alla nutrice contadina dalla faccia stupida, la vecchia pinzocchera si ficcava dietro il magistrato in ritiro, e tutti avevano o un'estrema parlantina, o un'aria estatica, o un profondo quasi doloroso raccoglimento. Giusto, don Domenico Mayer, il misantropo vice-segretario all'Intendenza di Finanza, ora stava fermo innanzi a don Crescenzo e con gli occhi bassi, con voce cavernosa, gli veniva dettando dieci terni, terni secchi, su cui don Domenico Mayer giuocava audacemente due lire per terno, per prendere diecimila lire, salvo la ricchezza mobile. Al terzo terno, domandò, trucemente: - Quanto è la ricchezza mobile? - Tredici e venti per cento, - rispose, ridacchiando, don Crescenzo, la cui mano bianca e grassa di lieto divorator di pasta al pomidoro, aveva una quantità di gesti eleganti. - Governo mariuolo! - esclamò una voce stridula, dietro don Domenico. Era il lustrino Michele che aspettava, per fare la giuocata piccola del venerdì sera: la giuocata grande l'avrebbe fatta al sabato mattina, quando donna Concetta, la strozzina, gli avrebbe prestato le quaranta lire. Intanto provava il gusto di stare là, di attendere il suo turno. Al settimo terno secco, don Domenico spiegò la sua giuocata: - Non m'importa di vincere l'ambo, quindici lire non mi fanno niente. - Già, - disse il compiacente don Crescenzo. Prese le venti lire dell'impiegato, gentilmente piegò i polizzini, e glieli consegnò. Già, rizzandosi sulla punta dei piedi per arrivare allo sportello, il gobbo sciancato dettava i suoi numeri, e a ogni biglietto dava la spiegazione. - Questo lo giuoco da ventidue anni… questo è il terno di padre Giuseppe d'Avellino… questo è l'ambo della giornata… questo è il terno del morto ucciso in piazza degli Orefici… Ma erano piccole giuocate, in tutto sette ad otto lire: e quelli che aspettavano dietro a lui, s'impazientivano. Invece, da don Baldassarre il quasi centenne, per una singolare attrazione, si fermavano i giuocatori di grosso. Ninetto Costa, elegantissimo, con la marsina che s'indovinava sotto il soprabito, col gibus messo un po'di traverso sulla zazzeretta arricciata e profumata, coi denti bianchissimi che comparivano nel sorriso delle rosse labbra, aveva consegnato una lista allo scrivano, e fumando un avana, disinvolto, sempre allegro, si prestava gentilmente alle domande di don Baldassarre, che, non meravigliato delle grosse giuocate, ma per precisione, si faceva ripetere le somme arrischiate: - Al primo biglietto settanta sul terno, venti sulla quaterna? - Sì, - e gittava uno sbuffo di fumo odoroso. - Al secondo terno secco, centocinquanta? - Centocinquanta. - Al terzo, tutto il bigliettone, uecentoquaranta lire? - Duecentoquaranta. Il marchese Formosa che aveva scambiato un sorrisetto con Ninetto Costa, tendeva l'orecchio a udir le cifre, e trasaliva, punto da una lieve invidia, rimpiangendo di non aver tanti denari da giuocare. E quando udì la cifra totale, milleseicentocinquanta lire, e vide Ninetto Costa cavare lietamente questa somma e consegnarla a don Baldassarre, impallidì, pensando quanto si potea guadagnare con tal rischio. Quasi soffocando, uscì sulla porta, a prender aria; Ninetto Costa ve lo raggiunse e ambedue guardarono Toledo, e la sua folla, e i suoi mille lumi, senza vederli. - Siete fortunato, - balbettò il vecchio nobile. - Avete denaro… - Se sapeste, - disse l'altro, sottovoce, diventato grave improvvisamente. - Ho impegnato dei gioielli che ho pagato ventimila lire, e non ne ho avuto nemmeno cinquemila: il Monte di Pietà diminuisce i suoi prestiti il venerdì e il sabato, tanta è la roba che s'impegna… - Che importa? Vincerete! - disse il vecchio, roteando gli occhi esaltati, alla visione della vincita. - Lunedì ho la liquidazione in Borsa, ventimila lire di perdita, non ho un soldo in saccoccia. Se non prendo, ove batterò la testa? - E avete buoni numeri? - chiese con ansietà. - Ho giuocato tutto: Pasqualino de Feo ha voluto cinquanta lire per ingraziarsi lo spirito, mi ha dato tre terni, due ambi e un situato quella ragazza popolana a cui fo la corte, - le ho regalato un orologetto, - mi ha dato certi numeri, ma sotto simbolo: avrò indovinato? Poi i numeri della cabala che facciamo in comune: poi quelli del ciabattino di Marzano, l'avvocato…che so io? So che se non vinco, marchese, una grossa somma, debbo fallire, - e la voce dello spensierato agente di cambio ebbe un tremore tragico. - Vado a ballare, buona sera, - disse poi, riaccendendo il suo avana. E si allontanò, col suo passo svelto. Esaltato da quel dialogo, il marchese di Formosa rientrò nel botteghino del lotto. Ora, innanzi a don Checchino, lo scrivano pallido e floscio, appoggiata col gomito al piano del bancone, Carmela, la sigaraia, che aveva dato per dieci lire i suoi orecchini a donna Concetta l'usuraia, fiaccamente, a pause, veniva dettando i numeri, giuocando tre o quattro biglietti popolari: - Sei e ventidue, giuocatemi mezza lira; otto, tredici e ottantaquattro, due soldi per l'ambo, otto per il terno; otto e novanta, ambo, altri quattro soldi… - Spicciati, spicciati! - gridò una voce di donna impaziente. E si fermava, ogni tanto, come se altri dolorosi pensieri se la portassero via, e una fiamma saliva a colonne le guance delicate. E quando don Checchino le fece il conto, quattro lire e otto soldi, ella cavò il rotoletto dei denari di rame, e si mise a contare, lentamente. - Spicciati, spicciati! - gridò una voce di donna impaziente. Ella si voltò e riconobbe la donna, una serva vecchia, donna Rosa, quella che serviva nella casa, dove stava la disgraziata sua sorella, e parlarono sottovoce. - O donna Ro'… e come sta Maddalena? - Bene sta: tribolata: ha mandato a giuocare questo biglietto: anzi lo hanno giuocato in tre ragazze… Siccome vi è stato un ferimento, per disgrazia… - O Gesù! Dio la benedica, povera sorella: e voi, fino qua venite? - Abito alle Chianche e torno a casa. - Salutatela, Maddalena, - mormorò appassionatamente Carmela. E stringendosi nello scialletto, se ne andò, crollando il capo, quasi una infinita stanchezza la vincesse. Le succedette, accanto a Rosa, la serva delle povere infelici, il barone Annibale Lamarra, grosso, smorto, ansante della sua affannosa passeggiata a piedi, da un Banco lotto all'altro. Egli giuocava molti biglietti da venti, da cinquanta, da cento franchi l'uno, ma temendo di essere spiato dall'avara sua moglie di cui mangiava la dote, malgrado le orribili scenate, temendo di essere sorpreso da suo padre, un pezzente risalito da scalpellino ad appaltatore, da appaltatore a possidente, aveva inventata la furberia di giuocare un biglietto per parte. Da un Banco lotto all'altro, correva sbuffando, non volendo pensare che al sabato, all'estrazione in cui avrebbe vinto e ritirato la cambiale data a don Gennaro Parascandolo, quella cambiale, che portava la firma sua e di sua moglie, che lo faceva rabbrividire di terrore. Quando uscì dal Banco lotto di don Crescenzo, respirò e contò mentalmente. Delle duemila lire ne aveva date duecento all'avvocato Ambrogio Marzano, il buon vecchietto ridente, come intermediario fra lui e don Gennaro Parascandolo; ne aveva giuocato milleseicento per i Banco lotto da Chiaia a San Ferdinando, da San Ferdinando alla piazza della Carità. Gli restavano duecento lire; le avrebbe giuocate l'indomani; forse la notte avrebbe potuto sognare qualche buon numero, non bisognava arrischiare così la riserva. Intanto dall'altra porta, mentre egli usciva, entrava giusto don Ambrogio Marzano, che si fermò col marchese di Formosa: - Avete qualche buon numero? - chiese ansiosamente Cavalcanti, che riteneva il lindo e ridente vecchietto come un buon portafortuna. - Ci ho un quarantanove secondo, he è un amore, marchese! - mormorò l'appassionato, per non farsi udire. - Ah! e che altro? - Ventisette, lo sapete, è il simpatico i questa fine di mese… - Ce l'ho anche io. E del quattordici, che ne dite? - È bello, archese mio. Ma volete proprio, proprio sapere il numero lampo, il numero fulmine? - Dite, dite, dite. - Ve lo dico per amore di fratello, perché quando ci ho un tesoro, non so essere egoista e tenerlo per me: abbiatelo per prova di affezione, è il trentacinque!… - Ah! - disse il marchese di Formosa, con grande stupore di ammirazione. Intanto, sempre tutto sereno, don Ambrogio Marzano andò a giuocare da don Crescenzo. Veramente aveva dovuto dare le solite quindici lire al suo cabalista ciabattino e ignorante, dieci ne aveva date all' assistito on onPasqualino, sebbene vi credesse poco, e altre trenta gli era costato un viaggio a Marano, da padre Illuminato, per portargli una tabacchiera di tartaruga, ma queste le aveva prese da un anticipo di spese processuali, fattegli da un suo cliente: sicché le duecento lire erano intatte e le giuocò tutte. Gaetano, il tagliatore di guanti, il marito della misera Annarella cui moriva il figliuolo, aspettava il suo turno per giuocare: ma era una dura settimana, non aveva trovato un soldo in prestito e a stento aveva potuto avere una anticipazione di cinque lire dal suo padrone; ne giuocò quattro, conservò la lira per i numeri che avrebbe potuto avere il sabato mattina. Ora, come la notte si appressava, don Crescenzo e i due commessi, stanchi, storditi, avevano una cert'aria inebetita, simili a chi ha assistito a un troppo lungo spettacolo musicale e coreografico, con un abbarbagliamento negli occhi e un assordamento negli orecchi; ma continuavano a lavorare, era la gran messe settimanale, una raccolta di migliaia, di centinaia, di diecine, per il Governo, su cui si prelevava il tanto per cento; e don Crescenzo dava un soprassoldo ai giovani elle buone settimane! Anche la gente che arrivava continuamente a giuocare, adesso aveva un aria curiosa: chi era affannato, chi si guardava attorno con una certa diffidenza, chi si trascinava stanco, chi aveva gli occhi vaganti delle persone che non sono in sé. Erano coloro che solo allora avevano saputo i numeri, o avuto i denari per giuocare; serve che terminato il servizio, prima di andare a letto, scappavano al Banco lotto; commessi di negozio, che avevano chiuso bottega, allora; giovanotti che facevano una scappatina fra un atto e l'altro del teatro Fiorentini; cabalisti del Caffè Diodato delle sale del Caffè Testa d'Oro, he erano clienti di don Crescenzo e che dopo aver lungamente confabulato, capitavano ad arrischiar quanto possedevano, in quella sera! Un magistrato carico di figli e di miseria, che tornando da una partita di scopa, a un soldo, arrischiava le venti lire con cui dovevano mangiare per quattro giorni, in casa; il pittore di santi, malaticcio, smonto, che aveva esatto anticipatamente i denari di una Santa Candida, a quell'ora, e li veniva a giuocare, salvo a rigiuocare, la mattina, quelli promessi da donna Concetta, per la statua di una Immacolata Concezione. Finanche una elegantissima piccola vettura chiusa si fermò e una mano guantata di grigio perla, ingemmata di brillanti al braccio, consegnò una carta e del denaro dallo sportello, a un servitore gallonato: il marchese di Formosa, che per la nervosità aveva lasciato la sedia e si agitava fra i giuocatori che andavano e venivano, riconobbe il profilo di una dama del suo ceto, la spagnuola principessa Ines di Miradois. - È dunque vero che Francesco Althan la spoglia di tutto… - pensò fra sé il vecchio signore. Adesso egli si era unito al dottor Trifari e al professor Colaneri che arrivavano ancora frementi di collera. Per quelle settecentosessanta lire del povero Rocco Galasso, si litigavano da ore e ore, per la divisione: Trifari pretendeva di aver indotto Rocco Galasso, suo compaesano, a firmare e voleva cinquecento lire: Colaneri pretendeva che Rocco Galasso aveva firmato la cambiale, per aver poi il tema dell'esame da Colaneri, compromissione grande che egli, Colaneri, si assumeva tutta e per cui poteva essere destituito, quindi a lui cinquecento lire. La lite era stata tremenda: due volte erano stati per venire alle mani; ma Trifari, a malincuore, sbuffando di collera, cedette, perché sapeva che Colaneri, nella notte, aveva delle rivelazioni, cosa che a lui uomo pletorico, eretico e bestemmiatore, non accadeva; e Colaneri cedette, perché Trifari gli portava molti studenti, con cui egli faceva degli affari per gli esami, affari veramente pericolosissimi, di cui temeva egli stesso, ma a cui cedeva per soddisfare il suo vizio. Infine, si erano divise le settecentosessanta lire. Avevano incontrato l' assistito he aveva domandato loro, in tono da ispirato, se volevano fare la elemosina di cinque lire a San Giuseppe: ed essi dettero le cinque lire, pensando che quella domanda erano numeri, e che dovevano giuocare il cinque, la moneta e il diciannove, che è il numero di San Giuseppe. Tutto ciò che dice l' assistito, l venerdì sera e il sabato mattina, sono numeri. Tanto che Trifari e Colaneri, dopo aver fatto la giuocata sui numeri prelibati, scendevano man mano a giuocar quelli, secondo loro, meno probabili; poi giuocavano, tanto per uno scrupolo, i biglietti popolari, che erano tre o quattro; e infine, appoggiati al grande banco di legno, guardandosi in volto, col sorriso ebete, cercavano ancora, se nulla avessero dimenticato. Malgrado l'ora tarda, la gente continuava a ingombrare il Banco lotto di don Crescenzo, a cui, in quell'ultimo venerdì di marzo, per un riflusso di febbre viziosa, sarebbe toccato un grosso introito; uno di quegli impeti furiosi, collettivi, dell'inguaribile malore che consuma tutte le forze della fortuna napoletana. Erano persone che escivano dai teatri e che avendo pensato tutta la serata a un biglietto da giuocare, non volevano rimandarne al sabato l'esecuzione, per paura di dimenticarlo, nella breve mattinata; erano dei cocchieri di carrozze da nolo, di notte, che si fermavano innanzi alla bottega, scendevano dalla cassetta e aspettavano il loro turno di giuocata, con la indivisibile frusta in mano e gli occhi pazienti di chi è uso alle lunghe aspettazioni; erano quei laceri, miseri venditori ambulanti notturni, figure piene di ombre, che la vivida e calda luce del gas faceva fremere di timidità, il venditore di giornali, il venditore di frittelle, il trovatore di mozziconi, il venditore di pizze, l lupinaio, il venditore di gramigna per i cavalli delle carrozze di notte, tutti, passando, volta a volta, gridando la loro merce, si erano fermati innanzi al posto i lotto ed erano entrati, non potendo resistere alla voglia di giuocare una lira, mezza lira, sei soldi; vennero il conduttore e i due facchini dell' omnibus he aveva portato all'albergo dell' Allegria viaggiatori arrivati con l'ultimo treno, mentre i conduttori e i cocchieri degli omnibus n piazza della Carità, man mano che le corse finivano, e che essi dovevano ritirarsi stanchi morti, prima di andare a casa, erano venuti a giuocare il loro biglietto. Intanto Formosa non si era deciso a giuocare, con quella specie di transazione col tempo, che fanno tutti i grandi amanti e i grandi appassionati: sulla soglia della bottega, da un canto per far passare la gente, egli discorreva con Trifari e Colaneri, che neppure volevano andar via, malgrado avessero esaurito il piacere della giuocata, stando lì per godere di quella luce, di quel caldo, di quelle persone, di quei denari che fluivano, di quei polizzini che partivano, pegni di fortuna, pegni di ricchezza, fantasticando in quale di essi vi fosse la verità. Quale, quale? Ecco il dubbio tremendo e dolce, l'ignoto immenso e ardente, il mistero che vi sorride a traverso i suoi veli, che non si sollevano. Dopo aver fatto una passeggiatina per Toledo, non potendo resistere, l'avvocato Ambrogio Marzano era ritornato anch'esso e si era unito al gruppetto dei suoi amici cabalisti che confabulavano fittamente. Incapace di non parlare del suo numero, del suo fulmine, aveva detto il trentacinque, il famoso trentacinque, tanto che Colaneri e Trifari erano rientrati per giuocarlo, e lui, Marzano, era rientrato per giuocare il sessantatré datogli da Colaneri. No, Formosa non giuocava ancora. Ma il termine della voluttà si approssimava ed egli sentiva l'imminenza del gran momento: e mentalmente, in uno dei suoi fervidi slanci mistici, pregava il Signore, la Madonna di casa Cavalcanti, l' Ecce Homo he egli venerava nella sua cappella gentilizia, perché lo illuminassero, lo ispirassero, perché gli facessero l'unica, la suprema grazia che egli chiedeva da anni. Di nuovo, i suoi amici, dopo aver bevuto questo altro piccolo sorso di piacere, erano esciti fuori e parlottavano vivacemente di numeri, eccitandosi in quelle grandi ombre che oramai regnavano su Toledo, spezzato da quel quadrato luminoso che gittava sul marciapiede la luce del Banco lotto. In quest'ora videro entrare anche Cesare Fragalà. Dopo aver chiusa la bottega, il gaio pasticciere andava sempre a passare un paio di orette al suo Circolo, dove giuocava al domino, con altri commercianti di coloniali, di panni, di agrumi, di olio, di baccalà, arrischiando un soldo a ogni partita. Il venerdì sera, anche giuocava quelle lunghe partite, ma distratto, un po'nervoso, attraverso la sua inesauribile giocondità giovanile; e scappava via un po'più presto per andare dal suo caro don Crescenzo, a fare la sua gran giuocata settimanale. Veramente, al suo ardore di giuocatore si mescolava una certa ritrosia, come un piccolo senso di rimorso, una vergogna di buttare il suo denaro in quella maniera; e perciò arrivava al Banco lotto molto tardi, quando vi era minor gente che lo vedesse, che lo conoscesse; e quella sera, al saluto di Formosa, rimase interdetto, gli seccava di essere stato veduto dal suo vicino. Poi, si strinse nelle spalle e fermatosi presso il suo carissimo amico don Crescenzo, che continuava a scrivere, piegando la sua bella barba nera sul petto e facendo una quantità di volatine eleganti con la penna, si mise a dettargli de'numeri, a lungo, a lungo, mostrando i suoi denti bianchi, in un sorriso. Don Crescenzo scriveva, imperturbabile: da sei mesi che Cesarino Fragalà giuocava al suo Banco lotto, ogni settimana le somme arrischiate venivano crescendo. E in quel fluire di numeri dettati, don Crescenzo riconosceva, con la sua osservazione particolare, i