Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il fosso

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Anche il Nino, eccezionalmente, abbandonava i giochi e le occupazioni preferite per starsene accanto al maestro. S'appartavano in un angolo del salotto: in piedi contro il pianoforte, Concina traeva di tanto in tanto qualche suono dai tasti, avanzando a caso un dito per didietro. (È la sua punteggiatura, dice Berto con aria d'iniziato.) Conversavano di pittura, di mu- sica, di poesia, e persino, pare, di filosofia. L'educazione in- tellettuale del Nino - spiegarono i suoi genitori - veniva così rifinita. (Come attaccare un merlettino alla camicetta di tutti i giorni.) Sembra che dalle mappe del ragazzo, dalle sue tavole ben classificate a scuola, e in genere dal suo "temperamento geometrico", Concina traesse lusinghiere quanto misteriose deduzioni d'un genio cubista o fors'anche surrealista. Berenice ebbe l'impressione che usasse queste e altrettali parole da orecchiante, un poco a casaccio. E i qua- dri di lui - ne aveva trovata parata la casa, attribuendoli dapprima al Nino - quadri pieni di manichini, senz'altra possibilità che di sembrar tali, e ingarbugliate forme geo- metriche (del resto troppo irregolari per essere del ra- gazzo), la lasciavano, alla propria incompetenza diffidente, ben poco perplessa. Comunque Concina già pensa d'ini- ziare l'allievo agli enigmi della pittura moderna, imparten- dogli lezioni nel suo studio. Ora, mentre parlano laggiù soli, egli solleva la mano d'un ciclamino illividito alle un- ghie (questa, sì, candidamente surrealista: polipo rosa che tasta il vuoto) a sbavar nell'aria segni natanti che il Nino segue con un girar d'occhi pacifico nella mascherina delle efelidi. Berenice si domanda quali curiosità intellettuali pos- sono sbocciare così entro la ben avviata testina. Tornano nel circolo appena giunge la serva coi vassoi, gareggiando, maestro e discepolo, nel consumar tartine ben imburrate con esemplare appetito. Le mani di Concina sono ora d'un vivido carminio, come accese, congestionate dal piacere. Sembra davvero che egli mangi con voluttà, ed è questo il momento in cui consente a mischiarsi con le donne, celia persino con la femminetta ingrembiulata di bianco in suo onore. «Queste tartine» dice a Paola «queste tartine psica- nalitiche...» E resta sospeso a gustare in viso a Berto l'a- spettazione per la solita enormità. «Già, indurrebbero un uomo a... (rotea gli occhi, assicura che il ragazzo non ne ca- pirà nulla) e sentimenti... estremi, anche verso la propria madre che le avesse preparate.» Scoppia fragorosa la risata di Berto. Egli sa già che, se fossero troppo complicate, le chiamerebbe esistenzialiste. «Perché, si sa, danno la nau- sea, eh! eh!» Mai Berenice udì da quella bocca ghiotta qualcosa di più intelligente, e del resto Concina rifuggiva dall'impegnarsi con lei in conversazione. Promise parecchie chie volte di condurli a vedere i suoi ultimi quadri, ma non se ne fece mai nulla. Pare che neanche Berto, fino a quel momento, fosse stato ammesso nello studio e - suppose Berenice - era forse l'unico acquirente delle povere follie figurative d'un tale artista. (L'aveva conosciuto in un caf- feuccio del suburbio, recandosi da un vecchio cameriere per sigarette e zucchero di contrabbando, e s'era invaghito della sua stramberia.) Per il resto della settimana osservavano scrupolosamente la vecchia regola di non ammettere estranei in casa, evi- tando persino i rapporti occasionali coi coinquilini. Così era stato fin dalla nascita del bimbo, per quel goloso senso di pace e sicurezza domestica che caratterizza certi piccoli borghesi nelle grandi città. Avevano temuto per il figlio i contatti coi coetanei, perseguendo l'inderogabile principio di sottrarlo a cattivi esempi, espressioni dialettali e malattie infantili. Anche il morbillo ha ancora da prendere il Nino. Gli era a tutt'oggi vietato ogni rapporto coi compagni fuor della scuola, si calcolava sull'orologio il tempo necessario a tornare a casa dopo le lezioni. Berenice scoprì presto - una scoperta che la desolò - come fossero state applicate alla lettera, nel più ottuso dei modi, e mantenute attraverso gli anni con gretto rigore, le norme pedagogiche che essa aveva impartito alla sorella nei periodi trascorsi insieme. (Sì che forse le aveva elargite con spensierata generalizzazione dei manipolatori di teorie.) E quel sedicente artista la intricò solo al principio: l'apparizione domenicale di lui assumeva certo un sapore di evasione, rappresentava la valvola di scappamento d'un regime di vita troppo conchiuso. Per tutta la settimana non se ne parlava più, era come non fosse mai esistito. Restavano, anacronistici, quei quadri sui vec- chi parati stinti, a testimonianza ben vacua d'una relazione che non poteva incidere su quell'andamento domestico, più di quanto se ne mostrassero capaci gli strambi rettan- goli sulla piattezza dell'arredamento. Pareva anzi che, subendone essi l'influsso, si addomesticassero a esercitazioni scolastiche di doppio decimetro a compasso maldestra- mente usati. Berenice si domandò se lei stessa non facesse lì dentro pressa poco quell'anacronistico effetto. Fu proprio una impressione di scorata impotenza ad av- vertirla del distacco dai tre esseri umani che rappresenta- vano tutti i suoi legami familiari. Quel senso d'uno stesso sangue con Paola - i suoi capelli bruni della mamma, la morbidezza docile delle membra affettuose che conosceva dall'infanzia, la piccola bocca mite anch'essa della mamma - era svanito, diventava una constatazione di riconoscimento meramente esteriore. Riconosceva soprattutto di lei la queta forza passiva, invincibile, e quella pochezza casalinga - sembrava aureolarla, quando vivevano assieme giovinette, d'una dolcezza così commovente - che paralizza ogni vel- leità di strapparla all'angustia del suo piccolo mondo irre- spirabile. Anche la mediocrità di Berte, considerata una volta con tanta indulgenza, eccita oggi la più acre irascibi- lità. E l'aria della casa, il familiare buon odore di casa, s'è fatto stantìo. Quando si domandò che cosa fosse cambiato, dovette attribuire solo a se stessa il mutamento: i nervi. O forse la guerra? Già, la guerra. Il mondo intero è mutato, si capisce; essi soli no. Ma pure, sebbene continui a sorpren- dere, e perfino scandalizzi, chi potrebbe con convinzione affermare che qualche cosa abbia mai cambiato fondamen- talmente l'uomo? (Come ritrovarsi con una persona che sia stata in pericolo di vita o colpita da grave lutto e, fra la im- provvisata compunzione dell'incontro, dal primo gesto li- bero. dalla prima parola spontanea, riscoprirla di colpo identica, con tutto il suo misero bagaglio di piccoli difetti e meschinità, e sicura, e piena si sé, come non le fosse passata accanto la morte.) Un disgusto, questo asserragliarsi fra quattro mura con un così appagante senso di se medesimi. Da loro non si ode neppure più parlare della guerra, se non in rapporto ai continui aumenti di prezzo. Ma non mancano di nulla. Berto sa arrangiarsi e trafficare. Tesa una lira povero che picchia alla loro porta, essi si sentono a posto, se non creditori, anche con Dio. L'assuefazione, una sorta di assestamento fisico e men- tale infine sopravvenne, e a un certo punto Berenice potè sentirsi di nuovo conciliante, sebbene con molte riserve. Ri- conobbe d'essere, da qualche tempo, propensa a ingrandire le cose. Paola sempre accesa d'ingenua idolatria e prodiga di cure, Berto mobilitato in permanenza a "tenerla su", per- sino la servizievole donnetta, tutto contribuì, attraverso lo scorrere calmo dei giorni, a farle considerare con grata in- dulgenza quel piccolo mondo cosi riposante, e, al postutto, inoffensivo. Le fu dolce e necessario sentir rinascere l'an- tico sentimento protettivo per la sorella minore, che aveva appagata la sua affettività durante una intera vita di lavoro e di studio. S'ingegnò persino di scagionarla per quant'era in lei di cieco e incapace nei riguardi del figlio. Non è mica da meravigliarsi se ha applicato così alla lettera un sistema edu- cativo che corrisponde tanto bene al suo meticoloso un po' maniaco temperamento. (Il Nino le assomiglia, con l'effi- cace correttivo della sicurezza paterna.) Ecco dunque che sua fu la colpa, di Berenice, non far conto dell'elemento psi- cologico avviando la inesperta madre a identificare le pro- prie dubbiezze con la legittimità di tenersi attaccato alle gonne il figlio perché non glielo guastino. Finì col sentire di averlo tradito, quel grazioso bimbo che era stato alla mercé dei suoi oracoli. Ora non è più gra- zioso, ma sotto questa provvisoria spoglia da bruco c'è sem- pre il Nino, che un giorno s'intonerà col suo pelame e di- verrà un piacevole giovinetto, poi magari un bel giovane. C è da presumere - era un bimbo sveglio vivace e persino petulante - si liberi anche da questa ottusità che lo fa un poco dormiente e per certi versi insensibile. (La parziale in- sensibilità così concentrata delle gravidanze e delle cre- scenze, forse.) Alfine - speriamolo - rispunterà come un al- alberello della nebbia e scoterà da sé questa ingenua sopraffa- zione degli adulti cui ora si sottomette con un garbo così sornione. A un tratto la vinse anche la sua costante compi- tezza, la riguardosità che spiegava cedendole il passo, sco- standole una sedia, la premura con cui sporgeva a ogni pa- rola della zia quella faccia tonda caluginosa, sempre dispo- sto all'incondizionata obbedienza. Cominciò a portarselo fuori, fecero insieme delle passeggiate, andarono al cinema- tografo. Egli si mantenne composto e riservato - con una espressione in viso, anzi, paziente, di quella inalterabile pa- zienza ben appagata che caratterizza certe pingui facce di figli unici - non parlava mai, preferiva rispondere con la parsimonia di parole che gli era propria. A lungo andare stancava star lì a cavargli qualcosa di bocca con le molle, c'era come una resistenza premeditata nei suoi rapporti con gli adulti, una cheta protervia, invincibile. Mai Berenice trovò la via per indurlo alla confidenza, o forse non aveva davvero nulla da dire. Al cinema mai si commosse, facevano presa su lui solo le buffonate, allora rideva chioccio sobbal- zando sulla poltrona. Si aveva ritegno a osservarlo in quel- l'abbandono: ma lui non si guarda certo attorno, non bada alla zia, non chiede di condividere la sua ilarità. Si ricompo- neva subito, riprendendo l'aria sonnolenta e la rispettosa di- stanza dal gomito di Berenice. Una volta provò a condurlo a un concerto. Come al solito, egli mise sotto le gambe e restò inerte al suo fianco. Lo vide a un certo punto agitare i piedi, chiudere e serrare le ginocchia, girare in qua e in là il capo oziosamente. Non aveva dato uno sguardo al pro- gramma, lo sgualciva in mano. Neanche la musica fa presa su di lui, già s'annoia. Proprio allora il Nino stava sentendosi tutto irre- quieto, certe note patetiche della viola d'amore gli ave- vano dato concitate spinte di sotto in su. Una voce panica di siringa del flauto culminò con l'eccitante pensiero del- l'indomani: alzarsi, alzarsi presto, niente scuola, ci sarà il sole. Vi fu un momento in cui vide, attraverso il velo gri- gio spiovente dal cappellino di sua zia, minuto nitido e re- moto, un profilo di fanciulla bionda, e poi all'improvviso, volgendosi a sinistra, i volti delle donne un po' riversi, con l'angolo dell'occhio brillante, roseo d'un rosa di conchi- glia l'orlo inferiore della palpebra sotto la mezza luce del lampadario. Dopo fu occupato ad accorgersi delle gambe larghe dell'arpista accoglienti il cornicione d'oro - divari- cati e volti in su, a perno sui tacchetti, pronti al pedale, in piedi - e del modo come di profilo, divenendo tutt'una ruga e vibrando una punta accesa di lingua, l'uomo calvo dagli occhiali abboccasse con labbra prensili il suo flauto. Fino all'ultimo, frastornato da un vago senso di esalta- zione, lo tenne la noia, e ormai non vedeva più, girandosi, che cappelli e nasi. Berenice esce di camera in vestaglia a reclamare il suo caffè più presto: vuole andar fuori subito, godersi una lunga passeggiata domenicale al sole. Dal fondo del corridoio, ode la serva e il ragazzo altercare scherzosamente in cucina. È già lì a importunarla, pensa con la tolleranza dei buoni risve- gli. Come pone le dita sulla maniglia, una vocetta stridula di femmina, che lì per lì non riconosce di suo nipote, dice ben chiaro: «Be', porta 'sto caffè a quella culona di zia Nice.» Allibisce, arretra come se l'avessero colpita in piena fac- cia; poi, raccolta in mano la vestaglia fugge sulla punta dei piedi lungo il corridoio. È scarlatta in viso, le pare di trasci- narsi dietro un posteriore enorme. In camera s'accorge di ansare e di essere letteralmente sconvolta. Passa innanzi allo specchio senza guardarsi, porta indietro le mani, palpa. Grassa, si capisce, ma non al punto... Ah!, ragazzaccio. Una volta era abituata a sentirsi addosso gli occhi dei ragazzi; le accadeva anche, quando ancora insegnava al liceo, di perce- pirli irrisori alle spalle, se nervosa. Ma mai e poi mai si sa- rebbe aspettata questo dal Nino. Così, egli non è punto rispettoso e riservato, con la serva fa dello spirito e usa questo linguaggio. Lo sa sua madre?, Berenice si chiede. No certo, e neppure il padre, sebbene vi si senta il tono pesante della sua facezia. Ella ha per caso posto l'occhio in uno spiraglio ritraendosene sbigottita. Chi è veramente il Nino, com'è? Oltretutto, l'abitudine a esser considerata una bella donna la rende particolarmente sensibile alla grossolana parola. Fi- nisce, un poco peritante, per guardarsi nello specchio, di faccia e di profilo. Grossa, sì. Ma che il Nino abbia posto rocchio su questa parte del suo corpo, è davvero sconcer- tante. Le pare di essere terribilmente conscia d'averla, que- sta parte, e così vistosa, che mai più potrà muoversi con di- sinvoltura avendolo alle spalle. Pensa perfino d'escogitare qualche pretesto e ripartirsene. Nel pomeriggio festivo, quando essa entrò in salotto, il ragazzo era già con Concina nell'angolo del pianoforte. Si mise a spiarlo da lontano, dimenticando di sorridere alle piacevolezze che subito Berto ammanniva per intrattenerla. Eccolo lì, il coltivato urbano convenzionale bambino d'un tempo, che le aveva fatto fare calcoli così errati sulla mallea- bilità della natura. È ancora lui, non c'è dubbio, il ritratto di sua madre, con quel che di sconveniente e assurdo hanno a un certo punto tali somiglianze - e ciò forse rende la cosa ancor più conturbante - la garbata rotondità di ragazza, il viso lunare, i tratti minuti, il bocchino, sinanche la spruzza- tura di efelidi per cui suo padre lo chiama Faccia-di-crusca, e il ciuffetto bruno ben ravviato, egli che non è mai stato alle prese con quella spazzola irreducibile che amareggia le prime velleità vanitose dei maschietti. Eccolo, appena uscito dall'infanzia, e già coperto, dalle guance ai polpacci, d'una lanuggine che lo fa tutto pubescente, tutto soffuso di sesso. Attorno alla bocca tonda - sembra ancora la boccuccia a ventosa dell'infaticabile poppante che fu al seno materno - la caluggine si fa più scura, un alone inverecondo fra cui sporge tumido il roseo bocciolo come un capezzolo suc- chiato E ha già qualcosa di voluminoso nei calzoni, lo si vede benissimo. Conscia a un tratto dei propri pensieri, Berenice arrossì, chiazzandosi fin sul collo. «Le vampe, eh?» disse Paola. Berto distolse gli occhi con premura. S'intende, lui, di "cose di donne"; ama ripetere, al modo d'un vecchio medico, che il miglior rimedio è sempre un marito. Berenice glielo lesse in faccia, provando, insieme alla irritazione che sempre le strideva dentro agli eterni luoghi comuni del cognato, un irresistibile sollievo della propria condizione. Mettere al mondo un figlio, ah! per l'amor di Dio. Essa ne impazzi- rebbe, non é mica Paola. D'allora andò concretandosi come una sensazione di mostruosità per quel tanto di esteriore che talvolta sfigura il ragazzo in crescita, e, più, per quell'inferiore sfiguramento che s'immaginava accompagnarvisi. Deve fargli capolino dentro a un tratto, ai ragazzi, l'oscenità della natura, e solle- ticarli e istigarli chissà come, consigliandoli tuttavia a una dissimulazione così accorta da sbalordire. V’è qualcosa di incongetturabile in un essere di questa età, che sgomenta. In quanto al Nino, le pareva davvero di non aver mai visto uno scoppio simile di adolescenza sulla forma ancora imma- tura d'un fanciullo, e insieme la più olimpica tranquillità. Tranne l'inverecondia di quel pelame, non c'è apparente- mente altro, nulla ancora di sgraziato, neppure la crescita improvvisa delle estremità. Anzi il Nino non sembra avve- dersi di niente, non appare goffo né ombroso, non è mai impacciato. E neppure tenta sottrarsi ai bamboleggiamenti della madre, non chiede neppure che gli si allunghino i cal- zoni. E anche questo un modo di difesa, la passività opaca attraverso cui i genitori mai si provano a spiare. Natural- mente Paola non s'accorge di nulla, non vede, non vuol ve- dere nulla. Come passa un figlio dall'infanzia alla giovi- nezza? Come avviene una tale metamorfosi? (Domandarsi almeno se è dolorosa, laboriosa!) Ah, bene, esse, le madri semplicemente lo ignorano. Esse che persistono a volerlo ancora e tutto in loro potere, che continuano a sorvegliarne le feci e le maglie di lana, le compagnie e gli studi, esse chiudono tutt'e due gli occhi su questo. E non è neppure un male, forse una grazia della natura. (Ma Berto, quello scem- pio!) Poiché, dopotutto, se li ritrovano a fianco uomini, e non è accaduto nulla, la loro bestiolina .addomesticata ha fatto il salto da sola. Un ramo d'albero stecchito, proteso nel vuoto, spri- gionò improvvisamente un visibilio di gemme. A guardarlo dal letto pareva circonfuso d'un insolito nimbo bianchiccio, ma posti gli occhi al vetro si delinearono le ben ravvolte nu- becole, e tendenti piuttosto al celeste che al verde: una cosa tenerissima. Berenice ne fu emozionata, da tempo non aveva un ramo alla propria finestra cui spiar la primavera. Tentò sporgendosi di mettervi su la mano, ma non lo rag- giunse. La vide il Nino, di sotto, che se ne stava solo ai piedi dell'albero, e dopo un poco gliene portò in camera uno stecco tutto gemmato. Anche questo la commosse. Mise in acqua lo stecco per seguire i germogli svoltolarsi. Ma poi la serva dovette buttarlo via, non seppe mai che cosa sarebbe avvenuto nel bicchiere. Fu del resto un momenta- neo intenerimento. Le capitò, una volta partita, di non ri- cordarsi neppure a che punto fosse quel ramo d'albero fuor della sua finestra. Ora, addolcendo sensibilmente l'aria, usciva spesso anche Paola, gironzolavano per interi pomeriggi. Sostato in qualche negozio e stazionato con gusto dinanzi alle vetrine di mode, Paola stava poi in rispettosa attesa quando la so- rella si dimenticava in una libreria. Uscendo, diceva timida e reverente: «Sempre i tuoi libri, eh?» Ma non erano libri ponderosi, Berenice stava approfittando dei suoi ozi per ri- mettersi un po' al corrente con la letteratura. Comprava romanzi, ne aveva una pila sul comodino. «Che non li prenda il Nino» disse una volta a Paola. E s'ebbe in risposta un tranquillo: Non c'è pericolo.» Anche la nuova narrativa stava procurandole sorprese. Non che si scandalizzasse, ne era solo impressionata come del ragazzo, forse anche allo stesso modo tinto di repu- gnanza, ma certo con un senso d'interessamento profondo e allarmato e carico di dubbi. Le parve, in sostanza, che il nudo protagonista dei più spregiudicati scrittori americani, venisse in Europa anche scorticato, presentato sanguino- lento e con le interiora di fuori come un povero coniglio alla mostra del beccaio. Mai, nella narrativa mondiale, s'era parlato così di tutto e così crudo e così a fondo, da dare la vertigine del carnale abisso umano: una gara di audacia, fra anatomica e metafisica, senza precedenti. Taluni libri - pensa Berenice - sembrano proprio emanare quell'odorino caldo nauseoso di visceri pieni, che vien fuori da un pollo quando lo si spacca con le forbici. (Per pulirlo, il pollo, e potrebbe anche esservi un'analogia, se pur non sia il caso di dire solo svuotarlo.) Quest'odorino, del resto, anche l’esteta di casa l'ha annusato, lui che applica incesto e nausea fi- nanco alle innocenti tartine. Pure, fu in certo qual modo sollevata nello scoprire come il problema, che chiamava del Nino, fosse all'ordine del giorno della letteratura, e in forma ben più astrusa di come si presentasse a lei. Bene, non mi verrà mica a dire che sono idee, manie, morbosità da zitella! E che, sarebbero forse zitelle, questi scrittori europei d'oggi? Buttò giù gli appunti per tre o quattro articoli, anch'essi irti di audacie introspettive, e si mise un poco l'anima in pace. Rinunziava a intervenire, la sua presenza in casa essendo troppo fugace per intraprendere qualcosa, rimuovere Paola e Berto dalle loro radicate posizioni, il ragazzo dall'atteggiamento diren- avo. Aveva deciso anzi di evitarlo, il Nino, sebbene le pa- resse sempre di sentirselo alle spalle, a spiarla, o se lo figurasse a rider con la serva della zia grassona. Smise di por- tarlo con sé, escogitando ogni volta un pretesto, sicché il ra- gazzo riprendeva le vecchie abitudini e, visto così di lon- tano, finì col parere più rassicurante e normale. Il sabato aveva la libera uscita per andare al cinematografo. Berto gli metteva in mano il danaro contato. «Eh! Eh!, vedi bene» era uso dire ammiccando. Ci bada, lui, che il figlio non possa disporre; si sa che i vizi vien sempre in tempo a pren- derli. Temeva si mettesse a fumare, era però abbastanza li- berale da concedergli quel paio d'ore settimanali di indi- pendenza programmata. Ora avvenne che una volta, uscendo dopo il ragazzo, Be- renice se lo trovasse dinanzi sul marciapiede in una via del centro, sbucato da una traversa. Non lo ravvisò subito. Aveva la nuca piena di capelli, la schiena grossa sotto il paltò ancora invernale e un'andatura dinoccolata. Appena si fu resa conto che era proprio lui, sostò davanti a una ve- trina. Dunque non è andato al cinematografo, non va al ci- nematografo quando esce solo. La sua giornata di uomo, se- condo il padre. Magari lui stesso la intende così - da un suo particolare punto di vista, naturalmente - va in cerca di chissà che cosa. Lo spiava di sbieco e, come si fu allontanato abbastanza, prese a seguirlo. Egli non mutava andatura, quasi non avesse una meta, o comunque non fretta di rag- giungerla. Una volta girò il capo dietro una donna, ma nel timore di essere scoperta Berenice si fermò di nuovo. Potè vederla solo alle spalle, era una signora piuttosto corpulenta e vistosa. Ah!, guarda un po', forse s'è voltato solo per qua- lificarla tra sé di quella salace parola che applica a sua zia. Ma dove va? O meglio, di dove viene? Rallenta il passo, pare indeciso, di colpo si rivolge. La vide subito ferma in- nanzi a una vetrina. «Oh!, zia Nice.» «Tu?» «Eh! sì, io.» «Non sei andato al cinema?» «Non ne avevo voglia, oggi.» «Ah!» «Ma tu, non dirlo al babbo, zia.» La guardava diritto, coi suoi occhi mendaci ben svegli, come sicuro della complicità. Non insistette neanche per aver risposta, era sottintesa. S'incamminarono assieme in si- lenzio, nella direzione scelta da lui. «Posso offrirti le caramelle» disse a un tratto. La sbirciò allegro fanciullesco disarmante, nel proporre di pagarle il silenzio. «Sono dunque destinati alle caramelle, quei soldi?» «Oh!, a niente di preciso. Ma che ne farei? Sai che mi comperano tutto quello che voglio.» (La frase di suo padre, la norma di Berto: non fargli mancar nulla, perché non si debba desiderar nulla e procurarselo di nascosto. Come se si potessero conoscere tutti i desideri, le voglie di un ra- gazzo, come se potesse confessarli tutti. Ma che arietta ipo- crita, ripete la lezioncina per darla a bere a sua zia.) «Ora ti compro le caramelle.» Fece per entrare in un bar, Berenice lo trattenne. «No, ti ringrazio, tieni i tuoi soldi, potranno sempre servire.» Un impulso, che subito rimpianse, la spinse ad ag- giungere: «Anzi, mettici anche questi.» Cavato dalla bor- setta del danaro, glielo ficcò in tasca. Il Nino spinse in fondo, vi tenne la mano e sorrise, la guardò di nuovo gra- ziosamente con quel suo sguardo di micio nella mascherina delle efelidi. «Sono tanti, zia.» Era sveglio e quasi comuni- cativo. Come se si sentisse colpevole, pensò Berenice, ormai allarmata di avergli dato quel danaro. Rientrarono assieme. Lui scappò subito in cucina ad aiu- tare la serva, dispose con cura le posate, aggiustò nel vassoio una incrollabile piramide di frutta. A tavola, come d'ob- bligo, dové raccontare la trama del film, presentò non so che comici, fece ridere molto suo padre, egli stesso aveva certo occhietti micanti d'eccitazione. Guardò più d'un volta dalla parte della zia. Essa stava ad ascoltarlo traseco- lando. Caspita, se è abituato a mentire. Si domandò se vera- mente avesse ancora in tasca il danaro del biglietto, se avrebbe potuto davvero comprare le caramelle, e l'idea di tanta audacia le tolse il fiato. Certo non lo ha più. E chi può dire dove vada un ragazzo coi soldi in tasca? Finì per do- mandarsi se, posto che lo lasciassero entrare in uno di quei luoghi, la somma d'un biglietto di cinematografo sarebbe bastata. No, proprio non lo sapeva, né riusciva a immagi- narselo. Ah!, saper tanto, essere un'arca di scienza pedago- gica, e ignorare questo, un particolare così essenziale. Andò a letto con una fastidiosa sensazione addosso di colpevolezza, cui poco dopo, guardando il proprio braccio grasso sotto il libro, s'aggiunse inopinatamente il ridicolo della situazione. Ci contava, era sicuro del silenzio. Mi sono dunque prestata come una stupida al suo gioco, un gioco da ragazzi in cui la delazione non è ammessa. Si rese conto, chiudendo il libro e continuando a guardare come se leg- gesse sul bianco del braccio, d'aver appunto avuto quella debolezza, mettersi alla pari con lui, aver vergogna di fargli la spia, come fosse stata una sua compagna di scuola e non la zia pedagoga. (Egli certo mi chiama così.) Ma infine, ac- cusarlo di che? D'aver preferito gironzolare all'aperto, anzi- ché rinchiudersi in un cinema? La zia sa che il padre lo ti- ranneggia con le sue imposizioni. E poi, ha pur profferto di comprare le caramelle coi propri soldi. Tutto il resto, dubbi timori sospetti, è innominabile. Non si poteva mica dirlo a lui, non si può dire a suo padre o a sua madre: E se andasse in un bordello? Vi sono cose che non è lecito nominare, la gente se ne scandalizza, non ammette si sospettino neppure. Benché tutti poi sappiano che si fanno, che esistono. È come un mondo a parte, con quella grottesca estraneità, quell'aria di dissimulazione che ci s'immagina stia assu- mendo, entro lo scuro alveo del comodino, l'orinale in una ben parata camera. Aveva voluto, giorni prima, che Paola togliesse quel ridicolo strumento, non poteva impedirsi di pensarlo lì accanto acquattato, mentre erano insieme la mattina a ciarlare fumando come in un salotto. Da qualche tempo, in verità, la coglievano pensieri assurdi, tutto si met- teva a perseguitarla. Ma che il ragazzo stia maturando, è uno di quei fatti sulla cui evidenza e urgenza non si può equivocare. Berto dovrebbe... Che dovrebbe mai fare Berto? È inimmaginabile questo poveruomo così benpen- sante, che si metta a istruire il proprio figlio sul come... Ma come, come? E forse il come lui l'ha già trovato, da solo, nel segreto delle lenzuola. Scese dal letto e andò in giro scalza. Sapeva che si sarebbe fermata dinanzi allo specchio, era agitata anche di se stessa, incuriosita e sorpresa, anzi sgomenta, come se rapporti col mondo del tutto nuovi la cogliessero, non solo impreparata, ma addirittura all'oscuro del proprio essere reale. Si scrutò tentando di cogliere quella figura con occhio estraneo, di vederla come la vede- vano gli altri, a esempio il Nino. Una donna discinta, dalla faccia un po' vacua, smarrita. Non sai che fare, eh? Brava, zia pedagoga. Sollevò fatuamente una mano ai capelli, rialzò una ciocca, l'arrotolò al dito. Ancora senza un filo bianco, una chioma giovanile, lucente, e s'è serbata ricciuta, mentre a Paola, subito dopo il parto, i ricci si sfecero. (Ricci scempi, diceva mamma, anch'essa li aveva perduti coi figli.) Ora non sembra nemmeno la più giovane, s'è tutta sfatta, Paola, le casca il seno. Mise le mani al suo, grosso e sodo ancora, e sgusciò una spalla dalla camicia, col vezzo di quand'era fanciulla, che si usavano scollature ampie. Strano come avvizzisca presto il cavo e come invece si mantenga nitido il pomo della spalla. È la parte del corpo più ben tesa, o forse anche le natiche... All'improvviso si sentì gravar la schiena d'un posteriore enorme e corse a rifugiarsi nel letto. Le era venuto in mente che il Nino potesse spiarla dal buco della serratura, si sa che a quell'età fanno ignobili cose, non risparmiano neppure la propria madre. Col respiro fre- quente, fingendo di nulla, riprese il libro, rivide il braccio grasso, una peluria rada acciaccata per l'ampia curva del profilo carnoso, che emanò dopo un poco odor fievole di borotalco fin dentro il sonno. La mattina entrò furtiva- mente in camera del ragazzo, come l'ebbe udito uscire e scoprì il letto, ispezionò le lenzuola: immacolate. Di nuovo è domenica, di nuovo viene Concina: è la quarta volta, sta diventando anche lui usuale più di quanto si convenga a una così eccentrica persona. Già quattro do- meniche, una intera lunazione, cara la mia zitella, si disse entrando in sala. Avrebbe potuto restare ancora un mese, ma non era certa di resistervi, il suo prezioso riposo era già andato sciupato. Concina mostrava al ragazzo una rivista, sfogliandola sul pianoforte vi chinavano assieme la testa. Berto e Paola indicarono la terza poltrona. Si lasciò andare di malavoglia, prestò orecchio a una intermittente recezione del chiacchiericcio vicino e lontano, afferrando parole sle- gate: «... aumentato il burro... tonale... sigarette schifose... espres...ta ta ta» Concina schiacciò un tasto quattro volte, la faccetta del Nino si sollevava impenetrabile dietro la mascherina. Probabilmente non l'interessa nulla di quel che sta ascoltando, è solo per obbedienza. L'hanno ad- domesticato, non educato. Essi addomesticano tutto e tutti, per star tranquilli, perché niente sbandi sotto le loro mani, niente si agiti troppo. Hanno persino il loro esteta addome- sticato. (S'infuriò repentinamente, fremé. Sapeva di dover fronteggiare tra poco un altro mostruoso pensiero che stava nascendo per le corna.) Ora li rimpinzeranno di crostini, poi li manderanno assieme al cinematografo, e così... «Che pensi, Nice?» Trasalì, incontrò le vizze pervinche di Paola, quel pate- tico occhio così esasperante, e formulò in risposta un sor- riso inespressivo. Passato il braccio dietro la schiena del ra- gazzo, Concina si curvava sempre più, congiunsero le tempie. La sua mano d'un rosa intirizzito, stridente sulla giacca nocciola del Nino, sollevava e riabbassava le dita come pal- pando. Tutta la sua flaccida figura ripiegata esprimeva una sorta d'ansietà tremante, una sudicia cosa, dietro cui Bere- nice vide rizzarsi il suo pensiero con le corna. Quando pre- sero posto con loro attorno ai vassoi, le si affocarono le guance alla sensazione d'una tal vicinanza. Vedeva schi- fando la forfora di cui era cosparso alle spalle il vestito fru- sto di Concina, la sua bocca molle che succhiava ghiotta il dolce, il mento gelatinoso da vecchia signora e quell'impor- porarsi della pelle come una voluttuosa congestione. Lo ravvisava, riconosceva ormai la sudicia figura del corruttore, il laido protagonista dell'invertimento generale e fonda- mentale d'un mondo stremato che i libri le avevano sco- perto. E tra poco gli lasceranno portar via il ragazzo, e chi può dire dove? Se lo porterà forse nel suo studio, una qual- che sporca soffitta parata di sconce immagini, per conti- nuare a propinargli così untuoso le sue spregiudicatezze e persuaderlo ai propri scopi, se già non v'è riuscito. Con spasimosa intensità Berenice continuava a osser- varli, cercando qualche indizio, tentando d'immaginare come dovrebbero mostrarsi, a occhi consapevoli, due che se la intendano così. Pur riluttando da questo nuovo pensiero, ritrarsene non poteva più, era costretta ad ammettere per certo che il Nino celasse un qualche appagamento nella sua placidezza. È innaturale questo stato di acquiescenza, il solido equilibrio su cui sta, che non collimano per alcun verso col disordine pubescente della sua lanuggine e coi tanti altri segni d'una condizione fisica fra le più penose a risolversi nell'ambiente circospetto rinserrato e rigoroso creatogli attorno dalla casa dei genitori. Per qual via s'è messo, se ha potuto già uscirne? Bisogna dunque provare a figurarselo, questo morbido giovine gatto così sornione, così impenetrabile, a piegar le sue grazie conturbanti an- cora senza sesso, a lasciarsi... Oh! «Zia ti cade.» La mano grassoccia di lui raddrizzò fra le sue la chic- chera che traboccava. Le porse un biscottino, la guardò aperto diritto, con verace sollecitudine negli occhi. «Sei distratta, zia. Cos'è?» Rise, la guardò ancora, le porse un altro biscottino. Mai s'era mostrato premuroso in un simile modo, le sue frasi spontanee e confidenziali, il tono con cui le pronunciava, erano del tutto opposti al modo convenzionale che aveva di portar riguardo e palesare interesse a un adulto. Come se fosse più conscio di sé e degli altri, in uno stato di soddisfa- zione: come se s'aspettasse, da questa sortita domenicale in compagnia, ben più che dalla solitaria libertà del sabato. (Guarda un po' - sta pensando il Nino - che cosa curiosa i nasi. Di tanto in tanto lo colpisce, in faccia a qualcuno, co- mica, la immobilità di quel pezzo di carne. Parla, ride, e non le si muove, sembra paralizzato.) «Dove vanno?» chiese bruscamente Berenice, come anche Paola fu uscita per accompagnare fin sulle scale Con- cina e il suo ragazzo. «Dove?» ripetè Berto intento ad accendere una sigaretta. «Ah! al cinema, naturalmente, come il solito. Qui vicino, al rionale. Perché?» Succhiò con energia. «Schifose» ripetè per l'ennesima volta nella giornata. (Ne aveva fatto scivolare un pacchetto in tasca a Concina, prima che uscissero.) Col medesimo tono brusco, considerando la criminosa incoscienza del proprio cognato, Berenice domandò ancora: «Chi paga?» «Cosa? Il biglietto, vuoi dire? Bè, sai, è un po- veruomo, gli compro qualche quadro per aiutarlo. Un vero artista, ti assicuro. E gli do... Penso che qualche volta biso- gnerà invitarlo a pranzo. Non puoi credere...» «Dunque, chi paga?» «Naturalmente, io. Do i soldi al ragazzo, provvede per tutt'e due. Ti assicuro, fa proprio la fame.» Berenice uscì sola poco dopo. Al cinema rionale restò in piedi qualche minuto. S'accese subito la luce, non tardò molto a scoprirli: erano in una delle ultime file, fumavano entrambi buttando in aria gran boccate e scambiandosi sguardi soddisfatti, mentre pescavano a turno, da buoni compagni d'orgia, in un voluminoso pacco di caramelle che il Nino teneva aperto sul bracciolo della poltrona. Una notte, svegliandosi, Berenice ha necessità di andare in bagno. Il bagno è in fondo al corridoio, accanto allo sga- buzzino della serva, bisogna passare avanti alla camera del ragazzo; una cosa seccante. Eppure, via, sarebbe ora di met- tersi a considerarlo quel bambino che è, anziché provare vergogne ridicole. Appena fuori, vede dall'uscio accanto, socchiuso, trapelare luce e, avanzato il capo, scopre il guan- ciale vuoto. Bene, ha dovuto andarci anche lui, s'è bevuto grand'acqua a tavola con quel pasticcio così pesante. Si assi- cura che non stia nella camera: semiscoperto il letto, divari- cate sul tappeto le pantofole: è andato scalzo. Poi s'accorge che il vetro smerigliato del bagno è oscuro, e torna a sen- tirsi irresoluta. Le secca andare avanti, dover aspettare die- tro l'uscio, e magari trovarsi faccia a faccia mentre s'aggiu- sta il pigiama uscendo. Fra le stupide situazioni che le si sono create col ragazzo, questa è certo la più stupida e irri- tante. Però, sarebbe strano che stesse lì dentro al buio. S'av- via cauta sulle babbucce: si va a girar la maniglia, se è occu- pato si torna indietro. Ma non era occupato. Invece, uscendo, s'accorge della luce in camera della serva, al ret- tangolo di vetro sormontante l'uscio. Toh!, si mette anche lei a leggere tutta la notte. Ma non le riesce più di prose- guire, questa volta la perplessità è d'altra natura. Va come un ombra a guardare in cucina, va in salotto e in sala da pranzo, esce persino sulla veranda. Allora tutta la sua incer- tezza svanisce, cessa di almanaccare, è accorta e deliberata come una donnetta che spia. Le basta guardarsi attorno per decidere. Proprio a fianco di quell'uscio, c'è una vecchia consolle della loro casa paterna, un antico mobile di noce ben solido, di cui Paola non aveva mai voluto disfarsi, pur non riuscendo a collocarlo tra il suo arredamento moderno. Postovi innanzi uno sgabello, Berenice se ne serve per sa- lire. S'arrampica sulla consolle agilmente, solleva la sua mole con sicurezza e facilità, non avendo pensato prima a temer d'un capogiro o d'un passo falso. Com'è sopra, ritta, scorge attraverso la spia di vetro, contro l'angusta parete, le ampie volute nere d'un letto di ferro. Sporgendosi, può lan- ciare uno sguardo più in basso: sono lì tutt'e due. Stettero quasi tre ore, con le valige a terra, in attesa del treno sulla banchina della stazione. Neppure Berto riu- sciva a capacitarsi che alla rivista necessitasse così di colpo la presenza della direttrice. «Ma come, se ti avevano già mandato le bozze, ma come!» (Era stato il ritornello di Paola tutta la mattinata.) E a un tratto aggiunge: «Con- tavo tanto, per il Nino, sulla tua influenza educativa.» «Ah!» dice lei trasalendo. E Berto infine zittisce. È inutile continuare ad affliggerla, non ci ha mica gusto ad andar- sene dal comodo, a viaggiare così male. Ora si sembra tutti poveracci in viaggio. Berenice stava tentando di ricostruire in sé l'immagine della sbiadita donnetta, è come se l'avesse vista per la prima volta oggi. (Semplicemente non era stata considerata un personaggio, ma una comparsa.) Si presenta in camera come al solito col vassoio, ben ravviati gli scarsi capelli biondi, pallidina e acciaccata, con l'usuale sorriso sui denti rovinati. Potrà avere trent'anni, forse più o forse meno; questa gentuccia patita non si sa mai che età abbia real- mente. Rammentò di aver notato, come se ne andava, le smilze gambe nude sotto la gonna, d'un bianco d'ovo sodo, e i talloni aranciato vivo fuor delle ciabatte. Carnagione di bionda linfatica, sarà magari liscia senza troppa pulizia. Non provava repulsione, neppure quel vivace senso di biasimo che sarebbe stato lecito aspettarsene. Forse una paesana, ma che, commesso "il fallo", deve andarsene a tirar la vita altrove. Sembrava così seria, così a posto. Ma accade che, dopo anni di vita castigata, si risveglino a un tratto i sensi, un fresco ragazzo può ben incarnare la tentazione. Dagli scherzi di cucina, da quella dimestichezza gomito a gomito, dal toccarsi e cimentarsi per gioco, scocca all'improvviso la scintilla. Come sarà stato?, si chiese. E le parve che dovesse essere tutta colpa del Nino, s'immaginò il ragazzo starle ap- presso con quella sua insistenza, quella pertinacia tranquilla, il lungo accanimento muto che metteva nei giochi. Era tutto quanto ritrovava ormai di lui, il resto le sarebbe rima- sto ignoto. Non riuscì neanche a rammentare in quale occa- sione avesse visto, attraverso la impenetrabile mascherina, quegli occhietti micanti d'eccitazione. «Penitenza, eh?» disse Berto. «Come?» «Una penitenza, dico, star qui ad aspettare.» «Già.» Quell'ignara faccia le procurò un senso di malessere. Se ne distolse, rivolgendo un cauto desiderio alla sua casa, ai libri, al calmo mondo teorico che l'aspettava. Era stato il suo immobile mondo senza dubbi e senza conflitti, quel- l'angolo dello scrittoio dove avrebbe ripreso a lavorare fra le pile dei ponderosi volumi e il mucchio della corrispon- denza inevasa. Malgrado tutto - la implicita sconfortante confutazione e il senso del ridicolo che per di più v'è con- nesso - sperava di potervisi ancora ritrovare a suo agio, ri- sentirvisi tranquilla e autorevole sotto lo sguardo reverente della fedele Pons. Bisognerà certo tener conto di questa esperienza, tener conto... Perché è stupefacente come abbia ritrovato così da solo la via dritta della natura. Non è più come quella caverna dell'infanzia, l'infatuazione a freddo; qui ha operato qualcosa di genuino, una cosa potente seb- bene cieca, capace di sprigionarsi come una gemma dal legno. Ah!, ma ripugna pensarlo la notte in quello sgabuzzino, a fiato a fiato con la donnetta dai denti guasti, nelle sue lenzuola che devono sapere di rigovernatura. E sotto lo stesso tetto con Paola. Ah!, per l'amor di Dio. Si mise a camminare, così concentrata in volto, che Berto le si girò dietro e le tenne gli occhi sulla schiena. Come tornava sui propri passi, e la vide sorridergli gentil- mente, nella sua semplicità ne fu sollevato, si sentì a un tratto gioviale. Le porse da fumare, lei non volle in mezzo a quella gente, riprese ad andar su e giù per un breve tratto. Era combattuta e insieme alleviata, e colma d'uno strano senso di contrizione. Quel poveruomo di pittore ha una fac- cia famelica, di vera fame viscerale, ecco tutto, e quel rosa intirizzito della pelle che si congestiona mangiando è il co- lore d'uno cui manchino al corpo le calorie del cibo. Erano così innocenti, in quelle poltrone del cinema, con la siga- retta e le caramelle, con tutta la loro fanciullaggine in bella mostra: due scolari sfuggiti alla sorveglianza. Sicché, il Nino ha anche imparato a fumare. Ma forse preferisce di gran lunga le caramelle. E quella volta, certo aveva ancora in tasca il danaro, voleva davvero comprargliele. Lo rivide, con le spalle insaccate e la faccetta calugginosa piena di pre- mura, in mezzo al marciapiede, accanto a lei che stava so- spettandolo di chissà quali ignobili calcoli. (Il mondo d'un ragazzo è pur sempre semplice trasparente e candido; tutto, s'è visto, vi accade con la facilità rigorosa della vita.) Voleva, sì, che non lo accusasse a suo padre d'aver preferito al chiuso del cinema le vie domenicali, ma soprattutto deside- rava, un po' goffamente, comportarsi da uomo. E lo era. Era un uomo, quello che voleva offrir caramelle, più di quanto lei fosse mai stata donna. Lo era persino in quel de- siderio di gustare il dolce in compagnia, non tenta che i fan- ciulli e i vecchi prendersi piacere da soli. Con sommo stupore, Berto vide la sua rigida cognata guardarsi a lungo in uno specchietto, ferma a pochi passi da un gruppo di contadine tra i loro canestri. Tentò di farle cenno, avvertirla che giungeva il treno, ma quella non ces- sava di mirarsi come fosse nella sua camera. S'era dimenticata, Berenice - lei che non tirava mai fuori lo specchio dalla borsetta - a guardare la propria fac- cia. A un tratto ci s'accorge che ora o mai più ci si potrà ve- dere, sapere come s'è realmente, come gli altri ci vedono, come ha potuto vederci un ragazzo. Perché lì, in quella casa ove il tempo pareva arrestarsi, invece s'è vissuto davvero - e si continuerà a vivere fervorosamente poiché c'è un figlio che cresce - con gli spiriti desti al fluire dell'esistenza e la sensibilità spronata da un mordente senza pari. Per questo tanto spesso le accadeva di sentir mutati i propri rapporti col mondo, di sentirsi mutata essa stessa e sempre in pro- cinto di scoprirsi. Così, adesso può vedere che la bella faccia regolare e pastosa di dea, che ancora credeva di mostrare agli occhi del prossimo, non c'è più: i tratti inspessiti, quella pesantezza non ancora floscia ma già ceduta, lo sguardo opaco sotto l'arco mantenuto nitido dalle pinze. E il ra- gazzo ha forse visto questi peli che rispuntano irreducibili per il collo. Ora sa d'esser vecchia e lo apprende con quella irrevocabilità che di solito alle donne è risparmiata. Quando scorse Berto farle cenno, tornò rapidamente. Già la folla si assiepava, carica di bagagli, tumultuando. Si tenne indietro, finché lui non ebbe agitato trionfalmente le braccia da uno sportello di prima classe. Appena sceso, s'ap- prestò a farla salire, sporgendo premuroso le mani ai suoi gomiti senza toccarla. Su quella faccia così cordiale, così soddisfatta d'averla sistemata bene, dové dire con cruda fretta: «Ti avverto, il Nino va la notte in camera della serva» e distolse gli occhi. «Cosa?» fu costretta a guardarlo. Stava lì, col medesimo sorriso, non lo mutava ancora dopo che essa ebbe ripetuto. «Chi, Faccia-di-crusca?» balbettò infine, incredulo e triste come un uomo ingiustamente colpito. Be- renice s'arrampicò da sola, inciampando nell'orlo del man- tello, e subito sentì le mani di lui servizievoli sospingerla. Lo vide ancora dal finestrino, immiserito, con le braccia in giù, e in volto quella pietosa espressione di smarrimento. È pur sempre il buonuomo che s'ingegnava col suo malde- stro garbo a nutrire l'affamato artista e a dirigere il proprio figlio sulla retta via, è stato duro colpirlo. Ah!, ma biso- gnava bene che una volta o l'altra si rendesse conto, fosse costretto a pensarci su seriamente. Si raggomitolò nel posto d'angolo guadagnatole da lui, chiuse gli occhi e lo cancellò dalla mente. È del ragazzo che si tratta. Non aveva potuto esimersi da questo, un dovere così increscioso e sleale: fargli la spia. Eludendo fino all'ultimo una risoluzione, evitando anche di proporsela, già da stanotte sentiva che avrebbe do- vuto in ultimo farlo, metterglisi di nuovo attraverso la strada, tradirlo per la seconda volta. Non è concesso che ai ragazzi saper sempre e con infallibilità quel che vogliono, quel che c'è da fare. Chini gli occhi alla borsa, da cui non avrebbe mai più tratto così incautamente lo specchio, ri- piegò umiliata nella sua debole e confusa condizione di adulta.

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Racconti 1

662659
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo. - Devi annoiarti in questa solitudine. - Ho pianoforte, musica, libri! ... E poi, mi dai tu forse tempo? - Faccio quel che posso. - Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú. - Non è neppure una marcia. In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano. - Ti annoi; perché negarlo? - Ti dico di no. - Tanto meglio -. Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina. - Che bella veduta! - ella disse. - Bellissima! - E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Nell'arco del mantice si disegnava lo stesso paesaggio che egli aveva intraveduto quel giorno, mentre abbandonava la testolina sulle ginocchia di lei, e stendevasi lo stesso cielo di un azzurro chiaro melanconico. Ecco la cantoniera: nel paesaggio, a linee forti, ondulato, verde di macchie selvaggie, s'intravede qua e là qualche filo d'acqua violacea; s'odono fischi d'uccelli palustri; un pastore, bronzeo su uno sfondo luminoso, guarda l'orizzonte. La corriera si fermò un momento davanti alla cantoniera. Seduta sul gradino della porta, una donna in costume tonarese, tutta fasciata nelle ruvide vesti come una mummia egiziana, scardassava un mucchio di lana nera con due pettini di ferro: poco distante tre bimbi laceri e sporchi giocavano, o meglio si accapigliavano fra loro. Ad una finestra apparve un viso scarno e giallo di donna ammalata, che guardò la vettura con due grandi occhi verdognoli, pieni di stupore. La cantoniera desolata pareva l'abitazione della fame, della malattia e del sudiciume. Anania si sentì stringere il cuore: egli conosceva perfettamente il dramma tristissimo svoltosi ventitré anni prima in quel luogo solitario, in quel paesaggio rude e fresco, che sarebbe stato così puro senza l'immondo passaggio dell'uomo. La corriera riprese il viaggio: ecco Mamojada, emergente tra il verde degli orti e dei noci, col campanile chiaro disegnato sull'azzurro tenero del cielo; da lontano il quadretto aveva le tinte delicate d'un acquerello, ma appena la corriera si inoltrò su per lo stradale polveroso, il profilo del paesetto prese tinte cupe, ancor più forti di quelle del paesaggio. Davanti alle casette nere costrutte sulla roccia s'aggruppavano caratteristiche figure di paesani: donne graziose, coi capelli lucenti attortigliati intorno alle orecchie, scalze, sedute per terra, cucivano, allattavano, ricamavano. Due carabinieri, uno studente annoiato, un vecchio nobile, che era anche contadino, chiacchieravano davanti alla bottega d'un falegname, intorno alla cui porta stavano appesi molti quadretti sacri dipinti a vivi colori. Dopo mezz'ora di fermata la corriera ripartì. Ecco le rovine della chiesetta, ecco gli orti, ecco la piantagione di patate dove l'altra volta Olì ed Anania si erano fermati. Egli ricordò la donna che zappava, con le sottane cucite fra le gambe, e il gatto bianco che si slanciava contro la lucertolina verde guizzante sul muro. Nell'arco del mantice i paesaggi si disegnavano sempre più freschi, con sfondi luminosi: la piramide grigiastra di monte Gonare, le linee cerule e argentee della catena del Gennargentu apparivano come incise sul metallo del cielo, sempre più vicine, sempre più maestose. Ah, sì: ora davvero Anania respirava l'aria natìa, e sentiva tutti gli istinti atavici.. «Vorrei balzare giù dalla vettura, correre su per le chine, fra l'erba ancora fresca, tra le macchie e le roccie, gridando di gioia selvaggia, imitando il puledro sfuggito al laccio e ritornato alla libertà delle tancas. Sì», egli pensava, mentre la corriera rallentava la corsa su per la strada in salita, «io ero nato per fare il pastore. Sarei stato un poeta, forse un delinquente, forse un bandito fantasioso e feroce. Oh, contemplare le nuvole dall'alto d'un monte! Figurarsi d'essere il pastore d'una torma di nuvole: vederle errare sul cielo argenteo, incalzarsi, svolgersi, passare, scomparire!» Poi pensò: «E non sono un pastore di nuvole? Fra le nuvole ed i miei pensieri che differenza c'è? Ed io stesso non sono una nuvola? Se fossi costretto a vivere in queste solitudini mi dissolverei, diventerei una stessa cosa con l'aria, col vento, con la tristezza del paesaggio. Sono io vivo? Che cosa è, dopo tutto, la vita?». Come sempre, egli non seppe rispondere alla sua domanda: la corriera saliva lentamente, sempre più lentamente, con moto dolce, quasi cadenzato; il cocchiere sonnecchiava, e pareva che anche il cavallo camminasse dormendo. Dal sole alto verso lo zenit calava uno splendore eguale, melanconico; le macchie ritiravano le loro ombre; un silenzio profondo e una sonnolenza ardente pervadevano l'immenso paesaggio. Ad Anania pareva in realtà di dissolversi, di diventare una stessa cosa con quel panorama sonnolento, con quel cielo luminoso e triste. Ecco, egli aveva sonno; e come l'altra volta finì col chiudere gli occhi e addormentarsi infantilmente. «Zia Grathia? Nonna!», chiamò con voce ancora assonnata, entrando nella casetta della vedova. La cucina era deserta: la straducola soleggiata; deserto tutto il villaggio che nella desolazione del meriggi pareva una stazione preistorica da secoli abbandonata. Anania guardò curiosamente intorno. Nulla era cambiato: miseria, stracci, fuliggine, un po' di cenere sul focolare, grandi tele di ragno fra le scheggie del tetto; e, imperatore truce di quel luogo di leggende, il lungo e vuoto fantasma del gabbano nero appeso al muro terreo. «Zia Grathia, dove siete?», gridò Anania, aggirandosi intorno. «Zia Grathia?» Finalmente la vedova, ch'era andata ad attingere acqua ad un pozzo vicino, rientrò, con un malune sul capo e la secchia in mano. Era sempre la stessa, stecchita, giallastra, col viso spettrale circondato da una benda di tela sporca: gli anni erano passati senza invecchiare oltre quel corpo già disseccato ed esaurito dalle emozioni della lontana giovinezza. Nel vederla Anania si turbò: un fiotto di ricordanze gli salì dalle profondità dell'anima; gli parve di ricordare tutta una esistenza anteriore, di rivedere uno spirito che aveva già albergato nel suo corpo prima dello spirito che lo animava al presente. «Bonas dies!», salutò la vedova, guardando meravigliata il bel giovine sconosciuto. E depose prima la secchia, poi il malune, lentamente, guardando sempre lo straniero. Ma appena egli sorrise chiedendole: «Ma non mi riconoscete dunque?», zia Grathia diede un grido ed aprì le braccia: Anania l'abbracciò, la baciò, la investì di domande. E Zuanne? Dov'era? Perché si era fatto monaco? Veniva a trovarla? Era felice? E il figlio maggiore? E i figli del fabbricante di ceri? E questo e quell'altro? E come era trascorsa la vita a Fonni durante quei quindici anni? E chi era il pretore? E si poteva l'indomani far la gita sul Gennargentu? «Figlio mio caro!», cominciò la vedova, dandosi attorno. «Ah, come trovi la mia casa! Nuda e triste come un nido abbandonato! Siediti dunque, lavati; ecco l'acqua pura e fresca, vero argento puro; lavati, bevi, riposati. Io ora ti preparerò un boccone: ah, non rifiutare, figlio delle mie viscere; non rifiutare, non umiliarmi. Per cibarti io vorrei darti il mio cuore; ma tu accetta quel che posso offrirti; ecco, asciugati, ora, anima mia! Come sei grande e bello! Dicono che tu debba sposare una ricca e bella fanciulla: ah, non è stata stupida quella fanciulla. Ma perché non mi hai tu scritto prima di venire? Ah, figlio caro, tu almeno non hai dimenticato la vecchia abbandonata!» «Ma Zuanne, Zuanne?», insisteva Anania, lavandosi con l'acqua freschissima della secchia. La vedova diventò cupa. Disse: «Ebbene, non parlarmene! Egli mi ha fatto tanto soffrire! Era meglio che ... egli avesse seguito l'esempio del padre ... Ebbene, no, non parliamone. Egli non è un uomo; sarà un santo, come dicono, ma non è un uomo! Se mio marito sollevasse il capo dalla tomba e vedesse suo figlio scalzo, col cordone, con la bisaccia, frate mendicante e stupido, che direbbe mai? Ah, lo fustigherebbe, in verità». «Dove si trova ora frate Zuanne?» «In un convento lontano; sulla cima d'un monte. Almeno fosse rimasto nel convento di Fonni! ma no, è destino che tutti debbano abbandonarmi; anche Fidele, l'altro figliuolo, ha preso moglie e raramente si ricorda di me: il nido è deserto, abbandonato; la vecchia aquila ha veduto volar via i suoi poveri aquilotti e morrà sola ... sola ... » «Venite a viver con me!», disse Anania. «Quando sarò dottore vi prenderò con me, nonna.» «In che potrei servirti? Almeno un tempo ti lavavo gli occhi e ti tagliavo le unghie; ora invece tu dovresti fare altrettanto a me ... » «Mi raccontereste delle storie ... a me ed ai miei bambini ... » «Anche le storie non so più raccontarle, adesso. Sono rimbambita del tutto: il tempo, vedi, il tempo s'è portato via il mio cervello come il vento porta via la neve dai monti. Ebbene, ragazzino mio, mangia; non ho altro da offrirti, accetta di buon cuore. Oh, questo cero, è tuo? Dove lo porterai?» «Alla Basilica, nonna, davanti all'immagine dei santi Proto e Gianuario. Viene di lontano, nonna; me lo diede una vecchia donna sarda che vive a Roma: anch'essa mi narrava delle storie, ma non belle come le vostre.» «Vive a Roma? E come fece ad andarci? Ah, io morrò senza aver veduto Roma! ... » Dopo il modestissimo pasto, Anania cercò la guida, con la quale combinò per l'indomani l'ascensione sul Gennargentu: poi si avviò alla Basilica. Nell'antico cortile, sotto i grandi alberi, susurranti, sui gradini corrosi, nelle loggie rovinate, entro la chiesa odorante d'umido come una tomba, da per tutto silenzio e desolazione. Anania depose il cero di zia Varvara sopra un altare polveroso, poi guardò i primitivi affreschi delle pareti, gli stucchi dorati da una luce melanconica, le rozze figure dei santi sardi, tutte le cose infine che un tempo gli avevano destato meraviglia e terrore, e sorrise, ma col cuore oppresso da una languida tristezza. Ritornato nel cortile vide, attraverso una finestra aperta, il cappello d'un carabiniere e un paio di stivali appesi al muro d'una cella, e nella memoria gli risuonò ancora l'aria della Gioconda: «A te questo rosario». L'odor della cera vagava nel cortile solitario; dov'erano i bimbi, compagni d'infanzia, gli uccelletti seminudi e selvatici, che un tempo animavano i gradini della chiesa? Anania non desiderava di rivederli; ma con quanta dolcezza ricordava i giuochi fatti con loro, mentre dagli alberi le foglie secche cadevano come ali d'uccelli morti! Una donna scalza, con un'anfora sul capo, passò in fondo al cortile. Anania trasalì, sembrandogli di riconoscere sua madre. Dove era sua madre? Perché egli non aveva osato, pur desiderandolo, parlarne alla vedova, - e perché questa non aveva accennato alla sua ingrata ospite? Per sfuggire ai ricordi amari egli andò alla posta e inviò una cartolina illustrata a Margherita; poi visitò il Rettore, e verso il tramonto percorse la strada che guardava sulla immensità delle valli. Vedendo le donne fonnesi che andavano alla fontana, strette nelle tuniche bizzarre, egli ripensò ai suoi primi sogni di amore, quando desiderava d'esser lui un mandriano e Margherita una paesana, fine ed elegante sebbene con l'anfora sul capo, simile alla figurina d'uno stucco pompejano. Come il passato era lontano e come diverso dal presente! Un tramonto meraviglioso illuminava l'orizzonte: pareva un miraggio apocalittico. Le nuvole disegnavano un paesaggio tragico; una pianura ardente solcata da laghi d'oro e da fiumi porpurei, e sul cui sfondo sorgevano montagne di bronzo profilate d'ambra e di neve perlata, qua e là squarciate da aperture fiammanti che sembravano bocche di grotte e dalle quali sgorgavano torrenti di sangue dorato. Una battaglia di giganti solari, di formidabili abitanti dell'infinito, si svolgeva entro quelle grotte aeree: balenava il corruscare delle armi intagliate nel metallo del sole, ed il sangue sgorgava a torrenti, inondando le infuocate pianure del cielo. Col cuore balzante di gioia Anania rimase assorto nella contemplazione del magnifico spettacolo, finché le ombre della sera, fugato il miraggio, stesero un drappo violaceo su tutte le cose: allora egli rientrò nella casa della vedova e sedette accanto al focolare. I ricordi lo riassalirono. Nella penombra, mentre la vecchia preparava la cena e parlava con voce tetra, egli rivedeva Zuanne dalle grandi orecchie, intento a cuocer le castagne, ed un'altra figura silenziosa e incerta come un fantasma. «Dunque hanno ammazzato tutti i banditi nuoresi?», chiedeva la vecchia. «Ma credi tu che passerà lungo tempo prima che nuove compagnie sorgano qua e là? Tu ti inganni, figlio mio. Finché vivranno uomini dal sangue ardente, abili al bene ed al male, esisteranno banditi. È vero che ora essi sono così cattivi, talvolta vili, ladroni e spregevoli! Ah, ai tempi di mio marito era altra cosa, sai! Come erano coraggiosi allora! Coraggiosi e benefici. Una volta mio marito incontrò una donna che piangeva perché ... » Anania s'interessava mediocremente ai ricordi di zia Grathia: altri pensieri gli passavano per la mente. «Sentite», egli disse, appena la vedova ebbe finito la pietosa storia della donna che piangeva, «non avete saputo mai nulla di mia madre?» Zia Grathia era intenta a rivoltare una piccola frittata, e non rispose. «Ella sa qualche cosa!», pensò Anania, turbandosi. Ma dopo un istante di silenzio zia Grathia osservò: «Se niente ne sai tu, come vuoi che ne sappia qualche cosa io? E adesso, figlio, mettiti qui, davanti a questa sedia, ed accetta il buon cuore». Anania sedette davanti al canestro che la vedova aveva deposto sopra una sedia, e cominciò a mangiare. «No», disse, confidandosi con la vecchia come non s'era mai potuto confidare con nessuno, «per lungo tempo io non seppi nulla di lei. Ora però credo di essere sulle sue traccie. Dopo che mi ebbe abbandonato ella partì dalla Sardegna, ed un uomo la vide a Roma, vestita da signora.» «Ma la vide davvero?», chiese vivacemente zia Grathia. «Le parlò?» «Altro che le parlò!», rispose amaramente Anania. «Egli disse d'aver passato qualche ora con lei. Dopo non si seppe più nulla; ma io, mesi fa, la feci ricercare dalla Questura e venni a sapere che ella vive a Roma, sotto un falso nome. Però si è emendata, sì, si è emendata, e adesso vive onestamente lavorando.» Zia Grathia era venuta a porsi davanti alla sedia, ed a misura che Anania parlava ella spalancava gli occhietti foschi, e si curvava e trasaliva, e apriva le mani come per raccogliere le parole di lui. Egli si rasserenava pensando a Maria Obinu: quando disse «ella ora si è emendata» provò un impeto di gioia, sicuro, in quel momento, di non ingannarsi supponendo che Maria e Olì fossero la stessa persona. «Ma sei sicuro, ma sei proprio sicuro?», chiese la vecchia, sbalordita. «Ma sì! Ma sìii! ... », egli rispose, imitando Margherita nel pronunziare quel sì lieto e un po' canzonatore. «Ho vissuto due mesi in casa sua.» Si versò da bere, guardò il vino attraverso la luce rossastra della lucerna di ferro, e sembrandogli torbido lo assaggiò appena; poi nel pulirsi la bocca vide che il vecchio tovagliolo grigiastro era bucato, e se ne coprì scherzosamente il viso. «Ricordate quando io e Zuanne ci mascheravamo?», chiese, guardando attraverso il buco. «Io mettevo sul viso questo tovagliolo. Ma che avete?», esclamò subito con voce mutata, scoprendosi il volto lievemente impallidito. Egli vedeva il viso della vedova, di solito impassibile e cadaverico, animarsi in modo strano, e dopo una profonda meraviglia esprimere la pietà più intensa; e capì immediatamente che l'oggetto di questa pietà quasi violenta era lui. Di un colpo l'edifizio del suo sogno rovinò. «Nonna! Zia Grathia! Voi sapete!», gridò con aria spaventata, stirando nervosamente il tovagliuolo quanto era lungo. «Finisci di mangiare, adesso: parleremo poi, figlio. Non ti piace quel vino?» Ma Anania la guardò con rabbia e balzò in piedi. «Parlate!», le impose. «Ah, Santissimo Signore», si lamentò zia Grathia, sospirando e schioccando le labbra, «che cosa vuoi ch'io ti dica? Perché non finisci di cenare, Anania, figlio caro? ... Parleremo poi ... » Egli non sentiva e non vedeva più nulla. «Parlate! Parlate! Voi sapete tutto, dunque? Dov'è? È viva, è morta, dov'è? Dov'è? Dov'è?» Quel «dov'è?» lo ripeté almeno venti volte, mentre s'aggirava automaticamente intorno alla cucina, piegando, spiegando, stirando il tovagliuolo, mettendolo sul viso, guardando attraverso il buco: pareva un po' impazzito, ma più irritato che commosso. «Calmati», cominciò a dirgli la vecchia, andandogli appresso, «io credevo che tu sapessi ... Sì, ella è viva, ma non è la donna che ti ha ingannato fingendosi tua madre.» «Non è stata lei a ingannarmi, nonna! L'ho creduto io ... Ella non sa neppure che io abbia supposto ... Ah, dunque non è lei?», aggiunse a bassa voce, con meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era sua madre. «Ma parlate dunque!», esclamò poi. «Perché mi tenete così sulla corda? Perché non mi avete parlato ancora di lei? Dov'è? dov'è?» «Ma se non ha mai lasciato la Sardegna!», disse la vedova, camminandogli sempre a fianco. «In verità, io credevo che tu lo sapessi. Io l'ho riveduta quest'anno, ai primi di maggio; ella venne a Fonni per la festa dei Santi Martiri, e conduceva un cantastorie, un giovine cieco suo amante. Essi erano venuti a piedi da un villaggio lontano, da Neoneli; ella soffriva le febbri di malaria, e sembrava una vecchia di sessanta anni. Terminate le feste, il cieco, che aveva guadagnato assai, abbandonò Olì per seguire una comitiva di mendicanti diretti ad un'altra festa campestre. So che ella, in giugno e luglio, fece la mietitrice