numeri dati dall' assistito, ioè per simbolo, e che ognuno aveva interpretati a suo modo, tanto che Formosa, Colaneri, Trifari, Marzano, Ninetto Costa e Cesare Fragalà, e quanti prendevano la sorte dalle parole di don Pasqualino, giuocavano numeri diversi, molti numeri, così che ognuno di loro, ogni tanto, finiva per fare qualche piccolo pericolosissimo, guadagno, quindici o venti scudi sopra un numero situato, eicento lire sopra un ambo: raramente, è vero, ma tanto da attizzare fatalmente la loro passione e da renderli schiavi di tutte le nebulose frasi di don Pasqualino. Per il che, con un lieve sorriso, mentre faceva la somma delle giuocate, don Crescenzo disse: - Voi pure siete cliente di Pasqualino De Feo? - Lo conoscete? - disse ansiosamente Cesare Fragalà. - Eh, siamo amici…- mormorò don Crescenzo. - Sa i numeri, non è vero? - chiese Cesarino, con un tremito nella gola. - Spesso… - Come, spesso? - Quando il cliente è in grazia di Dio, - rispose il postiere, enigmaticamente. E volendo finire il discorso, con un atto gentile, consegnando i polizzini, disse al negoziante di generi coloniali: - Cinquecentoquaranta. Quello pagò flemmaticamente, con la tranquillità del negoziante, senza che la sua fisonomia si turbasse. Ma quando fu uscito dal Banco lotto, sulla porta, cadde il suo sorriso e si rammentò di aver fatto in quel giorno il suo primo debito usurario, si rammentò di aver dato fondo ai cassetti della bottega, levandone tutto l'introito, per formare quella grossa cifra che aveva giuocata. Fu per distrarsi da quei dolorosi pentimenti, che si unì al gruppo dei cabalisti. All'una dopo mezzanotte, fermi innanzi alla bottega del giuoco, essi non sentivano né l'ora che passava, né la notte avanzante, né l'umidità penetrante, ardendo del loro continuo fuoco interiore, che nella notte dal venerdì al sabato divampava. E lungamente, interrompendosi, ricominciavano mille volte le stesse istorie, riscaldandosi, eccitandosi, guardandosi in faccia con gli occhi stralunati e vividi di fluido, quasi fossero allucinati. Cesarino Fragalà ascoltava, cercando di prendere la medesima febbre, ma non riuscendovi; era uno spirito debole, niente altro, ma senza pazzie, senza nervosità. E quando tutti enumeravano le ragioni per cui giuocavano, la tale necessità materiale o morale, il tale bisogno urgente, impellente, a cui soltanto il lotto poteva dare un appagamento, egli ascoltava con malinconia; e a un certo punto egli potette dire: - Oh io… io… ho bisogno di sessantamila lire per aprir bottega verso San Ferdinando e fare la dote alla mia Agnesina. Una infinita tristezza lo teneva. Buono, onesto, incapace di mentire a sua moglie per qualunque cosa, egli la ingannava da molti mesi, come un ciurmadore, le toglieva di mano i libri di cassa, che ella spesso si fermava a sfogliare, cercava di nasconderle il suo vizio, con una cura di tutte le ore, smarrendo così il buon umore e la quiete. - Se non fosse questo magazzino… se non fosse per Agnesina…- mormorava, in preda a un rammarico inconsolabile. Adesso, verso l'una e mezzo di notte, veniva il momento di chiudere il Banco lotto, poiché la clientela si era fatta più rada, più rada, e il marchese di Formosa, deciso alla fine, entrò nella bottega del giuoco, a giuocare. Con la nota in mano, dicendo lentamente i numeri a don Crescenzo, un lieve tremito agitava la sua voce: e gli occhi fissavano la carta, dove aveva scritto la lunga filza delle cifre, quasi per una subitanea emozione di piacere. La bottega del giuoco, oramai, diventava deserta; e gli amici cabalisti, Colaneri, Trifari, Marzano, menando seco anche Cesarino Fragalà che si sentiva infelicissimo, si erano messi dietro al marchese di Formosa, ascoltando i numeri, battendo le palpebre per approvazione, o crollando il capo in segno di sfiducia, infine assistendo a quella non breve operazione del giuoco di Cavalcanti, con la gravità dei preti, che assistono il vescovo nel pontificale. Dietro il banco di legno, don Baldassarre, il vecchio decrepito, don Checchino dalla faccia smorta, stavano immobili, con gli occhi socchiusi, stanchi morti di quella sgobbata di dieci ore, pensando all'altra sgobbata dell'indomani, dalle sette all'una, nel grande ardore dell'ultima ora. Solo don Crescenzo conservava la sua disinvoltura e la placida beatitudine del napoletano, che ha il suo piatto di maccheroni assicurato, e che serenamente assiste alla corsa affannosa degli altri, dietro il fantastico piatto di maccheroni, o dietro molti fantastici piatti di maccheroni, nel grande, immaginoso paese di cuccagna. Carlo Cavalcanti, infervorato, giuocava, tanto che al pagare vi mise le lire che il suo cameriere Giovanni s'era fatto prestare dalla usuraia Concetta, le lire che la sua cameriera Margherita s'era fatte prestare dall'usuraio don Gennaro Parascandolo, e settanta lire che aveva avute dal Monte di Pietà, impegnando due antichi e artistici candelabri di bronzo dorato, ritrovati in una stanza di vecchiumi, a casa Cavalcanti, in tutto duecentoventi lire; e rimase pallido, scontento, malinconico, a un tratto sfiduciato sul valore di certi numeri, dolente di non aver potuto arrischiare di più su certi altri, e infine disperato di non poter giuocare tutti gli altri, utti quelli che erano nei suoi calcoli. Così l'amante, dopo aver lungamente desiderato un colloquio con l'amata, quando l'ha ottenuto, ne vede fuggire i momenti con rapidità crudele e, dopo, resta profondamente addolorato per non aver detto una parola di quello che sentiva, alla donna sua. Quel vecchio, in cui l'età non arrivava a domare la furiosa passione, piegava il capo, subitamente accasciato come se avesse vissuto dieci anni in un minuto; e lento, tacito, uscì con gli altri, lenti e muti, per la via buia, andandosene a casa sua. Avevano freddo, tutti, in quell'inoltrata ora notturna; li vinceva un brivido sottile, per cui si stringevano nei soprabiti e abbassavano la testa, senza parlarsi fra di loro. Così arrivarono in piazza Dante, sotto il palazzo Rossi, già Cavalcanti, e il discorso cabalistico ricominciò; due o tre volte andarono su e giù nella piazza, mentre la candida e severa statua del poeta parea li sdegnasse, con le sue bianche occhiaie vuote. Conducevano seco il povero Cesarino Fragalà, corroso adesso da un pentimento invincibile, per aver buttato via tanto denaro, il denaro della sua famiglia, quello della sua Agnesina: ma era inutile, egli giuocava, perché era una creatura debole e allegra, cui pungeva un po'di ambizione commerciale; non sarebbe mai stato un cabalista, la pazzia negli altri lo sorprendeva dolorosamente, ma non gli si comunicava. Pure, restava con loro, quasi non avesse la forza di rientrare a casa, per coricarsi accanto a sua moglie, con quel rimorso di aver gittato cinquecento lire; e ogni tanto, distraendosi, si metteva a guardare le ombre della gran piazza, fisamente, quasi si vedesse apparire qualche visione straziante. A un certo punto, Marzano salutò e si allontanò, verso l'arco di Porta Medina, abitando egli a via Tribunali: ma gli altri continuarono ad andare su e giù, farneticando in quell'oscurità, in quel freddo, che non sentivano più: e più fremente di tutti, il marchese Carlo Cavalcanti, dagli occhi scintillanti, la cui figura si ergeva nella oscurità, forte e salda, simile a quella di un uomo trentenne. Poi, a un certo punto, si licenziarono Colaneri e Trifari, che abitavano ambedue in una povera casa del Cavone. Allora Formosa continuò, monologando, dirigendo la parola a Cesare Fragalà, o alle tenebre, o a sé stesso: e pian piano, discendevano verso Toledo, un'altra volta, quando una tranquilla voce li salutò: - Buona notte a questi miei signori. - Buona notte, don Crescenzo, - disse il marchese. - Avete chiuso, eh? Buona giornata. - Trentaduemila cinquecentoventisette, - disse d'un fiato il tenitore del Banco. Vi fu un silenzio. - Voi non giuocate, don Crescenzo? - domandò Cesarino Fragalà. - No, mai. Buona notte. - Buona notte. Egli si allontanò, sveltamente. Essi, visto che il Banco lotto era chiuso, oramai, tornarono indietro, pesantemente. E fu con un sospiro, che bussarono pianamente al portone del palazzo: rincresceva loro di tornare a casa. Si licenziarono, al primo piano, con una stretta di mano e un'occhiata di allucinati.

Già sotto il palazzo Rossi, innanzi ai balconi della sua casa, egli aveva fatto, da basso, mezz'ora di combattimento coriandolesco, con sua moglie e con tutte le amiche di sua moglie: Luisella Fragalà, e Carmela Naddeo, e le Durante, e le Antonacci avevano trovata così originale l'idea di Cesare e così simpatico lui, con quel suo fare, che lo avevano accoppato, a furia di coriandoli: egli aveva dovuto fuggir via, ridendo, abbassando il capo, calcandosi il berretto sulle orecchie. Tumulto di saluti dunque, dalla bottega di don Crescenzo e chiamate, perché andasse là anche lui: non era forse anche un cliente, lui, sempre nella speranza di avere le ottantamila lire, in contanti, per aprire bottega a San Ferdinando? Ma Cesare era troppo contento di andare in giro, solo solo, ridendo e strillando con tutti, schiaffeggiato dai coriandoli, rosso, ansante di salute e di allegrezza. Andava, fra i carri, fra le carrozze, portato dalla folla: andava fra un parossismo, che l'ora rendeva più acuto. Oramai i più tranquilli commettevano delle follie e coloro che stavano sui carri, sulle prime semplicemente allegri, adesso parevano tanti indemoniati. In una carrozza era passato Raffaele, detto Farfariello, 'eterno fidanzato dell'appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore, all'angolo del vico D'Afflitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita, mormorando fra sé, per consolarsi: - Non importa, non importa… Ma ancora restò lì, inchiodata, in quel crescendo di frenesia carnevalesca. Sotto il balcone dove era la bella donnina vestita da giapponese, una folla più fitta si assiepava: e allora costei, eccitata, aveva cominciato a far cadere una pioggia di confetti, a manate, a scatole, quasi ne avesse un deposito in casa, prendendoli dalle mani della cameriera che glieli porgeva. Un urlìo di monelli, di popolani entusiasmati saliva al cielo, mentre ella da sopra, seria, seria, ma con una fiamma rossa sui pomelli, buttava giù, disperatamente, confetti, dolci, piccole bomboniere. Sul suo balcone parato di velluto azzurro con la rete di argento, il figlio dell'altissimo personaggio aveva combinato lo scherzo di attaccare una bottiglia di champagne, un pasticcio di caccia o una grossa bomboniera a una lunga canna e di abbassarli a livello delle mani tese dalla folla, sollevandoli, facendoli danzare, fra gli urli di desiderio della gente di sotto, e le mani alte, e le bocche aperte, fino a che un grande schiamazzo di trionfo, annunziava che un fortunato aveva strappata la bottiglia o la bomboniera o il pasticcio della nova cuccagna: la canna era ritirata e i giovanotti, che prendevano un gusto matto a quello scherzo, vi attaccavano qualche altra cosa da mangiare o da bere, una bottiglia di vino rosso, una forma di cacio ravvolta in una carta d'argento, un sacchetto di confetti, e il giuoco ricominciava, fra un tumulto inaudito, con la circolazione sospesa. Quelli dei carri, oramai, rifornite le provvisioni, mentre la sera si avvicinava, col passo sempre più rallentato, ballavano e cantavano e buttavano roba, dimenandosi come anime dannate. Fu in questo punto acutissimo della giornata che un nuovo carro sbucò da un vicolo di Toledo, fantastico, bizzarro, giunto in ritardo e trascinato dai cavalli a rilento. Rappresentava l'officina chimico-filosofica, dove lo sconfortato vecchio Faust bestemmia malinconicamente e gelidamente su tutte le cose umane: una camera bruna, con due scansie di libracci, con un fornello e una storta da alchimista, con un Alcoranus Mahumedis aperto sopra un leggìo di legno scolpito: sullo strano carro un vecchio curvo, con un zimarra di velluto nero e una lunga barba bianco-giallastra, camminava tremolando e gittando alla folla dei balconi e della strada delle bomboniere a foggia di libri, di storte, di alambicchi, di fornelli, dove qua e là si vedeva l'immagine di Mephisto, ma che erano riempite di buonissimi confetti. Allora una punta di fantastico si mescolò alla frenesia del carnevale e il carro del mago parve un'apparizione più sovrannaturale che reale. Il vecchio che le donne dai balconi, ridendo, chiamavano il diavolo, crollava il capo canuto coperto da una berretta nera e lanciava giù roba, magicamente cavandola dal sottosuolo del carro. E ogni tanto, fra il clamore del popolo, una voce sopracuta dirigendosi al decrepito mago, gridava: - I numeri, i numeri, i numeri! E quando, giunto a San Ferdinando, il carro di Faust voltò per rifare la strada fatta, sin sopra Toledo, fu vista una cosa curiosissima, indescrivibile. Cavandoli da un alambicco di rame, insieme alle bomboniere, il vecchio mago buttava alla folla e ai balconi, dei fogliolini lunghi e stretti, di carta gialla, su cui la gente cominciò a buttarsi furiosamente: e un grido precedeva, accompagnava, seguiva il carro di Faust: - Gli storni, gli storni, gli storni! Per realizzare una generosità nova, fastosa, bizzarra, e cara al popolo, il vecchio buttava dei polizzini di lotto da due e tre numeri, già giuocati, per il prossimo sabato, giuocati a due soldi l'uno: un biglietto che è detto storno di cui egli magnificamente gittava al popolo delle centinaia, ridendo nella sua folta barba bianca, scordandosi che era vecchio, per rizzare il capo con una gaiezza feroce. Oh che lungo grido, dovunque, nella via, per le finestre, per le logge, per i balconi, sino al cielo che si facea bianco nel tramonto: che lunghissimo grido di desiderio e di entusiasmo, di tutta una popolazione, che alzava le mani e le braccia, come se dovesse abbracciare la terra promessa, che si gittava a terra, si calpestava, per strappare furiosamente un polizzino del lotto, dove era una ipotetica promessa di dieci lire o di duecento lire di vincita! Oh che furore giocondo di uomini, di donne, di fanciulli, poveri e ricchi, bisognosi e agiati, che impeto invincibile che rispettava, per una sacra paura, il carro del mago, ma che gli faceva un trionfo, una gloria di acclamazioni, da un capo all'altro della via Toledo, quando egli aveva buttato alla folla diecimila polizzini, quando già egli era scomparso, senza che niuno sapesse dire come e dove. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Amati incontrò per le scale la cameriera Margherita che rientrava anch'essa, un po' stracca. E bruscamente, mentre forse non avrebbe voluto parlarle, le domandò: - Come sta la vostra signora? - Meglio, - disse a bassa voce la vecchia domestica, - perché Vostra Eccellenza non è più venuta a vederla? - Io ho molto da fare, - borbottò il dottore, senza suonare però alla sua porta. - È vero: ma Vostra Eccellenza è così buona. - Poi, non vi era bisogno di me… - soggiunse lui, esitando. - Eh, chi sa! - ribattè anche più sottovoce, e in tono misterioso Margherita. - Perché non entra adesso Vostra Eccellenza? - Verrò, -. disse lui, chinando il capo, come se cedesse a una volontà superiore. Ella introdusse una chiave nella serratura e aprì, precedendo, nel silenzio della casa, sino al salone, il dottore: ed egli, che pure era avvezzo a dominare immediatamente le proprie impressioni, sentì il freddo il silenzio, il vuoto di quel camerone. E si trovò innanzi la fanciulla, vestita di nero, che gli sorrideva vagamente, tendendogli la mano. Una manina lunga e fredda, che egli trattenne un minuto fra le sue, con la confidenza più del medico che dell'amico. - Siete guarita? - parlò lui, a bassa voce, subendo l'intimidazione dell'ambiente. - Non completamente, - diss'ella, con la sua voce pura e stanca. - Ebbi ancora un deliquio, una notte. Ma breve assai: credo, almeno. - Non vi soccorsero? - disse lui, con un rammarico profondo. - No, non se ne accorse nessuno: era notte, in camera mia… Non importa, - soggiunse poi, con un lieve sorriso. - Perché non siete andata in campagna? - Mio padre odia la campagna… - mormorò ella - e io non lo lascerei qui, solo. - Ma perché non siete uscita: oggi è carnevale, perché non siete andata a vedere? Volete morire di malinconia? - Mi avevano invitata, giù, dalla signora Fragalà: ma la conosco appena. Credo che bisognasse mascherarsi: mio padre non ama queste cose, ha ragione… Parlava con la sua bella voce dolce che una stanchezza spezzava, e Amati che era stato tutto il giorno a lavorare, all'ospedale e al letto degli ammalati, mentre tutti godevano il carnevale, riposava nell'armonia di quella voce e nella quiete stanca e languente di quella delicata giovinezza. Erano soli, seduti uno di fronte all'altro, in un gran silenzio, intorno: si guardavano appena, ma si parlavano come due anime che lungamente avessero vissuto insieme, nella gioia e nel dolore. - Dove eravate, poc'anzi? - domandò Antonio Amati, bruscamente. - Nella cappella, - rispose Bianca Maria, senza offendersi della domanda. - Pregate molto? - Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo. - Perché pregate molto? - Bisogna… - Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare. - Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano. E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo. - Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina. - Non credo: e poi, che importa? - Non dite questo, - interruppe lui, subito. - Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire. - Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via. - Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio? - È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato. - Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore. Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l'aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell'anima. - E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po' soffocata. - Vorrei, - diss'ella, semplicemente. - Perché? - Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili. - Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi? - Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera. - Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.