nelle tancas di Mamojada. La febbre la distruggeva: stette lungamente malata nella cantoniera e ci sta ancora ... » Anania si fermò, sollevò il viso e aprì le braccia con atto disperato. «Ed io ... io ... l'ho ... vista!», gridò. «Io l'ho vista! L'ho vista! ... Siete certa di quanto mi dite?», chiese poi fissando la vedova. «Certissima: perché dovrei ingannarti?» «Ditemi», egli insisté, «ma c'è davvero? Io vidi alla finestra una donna febbricitante, gialla, terrea, con due occhi da gatto ... Era lei? Ne siete certa?» «Certissima, ti dico. Era lei certamente.» «Ed io ... io l'ho vista!», egli ripeté, e si strinse il capo fra le mani, torcendoselo, preso da una collera violenta contro se stesso che si era così lungamente, così stupidamente ingannato; che aveva cercato sua madre al di là dei monti e dei mari, mentre ella trascinava la sua miseria e il suo disonore attraverso l'isola natìa; che si era commosso davanti a tanti volti stranieri e non aveva sentito un palpito nello scorgere il volto della mendicante, della miseria viva, di sua madre, incorniciato dalla finestruola tetra della cantoniera. Che cosa dunque era l'uomo? E il cuore umano? E la vita, l'intelligenza, il pensiero? Ah, sì, ora che queste domande gli salivano non più oziosamente alle labbra, ora che la realtà batteva intorno a lui le sue ali funebri e squarciava i vapori dell'illusione, ora egli rispondeva alle sue domande e sapeva che cosa era l'uomo, il suo cuore, la sua vita: inganno, inganno, inganno. A un tratto zia Grathia lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi: poi gli si accoccolò davanti, gli strinse una mano, e lo guardò di sotto in su, lungamente, pietosamente. «Bambino mio», gli disse, «piangi, piangi. Ti farà bene. Come sei freddo!». Anania strappò la mano dal morso duro delle mani della vedova. «Ma per chi mi prendete?» domandò offeso. «Non sono un ragazzino, io! Perché devo piangere?» «Eppure ti farebbe bene, figlio! Ah, sì, io so quanto fa bene piangere! Quanto fu picchiato alla mia porta, una notte, ed una voce che pareva quella della Morte mi disse: "Donna, non aspettare più!" io diventai di pietra. Per ore ed ore non potei piangere; e furono le ore più terribili per me: mi pareva che il cuore, dentro il petto, fosse diventato di ferro rovente, e mi bruciasse, mi bruciasse le viscere, mi lacerasse il petto con la sua punta acuta. Ma poi il Signore mi concedé le lagrime, ed esse rinfrescarono il mio dolore come la rugiada rinfresca le pietre arse dal sole. Figlio, abbi pazienza! Siamo nati per soffrire: e cosa è mai questo tuo dispiacere in confronto di tanti altri dolori?». «Ma io non soffro!», egli protestò. «Dovevo aspettarmelo, questo colpo; me lo aspettavo anzi, vedete! Sono stato spinto a venir qui quasi da una forza misteriosa; una voce mi diceva: va, va, là saprai qualche cosa! Certo, ho provato un colpo ... un po' di sorpresa ... ma adesso è passato: non datevi pena.» Ma la vedova lo fissava, lo vedeva livido in viso, con le labbra pallide contratte, e scuoteva il capo. Egli prosegui: «Ma perché nessuno mi ha detto mai nulla? Eppure qualche cosa dovevano sapere. Il carrozziere, per esempio, possibile che non sapesse nulla?». «Forse. Ella sola poteva farti sapere qualche cosa; ma no, essa ha paura di te. Quando venne qui, per la festa, con quel miserabile cieco che si fece condurre da lei e poi la abbandonò, nessuno qui la riconobbe, tanto sembrava vecchia, piena di stracci, istupidita dalla miseria e dalla febbre. Del resto, neppure tu l'hai riconosciuta. Il cieco la chiamava con un brutto nomignolo: soltanto a me ella confidò il suo vero essere, mi raccontò la sua triste storia e mi scongiurò di non farti mai saper nulla di lei. Essa ha paura di te.» «Perché ha paura?» «Ha paura che tu la faccia mettere in prigione perché ti ha abbandonato. Ha anche paura dei suoi fratelli che sono cantonieri della ferrovia ad Iglesias.» «E suo padre?», domandò Anania, che non aveva mai pensato a questi suoi parenti. «Oh! è morto da tanti anni, morto maledicendola. E Olì crede sia stata questa maledizione a perseguitarla.» «Sì! È lei che è pazza! Ma che ha ella fatto durante tutti questi anni? Come ha vissuto? Perché non ha lavorato?» Egli sembrava di nuovo calmo, e faceva le sue domande senza curiosità, pensando alle conseguenze di questo disastroso avvenimento. Ma quando la vedova sollevò un dito e disse solennemente: «Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c'è un filo terribile che ci tira e ci tira ... Forse che mio marito non avrebbe voluto lavorare, e morire sul suo letto, benedetto dal Signore? Eppure! ... Così di tua madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente ... Ma il filo l'ha tirata ... », egli s'accese in volto, e di nuovo contorse le dita e si sentì soffocare da un impeto di vergogna e di spasimo. «Tutto ... tutto è finito per me, dunque!», singhiozzò. «Che orrore, che orrore! Che miseria, che onta! Ma raccontatemi, dunque, ditemi tutto. Come ha vissuto? ... Voglio sapere tutto ... tutto ... tutto, capite! voglio morire di vergogna, prima ancora che ... Basta!», disse poi scuotendo la testa, come per scacciare via da sé ogni turbamento. «Raccontatemi.» Zia Grathia lo guardava con infinita pietà: avrebbe voluto prenderselo sulle ginocchia, cullarlo, cantargli una nenia infantile, calmarlo, addormentarlo; ed invece lo torturava. Ma ... sia fatta la volontà del Signore: siamo nati per soffrire, e non si muore di dolore! Tuttavia la vedova cercò di raddolcire alquanto il calice amaro che Dio porgeva per le sue mani al disgraziato fanciullo. Disse: «Io non so raccontarti precisamente come ella visse e ciò che fece. So che ella, dopo averti lasciato, e fece benissimo, perché altrimenti tu non avresti avuto mai un padre e non saresti stato fortunato come lo sei ... ». «Zia Grathia! Non fatemi arrabbiare! ... », egli interruppe impetuosamente. «Tranquillità! Pazienza!», gridò la donna. «Non disconoscere la bontà del Signore, ragazzo mio! Se tu fossi rimasto qui, che avresti fatto? Forse avresti finito vilmente col farti anche tu frate ... frate mendicante ... frate poltrone! ... Basta, non parliamone più! Meglio morire che finire così! E tua madre avrebbe seguìto egualmente la sua via, perché quello era il suo destino. Anche qui, prima di partire, credi tu ch'ella menasse una vita santa? Ebbene, no: era questo il suo destino. Ella aveva qui, negli ultimi tempi, un amante carabiniere che fu trasferito a Nuraminis pochi giorni prima della vostra fuga. Dopo che ti ebbe abbandonato, almeno così la disgraziata mi raccontò, ella partì per Nuraminis, a piedi, nascondendosi di giorno, camminando di notte, attraversando metà della Sardegna. Raggiunse il carabiniere e la loro relazione continuò per qualche mese; egli aveva promesso di sposarla, ma invece si stancò presto di lei, la maltrattò, la percosse, poi l'abbandonò. Ella seguì la sua fatale via. Mi disse, - e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le pietre, - che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. È il destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati, come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L'uomo e la donna inutilmente si ribellano. No, avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che vi tira! Basta, ultimamente però ella si era emendata: s'era unita con un cieco cantastorie e vivevano da due anni come marito e moglie: ella lo conduceva per i paesi, per le feste campestri, da un luogo all'altro; camminavano quasi sempre a piedi, qualche volta soli, qualche volta in compagnia di altri mendicanti girovaghi. Il cieco cantava certe poesie che egli stesso componeva: aveva una bellissima voce. Qui, mi ricordo, cantò la Morte del re, una poesia che faceva piangere la gente. Il Municipio gli diede venti lire, il Rettore lo invitò a pranzo. Raccolse, in tre giorni che stette qui, più di venti scudi. Ed era un'immondezza! Anche lui prometteva di sposare la disgraziata; invece, quando la vide ammalata, che non poteva trascinarsi oltre, la piantò, per paura che lo costringessero a spendere per curarla. Di qui partirono assieme; andarono alla festa di Sant'Elia; là il cieco schifoso incontrò una compagnia di mendicanti campidanesi che dovevano recarsi ad una festa campestre nella Gallura, e andò via con loro, mentre la disgraziata moriva di febbre in una capanna di pastori. Dopo, come ti dissi, sentendosi meglio, ella vagò di qua e di là, mietendo, raccogliendo spighe, finché la febbre l'atterrò del tutto. L'altro giorno, però, mi mandò a dire che stava meglio ... » Un fremito, invano represso, percorreva tutte le membra di Anania. Quanta miseria, quanta vergogna, quanto dolore, e che iniquità divina ed umana nel racconto della vedova! Nessuno dei sanguinosi e tristi racconti ch'egli aveva sentito narrare nella sua infanzia dalla strana donna, gli era mai parso più spaventoso di questo: nessuno lo aveva mai fatto tremare come questo. Ad un tratto ricordò il pensiero balenatogli una volta in mente, in una dolce sera lontana, nel silenzio della pineta interrotto appena dal canto del galeotto pastore. «È stata anche in carcere?», domandò. «Sì, credo, una volta. Furon trovati in casa sua certi oggetti, che un suo amico aveva preso da una chiesa campestre; ma fu rilasciata perché provò di non sapere neppure di che si trattasse ... » «Voi mentite!», disse Anania con voce cupa. «Perché non dite tutta la verità? Essa è stata anche ladra ... ebbene, perché non dirlo! Credete che mi importi niente? Proprio niente, vedete, neppure così», aggiunse, mostrandole la punta del mignolo. «Che unghie, Signore!», osservò la vecchia. «Perché ti lasci crescere così le unghie?» Egli non rispose, ma balzò in piedi e camminò su e giù, furioso, mugolando come un toro. La vedova non si mosse, ed egli, dopo pochi istanti, tornò a calmarsi, e fermandosi davanti alla donna chiese con voce dolente ma rassegnata: «Ma perché son nato io? Perché mi hanno fatto nascere? Vedete, io ora sono un uomo rovinato: tutta la mia vita è distrutta. Non potrò proseguire gli studi, e la donna che dovevo sposare, e senza la quale non potrò più vivere, ora mi lascerà ... cioè devo lasciarla io». «Ma perché? Non sa chi sei tu?» «Sì, lo sa, ma crede che quella donna sia morta o così lontana da non udirne più neanche il nome. Ed ora invece ecco che essa ritorna! Come volete voi che una fanciulla pura e delicata possa vivere vicino ad una donna infame?» «Ma che cosa vuoi fare? Non hai tu stesso detto che non ti importa nulla di lei?» «E voi che cosa mi consigliate?» «Io? Che cosa ti consiglio? Di lasciarle proseguire la sua via», rispose ferocemente la vedova: «non ti ha abbandonato lei? Se tu lo vorrai, la tua sposa non incontrerà mai la disgraziata, e tu stesso non la vedrai mai più ... ». Anania la guardò, a sua volta pietoso ma anche sprezzante. «Voi non capite, non potete capire!» disse. «Lasciamo andare; ora bisogna pensare al modo di vederla; bisogna ch'io vada là domani mattina.» «Tu sei matto ... » «Voi non capite ... » Si guardarono; entrambi reciprocamente sdegnati e pietosi. Allora cominciarono a discutere e quasi a litigare. Anania voleva partire subito, o al più tardi la mattina dopo; la vedova proponeva di far venire Olì a Fonni senza dirle il perché. «Giacché ti ostini! Ma va là! io la lascerei tranquilla; come ha camminato sinora camminerà d'ora in avanti ... Lasciala stare ... Mandale qualche soccorso ... » «Nonna, pare che anche voi abbiate paura. Quanto siete semplice! Io non le torcerò un capello; io la prenderò con me; ella vivrà con me ed io lavorerò per lei: le voglio fare del bene, non del male, perché tale è il mio dovere ... » «Sì, questo è il tuo dovere; ma d'altronde, figlio, pensa, rifletti. Come vivrete voi? Come camperete?» «Non pensateci!» «Come, come farete?» «Non pensateci!» «Bene, allora! Ma ti ripeto che essa ha una folle paura di te, e se tu vai ad affrontarla così, improvvisamente, è capace di commettere qualche pazzia.» «Ed allora facciamola venir qui: ma subito, domani mattina.» «Sì, subito, sulle ali d'un corvo! Come sei impaziente, figlio delle mie viscere! Va e riposati, adesso, e non pensare a niente. Domani notte a quest'ora ella sarà qui, non dubitare. Dopo, tu farai quel che vorrai. Domani tu salirai sul Gennargentu: io direi anzi di rimanerci fino a posdomani ... » «Vedrò io!» «Ora va ... va a riposarti», ella ripeté, dolcemente spingendolo. Anche nella stanzetta ove egli aveva dormito con sua madre nulla era cambiato; vedendo il misero giaciglio, sotto cui c'era un mucchio di patate ancora odoranti di terra, egli ricordò il lettino di Maria Obinu e le illusioni ed i sogni che lo avevano per tanto tempo perseguitato. «Come ero bambino!», pensò amaramente. «E dicevo di esser uomo! Ah, soltanto adesso sono uomo! Ah, soltanto ora la vita mi ha spalancato le sue orribili porte! Sì, sono un uomo, ora, e voglio essere un uomo forte! No, vile vita, tu non mi vincerai; no, mostro, tu non mi abbatterai! Tu mi perseguiti, tu mi hai finora combattuto a viso coperto, vigliacca, miserabile, e solo oggi, in questo giorno lungo come un secolo, solo oggi hai svelato il tuo volto orrendo! Ma non mi vincerai, no, non mi vincerai!» Aprì le imposte tentennanti che davano su un balcone di legno, del quale rimanevano appena i sostegni; si afferrò a questi e si sporse fuori. La notte era limpidissima, fresca, chiara e diafana come sono in montagna le notti sul finir dell'estate. Nel silenzio indicibile che regnava, la visione delle montagne vicine e le linee vaghe delle montagne lontane sembravano più solenni e grandiose. Ad Anania, che vedeva quasi ai suoi piedi le valli profonde, pareva di star sospeso sopra un abisso: e mentre le linee delle montagne lontane gli destavano in cuore una dolcezza strana, e gli davan l'idea di versi immensi scritti dalla mano onnipotente d'un divino poeta sulla pagina celeste dell'orizzonte, il vicino colosso nero-turchiniccio di Monte Spada, protetto dalla formidabile muraglia del Gennargentu, lo opprimeva, gli sembrava l'ombra del mostro al quale poco prima aveva lanciato la sua sfida. E pensava a Margherita lontana, a Margherita sua, non più sua, che in quell'ora sognava certamente di lui guardando anch'essa l'orizzonte; e sentiva una grande pietà per lei, più che per se stesso, e lagrime soavi e amare come il miele amaro gli salivano agli occhi; ma egli le respingeva, queste lagrime, le respingeva come un nemico felino e sleale che tentasse vincerlo a tradimento. «Son forte!», ripeteva, fermo sul balcone senza ringhiera. «Mostro, sono io che ti vincerò, ora che mi stai davanti!» E non si accorgeva che il mostro gli stava alle spalle, inesorabile. VIII. Nella lunga notte insonne egli decise, o credette decidere, il proprio destino. «Io la costringerò a viver qui, presso zia Grathia, finché non avrò trovato la mia via. Parlerò francamente al signor Carboni e a Margherita. Ecco, dirò loro, le cose stanno così: io ho intenzione di far vivere mia madre presso di me, appena la mia posizione me lo permetterà: questo è il mio dovere, ed io lo compio, caschi l'universo. Essi mi scacceranno come si scaccia una bestia immonda; io non mi illudo. Allora io cercherò un impiego, e lo troverò bene, e prenderò con me la disgraziata, e vivremo assieme di miseria, ma pagherò i miei debiti, e sarò un uomo. Un uomo!» pensò amaramente. «O un cadavere vivente!» Gli pareva d'esser calmo, freddo, già morto alla gioia di vivere; ma in fondo al cuore sentiva una crudele ebbrezza d'orgoglio, una smania di stolto combattimento contro la fatalità, contro la società e contro se stesso. «L'ho voluto io, dopo tutto!», pensava. «Sapevo bene che doveva finir così: mi sono lasciato trascinare dalla fatalità. Guai a me! Devo espiare io: espierò.» Questa illusione di coraggio lo sostenne tutta la notte, ed anche il giorno dopo, durante l'ascensione al Gennargentu. La giornata era triste, annuvolata e nebbiosa, ma senza vento: egli volle partire egualmente, con la speranza, diceva, che il tempo si rasserenasse, ma in realtà per cominciare a dar a se stesso una prova di fermezza, di coraggio e di noncuranza. Che gli importava oramai delle montagne, degli orizzonti, del mondo intero? Ma egli voleva fare ciò che aveva stabilito di fare. Solo un momento, prima della partenza, esitò. «E se ella, avvertita della mia presenza, non venisse e fuggisse ancora? E io non prendo forse del tempo perché ciò avvenga?» La vedova lo rassicurò impegnandosi a far venire Olì al più presto possibile, ed egli partì. La guida, su un cavallino forte e paziente, precedeva per gli erti sentieri, talvolta dileguandosi fra la nebbia argentea delle lontananze silenziose, talvolta disegnandosi sullo sfondo del sentiero come una figura dipinta a guazzo sopra una tela grigia. Anania seguiva: tutto era nebbia intorno a lui, dentro di lui, ma egli distingueva attraverso quel velo fluttuante il profilo ciclopico del Monte Spada, e dentro di sé, fra le nebbie che gli avvolgevano l'anima, scorgeva quest'anima come scorgeva il monte, grande, immensa, dura, mostruosa. Un silenzio tragico circondava i viaggiatori, interrotto soltanto, a intervalli, dal grido degli avoltoi. Forme strane apparivano qua e là fra la nebbia, ai lati del sentiero roccioso, e il grido degli uccelli carnivori sembrava la voce selvaggia di quelle misteriose parvenze, disturbate dal passaggio dell'uomo. Anania credeva di camminare fra le nuvole, sentiva qualche volta il senso del vuoto, e per vincere la vertigine doveva guardare intensamente il sentiero, sotto i piedi del cavallo, fissando le lastre umide e lucenti dello schisto e i piccoli cespugli violetti del serpillo la cui acuta fragranza profumava la nebbia. Verso le nove, fortunatamente pei viaggiatori che in quell'ora percorrevano un sentiero strettissimo tagliato sul dorso immenso di Monte Spada, la nebbia diradò: Anania diede un grido di ammirazione, quasi strappatogli violentemente dalla bellezza magnifica del panorama. Tutto il monte apparve coperto da un manto violetto di serpillo fiorito; e al di là, la visione delle valli profondissime e delle alte cime verso cui si avvicinavano i viaggiatori, pareva, tra il velo squarciato della nebbia luminosa, fra giuochi di sole e d'ombra, sotto il cielo turchino dipinto di strane nuvole che si diradavano lentamente, un sogno d'artista impazzito, un quadro d'inverosimile bellezza. «Come la natura è grande, e come è bella e come è forte!», pensò Anania, intenerito. «Nel suo cuore immenso tutto è puro: ah, se ci trovassimo qui soli, tutti e tre, io, Margherita e lei, chi più penserebbe alle cose impure che ci separano?» Un soffio di speranza gli attraversò lo spirito: e se Margherita lo amasse davvero tanto quanto aveva dimostrato d'amarlo in quegli ultimi giorni, e se acconsentisse? ... Con questa folle speranza in cuore camminò lungo tratto, finché raggiunse il fondo del versante di Monte Spada per ricominciare la salita verso la più alta cima del Gennargentu. Un torrente passava in fondo alla valle, fra enormi roccie e boschi di ontani che un improvviso soffio di vento scuoteva. Nel silenzio profondo del luogo misterioso il mormorio degli ontani diede ad Anania una bizzarra impressione; gli parve che la sua speranza animasse le cose intorno, e che gli alberi tremassero, come sorpresi da una gioia arcana. Ma ad un tratto ricadde nelle sue cupe idee e un progetto stravagante gli attraversò la mente: farsi romito. «Se mi nascondessi su queste montagne e vivessi solo, cibandomi d'erbe e di uccelli? Perché l'uomo non può viver solo, perché non può spezzare i lacci che lo avvincono agli altri uomini e lo strangolano? Zarathustra? Sì, ma anch'Egli una volta scrisse: "Oh, quanto sono solo! Non ho più nessuno con cui possa ridere, nessuno che mi consoli dolcemente ... "» Per tre ore l'ascesa continuò, lenta e pericolosa. Il cielo si rasserenò completamente, il vento soffiò: le cime schistose brillarono al sole, profilate di argento sull'azzurro infinito; l'isola svolse i suoi cerulei panorami, disegnati di montagne chiare, di paesi grigi, di stagni lucenti, e qua e là sfumati nella linea vaporosa del mare. Ogni tanto Anania si distraeva, ammirava, seguiva con interesse le indicazioni della guida e guardava col binocolo; ma appena egli cercava di godere la dolcezza del panorama magnifico, il dolore gli dava come una zampata da tigre per riafferrarlo interamente a sé. Verso mezzogiorno arrivarono alla vetta Bruncu Spina. Appena smontato, Anania s'arrampicò fino al mucchio di lastre schistose del punto trigonometrico, e si gettò per terra onde sfuggire alla furia del vento che lo assaltava d'ogni parte. Sotto il suo sguardo irrequieto stendevasi quasi tutta l'isola, con le sue montagne azzurre e il suo mare argenteo, rischiarata dal sole allo zenit: sopra il suo capo brillava il cielo turchino, vuoto e infinito come il pensiero umano. Il vento rombava furiosamente nel vuoto, e le sue raffiche investivano Anania con rabbia pazza: pareva l'ira violenta d'una belva formidabile che cercasse di scacciare ogni altro essere dall'antro aereo dove voleva dominare sola. Anania resisté a lungo: la guida gli si trascinò accanto, gettandosi anch'essa carponi sulle lastre schistose, e cominciò a indicare le principali montagne ed i paesi ed i borghi dell'isola. Il vento rapiva le parole e mozzava il respiro ai due uomini. «Quella è Nuoro?», gridò Anania. «Sì: la collina di Sant'Onofrio la divide in due.» «Sì, è vero. Si vede distintamente.» «Peccato che questo vento sia così rabbioso! Va al diavolo, vento maledetto!», urlò la guida. «Altrimenti si poteva mandare un saluto a Nuoro, tanto oggi sembra vicina!» Anania ripensò alla promessa fatta a Margherita: « ... Dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto; griderò ai cieli il tuo nome ed il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita ... ». E gli sembrò che il vento gli portasse via il cuore, sbattendolo contro i colossi granitici del Gennargentu. Al ritorno egli credeva di trovare sua madre presso la vedova, e ansiosamente, dopo aver lasciato il cavallo presso la guida, attraversò il paese deserto e si fermò davanti alla porticina nera di zia Grathia. La sera scendeva triste, un vento gagliardo soffiava per le straducole erte, rocciose: il cielo era pallido: pareva d'autunno. Anania, fermo davanti alla porticina, ascoltava. Silenzio. Attraverso le fessure scorgevasi il chiarore rosso del fuoco. Silenzio. Anania entrò e vide soltanto la vecchia, che filava seduta sul solito sgabello, tranquilla come uno spettro. Sulle brage gorgogliava la caffettiera, e da un pezzo di carne di pecora, infilato in uno spiedo di legno, sgocciolava il grasso sulla cenere ardente. «E dunque? ... Nonna, dunque?» «Pazienza, gioiello d'oro! Non ho trovato una persona fidata che potesse andare laggiù. Mio figlio non è in paese.» «Ma il carrozziere?» «Pazienza, ti ho detto, oh!», esclamò la vedova, alzandosi e deponendo il fuso sullo sgabello. «Ho pregato appunto il carrozziere di dirle che venga assolutamente, domani. Gli dissi: "La pregherai a nome mio che venga, poiché ho da comunicarle cose importantissime che la riguardano. Non le dirai che qui c'è Anania Atonzu; va, figlio, che Dio ti ricompensi perché fai un'opera di carità".» «E lui? E lui?» «Lui ha promesso di condurla qui in vettura.» «Ella non verrà! Vedrete che non verrà», disse Anania, inquieto. «Purché non fugga ancora. Ho fatto male a non recarmi io stesso ... ma sono ancora a tempo ... » E voleva partire subito: ma poi si lasciò facilmente convincere a rimanere, e attese. Un'altra triste notte passò. Nonostante la stanchezza che gli fiaccava le membra, egli dormì pochissimo, - su quel duro giaciglio dove era tristamente nato e sul quale avrebbe voluto quella notte stessa morire. Il vento urlava sul tetto, con boati da mare in tempesta, e la sua voce rombante , ricordava ad Anania l'infanzia melanconica, i terrori lontani, le notti d'inverno, il contatto di sua madre che lo stringeva a sé più per paura che per amore. No, ella non lo aveva amato: perché illudersi? ella non lo aveva amato; ma forse questa era stata la più orrenda sventura e la perdita inesorabile di Olì. Egli lo sentiva, lo sapeva; e provava una tristezza mortale, un'improvvisa pietà per lei che era vittima del destino e degli uomini. S'ella fosse arrivata quella notte, mentre la voce del vento destava nel cuore di Anania impeti di terrore e di pietà, egli l'avrebbe accolta con tenerezza; ma la notte passò, e spuntò una giornata che il vento rendeva melanconica, ed egli trascorse ore che mise fra le più tristi e irrequiete della sua vita. Durante quelle ore egli girò per le viuzze, come spinto dal vento, andò in qualche casa, bevette molta acquavite, ritornò dalla vedova e sedette accanto al fuoco, assalito da brividi di febbre e da una acuta irritazione nervosa. Anche zia Grathia non trovava pace; vagava su e giù per la casa, e un'ora prima che arrivasse la corriera s'avviò per andare incontro ad Olì. Prima di uscire pregò Anania di tenersi calmo. «Bada che ella ha paura di te ... » «Andate, santa donna!», egli disse con disprezzo. «Non la guarderò neppure: le dirò soltanto poche parole.» Passò più di un'ora. Anania ricordava con amarezza la dolce ora passata nell'attendere zia Tatàna: e mentre anelava l'arrivo di Olì, il triste arrivo che doveva una buona volta porre fine ai suoi tormenti, si sentiva divorato da un cupo desiderio: che ella non arrivasse, che fosse di nuovo fuggita, scomparsa per sempre! «Ma è anche malata», pensava con triste conforto, «morrà ben presto!» La vedova rientrò, sola, frettolosa. «Zitto, non arrabbiarti!», disse a voce bassa, rapidamente. «Viene! Viene! È qui: io le ho detto tutto. Zitto! Ha una paura terribile. Non farle del male, figlio!» Uscì di nuovo, lasciando aperta la porticina che il vento cominciò a sbattere, spingendola, attirandola, quasi trastullandosi con essa. Anania attese, pallido, incosciente. Ogni volta che la porta si apriva il sole ed il vento penetravano nella cucina, illuminavano e scuotevano ogni cosa, e sparivano per ricomparire subito. Per uno o due minuti Anania seguì incoscientemente il gioco del sole e del vento, ma ad un tratto s'irritò contro la porta e mosse per chiuderla, nervoso e col volto cupo d'ira. Egli apparve così alla misera donna che si avanzava tremando, timida e lacera come una mendicante. Egli la guardò: ella lo guardò: lo spavento e la diffidenza era negli occhi d'entrambi. Né l'uno né l'altra pensarono neppure a stendersi la mano, neppure a salutarsi: tutto un mondo di dolore e di errore era fra loro e li divideva inesorabilmente, come due mortali nemici. Anania tenne ferma la porta, appoggiandovisi, tutto inondato di sole e di vento, e seguì con gli occhi la misera figura di Olì, mentre ella, quasi spinta da zia Grathia, si avanzava verso il focolare. Sì, era ben lei, la pallida e scarna apparizione intravveduta nella finestra nera della cantoniera; nel viso giallo- grigiastro i grandi occhi chiari, sbiaditi dalla debolezza e dalla paura, parevano gli occhi d'un gatto selvatico ammalato. Appena ella si fu seduta, la vedova ebbe una magnifica idea: lasciò soli i suoi ospiti! Ma Anania sbatté la porta e corse irritatissimo dietro zia Grathia. «Dove andate? Venite, tornate subito, altrimenti vado via anch'io!» disse aspramente, raggiungendo la vecchia su per la scaletta. Olì dovette sentire la minaccia, perché quando Anania e la vedova rientrarono in cucina ella piangeva presso la porta, pronta ad andarsene. Cieco di vergogna e di dolore, Anania le si slanciò sopra, l'afferrò per un braccio e la spinse contro il muro, poi chiuse a chiave la porta. «Nooo!», egli gridò, mentre la donna s'accoccolava per terra, restringendosi tutta come un riccio e piangendo convulsa. «Non partirete più! Non farete più un passo senza il mio consentimento. Rimanete, piangete finché volete, ma di qui non vi muoverete più. I tempi allegri son finiti.» Olì pianse più forte, tutta scossa da un fremito di spasimo; ma nello scoppio del suo pianto risuonò quasi una frenetica irrisione alle ultime parole di Anania; ed egli lo sentì, e la vergogna subitanea per le mostruose parole pronunziate accrebbe il suo furore. Ah, il pianto della donna lo irritava, invece di commuoverlo; tutti gli istinti dell'uomo primitivo, barbaro e feroce, vibravano nei suoi nervi frementi: ed egli lo sentiva, ma non sapeva dominarsi. Zia Grathia lo guardava atterrita, domandandosi se Olì non avesse ragione a temerlo; e scuoteva la testa, minacciava con ambe le mani, s'agitava, pronta a tutto pur d'impedire una scena violenta; ma non sapeva che dire, non poteva parlare. Ah, era indiavolato quel bel ragazzo ben vestito: era più terribile d'un pastore orgolese con la mastrucca, più terribile dei banditi che ella aveva conosciuti sulla montagna. Ella s'era immaginata una scena ben diversa da quella! «Sì», egli riprese, abbassando la voce, e fermandosi davanti a Olì, «i vostri viaggi son finiti. Ragioniamo un po': è inutile piangere, anzi dovete rallegrarvi perché avete ritrovato un buon figliuolo che vi restituirà bene per male: quindi dovete aspettarvi da lui molto bene. Di qui voi non vi muoverete più, finché non l'ordinerò io. Capite? capite?», ripeté, sollevando di nuovo la voce, e battendosi la mano sul petto. «Adesso sono io il padrone: non sono più il bimbo di sette anni, che voi avete vilmente ingannato e abbandonato; non sono più l'immondezza che voi avete buttato via; sono un uomo ora, capite? e saprò difendermi, sì, saprò difendermi, saprò, perché voi finora non avete fatto altro che offendermi, uccidermi giorno per giorno, sempre a tradimento, sempre! sempre! e rovinarmi, capite, rovinarmi sempre più, sempre più, come si rovina una casa, un muro, così, pietra per pietra, così ... » Egli faceva atto di buttar giù un muro; si curvava, sudava, quasi oppresso da una vera fatica fisica; ma d'un tratto, improvvisamente, guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell'essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? ciò che ella aveva fatto? E d'altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d'un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l'ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei. Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorché la miserabile creatura che gli stava davanti. «Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia», pensò. «E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.» Olì continuava a piangere. «Finitela», diss'egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli si volse alla vedova e le fece cenno di confortarla e farla tacere. «Non vedi che ha paura?», mormorò la vedova, passandogli vicina. «Su! su!», disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. «Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po' di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po' fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d'oro.» Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenii di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po' ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l'uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa. «Ne vuoi ancora?», domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. «Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Da' qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla! Hai sentito? Su, figlia!» Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell'acqua dove usava lavarsi venti anni prima: volle pulire la chicchera, poi si lavò, e s'asciugò col grembiale bucherellato. Le sue labbra tremavano, qualche singhiozzo le gonfiava ancora il petto, i suoi occhi arrossati e cerchiati, enormi nel viso piccolo, sfuggivano lo sguardo freddo di Anania. Egli guardava il grembiale bucherellato e pensava: «Bisognerà subito farle una veste: è veramente lurida. Ho ancora sessanta lire delle lezioni date a Nuoro: ho fatto bene a fare quelle ripetizioni ... Ne troverò anche altre. Venderò anche i libri ... Sì, occorre subito vestirla e calzarla ... Avrà anche fame ... ». Quasi indovinando il suo pensiero, zia Grathia disse ad Olì: «Hai fame? Se hai fame dimmelo pure, subito: non star lì vergognosa; chi si vergogna patisce. Hai fame? No?». «No», rispose Olì con voce rauca. Anania si turbò nell'udire quella voce: era ancora la voce d'un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l'unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita. «Ebbene, allora siedi qui», disse zia Grathia avvicinando due sgabelli al focolare, «siedi qui, figlia, e tu siedi qui, gioiello mio. Sedete qui entrambi e discorrete ... ». Fece sedere Olì, e pretendeva di fare altrettanto con Anania, ma egli si scosse bruscamente. «Lasciatemi dunque; non sono un bimbo, vi ho detto! D'altronde», egli riprese, camminando su e giù per la cucina, «c'è poco da discorrere. Ho già detto quanto dovevo dire. Ella rimarrà qui finché io non ordinerò altrimenti: voi ora le comprerete le scarpe e un vestito ... vi darò i danari ... , ma di questo parleremo poi ... Intanto», e alzò la voce, per significare che si rivolgeva ad Olì, «rispondete voi: che cosa rispondete dunque?» Credendo che egli parlasse con la vedova, Olì non rispose. «Hai sentito?», le disse zia Grathia, con voce dolce. «Che cosa rispondi?» «Io?», ella chiese a bassa voce. «Sì, tu.» «Io ... nulla.» «Avete debiti?», domandò Anania. «No.» «Verso il cantoniere, no?». «No. Si hanno tenuto tutto quanto avevo.» «Che cosa avevate?» «I bottoni d'argento della camicia, le scarpe nuove, dodici lire in argento.» «Che cosa possedete ora?» «Nulla. Come mi vedi, mi scrivi», diss'ella, toccandosi il grembiale. La sua voce era cupa, cavernosa. «Avete qualche carta?» «Cosa?» «Qualche carta», spiegò zia Grathia. «Sì, la fede di nascita?» «Sì, la fede di nascita», ella rispose toccandosi il petto. «L'ho qui.» «Fate vedere». Ella trasse una carta gialliccia, macchiata d'olio e di sudore, mentre Anania ripensava amaramente alle ricerche e alle indagini fatte per scoprire se Maria Obinu possedeva carte rivelatrici. Zia Grathia prese la carta e gliela diede; egli la svolse, la lesse, la restituì. «Perché ve la siete procurata?», domandò. «Per sposarmi con Celestino ... » «Il cieco», spiegò la vedova, e aggiunse borbottando: «quell'immondezza vile». Anania tacque, e continuò a camminare su e giù per la cucina: il vento sibilava incessantemente intorno alla casetta; dalle fessure del tetto piovevano alcune striscie di sole che disegnavano fantastiche monete d'oro sul pavimento nero. Anania camminava divertendosi automaticamente a mettere i piedi su quelle monete, come usava una volta, da bambino: si domandava che cosa gli restava da fare e gli sembrava d'aver già esaurito una parte del suo grave compito. «Io ora chiamerò di là zia Grathia», pensava, «e le consegnerò i danari perché le compri le vesti e le scarpe e le dia da mangiare, poi partirò e vedrò ... Qui non mi resta altro da fare: è tutto fatto ... È tutto fatto!», ripeté fra sé con infinita tristezza. «Tutto è finito.» Gli venne in mente di sedersi accanto a sua madre, di chiederle come aveva vissuto, di rivolgerle una sola parola di dolcezza e di perdono: ma non poteva, non poteva: il solo guardarla lo disgustava; gli pareva che ella puzzasse (e in realtà ella emanava quello sgradevole odore tutto speciale dei mendicanti), e non vedeva l'ora di andarsene, di fuggire, di togliersi dagli occhi quella vista dolorosa. Eppure qualche cosa lo tratteneva; egli sentiva che la scena non poteva terminare così, dopo poche frasi; pensava che Olì forse, fra la sua paura e la sua vergogna, gioiva d'aver un figlio bello, forte, civile; e nel suo disgusto, nel suo dolore anch'egli provava un meschino conforto dicendo a se stesso: «Almeno non è sfrontata: forse si può redimere ancora. È incosciente, ma non sfrontata. Non si ribellerà». Eppure ella si ribellò. «Ecco», egli ricominciò, dopo un lungo silenzio, «voi rimarrete qui finché non avrò aggiustato i miei affari. Zia Grathia comprerà le vesti e le scarpe ... » La voce rauca e dolente risuonò forte: «Io non voglio nulla. Io no ... ». «Come no?», egli chiese, fermandosi di botto davanti al focolare. «Io non resto.» «Che cosa?», egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. «Spiegatevi meglio.» Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perché osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perché ora ella osava ribellarglisi, perché voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d'un delitto? «Spiegatevi!», egli ripeté, dominando a stento la sua collera. E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome. Zia Grathia lo fissava, pronta anch'essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse. «Ascoltami», disse Olì animandosi, «non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L'unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata ... » «Dove vuoi andare?», chiese la vedova. «Anch'io gli ho detto queste cose, ma egli non capisce la ragione: ci sarebbe però un mezzo ... Rimani qui egualmente, invece di andar per il mondo: non diremo chi tu sei ed egli vivrà tranquillo come se tu fossi lontana. Perché, povera te, se vai via di qui, dove andrai?» «Dove Dio vuole ... » «Dio?», proruppe Anania, dandosi forti pugni sul petto. «Dio ora vi comanda di obbedirmi. Non osate neppur più ripetere che non volete restare qui. Non osate», egli disse come in delirio. «Credete che io scherzi, forse? Non osate muovere un passo senza ordine mio; altrimenti sarò capace di tutto ... » «Per il tuo bene», ella insisté. «Ascoltami almeno: non essere feroce con me, mentre sei indulgente con tuo padre, con quel miserabile che fu la mia rovina.» «Ella ha ragione!», disse la vedova. «Tacete!», impose Anania. Olì prese ancor più coraggio. «Io non so parlare, Ananì ... io ora non so parlare perché le disgrazie mi hanno reso stupida; ma una sola cosa ti domando: non avrei tutto da guadagnare restando qui? Se voglio andar via non è per il tuo bene? Rispondi. Ah, egli neppure mi ascolta!», disse poi, rivolta alla vedova. Anania camminava nuovamente su e giù per la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: «Ascolto!». Ella riprese umilmente: «Perché dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d'impedimento: lasciami andare ... per il tuo bene ... ». «No!», egli ripeté. «Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento ... » Egli s'aggirò su se stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell'anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà ... Ma subito ebbe vergogna di se stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina. «No!» «Tu sei una belva», mormorò Olì, «non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami ... » «No!» «Una belva davvero!», confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. «C'è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo! Fuori, se sentono, crederanno che c'è un toro selvatico, chiuso qui dentro. Son queste le cose che ti hanno insegnato a scuola?» «A scuola mi hanno insegnato questa ed altre cose», egli disse, abbassando la voce che gli si era fatta rauca. «Mi hanno insegnato che l'uomo non deve lasciarsi disonorare, a costo di morirne ... Ma voi non potete capire certe cose! Infine, tagliamo corto, e state zitte tutt'e due ... » «Io non capisco? Io capisco benissimo», protestò la vecchia. «Nonna, voi capite davvero. Ricordatevi ... Ma basta, basta!», esclamò egli, agitando le mani, stanco, nauseato. Le parole della vecchia lo avevano colpito; egli ritornava cosciente, ricordava che si era sempre ritenuto un essere superiore, e voleva porre fine alla scena dolorosa e volgare. «Basta», ripeté a se stesso, lasciandosi cader seduto in un angolo della cucina e prendendosi la testa fra le mani. «Ho detto no e basta. Finitela ora», aggiunse con voce affranta. Ma Olì s'accorse benissimo che era invece il momento di combattere: ella non aveva più paura, e osò tutto. «Senti», disse con voce umile, sempre più umile, «perché vuoi rovinarti, "figlio mio?" (Sì, ella ebbe il coraggio di dir così, ed egli non protestò). Io so tutto ... Tu devi sposarti con una fanciulla ricca e bella: se ella viene a conoscere che tu non mi rinneghi, ti rifiuterà. Ed ha ragione: perché una rosa non può stare vicina ad una immondezza ... Fallo per lei; lasciami andare, ella crederà sempre che io non esista più. Ella è un'anima innocente; perché dovrebbe soffrire? Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente ... sì ... involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare». Egli ebbe desiderio di gridare: «Eppure voi non mi avete fatto altro che del male», ma si vinse. A che serviva gridare? Era inutile e indecoroso; no, egli non voleva più gridare: solo, col capo sempre stretto fra le mani, con voce nello stesso tempo lamentosa e rabbiosa, continuò a rispondere: «No, no, no». In fondo sentiva che Olì aveva ragione, e capiva che ella veramente voleva andarsene per non renderlo infelice, ma appunto l'idea che in quel momento ella era più generosa e più cosciente di lui lo irritava e gliela rendeva odiosa. Ella si era trasformata: i suoi occhi illuminati lo guardavano supplichevoli e amorosi; quando ripeteva: «lasciami andare» la sua voce vibrava e tutto il suo volto esprimeva una tristezza senza nome. Forse un sogno soave, che giammai prima d'allora aveva rischiarato l'orrore della sua esistenza, le sfiorava l'anima: restare, vivere per lui, trovar finalmente pace. Ma dal profondo dell'anima primitiva un istinto di bene, - la scintilla che si cela anche nella selce, - la spingeva a non badare a quel sogno. Una sete di sacrifizio la divorava, ed Anania lo capiva, e sentiva finalmente che ella voleva a modo suo compiere il proprio dovere, come egli a modo suo voleva compiere il suo. Egli però era il più forte e voleva e doveva vincere con tutti i mezzi, anche con la violenza, anche con la necessaria crudeltà del medico che per guarire il malato gli apre la carne coi ferri. Ad un tratto ella si gettò per terra, ricominciò a piangere, supplicò, gridò. Anania rispose sempre no. «Che farò dunque io?», ella singhiozzò. «Nostra Signora mia, cosa farò io? Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Agli uni faceva pervenire segrete limosine, agli altri dava sussidio di consigli ed appoggi, molti invitava alla sua mensa e, non richiesta, si abbandonava a lusinghiere promesse. Aquilino Ratta, qui presente, eroe delle patrie battaglie, onesto impiegato, soldato non avvezzo a mentire, verrà a testimoniare fin dove arrivasse la confidenza della veneranda signora verso i parenti di umile condizione." Aquilino, non resistendo alla seduzione di quella voce armoniosa e calda, che carezzava così bene il suo amor proprio, mentre arrossiva colla timidezza di una fanciulla, tuffò la mano nel taschino del panciotto, ne tirò fuori lo scatolino, lo scoperchiò e mostrò ai vicini il bellissimo dente, che prese a girare di mano in mano come una reliquia. "Ecco, ecco il terreno," continuava intanto a tonare la voce dell'avvocato "ecco il terreno, sul quale cercheremo di tirare il nostro fortunato avversario. Se noi staremo uniti e compatti, se non ci spaventeremo dei primi sacrifici, vi prometto che gli faremo un tal letto, che quello di Procuste in paragone dovrà sembrare un letto di rose." "Bravo, molto bene!" sorse a dire col suo vocione di baritono il cavalier Borrola, agitando la mazza col pomo d'avorio, acceso anche lui dall'entusiasmo, a cui non sfugge mai un'anima d'artista davanti all'eloquenza vera. Pigliando la parola per sé e per gli altri, recitò anche lui un discorso, in cui si fece interprete dei sentimenti conculcati, dei diritti vilipesi, dei... Ma l'assemblea non era più in grado d'ascoltare dei discorsi. I pianti della donzella di casa Ratta, le saette dell'Angiolina, il dente di Aquilino, le rivelazioni, i sottintesi dell'avvocato, le illusioni suscitate, fomentate, ingrandite, il desiderio di fare qualche cosa in odio a Tognino Maccagno, il fascino luminoso delle quattrocentomila lire, che stendevasi di sopra coi bagliori di un immenso sole, riscaldò siffattamente gli animi, che a fatica poté farsi sentire, in mezzo allo schiamazzo delle voci, la voce del campanello. Ognuno aveva idee proprie da suggerire, argomenti da portare, una prova da metter fuori, una testimonianza, un ricordo da aggiungere per frangia. Aquilino, preso in mezzo in un cerchio, cercava di spiegare a tre o quattro poveracci stracciati come ladri il meccanismo della causa, che Battistino Orefice, il pittore di scene, seguitava a definire un buco nell'acqua. L'Angiolina, che il diavolo non poteva più tenere, s'era messa a sedere davanti al tavolo dell'avvocato e predicando, coi pomelli rossi, andava mettendo sottosopra le carte. Il brav'uomo non arrivava a tempo a togliergliele di mano. Finalmente un'altra scampanellata rinforzata dai colpi sonori di due mani larghe come pantofole, rimise l'ordine. "Silenzio!... Come ho detto, farò dar lettura del primo testamento del '78, al quale si riferivano le disposizioni che la testatrice qualche giorno prima di morire dettò a don Giosuè Pianelli. Anzi comincerò a dar conoscenza di queste disposizioni nella copia che don Giosuè tenne con sé e che si trova allegata agli atti del presente processo. Silenzio, laggiù, se dobbiamo intenderci. Ecco dunque la forma del documento che il nostro buon amico Maccagno avrebbe avuto l'agilità... di far scomparire: ' In nome della Santissima Trinità, io sottoscritta, Carolina Maccagno vedova di Gioacchino Ratta, ancor sana di mente, ancorché debole di corpo e prossima a presentarmi al tribunale del supremo Giudice, memore dell'affetto che mi lega a tutti i membri della mia famiglia e di quella del mio compianto consorte, dichiaro annullate quelle qualunque disposizioni testamentarie che posso aver segnate nella mia debolezza e non riconosco per mia ultima e sincera e libera volontà, conforme agli obblighi della mia coscienza, che il testamento del 20 agosto 1878 da me dettato e consegnato al signor avvocato cav. Gerolamo Baruffa, abitante nella piazza di Sant'Ambrogio in Milano, al civico numero 24, e nomino di nuovo detto avvocato Baruffa mio esecutore testamentario, incaricandolo di dividere la mia sostanza nei modi che in detto testamento sono indicati a beneficio, parte de' bisognosi miei parenti e di pie istituzioni di carità, parte agli altri parenti, non che a suffragio dell'anima mia. In fede... ' E qui manca la firma. Ma che l'atto autentico sia stato scritto e firmato dalla morente, c'è qui don Giosuè, il quale potrà riferire." Tutti si voltarono verso il prete, che rosso e caldo in viso quanto si poteva vedere al disotto del suo colorito di vecchia pipa, agitando le mani legnose e parlando coi soliti gusci in bocca, raccontò a chi ne aveva bisogno come veramente la signora Carolina avesse scritta, firmata e poi trattenuta la carta; come, prima di morire, avesse fatto segno di aver firmato, ma in quel momento entrò il sor Tognino, reduce da Lodi, dov'era stato chiamato tra i giurati, s'impadronì delle chiavi, e addio. Firmata o non firmata, una carta ci doveva essere, laddove invece... "Laddove invece," seguitò l'Angiolina, picchiando un pugno sulle carte dell'avvocato e voltandosi verso l'adunanza a predicare, "laddove invece s'è trovata una bella..." L'avvocato la fece sedere per forza e, agitando il campanello sul naso dell'ortolana, gridò: "Avete inteso? facciamo silenzio? adesso, se state zitti, farò dar lettura del testamento del '78, o meglio, per accorciare la seduta, essendo il documento abbastanza particolareggiato e prolisso, lo metterò a disposizione di quelli di voi che vorranno consultarlo, tutti i giorni dalle undici al tocco. Di tutti i parenti fino al terzo grado è unita una lista che io sto compilando colla più scrupolosa diligenza, e ciascuno di voi è interessato a portare alla causa comune quegli schiarimenti che valgano a far trionfare la giustizia". Il rumore, l'acciottolìo, le ciarle non cessarono se non quando la gente incominciò a infilar la porta. Tutti sapevano ormai chi fosse Tognino Maccagno e di quanto fossero suoi creditori. Tutti imprecavano contro di lui, ladro, usurpatore, ciascuno in misura del danno che credeva d'aver sofferto. Sulla scala continuarono le discussioni: si trascinarono fin sulla piazza. Don Giosuè che era l'anima nera di quella congiura prese note, indirizzi, e col suo scartafaccio sotto l'ascella traversò di corsa la piazza per non arrivare tardi al vespero in Duomo. Aquilino Ratta rimase un pezzo sotto le piante a spiegare il meccanismo della causa a Michele Ratta e al Boffa, che parevano inebetiti dalla speranza. Aquilino, uomo sereno e non avido, poteva dire di dominare la questione meglio di ogni altro. Tra chi vedeva tutto azzurro e già si sentiva i denari in tasca, e chi parlava di un buco nell'acqua, Aquilino stava in una via di mezzo, né troppo azzurro, né troppo buco. Probabilità buone c'erano e non c'erano: l'avvocato era bravo, ma neanche Tognino era grullo. Aquilino era di questo parere, che non bisogna insegnare ai gatti la maniera d'arrampicar sulle piante. I gatti furono sempre gatti e lo saranno sempre. Una cosa sola per parte sua capiva poco, ovvero aveva penetrato poco bene; là dove l'avvocato tirò in scena il letto di Procuste. Capiva che era un'allusione alla storia romana, ma anche supponendo che Procuste fosse stato, per modo di dire, un filosofo famoso dei tempi antichi, non vedeva come c'entrasse il letto; a meno che il filosofo usasse dormire sulla nuda terra. "E quell'altra parola, chiro... chirografico?" chiese il lattivendolo. "Quella è chiara. È un modo fino per dire che Tognino è chiro...grafico ...!" E Aquilino allungò la parola, accompagnandola con un giro della mano, che spiegò come un ventaglio e chiuse in fretta come se pigliasse una mosca a volo.

Il signor dottorino

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Egli esitava a pronunziare un giudizio che fosse troppo acerbo, perché que' sorrisi e quelle grazie gli erano, dopo tutto, carissime; gli pareva anzi che un po' di franca audacia non dicesse male a una bellezza cosí solitaria; oppure s'ingegnava di supporre in lei un'anima fanciullescamente inesperta, che sconoscendo le vecchie regole del decoro sociale, si abbandonava senza rimorso alla libera manifestazione d'un sentimento vergine, tal quale veniva da natura; oppure essa era la vittima di una ferrea disciplina, condannata forse dal rigore paterno a vita serrata fra le quattro pareti, tra i libri, il pennello e il piano, ma senza un'ora di follia giovanile su per i prati, senza un'ora di conversazione con un uomo di mondo. Il barone Adriano, giudicato a vista, era uomo freddo e forse troppo lontano per età e per indole dalla giovinezza per sentire queste necessità e per provvedervi. Il dottorino Marco l'aveva incontrato qualche volta per via, fosco in cera, curvo sotto il peso di gravi riflessioni, sdegnoso di tutto quanto lo circondava, segno d'animo superbo e meschino, sempre solo colla noiosa compagnia di sé stesso. Non lo conosceva piú in là, e meno di lui conosceva sua figlia; ma, tornato a casa, stentò a trovare il sonno e voltandosi nel letto andava sospirando come uomo còlto da scalmana. Per quanto in seguito domandasse alle persone del paese, non gli venne dato di cucire altre notizie, perché il barone non aveva amici, sua figlia non usciva mai, e il vecchio servitore incaricato delle provvigioni parlava un napoletano burbero, ma abbastanza chiaro per dar una lezione di prudenza ai curiosi. Tutte le sere si rinnovavano le lusinghe: anzi una volta donna Severina, posata la punta delle dita alle labbra, lanciò al lago un bacio, che fece arrossire e tremare il povero Marco; dopo il primo smarrimento, egli prese la corsa su per un viottolo alpestre, non curando i triboli e i ciottoli, cacciato da una folla di fantasmi schiamazzanti, finché cadde sfinito sul sagrato d'un tabernacolo montano; abbrancò l'erba, la strappò dalle radici, e stendendo le braccia al bigio villino che appariva di sotto fra una corona di lauri e di magnolie gridò al cospetto del cielo e della terra: Divina! Divina! La vita gli diveniva ogni giorno piú nojosa: cogli infermi era spiccio e trasognato, cogli amici collerico, coi libri adirato: amava la solitudine, il languore, e il giacere lunghe ore sotto un noce in cima a un pascolo, cogli occhi fissi al vario movimento delle frasche, all'andare e venire dei pettirossi e dei merli, allo svolazzare voluttuoso d'una farfalla felice piú di lui, perché poteva senza pericolo discender basso basso fino a quel davanzale, dare una volta in quella cameretta destando accenti di amore e di tenerezza. In quella dormiveglia febbrile andava sognando cento espedienti che lo potessero avvicinare a Severina: tutto gli pareva abbastanza onesto, foss'anche un assalto al suo balcone, un malanno che lo facesse cadere agonizzante sotto la finestra di lei, o un incendio, di cui egli solo avesse il dominio. Lanciarsi tra le fiamme, salire di volo la scala correre fino a lei sbigottita, afferrarla, discendere con essa per una scala sottile e cinta dalle fiamme, deporla sopra una zolla fiorita, dirle: Tu mi devi la vita! e poi fuggire, e sparire per sempre dalla faccia della terra... ecco le dolcezze sognate nei deliri d'amore all'ombra d'un noce di duecent'anni. Ma da sé il buon dottorino non sarebbe venuto a capo di nulla; la condizione del barone Adriano non gli permetteva neppure di sognare tanto scioccamente. Un giorno, il vecchio servo entrò in farmacia tutt'affannato cercando del medico. - Son qui - rispose Marco, e uscí come una saetta e corse senza perder tempo e fiato, fin alle ultime case del paese. Non osava domandare notizie, per lusingarsi alla speranza di poterle toccare il polso; camminò per un lungo tratto di via senza rompere il fascino dell'ignoto e sol quando fu al cancello della villa si fermò ad aspettare il vecchio che ansava e gli chiese: - È malata? - È il gondoliere di Sua Eccellenza, un veneto goloso di ostriche, che vuol morire di indigestione; Zeno dovrebbe sapere che i pesci grossi uccidono mangiando e i pesciolini lasciandosi mangiare. Gli antichi diedero segno di somma sapienza quando figurarono amore in un fanciullo, perché nessun altro sentimento è tanto irragionevole. Il dottorino desiderava che donna Severina fosse malata, e si rattristò della burla. Quando attraversò il giardino alla volta d'una casa rustica, appartata, udí la voce di Severina che cantava o meglio trillava sulle note alte, toccando tratto tratto i tasti bassi del pianoforte. - Non sa la signora che vi è un malato in casa? - Saperlo o non saperlo, è lo stesso - rispose con nebulosità sibillina il vecchio burbero arrestando i gesti in aria come usano spesso i napolitani. Il gondoliere guarí, e fatto il solito giuramento e le solite croci contro le ostriche tornò al remo, all'acqua e al vino, specialmente sotto il Grotto del Nino o alla riva di Lemna dove lo si vendeva buono. Ma il dottorino era malato gravemente, e sparsa la voce d'una rabbiosa febbre intermittente scrisse al suo vicino collega, raccomandandogli per quindici giorni i suoi infermi e offrendogli il proprio cavallo; col permesso de' superiori aveva intenzione di andarsene lontano, e presa la via delle Alpi, penetrare nella Svizzera tedesca, spendere un migliaio di lire, salire i gioghi ghiacciati, litigare coi vetturali, colle guide, cogli osti e colle paffute montanare e ritornare finalmente piú povero, piú stracciato, piú bisognoso, ma guarito da quell'amore che minacciava la sua fortuna, e la dignità d'una famiglia illustre. Le intenzioni del signor Marco erano buone; preparata una piccola valigia aspettava il piroscafo della sera, quando il suo domestico gli consegnò un biglietto di visita dicendo: - Egli aspetta. Il dottore lesse: Barone Commend. Adriano Siloe. Il barone chinò la testa a un dignitoso saluto. Egli forse non oltrepassava i cinquant'anni; vestiva elegantemente di nero; scarno era il viso ma di linee belle; alta la fronte con rari capelli, lentissimo il gesto, profonda la voce, ma che tratto tratto si faceva melodiosa quasi rispondesse a sentimenti improvvisamente piú lieti. - Riesco importuno, signor dottore? - chiese fissando gli occhi al suolo secondo il costume e arrestandosi immobile in mezzo alla stanza. - Ella mi onora - fu presto a rispondere il dottorino, che non sapeva spiegarsi questa visita inattesa, e aggiunse: - Se avessi saputo, sarei venuto io stesso. - Grazie, ma la prudenza mi consigliò di prevenirla. - Il tono di voce naturale e conveniente a un uomo di tanto riguardo, parve in sulle prime misterioso e provocante al povero dottorino, onde cominciò a temer forte che il noce della montagna non avesse scosso dai rami qualche segreto. Sedettero entrambi, e il barone, senza torcere gli occhi dal suolo come se vi leggesse quello che stava per dire, incominciò: - Sento che ella gode bella fama non solo di medico provetto, ma anche di uomo saggio e generoso, onde, sebbene io disperi degli aiuti della scienza, tuttavia un barlume di speranza brilla ancora in me per quella scienza che ha, dirò cosí, la baldanza della gioventù. Inutilmente ho interrogato i piú sapienti medici d'Europa... A questo preambolo recitato colla moderazione d'un uomo che pensa quel che dice e al modo migliore di dirlo, il dottorino spalancò tanto d'occhi ed entrò in maggiore curiosità; però, fatto un cenno d'umiltà innanzi a elogio sí ragguardevole, si atteggiò in modo da non perdere una sillaba sola di quelle preziose parole. Il piccolo sospetto natogli in principio, cioè che il barone avesse letto nel suo cuore l'amore per donna Severina, si sciolse da sé stesso, e Marco, osservando il colore olivigno e quasi terreo di quel viso e il corrugarsi frequente di quella fronte, pensò di aver innanzi un illustre infermo. Ma il barone l'imbarazzò alquanto allorché gli disse: - L'ammalata è mia figlia, donna Severina. Essa è l'immagine viva di un'altra donna che nella mia giovinezza amai e venerai in appresso per piú di vent'anni di matrimonio. Morta mia moglie, mi restò Severina unico amore, unica ragione della mia vita; la mia natura essendo inclinata a melanconia, e la mia mente al dubbio d'ogni cosa, soltanto Severina poté colla soavità delle sue parole e coll'eloquenza de' suoi sguardi indurmi a poco a poco a persuasioni piú sante, o dirò meglio piú umane. Ma Severina da un anno è molto malata. Il barone corrugò la fronte in un modo strano e trasse un lungo sospiro. - Posso io... - mormorò premurosamente il dottore, ma anche la sua voce tremava, e a stento gli riuscí nascondere il turbamento che questa notizia aveva gettato nel suo cuore. Il barone con un segno della mano graziosamente lo interruppe ed... - È necessario - disse - che io narri prima la cagione di questa malattia, se lo permette... - Si figuri. - Severina fu già fidanzata a un nobile toscano, il conte Giulio - taccio per pietà il nome del casato. - Essa lo aveva conosciuto in una di quelle feste eleganti in cui le giovinette frequenti volte incominciano fra la musica, le danze e i fiori una storia che finisce in pianti e in vergogne. Giovane di acuto ingegno, bello di aspetto, di parola facile e ornata, discreto scrittore, don Giulio era ben accetto anche fra i crocchi nei quali oltre il vano cicaleccio ha pur qualche valore una parola seria e sincera. La fanciulla rispose ai primi sguardi alle prime parolette con quella commozione di tutti gli spiriti, con que' rapidi rossori e quell'immobilità pensosa degli occhi, onde per la prima volta si manifesta l'amore. Essendo però fanciulla savia e schiva dai sotterfugi, venne subito da me, e sedendo, come soleva spesso, sulle mie ginocchia, mi disse: "Papà, io amo.... La fissai e mi accorsi che amava molto. Umide erano le ciglia, accesa la fronte, trepide le labbra e in tutte le membra irrequieta, come se le scorresse l'elettrico entro i nervi. "Intanto il conte Giulio passava due o tre volte al giorno a cavallo sotto il terrazzo della nostra villa presso Fiesole; io non so negare che in qualche tramonto non gli rispondesse una voce modulata al canto, o uno stormire insolito dei lauri sopra la cinta del giardino, o un saluto indiscreto; mi spiaceva soltanto che il contino non uscisse da quelle incertezze, per verità sconvenienti e pericolose. Ma non tardò molto. Suo padre, il venerando conte Gian Andrea, il fratello del quale fu cardinale di Gregorio XVI, venne regolarmente e come richiedevano le leggi d'onore, da me. Illustre era il casato, secondo i voti del mio cuore, o, se le piace, secondo pregiudizî di vecchia data, che io non intendo però né difendere né accusare, ma che per antica tradizione domestica hanno per me santità di legge. Tra le due famiglie si strinsero nodi di amicizia: inutile il dimostrare come i parenti esultassero, come la città ne parlasse, come Severina corresse a imaginare l'avvenire d'oro. A dieciott'anni ognuno di noi suol ricrearsi un mondo di suo genio, quasi correggendo l'opera di Dio; fatica vana per chi deve ben tosto distruggerlo colle proprie mani e inciampare e seppellirsi nelle sue rovine. Verso la fine del verno notai sulla fronte di don Giulio una nube ostinatamente fissa e in tutto lui un languore insolito, inesplicabile in un giovane della sua età, del suo ingegno, e che poteva col semplice specchiarsi in due pupille conoscere quanto la sua esistenza fosse preziosa e cara. Amava i lunghi ragionari della politica, pendeva precocemente al grave, al triste, e se pur talvolta sforzavasi richiamare gli antichi spiriti, non gli veniva affatto di nascondere interamente l'artificio delle arguzie e dei sorrisi fatui. "Un giorno mi raccontò d'una certa causa presentata ai tribunali per la rivendicazione di non so quali terre nelle Romagne, per la quale gli era giuocoforza ritardare il matrimonio di qualche stagione; anzi per la composizione di questa causa interessante don Giulio doveva allontanarsi spesso da Firenze, e privava in tal modo Severina delle sue visite preziose. "Com'era mio dovere, lo spiai, e non fui il primo in Firenze a scoprire la vera causa di queste titubanze. Severina ne sapeva qualche cosa? prima di me aveva scoperta l'immensa noia che travagliava il suo povero amico e ne piangeva in segreto, e veniva a chiedermi spiegazioni con voce straziante, pregandomi d'indicarle in che cosa ella fosse mancata verso don Giulio. Io, naturalmente, sperando sempre in un vicino ravvedimento, andava lusingandola con parole vaghe, le dimostrava come l'esito di quella causa fosse veramente tale da compromettere la felicità di don Giulio. Dovevo forse dirle: Asciuga gli occhi, poverina: egli ama un'altra donna?". - Un'altra donna! - interruppe il dottore coll'esclamazione d'uomo che stenta a credere; difatto, secondo il suo sentimento, come si poteva amare un'altra donna dopo aver conosciuto Severina? Il barone confermò: - Era costei, - disse, - una celebre cantante francese che in quella stagione aveva trionfato per bellezza e per arte al teatro della Pergola; don Giulio aveva fatto a fidanza della propria virtù e sebbene non venisse a quest'altro amore per malanno, sebbene lottasse per onor delle armi co' propri scrupoli, qual vantaggio per Severina? La città intanto ne sussurrava colla solita compiacenza. "Non da padre sdegnato, ma da umile supplicante scrissi una lettera al vecchio conte, che mi rispose cortesi promesse, ma dalle quali traspariva un amaro cordoglio. Don Giulio, che non osava lasciar la mia casa, fidandosi nella nostra cecità, tornò con varie pretese sí indiscrete alle quali io non poteva cedere senza offendere Severina e l'integrità del mio nome. Evidentemente egli cercava un pretesto per rompere ogni promessa, e fra noi due si scambiarono parole