. - Non sono degna, - aveva risposto Maddalena, abbassando gli occhi e allontanandosi col suo passo molle, sui tacchi alti delle scarpette di lustrino. E in tutto questo, Carmela sentiva, oltre i guai noti, oltre la sequela delle miserie e delle umiliazioni, qualche cosa di segreto che le sfuggiva, come una disgrazia ignota che le si aggravasse sul capo, come la fatalità suprema che cominciasse a circuirla, non lasciandole via di uscita. Che era? Non sapeva bene, non si rendeva conto: ma era forse la profonda indifferenza di Raffaele e la brutalità con cui la trattava; era forse il contegno truce del cognato Gaetano, il tagliatore di guanti; era forse l'aspetto strano della sorella Maddalena, di cui ella non osava andar a prendere notizia. E fra loro due, da tempo, un gran progetto si andava maturando, per trovar rimedio ai loro guai. In tutto il popolo napoletano vi sono donne che hanno fama di grandi maghe, di fattucchiare merite, ai cui filtri, ai cui esorcismi, alle cui fatture ulla resiste; alcune, anzi, hanno una clientela larga, assai più di quella che può averla un medico, e quasi ogni quartiere si vanta della sua maga, capace de' più bizzarri miracoli, sempre però coll'aiuto di Dio e della Madonna. Ma la riputazione della gran fattucchiara hiarastella che abitava lassù, lassù, al vicolo Centograde, presso il corso Vittorio Emanuele era immensa: non vi era bottega, o basso, strada, o piazza, o crocicchio, dove non si conoscessero e non si raccontassero i prodigi di Chiarastella. Si dicea, dappertutto, che per avere la fattura i Chiarastella, bisognava chiederle cose a cui non fosse contraria la volontà di Dio: ma che nessuno, avendo obbedito a questa regola, era uscito malcontento dalla casetta delle Centograde. Niuno osava mettere in dubbio il potere magico di Chiarastella, fra il gran popolo napoletano: e se, nelle botteghe dei pizzicagnoli e dei pastaiuoli, dove le comari giovani e vecchie chiacchierano così volentieri o innanzi ai trespoli e alle canestre delle venditrici di ortaggi, dove le donnette contrattano per tre quarti d'ora un fascio di boraggine; o sulle porte dei bassi ove si discorre così a lungo e così animatamente, se qualcuna ignorante udendo i miracoli della fattucchiara elle Centograde, levava le sopracciglia per sorpresa, per incredulità, venti voci affannose, commosse, entusiaste le raccontavano i grandi fatti operati da Chiarastella. Qua un marito traditore, ricondotto alla giovane sposa; là un giovanotto che moriva di etisia, guarito, quando i medici lo avevano licenziato; altrove una sarta che aveva perduta tutta la clientela e che l'aveva veduta ricomparire, a poco a poco, per influenza della maga; altrove una ragazza insensibile che induceva, con la sua freddezza, l'innamorato alla mala vita e al delitto; e sopratutto la legatura della favella; uella, quella era la gran fattura di Chiarastella! Tutti coloro che avevano una lite, un processo, dove potevano esser sopraffatti dall'avversario o dalla giustizia, dove poteano rimettere i denari, o l'onore, o la libertà, o la vita, ricorrevano disperatamente alla magia di Chiarastella: costei, udito il fatto, se lo giudicava morale, conforme alla volontà di Dio, si prestava a legar la favella dell'avvocato avversario. Consisteva in una cordicina fatturata con tre nodi, quante sono le persone della Trinità, che bisognava trovar modo di metter addosso all'avvocato, in una tasca, nella fodera del vestito, la mattina dell'udienza decisiva: e con l'aiuto delle preghiere, l'avvocato avversario non avrebbe potuto dire essuno dei suoi argomenti, sebbene li avesse in mente, li pensasse: la sua favella era legata, la lite, per lui, era perduta, la fattura aveva raggiunto il suo scopo. Si citavano esempi in cui gli innocenti, gli oppressi, quelli contro cui si esercitava la grande ingiustizia umana, erano stati così salvati da Chiarastella. Ed era da tempo che Carmela e Annarella avevano pensato di ricorrere a Chiarastella; Carmela per ridestare all'amore il cuore di quel Raffaele che non era mai stato suo, e adesso meno che mai; Annarella per indurre Gaetano, suo marito, a non giuocare più al lotto. Carmela, per tentare, ci era già stata, lassù, tre volte, alle Centograde: e per avere la fattura da Chiarastella ci volevano cinque lire per ciascuna, e certi piccoli ingredienti da comperare. Dopo, se le due fatture riuscivano, secondo la volontà di Dio, le due sorelle avrebbero fatto un grosso regalo alla maga. Chiarastella non prometteva mai certamente nulla: ella parlava sempre misticamente e in una forma di dubbio: ella aveva dei profondi silenzi, a certe domande; e pareva che non si curasse del denaro, si contentava solo di poco, per vivere, contando sulla riconoscenza di quelle cui la fattura riesciva, per averne un dono più importante. Dopo… ma intanto dieci lire ci volevano, al minimo, se no, non se ne faceva nulla, e per quante privazioni subissero, in quell'estate così cattiva, giammai le due sorelle avrebbero potuto metter da parte, tutte insieme, dieci lire. Ma i giorni passavano, e le loro miserie morali urgevano quanto le materiali; non trovavano altro rimedio, oramai: e sebbene a malincuore, Carmela si decise a vendere il vecchio cassettone dal piano di marmo, il mobile più importante della sua stanzetta, il cassettone che aveva comprato sua madre, quando era sposa. Ne trovò, a stento, dodici lire: tutti vendevano in quell'estate maledetta, non vi era più un cane che volesse comperare due soldi di roba! La poca biancheria ella la mise in una canestra chiusa, sotto il suo letto, e quei grami vestiti li sospese a una cordicella, attaccata a due chiodi, lungo il muro umido. Ma aveva dodici lire! Fu in una domenica della fine di agosto, dopo aver udito la messa nella chiesa dei Sette Dolori, che le due sorelle si avviarono per il vicolo delle Centograde. Carmela aveva chiusa la casa e ne portava la chiave in tasca; Annarella vi aveva lasciata sua figlia Teresina, che si aggiustava una vesticciuola lacera, dopo esser restata sino a mezzogiorno al lavoro, dalla sarta. Erano otto giorni che Carmela, vagando per Napoli nelle sue ore di libertà, non arrivava a trovare Raffaele: e Gaetano, il marito di Annarella, in quella notte dal sabato alla domenica, non era rientrato a casa. Nella chiesa dei Sette Dolori, inginocchiate innanzi alla panca di legno bruno, dove si mettono i poveri, perché non si paga, esse avevano assai pregato, durante la messa, e ora ascendevano faticosamente gli scalini dell'erta scala che conduce da via Sette Dolori al Corso Vittorio Emanuele, non parlando, comprese in un raccoglimento di vaga speranza e di vaga paura. Chiarastella, la fattucchiara, bitava propriamente in un vicoletto cieco, silenzioso, ma luminoso, a destra della vasta scala che mette in comunicazione la grande arteria della collina, con le piccole vene della Pignasecca, della Carità, di Montesanto. Una gran pace era in quel vicoletto cieco, ma lo scirocco umido di quell'estate aveva bagnato, di un lieve strato di fanghiglia, i ciottoli rotondi del selciato: tanto che vi si camminava con precauzione, per non scivolare, e senza fare alcun rumore. - Ci aspetta? - dimandò a fior di labbro Annarella, che ansimava per le scale fatte. - Sì, - disse anche sottovoce Carmela, entrando nel portoncino. Salirono al primo piano: sullo stretto pianerottolo, vi erano due porte che si prospettavano. Una era chiusa ermeticamente, anzi vi era stato messo il catenaccio, donde pendeva un grosso lucchetto, anche di ferro; pareva che gli abitanti ne fossero partiti, dopo una sventura, serrando per sempre il tetro soggiorno. La porta a sinistra era socchiusa: ma le sorelle, udendo un singhiozzare sommesso, di là, non osarono entrare senza bussare: fu rabbrividendo che Carmela tirò una zampetta bruna di scimmia, attaccata a una catena di ferro a grossi anelli, donde pendeva internamente il campanello: la zampetta nera imbalsamata faceva orrore, era pelosa di sopra, rosea di dentro, sembrava la mano di un bimbo moretto, ammazzato, di cui là si trovasse un brano. Tinnì il campanello, stridulamente e lungamente, quasi non volesse mai tacere: una serva vecchia, decrepita, curva, con un naso aguzzo che pareva si volesse ficcare nella bocca rincagnata, le cui labbra coprivano le gengive senza denti, apparve: e trattenne, con un cenno dell'antico capo, le due donne, nella strettissima anticamera, priva assolutamente di mobili, un po'umida per terra. Il singhiozzare, di là, continuava, dietro un'altra porta chiusa, quasi soffocato: poi si appressò, la porta si schiuse e una ragazza del popolo, una sartina, la bionda Antonietta, attraversò l'anticamera, con lo scialletto che le cadeva dalle spalle, e il volto nascosto nel fazzoletto dove piangeva. Una sua compagna, più piccola, Nannina, le teneva un braccio attorno alla cintura quasi volesse sostenerla, e le andava ripetendo, per consolarla: - Non importa, non importa… Ma quella singhiozzava più forte: la serva decrepita schiuse la porta d'entrata e mise fuori le due ragazze, quasi spingendole: poi disparve, di là, senza dire una parola a Carmela e ad Annarella. Costoro, già turbate dal sentimento che le spingeva a invocare la potenza della fattura, erano state commosse da quel passaggio di quelle fanciulle, una inconsolabile, l'altra invano consolatrice: e appoggiate alla finestrella dell'anticameretta, aspettavano, con gli occhi bassi, con le mani incrociate sul grembiule che tenevano fermi i capi dello scialle, senza dire una parola. Un grande silenzio, intorno, nell'afa umidiccia estiva, in quel lungo pomeriggio domenicale. E Annarella, più dolce, più afflitta e insieme meno appassionata, avendo già curvate le spalle alla fatalità del suo destino, sentendo una sfiducia crescente in qualunque mezzo di salvazione, sapendo che Gaetano non sarebbe mai ricondotto da nessuna preghiera, da nessuna fattura, non provava altro, attraverso la sua malinconia, che una impressione sempre più distinta di spavento. Invece Carmela, dall'animo ardente di amore che nessuna forza arrivava a domare, sentiva l'esaltazione della passione accenderle le fiamme, nell'anima: non temeva, no, avrebbe affrontato qualunque spettacolo, qualunque pericolo per aver a sé, nuovamente, il cuore di Raffaele. Ma la decrepita serva dal corpo piegato ad arco, che pareva si volesse ricongiungere con la terra, era comparsa di nuovo nell'anticameretta e aveva fatto segno a Carmela di entrare. Senza far rumore le due sorelle sparirono nell'altra stanza, la cui porta si chiuse dietro a loro. - Ecco mia sorella, - mormorò Carmela, scostandosi per presentare Annarella che le si trovava alle spalle. Chiarastella fece un cenno col capo, per salutare. La fattucchiara ra una donna di media statura, piuttosto piccola che grande, molto magra, con certe mani brune, lunghe e sottili, la cui pelle attaccata alle ossa si era fatta lucida: il corpo aveva movimenti automatici, quasi che una volontà ne irrigidisse ogni muscolo: la testa era piccola e il volto corto, coi pomelli forti e rossi, con le mascelle salienti: la carnagione era di un pallor livido e caldo, il naso all'insù, breve. Ma l'interessante, nel volto nevrotico della fattucchiara, rano un par d'occhi dallo sguardo mobilissimo, la cui tinta variava dal bigio al verdastro, ma dove si vedeva sempre un punto luminoso, una scintilla: uno sguardo che riassumeva in sé tutta la vitalità della persona. Sembrava che avesse quaranta e più anni, Chiarastella, i cui capelli si conservavano nerissimi e la cui fronte era tagliata da una sola ruga, profonda; ma quando lo sguardo le si accendeva, come una irradiazione di giovinezza si faceva sul suo volto e sulla sua persona. Portava un vestito di lana nera, assai semplice, nel taglio delle vesti che portano le popolane, tal quale: solo era guarnito di bottoni di seta bianca e un nastro di seta bianca le pendeva dalla cintura, in un fiocco e due lunghi capi, sul fianco. Il bianco e il nero sono i colori del voto alla Madonna Addolorata. Un grosso, ritorto corno di corallo rosso le pendeva dal collo, attaccato a un cordoncino sottile di seta nera: e nei suoi gesti a scatto la fattucchiara occava occavacon le dita, ogni tanto, questo corno. Stava seduta, accanto a una larga tavola di noce, su cui era posata una scatola di ferro, di acuto lavoro artistico, una scatola di lavoro antico, chiusa: accanto ad essa un grosso gatto nero, raccolte le zampe sotto la pancia, dormiva. E intorno, nella piccola stanza, non vi era che un divanetto di percalla, dal disegno scolorito, e cinque o sei sedie, niente altro. Sul muro un crocifisso di legno nero, su cui un Cristo di avorio scolpito, un altro oggetto di arte. Ella taceva, con gli occhi abbassati: e le due sorelle sentivano l'approssimamento, l'invasione di un gran mistero. - Abbiamo portato le dieci lire, - disse timidamente Carmela, cavandole dalla cocca del fazzoletto e posandole sulla tavola, accanto alla mano di Chiarastella. La fattucchiara on batté palpebra: solo il gatto nero levò il capo, mostrando i begli occhi gialli come l'ambra. - Avete intesa la messa? - chiese Chiarastella, senza voltarsi. - Sì, - mormorarono le due sorelle. Ella aveva una voce bassa e roca; una di quelle voci muliebri che paiono sempre cariche di una intensa emozione, e che producono una vibrazione nel cervello, nell'animo di chi ascolta. - Dite tre Avemarie, re Pater noster, re Gloria patri, d alta voce. In piedi, innanzi ad essa, le due sorelle dicevano le sacre parole delle orazioni: ella stessa le diceva, con la sua vibrante voce, con le mani congiunte a preghiera, nel grembo, sul grembiale di lana nera. Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

- domandò macchinalmente il lustrino, abbassando la lista delle sue bollette. - Sì, proprio! - rispose l'altro sogghignando. - Ho voglia di lustro, io. Se avevo un altro paio di soldi, oggi, avrei giocato un ultimo biglietto da donna Caterina. - Gioco piccolo? - chiese sottovoce il lustrino. - Già: un poco al Governo e un poco a donna Caterina. - Sono tutti ladri, tutti ladri, - soggiunse poi l'operaio masticando il suo mozzicone nero e crollando la testa, con un atto di suprema sfiducia. - Hai fatto mezza festa, oggi? Non sei andato a tagliar guanti? - Non ci vado mai, di sabato, - fece l'altro, abbozzando un pallido sorriso. - Vado a cercar fortuna: l'ho da trovare, un sabato mattina! - E i denari della settimana, quando li prendi? - Eh! - disse l'operaio, levando una spalla, - per lo più al venerdì, non ho da prender niente. - Come fai a giocare? - Per giocare si trova sempre. La sorella di donna Caterina, quella del gioco piccolo, à denaro in prestito… - Interesse forte? - Un soldo a lira, ogni settimana. - Non ci è male, non ci è male, - disse il lustrino, con aria convinta. - Io le ho da dare settantacinque lire, - rispose il tagliatore di guanti, - e ogni lunedì è una tempesta. Mi aspetta fuori la porta della fabbrica, grida, bestemmia. Michele: è proprio una strega. Ma che ci posso fare? Un giorno o l'altro prenderò un terno e la pagherò… - E del resto della vincita, che ne fai? - domandò Michele, ridendo. - Lo so io che ne fo! - esclamò Gaetano, il tagliatore. - Col vestito nuovo, con la penna di fagiano al cappelletto, nella carrozza coi sonagli, andiamo tutti a scialare ai Due Pulcinelli, l Campo di Marte. - O dal Figlio di Pietro, Posillipo… - O da Asso di coppe, Portici… - Taverna per taverna… - Carne e maccheroni… - E vino del Monte di Procida. - Tanto, una volta sola si campa, - concluse filosoficamente il tagliatore di guanti, rialzandosi la giacchetta sulla spalla. - Io non faccio debiti, - soggiunse, dopo un minuto di silenzio, il lustrino. - Beato te! - Tanto, non troverei chi mi presti un soldo. Ma gioco tutto. Non ho famiglia, posso fare quello che mi piace. - Beato te! - ripeté Gaetano, il cui volto si era turbato. - Tre soldi per dormire, otto o dieci soldi per mangiare, - continuò il lustrino, - e chi mi dice niente? Ah, io non l'ho voluta prendere, la moglie, io! Avevo la passione della giuocata, io, e mi basta per tutto! - Sia ucciso chi ha inventato il matrimonio! - bestemmiò Gaetano, facendosi terreo. Le quattro si approssimavano e il cortile dell'Impresa si riempiva di gente. In quel centinaio di metri di spazio, una folla popolana s'infittiva, chiacchierando vivacemente, o aspettando in silenzio, rassegnatamente, guardando lassù, al primo piano, la terrazzina coperta, dove si doveva fare l'estrazione. Ma tutto era chiuso, lassù, anche le imposte di legno, dietro i cristalli del grande balcone. Come altra gente arrivava, sempre, la folla giungeva sino alla muraglia del cortile: delle donne respinte, si erano accoccolate sui primi scalini della scala: qualcuna, più vergognosa, si nascondeva sotto il terrazzino, fra i pilastri che lo sostenevano, addossandosi alla porta chiusa di una grande stalla. Un'altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po' malinconici, un po' stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d'inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d'impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell'estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l'estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l'opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, rano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell'estremo avvilimento. Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. Più tardi, come maggiormente si appressava l'ora dell'estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un'ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l'orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d'oro, con un grosso medaglione d'oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gaie di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d'oro sino alla metà della seconda falange. L'occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell'attraversare la folla, nell'andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po' civettuola, un po' mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò: ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero: le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato. Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, opra la folla del cortile, dell'androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Il vecchio reprimeva a stento un fiotto di collera che gli saliva al cervello, e andava a sedersi poco distante, piegando le braccia sul petto, abbassando il capo, rassegnandosi, umiliandosi. Solo Margherita otteneva risposta, quando chiedeva qualche cosa a Bianca Maria, se volesse bere di quella forte bibita, marsala, uovo battuto e brodo, che si dà agli ammalati di tifo, se volesse far cambiare la vescica del ghiaccio. La fanciulla, senz'aprir gli occhi, rispondeva sì, no, con il movimento della mano sottile: e il marchese Cavalcanti era costretto, per saper qualche cosa, a interrogare la faccia della vecchia cameriera. In certi momenti, disperato di quell'ostinato ostracismo, usciva dalla stanzetta di Bianca Maria e si metteva a passeggiare nel salone: spesso i suoi passi agitati facevano troppo rumore e sulla soglia compariva il viso inquieto di Margherita: egli si fermava: ella gli faceva cenno di chetarsi, il rumore dava dolore a Bianca Maria. - Anche qui, le do fastidio? - chiedeva lui, fremente. E poiché la cameriera Margherita assentiva, sì, era vero, anche da lontano egli la faceva soffrire, per reprimere un impulso d'ira, egli prendeva il cappello e usciva di casa. Allora l'appartamento ricadeva nella grande taciturnità: Giovanni sonnecchiava tristemente in anticamera, mentre Margherita si piegava sul viso pallido e bruciante dell'ammalata, per soffiarle qualche dolce parola. Facendo uno sforzo, la povera figliuola sorrideva, un minuto secondo: e la vecchia serva appagata, tornava a sedersi, mormorando fra sé le parole delle orazioni, senza distogliere lo sguardo da Bianca Maria. Tardi, tardi, dopo aver errato nelle vie, stancandosi a camminare, mal vestito, spettinato, avendo perduto tutta la dignità della persona, irriconoscibile, il marchese Cavalcanti tornava a casa, trovando la porta aperta, quasi che avessero udito da lungi il suo passo. Margherita veniva a lui, nell'ombra, col suo passo di fantasma. - Come sta? - Lo stesso, - sospirava ella. - Che dice il medico? - Neve e chinino. Ha chiesto ancora del dottor Amati. - Vi ho detto di non nominarmi mai quell'infame! - esclamava il marchese. - Ssst! - zittiva lei, rispettosamente. E se ne andava. Il marchese era preso da un'angoscia così profonda, che l'antica fede rinascendogli nel cuore, cercava dove inginocchiarsi a pregare il Signore, perché gli salvasse la figlia, perché gli levasse quella tortura. Ahimè, la stanzetta che faceva da cappella, prima, e dove, tante volte, Bianca Maria e lui avevano pregato insieme, era deserta; egli, dopo aver ingiuriato i santi e la Madonna, dopo aver commesso il sacrilegio di punire l' Ecce Homo, veva vevavenduto i santi, la Madonna e l' Ecce Homo er giuocarne il denaro al lotto. Non vi erano più santi protettori in casa Cavalcanti, la Madonna e il suo Divino Figliuolo ne avevano ritratto gli occhi, addolorati dall'ingiuria. Niente più, niente più, in quella casa. In questi ultimi tempi, nella malattia della povera fanciulla, erano vissuti di elemosina, vale a dire di certi scarsi sussidi, che la pietà dei larghi parenti, che la inesauribile pietà della moglie di don Gennaro Parascandolo, lo strozzino, concedeva alle preghiere e alle lacrime di Margherita e Giovanni, i due servi. Stendevano la mano, adesso, i Cavalcanti! Da molte settimane egli non aveva più denaro per giuocare, e fuggiva il Banco lotto di don Crescenzo, perché non aveva le molte lire da restituirgli, che gli doveva: ma quando veniva il venerdì, pur sapendo che essi eran ridotti, alla privata mendicità, pur sapendo che era un delitto familiare, quello che commetteva, egli giungeva a scongiurare Margherita che gli desse due lire, una lira, per giuocare. Solo quel venerdì, primo della malattia di Bianca Maria, non aveva osato: egli era colpito inguaribilmente, quel corpo di fanciulla disteso su quello che sarebbe stato forse il letto dì morte, quella testa schiacciata sotto la grossa vescica del ghiaccio, quel profilo stirato, come assottigliato da una mano interna, quelle sopracciglia che si aggrottavano solamente a udire la sua voce e quella mano, quella mano, sovrattutto, che lo scacciava continuamente, ostinatamente, in preda a un muto ed energico orrore: tutto ciò aveva atterrato le ultime energie della sua vecchiaia. Le malattie dei vecchi impensieriscono e immalinconiscono i vecchi, ma le malattie dei giovani li sgomentano, come un fatto contro l'ordine della natura. Ah in questi minuti di angoscia, egli si sentiva così debole, così antico, così consumato, organismo senza vitalità, lampada senz'olio: e vacillante, tremante, senza neppure guardare dalla parte del letto di sua figlia, egli veniva a sedersi al suo solito posto, abbandonandosi come se dovesse colà aspettare la morte. Una sola cosa era capace di ridargli un lampo di energia, cioè un lampo di odio: ed era il nome di quell'esecrato dottore, ripetuto ogni tanto dal medico, o ripetuto dai suoi servi, ripetuto malgrado le sue proibizioni. Ella, Bianca Maria, non lo aveva mai pronunziato. Nelle lugubri convulsioni che avevano preludiato a quel tifo, ella aveva lungamente delirato, lungamente gridato, chiamando sua madre, mamma, mamma, ome il fanciullo in pericolo, come il fanciullo che si perde. Niente altro. Invano, in quei farfugliamenti bassi, in quei borbottamenti confusi, in quei lunghi, incomposti balbettii, egli aveva teso l'orecchio per udire il proprio nome o quello dell'infame, che gli aveva tolto il cuore di sua figlia: ella aveva sempre chiamato sua madre, nessun altro. Ed egli tremava, tremava di udirle uscire dal labbro quel nome, conservando ancora, nella vecchiaia, nella stanchezza, nella debolezza crescente. quella collera sorda, quel rancore implacabile. Talvolta, quando il delirio cresceva, e lo perseguitava, egli fuggiva via dalla stanza, turandosi le orecchie, temendo sempre che ella invocasse quel nome. Fuori, stava così, aspettando, incerto, agitatissimo. - Di che parla? - chiedeva a Margherita. quando costei usciva dalla stanza, stordita, sgomenta. - Vuole sua madre, - mormorava l'altra, piangendo in silenzio, poiché quello le pareva un augurio di morte. E il tifo andava completando la sua prima settimana, resistendo al ghiaccio, resistendo al chinino, mantenendosi tra i quaranta e i quarantuno gradi, come se il mercurio del termometro si fosse immobilizzato su quella cifra lugubre, colonna funerea, che nulla valeva più a fare scemare. - Quanto? - domandava, con gli occhi ansiosi, il vecchio padre a Margherita che osservava il termometro, posto a contatto delle pelle rovente della malata. - Quaranta, - mormorava ella, sottovoce, con una desolazione infinita. Cifra implacabile! Per diminuire quel bruciore che consumava il sangue e le fibre di Bianca Maria, visto che il chinino preso per bocca, a grandi dosi, non aveva nessun benefico effetto, adesso il chinino era iniettato, con la minuta e leggiadra siringhetta d'argento, nelle magre braccia dell'ammalata. Senz'aver la forza di aprire gli occhi, ella si levava a stento, sorretta sui cuscini, sollevata nelle braccia di Margherita, e il capo le vacillava, e i neri capelli, attaccati alle tempie e al collo, stillavano l'umidità del freddo che dava la vescica di ghiaccio. Le dovevano sostenere anche il capo, che si abbandonava; e denudato il povero braccio, tutto punzecchiato dall'ago di argento, una nuova puntura, bruciante, dolorosa, si aggiungeva alle altre: ella trasaliva solo leggermente, come se nessun dolore fosse più grave di quel sonno. Talvolta apriva gli occhi: e li fissava nel volto delle persone, così tristi nella espressione di stanchezza, così torbidi nel colore, così aridi e così indifferenti oramai a tutti gli spettacoli umani, che un loro sguardo stringeva il cuore. Pareva che avessero esaurito la fonte delle lagrime. Quando il padre e Margherita si vedeano innanzi quei dolorosi occhi, trasalivano. - Figlia mia, figlia mia, - diceva il vecchio, tenendole le mani. Ed ella, infastidita, stanca, riabbassava le palpebre, subito, s'immergeva di nuovo in quello stordimento, dove le sue due forme di vitalità erano il respiro affannoso e il calore della temperatura. Raramente le iniezioni di chinino arrivavano a diminuire il calore della febbre: era una variazione minima, scorante. Solo, nel mattino del decimo giorno, ella parve a un tratto migliorata: era sonno invece di torpore. E nel sonno confortante, un gelido sudore le scorreva dalla fronte, che delicatamente Margherita le rasciugava. La povera vecchia seguiva trepidante ogni minuto di quel sonno, come se da quello, ella intuisse dover dipendere la vita di Bianca Maria: e mentre pregava, mentalmente, la sua attenzione era su quel volto amato, affilato dalla infermità, che sembrava riacquistasse una novella vivacità. Mentre il benefico riposo durava, l'orecchio vigile di Margherita udì un rumore nell'appartamento. Si levò e in punta di piedi uscì fuori: era il marchese di Formosa che rientrava e la interrogava con gli occhi, ansiosamente. - Riposa: sta meglio: sta molto meglio, - mormorò la povera vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, per raccomandare il silenzio. Gli aridi occhi del padre si riempirono di lacrime: era la prima buona notizia, in dieci giorni di angoscia, di sgomento. Anch'egli entrò nella stanza di sua figlia, sedendo al suo solito posto, sogguardando quel viso magro, su cui la gran tensione nervosa pareva avesse ceduto a una crisi benefaciente. Margherita, per non turbare il sonno di Bianca Maria, non osava adoperare il termometro per sapere a che grado fosse la temperatura, ma il cuore le diceva che la febbre aveva certamente ceduto. Così, senza parlare, ella pregando mentalmente, il marchese Cavalcanti ritrovando ancora in fondo alla sua coscienza annebbiata qualche brandello di orazione, passarono due ore a sorvegliare il pacifico sonno della malata. Era l'imbrunire, quando ella aprì gli occhi, i grandi occhi che erano stati chiusi per dieci giorni, dalla mano di piombo rovente della febbre; e subito Margherita si piegò su lei, interrogando: - Come vi sentite? Il suo stupore fu che la fanciulla, invece di rispondere con un cenno della mano o della testa, dicesse con una voce fievole: - Meglio… Adesso anche il marchese Cavalcanti era accorso vicino al letto e, tremante di gioia, ripeteva: - Figliuola mia, figliuola mia. - Volete qualche cosa? - chiese la cameriera, per udire un'altra volta