asprissime. Severina n'ebbe sentore, si meravigliò che don Giulio s'arrestasse innanzi a qualche articolo di contratto nuziale, ma non mi avvidi che ella conoscesse ancora la dura verità. Perché non le giungesse sgarbatamente qualche voce della cronaca cittadina la condussi meco a Livorno, ove abbiamo una vecchia parente. Ella mi seguí docilmente, e quando ci trovammo soli, lontani dai luoghi testimoni della prima felicità, ella mi si abbandonò piangendo al collo e mi disse: Padre, perdonagli; cedi alla sua inesperienza; io lo amo... "Terribile momento fu quello, dottore; la parola crudele mi corse alla lingua, litigò fra i denti, ma temendo che Severina non mi cadesse morta ai piedi o che smarrisse la chiara coscienza di quelle virtù per cui sua madre era tanto benedetta, preferii comparire io stesso come il gran colpevole e promisi ravvedermi. Le narrai minutamente la storia del nostro diverbio; le dissi come, impaurito per l'esito fatale di quella sciagurata causa, io secondava di malgrado quel matrimonio, ma, dal momento che ella ne soffriva, avrei fatto ampie scuse all'amico; insomma mentii per la prima volta in vita mia, ma trassi piú sicuro il respiro quando vidi tornare un sorriso di speranza sulle labbra di Severina. Ma perché l'aveva io tornata alla speranza? perché le andava promettendo che don Giulio sarebbe arrivato di giorno in giorno? io temeva dire la verità, ma qual beneficio era mai il mio infingere? Lottava come uomo che sta per affogare: ad altre mie lettere non si rispose piú da Firenze: Severina era angustiata, seccante, insistente. "Una mattina essa sedeva al balcone, gli occhi fissi al mare, donde io avevo molte volte promesso che don Giulio sarebbe arrivato. Aveva tra le mani una lettera d'una sua amica, maritata da un anno, la quale col diritto dell'esperienza si faceva ardita di darle consolazione e avvertimenti non chiesti. Un poscritto diceva: "Egli è partito per Parigi; sei benedetta da Dio, Severina". Severina guardava fisso il mare, come se volesse scoprire lontano lontano le coste di Francia; una povera cameriera, messa alle strette, aveva narrato tutto". - Mio Dio! - esclamò sottovoce il dottore. Don Giulio aveva seguito il corso della sua stella e andava incolpando me d'intolleranza e d'avarizia. - Il barone cosí dicendo sorrise amaramente. - Posi una mano sulla testa della fanciulla, che levati gli occhi, mi sorrise mestamente. Era bella, giovane, innamorata, semplice ne' suoi affetti come una bambina e non sapeva persuadersi di quanto le avevano narrato. "Fissava il mare placidamente azzurro, il colore de' suoi pensieri, e non si ricordava che anche il mare ha le sue orribili tempeste nelle quali si frangono le piú belle opere degli uomini. Ella non saliva tanto alto nella considerazione del male, ma io, caro dottore, io che teneva una mano sul di lei capo, che nella vita ero passato attraverso dure esperienze, che mi vedeva offeso e tradito nella parte migliore di me, non seppi raffrenare un urlo di rabbia feroce, come di belva, a cui ella si scosse e rispose con un grido... "Ah! dottore, odio gli uomini; odierei anche Iddio, se lo conoscessi!". Il povero dottorino chinava la testa mortificato, come se di quella storia egli fosse un po' colpevole: osservò di sottecchi l'aspetto del barone e n'ebbe tanta compassione che per poco non ruppe in singhiozzi. Dopo un istante, nel quale si udí persino il rumore del pendolo sul camino, il barone ripigliò: - Da quel giorno Severina è malata e la scienza mi rifiuta ogni consolazione. Quel giorno che ella avesse chiusi gli occhi io tornerei alla mia libertà, e... - Non lo dica, signore... - Non sono avvezzo a promettere senza mantenere: quel giorno mi ucciderei. - Ringrazio Dio che il signor barone non sia tutt'affatto deluso della scienza. - Voglio morire, s'intende, senza l'ombra d'un rimorso. - Le risposte del barone erano brevi, decise e pronunciate a testa bassa. - Se è vero che per volontà degli uomini avvengono spesso dei miracoli, io voglio tentarne uno - disse il dottore colla sicurezza dello scienziato. - Ella avrà piena libertà in casa mia. Il dottorino, preso, non so come, da un vago presentimento che in quell'incontro vi fosse la mano di Dio, si fece animo e interrogò il barone sopra alcuni particolari della malattia, dicendo: - Forse donna Severina sentí il contraccolpo di quella sventura nel sistema nervoso, o ne patirono i bronchi, o... - Dottore - interruppe ruvidamente il barone - non ho ancora detto che Severina... Il povero padre si coprí il volto colle mani, e ritornato a poco a poco all'abituale sua freddezza, seguitò con voce calma e quasi indifferente: - Non ho ancora detto che Severina è pazza? Il dottorino balzò in piedi e gli parve che precipitasse la notte. Severina era pazza! il povero padre non sapendo resistere alla pietà di quel racconto, piegò la testa sul petto e strinse i pugni quasi sfidasse il proprio destino, mentre poche lagrime gli solcarono, suo malgrado, le guancie. Il dottorino invece mosse qualche passo per la stanza, ricordò rapidamente tutte le grazie di Severina e i suoi inesplicabili sorrisi, crollò la testa sbalordita per quella notizia e stette alcun tempo incapace di trovare parole che non tradissero i suoi segreti innanzi al barone. Finalmente, usando una vecchia frase, esclamò: - Dio solamente può consolare questi dolori. - Dio! - replicò con asprezza il barone - difatto non può essere che un Dio quei che ce li manda. - Sia pure! se vinceremo la prova, questo Dio sarà qualche cosa meno di noi - osservò il nostro dottorino con parole piú gonfie e che nella loro misteriosa nebulosità velavano assai bene il vero stato dell'animo suo. Ma venendo all'argomento aggiunse: - Non senza trepidazione, confesso, oso tentare anch'io un esperimento che ha già deluso i piú dotti; ma se mi regge l'animo gli è perché qualche volta gli uomini sono preziosi non per la loro speciale virtù e sapienza, ma per la condizione speciale in cui si trovano rispetto agli altri. La formica non gareggierà coll'elefante, ma nel caso di appiattarsi ognuno di noi vorrebbe essere formica. - E quali sarebbero queste condizioni? - Sono eventuali, né io le conosco. Il dottorino avrebbe voluto aggiungere: l'amore è maestro, l'amore rende audaci e presuntuosi anche i piú timidi; ma tutti questi pensieri non si manifestarono che in un mesto sorriso, onde il barone che sentí tremar la mano di lui nella sua, gliela strinse cordialmente e disse: - Ella mi riconcilia quasi con gli uomini. Quando verrà a veder Severina? - Quando ella vuole. - Per non darle sospetto venga domattina a colazione da noi; io lo presenterò come il figlio d'un mio vecchio amico. - Benissimo. E cosí si lasciarono. Il dottorino, restato solo, cominciò da capo a passeggiare su e giù, in lungo e in largo per la stanza, tirato dal filo delle sue idee, inconsapevole di tutto ciò che avveniva fuori di lui, anzi in gran parte ignoto egli stesso a sé, finché stanco e col capogiro sedette presso la finestra. Sul ponte si raccoglievano già i crocchi di coloro che aspettavano il piroscafo, dei curiosi, e insieme molte belle fanciulle villeggianti, con abiti freschi e leggieri, molti stranieri dai cappellacci pesti, sul ghiaieto e sulla piazzetta molti monelli scalzi che si rincorrevano alzando il chiasso. Lo scarlatto acceso degli scialletti di lana, che riparavano le belle spalle dalle punte della brezza, il bianco dei grembiuli e delle cuffie delle bambinaie, il bigio e il verde dei parasoli, tocchi appena da un raggio roseo, le sciarpe e i veli azzurri dei cappellini e dei cappellacci, le tende vergate delle gondole, le bandiere tricolori sulle prore risaltavano dal piano liscio dell'acque, che, splendidamente azzurre, man mano si allontanavano da questa riva mescevano allo zaffiro ombre sempre piú dense, finché finivano all'altra riva, sotto il riflesso dei macigni, in un grigiastro quasi nero. Tutti questi colori si movevano sotto la luce fuggitiva del sole e allorché dalla punta di Torno squillò la campana si fece piú caldo il bisbiglío, il correre, l'urtarsi dei carri e dei facchini, il baciare e il baciucchiarsi delle donne, sempre piú amorose quando si abbandonano: il piroscafo si avanzava a corsa, poi rallentò l'ansia e a poco a poco, come cosa viva, venne docile e umile a bacío della sponda. Selmo, il domestico di Marco, entrò in fretta e in furia, ma il padrone gli disse: - Non parto piú. - Marco stette colle braccia e il volto appoggiati al davanzale, cogli occhi fissi, ma stupidamente fissi su que' colori e sul vivo agitarsi di tanti uomini e di tante cose. In ogni giovinetta gli pareva rivedere Severina; tutte le somigliavano nelle curve dei fianchi, nella dolcezza dei movimenti, nel candore del volto, nelle onde lusinghiere dei capelli; ma tutte queste avevano la coscienza della loro bellezza, dei loro dieciott'anni, e trepidavano sotto quel raggio e allo spirare di quella brezza come arboscelli che sentono la primavera. Invece Severina era pazza, peggio che morta! vive erano ancora le sue guancie, accesi gli occhi, magico il sorriso, ma da quegli sguardi e da quelle labbra scattava un pensiero scemo, vanesio, dolorosamente buffo. - O perché dissipi tanti colori e tanta bellezza, o natura? - esclamò a mezza voce battendosi la fronte. Il suo cuore si rimpiccioliva innanzi a questa verità, ma ei l'andava contemplando e ripetendo con quella voluttà di strazio che spinge il romito a battersi il petto con un ruvido sasso. Chiuse gli occhi e imaginò l'istante nel quale ei si sarebbe accostato alla fanciulla, a lei dalla quale avrebbe voluto prima esser lontano le cento miglia; egli avrebbe scrutato fondo in quelle pupille, e toccata quella testa con tutti i diritti che gli dava la scienza. Perché aveva accettato questo esperimento pericoloso? - Ma alfine - disse direttamente a sé stesso - posso io amarla ancora? quelle grazie che mi fecero innamorare di lei erano funesti segni di follia, e non per me soltanto. Persistere in un sentimento che oggi ha radice soltanto in una materiale compiacenza mi sembra indegno d'uomo onesto. No, no, svegliamoci da questo sogno e contiamola fra le avventure di gioventù. Quando il dottore riaprí gli occhi il piroscafo era già scomparso e scendeva piú fitta la sera. Gli parve riconoscere la voce del burbero napoletano che parlava sotto la sua finestra con un signore, ma mentre stava per tendere l'orecchio, due colpi secchi all'uscio lo fecero trasalire. Era il dottor Celestino, suo collega, che dietro suo invito veniva a sostituirlo per quindici giorni. Costui aprí l'uscio con un grosso bastone e gridò fermandosi sul limitare: - Ohe! Selmo, portami da bere. Era un giovinotto dell'età di Marco ma per robustezza di membra e per prosperità di salute ne valeva cento. Entrò trafelato, sebbene l'ora non fosse cocente, rosso cotto in viso, colle scarpe impolverate, un cappello molle e schiacciato sulla nuca e una pipa lunga in bocca. - Come mai? non sei tu partito? - domandò a Marco. - Mi pare di no. - Cosa mi hai scritto? - L'uomo propone e Dio dispone. - Dio ti benedica, anima mia. - Tu non giungi importuno perché quindici giorni di riposo mi faranno bene. - Difatto, mi hai una cera da candela benedetta. Cosa mi fai, Marcuccio? sentiamo il polso: vediamo la lingua... Sporca, sporca - e Celestino tentennava il capo. - Vuoi un mio parere? - Sentiamolo. - Prendi moglie. - Credeva che mi ordinassi del reobarbaro - disse Marco ridendo. - Questi libri ti assottigliano la vita, asinaccio. Selmo portò del vino e dell'acqua che Celestino bevette d'un fiato come un pesce che sfuggito dal carniere si rintuffa nel fiume. Poi si spogliò del ferraiuolo, del panciotto e del colletto e col tono d'un prete che canti l'epistola ricominciò: - Questi libri ti assottigliano la vita. Cosa sperate dal vostro studiar giorno e notte? di scoprir l'arte di non morir piú? Bel servizio rendereste, in mia fede, all'egra umanità, togliendole quest'unico sfogo! ah! ah! ai tempi di Galeno si campava forse piú vecchi. Celestino, come si vede, prendeva la vita piú alla buona e si sarebbe detto, guardandolo in viso, ch'egli avesse scoperto il segreto di crepar di salute. Egli aveva un cuor d'oro, ed essendo per natura inclinevole alla bontà, né sapendo d'altro lato sopportare il fastidio della tenerezza, la disperdeva in risate sonore, in pugni sulle spalle degli amici e in prediche stravaganti che avevano però la virtù di mettere sete al predicatore. Cosí anche il peggior vino gli sembrava discreto. Marco in confidenza narrò all'amico la storia del suo innamoramento e della visita e dell'invito ricevuto e quando Celestino ebbe inteso il casetto strano non seppe trattenere le lagrime pel tanto ridere che ne fece, e giurò di raccontare la panzana al dottor Pellani, e al sindaco di Vercurago e al curato di Moltrasio; ma il nostro Marco, colto il momento che egli vuotava il bicchiere, gli raccomandò il piú scrupoloso silenzio. - Come vuoi; - rispose Celestino - comunque sia puoi guadagnare de' bei soldi. Marco tacque ma non poté nascondere un senso di dispiacere a queste parole egoistiche dell'amico, onde questi sdraiandosi sul divano, e soffiando larghi buffi di fumo esclamò: - Ho capito, sempre magnanimo il nostro dottorino. In compagnia cosí allegra, Marco ritrovò il retto senso della vita, il quale spesse volte sfugge a chi col fantasticare va creandosi un mondo che non esiste nella lista dei pianeti. Al mattino seguente il dottorino camminava verso il Ritiro . Marco, uscito allo spuntar del sole, trovò le griglie e gli usci del villino ancor chiusi e per ingannare il tempo, che gli pareva lento e nojoso, salí il sentiero che menava al tabernacolo alpestre, dove aveva molte volte pensato a Severina; e di là girò gli occhi ai monti, al lago e al campo sereno del cielo. Credeva di esser guarito, ma l'aspetto di quei luoghi ridestò nuovamente il malanno de' suoi pensieri, che gli erano brulicati in testa durante la notte. La malinconia lo sorprese e a stento frenò le lagrime al rivedere di sotto, fra il verde delle piante, il tranquillo villino dove forse a quell'ora essa dormiva e sognava. Molte volte questo abbandono dello spirito aveva funestato la vita del nostro amico, sia per una falsa coscienza della propria nullità, sia per un'inaspettata delusione, sia per un desiderio immenso di amore e di verità; dalla lotta fra il volere e l'essere scaturivano giorni di amara tristezza, di languida noja, per la quale la vita gli si rimpiccioliva alle misure di un sogno, la natura gli appariva a colori scialbi, le speranze si facevano sceme e fatue, e i grandi travagli della umanità gli stuzzicavano un sogghigno crudele. Scarsi erano questi giorni, ma egli li assaporava ora per ora in un ozioso dispetto, quasi succhiasse il sugo di una vita inutile, penoso e troppo a sé stesso, invocando l'antica sorte delle fate, lo scomparire. Una parola amica, un guardo benevolo avrebbero bastato a ritornarlo al migliore sentimento di quegli istanti in cui egli inorgoglivasi della propria virtù, fissava il pensiero a tutte le glorie umane, lasciava che il fascino etereo delle idee e della natura lo rapisse ne' suoi giri vorticosi. Allora egli sentiva questa natura, che aveva studiato sui libri, palpitare viva dentro di sé e fuggendo il cicaleggio degli uomini soleva contemplare i vergini pascoli delle alpi, ove un popolo d'erbe e di bruchi ama e soffre; di là sentiva la divinità propagarsi e gli pareva d'esser vicino a scoprire il grido selvaggio dell'uomo nudo, adoratore della madre terra. Ma Severina gli negava questa parola amica e i suoi sguardi vitrei lo spingevano al furore. Discese a rapidi passi, giurando in cuor suo di essere uomo serio e obbediente al proprio dovere. Quella mattina s'era messo l'abito nero e i guanti, aveva tocca col rasojo la barba che gli scendeva in due pizzi dal mento; i capelli rovesciati sulla testa lasciavano aperta la fronte alta e senza rughe; era insomma il solito dottorino ma piú bello e piú galante. Il barone lo accolse in un salottino arredato splendidamente, gli strinse la mano e lo fe' sedere vicino. Severina s'era già levata, secondo il solito, da una mezz'ora e attendeva alla sua toletta: - Severina - disse il barone - non ha per nulla cambiate le abitudini della sua vita, ma colla mente ella sposta il tempo e lo arresta ora a un momento ora ad un altro del suo passato. Oggi, per esempio, mi parla di don Giulio come di persona incontrata poco prima alla festa della contessa Emma; domani mi racconta ch'egli è passato a cavallo sotto la villa e che l'ha salutata: un altro giorno siede sulle mie ginocchia e mi confessa il suo amore con tanta vivacità, con tanto rossore ch'io non reggo allo strazio. Quando io la condussi sul lago di Como sperai che il quadro diverso della natura divergesse l'ostinato corso delle sue idee; ma ella rivide nel lago il mare, e crede d'essere a Livorno al tempo in cui si ruppero i buoni accordi fra noi e don Giulio... - Non chiede mai di don Giulio? - No, perché va ingannandosi da sé stessa. Può avvenire che lo aspetti per qualche ora, ma subito dopo ne ragiona come di persona partita di recente. Soltanto verso sera o nei giorni piú nebulosi si raccoglie in brevi silenzî, arcigna, fosca in viso come se cercasse penetrare le nebbie d'un mistero; ma ne esce spensierata, allegra, siede al pianoforte, disegna, scrive molte lettere a Giulio. - Poverina! - disse sospirando il dottore. - Io conservo queste lettere ed ella, dottore, potrà, leggendole, scoprire la legge di questa ragione inferma; vedrà come raramente divaghi dal retto senso delle parole e del pensiero e conversando con lei avrà qualche cosa a imparare. - Dunque, se don Giulio ritornasse... - L'ho già pensato - interruppe rannuvolandosi il barone; - ma don Giulio non lo sa, e quel giorno ch'io l'incontrassi sulla mia strada non gli chiederei certamente una grazia. Severina direbbe ch'io ho insultato la sua infelicità. - Dubito che per altra via si possa giungere a miglior risultato. - Ho parlato ieri sera di lei a Severina: fra poco essa scenderà a colazione. - Mi manca il cuore... - disse con fil di voce il dottorino, che si pose a notare non so che sull'album delle sue memorie. Dalla finestra del salotto vedevasi un largo tratto di lago, di cui la riva opposta stendendosi in giro, popolata di case e di alberi, formava come un lungo braccio di golfo; dagli stipiti delle finestre sporgevano ramicelli di edera di cui era tappezzata la parete esterna, e dal piede spuntavano le teste dei fiori. Mobili intarsiati e vasi d'erbe esotiche negli spigoli, specchi e ritratti rendevano geniale quel salottino silenzioso e profumato; le farfalle venivano e posavano sulle foglie, e si sperperavano quasi scosse dal vento. In questo casino fresco e romito, dove la natura si era lasciata educare dall'arte, ove non giungeva che il rumor dell'onda, o il fruscío degli alberi o il ronzare di qualche ape lavoratrice, un uomo e una donna, giovani e innamorati, avrebbero potuto dimenticare il cielo e la terra e tentare di nuovo la virtù degli angeli. Cosí almeno la pensava Marco, rimasto solo, mentre il barone era presso la figliola a ricevere e a dare il bacio del buon giorno. Un servo l'invitò nella sala vicina ove era preparata la tavola della colazione: dal balcone scoperse la strada per la quale egli soleva passare a cavallo, col cuore in tempesta e cogli occhi fissi a quel gruppo di oleandri. Staccò una foglia, ma la abbandonò all'aria. Così era svanita la sua felicità. Fra cinque minuti egli l'avrebbe riveduta, ne avrebbe udita la voce armoniosa, e stretta la mano. Si sforzò di pensare alla sacra missione per cui era venuto, ai lobi del cervello, e agli autori alienisti, che aveva sfogliato, consultato quella notte; e fu sí forte il suo proposito che, quando riudí la voce del barone e uno strascico d'un vestito di seta, stette ritto in piedi senza tremiti, senza titubanze, nella placidezza solenne d'un sacerdote. Forse da un primo sguardo egli poteva scoprire un sistema, od ottenere il dono di un'ispirazione: perciò l'occhio doveva essere limpido, sereno, attento: la mente signora di tutte le sue forze; il cuore non valeva nulla questa volta. Il barone diceva a Severina: - Tu non lo conosci, ma il figlio d'un mio amico ha diritto alle tue grazie. Caro dottore, presento mia figlia... Il dottorino s'inchinò: avrebbe dato metà del suo sangue per una parola che lo togliesse subito d'imbarazzo, ma sebbene l'avesse pensata e preparata, alla vista di Severina vestita tutta di bianco si smarrí. Severina gettò un grido e lasciò il braccio del padre. Severina sorrise, si fregò la faccia come per togliersi una nebbia dagli occhi; e con vivace trasporto esclamò: - È lui? è lui?.. Ah! papà briccone, e cosí inganni la tua bambina? quando sei arrivato, Giulio...? vedi, babbo, se io avevo ragione? O mio Dio, quanta gioia!... Giulio, amico mio, anima mia!... Severina corse verso il dottore, gli cinse il collo con ambo le braccia e posò la fronte alle di lui labbra. Il dottorino perdette per un istante la coscienza di sé stesso, ma stette rigidamente ritto al suo posto, come una colonna. Come ognun vede Severina era vittima di un nuovo inganno, e il barone se ne accorse subito nel riconoscere al portamento all'abito, e all'eleganza del dottore una non lontana rassomiglianza con don Giulio; ma per Severina questo inganno era già cominciato quel giorno che il dottore passando a cavallo sotto il villino, aveva rinnovato, senza saperlo, le usanze del bel contino innamorato. Marco interrogò d'uno sguardo il barone, che a testa bassa e con voce sommessa esclamò: - Secondiamola, per pietà. - Non mi dici niente? - interrogò la fanciulla. - Non mi dai neppure un bacio sulla fronte? sei proprio adirato con noi? - Perché dovrei essere adirato? - balbettò Marco e posò ad occhi chiusi un bacio su quella candida fronte. - Avete fatto la pace, uomini seri? - esclamò Severina. - Papà non sperava piú di vederti, ma io gli andava dicendo: Verrà, verrà... e toh! eccolo qui... Dimmi, e questa causa eterna di rivendicazione...? - È vinta - disse il barone soccorrendo il povero dottore. - Dunque non c'è piú pericolo che per una questioncella di dote e controdote mi vogliate morta.. Come sono cattivi gli uomini d'affare...! ma tu cos'hai che non parli? - Il signor barone... - mormorò! con voce moribonda il dottore. - Ah! ho capito, non siete ancora assolti e benedetti: ebbene qua le vostre mani e che tutto sia finito in nome di Dio e della mia povera mamma. - Il dottore e il barone si strinsero la mano, ma non osarono mirarsi in volto. Essi tremavano. - Ora che i nostri feudi sono rivendicati, pensiamo a far colazione perché la vostra castellana sente il pizzico della fame. Signor cavaliere errante, è pregato... Marco sedette ed era tempo perché sembrava accasciato, e supplicò di nuovo il barone di toglierlo d'imbarazzo. - Il nostro Giulio è alquanto turbato - disse il barone Adriano - perché ha lasciato a Firenze il suo povero padre gravemente infermo.-- Davvero? oh poverino!... - Anzi - fu presto ad aggiungere Marco - la mia dimora a Livorno non sarà che di poche ore. Severina tentennò il capo, si accigliò, raccolse la mente, ma tratta da un'altra idea piú lieta domandò: - Hai ricevuto tutte le mie lettere? - Sí. - Perché non mi hai risposto? - Don Giulio aspettava da me il permesso di risponderti - osservò il barone. - Ebbene, se ora ti faccio una domanda hai il permesso di rispondermi? - Credo di sí - disse il dottore. Severina si chinò quasi sulla spalla del dottore e scotendo con aria civettuola il fascio de' suoi capelli domandò sottovoce: - Mi vuoi proprio bene? Il barone mormorò con voce cupa: - Il nostro Dio si diverte. - Mi vuoi proprio bene? - ridomandò Severina. - Perché lo dimandi? - chiese alla sua volta il dottore. - Perché ho sognato brutte cose di te. - Non credere a' sogni, che sono l'ombra de' nostri pensieri - osservò il barone. - Cos'hai sognato di me? - domandò il dottore che desiderava scendere piú a fondo in quella fantasia. - T'ho veduto passeggiare colla moglie di Putifarre. - Severina cosí dicendo ruppe in un riso smodato e scemo, che conturbò il nostro dottorino, nuovo a questi sbalzi e che sentiva quasi scivolare fuor di mano il filo logico di quella ragione. - Don Giulio - riprese il barone tentennando il capo - vide ieri i nostri amici di Firenze. - E che si dice laggiù del nostro matrimonio? - Tutti applaudiscono - rispose Marco - ma la gioia di tutti è oggi funestata dalla malattia del mio povero babbo. - È proprio vero che il conte Gian Andrea sia malato? - Perché dovrei mentire sul capo di mio padre? - rispose seriamente il dottore, a cui premeva piú d'ogni altra cosa persuaderla di questo fatto e della necessità del suo ritorno, unico mezzo, per vero dire, di rompere quella rete magica nella quale erano fatalmente caduti. - Mi meraviglio - continuò in aria di rimprovero il dottore - che per te mio padre sia semplicemente il conte Gian Andrea e che il suo pericolo ti commuova sí poco, come s'ei fosse uomo qualunque. Severina spalancò tanto d'occhi, sospesa tra la meraviglia e l'ilarità, e pareva chiedere una spiegazione a suo padre, il quale, colta la palla al balzo, seguitò nell'istesso tono: - Don Giulio ha ragione: una grave sventura minaccia la sua casa; rapidamente venne a Livorno per salutarti, per piangere un po' con te e lo ricevi distratta, non prendi nessuna parte al suo dolore, non ti ricordi che fra poco egli ritornerà presso il letto d'un moribondo. Queste parole passando nella testa e nel cuore della fanciulla vi destarono un'insolita compassione, cosicché le pupille le si empierono di lagrime e brillando andavano chiedendo perdono ora dal padre, ora dal dottore; questi sentivasi struggere. - Povero padre! - mormorò anch'essa giungendo le mani in atto di preghiera e sprofondandosi in una difficile meditazione. - Severina - disse il barone di lí a poco - vuoi preparare un mazzo di fiori come tu sai cosí bene? i fiori piacciono agli infermi e il povero conte, sapendo che vengono dalle tue mani ti manderà una benedizione. Severina si mosse; spiccò dalla parete un cappellino di paglia bianca, e un piccolo canestro di vimini. Non osava parlare, ma dalle contrazioni del mento e del collo vedevasi chiaramente come ella lottasse contro i singhiozzi; scese i gradini che conducevano al giardino, col grembiule agli occhi. - Crudeli! - mormorò il dottore. - Forse abbiamo buon filo in mano per uscir da questo labirinto - osservò il barone. Severina oggi è inclinevole a lasciarsi persuadere, e una volta che ella, dottore, sia partito in pace, spero che non si ricorderà di lei come di persona non vista mai. Il dottore seguiva intanto cogli occhi il muoversi di quel bianco cappellino di paglia che spiccava sotto il sole e sopra il color vario delle aiuole: per quanto ei fosse venuto disposto ai miracoli vedeva benissimo come l'opera sua, insistendo, anziché districare ingarbugliasse vieppiú la matassa. - Ella, dottore, potrà incominciare da lontano una cura intesa piú a mitigare che non a sanare le aberrazioni di questa mente. Il dottore non udiva e gli sortí questa frase: - Sarei ben felice di poter continuare questo pietoso inganno. - Avventura da romanzo, caro mio. - Certamente impossibile - aggiunse alla sua volta il dottore che gli pareva d'aver detto troppo, ma nel fondo del cuore gli spiacque che il barone trovasse avventura da romanzo un tentativo che non gli sarebbe spiaciuto provare. Forse, oltre le cento ragioni che ognun vede da sé, il barone temeva questa comedia anche per quel sentimento aristocratico, che confondendosi spesso colla dignità e col dovere, erasi fatto in lui la legge suprema della vita. Forse anche il dottore la pensava cosí perché rispose alquanto acre e imperioso: - Allora, signore, un uomo solo è qui necessario. - No, dottore - rispose fieramente il barone - ho già espressa la mia opinione a proposito di quello sciagurato... Basta! Poiché il mio destino è superiore a qualunque volontà e a qualunque scienza, io la ringrazio, dottore, della sua buona intenzione. Non le resta che di trovar modo di licenziarsi da Severina senza irritarla, e da uomo che obbedisce suo malgrado a una suprema necessità. Perdoni, povero signore - e il barone gli stendeva la mano - ella non è stato piú fortunato degli altri, anzi mi rincresce che per un'ora abbia rappresentato una brutta parte. - In verità, sono umiliato! - disse il dottore chinando la testa; il barone riprese il suo passeggiar lento e grave. Intanto Severina era venuta a sedersi sulla gradinata che dal salotto scendeva al giardino col canestro pieno di verbene, di fuchsie, di basilico e d'altre erbe e frasche odorose, di cui prese a formare un mazzo. Vedendo il dottore fisso in lei gli fe' cenno colla mano d'accostarsi, e volle che sedesse sul medesimo gradino, sotto un pergolato di non so quali arrampicanti americani, tra il profumo dei fiori e colla vista innanzi del lago e dei monti. La fanciulla era docile, graziosa e dolcissima; toccava al buon dottorino cogliere il momento opportuno per tôrre congedo da lei, senza urto, e in capo andava preparando un discorso eloquente; Sua Eccellenza, accostandosi tratto tratto gli susurrava qualche consiglio, ma la parola, la prima parola non gli voleva uscire come se fosse impiombata in cuore. Il sole facevasi varco fra i rami di quel pergolato che un vento sottile di meriggio scuoteva a intervalli e che disegnava una scacchiera di luci e di ombre tenuissime e balzanti sulla balaustra, sui gradini, sul vestito e sul cappello di Severina; in quell'ora calda il silenzio era profondo, non interrotto che da un fruscío passeggiero di foglie, o dal ronzare di un moscone, o da qualche squillo lontano di cornetta, o da qualche scoppio di mina lontano lontano nelle vallate. Marco cercò la manina bianca della fanciulla e fattosi coraggio in nome del proprio dovere e in considerazione del momento solenne incominciò con voce calma e quasi armoniosa: - Perdonami, Severina, se poco fa, dimenticando la tua età e la tua naturale allegria, usai teco parole troppo aspre; ma io sono partito dal letto d'un infermo e sto per ritornare al letto d'un moribondo; tu sai chi sia quel venerando vecchio! Questa sventura tocca sí da vicino anche la tua sorte, ch'io vorrei vederti piangere con me. - Il dottore si faceva a carezzare un nodo di capelli che le scendeva sopra una spalla. - Il dovere e l'amore vogliono invece che io mi allontani subito da te; avrai tu il coraggio di restar sola? potrai dimostrarmi come una donna sappia soffrire piú dignitosamente di questi poveri uomini seri, pasciuti di vanagloria? Saprai dirmi addio senza tremare?.. Ma la voce del dottore incominciava a tremare; per quanto studiasse di resistere agli scherzi della fortuna e di consumare tutto intero il suo dovere, non poteva non sentire le voci del cuore smarrito e tocco. Il barone applaudí fra sé a quel lungo e artificioso discorso, che pronunciato veramente col calore della persuasione e della verità pareva s'insinuasse sufficientemente nel cervello di Severina; costei infatti che in quelle parole e in quell'accento aveva scoperto non so quale nuova tenerezza, fece puntello d'una mano alla testa e socchiuse voluttuosamente gli occhi. - Sono cattiva, n'è vero? - disse abbandonandosi fanciullescamente sulle spalle di Marco. - No, tu non sei cattiva, tu sei un angelo. Il barone passeggiava grave e solenne nel salotto. Impeti affannosi provò il cuore del dottore sotto il fascino di quella tentazione esagerata per la virtú d'un uomo: cosa avrebbe fatto don Giulio al suo posto? non aveva egli diritto di fare altrettanto? l'ardore che uscí dalle sue labbra entrò nelle vene di Severina che riarse negli occhi, in viso e nelle mani. Il dottorino balzò in piedi e disse freddamente: - Addio! Severina stese una mano, senza levar gli occhi e raccapricciò. - Addio, signorina - ripeté quasi in