quella sottile voce, che le era andata al cuore. - Niente: sto meglio, - mormorò l'ammalata, con un sospiro di sollievo, dal petto liberato. Il padre le aveva preso una mano, guardando teneramente la sua fanciulla. Ed ella, che da dieci giorni lo scacciava dal suo letto, con lo sguardo e col gesto della mano, questa volta gli sorrise. Fu una luce rapidissima. Egli non sapeva dire altro, balbettando: - Figlia mia, figlia mia… E Margherita uscì dalla stanza, lietamente, come se la sua giovane padrona fosse salva, salva per sempre dall'orribile pericolo in cui aveva versato, per dieci giorni. Ora il marchese Cavalcanti si era seduto al capezzale dell'inferma, e tenendone la sottilissima mano fra le mani, sentiva ogni tanto le dita scarne della sua creatura appoggiantesi un po' di più sulle sue, a espressione di affettuosa carezza. Due o tre volte, egli si era chinato e le aveva domandato: - Vuoi qualche cosa? Ella non aveva risposto, ma quel lume fugacissimo di sorriso era riapparso. Era già notte e i visi non si distinguevano più, quando a una novella domanda del vecchio padre, Bianca Maria rispose: - Sì. - Che vuoi? Dillo subito. - Voglio il dottore, - ella disse. - Ti senti male? chiese il vecchio, fraintendendo. - No: voglio il dottor Amati. Il padre mise dalle sue la mano della figliuola sulla coltre, ma non disse nulla. - Hai inteso? Voglio il dottor Amati, - ella ripetette, con voce più alta, ma dove già un turbamento fremeva. - No, figlia mia, - egli rispose, cercando di frenarsi, pensando alla malattia, pensando al pericolo. - Voglio il dottor Amati, - diss'ella a voce forte, levando la testa dal cuscino, con un moto singolare. E parve anzi al vecchio che ella avesse digrignato i denti, dopo aver pronunziato, per la quarta volta, la sua strana richiesta. - Non è possibile, figliuola, - mormorò lui, cercando di domare la propria collera bollente. - Va a chiamare il dottor Amati, va subito! - gridò ella, come se gli comandasse. - Tu sei pazza! - gridò lui, levandosi. - Non andrò mai. - Sì, sì, sì, - urlò lei, sollevata sul cuscino, colle pugna chiuse che stringevano convulsamente il lenzuolo, - tu andrai subito, e lo porterai qui, subito, Amati, io lo voglio, vicino a me, sempre con me, va subito! - No, no, no, - urlò lui, a sua posta, senza capire più nulla, - egli non metterà mai piede qua dentro, finché io sono vivo. Margherita era accorsa, sconvolta, un'altra volta disperata, ma più disperata ancora, della novella piega che aveva presa la malattia. Appena la vide comparire, Bianca Maria le gridò: - Margherita, se mi vuoi bene, va a chiamare il dottor Amati! - Te lo proibisco, hai capito? - strillò alla cameriera il vecchio marchese, così esasperato, che le mani gli tremavano, gli occhi lanciavano scintille. - Per carità, signorina, non vi agitate, considerate che parlate a vostro padre.., per carità, Eccellenza, pensate che la signorina è ammalata… non ragiona… - diceva Margherita, piangendo. - Io non sono pazza, io voglio il dottor Amati, - gridò ancora la fanciulla, stringendo le pugna, digrignando i denti, roteando così convulsamente gli occhi, che pareva si vedesse solo il bianco della cornea. - Oh Madonna mia, oh Madonna mia! - continuava a piangere Margherita. - Per carità, per carità, se mi volete bene, andate a chiamare il dottor Amati, - singultava l'inferma, col capo abbandonato, che ogni tanto si sollevava, sbattendo sul cuscino. - È pazza, è pazza, - gridava il vecchio frenetico. - Signore mio, andatevene fuori, ve ne prego, andatevene fuori, - supplicava Margherita, vedendo che la figliuola fissava i suoi occhi, ora carichi di un'intensa collera, ora di un intenso dolore, sul padre e che ciò lo rendeva anche più frenetico. - Me ne vado, me ne vado, ma essa non lo vedrà, il dottor Amati! - gridava, lui, uscendo fuori, sentendo di non regger più. Ma dal salone dove egli aveva portato il suo furore, egli udì un urlo alto, lungo, straziante, come se all'inferma le si attanagliasse la carne: e dopo, altre grida, più basse, ma strazianti ugualmente, tanto vibrava in esse un lamento di dolore insopportabile, e parole alte e basse, che gli arrivavano confusamente. La fanciulla era caduta in convulsioni: a un tratto il rumore si chetava ed allora, tremando ancora, di una complessa emozione d'ira, di pietà, di paura, egli si avvicinava alla stanza, ma non entrava, chiamando la cameriera sulla porta. - Come sta? - Peggio, peggio, - diceva ella, piangendo silenziosamente. - Ma che dice? - Vuole il dottor Amati. - Questo, mai. I brevi dialoghi, però, malgrado che la inferma fosse immersa, a intervalli, in un coma profondo, erano uditi da lei: e due volte, uscendo dal quel torpore, le alte grida erano scoppiate, di nuovo, nella convulsione di tutti i muscoli, specialmente nella spaventosa contrattura di quelli della nuca. Attraverso le grida, quel nome, quel nome che la povera creatura aveva adorato per tanto tempo in segreto, quel nome che era stato per lei il segno della salvazione, quel nome ricompariva, sempre, ostinatamente, in quel delirio, proclamato dall'anima che non conosceva più vincoli, pronunziato imperiosamente, dolcemente, disperatamente, con tale impeto di amore, che Margherita e Giovanni che accorrevano per frenare le braccia della convulsa, si sentivano schiantare il cuore. Di là, come l'inferma levava la voce, ora stridula, ora grave, a invocare il dottore Amati, il marchese Cavalcanti trasaliva, e fremeva di quell'odio ostinato e cieco dei vecchi, che non sanno perdonare. Invano, invano egli cercava di distrarsi, di non udire, di non sentire il dolore disperato di quella invocazione; invano egli chinava il capo, turandosi le orecchie, fuggito nell'ultima stanza dell'appartamento: gli giungeva sempre quel lamento clamoroso, fitto, che nulla arrivava a sopire. Era un incubo, oramai: e malgrado la distanza, malgrado le porte chiuse, egli udiva distintamente, precisamente, le parole di amore e di dolore con cui Bianca Maria invocava il dottor Amati; le parole gli si imprimevano nella mente, gli martellavano il cervello, come una persecuzione. Ciò continuava da un ora e mezzo ed ella non si chetava, non taceva, trovando nuova forza nervosa, per chiamare, per chiamare, come se la sua voce, come se la sua chiamata dovesse passare attraverso le mura, attraverso le strade, dovesse arrivare sino all'uomo che ella voleva, per salvarsi. Ah che incubo, che incubo, udire il delirio della sua figliuola, la quale lo scacciava dal suo tetto e disperatamente faceva appello a un altro uomo! Ogni tanto, come per far finire quella follia parlante, invocante, egli si appressava alla porta della stanzetta, e udiva la voce piana di Margherita che, tenendo abbracciata la sua padrona, cercava di calmarla, mentre costei seguitava, quasi che non avesse più orecchie per altre voci, quasi che ella dovesse chiamare il dottor Amati fino a che lo vedesse comparire nella sua stanza. E il vecchio padre si allontanava, furioso e disperato, tremando di collera e tremando di angoscia, non sapendo più che fare, ora avvilito, ora feroce, indomito sempre, conservando il suo odio, non sapendo placarsi, col sangue che gli bolliva nelle vene, e con un'ambascia che l'opprimeva. Ma a un certo punto, udì suonare il campanello ed entrare qualcuno nell'appartamento e poi nella stanza di Bianca Maria. Formosa restò immobile, stupefatto. Chi era entrato, dunque? Quando Margherita apparve nella stanza ove egli si era rifugiato e lo chiamò con un cenno, egli la seguì, docilmente. Presso il letto dell'ammalata, tenendole le braccia convulse e guardandola negli occhi, era il medico curante, il Morelli, che la povera cameriera aveva chiamato. Ma Bianca Maria, anche sotto le mani ferme del medico, anche sotto il suo sguardo scrutatore, continuava a tremare, convulsamente il capo le si sollevava dal guanciale, dal collo che si tendeva, irrigidendosi: e poi la testa ricadeva di nuovo, accasciata, con un continuo piccolo movimento di va e vieni, mentre instancabilmente ella continuava a dire, ora pian piano, ora acutamente: - Amati… Amati…Amati…voglio Amati… - Ma che ha? - domandò il vecchio padre, congiungendo le mani, con le lacrime negli occhi. - Ha dovuto avere un forte eccitamento, due o tre ore fa, non è vero? - Sì… - Per qualche spavento, per qualche rumore…? - No…non so… - Ma si è esaltata? Ha gridato? - Sì… - Perché l'avete lasciata esaltare? Perché non l'avete contentata in quel che voleva? Sapevate quale pericolo correva vostra figlia! - Io non so…, non so nulla.., che volete che io sappia? - gridò il vecchio, stendendo le mani, implorando come un fanciullo. - Il pericolo della meningite, - disse il medico, a denti stretti. Adesso l'inferma aveva socchiusi gli occhi; il medico le divaricò le pupille: l'occhio apparve vitreo, immobile, come si era immobilizzata tutta la persona. - Dottore, ma che, è morta? - urlò il vecchio, come pazzo. - Paralisi temporanea: è la meningite. - E che si fa? - Eh vedremo. Intanto, vi prego, fate chiamare il dottor Amati. Il vecchio lo guardò, sconvolto. - Che dite? - Mandate a chiamare Amati. Non vedete che ella lo vuole? - …è in delirio. - Sissignore: ma quando lo ha chiesto, doveva esser ragionevole: e anche in delirio, dovete ubbidire, marchese. - Ubbidire? - Vostra figlia è in istato grave, è meglio contentarla… - In istato grave? - Potete perderla, da un'ora all'altra: essa non ha forza, per resistere alla meningite. - Dottore, dottore, non dite questo!. - Oh caro marchese, volete che vi dica la verità? Tanto la povera paziente non può udirci. Voi vi siete negato di chiamare Amati, prima: poi, avete lasciato che la signorina arrivasse a questo stato di esasperazione… Non vorrete continuare in questa negazione, la ragazza muore. - Oh Dio sacrato!… - bestemmiò il marchese. - Andrò io, da Amati… -… non verrà. - Ma perché? Non era il medico curante? E un galantuomo, è un gran medico. -… non verrà. - E andateci voi, marchese. Ora, mentre Cavalcanti faceva un atto di disperazione, la malata si era riscossa, e di nuovo rapidamente, a denti stretti, si era messa a dire: - Amati…Amati… voglio Amati… - Sentite? - disse Morelli. - Ma io non posso, - gridò Cavalcanti, - ma io ho cacciato quell'uomo di casa, non ho voluto che mia figlia lo sposasse, non posso umiliarmi a lui. - Sta bene, ma la fanciulla muore… - disse il medico, trattenendo le mani battenti della fanciulla. - Andate a chiamare Amati, per carità, per amore di Dio, non mi abbandonate, chiamate Amati, - gemeva l'inferma. - Oh Dio! che castigo, che castigo! - esclamava il vecchio, con le mani nei capelli; - ma, dottore, fatele qualche cosa, non la lasciate morire!. - Amati… Amati… voglio Amati, - ella diceva, delirando, stravolgendo paurosamente gli occhi. E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

. - Non è andato a letto… credo… - mormorò, abbassando gli occhi. - No, Eccellenza, - disse il vecchio servitore. In questo sopraggiunse Margherita e disse qualche cosa frettolosamente al marito, che annuì e disparve nella cucina. - Ho pregato Giovanni, che tirasse lui il secchio dell'acqua, dal pozzo, stamane, - spiegò la vecchia cameriera. - Stamane non ho forza. - Poveretta, ti stanchi troppo, - osservò pietosamente Bianca Maria, con gli occhi pieni di lacrime. - Sono un po' vecchia: ma per voi farei qualunque cosa, Eccellenza, - disse la fedele, con voce materna. - Ma non so che cosa abbia, il secchio, stamane: è così pesante, che non lo posso tirare su: ho pregato Giovanni che ha più forza, a prendere il mio posto. E ambedue andarono di là, perché Margherita ci teneva all'onore di pettinare le belle e folte trecce nere di Bianca Maria. Anche la pettinatura fu interrotta da Giovanni che, non osando entrare, chiamava fuori Margherita e parlottarono fra loro, qualche tempo, mentre Bianca Maria aspettava, coi capelli neri disciolti sul bianco accappatoio. Margherita ritornò, turbata, e tremava, tenendo il pettine: - Che è? - chiese Bianca Maria. - Niente, niente, - mormorò in fretta, la cameriera. - Dimmi, che è? - insistè l'altra, guardando la vecchia. - È che neppure Giovanni, ha potuto tirar su il secchio... - Ebbene?... - Giovanni dice.., dice, che vi è un ostacolo. - Un ostacolo? - Ha chiamato Francesco il facchino… tireranno su insieme… forse vinceranno l'ostacolo... - Che ostacolo? - balbettò la fanciulla, impallidendo mortalmente. - Non so, signorina… non so, - disse la vecchia, tentando di ricominciare a pettinarla. - No. - disse quella risolutamente, scartando la mano col pettine e raccogliendo sulla testa i capelli con le forcinelle. - No, andiamo di là. - Eccellenza, Eccellenza, che ci andiamo a fare? Vi sono Giovanni e Francesco… restiamo qui. - Andiamo di là, - insistette la fanciulla, avviandosi verso la grande cucina. Il vecchio Giovanni e il facchino Francesco, in maniche di camicia, tiravano con tutte le loro forze la fune: e la fune saliva con un moto impercettibile, con uno scricchiolìo, come se si spezzasse. Ma tanto sulla faccia del vecchio servitore Giovanni come sulla faccia del facchino Francesco, oltre il senso della grossa fatica che duravano, si leggeva una grande paura. Ogni tanto, coi fianchi ansimanti e le braccia che s'irrigidivano, si fermavano dal tirare e si guardavano, scambiando un'occhiata spaventata. Dalla soglia della cucina, avvolta nell'accappatoio bianco e coi capelli mezzo disciolti, Bianca Maria li guardava fare, mentre Margherita la cameriera, alle sue spalle, la veniva pregando, sottovoce, perché se ne andasse, se voleva bene alla Madonna, perché se ne andasse, in nome di Dio. - Ma infine, che sarà? - disse con fermezza Bianca Maria, rivolgendosi ai due uomini, a cui il crescente timore troncava le forze. - Che vi posso dire, Eccellenza? - balbettò Giovanni, - questo peso non è cosa buona... Ma mentre tutti tenevano gli occhi fissi sul pozzo, in una angosciosa aspettazione, avendo tutto lo spasimo di quell'attesa e tutta la paura dell'ignoto, la cosa he i due uomini tiravano su, urtò fragorosamente, due volte, a destra e a sinistra, nelle pareti del pozzo: e il grave rumor sordo si ripercosse nel cuore di Bianca Maria, poiché era identico a quello che aveva udito nella notte. Un piccolo grido di spavento le uscì dalla bocca ed ella strinse le mani, fino a farsi entrare le unghie nella carne, per soffocare innanzi a quei servi il suo terrore. Ma ancora una