atto di scusa il dottore. - Tu parti? - Sí. - Quando ritornerai? - Quando potrò. L'infelice si fregò la fronte bagnata di sudore e un lampo sinistro brillò nel bianco della sua pupilla; il barone preso sotto braccio il dottore lo trascinò quasi fino in alto del terrazzo. Il canestrino dei fiori cadde dalle ginocchia di Severina e rotolò spargendo poche foglie fino al basso della gradinata. Adriano susurrò a Marco: - Ella mi riconcilia cogli uomini - alle quali parole il dottore sospirò coll'affanno di chi ha l'anima aggravata e non erano ancora a mezzo del salotto quando un acutissimo grido li fe' trasalire. Marco si sciolse dal braccio del barone, che si turò con ambo le mani le orecchie. A un secondo grido piú rantoloso il dottore precipitò fuor della stanza lasciando il suo ospite in una rigida immobilità. Scese i gradini e vide la fanciulla, che distesa, rovesciata, faceva strazio de' capelli, come se volesse strapparli; l'occhio era squallido; bieche le labbra e spaventoso il lamento; le imprigionò le mani nelle sue e gridò tre volte: - Severina! - ella colla forza d'un epilettico si svincolò dalle sue strette e afferrandolo per le spalle esclamò: - Assassino! So dove vai! tu ami un'altra donna... Uccidimi prima... Il dottore sia che intendesse o no queste parole, girò le braccia attraverso di lei e tentennando la portò sopra i pochi gradini, fissandola in viso come se volesse ammaliarla, e appoggiandone, per meglio sorreggerla, la testa al suo petto. Accorsero alle grida le donne di casa che tolta Severina in braccio la portarono pesa come corpo morto fino alla sua camera: all'ira era succeduto uno sfinimento di tutte le forze e un pallore letale e un sudore freddo che grondava dal viso e le inumidiva le mani. Quando fu collocata nel suo letto il dottore notò che una crisi pericolosa minacciava l'inferma e diede i primi ordini per acquetarne il sistema nervoso e per impedire che ella si facesse ancora violenza colle proprie mani. Nel pericolo Marco sapeva sempre trovare la chiara coscienza di sé, e infatti assisté le donne e le rincorò, scrisse una ricetta, mandò un servo alla farmacia, parlò, consigliò, si mosse insomma con quella sollecita prudenza che prevede il pericolo senza sgomentarsene. Ben presto si avvide che il barone non li aveva seguiti e preso da un pauroso sospetto discese precipitosamente dabbasso dove lo trovò ancor immobile, come lo aveva lasciato, fitto al suolo l'occhio nerissimo, solcato da un'onda sanguigna e che brillava di luce tetra nell'orbita livida e profonda. Le grida e i rantoli di Severina avevano avuto per il povero padre qualche cosa di non mai udito e dubitò che quella esistenza, mantenuta finora da un duro inganno non si fosse spezzata come una bolla di vetro compatto che il martello non rompe, ma che un leggiero contatto spesse volte frantuma. - È morta? - domandò quando vide il dottore. - No. - V'è speranza che muoia? Il dottore osservò un guardo fuggitivo del barone verso la parete donde pendeva una bella pistola cesellata e si ricordò la promessa che il signore aveva fatto a sé stesso. - Forse non morrà - rispose quasi con freddezza il dottore; - però se in questo doloroso istante le venisse meno la protezione paterna sarei costretto a ricoverarla in un manicomio. Il barone rabbrividí e Marco fu contento d'aver toccato una corda sensibile, anzi aggiunse con accento vibrato e solenne: - La pazzia è sempre da preferirsi alla disperazione: quella ignora sé stessa, questa... - Questa fa dimenticare i propri doveri - seguitò il barone con voce profonda. - Signore, ella m'intende piú che io non mi spieghi: quanto avviene intorno a noi è straordinario, ma non è quanto di piú terribile videro gli occhi miei nel breve corso della mia vita. Vidi delle povere donne di campagna piangere per fame, cinte dai loro figliuoli e non perdere mai la speranza. Esse erano forse superstiziose, ma sarebbe doloroso che la loro superstizione fosse dappiú della nostra sapienza. Il barone si trascinò fin presso a una poltrona e sedette in modo di rivolgere le spalle al dottore, che nell'aspetto e nella voce gli aveva apparenza d'un giudice severo; posò la testa alla sponda e coprendosi il viso con ambo le mani esclamò: - Si può soffrire piú di cosí? - uno scoppio di pianto disse quanto non è concesso a noi di imaginare. Il dottore lasciò che quelle lagrime scendessero liberamente e, sedutosi appresso, dopo cinque minuti di silenzio ripigliò senza esitazioni e come se leggesse in una pagina scritta: - Signor barone, voglio manifestare una speranza che mi viene dalla considerazione di questi avvenimenti e da quel po' d'esperienza che ho acquistato in questi pochi anni. La mente di donna Severina non è sconvolta in modo da non lasciar nessun barlume di ragione, ma solamente spostata e fissa a momenti imaginarî o a rimembranze passate. Da un anno fu chiusa come in un anello, che oggi per la prima volta noi, senza volerlo, abbiamo spezzato. Difatti non è la prima volta che si ricorda del tradimento del conte? - Sí, è la prima volta. - È la prima volta che al suo furore segue tanta prostrazione di forze? - Sí. - Ebbene da questo pericolo può scaturire la sua salvezza e veda come io la ragioni: Severina ha perduto ogni sentimento, la febbre la percuote, il delirio l'inganna e anziché oppormi a questa guerra che le fa il male, aggiungerò le mie cure per maggiormente abbattere la natura e la fantasia vivacemente accesa. Ella fra qualche giorno uscirà dal lungo letargo, stupita, fiacca, direi quasi distrutta, ma disposta a lasciarsi ricreare; la reazione non avrà piú forza contro la mano medica e soltanto allora credo possibile dare alle sue facoltà mentali quella piega dolce, vera, e pietosa che si desidera. Insomma per venire al caso pratico, supponiamo che donna Severina si riscuota, giri gli occhi intorno, domandi con un fil di voce dove si trovi, che avvenga intorno a lei; non vede, signore, come sarà facile riconciliarla col suo passato? Le si dirà che ella è molto malata, che da tre mesi lotta fra la vita e la morte; che trasportata a stento sul lago di Como, comincia appena a riaversi; che accanto al suo letto vegliò per tre mesi suo padre, attento ad ogni suo delirio, e non solo il padre, ma il fidanzato e le amiche... Tutti questi vengono ad uno ad uno presso al suo letto, si rallegrano con lei che incominci a sorridere e a guarire; allora tutto il passato si presenterà all'inferma colla leggerezza d'un sogno, o d'un delirio... Don Giulio siede veramente vicino al suo letto, e lo può toccare con mano, ne ode la voce lacrimosa, ne sente i baci sulla fronte. Forse avremo un minuto di tentennamento fra la verità e l'apparenza, fra il passato e il presente, ma tocca alla nostra solerzia scacciare le nebbie de' suoi sogni e porle questo presente e questa realtà. Mi par di udirla: "Dunque fu un sogno!" -. "Sí, infelice, fu un sogno di moribonda" le risponderei; "tutto quanto hai sofferto non fu che un rodimento febbrile che noi colle veglie, colle cure, colle preghiere abbiamo guarito; vieni e contempla com'è bella la natura; vedi quanto ha sofferto tuo padre e il tuo sposo.... - Signor barone - esclamò levandosi in piedi - m'inganno troppo? non può avvenire quel che suppongo? - Può avvenire. - Perciò è nostro dovere di provare. - Ma noi torniamo... - Io ripeto per la terza volta una preghiera, che potrebbe essere ormai anche un comando. È necessaria la presenza del conte. Il barone non rispose, ma dal suo volto traspariva la lotta ch'egli combatteva presso di sé fra la pietà e l'orgoglio. Il dottorino nell'entusiasmo della sua sacra missione aveva dimenticato del tutto le sue piccole follie, e in tutto il ragionamento tenuto al barone il cuore non aveva dato un sussulto, come se la causa del cuore fosse innanzi all'interesse della scienza. Forse Marco poteva ingannarsi, ma presentemente non vedeva altro rimedio che la presenza di Giulio, talché per vincere del tutto la ripugnanza del barone aggiunse: - Questo solo mi risulta, e sarei costretto a ritirarmi se mi fosse rifiutato quanto ho il diritto di avere. - Non ci abbandoni, dottore - rispose svegliandosi di sbalzo il barone; - non ha inteso quelle strida? non ha visto quegli sguardi? Dottore, io non mi rifiuto, ma penso al modo di obbedirla. Seguí un momento di muta riflessione per entrambi, nel quale ciascuno si raccolse piú attentamente sui piú intimi affetti. Il barone man mano che si persuadeva della bontà di quel consiglio, e si disponeva a seguirlo, sentiva l'anima rallegrarsi come se uscisse da una rete sottilissima di rimorsi, di rammarichi, di odi e di grettezza; il dottore invece a cui sorrideva la certezza d'un miracolo, e che aveva tanto santamente adempiuto il proprio dovere, era meno disposto al compiacersi di sé stesso, e starei per dire che nel fondo del suo cuore pullulasse una radice amara. - Si scriva dunque al conte - disse il barone, che sebbene fosse disposto a farlo, andava cercando quella via di mezzo che non conduce gli uomini alla gloria. E continuò come se parlasse a sé stesso: - Quanto mi dice, dottore, ha tutta l'apparenza dell'utilità e sarebbe colpa d'entrambi se non si tentassero anche i rimedi eroici; ma come scriverò a don Giulio? debbo pregare o minacciare? non sarebbe piú opportuno che scrivesse per me qualche persona estranea all'offesa? - Sia pure - disse il dottore che non vide di malanimo questo breve imbarazzo del barone. - Se scrivere al conte fosse delle mie forze crede ella che io non l'avrei già fatto? - È una lettera difficile, ne convengo. - Difficilissima per me, non per una terza persona che senza preoccupazioni la scrivesse come da uomo onesto a uomo onesto; supponga che il conte sia ancora un uomo onesto. - Si cerchi un amico comune il quale s'incarichi di questo atto di carità. - Io vivo solo da un anno, né conosco persona piú adatta di lei, dottore... - Io? - disse il dottore con eccessiva sorpresa. - Chi meglio di lei può narrare al conte la miseria di Severina? come medico e amico mio si presenta a don Giulio, non in mio nome, s'intende, ma in nome della scienza e della umanità. - Ma io, sconosciuto al conte... - balbettò il dottore. - Un uomo che ha persuaso me, saprà persuadere anche don Giulio, ma voglio che la lettera abbia un carattere segreto, come se io non ne sapessi nulla, ed ella mi tendesse una rete amorosa. - Ebbene, quando ella vuole... Il dottorino che pareva alquanto umiliato alzò di subito la fronte e disse: - Scusi, Eccellenza, ma chi sa dove il conte si trovi? - Io lo so: da un anno lo seguo coll'occhio per tutta Europa e ciò prova che da un anno teneva in petto il desiderio di riaccostarmi a lui. Fra poco le farò avere l'indirizzo. - Va bene! - mormorò Marco col tono di chi dica: Pazienza! - Ella è mio ospite e padrone della mia casa. Il barone incrociate le braccia al petto si fece a considerare il volto di Marco, che sorrise mestamente: - Dottore - disse - ella è un uomo generoso e forse in questa rara virtù sta il segreto de' suoi miracoli. Accetta la mia amicizia? - Come onore e come ricompensa. Si strinsero la mano commossi e mentre il barone, tocco dalle parole del suo giovane amico, sentivasi inclinato perfino a perdonare, il dottorino non pareva troppo festoso di questi trionfi, e non poteva impedire che un maligno demonio non gli soffiasse nell'orecchio una parola strana, non mai compresa, e di minaccia contro un uomo lontano, non mai conosciuto e punto invidiabile. Egli doveva invitare quest'uomo in nome dell'umanità e della scienza alle dolcezze de' baci di Severina... Diciamolo: il dottorino incominciava a odiare. La storia della fanciullezza di Severina somiglia a quella di molte fanciulle gentili, cui la modestia cela agli occhi de' curiosi e piú a loro stesse. Le preghiere confidate alla mamma, i consigli materni, la lettura scelta, la compagnia onesta avevano fatto sí che a quella tenera età in cui la vita non è che un miscuglio dell'anima col corpo, esistessero già in lei uno spirito padrone e un corpicino obbediente come un novizio. Quattro noci, un panino, una mela e qualche confetto e acqua di fonte saziavano Severina a dodici anni, ma gli occhi insaziabili giravano irrequieti per la campagna, per il cielo, tra la varietà dei fiori, sui vari riflessi delle acque e si fissavano estatici sugli splendori delle notti d'estate. Il suono di una cantilena, d'una campana lontana l'arrestava su' due piedi, e se squillavano a morto piangeva senza saperlo; altre volte rideva pazzamente colle sue compagne, mentre colle dita magre e lunghe andava tagliando fiori di carta o ricamando merletti sottili come la nebbia. Ma le ginocchia soffrivano del troppo star sul freddo sasso innanzi all'altare, dove ella ritiravasi all'avemaria a pregare, fissa nella vergine Maria, a cui il bagliore rossigno d'una lampada dava risalto e movimento. Come piacciono a quest'età le finestre ad angolo acuto, i castellacci neri, le vetriate dipinte, le ombre lunghe che scappano via dai capitelli su per le pareti d'una chiesa lombarda; si potrebbe dire che ciascuno di noi passa nelle diverse età per quei medesimi sentimenti che il popolo provò nel succedersi dei secoli, e che a dodici anni si viva misticamente come san Francesco e il beato Jacopone. Anche Severina ebbe le sue estasi e le sue visioni di angeli custodi (chi di noi non ne vide alcuno?) dei quali anzi sentí piú volte un batter d'ali, che movendo l'aria intorno al suo collo circondava tutto il corpo di una voluttuosa frescura: ogni musica aveva le cadenze dell'organo di chiesa, e nei sogni sfilavano le tredicimila vergini di santa Chiara intorno al suo letto, le quali cantando e con fiori in mano portavano a seppellire una bambina, vestita di bianco e benedetta da un raggio bianco di luna. Chi era la bambina? lei stessa, che si deliziava di quel giacere colle mani incrociate sul petto: e cosí via via cento altri simili fantasmi o sognati o pensati o ricordati in questa età in cui si sa come si muore, non come si nasce. Ma un giorno Severina si avvide che il suo abito era stretto, se ne meravigliò e pensò con pena al perché: nello stesso tempo le parve che crescesse il bisbiglio della gente sul suo passaggio, e sebbene non osasse levare le palpebre, pure sentiva molti sguardi fitti in lei, come per delicatezza di nervi una cieca sente il colore delle cose. Certe mattine, svegliandosi avanti l'alba, sedeva sul letto, le mani in mano, i capelli sciolti, gli occhi fissi alla punta de' piedi che sporgevano da un lembo di coltre, senza un pensiero determinato, senza una volontà, col solo desiderio di piangere, ma pur sorridendo di queste sue sciocche melanconie. Stava cosí lunga pezza stringendosi colle mani le spalle, e abbracciando sé stessa strettamente per immenso bisogno di amare qualcuno. Cosí infatti cominciano ad amarci le fanciulle, prima che ci conoscano, e quando ci presentiamo loro la prima volta, esse ci guardano come gente non affatto ignota e potrebbero dire a ciascuno di noi: È un pezzo che ti sento venire. Quando Severina conobbe don Giulio, senza ombra di peccato le si presentò l'amore, perché là dove pur le sembrava che morisse la grazia della fanciulla, le dissero incominciare la santità della madre; così la virtù lega la donna d'una catena d'anelli diversi, che essa porta come il suo piú bel monile. Ma la pazzia aveva frantumato questo monile. In Severina erano bensí rimasti tutti i sogni e tutte le speranze della fanciulla e della donna, ma orribilmente sconvolti; la natura cieca - e il dottorino se ne accorse subito - continuava contro di lei una gara vigliacca, poiché il pensiero balzano non solo non difendevasi, ma ingigantiva e sconciava i fantasmi della colpa. Così dell'antica severità non era rimasta che l'apparenza, e delle virtù una fredda abitudine, mentre l'occhio acceso e sinistramente poetico, le labbra semiaperte a bevere ogni soffio di brezza, i gridi improvvisi tradivano una povera natura che si rifaceva selvatica. - Insensato! - disse Marco a sé stesso la notte, quando fu solo nella camera che gli ebbero assegnata. - Come si chiama questo mio amore? credo follia, ma follia indegna di ogni compassione. Colui che costringe la vita in una precoce serietà vi muore racchiuso come una larva nel suo involucro. Severina può intendere questi miei spasimi? quel barlume di intelligenza che splende in lei, quel po' d'anima che la fa piangere e sorridere non sono per me, ma io rubo ciò che altri ha ispirato. Ecco il destino di coloro che a vent'anni sono già virtuosi fossili, i quali per amore del giusto perdono sovente il senso del dolce e dell'utile e finiscono miserandi o grotteschi. Cosí lamentavasi fra sé il povero dottorino, girando gli occhi intorno e rimirando i mobili di quercia e il ricco padiglione di pizzo che scendeva sopra il suo letto. Dov'era egli? perché era venuto in quel palazzo incantato? perché non posava la testa sopra i grossi libri che ragionano dell'anatomia del cuore umano? v'era anche una piaga del cuore? Sullo scrittoio trovò un fascio di carte e un biglietto manoscritto; le une erano lettere scritte da Severina a varie persone nel corso di quell'anno fatale, e l'altro l'indirizzo del conte Giulio, Hôtel Suisse, Genève. Vi tenne gli occhi fissi, incantati, temendo che se vi ponesse la mano sopra non isparisse tutta la magia di quel palazzo e di quel sogno. Suonarono le undici e mezzo al paese vicino ed egli, immerso in una poltrona d'alto schienale, e al lume di una lucerna d'argento meditava ancora sulla sua sorte, e ricamava intorno a quell'indirizzo una storia capricciosa e galante, ma non piú lieta della sua. La vecchia Marianna bussò dolcemente all'uscio e riferí come Severina, cessato il delirio e lo spasimo, fosse caduta in un sonno piú tranquillo; Marco le raccomandò di sorvegliarla tutta la notte e chiuse l'uscio con due giri di chiave come se avesse bisogno di segregarsi e di venire dimenticato. La finestra dava non sul lago, ma sull'erto dosso dei monti a' piedi de' quali sorgeva il Ritiro , un pendío piuttosto ripido, coperto di folta e boscosa vegetazione, a quell'ora tocco lentamente dal raggio della luna, sotto il quale spiccava qua un sentiero che s'inerpicava, là il bianchiccio d'un ghiaieto, piú su la figura d'un campanile ritto come un gendarme di guardia; si udivano tratto tratto susurri misteriosi di acque e di frondi secondo la direzione del vento, rauco e sommesso giungeva in quella parte il batter dell'onda contro la riva e lento, quasi pauroso, il battere delle ore. Da una finestra a lui nascosta usciva un raggio che si rifletteva nel verde lucido del boschetto di magnolie, sul quale si disegnava l'ombra mobile d'una cuffia gigantesca; quel lume usciva dalla camera di Severina posta in un angolo della villa e il dottorino esclamò: - E se ella morisse? - Ma non volle durare in queste melanconie, onde tornato allo scrittoio prese a sorte una di quelle lettere e lesse a caso: "Ti aspetto, ti aspetto! guardo il lembo ultimo del mare sperando che tu spunti di là come una rondine; se tu venissi sarei piú contenta del grillo che fa cri cri nell'angolo del focolare e della cavalletta verde che salta sull'erba. Senza di te l'anima mia è vuota, mentre vicina a te sento la voglia di cantare e di arrampicarmi sulle quercie come fanno i passeri, gli usignoli, i pettirossi e le allodole. Senza di te io sono zoppa; vieni, mio caro bastone. Se tu mi lasci sola voglio vivere sotterra vestita di ragnatele". Il dottorino lasciò cadere il foglio e tornò alla finestra perché il disastro di tanti sentimenti e di tante idee lo adirava; suonò in quel mentre la mezzanotte e ricorrendo col pensiero a casa sua si compiacque d'imaginare Celestino sdraiato nel suo letto, colle coltri alla rinfusa, immerso in uno di quei beatissimi sonni che Dio concede soltanto a' suoi frati. Gli parve vedere gli abiti buttati come Dio vuole sopra una sedia, i coturni distesi in mezzo alla camera, la pipa sul tavolino da notte fra gli zolfanelli, la borsa del tabacco, le poesie di Guadagnoli, il ritratto d'un'osteria e una bottiglia coperta da un bicchiere. - Lui felice! - mormorò il dottorino. - Infelici coloro che non vogliono essere quel che sono! Frattanto senza avvedersi andava stropicciando fra le dita l'indirizzo del conte, e quando si allontanò dalla finestra sentissi il collo indurito, e un brivido nelle spalle; era stanco di pensare e cercò di impiegar meglio il tempo scrivendo la lettera al conte, come aveva promesso. Infatti prese un foglio, bagnò la penna, si fregò la fronte e cominciò a pensare al principio che è sempre la metà d'ogni impresa; le lettere di Severina stavano sparpagliate dinanzi, e Marco quasi a suo dispetto invece di scrivere lesse a caso anche questa pagina: "Cara contessa Emma , "Finalmente ieri sera don Giulio si è presentato col suo venerando genitore a mio padre. Quante belle cose mi disse sottovoce, mentre i due babbi favellavano, e quante altre piú belle io gli tacqui! Mi serrò il mignolo col suo mignolo, e sarei stata contenta se un anellino di ferro mi avesse in quel momento legata a lui per sempre. Era il primo uomo, dopo mio padre, che osasse toccarmi un dito, e sentii un fluido venire da lui a me, come quando in collegio tutte in catena si provava la scossa elettrica. Davvero, n'ebbi lo stesso fremito e quell'istessa convulsione che fa ridere, che strappa le lagrime e fa gridare: ahi! ahi! Cos'è l'amore? La nostra madre superiora, te ne ricordi? soleva nelle commediole sostituire a questa brutta parola o amicizia, o stima, o gratitudine, o riverenza e cento altre parole consimili; mettine pur mille e sommate tutt'assieme e non avrai ancora il sinonimo d'amore. Questa è un'idea di Giulio, veh!- se sentissi, come ragiona! "Ieri sera presi la mia Celeste sulle ginocchia e mi sono seduta alla riva del mare. La chiamai Celeste perché è il colore che piace ai poeti, al Padre Eterno, e a lui. Non l'hai mai vista la mia bambina? è bionda, magrina, vispa, e sapiente! quando pongo le labbra sulla pozzetta del suo collo mi sembra di succhiare tutte le debolezze di cui è ripieno il paradiso. O cara Emma, ho bisogno di parlare, di gridare, di propagarmi come una divinità antica, e invidio la pioggia d'autunno che si riversa, e bagna tutto, e scorre da per tutto e si sprofonda in tutte le screpolature della terra...". "Se nella mia vita" pensò il dottore, "mi fosse dato trovare una donna che sentisse razionalmente come Severina; se ella stessa guarita, volesse dire a me quanto scrive d'un ingrato, potrei io resistere all'oceano traboccante di questa felicità? mi sazierei di quest'onda? invecchierei ancora un giorno nella mia vita? Quest'amore ha istinti immortali e se l'anima dell'uomo spirasse in queste maestose imaginazioni, porterebbe seco la gioia per tutta l'eternità." Ma che penso io mai? non sono idee da matto anche queste? perché vado aizzandomi? questo silenzio mi sgomenta...".No, no - gridò a voce alta lacerando coi denti l'indirizzo del conte, alle quali parole rispose un gemito, e un fruscio di foglie nel giardino. Il dottore già coi nervi irritato e la fantasia tesa si sgomentò come innanzi a un grave pericolo e tese ancora l'orecchio, ma non udí che un suono di piccoli passi scricchiolanti sulla sabbia. "Chi passeggia a quest'ora?" pensò " chi sospira?". Prese la lucernetta e si accostò alla finestra: ma un buffo improvviso di vento gliela spense: sparito era anche il lume dalla camera di Severina; buio e silenzioso il giardino. Scoccò un'ora. Il dottorino corse fino al letto e vi si buttò vestito come uomo che per paura si rintani. - È questo l'amore? - domandò a sé stesso e quando a Dio piacque si addormentò. Appena desto, coll'alacrità che ispira l'aria fresca del mattino e la luce del sole, sedette allo scrittoio e scrisse d'un getto questa lettera: "Illustrissimo signor conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll'autorità d'un superiore, ma io parlo in nome del dovere e della pietà. Chiamato dall'illustrissimo signor barone commendatore Adriano Siloe per esercizio del mio ministero conobbi una donna infelice, pazza da un anno, della quale non oso pronunciare il nome innanzi a lei sperando che sia ancor vivo nel suo cuore. Forse Dio vuol servirsi di me, ultimo uomo della scienza, per guarire questa ragione che una grave sventura ha crudelmente ferito; ma io non potrei far nulla senza la presenza di V. S., S.,perciò venga senza indugio a **** sul lago di Como e cerchi del dottore sottoscritto". Questa lettera mostra evidentemente come Marco obbedisse di malanimo al suo dovere, perché non bisognava, io credo, usare uno stile troppo asciutto e rigido verso una persona che si doveva persuadere e commovere. Ma il dottorino quando contemplò queste quattro righe buttate là nel peggior modo e colla peggior penna si rallegrò come se avesse riportato un trionfo sopra sé stesso o piuttosto per quel suo pregare ruvido che aveva l'aria d'una sfida. Scrisse anche un biglietto a Celestino, dandogli sue notizie, ma prima di chiudere le lettere, quasi gli piacesse d'indugiare, visitò l'inferma. Poca luce entrava nella camera di Severina, e il dottore poté avvicinarsi al suo letto quasi senza essere scorto dalla povera Marianna che sonnecchiava nella poltrona. La febbre tormentava ancora Severina, ma già le sue forze parevano piú stremate, gli occhi piú languidi, e meno accese le guancie. L'inferma non sentí la mano che le toccò i polsi e la fronte, e solo mormorò colle labbra aride parole inintelligibili; il dottorino però interpretando il suo desiderio sollevò di una mano la testa della fanciulla e porse una tazza d'acqua ghiacciata a quelle labbra sitibonde; poi ricompose le coltri fino al mento, raccomandò il silenzio e l'oscurità e usci in punta di piedi. La malattia seguiva secondo i suoi desideri e se ne fregò le mani d'allegrezza: - Diavolo! il mondo ne avrebbe parlato... Un servo lo fermò nel corridoio e gli consegnò un biglietto del barone che dopo aver vegliato gran parte della notte, si era buttato nel letto sul far della mattina. Il biglietto diceva brevemente: "Spero che ella avrà spedita la lettera al conte colla posta della mattina; se non lo ha fatto, non perda piú tempo" - A che ora parte la posta della mattina? - Alle cinque. - Sono le otto: vieni da me fra un quarto d'ora - e il dottorino ritornò nella sua camera molto indispettito con Sua Eccellenza che dopo un anno di perditempo diventava a un tratto scrupoloso dell'ora e del minuto. Dopo lunghe ricerche ho finalmente scoperto che la celebre cantante, per la quale don Giulio erasi fatto cosí leggiermente spergiuro, chiamavasi Adriana Saintrose, bellissima donna, una delle stelle fisse dell'Opéra. Alla Pergola, e specialmente dal primo ordine di palchi, era furiosamente applaudita tutte le sere e piú ancora lo fu, quando si seppe che fra i suoi antichi amanti erasi iscritto anche un alto personaggio della corte francese. Molti di quei signori dalla testa lucida si mantenevano dapprima in un dignitoso riserbo, temendo di aver tra le mani una prima donna comune; ma dopo che il marchese Ercole portò da Parigi la peregrina notizia, cessarono gli scrupoli, e l'entusiasmo lanciò via il tappo. Il contino Leopoldo che allora faceva le prime armi nel bel mondo possedeva un guanto rapito ad Adriana, mentre ella saliva in carrozza; reliquia, che se a uno spirito chiuso e alieno da queste delizie sembra poco meno che inutile tornava invece preziosa fra persone sensibilissime alle grazie della bellezza e dell'arte. Adriana, da parte sua, rispondeva con tanti baci, buttati a piene mani qua e là sull'amato pubblico, e questi baci pur troppo erano colpi di sasso per molti cuori di vetro; gli animi, riscaldati da sguardi, si erano a poco a poco accesi e si era giunti al punto che ognuno credeva follia la speranza di essere prediletto. Si disse che il conte Giulio dal suo palco di proscenio avesse già ottenuto qualche grazia, ma era un'argomentazione di coloro i quali conoscendo i gusti della Saintrose, sapevano che il conte aveva cinquanta mila lire di rendita all'anno Però lo si disse e lo si credette, e ognuno sa che molte cose esistono in cielo e in terra, per l'unica ragione che si credono. Don Giulio, da vecchio lupo di mare, ne rise come d'una facezia e posando al serio, rispondeva che aveva ben altre faccende per la testa; ma quando suo cugino, il famoso marchese Ercole, lo invitò a una serata di gala in casa di Adriana, tentennò, preso da un certo timido imbarazzo, che forse aveva radice in qualche sentimento piú intimo e segreto. Il buon cugino, battendogli paternamente le guancie con due dita gli disse: - Poverino, tu ardi. - Di che? - Di Adriana; lo dice tutto il mondo. - Fai male a ripetere questa sciocchezza, che potrebbe compromettermi in faccia al barone Siloe - Certamente: Adriana da parte sua non è piú prudente di me - Chi? la Saintrose? - Sí: ella chiede sempre del bel contino. - Baje!, - Te lo giuro e, poiché io sono il suo primo confidente, mi ha fatto molte volte il tuo elogio, e mi ha obbligato a trascinarti alla festa o vivo o morto. - Se io non venissi? - Faresti opera santa certamente - rispose il cugino sogghignando. - Io so che voi ridereste crudelmente di me. - Ohibò! tutti noi si direbbe: Gran uomo quel conte! - Io vi conosco troppo, e temo piú di tutti voi i sarcasmi di questa donna olimpica. Sono uomo di spirito e non dubitate che questa sera verrò a vostro dispetto. Non solamente la paura di sembrare uomo dappoco e novizio, ma anche una misteriosa spinta aveva persuaso don Giulio ad accettare un invito obbligantissimo e innocente. Non era amore, ma forse una naturale compiacenza, perché Adriana aveva chiesto di lui; era quasi un senso di riconoscenza, o, sopra ogni cosa, quella curiosità dell'ignoto che attrae gli uomini come i vortici del mare inghiottono i pesci. Dopo tutto non credeva d'offendere la causa di Severina, troppo alta, troppo santa, per essere confusa con un capriccio di prima donna, con un fuoco d'artifizio, colla commedia di una sera, con un amore infine che simile al vin spumante, traboccava tutto dall'orlo, lasciando secco il bicchiere. Di quanti dolori è madre questa facile filosofia delle distinzioni! Il marchese Ercole presentò don Giulio ad Adriana dicendo: - Sposo novello e fra poco marito fortunato. - Possibile? - esclamò la bella donna spalancando in aria di stupore i suoi grandi occhi di bove. - Sissignora: amante e marito fortunato - rispose senza esitazione il conte. - Da noi è un fenomeno ancor possibile, per chi, s'intende, ha meriti speciali. Il conte sapeva a memoria queste vecchie parti, né si smarrí innanzi al sorriso sardonico che sfiorò le labbra di Adriana, la quale, stesagli la mano, disse: - Lasciatevi complimentare. - Credeva che diceste: lasciatevi copiare - rispose il conte con uno scoppio di risa, che toccò nel profondo del cuore la sdegnosa donna. Fra cinque o sei che formavano un crocchio intorno alla regina della festa, s'incrociò un fuoco di fila contro il povero conte, e contro la sua precoce serietà; don Giulio sentí le punte di quella satira fine, e ricorse alla protezione della padrona di casa, che con aria grave e solenne troncò le ciarle, dicendo: - Il signor conte ha ragione: il miglior amante per una donna dev'essere il marito. - D'un'altra... - continuò la voce rumorosa del marchese Ercole, e don Giulio, pensando a Severina e a sé stesso, provò un senso di rimorso non senza dispetto. - Voi siete caduto fra i pirati, conte - gli disse Adriana prendendolo per una mano e indicandogli una sedia vicina. - Vi rincresce, poverino, d'essere rapito, eh?.. Don Giulio sedeva per la prima volta vicino a quella donna favolosa, che era solito vedere cinta del mitico fascino delle luci, delle gemme false e delle armonie; questa donna, che odiava gli sciocchi d'odio selvaggio, aveva cercato lui, e ora lo dominava colla pupilla mobile, eloquente e supplichevole; la voce di Adriana, era nel discorso melodiosa come nel canto, anzi aveva certi sbalzi improvvisi, certi strascichi sottovoce, certi sorrisi granulati che davano i brividi all'anima. - Rispondete, amico - replicò quando furono lasciati in disparte - Vi rincresce d'essere rapito? - Come posso saperlo? - rispose con un leggier tremito di voce il conte. - Io non conosco quel che valgo; sono io merce preziosa o di contrabbando? - Uomo di poca fede e di pochissima carità. - Adriana s'impensierí, lesse a lungo i rabeschi del tappeto, e balzò rapidamente a servire il the. Don Giulio sentiva un fruscio nelle orecchie e una vertigine al capo, come uomo che giunto all'orlo d'una cascata gira e precipita. La conversazione di quella sera tumultuosa non concesse ad Adriana la vittoria, ma le ispirò un immenso desiderio di vincere, il conte, schermendosi a tutt'uomo, non aveva perduto un palmo di terreno, ma non poteva fuggire senza vergogna e senza pericolo. Di fermo proposito la sera appresso stette a lungo nel palco del barone, seduto vicin vicino a Severina, quasi per ritemprarsi nella contemplazione di quella bellezza gentile e casta. Ma la Saintrose fu piú d'ogni altra sera prepotente, affascinante e strappò le lacrime ai vecchi abbonati. Don Giulio, che vedeva molti cannocchiali diretti verso di lui e Severina; che udiva costei tessere gli elogi di Adriana e che, pur troppo, non era senza esca al cuore, si domandò imperiosamente: "Che faccio?". Per le gallerie, sulle scale venivano a congratularsi con lui, come se nel trionfo di Adriana egli avesse gran parte; qualche giovinetto, vedendolo passare, lo seguiva d'uno sguardo lungo e pieno d'invidia, onde il conte stizzito, malcontento di sé e di tutti, pensò di lasciare il teatro, che gli pareva una fornace ardente. Prese onestamente licenza da Severina e dal barone, ma nell'atrio gli fu consegnata una lettera, che alla scrittura riconobbe del suo buon cugino il marchese. Eccola in tutta la sua semplicità: "Caro Conte, "Scrivo sotto dettatura di una persona la quale ti prega di concederle per mezz'ora la tua carrozza dopo l'opera; prima della fine del ballo la carrozza sarà a' tuoi ordini. Il y a anguille sous roche. ERCOLE" E piú sotto in piccolo carattere: "Adriana". Don Giulio corrugò la fronte e si carezzò tre volte i baffi, come soleva nei gravi istanti della vita. Maledisse il cugino, che per suo piacere andava tendendogli queste trappole, ma subito dopo riconobbe che l'intervento di Ercole era forse un'astuzia di Adriana. La preghiera era onesta e discreta e il conte non poteva, senza vergogna, esporsi a un duro rifiuto, che il buon segretario avrebbe reso noto al mondo con qual scandalo, Dio lo sa! Diede perciò gli opportuni ordini al cocchiere, raccomandandogli di essere di ritorno avanti la fine dello spettacolo, quindi tornò al suo palco di proscenio, mentre incominciavano le prime note del ballo; vi si rannicchiò all'ombra per paura che il barone e Severina non lo ravvisassero. Sebbene giuocato dal caso e dagli amici, tuttavia questo nascondersi, questa paura d'essere veduto tornarono agre e noiose a don Giulio, che, umiliato, se la prendeva con Adriana, col cugino, coi cicaloni, con sé stesso. Amava egli Adriana? poteva negare d'aver tremato innanzi a lei? non aveva stentatamente trovate parole per Severina, egli che vantavasi bel parlatore ed esperto nell'arte del commuovere? Sfilarono schiere di ballerine, apparvero sulla scena mari e monti, ma il conte nel fondo del suo palco fissava gli occhi sotto la sedia, colla testa stretta fra le mani; vedeva una carrozza correre per le vie di Firenze, arrestarsi in via Tornabuoni; una donna scendeva, dava una grossa mancia al cocchiere, e insieme una lettera, un invito per domani, un colloquio insomma... Ed ecco i servi della casa a parte del segreto; tutti i servi della città e tutti i padroni di questi servi parlavano di lui e della Saintrose, e cosí lo scandalo andava allargandosi come una macchia d'olio sopra un pannolino. Non era questa appunto l'intenzione di Adriana? per ciò gli aveva chiesta la carrozza quasi volesse allearsi tutta la città per combattere lui solo, inerme, pauroso del ridicolo, vanaglorioso, e che a venticinque anni vantava il coraggio di prender moglie. Aveva bisogno di respirare l'aria della notte e uscí a mezzo il ballo: la testa gli ardeva e il cuore, fatto piccino, soffriva come d'un doloroso presentimento. Incontrò non so quale deputato, suo amico, che gli presentò un alto personaggio russo; il conte balbettò una delle solite frasi e stava per andarsene, quando una voce argentina, nel piú armonico francese, fece rivolgere perfino l'alto personaggio. Tutti s'inchinarono e fra sei o sette curiosi accorsi si apri una via gloriosa, per la quale passò Adriana, vestita come lo sa fare un'artista da palco scenico, che ha fretta, cioè il ricco abito di raso dell'ultimo atto, un peplo mezzo greco e mezzo parigino intorno alle spalle e una nube di garza bianca intorno alla testa. Don Giulio impallidí ma essa venne senza esitazioni a lui, gli stese la mano e distintamente: - Vi ringrazio, conte, che mi offriate la vostra carrozza; accetto, perché il carrozzone del teatro è un attentato contro l' arte... Il conte diede la mano ad Adriana; gli occhi dei curiosi, dei portieri, dei gendarmi, dei pompieri, dei servi schierati innanzi alla porta si conficcarono su questi felici mortali, e don Giulio ne sentí veramente il bruciore come se cento lenti infuocate lo pigliassero di mira. Il conte non poteva chiuder sola Adriana nella carrozza, né ella glielo permise: sedette vicino a lei e i cavalli scalpitarono, gettando scintille, sul difficile selciato. Trentasette cannocchiali (il marchese Ercole li contò) si fissavano in quell'istante verso Severina. In una valle degli Appennini il conte Gian Andrea possedeva un antico castello, quasi sempre disabitato e che per il lungo disuso minacciava rovina. Ne restavano ancora intatte dieci o dodici sale, tappezzate dai ritratti di famiglia e ingombre, piú che adorne, di mobili massicci di noce, con vecchie stoffe dorate, e da una dozzina di panoplie e di alabarde. In una di quelle sale, seduta in una vasta poltrona cardinalizia troviamo Adriana, stanca d'un lungo viaggio, percorso fra le due e le sei del mattino. Come vi sia giunta lo potrebbe dire meglio di me don Giulio, che siede a lei di fronte, immerso in gravi pensieri e coll'abito di velluto alla cacciatora coperto di polvere. Il carnevale è finito a mezzanotte e siamo alla prima mattina di quaresima: l'alba rischiara dai larghi finestroni le cornici d'oro, gli schienali delle sedie, dà al pallore dei due amanti un'espressione abbastanza medioevale. - Messere - esclama Adriana sorridendo - siete già pentito? - Ora che vi amo.? - risponde il cavaliere, prendendole ambo le mani. I misteri vogliono poche parole, e quando abbiam detto che un nuovo amore ha cacciato il vecchio, non ci resta altro a spiegare per chi d'amore s'intende; gli altri credano al mistero, piú comodo e spiccio d'ogni dimostrazione. - Mi piacciono queste vertigini - esclama accendendosi alquanto in viso Adriana. - Cos'è la vita senza le commozioni? a mezzanotte era in teatro; quattro ore di fuga attraverso boscaglie ed eccoci al mattino in pieno medioevo. Non avete liuto, conte? - Voi avrete bisogno di riposo. - Voglio dormire in questa sedia patriarcale. Credete voi che nessuno conosca il nostro nascondiglio? - No: ho fatto credere a una certa causa di rivendicazione di terre, per la quale è necessaria la mia presenza. Adriana, dite almeno che credete all'amor mio: non vi pare che abbia fatto qualche cosa per voi? - Sí, sí, vedo quanto vi costo. - Non dico questo. - Vi costo una dote di due milioni, se non mi sbaglio, e una fanciulla ingenua, che è quanto di piú raro esista, dopo i milioni. - E, se ciò fosse, non merito la vostra fiducia? - Adriana, voi m'insegnate veramente cos'è l'amore. Il cavaliere veduto da lontano sarebbe sembrato inginocchiato presso Adriana, rapito in quegli occhi, che avevano tutte le variazioni azzurrine dell'aria. Durante quell'estasi, l'intelligenza di don Giulio non aveva la virtù di oltrepassare il breve circolo di quelle pareti, in cui stringeva tutto il suo universo, e ogni legge di onore, ogni suo dovere, ogni rimorso, dileguavano come cera alla fornace, o gli sembravano leggi necessarie per il bene di tutti, ma fatali a ciascuno. Severina, nel caldo immaginare di quegli istanti, gli appariva come una di quelle sbiadite figure a guazzo, mingherline e grette, mentre Adriana brillava di tutti i colori ardenti di Tiziano. Don Giulio tornò due o tre volte a Firenze, e credette opera generosa confessare al padre le sue intenzioni; il conte Gian Andrea, vedendolo tanto risoluto, aggrottò le ciglia e gli voltò le spalle, esclamando: - Fate voi, ma è un'indegnità. - In questo tempo Severina cominciò a notare la freddezza del conte, e nacquero i primi disaccordi col barone, disaccordi che portarono, come sappiamo, a un fiero contrasto fra i due gentiluomini e che affrettò la partenza del conte per Parigi. A quest'uomo aveva scritto il dottore la lettera che conosciamo, ma la penna gli diventava di piombo, quando egli si accingeva a porvi il fatale indirizzo. Si imaginava già presente il conte e distrutte le care illusioni, che da un mese lo facevano tanto felice. Perché non ritardava di qualche giorno il compimento di questo sacrificio? aveva diritto il barone di comandare a lui, arbitro della salute e della felicità di Severina? Il servo entrò. - Cosa volete? - gli chiese il dottorino. - Non aveva una lettera da consegnarmi?, - Vi ha mandato qui Sua Eccellenza? - Nossignore, ma ella stessa non mi ha pregato poco fa… - Sí, sí... Eccola. Il dottorino sillabò nello scriverle queste parole: Genève, Hôtel Suisse, mentre un agro sorriso gli sfiorava le labbra. - Sua Eccellenza - disse il servo - mi disse di affrancarla - Fate pure, galantuomo... Il servo, presa la lettera, andò diffilato alla posta. Marco si coprí il volto, strinse i pugni ed esclamò: - Ah, io divento perverso... Non importa, il conte almeno non verrà. Il buon dottorino era colpevole d'un gran peccato, ma non è il caso di confessarsi ora per lui. Secondo il consiglio del dottorino, il barone scrisse alla contessa Ippolita, una delle piú care amiche di Severina, e alla marchesa Ermanna, la vecchia zia, pregandole di venire in suo soccorso, ed esse accorsero sollecite al letto dell'inferma, che già cominciava a uscire del lungo assopimento e a dar segno di conoscenza. Era il sesto dí che Marco dimorava al Ritiro e la malattia, precisamente come egli aveva pronosticato volgeva a buon fine: il conte Giulio, dietro le congetture del barone, doveva aver ricevuto già da tre dí la lettera del dottore e forse fra un'ora, forse fra due poteva arrivare chi sa con quale aspetto! chi sa con qual animo! Alle vaghe interrogazioni di Sua Eccellenza, il dottorino rispondeva con parole monche, sforzandosi di mettere innanzi non so quali dubbi sul carattere di don Giulio, uomo, secondo lui, di nessun valore e inabile a ogni buon'azione. Adriano, occupato nel pensiero di Severina, desideroso e nello stesso tempo pauroso d'incontrarsi in quell'uomo fatale, prestava orecchio distratto alle parole dell'amico, accorgendosi né poco né tanto del suo sguardo timido, del suo frequente smarrirsi e del colore insolitamente pallido. Sua Eccellenza, per quel resto d'orgoglio che ogni uomo porta con sé anche nel sepolcro procurava nascondere l'ansietà che lo dominava, né i servi, né altri, meno la vecchia zia, sapevano del ritorno del conte; il barone soffriva una nuova pena, l'aspettare, ma il suo contegno era sempre grave, solenne e di una immobilità marmorea Invece una gran tempesta rumoreggiava nel cuore di Marco, il quale era certissimo che don Giulio non sarebbe giunto mai, se non per miracolo. Nessuno meglio di Marco sapeva quel che era scritto sopra la lettera mandata a Ginevra, e il buon dottorino che non si era ancora pentito del crudele scherzo giuocato a due uomini illustri, stava, covando rimorsi, ad aspettare gli eventi. A questi rimorsi non era abbastanza compenso l'amore di Severina? egli solo finalmente dominava il campo e don Giulio non era forse tal uomo da meritarsi anche di peggio? Severina, sebbene sfinita, aveva riconosciuto la zia e l'amica, ma destandosi e smarrendosi a vicenda, stentava a raccapezzarsi del luogo e del tempo: girava gli occhi incantati, e ad una ad una andava risuscitando le memorie piú note e piú lontane, senza mai chiedere di don Giulio, come s'ei fosse scomparso dalla memoria. La sera si avanzava. Il barone passeggiando sul terrazzo, spingeva l'occhio nella lontananza del lago già involto dall'ombra; passò l'ultimo piroscafo, né don Giulio comparve. Che avrebbe detto a Severina, se per caso domattina, nelle ore piú serene, chiedeva del suo fidanzato? Come ingannarla ancora senza mettere a estremo pericolo questa fragile intelligenza? Intanto il dottore, venuto al letto della malata, vide che gli occhi estatici di lei si fissavano per la prima volta ne' suoi e che un leggiero rossore, come un raggio passeggiero di sole, colorava le sue guance e saliva, smarrendosi, fino alla fronte. Se non gridò per la gioja, fu per non sembrare scemo o crudele, ma sentí ch'ei rinasceva nel pensiero della fanciulla proprio secondo il suo desiderio, e gli parve di essere lí a contendere quella bella creatura a un branco di avidi ladroni. La luce che usciva dalle sue pupille in quel momento aveva un non so che del falchetto e dell'aquila. - Don Giulio? - domandò sottovoce la vecchia marchesa, che seduta in una grande poltrona a' piedi del letto, diceva corone. - Non è arrivato - rispose Marco. - Noi forse lo cerchiamo invano sulla terra, e questa povera bambina... - I singhiozzi l'interruppero, ma poi seguitò: - Può darsi che anche tornando a ragione continui l'inganno di prima e che voi, dottore, suo fidanzato... - Io? - esclamò tremando il dottorino. - Se ella vi amasse, e se ciò fosse la sua vita? - Ma, io povero uomo... - Il conte aveva un milione e mezzo: io ve ne darei due, dottore, per amore di questa bambina... - Sua Eccellenza non acconsentirebbe mai. - Adriano ama sua figlia... e sopra la necessità non vi è che Dio. Il dottorino a queste parole, pronunciate da una voce tremula e lagrimosa, sorrise fantasticamente e si appoggiò, per non cader ginocchioni, alla sponda del letto. E qui torna opportuno, anche a giustificazione intera del nostro buon amico, osservare come da un mese egli vivesse in un mondo meraviglioso, nel quale i suoi pensieri erano messi alla tortura e i suoi affetti esposti alle piú nude tentazioni onde non dobbiamo far gli occhiacci se qualche volta lo troviamo in colpa e in falsi giudizi. Un dí vede una solitaria bellezza fra le piante sorridere a lui e se ne accende come è ben naturale in un animo gentile; ma questa fanciulla è ricca ed è pazza ed egli cerca di fuggire; no, il destino lo spinge verso di lei, che l'abbraccia, che gli dichiara un immenso amore, che cade come morta a' suoi piedi: da una settimana veglia per lei a consultare gli oracoli della scienza ne spia ogni respiro, ogni batter di palpebre; la gelosia gli entra in cuore quel dí che egli si sente degno di Severina; qual meraviglia se tutti questi casi hanno dato al suo carattere un accento esasperato, frenetico, fanatico e se le sue idee non si svolgono secondo il corso ordinario? Egli stesso se ne accorse alcun poco, e quando venne questa stessa notte a chiudersi nella sua camera, andava chiedendosi se per avventura egli non avesse fumato dell'oppio, o passeggiato a capo nudo sotto il sole. Severina aveva arrossito onestamente innanzi a lui; sia che ella l'amasse come conte, sia che l'amasse come dottore, nessuno poteva negare che tornando miracolosamente alla vita e alla ragione la fanciulla non si attaccasse a lui, come a un caro salvatore. - Domattina sarebbe ritornato a quel letto e alla luce chiara del dí Severina lo avrebbe riconosciuto: "Sei tu?" (il dottorino immaginava per suo conto anche il dialogo). "Sei tu, caro Giulio?- oppure, chi siete voi?" "Io son uno che vi amo, Severina!". "Ah! Dunque fu tutto un sogno quel che io soffrii...?". "Voi avete veduta la morte ma io ho tanto vegliato presso di voi...". "Ah! grazie, mio caro" "Chi oserà porsi fra noi?". Quest'ultima frase Marco la declamò, destando perfino il rimbombo sotto la volta della camera, ed egli stesso n'ebbe vergogna e paura. "Diavolo!" pensò "che la sua pazzia mi entri addosso?". Altri pensieri nol lasciavano requiare, perché la voce misteriosa della vecchia marchesa ronzava ostinatamente al suo orecchio: "Io vi darei due milioni...!!...". Questo era il mondo della favola! che dovesse svegliarsi un bel mattino ricco sfondato? Egli aveva sempre pensato da stoico sul valore dei beni di quaggiù; ma il diavolo non aveva mai fatto tintinnare tanto da vicino il sacchetto dell'oro, come quel dí, e il suon del metallo, ognun lo sa, fa voltare anche il sordo. Essere ricco e amato! - gli pareva la somma di una filosofia nuovissima, che abbracciava in poche parole tutto l'universo, anima e corpo, la vita e la morte e andava domandandosi se egli poteva senza scrupolo stendere la mano a quel mucchietto e stringere in pugno il proprio avvenire; ma le risposte venivano facili e in folla, dal punto che tutto era per la salute di Severina. Come si vede, questo rimuginare gli doveva mettere le fiamme al viso e lo sbalordimento al cervello; gli parve che la sua camera divenisse troppo angusta per quelle idee magnifiche, onde uscito bel bello, venne a una scaletta che metteva al giardino, sforzò dolcemente la molla d'un cancello di ferro, uscí all'aria aperta, che gli era tempo. - Non era ancor suonata mezzanotte, ma tutti dormivano in casa; nessun cane vegliava a custodia, cosicché il dottore poté passin passino attraversare il largo del giardinetto alla volta del bosco di magnolie. - Viaggiavano nel cielo certe nubi distese in figure grottesche e come agglomerate intorno a un piccolo cerchio di luna squallida squallida; l'aria sentiva ancora del fresco e dell'umido di una pioggia cessata da poco, e che aveva sí immollato il terreno che il piede vi sfondava mezzo; poco lontano risonavano i fiotti del lago, grosso in quella notte, che rompendosi contro il solido granito delle fondamenta mandava il suono di una pasta molle sbattuta da un furioso. Qua e là, negli spazi di terra luccicavano sotto quel pigro lume le pozze d'acqua, in ogni forma e misura, come i frantumi d'uno specchio. Il dottore, che stringeva, come dicemmo, il suo destino nel pugno tornò all'idea fissa della pazzia, né gli parve improbabile questo pericolo per un uomo che si trovava al cospetto d'un domani sí meraviglioso e fantastico. Gli vennero in mente le favole di certi romanzi letti da lui in quella età che gli altri li fanno e trovò non esser falsi del tutto quei personaggi, fabbricati a Parigi, pieni di peccati e di milioni, che passeggiano la notte a meditare astuzie e trappole, che compiono le piú fiere vendette, uccidono rivali, avvelenano vecchie avare, rubano testamenti... - Ma che diavolo! mormorava e si batteva la testa col pugno. - Son io che penso cosí? Il dottorino sognava ad occhi aperti e del suo fantasticare avevano colpa, non solo gli avvenimenti, ma anche quel cielo a ragnatele, quelle goccie diacciate, che grondavano dalle lucide foglie delle magnolie, quel brivido che gli serpeggiava sotto pelle, quel non so che, fra la speranza ed il dubbio, che fa tentennare i piú saldi, quella fede in un amplesso vicino, in un bacio sí ardente che avrebbe fatto di una pazza una savia donna e di un uomo ragionevole forse... Udí poco lontano il suono d'un passo e un fruscío di foglie. Ristette su due piedi, ma il cuore accelerò i suoi battiti fino allo strazio - Tende l'orecchio, traguarda fra ramo e ramo e sente un vero scricchiolío di sabbia, onde pauroso, non per natura, ma per le circostanze in cui si trovava, si rannicchiò nei rami sporgenti e aguzzò verso il tempietto del fauno che sorgeva in fondo a quel viale. Di là spuntò un'ombra, che forse era un uomo. Forse anche l'ombra notò un agguato sul suo cammino, perché ristette ferma, senza fiatare, spiando senza dubbio nelle fitte tenebre dove stormivano le foglie. Il dottore andava almanaccando tra sé chi poteva essere l'ignoto vivo, che a quell'ora passeggiava in un giardino chiuso, non certamente il barone che era alla statura piú piccolo d'una spanna, non uno dei servi, né un ladruncolo perché al portamento, al nero cupo dell'abito e a certi rivolti candidi al collo e alle maniche, gli pareva un uomo molto ben vestito. Si ricordò, nel tempo di un amen, d'aver già udito altra volta dalla finestra un suono di passi nel giardino e dei gemiti sommessi e subitanea, come il lampo, gli balenò un'idea, una brutta idea per la verità: - Che fosse il conte? L'ombra rassicurata, si avanzò di buon passo direttamente e verso il dottore, che avrebbe voluto sprofondarsi sotterra. - Chi siete? - domandò con voce strozzata Marco. - Lode a Dio! temeva d'incontrarmi nel barone Adriano. - Ma voi? - Ella è forse il signor dottore? - disse sottovoce lo sconosciuto. - Lo sono, ma vorrei cortesia per cortesia - rispose alquanto stizzito. - Sono il conte Giulio - e nominò quel cognome che noi non possiamo trascrivere pei dovuti riguardi. - Come sta la poveretta? - chiese di nuovo il conte; ma il dottorino, che sentiva un'ambascia insolita e come goccie d'acqua diacciata stillargli sul cuore, non rispose che con un mugolío sordo di meraviglia e di rabbia. Finalmente trovò modo di domandare alla sua volta. - Avete forse ricevuto la mia lettera? - Quale lettera? - disse il conte non badando al modo famigliare e duro del suo vicino. - Vi ho scritto saranno tre dí, ma non so... - Da quindici giorni mi trovo sul lago e da una settimana penetro tutte le notti in questo giardino, come un ladro di campagna; ella saprà che io ho tanti rimorsi da scontare... - Lo so. - E che cosa mi si scriveva? Il dottore pensò un istante e franco rispose: - che ogni speranza per Severina era perduta; che non veniste piú da queste parti perché Sua Eccellenza ha giurato di uccidervi. - Il dottore nel pronunciare queste parole andava tendendo i nervi e stringendo i pugni come se volesse soffocare alcuno. - È la grazia che cerco - disse lentamente e chinando la testa l'infelice. Il dottore lo adocchiò, e non poté impedire che questo accento disperato non vibrasse in modo strano dentro di lui. - Vorrei parlarle con sicurezza - disse per il primo il dottore dopo un lungo silenzio. - Dove potrò trovarla, signor conte? - Alla riva di Molina, non lontano dall'Orrido, al di là del lago. Domandi a qualcuno ove abiti l'Inglese e glielo diranno. - Ella traversa il lago tutte le notti? - Verrà una notte che mi fermerò a metà. - Ah! - esclamò Marco, con un grande respiro, sollevando gli occhi al punto piú alto del cielo, e quel grido pareva volesse significare: Io sono ben tristo! - Non dirà d'avermi incontrato, dottore? - No! - Resto qualche ora a contemplare il lume di una finestra; finché quel lume risplenderà... ma alzando le spalle il conte s'interruppe dicendo: - Buona notte, dottore. - E gli stese la mano: poi sparí per il lungo viale. Marco era legato alla terra, né sapeva formolare un pensiero che avesse un colore e una proporzione; tentennava la testa, sorrideva a fior di labbro e all'improvviso cantare d'un gallo si scosse pauroso, girò gli occhi intorno, uscí dal suo nascondiglio, corse in punta di piedi fino al cancello, salí al buio la scaletta, precipitò nella sua camera e cadde colla testa sul guanciale. La peggior tempesta rumoreggiava in quella povera testa: non aveva per avventura traveduto, sognato, delirato? No, il conte era vicino a due passi da Severina, a due passi da lui. Come poteva egli indifferentemente rinunciare alla felicità per cedere il posto a questo ladrone notturno? Il conte non temeva il barone, e il barone lo aspettava ansiosamente; questi due uomini non si odiavano piú. Chi travolgeva le piú semplici leggi della natura e del cuore umano per tormentar lui, che aveva tanto fatto per Severina? Questo miracolo non avveniva per volontà di Dio, perché il barone non credeva in Dio: uno spirito maligno faceva strazio del suo cuore, e moveva gli avvenimenti come in un giuoco di scacchi. - Oh mia povera Severina! - disse sospirando - ch'io abbia a fuggire da te nel momento che, riaprendo gli occhi, mi avresti beato del tuo sguardo dolcissimo? Prima che spunti il sole, ella potrebbe svegliarsi piú serena, piú docile, piú ragionevole: "Don Giulio non è con voi?" domanderebbe alla zia e all'amica. "Dov'è don Giulio? Chiamatelo" Il momento è solenne! Il dottore ritto in piedi nel mezzo della camera e nell'ombra accompagnava coi gesti questi pensieri tumultuosi. "Il momento è solenne! io entro... Sei tu?..E dopo? se quell'uomo si uccide? se l'inganno non durasse piú d'un giorno? che diverrei io in mezzo a questo mondo fantastico, falso di nome, fra abitudini non mie, fra gente che mi compatirebbe, o riderebbe di me.? Troppi gruppi in una volta, mio Dio!... E pensò finché un tremendo riflesso di luce non disegnò i contorni del monte Bisbino, che sovrastava; il cielo s'era fatto lucido e netto e brillavano ancora molte stelle. Fissò gli occhi in quell'azzurro e in quelle luci, e l'arcana poesia de' suoi quindici anni risuonò a lui d'intorno quasi portata dall'aria mattutina, bisbigliata dalle foglie scosse. Qualche pettirosso provava la voce, ma la sua vicina aveva ancora troppo sonno per rispondergli. Rumori incerti, susurri, fruscii parevano accennar ai primi moti d'una natura che si sveglia, e, la calma del mattino era succeduta ai tenebrosi schiamazzi, alla pioggia e al vento della notte. - Addio! - mormorò il dottorino, non sapendo bene egli stesso a chi fosse rivolto questo saluto. - Addio, sí; ma prima voglio vederti. Si vede che la risoluzione era presa; una fuga. Era ben tempo di fuggire, e troppo grave era stato il castigo di tanto indugio. Fuggire con una dolce imagine nel pensiero, e l'orgoglio in cuore di aver compiuto una nobile azione pareva bello a chi non aveva mai pensato che un uomo possa uccidersi. L'aspettavano ancora le Alpi, i vetturali, gli osti e le montanine della Svizzera; al di là si vendeva birra eccellente a buon mercato e alla peggio la birra istupidisce. Dopo un mese sarebbe tornato allegro come Celestino, con una lunga pipa, coperto d'una buona crosta di esperienza, che salva l'anima dalle malattie croniche. Egli sarebbe partito al primo raggio di sole, lasciando al barone un biglietto coll'indirizzo del signor Inglese e tanti saluti in casa. Era risoluto come un gendarme, ma prima voleva rivederla una volta, il tempo d'un minuto, d'un batter d'occhio. Pensò che a quell'ora tutti dormivano nella casa, perché la vecchia zia ritiravasi a mezzanotte, e Marianna sul far del mattino, nel tempo che ogni infermo suol essere piú tranquillo, godevasi un sonnellino. Un corridoio e una scala di pochi gradini lo separavano da quella cameretta. che avea incominciato a venerare; l'andarvi in quell'ora e solo sarebbe sembrato altre volte alquanto indiscreto, ma egli, fuggendo per sempre, moriva per Severina e a chi muore si usa pietà. Uscí; né tremava, né titubava. La sua ragione era tornata ai sodi principi, alla verità delle cose, ai propositi schietti e luminosi, e se concedeva un'ultima lusinga al cuore, era per meglio rabbonirlo. Giunse e stette innanzi all'uscio; era il medico e poteva entrare. Entrò. Marianna sonnecchiava in una poltrona accanto al caminetto, sul quale ardeva una lucerna accesa appena appena da non essere spenta. Si accostò al letto dell'inferma come aveva fatto cento volte in quei giorni, e non meno franco, e non meno onesto. Sedette sopra la sedia vicina e ascoltò il dolce respiro della dormiente. - Dorme! - disse a sé stesso per il bisogno di occuparsi in qualche argomento. Ma il misurato respiro della fanciulla a poco a poco prese il suono d'un ragionamento susurrato all'orecchio, e il dottorino si chinava per udir meglio; ma non sentiva che un alito sul viso. Il dottorino si strinse le tempia fra le due mani, e la pazzia dell'amore, della voluttà, dell'odio svolazzò e lo toccò; il pianto che da due ore ruggiva chiuso nel petto, minacciò rompere il suo silenzio, e il dottorino lottava atleticamente con un altro sé stesso piú selvaggio, piú irriverente. Entrambi erano forti, ma il selvaggio conosceva certi impeti maligni, che avrebbero ucciso un uomo, e perfino svegliata Severina. - Ah mia bella.... - soffiò il maligno, e svincolavasi dalle strette; ma l'angelo buono lo buttava ginocchioni a piè di quel letto, fremente, ma devoto, riverente, adoratore di quella divina bellezza assopita. Mentre il dottorino, caduto a piedi del letto, smemorato di ogni cosa andava di fantasia in fantasia, una mano fredda, ma dura come ferro, lo toccò. Levò gli occhi. Era il barone. - Usciamo - disse freddamente il barone e si avviò verso la porta, né si arrestò che nella propria camera, seguito in silenzio dal dottorino, che senza imbarazzo, senza preoccupazioni, ma rispettoso e severo, stette innanzi a Sua Eccellenza, gli occhi fissi nel suo viso. Il barone, chinando le palpebre come soleva fare nei grandi momenti, domandò: - Ama ella mia figlia? La domanda era inaspettata, sebbene il dottore avesse già fiutato nell'aria la tempesta, onde balbettò, ma non rispose. - Ella non mi risponde. - Sono colpevole? - domandò alla sua volta il dottore per lasciare il fastidio della risposta al barone. - Io non giudico, esamino. Quali sono le sue intenzioni, signore? - Fuggire da questa casa. - Grazie: almeno è onesto, se non... - Se non ricco! - continuò con amarezza il dottore. - Ciò che non posso concederle, o signore, è il diritto di offendermi. - È giusto! - mormorò il dottore, chinando umilmente la testa. Il barone prese a passeggiare innanzi al dottore, che sentiva rimbombare nel cuore ciascuno di quei passi solenni, e pesandogli il silenzio ancor piú dei rimproveri, si fece forza a dire: - Vostra Eccellenza non vorrà essere troppo severo nel giudicarmi; io non cercai il pericolo, e innanzi al pericolo fuggo. - Il conte è qui - esclamò Adriano alzando la voce. - Come sa? - Ella l'ha incontrato questa notte nel mio giardino. - Ero sorvegliato? - L'amore toglie il sonno agli amanti... - Ella ci ha spiati... - Il conte è qui forse da molto tempo, perché venne al convegno notturno, come uomo che conosce bene la sua strada. Perché ella non me l'ha detto? - Perché... - il dottorino arrossí sebbene avrebbe potuto rispondere d'ignorarlo; ma non affatto innocente, come sappiamo, ebbe paura che il barone gli leggesse in viso il tranello della lettera falsa, ma gli occhi di Sua Eccellenza notarono quelle vampe. - Basta, signor dottore; le risparmio la pena di una menzogna. - Ma!... - Ella ha interesse che il conte non ritorni... - Cioè, interesse... - La vista del dottore cominciava a offuscarsi. - Povera Severina, perdette un amante e ne ritrova due: da bravi, come l'aggiusteranno, messeri? è ai dadi o all'armi che si giuocherà questo cencio di dote? Era troppo; e il dottore, sotto lo spasimo di questo sarcasmo, che gli passava il cuore, evocò quell'antica fierezza di carattere che altrimenti si potrebbe dire coscienza della propria virtù. Non era piú la condizione casuale di un uomo, che lotti contro un sentimento ampio, indefinito, fatale, ma era lotta sincera di un uomo giusto contro un uomo ingiusto, e il conforto della propria innocenza gli ispirò una risposta vivace: - Quel che mi dice Vostra Eccellenza non mi offende, perché non mi tocca; ella non può compatire un minuto di viltà in un uomo onesto, né io mi meraviglio, sapendo come non a tutti gli uomini è dato d'essere generosi... Gli occhi del barone si animarono e nell'arrestarsi a un tratto Sua Eccellenza non seppe celare un