volta con un rumore più forte, più vicino, la cosa attè contro la parete del pozzo. - Sta venendo, - disse il facchino paurosamente. - Sta venendo, - ripetette Giovanni, costernato. E alle spalle di Bianca Maria che non poteva più domare i suoi nervi eccitati, Margherita pregava, sottovoce, tremando: - Madonna, assistici; Madonna, scampaci! Ma quello che apparve all'orlo del pozzo, barcollando, vacillando, con la fune del secchio che gli girava tre volte intorno al collo, con la catena del secchio che gli pendeva sul petto, la fece urlare di paura. Era un tronco d'uomo, dalla fronte stillante acqua e sangue sulle guance dolorose, dal torace nudo, stillante a rivoli sangue e acqua dal costato ferito, e negli occhi aveva sangue e lagrime, e la faccia e il petto avevano il livido colore della carne dei morti. Urlando di spavento, Francesco e Giovanni fuggirono, chiamando aiuto, aiuto: rlando di paura, le due donne, padrona e cameriera, erano fuggite nel salone tenendosi abbracciate, l'una con la faccia nascosta sul petto dell'altra, non osando levare il volto, perseguitate da quella orribile visione di tronco di assassinato. E il tronco tutto livido, tutto sanguinante nel viso, e nel petto, e nelle braccia avvinte, con l'espressione desolata dei suoi occhi, della sua bocca socchiusa quasi a un singulto, gocciando acqua e sangue, restò appoggiato sul parapetto, legato dalla fune, legato dalla catena. Il facchino e il servitore si erano buttati verso le scale gridando che vi era un morto, che vi era un morto ucciso: e subito nella scala, nel portone, nel vicinato, si diffuse la voce che nel pozzo del palazzo Rossi, era stato trovato il cadavere di un assassinato. Tutti avevano aperte le porte di casa, tutti erano alle finestre: ma il racconto confuso e tremante che facevano Francesco e Giovanni, aveva tanto comunicativo spavento, che nessuno osava penetrare nella casa aperta del marchese Cavalcanti e nella cucina dove il cadavere giaceva, abbandonato. Nel salone, le due donne si tenevano sempre strette, tremando, mentre Margherita cercava di vincersi per amore della sua padrona, il cui corpo, nelle sue braccia, ella sentiva a volte ammollirsi come per mancanza di spiriti vitali, a volte irrigidirsi, come in un impulso di convulsione nervosa. Ma il gran susurro del palazzo, dal portone era giunto anche in casa del dottore, che aveva il cuore sempre fremente nell'aspettativa di una catastrofe: messo il capo alla finestra, vide gente dovunque e confusamente arrivò, anche a lui, la vociferazione che s'era trovato un morto, ucciso, nel pozzo del palazzo Rossi e che il morto era nella cucina di casa Cavalcanti. Giusto, Giovanni, ripensando alle due donne lasciate sole, pentito di quel gran chiasso, intendendo che tutto quello scandalo sarebbe ricaduto sulla famiglia Cavalcanti, risaliva le scale: - Veramente, ci è un morto? - gli chiese Amati, non arrivando a nascondere, malgrado la propria forza, il turbamento che lo aveva colpito. - Veramente, Eccellenza, - disse il cameriere, con la disperazione negli occhi e nella voce. - Chi lo ha visto? - Tutti, Eccellenza. - Chi, tutti? Anche la signorina? - Anche la signorina. Il dottore gli gettò una occhiata terribile ed entrò nella casa fatale, dove un fiato tragico aveva sempre soffiato dal primo momento che vi aveva posto il piede, dove tutte le lugubri bizzarrie parevano possibili. Girò per le stanze, come un pazzo, in cerca della fanciulla e la trovò seduta in un seggiolone del salone, così pallida, così stravolta e così muta che Margherita, sgomenta, le si era inginocchiata dinanzi, tenendole le mani, pregandola che le dicesse una parola, solo una parola. Bianca Maria diè un'occhiata ad Amati e parve non lo riconoscesse, tanto rimase fredda e inerte, fissa nella sua espressione di spavento. - Bianca! - disse il medico, con voce dolce. Ella seguitò a tacere. - Bianca! - replicò lui, più forte. E le prese la mano: a quel lieve contatto ella fremette, diè in un grido, ritornando in sé stessa. - Amor mio, amor mio, parla, piangi, - suggerì lui, guardandola magneticamente, cercando di trasfonderle la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. E a un tratto, come se quella volontà e quella forza le avessero dissuggellate le labbra, ella si mise a gridare: - Il morto, portatelo via, il morto! - Ora, ora, non temere, lo portiamo via, sta calma, - le disse il medico. - Il morto, il morto! - gridava lei, con la faccia fra le mani, convulsamente. - Per carità, portatelo via, questo morto, o mi porterà via! Non mi fare portar via, te ne supplico, amor mio, se mi vuoi bene! Con uno sguardo il dottore raccomandò la fanciulla a Margherita e, seguito da Giovanni, andò in cucina: in anticamera vi erano già due o tre persone che parlavano di chiamare il delegato, il portiere, la portiera, le serve di casa Fragalà e di casa Parascandolo, Francesco il facchino, ma nessuno di essi, pure seguendo il dottore, osò entrare nella cucina: lo lasciarono andar solo, aspettando nell'anticucina, in silenzio, vinti, di nuovo, da una gran paura. Il medico, pur avvezzo ai cadaveri, scosso da quella catastrofe che lo feriva intimamente, demoralizzato dal pensiero delle sue conseguenze, entrò in cucina, in preda al più profondo dei turbamenti, che la vista di quella fronte sanguinante, di quelli occhi piangenti, di quelle mani legate e sanguinanti, di quel torso livido, ferito e sanguinante, fecero crescere a dismisura. Ma il sangue freddo dello scienziato, avvezzo alla morte, riprese il sopravvento e accostandosi, egli vide che quel capo aveva la corona di spine: e in una stupefazione immensa, egli comprese tutto. Era l'Ecce Homo. a mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin Redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l'orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l'acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell'assassinio e del l'annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco: e dominata totalmente la stupefazione, l'uomo forte intendeva soltanto l'immensa amarezza di Bianca Maria inferma, addolorata, ferita forse a morte, per una tetra, mistica e puerile follia, in cui vaneggiava il marchese Cavalcanti. Adesso urgeva soccorrerla. - È l'Ecce Homo, - disse brevemente, uscendo fuori, alla gente raccolta nell'anticucina. - Voi che dite, Eccellenza! - gridò Giovanni provando lo stesso senso di stupefazione, aumentato dal dolore di quel sacrilegio. - È l'Ecce Homo, - egli ripetè, guardando tutti coloro freddamente, con quella sua aria imperiosa che non ammetteva replica. - Andate in cucina, asciugatelo e riportatelo nella cappella. Coloro si guardarono, consultandosi, sanati dal terrore del morto, presi dall'orrore di quell'oltraggio alla Divinità. - Dopo farete venire il prete, a benedire, - egli disse, conoscendo il cuore del popolo napoletano. Andò di là, nel salone. La fanciulla era ancora distesa sul seggiolone, con gli occhi coperti dalle mani, mormorando sempre, fra sé: - Il morto, il morto, amore caro, fate portare via il morto... - Non vi era nessun morto, cara, - egli le disse, con quella dolcezza che gli veniva dalla infinita pietà. - Oh sì, sì, vi era.. . - mormorò ella, melanconicamente, crollando il capo, quasi che nulla valesse a persuaderla del contrario. - Non vi era nessun morto, - replicò lui, seriamente, sentendo il bisogno di domare quel vagabondaggio della ragione. E cercò di toglierle le mani dagli occhi: ma esse s'irrigidirono e una espressione di spasimo stirò la fisonomia della ragazza. - Guardatemi un poco, Bianca Maria, - le mormorò lui con voce insinuante. - Non posso, non posso, - disse lei, con voce triste e misteriosa. - E perché? - Perché potrei vedere il morto, amore, amore mio, - ella disse, sempre con quel profondo senso di mestizia che faceva venire le lagrime agli occhi del dottore. - Cara, vi giuro che non vi è nessun morto, - replicò ancora lui, con la dolce insistenza che si fa a un fanciullo malato. E intanto cercava di prenderle il polso, per sentirne le pulsazioni, per sentire la temperatura della pelle. Strano a dirsi, mentre la fanciulla pareva quasi in delirio, la mano era gelida e le vibrazioni del polso erano lente, fievoli. Egli ebbe una stretta al cuore, come se la mancanza di vita e di forza della poveretta, gli desse la prova di una decadenza continua, invincibile. Avrebbe voluto raccapezzarsi in quel morbo singolare, in cui tutto il sangue pareva diventato debolissimo e in cui tutti i nervi fremevano in una acutissima sensibilità; ma troppo il suo cuore amava Bianca Maria, perché la sua scienza conservasse la sua lucidità. Non trovava più, non trovava il segreto di quel sangue impoverito e di quella nervatura frizzante: intendeva soltanto, così, confusamente, che quell'organismo si consumava di debolezza e di sensibilità: non pensava né alle medicine, né ai rimedii eccezionali: pensava solo, confusamente, così, che egli doveva salvare l'amor suo, niente altro. Ah, sì, egli doveva strappar subito dagli artigli di quel pazzo, la povera creatura innocente a cui s'infliggevano le quotidiane paure di una follia che non si guariva; egli doveva torre via da quella miseria crescente dell'anima e del corpo, da quella fatale discesa verso l'onta e verso la morte, la purissima creatura, che sapeva solamente soffrire, e soffriva senza ribellarsi, senza lamentarsi. Egli lo doveva, subito: era un uomo, era un cristiano, doveva salvare la infelice, come altre volte, tante volte, aveva salvato gli ammalati d'idrofobia dalla morte per la rabbia, come aveva salvato, una volta, un disperato colpito dall'implacabile tetano. Subito, subito, doveva salvarla, o non si era più a tempo. Dove era il marchese, dunque, dove era il crudele, il folle che col denaro giuocava il suo nome, il suo onore e la sua figliuola? - Eccellenza, è fatto, - disse Giovanni, facendo capolino nel salone. Il vecchio servitore era pallidissimo: dopo l'impressione orrenda di quello che aveva creduto un cadavere, la grave offesa fatta dal suo padrone alla Divinità, ne aveva sconvolto l'umile coscienza religiosa. Quella figura del Redentore, con la fune al collo, sospeso giù nel pozzo, come la salma gemente sangue di un ucciso, quella immagine del pietoso Gesù, così vilipesa, gli sembrava che avesse dato il crollo alla ragione del marchese, gli sembrava che dovesse portare la maledizione della casa. E chiamò fuori Margherita, per dirle quello che era accaduto, mentre nelle case dei vicini, nelle scale, nei portone, nelle botteghe, si andava dicendo che l' Ecce Homo i casa Cavalcanti aveva fatto un miracolo, salvando un ucciso, mettendosi al posto dell'ucciso: e dovunque, in mille forme, si cavavano i numeri dal singolarissimo avvenimento. - Il morto, il povero morto... - vaneggiava la fanciulla, con la voce che le usciva come un soffio dalle labbra. - Non dite più questo, Bianca Maria, credetemi, credetemi, - soggiunse il dottore, con una dolce fermezza. Non vi era il morto: era la statua dell' Ecce Homo. Che era? - gridò ella, levandosi in piedi, guardando il dottore, con certi occhi stravolti. Egli si scosse: ma credette che questa fosse la crisi di quel lungo vaneggiamento e le ripetette, cercando domarla con lo sguardo: - Era la statua dell' Ecce Homo: ostro padre l'aveva sospesa nel pozzo, con una fune al collo. - Dio! - urlò lei, con voce potentissima, levando le braccia al cielo. - Dio, perdonateci! E cadde ginocchioni, si prostese, toccando la terra con le labbra, piangendo, pregando, singhiozzando, continuando a supplicare il Signore, di perdonare a lei e a suo padre. Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l'emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.

Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

STORIA DI DUE ANIME

682506
Serao, Matilde 2 occorrenze

. - Sono bugie - rispose lei, un po' lentamente, abbassando le palpebre sugli occhi. - Sono tutte bugie. Io non amoreggio con nessuno. - Tanto meglio - disse lui, per conchiudere. Ella fissò di nuovo gli occhi in quelli di Mimì Maresca, quasi aspettasse, con curiosità, con ansietà, un'altra domanda. Ma egli tacque. Non la guardava neppure. Gelsomina ebbe una leggiera smorfia di dispetto sulla bocca. E, dopo un silenzio, si decise lei a riprender quel discorso. - Che ti hanno detto, le male lingue del quartiere, Mimì? Con chi ti hanno detto che io amoreggiavo? - Non vi badare. La gente parla così volentieri! - No, no, me lo devi dire, Mimì. Voglio che me lo dici. - E poi ti dispiaci, eh? - Non mi dispiaccio, se me lo dici tu. La voce della giovinetta era diventata, adesso, malinconica e carezzevole, mentre Domenico Maresca conservava il suo tono semplice e quasi indifferente. - Ebbene, giacchè lo vuoi sapere, te lo dirò. Mi hanno detto, che tu amoreggi con don Franceschino Grimaldi, il figlio della baronessa. Ella scrutò ancora la fisonomia tranquilla, affabile e un poco stanca del pittore dei santi, e invece di rispondere, affermativamente, negativamente, interrogò, a sua volta: - E tu vi hai creduto? - No, - disse lui, con una certa serietà. - Meno male! - Non potevo credere, Gelsomina, che una ragazza buona e religiosa, come sei tu, amoreggiasse con un signore. - Già... - disse lei, dopo una pausa. - Dovrei essere una pazza, a fidare nelle chiacchiere dei signori. - E non le ascolti, non è vero, Gelsomina? - Non le ascolto, Mimì, quando posso - continuò lei, pensosa, esitante. - Non sempre, posso. Certe volte, quando io mi nascondo, mentre passa don Franceschino, mammà mi sgrida. - Mammà? - Eh, si! Dice che è il figliuolo della padrona di casa; che noi siamo dei poveri portinai; che non bisogna essere screanzati; se no, ci mandano via. - E tu che rispondi? - Non rispondo nulla, certe volte. Quando sono di malumore, rispondo male, che non ho voglia di amoreggiare con don Franceschino, per farmi corbellare da lui, e che se si deve mangiare quel pane, io preferisco il digiuno. - E mammà? - Qualche volta mi schiaffeggia. - Per questo? - Per questo. E con un accento semplice e profondo, la ragazza concluse: - Tu lo sai, Mimì, che essa non mi è madre. - Povera Gelsomina! - soggiunse lui, con un accento di vera pietà. La ragazza chinò la fronte e tacque. Aveva disciolto, parlando, il nodo, sotto il mento, del suo scialletto nero e lo aveva arrovesciato sulle spalle. La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.

- Amen - disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa. Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso: - E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio? - No - egli disse, trasalendo. - Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne? - Mi dispiace - rispose lui, sempre a occhi bassi. - E ad Anna, dispiace? - No. Le fa piacere, non aver figli. - Piacere? Piacere? - gridò lei, stupita. - Le può far piacere, questo ? - Già. - Non ha cuore, dunque? Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell'interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo. - Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene? Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un'altra ambascia lo soffocava: ma in quell'ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall'acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell'ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato. - Anna non ti vuol bene? - chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza. E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sè stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella , portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella , rispose questo: - No, Anna non mi vuol bene. Un silenzio tragico regnò fra loro. - E allora, allora - lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino allora, è stato inutile che tu la sposassi? - È stato inutile. - Sei certo, che non ti vuol bene? - Come della morte, ne sono certo. - Oh Dio! - disse lei, celandosi il viso tra le inani. - Essa mi ha sposato per il danaro - continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. - Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai... - Gesù, Gesù... - ripeteva lei, sommessamente. - Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola. Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo... - Che ingrata... che ingrata... - La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse ... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi ... - Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi? - Gelsomina, Gelsomina, - gridò lui, giunto al colmo del parossismo - da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato... - Non sai dove è? - Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci! Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza: - Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto! - Mai, lo avessi fatto, mai! - gridò lui, disperato. - Era meglio morire che far questo! E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti. - Almeno... - mormorò lei, lentamente - almeno... ti è fedele? - Sì - disse lui, sordamente. - Mi è fedele. - Ne sei sicuro? - Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all'amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto... - Tuo padre, Mimì? Tuo padre? - Nulla - disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. - Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, l'hai un innamorato... - Già! - disse lei, con un riso cinico. - L'hai detto tu! - L'ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto - continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime - che non ha nè arte nè parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita , che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato! - Che orrore! - esclamò lui. - Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho, dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!... - Capisco! Che orrore! - Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?. - Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui? - Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo. Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato, Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina... - E non puoi lasciarlo? - Egli mi ucciderebbe - disse lei, tetramente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ambedue, tacendo, eran ritornati dal Viale Elena, verso la Torretta: e camminavan un po' lontani l'uno dall'altro, oppressi, schiacciati, ognuno, dalla propria sventura, più angosciati, ancora, dell'incontro che avevano fatto, l'uno dell'altro, più esterrefatti, ancora, dagli sfoghi terribili che avevan fatto, ognuno, della propria miseria, senza che, malgrado la compassione, malgrado la tenerezza, l'uno potesse consolare l'altro. La gente era meno folta, perchè l'ora si avanzava: un'aria assai più fresca, soffiava, dal mare. Macchinalmente, Gelsomina si gittò sulle spalle, si strinse al collo, il suo scialletto rosso, di un rosso ardente. Un istante, restarono fermi allo sbocco della traversa, sulla Riviera di Chiaia, rimpetto all'incrocio dei trams della Torretta, che giungevano, partivano, ora, meno colmi di persone, con un tinnìo di campanelli più languido. E a un tratto, quasi involontariamente, dalle labbra della poveretta, escì un grido: - Ecco Anna. Dirimpetto ai due, ma lontana, Anna Dentale aspettava, in piedi: e malgrado la distanza, si riconosceva, al suo viso bellissimo e calmo, ai suoi grandi occhi che vagavano, placidamente, intorno, in attesa quieta di qualche cosa. Ella era vestita riccamente di nero e delle pagliuzze scintillavano, su lei, qua e là, alla luce elettrica delle grandi lampade; una mantellina ricca le stringeva le spalle e una mano guantata di bianco, ne appariva, fra i merletti, tenendo delle rose bianche, un fascetto di rose, mentre l'altra era abbandonata lungo la persona, stringendo un ventaglio. Anna non era sola. Accanto a lei stava un giovanotto alto e snello, dalla ben formata persona, vestito elegantemente di oscuro, con un cappello di paglia, sul capo: un giovanotto dal viso fresco e grazioso, sul cui pallore fine si arcuavano dei sottili baffetti biondi, brillavano gli occhi oscuri e scintillanti, la cui bocca era sfiorata da un sorriso di compiacenza e di sarcasmo. Ogni tanto, questo giovine, che si teneva accanto ad Anna, si chinava verso lei, e le diceva una parola, con un sorriso anche più espressivo, mentre ella gli levava gli occhi, in viso, gli sorrideva, tenuemente, gli rispondeva a fior di labbro. E i due, Anna Maresca e Mariano Dentale, soli, a quell'ora avanzata, a cui la serata di metà settembre, dava una poesia anche più intensa, colpiti vivamente dalla luce elettrica, sul loro lato, non vedevano chi passava loro accanto, non scorgevano chi li guardava, dall'altro lato della via. Al grido di Gelsomina, che indicava Anna, Domenico Maresca, aveva avuto un sussulto, aveva cercato, con gli occhi, dapertutto, esclamando. - Anna... dove... dove...? - Là - indicò l'altra, con un gesto breve, della mano, con un accento bizzarro. Tutto vedeva e scorgeva, adesso, il povero Domenico Maresca, stupefatto, inchiodato al suo posto da quella visione. E nell'inaspettata, mortale rivelazione che chiudeva orribilmente il suo calvario di quella giornata, in quella rivelazione che infrangeva, di un colpo solo, tutta la sua ultima sicurezza, come tutti i deboli, come tutti i fiacchi, una paralisi morale lo abbattè, una paralisi fisica gli legò i piedi, le mani, la voce. Non visti, Gelsomina e Domenico scorsero, dall'altra parte della lunga via, Anna e Mariano scambiare qualche parola, ancora, fra loro, poi avanzarsi, un poco, in linea retta, verso loro: e Gelsomina udì il pittore dei santi, spaventato, dire con voce sorda, come se morisse. - Oh Dio... oh Dio! Ma, fra i quattro personaggi, un trams che veniva da Posillipo si fermò, s'interpose. Nell'istante della fermata, dall'altro lato, Anna e Mariano, leggermente, disinvoltamente, vi salirono, si sedettero, uno accanto all'altro, tranquilli e sorridenti, con l'aria soddisfatta di chi completa bene la propria giornata. E, avanti a Gelsomina e a Domenico, il tram filò, nettamente, fuggendo, sparendo, verso l'alto della Riviera di Chiaia. Solo allora, vincendo il suo profondo stupore, Domenico Maresca, con un ruggito forte, tentò slanciarsi: - Dove vai?, dove vai? - lo trattenne, Gelsomina, afferrandolo pel braccio. - Lasciami!... lasciami!... - smaniò lui. - Sono lontani... - mormorò lei - non li raggiungi più. Erano lì... ora sono lontani. - Dove andranno? Dove vanno? - chiese lui, puerilmente, con un singhiozzo nella voce. Ella ebbe una lieve stretta di spalle, innanzi a quella domanda imbelle. - Eh! chi lo sa! A casa tua... forse... - Credi? Credi che Anna rientri a casa? - balbettò lui. - Credo. - La troverò, tu dici? - Eh! sì, sì, la troverai! - s'impazientì lei, dinanzi ad una viltà così profonda. - E se non vi è? Se non vi è? Gelsomina non rispose. Distratta, occhieggiava a diritta e a sinistra della Riviera di Chiaia, come se dovesse scorgervi qualche cosa di strano, ma di cui fosse in attesa, in agitata attesa. - Se non la trovo, Gelsomina, se non la trovo, che ne sarà, di me? - gemette l'infelicissimo. Ella non l'ascoltava più, vinta, adesso, dalla imminenza di qualche cosa che temeva e che, senz'altro, doveva accadere. E come un fanciullo debole e malato, Domenico Maresca gemette, ancora: - Gelsomina, se non la trovo, io ti vengo a cercare! Dimmi dove stai, io ti vengo a cercare, se non la trovo... - A far che? - disse lei, con una voce ove fischiava l'ironia. - A piangere con te... a piangere... Gelsomina, se non la trovo! Dimmi, dove stai? - No - disse lei, brevemente. - Ma perchè? Perchè? Neppure tu! Neppure tu! - Non posso - ella soggiunse. - E perchè, non puoi? Perchè? Se non la trovo, che ne sarà di me? - Guarda - ella disse, con un cenno. Verso loro due si avanzava un uomo, un giovane. Portava un vestito grigio chiaro, attillatissimo, un cappelletto nero sull'orecchio, le mani in tasca, un bastoncino che usciva da una delle tasche: le sue scarpe scricchiolavano: e tutta la sua persona di una volgare beltà, aveva un'andatura provocante, la sua faccia bella e triviale, un'aria provocante. Di lontano, scorse Gelsomina che parlava con Domenico, si fermò. Egli attese, così, un minuto. Poi un fischio leggiero e lungo gli escì dalle labbra. - Eccomi - disse, come fra sè, Fraolella . - Qui sta il cane. E senza voltarsi, senza guardare, soggiunse, al pittore dei santi: - Addio, Domenico. Il pittore dei santi la vide allontanarsi, rapidamente, fermarsi col giovanotto, parlargli, a lungo. Costui, silenzioso, con un mozzicone spento all'angolo della bocca, l'ascoltava, con le sovracciglia aggrottate, l'occhio torbido. Precipitosamente, con grandi gesti, Fraolella continuava a dare spiegazioni, mentre l'altro, sempre più arcigno, crollava il capo. E si allontanarono, ambedue, nella notte: l'uomo, innanzi, col suo passo elastico, con lo scricchiolìo dei suoi stivalini, con il suo aspetto spavaldo: la donna, più indietro, con passo stanco, con le spalle curve, a capo chino, come un povero cane. Sdraiata in una poltroncina del suo salotto, Anna leggeva un libro, quietamente. Aveva indossata una vestaglia bianca, le sue belle mani escivano dalle maniche larghe. Quando Domenico rientrò in casa, era mezzanotte. E, stravolto, si fermò sulla soglia; un profondo sospiro gli sollevò il petto. Ella appena levò gli occhi, dalla lettura: - Sei qui, Anna, sei qui! - balbettò lui. - Dove dovrei essere? - chiese ella, freddamente. - Ti aspetto da tre quarti d'ora. È tardi. - Ero venuto... ero venuto, a cercarti... - Ti avevo detto di non farlo - replicò lei, con un lieve aggrottamento di sopracciglia. - Io ti ho cercata... laggiù... tutta la serata. - Hai fatto male - ella concluse, rimettendosi a leggere, senza dargli più retta. E Domenico, a un tratto, esplose la sua angoscia, tutta la sua angoscia: - Ti ho incontrata, Anna, ti ho vista! Non eri sola! Ho visto con chi eri! - Ebbene? - chiese lei, glacialmente, posando il libro sulle ginocchia. - Eri con Mariano Dentale, con Mariano! - E poi? - chiese, ancora, Anna, fissando suo marito negli occhi, con tale una collera gelida che egli allibì. - Con Mariano... con Mariano... - gridò Domenico, pianse Domenico, torcendosi le mani. Anna si alzò, chiuse il libro, lo posò sul tavolo, si avviò verso la stanza da letto, piena di un'ira muta, superbissima di sdegno taciturno. - Con Mariano... con Mariano, Anna! - piangeva lui, nella idea fissa. - Se dici un'altra parola, Domenico, - pronunciò lei, nettamente, dalla soglia - prendo il cappello e me ne vado. Ed egli tacque.

Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

E abbassando la focaja del fucile, lo collocò presso di sè, si sedette; e spiccando ad una ad una le coccole del lampone, i cui granelli di porpora parevano come argentati graziosamente di brina, estinse, come potè meglio, la sete che aveva incominciato a travagliarlo. Stette così seduto una mezz'ora; in capo alla quale si accorse che avvenivano in lui dei fenomeni singolari. Il cielo, l'orizzonte, la campagna non gli parevano più quelli; cioè non gli pareano essenzialmente mutati, ma non li vedeva più colla stessa sensazione di un'ora prima; per servirsi d'un modo di dire più comune, non li vedeva più cogli stessi occhi. In mezzo a' suoi cani ve n'erano taluni che gli sembrava di non aver mai veduto, e pure riflettendoci bene, li conosceva; se non che li osservava e li accarezzava tutti quanti con maggior rispetto che non fosse solito fare: parevagli in certo modo che non ne fosse egli il padrone, e dubitandone quasi, si provò a chiamarli: Azor, Fido, Aloff! I cani chiamati gli si avvicinarono prontamente, dimenando la coda. -Meno male, disse il barone, i miei cani sembrano essere proprio ancora i miei cani ... Ma è singolare questa sensazione che provo alla testa, questo peso .... E che cosa sono questi strani desideri che sento, queste volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione e di duplicità che provo in tutti i miei sensi? Sarei io pazzo? ... Vediamo, riordiniamo le nostre idee .... Le nostre idee! Sì perfettamente .... perchè sento che queste idee non sono tutte mie. Però ... è presto detto riordinarle! Non è possibile, sento nel cervello qualche cosa che si è disorganizzata, cioè ... dirò meglio ... che si è organizzato diversamente da prima ... qualche cosa di superfluo, di esuberante; una cosa che vuol farsi posto nella testa, che non fa male, ma che pure spinge, urta in modo assai penoso le pareti del cranio .... Parmi di essere un uomo doppio. Un uomo doppio! Che stranezza! E pure ... sì, senza dubbio ... capisco in questo momento come si possa essere un uomo doppio. Vorrei sapere perchè questi anemoni mezzo fradici per le pioggie, ai quali non ho mai badato in vita mia, adesso mi sembrano così belli e così attraenti ... Che colori vivaci, che forma semplice e graziosa! Facciamone un mazzolino. E il barone allungando la mano senza alzarsi, ne colse tre o quattro che, cosa singolare! si pose in seno come le femmine. Ma nel ritrarre la mano a sè, provò una sensazione ancora più strana; voleva ritrarre la mano, e nel tempo stesso voleva allungarla di nuovo; il braccio mosso come da due volontà opposte ma ugualmente potenti, rimase in quella posizione quasi paralizzato. -Mio Dio! disse il barone; e facendo uno sforzo violento uscì da quello stato di rigidità, e subito osservò attentamente la sua mano come a guardare se qualche cosa vi fosse rotto o guastato. Per la prima volta egli osservò allora che le sue mani erano brevi e ben fatte, che le dita erano piene e fusolate, che le unghie descrivevano un elissi perfetto; e l'osservò con una compiacenza insolita; si guardò i piedi e vedendoli piccoli e sottili, non ostante la forma un po' rozza de' suoi stivali impenetrabili, ne provò piacere e sorrise. In quel momento uno stormo di colombi si innalzò da un campo vicino, e venne a passargli d'innanzi al tiro. Il barone fa sollecito a curvarsi, ad afferrare il suo fucile, ad inarcarne il cane, ma ... cosa prodigiosa! in quell'istante si accorse che aveva paura del suo fucile, che il fragore dello sparo lo avrebbe atterrito; ristette e si lasciò cader l'arma di mano, mentre una voce interna gli diceva: che begli uccelli! che belle penne che hanno nelle ali! ... mi pare che sieno colombi selvatici ... -Per l'inferno! esclamò il barone portandosi le mani alla testa, io non comprendo più nulla di me stesso ... sono ancora io, o non sono più io? o sono io ed un altro ad un tempo? Quando mai io ho avuto paura di sparare il mio fucile? quando mai ho sentito tanta pietà per questi maledetti colombi che mi devastano i seminati? I seminati! Ma ... veramente parmi che non sieno più miei questi seminati.. Basta, basta, torniamo al castello, sarà forse effetto di una febbre che mi passerà buttandomi a letto. E fece atto di alzarsi. Ma in quello istante un'altra volontà che pareva esistere in lui lo sforzò a rimanere nella posizione di prima, quasi avesse voluto dirgli: no, stiamo ancora un poco seduti. Il barone sentì che annuiva di buon grado a questa volontà, poichè dallo svolto della via che fiancheggiava il campo era comparsa una brigata di giovani lavoratori che tornavano al villaggio. Egli li guardò con un certo senso di interesse e di desiderio di cui non sapeva darsi ragione; vide che ve ne erano alcuni assai belli; e quando essi gli passarono d'innanzi salutandolo, rispose al loro saluto chinando il capo con molto imbarazzo, e si accorse che aveva arrossito come una fanciulla. Allora sentì che non aveva più alcuna difficoltà ad alzarsi, e, si alzò. Quando fu in piedi gli parve di essere più leggiero dello usato: le sue gambe parevano ora ingranchite, ora più sciolte; le sue movenze erano più aggraziate del solito, quantunque fossero poi in realtà le stesse movenze di prima, e gli paresse di camminare, di gestire, di dimenarsi, come aveva fatto sempre per lo innanzi. Fece atto di recarsi il fucile ad armacollo, ma ne provò lo stesso spavento di prima, e gli convenne adattarselo al braccio, e tenerlo un poco discosto dalla persona, come avrebbe fatto un fanciullo timoroso. Essendo arrivato ad un punto in cui la via si biforcava, si trovò incerto per quale delle due strade avrebbe voluto avviarsi al castello. Tutte e due vi conducevano del paro, ma egli era solito percorrerne sempre una sola: ora avrebbe voluto passare per una, e ad un tempo voleva passare anche per l'altra: tentò di muoversi, ma riprovò lo stesso fenomeno che aveva provato pocanzi: le due volontà che parevano dominarlo, agendo su di lui colla stessa forza, si paralizzarono reciprocamente, resero nulla la loro azione: egli restò immobile sulla via come impietrato, come colpito da catalessi. Dopo qualche momento si accorse che quello stato di rigidità era cessato, che la sua titubanza era svanita, e svoltò per quella delle due strade che era solito percorrere. Non aveva fatto un centinaio di passi che s'abbattè nella moglie del magistrato la quale lo salutò cortesemente. -Da quando in qua, disse il barone di B. io sono solito a ricevere i saluti della moglie del magistrato? Poi si ricordò che egli era il barone di B., che egli era in intima conoscenza colla signora, e si meravigliò di essersi rivolta questa domanda. Poco più innanzi si incontrò in una vecchia che andava razzolando alcuni manipoli di rami secchi lungo la siepe. -Buon dì, Catterina, le disse egli abbracciandola, e baciandola sulle guancie; come state? avete poi ricevuto notizie di vostro suocero? -Oh! Eccellenza .... quanta degnazione ... esclamò la vecchia, quasi spaventata dalla insolita famigliarità del barone, le dirò ... Ma il barone l'interruppe dicendole: Per carità, guardatemi bene, ditemi: sono ancora io? sono ancora il barone di B.? B.?-Oh, signore! ... diss'ella. Egli non stette ad attendere altra risposta, e proseguì la sua strada, cacciandosi le mani nei capelli, e esclamando: io sono impazzito, io sono impazzito. Gli avveniva spesso lungo la via di arrestarsi a contemplare oggetti o persone che non avevano mai destato in lui il minimo interesse, e vedeali sotto un aspetto affatto diverso di prima. Le belle contadine che stavano sarchiando nei campi coll'abito rimboccato fin sopra il ginocchio, non avevano più per lui alcuna attrattiva, e le parevano rozze, sciatte e sguaiate. Gettando a caso uno sguardo su' suoi limieri che lo precedevano col muso basso e colla coda penzoloni, disse: «Tò! Visir che non aveva che due mesi adesso sembra averne otto suonati, e s'è cacciato anche lui nella compagnia dei cani scelti.» Mancavangli pochi passi per arrivare al castello, quando incontrò alcuni de' suoi domestici che passeggiavano ciarlando lungo la via, e, cosa singolare! li vedeva doppi; provava lo stesso fenomeno ottico che si ottiene convergendo tutte e due le pupille verso un centro solo, per modo d'incrociarne la visuale; se non che egli comprendeva che le causa di questo fenomeno erano affatto diverse da quelle; poichè vedeali bensì doppi, ma non si rassomigliavano totalmente nella loro duplicità; vedeali come se vi fossero in lui due persone che guardassero per gli stessi occhi. E questa strana duplicità incominciò da quel momento ad estendersi su tutti i suoi sensi; vedeva doppio, sentiva doppio, toccava doppio; e, - cosa ancora più sorprendente! - pensava doppio. Cioè, una stessa sensazione destava in lui due idee, e queste due idee venivano svolte da due forze diverse di raziocinio, e giudicate da due diverse coscienze. Parevagli in una parola che vi fossero due vite nella sua vita, ma due vite opposte, segregate, di natura diversa; due vite che non potevano fondersi, e che lottavano per contendersi il predominio de' suoi sensi - d'onde la duplicità delle sue sensazioni. Fu per ciò che egli vedendo i suoi domestici, conobbe bensì che erano i suoi domestici; ma cedendo ad un impulso più forte, non potè a meno di avvicinarsi ad uno di essi, di abbracciarlo con trasporto e di dirgli: oh! caro Francesco, godo di rivedervi; come state? come sta il nostro barone? - e sapeva benissimo di essere egli il barone - ditegli che mi rivedrà fra poco al castello. I domestici si allontanarono sorpresi; e quello tra loro che erane stato abbracciato, diceva tra sè stesso: io mi spezzerei la testa per sapere se è, o se non è veramente il barone che mi ha parlato. Io ho già inteso altre volte quelle parole ... non so ... ma quella espressione ... quell'aspetto ... quell'abbraccio ... certo, non è la prima volta che io fui abbracciato in quel modo. E pure ... il mio degno padrone non mi ha mai onorato di tanta famigliarità. Pochi passi più innanzi, il barone di B. vide un pergolato che s'appoggiava ad un angolo del recinto d'un giardino, per modo che quando era coperto di foglie doveva essere affatto inaccessibile agli occhi dei curiosi. Egli non potè resistere al desiderio di entrarvi, quantunque vi fosse in lui un'altra volontà che l'incitava ad affrettarsi verso il castello. Cedette al primo impulso, e appena sedutosi sotto la pergola, sentì compiersi in sè stesso un fenomeno psicologico ancora più curioso. Una nuova coscienza si formò in lui: tutta la tela di un passato mai conosciuto si distese d'innanzi a suoi occhi: delle memorie pure e soavi di cui egli non poteva aver fecondata la sua vita vennero a turbare dolcemente la sua anima. Erano memorie di un primo amore, di una prima colpa; ma di un amore più gentile e più elevato che egli non avesse sentito, di una colpa più dolce e più generosa che egli non avesse commesso. La sua mente spaziava in un mondo di affetti ignorato, percorreva regioni mai viste, evocava dolcezze mai conosciute. Nondimeno tutto questo assieme di rimembranze, questa nuova esistenza che era venuta ad aggiungersi a lui, non turbava, non confondeva le memorie speciali della sua vita. Una linea impercettibile separava le due coscienze. Il barone di B. passò alcuni momenti nel pergolato, dopo di che sentì desiderio di affrettarsi verso il villaggio. E allora le due volontà agendo su di esso collo stesso accordo, egli ne subì un impulso così potente che non potè conservare il suo passo abituale, e fu costretto a darsi ad una corsa precipitosa. Queste due volontà incominciarono da quell'istante a dominarsi e a dominarlo con pari forza. Se agivano d'accordo, i movimenti della sua persona erano precipitati, convulsi, violenti; se una taceva, erano regolari; se erano contrarie, i movimenti venivano impediti, e davano luogo ad una paralisi che si protraeva fino a che la più potente di essa avesse predominato. Mentre egli correva così verso il castello, uno de' suoi domestici lo vide, e temendo di qualche sventura, lo chiamò per nome. Il barone volle arrestarsi, ma non gli fu possibile; rallentò il passo e si fermò bensì per qualche istante, ma ne seguì una convulsione, un saltellare, un avvanzarsi e un retrocedere a sbalzi per modo che sembrava invasato, e gli fu gioco forza continuare la sua corsa verso il villaggio. Il villaggio non pareagli più quello, parevagli che ne fosse stato assente da molti mesi: vide che il campanile della parocchia era stato riattato di fresco, e quantunque lo sapesse, gli sembrava tuttavia di non saperlo. Lungo la strada si abbattè in molte persone che sorprese di quel suo correre, lo guardavano con atti di meraviglia. Egli faceva a tutte di cappello, benchè comprendesse che nol doveva; e quelle rispondevangli togliendosi i loro berretti, e meravigliando di tanta cortesia. Ma ciò che sembrava ancora più singolare era che tutte quelle persone consideravano quasi come naturale quel suo correre, quel suo salutare; e pareva loro di aver travisto, intuito, compreso qualche cosa in que' suoi atti, e non sapevano che cosa fosse. Ne erano però impaurite e pensierose. Giunto al castello si arrestò; entrò nelle anticamere; baciò ad una ad una le sue cameriere; strinse la mano alle sue livree verdi, e si buttò al collo di una di esse che accarezzò con molta tenerezza, e a cui disse parole colme di passione e di affetto. A quella vista le cameriere e le livree verdi fuggirono, e corsero urlando a rinchiudersi nelle loro stanze. Allora il barone di B. salì agli altri piani, visitò tutte le sale del castello, e essendo giunto alla sua alcova, si buttò sul letto, e disse: «Io vengo a dormire con lei, signor barone.» In quell'intervallo di riposo, le sue idee si riordinarono, egli si ricordò di tutto ciò che gli era avvenuto durante quelle due ore, e se ne sentì atterrito; ma non fu che un lampo - egli ricadde ben presto nel dominio di quella volontà che lo dirigeva a sua posta. Tornò a ripetersi le parole che aveva dette poc'anzi; «Io vengo a dormire con lei, signor barone.» E delle nuove memorie si suscitarono nella sua anima; erano memorie doppie, cioè le rimembranze delle impressioni che uno stesso fatto lascia in due spiriti diversi, ed egli accoglieva in sè tutte e due queste impressioni. Tali rimembranze però non erano simili a quelle che aveva già evocato sotto la pergola; quelle erano semplici, queste complesse; quelle lasciavano vuota, neutrale, giudice una parte dell'anima; queste l'occupavano tutta: e siccome erano rimembranze di amore, egli comprese in quel momento che cosa fosse la grande unità, l'immensa complessività dell'amore, il quale essendo nelle leggi inesorabili della vita un sentimento diviso fra due, non può essere compreso da ciascuno che per metà; Era la fusione piena e completa di due spiriti, fusione di cui l'amore non è che una aspirazione, e le dolcezze dell'amore un'ombra, un'eco, un sogno di quelle dolcezze. Nè potrei esprimere meno confusamente lo stato singolare in cui egli si trovava. Passò così circa un'ora, scorsa la quale si accorse che quella voluttà andava scemando, e che le due vite che parevano animarlo si separavano. Discese dal letto, si passò le mani sul viso come per cacciarne qualche cosa di leggiero ... un velo, un ombra, una piuma; e sentì che il tatto non era più quello; gli parve che i suoi lineamenti si fossero mutati, e provò la stessa sensazione come se avesse accarezzato il viso di un altro. V'era lì presso uno specchio e corse a contemplarvisi. Strana cosa! Non era più egli; o almeno vi vedeva riflessa bensì la sua immagine, ma vedeala come fosse l'immagine di un altro, vedeva due immagini in una. Sotto l'epidermide diafana della sua persona, traspariva una seconda immagine a profili vaporosi, instabili, conosciuti. E ciò gli pareva naturalissimo, perchè egli sapeva che nella sua unità vi erano due persone, che era uno, ma che era anche due ad un tempo. Allontanando lo sguardo dal cristallo, vide sulla parete opposta un suo vecchio ritratto di grandezza naturale, e disse: «Ah! questo è il signor barone di B. Come è invecchiato!» - E tornò a contemplarsi nello specchio. La vista di quella tela gli fece allora ricordare che vi era nel corridojo del castello un immagine simile a quella che aveva veduto poc'anzi trasparire dalla sua persona nello specchio, e si sentì dominato da una smania invincibile di rivederla. Si affrettò verso il corridojo. Alcune delle sue cameriere che vi passavano in quell'istante furono prese da uno sgomento ancora più profondo di prima, e corsero fuggendo a chiamare le livree verdi che stavano assembrate nell'anticamera, concertandosi sul da farsi. Intanto nel cortile del castello si era radunato buon numero di curiosi: la notizia delle follie commesse dal barone si era divulgata in un attimo nel villaggio, e vi aveva fatto accorrere il medico, il magistrato ed altre persone autorevoli del paese. Fu deciso di entrare nel corridojo. Il disgraziato barone fu trovato in piedi d'innanzi ad un ritratto di fanciulla - quella stessa che era sparita mesi addietro dal castello - in uno stato di eccitamento nervoso impossibile a definirsi. Egli sembrava in preda ad un assalto violento di epilessia; tutta la sua vitalità pareva concentrarsi in quella tela; pareva che vi fosse in lui qualche cosa che volesse sprigionarsi dal suo corpo, che volesse uscirne per entrare nell'immagine di quel quadro. Egli la fissava con inquietudine, e spiccava salti prodigiosi verso di lei, come ne fosse attratto da un forza irresistibile. Ma il prodigio più meraviglioso era che i suoi lineamenti parevano trasformarsi, quanto più egli affissava quella tela, ed acquistare un'altra espressione. Ciascuna persona riconosceva bensì in lui il barone di B., ma vi vedeva ad un tempo una strana somiglianza coll'immagine riprodotta nel quadro. La folla accorsa nel corridojo si era arrestata compresa da un panico indescrivibile. Che cosa vedevano essi? Non lo sapevano: sentivano di trovarsi d'innanzi a qualche cosa di soprannaturale. Nessuno osava avvicinarsi, - nessuno si moveva; - uno spavento insuperabile si era impadronito di ciascuno di essi: un brivido di terrore scorreva per tutte le loro fibre ... Il barone continuava intanto ad avventarsi verso il quadro; la sua esaltazione cresceva, i suoi profili si modificavano sempre più, il suo volto riproduceva sempre più, esattamente l'immagine della fanciulla ... e già alcune persone parevano voler prorompere in un grido di terrore, quantunque uno spavento misterioso li avesse resi muti od immobili, allorchè una voce si sollevò improvvisamente dalla folla che gridava: «Clara! Clara!» Quel grido ruppe l'incantesimo. «Sì, Clara! Clara!» ripetereno unanimi le persone radunate nel corridojo, precipitandosi l'una sull'altra verso le porte, sopraffatte da un terrore ancora più grande, e quel nome era il nome della fanciulla sparita dal castello, la cui immagine era stata riprodotta dalla tela. Ma a quella voce, il barone di B. si spiccò dal quadro, e si slanciò in mezzo alla folla gridando: «Il mio assassino, il mio assassino!» La folla si sparpagliò, e si divise. Un uomo era in terra svenuto - quello stesso che aveva gridato - il giovane guardaboschi su cui pendevano sospetti per la sparizione misteriosa di Giara. Il barone di B. fa trattenuto a forza dalle sue livree verdi. Il guardaboschi rinvenuto domandò del magistrato, cui confessò spontaneamente di aver uccisa la fanciulla in un eccesso di gelosia, e di averla sotterrata in un campo, precisamente in quel luogo dove, poche ore innanzi, aveva veduto lo sfortunato barone sedersi e mangiare le coccole del lampone. Fu data subito al barone di B. una forte dose di emetico che gli fece rimettere i frutti non digeriti, e lo liberò dallo spirito della fanciulla. Il cadavere di essa, dal cui seno partivano le radici del lampone, fu dissotterrato e ricevette sepoltura cristiana nel cimitero. Il guardaboschi, tradotto in giudizio, ebbe condanna a dodici anni di lavori forzati. Nel 1865 io lo conobbi nello stabilimento carcerario di Cosenza che mi era recato a visitare. Mancavangli allora due anni a compiere la sua pena; e fu da lui stesso che intesi questo racconto meraviglioso.

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Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente: "Perché quella domanda adunque?" "Perché ti amo! Perché son geloso ... in un altro modo." "Come?" "Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!" Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso. "Ascolta!" mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. "Piuttosto che cessare di amarmi ... quando lo vorrai ... domandami quello che vuoi ... Ti giuro che lo farò!" *** "Non voglio che tu venga a teatro" mi avea detto altre volte. "Perché?" "Perché ... perché ... È una fanciullaggine, lo so ... ma se ti sapessi là ... in mezzo a quella folla ... ciò mi farebbe pena." Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa. "Perché?" "Voglio vederti." "Non mi vedi adesso?" "No! vederti là ... a quel modo!..." "Mi vestirò qui per te." "Oh, è tutt'altro!..." Ella sorrise e mi disse: "Orgoglioso!" "Orgoglioso?" "Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!" "È vero ... sì!" "Ebbene," soggiunse semplicemente, "dillo pure giacché è la verità." La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi: "Però mi prometterai di non essere geloso!" Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo? Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. - Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie ... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!... Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle. Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo! "Oh! come son contenta che tu sia stato lì!" mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. "Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!" E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza. "Quanto sono felice, mio Dio!" esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità. Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. "Aspettami qui" mi disse. "È inutile, giacché me ne vado." "Te ne vai! E perché?" "Avrete molte visite ... È la vostra festa ..." "È vero!" disse tutta giuliva. "Vedete che mi rassegno anch'io ..." Ella mi guardò in volto con sorpresa. "Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!" "No." "Davvero?" "Davvero." "Domani dunque?" "A domani." "Buona sera" Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore. *** Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei. Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto. Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione: "Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!" E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto. "Perché?" io le dissi. "Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me ... Ci ho pensato tutta la notte ... Sei ancora in collera?" "Oh, no!" "Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?" Io chinai la testa senza rispondere. "Vedi", soggiunse, "se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più." Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco. "Come sei pallido!" mi disse. "Non hai dormito stanotte?" "No." "Caro! caro! caro!" esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte. Indi con improvvisa e ingenua vivacità: "Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!" In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera. "Ti piace quel braccialetto?" mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me. "Non l'avevo visto." "Ah!" esclamò come sconcertata. Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza: "È un regalo per la mia beneficiata." "Oh!" "È bello, non è vero?" Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: "Bellissimo." "È di gran valore." "Varrà per lo meno duecento lire." "Oh!" esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. "Ne vale almeno duemila!" Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme. "A che pensi?" ella domandò con una certa inquietudine. "Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire." "Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!" Io sorrisi amaramente. Si parlò un po' di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente: "Chi t'ha regalato quel gioiello?" Ella rispose con la maggior franchezza. "Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?" soggiunse vedendo che m'ero fatto serio. "Oh, avrei torto!" "E avresti torto davvero!" esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò. "Oh, Eva, perdonami!" esclamai quasi fuori di me, "Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!" Per tutta risposta ella mi dette un bacio. "Perché non hai rimandato quel braccialetto?" le domandai dolcemente. Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole. "Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!" "Sì, rifiutarlo." Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo. "Ma non si usa in teatro!" mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza. "Ah!" sogghignai. "Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!" "Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?" "Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene ... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici." "Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto." E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio. Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse. "Entrando ho interrotto la tua lettura"; le dissi, e le porsi la lettera. Ella la prese vivamente. "Oh, nulla d'importante." "Ebbene, leggila pure." "L'avevo già letta", e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino. Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco. "Chi ti scrive?" le domandai facendomi rosso in volto. "Il conte Silvani." "Ah!" "Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!" "Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!" le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva. "Oh!" esclamò ella celandosi il viso fra le mani. "Oh!" Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: "Siete pazzo!" "Avete ragione!" le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno. Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa. "Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!" ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa. "Sì" rispose seccamente. Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente: "Perché l'avete bruciata?" "Perché non vi riguardava." Perdei la testa: "È vero;" le dissi, "io non posso farvi dei regali di duemila lire!" Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai: "Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!" C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi. "M'avete fatto molto male!" mi disse. "M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo ... Ora che volete che io faccia?" "Scacciatemi." "Oh, no! ti amo troppo!" "Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!" "Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!" Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo: "Non vi credo!" Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: "Perché?" balbettava "perché?" "Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!" gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore. Mi attendevo un'esplosione di collera. - Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare. "Non mi credi!" balbettò. "E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo." "Dovresti abbandonare il teatro." "Oh!" "Dovresti romperla con tutto il mondo." "Oh!" "Dovresti venire a vivere con me." "Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!" mi rispose con uno scoppio di pianto. "Ah! è una ragione singolare!" "Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!" Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava. "L'hai voluto:" mi disse semplicemente, "ecco che t'ho obbedito." *** Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità. Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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