insolito impeto d'ira; ma trovò una fronte alta e due occhi, che non temevano i suoi. - Chi non sa perdonare, - continuò il dottore - non intende e per verità lodo Dio che a non tutti abbia largito i tesori di un'anima capace d'intendere e di perdonar tutto. Amai donna Severina, non lo nego, e l'amava già prima di metter piede in questa casa; ma, poiché ella, signore, ha spiato i miei passi, avrà scoperto come non mi giovassi delle occasioni, che un beffardo destino mi offriva, quanto trepidassi alla vicinanza di questa creatura, che si dava tutta a me, come ad un amico, come ad un fratello; tentennai un giorno, non lo nego, ma fu sotto il fascino di alcune domande che feci a me stesso: Non sono io degno di lei? Non l'ho io ricreata? - Oggi rispondo calmo, sereno che no, e fuggo. Se paresse al signor commendatore ch'io fossi troppo pigro ad andarmene, può licenziarmi: una pena la merito e son pronto a scontarla. Il barone andava squadrando questo giovanotto con occhio stupito, e gli impeti di un sacro orgoglio offeso salirono piú volte a suggerirgli una parola acerba, e che fosse l'ultima di un dialogo già troppo lungo e umiliante; ma la parola non venne, e invece gli parve di cedere al peso di un'eloquenza seduttrice, che gli mescolava i giudizi nel capo, e confondeva le verità piú lucenti. Non rispose subito, perché si avvide che le parole vecchie non valevano, e a trovar le convenienti, che sciogliessero il nodo e che fossero nello stesso tempo aristocratiche e giuste, non aveva la calma necessaria.. Il dottore stanco d'aspettare quest'ultima parola, che egli stesso aveva invocato, urbanamente disse: - Se il signor barone mi crede indegno di questa parola, io ubbidirò anche a un gesto... Al fremito, che corse per tutto il corpo del barone, si sarebbe detto ch'ei fosse adirato di quella non mai finita umiliazione, o che avesse dispetto di quell'uomo, tanto pieno di giustizia. - Cedo il posto, - seguitò Marco - a persona piú degna e piú rispettabile... - Non è vero! - gridò infuriando Sua Eccellenza. - Questi elogi non richiesti sono per me una nuova offesa: è una gara di generosità, che mi adira. - Il conte ha dei diritti, o, se meglio le piace, dei doveri. - Chi intende queste contraddizioni? - Mi sforzo d'intenderle. Amo, lo confesso, ma il mio posto non è qui. - Sa il conte d'essere aspettato fra noi? - Lo saprà avanti mezzodí. - Non precipitiamo gli avvenimenti. - Donna Severina potrebbe dimandare di lui. - Di lui! di lui! - ripete Adriano. - Il mio sangue si ribella ancora a questo nome. - Ancora? Non intendo... - Ah! non intendete alla vostra volta: voi siete un uomo ben stravagante. Perdonate la confidenza colla quale vi parlo. Il dottorino strabiliava e sentendo la voce piú conciliante e il modo col quale il barone gli parlava, piú modesto e amichevole, fissò uno sguardo curioso in quel volto pallido. - Il conte non merita questa felicità, n'è vero? - Non voglio giudicare... - Severina forse... - Il barone esitò e poi alzando a un tratto la voce esclamò - Vi rincrescerebbe, dottore, s'io diventassi generoso? è invidiosa la vostra virtù? - Ciò vuol dire?.. - Vuol dire che ogni minuto della vita c'insegna una verità: dottore, è finita la prova, e vi ritrovo, qual vi pensai, grande e degno d'una regina... - Io? - Voi, sí, voi. Da molto tempo vado spiando i vostri passi, le vostre veglie, e quando penso che per opera vostra Severina m'è ridonata, e che ella ha imparato ad amarvi, e che voi l'amate, come posso io preferire un uomo, che l'ha tradita, e che versò il pianto de' suoi rimorsi nel seno d'altre donne? - Ma il conte l'ama... - Ami! è questa la mia vendetta. - Ciò è impossibile. La nobile e dignitosa condotta del dottorino, una speciale simpatia per lui, la gratitudine naturale per il tanto bene da lui modestamente compiuto avevano risvegliato nell'animo del barone non so quali antiche memorie di tempi giovanili, allorché, levando la testa dai grossi libri della filosofia, egli discorreva fra gli uomini a cercare le orme d'una virtù, che dicevasi passata sul mondo. In quei dí, nella vivacità dei vent'anni, sorvolando ai fatti comuni della vita accidentale, e alle frequenti viltà, il barone soleva fermarsi piuttosto a contemplare in sé stesso gli elementi di una filosofia umana capace di fatti grandiosi; perciò al tornare di quelle memorie, credeva ritrovare nel dottorino quel sé stesso, che la disperazione aveva da molto tempo ucciso. In questa bassa landa dei vivi, dove l'esercizio di una semplice bontà è tenuto a vile, e dove si preferiscono le grandi massime che intontiscono alle povere opere che guariscono, dove gli uomini si fanno ogni giorno piú noiosi che utili, il barone compiacevasi di aver trovato una rupe solitaria, che aveva ancora del vecchio macigno. Se prima non se n'era accorto, la ragione si è che viveva lontano dalla gente e questi rari avanzi giacciono nascosti nella moltitudine e non li trova se non chi li desidera. Il barone strinse la mano dell'amico e gli domandò: - Avete capito? - Se non è un sogno, è questa un'offerta ch'io non posso accettare... - Temete l'ira del conte? - Il conte è un infelice. - Lode al vostro Dio. - Eccellenza, - rispose con voce commossa il dottorino - vi fu un istante che io sognai questa lusinga e questa fortuna, ma cattivo consigliero è il cuore innamorato e il piú delle volte trionfa a danno della sana ragione. Quale sarebbe il mio destino s'io non fuggissi? lo dica una parola: Sarei un uomo spostato. Innanzi agli altri cesserei d'essere quel che sono, per diventare che cosa?.. un amante, un marito, un ricco fortunato e caro al cielo. Signore, per tutto ciò può pur meglio di me bastare il conte, e lasci che io torni, ove sono desiderato, fra quella gente a cui ho promesso il mio aiuto, dove il conte è inutile. - Amiamo l'equilibrio delle cose che regge il mondo. Chi mi assicura oltre a ciò che Severina non si ravveda dell'inganno? Abbiamo incominciato questa storia pietosa come una novella per le donne gentili, ma è tempo (e ne sento il bisogno) di tornare al giusto senso delle cose, di ristabilire l'ordine, anche a dispetto del cuore... Lasciamo i vecchi romanzi e facciamo della vita. - Il conte ama donna Severina, e da molte notti entra in giardino per sedersi sotto una finestra illuminata; anche qui, signore, c'è dell'infermità, e un'offesa fatta a un uomo disperato potrebbe eccitare una vendetta, in qualunque modo spaventosa sia che il conte castighi me, e sé stesso, o tutte quante le donne che gli parleranno d'amore.- Invece s'io torno al mio paesello, Celestino sarà contento, il conte tornerà giustificato dai rimorsi, ella, Eccellenza, avrà la consolazione di ricordare un uomo... non affatto indegno di vivere... La voce gli mancò e non potè arrestare una mezza lagrima che spuntò sotto le palpebre; il barone, che stava riflettendo alle cose udite, sorreggeva il volto colla palma e tentennava la testa sforzandosi di rassegnarsi. - Non è meglio cosí? - riprese con voce piú chiara il dottorino come se ora parlasse per conto altrui. - Il cuore non è ostinato e si lascia a poco a poco persuadere, se la ragione sa parlar come va. - Questo signore... tornerà? - mormorò Adriano. - Non so imaginare il modo migliore di riceverlo. - Gli scriva due linee d'invito, che io porterò; cosí avrò la coscienza di aver compiuto tutto il mio dovere, e sconterò qualche peccatuccio... - Il dottore sorrise. - Mandiamo un servo. - No. È necessaria una persona che narri la storia di questa malattia, e che dimostri la necessità d'un pronto ritorno, se no, il conte potrebbe pensare a un tranello. - Per parte mia? - So quel che mi dico, Eccellenza, quando parlo de' miei peccati: due amanti, che s'incontrarono sotto la medesima finestra, si scambiarono delle spiegazioni, ma può darsi che qualcuno abbia accusato anche Vostra Eccellenza di un delitto premeditato. - Il dottorino sorrise allegramente, e sforzò al ridere anche la patetica faccia di Sua Eccellenza. A colazione la vecchia zia narrò come Severina allo svegliarsi avesse dimandato di don Giulio e il dottore permise che le si parlasse del prossimo arrivo del conte. - Ma Severina non si accontentò di vaghe promesse e il dottore le fece dire dalla contessa Gemma come prima di sera don Giulio sarebbe di ritorno. - La malata in questa dolce aspettazione si acquetò. - Tutto va bene, - disse il dottore fregandosi le mani - e farò stampare questa guarigione sul bollettino medico. Chi sa che non mi faccia una gloria europea. Ho bisogno di un po' di gloria… Il barone scrisse un breve invito per il conte e sul far del mezzodí il dottore scendeva i gradini di una scala che metteva nel lago, ove era pronta una piccola gondola. Adriano lo accompagnò fino all'ultimo gradino, muto, malinconico, come se partisse l'amico della sua infanzia, e a stento seppe balbettare: - Passerò tre ore di febbre. Il dottorino entrò nell'elegante gondoletta e in tre colpi di remo si allontanò solo solo da quella malaugurata costa. Quando fu nel mezzo del lago, tirò i remi in barca e, lasciando che l'acqua leggermente commossa dal vento lo cullasse a suo capriccio, cercò di occuparsi in idee comuni per distrarsi, ora guardando il cielo coperto di nuvole, ora i monti e i loro contorcimenti, ora le coste interrotte dai rapidi ghiaieti. Cosí oziando e tratto tratto movendo i remi colla noncuranza d'un pesce che scuote le pinne, venne senza accorgersene quasi a contatto d'un'altra barca, guidata da un vecchio rematore, che a' giorni suoi non aveva mai tratto a riva un carico tanto irrequieto. Erano dieci sartine, venute da Milano a far festa sul lago, pigiate sui loro sedili di legno, con abiti quali li sa fare chi veste sí bene le altre, le une bionde, le altre brune, qualcuna né bionda né bruna, tutte con occhi ladri, delicati, e scosse in quella vecchia barcaccia dagli urti, che dava la vivacità, lo scherzo e la paura. - Legna verde! - disse il vecchietto al dottore, accennando a quel complotto vivace, che faceva un cicalío da cento passere sopra una pianta; e il dottore fu sorpreso dalla varietà degli scialletti rossi e azzurri, dalle piume confitte in gusci di noce, o cappellini, legati sopra una piramide di capelli, come, alla lor volta, le fanciulle destate dallo scherzo del barcaiuolo, si fecero a contemplare la bella gondoletta e il bel pedagogo che andava, dicevano, a pesca d'anguille, non risparmiando le puerili esclamazioni, né le risa semplici, che scoppiavano a loro dispetto dai fazzolettini bianchi e profumati. - Marco, sebbene avesse l'animo penosamente occupato, pure fu in procinto di seguire la bella comitiva fino alla villa Pliniana, dov'erano dirette: passare un'ora fra quelle passerelle, spiegar loro l'iscrizione latina che vi è coi soliti commenti che un giovane di spirito sa cavare da una pagina di bel latino, sarebbe stata senza dubbio la consolazione di tutti i suoi mali. Qualcuna aveva sul viso una espressione profondamente erudita e avrebbe saputo cavar nuovi commenti dalla lezione, supponiamo, carezzare la barba del bravo pedagogo pescatore d'anguille; ma il braccio, seguendo l'impulso d'un pensiero piú profondo girò a poco a poco il remo e spinse la gondoletta piú in là verso la riva di Molina, dove già apparivano poche case e piú in su, a mezzo il monte, tre paesetti con ville eleganti e tra le pieghe del monte ombre e verdi cupi e su su le nude rotonde delle cime e sopra tutto il panorama una tinta di sole acquaiuolo. Che malinconia! Che voglia di piangere! Ma il fantasticare era inutile dal momento che la barca, toccata riva, non poteva andare piú oltre (egli avrebbe cosí vagolato per sempre), onde sbarcò, chiese al primo uomo, che gli venne incontro, del signor Inglese, e, dietro le indicazioni, venne frettolosamente a un'osteria modesta, ma di bell'apparenza. Intese come, secondo il solito di tutti i dí, milord fosse andato al vicino Orrido di Molina, dove passava qualche ora a dipingere, e senza perder tempo il dottorino prese la strada dell'Orrido, che ben conosceva, annoiato di questi indugi che prolungavano il suo martirio. Sassosa era la strada ed essendosi messo un vento straordinario, ei camminava con pena, presso a poco come chi sogna di correre e che sente le gambe intralciate. Il cielo facevasi sempre piú spesso di nuvole e andava offuscandosi specialmente per un cumulo gigantesco, che montava dietro il montagnone - la cuffia del Bisbino; la punta di Torriggia appannavasi sotto un velo di nebbia e le case al di là, fra cui il Ritiro sfumavano come vecchie pitture sopra un muro umidiccio; stormivano gli alberi, si turbavano i ciuffi d'erba che spuntano dai crepacci, e volavano folate di polvere, onde il dottore si fermò a considerare come cosa non mai veduta, la superficie del lago senza riflessi e qua e là qualche barca peschereccia, che guadagnava la riva, le onde, che venivano attorcigliate come cannoncini e che finivano a squagliarsi fra i ciottoli in spume bianchiccie e morbide come la panna. Qualche uccellaccio del mal augurio strapiombava da una catena all'altra dei monti, sopra le ali lunghe e immobili, e nell'aria tutta sentivasi un tempo diavolone. Per conto suo il dottore non era malcontento che la natura prendesse il colore de' suoi pensieri e stette fermo a contemplarla, finché le prime goccie non lo scossero. Il conte vestito di un abito di flanella bigia, succinto e stretto alla vita da una cintura di cuoio, con un berretto alla staffiera orlato di nastro scozzese, veniva, con una cassettina sotto il braccio, alla volta del dottorino che, tiratosi sotto il monte, pareva un masnadiere in attesa. - Signor conte - disse. - Chi mi chiama? - Sua Eccellenza il barone Adriano Siloe mi manda; eccole un suo biglietto. - Che? Sua Eccellenza ha scoperto... - Ha saputo che don Giulio è da quindici giorni sul luogo. - Da chi lo ha saputo? - Io glielo dissi. Non si ricorda, conte, di avermi incontrato questa notte? - Ella è il dottore? È questo l'avviso d'un'ultima disgrazia? Dica schietto, vi sono da lungo tempo preparato. - Cosí disse il conte, ma contro sua voglia impallidí. - Ho bisogno di parlarle a lungo, né qui mi pare luogo opportuno. Come si vede il dottore pigliava tempo a rispondere e il conte, confusamente commosso, correndo col pensiero a indovinare, balbettando rotti monosillabi, precedette il compagno verso l'osteria e sentiva dentro di sé che, se la fanciulla era morta, eterna sarebbe stata per lui la disperazione d'averla uccisa. Cosí nel primo momento, ma poi riebbe il sopravento quell'orgoglioso cinismo, che da qualche tempo si era fatto in lui un'abitudine, molto piú che agli uomini in genere spiace sempre mostrarsi ad altrui vinti dalla propria coscienza; talché la disperazione dell'animo, che stava per rompere in furore, si sciolse in un amaro sogghigno e in un tentennamento del capo e in un levar di spalle beffardo, come chi dicesse: - Tutto è finito. Entrarono nell'osteria, dov'erano raccolti alcuni barcaiuoli e pescatori e, quasi milord temesse che quella buona gente leggesse nel suo volto il gran delitto, si fece a ciarlare con loro, guastando l'italiano da bravo inglese, e cercò del fuoco alla pipa di Anselmo, l'oste, e comandò del vinetto bianco per sé e per il dottore. Costui andava considerandolo con meraviglia, ma piú occupato di sé, seguí il conte su per una scaletta fino a un camerone, disposto a studio di pittura, con un cavalletto e sopra un quadro coperto, presso la finestra, una tavola piena di manoscritti, di giornali, di musica e uno sparpagliamento di disegni, di schizzi e di stampe su per le pareti e per il pavimento. La bella Luisina entrò con un fiasco di una vernaccia favorita da milord, e bisogna dire che il conte si fosse dato a tristi abitudini a giudicare dall'esagerazione del fiasco. Infatti don Giulio non esitò a tracannare d'un fiato il suo bicchiere e, come se ad un tratto uscisse in una sfida, gridò: Lo dica dunque, è morta. - No. - È moribonda? Sia spiccio. - No. Donna Severina è guarita. - La pazza? - Non è piú pazza. - Lo sono io? beva dottore e parlerà piú chiaro. - Benissimo! - gridò alla sua volta il dottorino, riempiendo il bicchiere. - Beviamo, perché il racconto è allegro e bello. Il conte non bevve piú durante il racconto del dottore, che si fece a narrare con tranquillità tutta la storia di Severina dal giorno che egli l'aveva conosciuta e l'invito ricevuto dal barone e l'incontro colla fanciulla e i nuovi inganni, in cui era caduta e i baci e gli abbracci che egli, senza suo merito, aveva toccati e la crisi del male risolta e la sicura guarigione. Tacque affatto del suo amore e fece bene; però per acquistar lena e per rischiarare le idee, il buon dottorino, che pareva il piú allegro uomo del mondo, empí non so quante volte, dopo la prima, il suo bicchiere, non per deliberato proposito di ubbriacarsi, ma sbadatamente. Quando don Giulio intese com'egli fosse aspettato, il suo volto s'infiammò per un precipitoso afflusso del sangue, tentennò la testa per tirarla al giusto apprendimento di quella notizia e balbettò: - È vero? - To'! - gridò ridendo pazzamente il dottorino - ch'io sia venuto a contar fandonie? - e picchiava troppo forte il bicchiere sulla tavola. - Severina? - esclamò il conte balzando in piedi e fregandosi la fronte e gli occhi. - Ma non è un sogno questo? mi svegli dottore, se questo è un sogno. Il dottorino ghignava allegramente. Il conte pareva fuor di sé e girava per la camera, ridendo, esclamando, scarmigliandosi i capelli, frugandosi nelle tasche, come uomo che cerchi qualche cosa e che non sappia ove riesca. Il tempo frattanto si era fatto buio e le vetriate tremavano per i forti buffi, che venivano dal bacino di Argegno; una pioggia a sbalzi picchiava rabbiosamente sui vetri e lampi rapidissimi si disegnavano facendo aureola fiammeggiante al montagnone di contro e talora nicchiando come la pupilla d'un selvaggio incatenato. Il dottorino stentò a levarsi dalla sedia e non senza fatica venne fino alla finestra, da cui grondavano rigagnoli lunghi e giallognoli e serpeggianti, come vermiciattoli, fino a mezzo della stanza. Appoggiò la fronte, che bruciava, al vetro gelido e forse per effetto di quella vernaccia, bevuta in mal punto, dopo un lungo digiuno e un viaggio malaugurato, vide sul piano plumbeo del lago sorgere boschetti e cespi e un villino e macchie di fiori, fra i quali movevasi un bianco cappello di paglia. Però il conte, già troppo egoista per natura, non si avvide né dei fumi, né dei barcollamenti, da cui era preso il dottore. - Bisogna partir subito. - Subito - rispose il dottore. - Non permetto che ella mi segua con questo tempo, - Si figuri - rispondeva l'altro, tanto per rispondere. Ma nessuno di que' barcaiuoli volle prendere il remo e sfidare il tempo, neppure per qualunque offerta, segno che della vita quei filosofi avevano un concetto piú largo d'una moneta d'oro. Il conte cominciò a bestemmiare fra i denti e domandò al dottore, se sentivasi cuore d'accompagnarlo. - Anzi è il dover mio - rispose il dottore, tanto per rispondere. Ma questa volta milord aveva fatto i conti senza l'ostina, la bella Luisina, che, all'intendere quella disperata risoluzione, fu per cader morta o poco meno, dallo spavento; venne innanzi al bell'inglesino, e alzò la voce e le braccia, e lo cinse al collo e lo bagnò di lagrime, chiamandolo con tali nomi pietosi, che tradivano in lei quella cara amicizia, che va perdendosi nel mondo. Spiacque a don Giulio questo contrattempo, sebbene non gli riuscissero tutt'affatto nuove queste cerimonie della bella ostina, onde con violenza aspra e ferina si sciolse da lei, che cadde davvero ginocchioni al suolo; il conte urtò nel gomito il dottore e quasi lo sospinse fino alla gondoletta, maledicendo a mezza voce le ostine, che, quando amano, amano davvero. - È giusto che mi ricordi di te, ma domani... Presto, dottore, a poppa. Il tempo è molto brutto, ma ella conoscerà meglio di me questi venti... Il dottore obbediva. Arrancarono i remi, e aiutati da pochi pescatori accorsi, presero il largo, ma l'onda li risospinse ancora a riva, finché accordatisi colla voce, si curvarono entrambi sui quattro remi gagliardamente, piú con rabbia che con arte, ciascuno, per ragioni sue particolari e alla sua maniera, orgoglioso di sfidare la morte. La gondoletta prese l'aire come vollero i padroni, e, quando fu a cento colpi di remo dalla sponda, cominciò a galoppare, precisamente come un poledro balzano e il conte andava gridando con voce chiara ed eroica: - Attento! l'onda è qui: su! - e la gondola montava in groppa a un'onda, che veniva per schiacciarla; il vento si portò i cappelli dei remiganti, la pioggia fitta li batteva ostinatamente nel viso e negli occhi. Si era già al tramonto, che in quel dí aveva precipitata la corsa e al giungere della sera meschiavansi, non saprei dire, quali nuovi venti alla battaglia, cosicché l'onde squallide si gonfiavano e si sbattevano affannosamente le une contro le altre destando rombi e gemiti misteriosi. La gondola una volta dié di cozzo nella curva di un'onda e da tutte per un terzo girò sopra un fianco, schiaffeggiata le parti da fiotti, che sormontarono e che cercarono tirarla giú coi loro uncini di spuma, ma i due rematori con un grido se l'intesero, e con un po' di tabusso e di scialacquo si drizzarono. Toccavano già il mezzo del bacino sudati, grondanti d'acqua, coi capelli strabuffati, arsi in volto, coi denti stretti, e mandavano ad ogni colpo una specie di ruggito che alla sua maniera sfidava le furie delle acque e dei venti. - Severina merita questo viaggio, n'è vero, dottore? Cosí domandò il conte in un istante di tregua e seguitò: - Da bravo, punti a destra. Io vedo già nelle tenebre il mio paradiso... Il dottorino man mano che entrava nell'animo del conte, scopriva come l'orgoglio e l'egoismo ispirassero tutte le sue passioni come quel riaccendersi dell'amore avesse in se piú del furore che della compassione e infatti don Giulio sentivasi spinto verso Severina da una disperazione, che, radunata per tanto tempo fra le strane avventure, assopita qualche volta ma non spenta mai, aveva minacciato rompere in follia. Questa disperazione, quando riprese nome di amore, piú che amore si poteva chiamare bufera voluttuosa che eccitava gli spiriti fieri del patrizio e l'avidità cieca dell'uomo. Ecco perché il conte, senza accorgersene, riusciva crudele contro il dottore. Questi aveva già l'esca al cuore; la vernaccia gli dava le vertigini, l'ondeggiamento della gondola gli metteva in corpo la nausea, la pioggia e il vento gelato, destando in lui i brividi della febbre, congiuravano contro la sua ragione e contro i propositi gravi che aveva promesso di mantenere: passavano degli intervalli fra queste tenebre, nei quali il dottore smarriva del tutto la coscienza di sé e, come se la testa abitasse in qualche pianeta lontano, ragionava sí, ma non colle idee di tutti i dí, esagerandole, mescolandole, addormentandosi talora in una dolorosa estasi, che non era altro se non smemoramento. Perciò alle parole del conte sentí ribollire i vecchi spiriti domati fin qui, e, perduto il sentimento del giusto e dell'utile da ubriaco, infuriò contro l'uomo che l'oltraggiava contro la sorte che l'aveva stretto fra le asse d'una gondola, e si sarebbe volentieri rovesciato nei flutti, non per volontà di morire, ma per scatenarsi contro un nemico qualunque. Fu in questo rapido delirio ch'egli dié quattro o cinque colpi di remo a contrattempo, in risposta all'offesa del conte, il quale non immaginando quello scherzo e colto all'improvviso, fu imbarazzato nel remeggio, talché un'onda subdola, che incalzava, urtò la navicella di traverso, la spinse e la portò con una lama d'acqua, per buon tratto, all'indietro contro un'altra, che piombò sopra la prua dov'era il conte: questi, che sentí cedere l'assito, tentennò, si protese col corpo piú che poté sopra il remo sinistro, e, rinversandosi energicamente sulle calcagna, trasse la gondola da un pericoloso avallamento, sebbene fosse già stortata sul fianco e assediata da nodose spire. Un lampo rossigno, che balenò, illuminò il valoroso lottatore, bello nel suo abito bigio, e coi capelli ricciuti, che colle scosse cavalline del capo, toglieva dagli occhi; anche il dottorino lo vide e gli parve sublime. - Conte - gridò - pare che l'inferno sia ben vicino al vostro paradiso. - Avanti, il vento è gagliardo, ma per Severina scenderei anche negli abissi. - Povero Orfeo! ahi! mi si è spezzato un remo. - Maledetto! - urlò il conte, che sentí un sinistro scricchiolio e un nuovo urto alla gondola. - Che è questo, che è questo? - ripeté. Una spaventosa idea venne in mente al conte, a cui il contegno del dottore cominciava a parer ben stravagante. - Conte - seguitò il dottorino con voce sguaiata - fermiamoci alla prima osteria? Luisina ci porterà della vernaccia. Queste celie, che scaturivano quasi dal buio, fra pericoli di morte, suonarono male all'orecchio del conte, che cominciò a dubitare d'un inganno. Il racconto udito poco prima gli parve a un tratto inverosimile, e corse col pensiero al barone; pensò che Severina fosse veramente morta e che questa fosse una trappola e una vendetta. Vendetta di chi? non d'altri che di quest'uomo venuto a sfidarlo sí bizzarramente fra la tempesta, correndo egli stesso pericolo di morte. Non aveva detto il dottore di baci e di abbracci ricevuti, senza meritarli? non aveva vegliato molte notti al letto di Severina? ch'ei l'amasse? non aveva costui contemplato a suo agio tanta bellezza? ah certi suoi sorrisi maliardi! senza dubbio il dottore era un rivale disperato. Queste idee si accumularono nella testa del conte nel tempo che brilla un lampo, e la gelosia feroce e la vergogna dell'onta, e la paura della morte e dell'ignoto destino piombarono, come tanti nembi, nell'anima, e gli oscurarono la vista. Il dottore taceva; era forse scomparso? il conte lavorava di braccia, la pupilla fissa innanzi a scrutare il pericolo, l'orecchio attento ai piú deboli fiati di vento, presentendo quasi coi nervi il venire di un'onda, fiutando nell'aria la via giusta, duro, ostinato, pronto a contendere quella spanna di assito alle furie e all'ira degli uomini. Povero Marco! era ubbriaco e se ne accorse egli stesso allo scombuiamento, che nacque nel suo cervello, a certi vacillamenti delle gambe, alla spossatezza degli spiriti tutti, al tremolío della vista; le sue parole gli risonavano ancora nelle orecchie fastidiosamente, come avviene a chi si accorge d'aver detto uno sproposito e che avvilito e vergognoso non ha scuse pronte. Quel che avesse detto non sapeva raccapezzare, e di questo solo aveva un barlume, d'essere cioè un miserabile senza lealtà, senza coraggio, che aveva assalito un nemico incapace di difendersi. Perché era dunque venuto in traccia del conte? perché aveva ingannato il barone? quale lotta orribile e grottesca si era preparata, dopo tante prove? - Aspettava seduto sulla punta della barca che il conte, abbandonati i remi, si slanciasse contro di lui a chiedergli parole piú chiare, a scongiurargli il suo amore per Severina e Dio sa la tragedia che la gelosia e l'ubbriachezza avrebbero potuto rappresentare su quella scena di flutti, nel disordine della bufera. Si sarebbero afferrati pel corpo? avrebbero lavorato di ugne e di morsi, finché nel nome di Severina non fossero entrambi precipitati a finir la lotta nel fondo? Il conte, che nell'affanno del remare non aveva fiato per una parola, a poco a poco, ripigliato l'andamento dell'onda, cominciò a cercare del dottore, che rannicchiato a poppa, non dava segno di vita. - Dottore! - chiamò; e sospettò ch'ei fosse, nello scompiglio della tempesta, caduto nel lago; ma un singhiozzo lo fece trasalire, al quale seguí un altro e finalmente un pianto lamentoso, come di bimbo istizzito, con parole mozzicate, delle quali il conte non intese se non: - Scusi, sono ubbriaco. Il dottorino infatti aveva sentita tanta compassione di sé, che piangeva per non saper far di meglio, né desiderava altro che di poter svanire come un buffo di fumo. Il conte piú attonito che irritato si ricordò della vernaccia tracannata ingordamente dal dottorino all'osteria, e, pensando che nella foga del remare gli fosse andata al capo, compatí quello sciocco ubbriacone, che pieno di vino osava sfidare tant'acqua. - Si sente male, dottore? si consoli che il vento cala e che siamo sotto costa. Non si muova, perché Bacco e Nettuno non se l'intendono troppo bene. Ne faremo un quadretto, dottorino, per i morti miracolosi di Torno. - Il conte rideva. Queste celie giungevano al dottore come il suono d'un lontano fruscio di foglie, perché il suo cranio era girato e raggirato fra certi anelli, che si dilatavano e si stringevano a vicenda, rapidamente, sí che talora gli sembrava di scender basso basso fino a toccare fondo e di balzarne su elasticamente come un sughero, fino al pelo dell'acqua. Il conte rideva, ma alla vista di lanterne a vento, che movevansi innanzi a un casino e al mormorio di voci non troppo lontane, il cuore tornò a picchiar forte, come al tempo dei piú ingenui amori; guidò la gondoletta a una nota scogliera, ove soleva sbarcare nelle altre sue visite notturne, e fu solo all'urto della punta contro i sassi che il dottor si svegliò di soprasalto, girò gli occhi, rammentò, comprese dov'era, si mosse quasi per istinto, e cadde, piú che non saltasse, dalla gondola all'asciutto. Il conte gli diede mano, perché non tuffasse, ma vedendo che il malanno era poco, e che il dottore, tornato in sé dopo un sonnellino di cinque minuti, balbettava scuse stracche, lo affidò alle cure della Provvidenza e prese la corsa verso il Ritiro . Il dottorino restò immobile alcun tempo cogli occhi fissi al suolo e sorrise mestamente di sé stesso; lasciata la gondola ben assicurata colla catena a un macigno, montò fino all'orlo della strada e chiamò il conte; ma il conte non c'era piú. Cercò qua e là, come meglio poteva nell'oscurità cupa di quella strada, ma si trovò solo, troppo solo. Stette pensando al cammino che doveva prendere, se verso il paese o verso il Ritiro , e sentí proprio come due forze egualmente tenaci che lo tiravano dalle due parti. Don Giulio venne di corsa fino al Ritiro , che distava cento passi dallo sbarco, e i servi, avvisati del suo arrivo, gli furono incontro e lo riconobbero. - Mi attende? - disse con ansietà. - Da due ore e colla piú grande inquietudine - rispose il vecchio napoletano. - Dov'è? - Di qui; a destra per la scala. Il conte precedeva il servo, che non correva abbastanza; agli ultimi gradini gli mancò il respiro, e calmò il battimento del cuore premendovi ambo le mani. - Come il dottore aveva consigliato, si era tenuto discorso a Severina del prossimo arrivo di don Giulio, che si fingeva chiamato da Milano: ma al giungere di quel tempaccio, nacque in tutti la paura che il dottore e il conte fossero stati sorpresi per via. Il barone passeggiò per il tratto di due miglia nella camera di Severina, che, tendendo l'orecchio ad ogni soffio d'aria andava dicendo: - È qui?.. Il barone, che correva col pensiero a imaginare qualche nuova disgrazia, fatto piú livido, piú cupo stringeva le mani tanto da tagliarsi coll'unghie. Quando intese un suono di passi nel giardino e riconobbe la voce del conte, un grido che gli muggiva sordamente nel petto venne fino alla strozza, ma la superbia, lo sdegno di padre e di patrizio ve lo soffocò. Quale vergogna! sarebbe stato un grido di gioia. La vecchia zia entrò, sbattendo furiosamente le porticine e, agitando le braccia sopra la testa, disse piú che non parlasse. Severina balzò a sedere sul letto, spingendo innanzi il capo, spalancando i grandi occhi spiritati, colle chiome che si sparpagliavano, per immensa trepidazione. La contessa che l'aveva assistita in que' giorni, commossa, cadde muta, sospesa, accesa in volto a piè del letto; il barone si rintanò nel vano d'una finestra, e due, forse tre minuti secondi passarono silenziosamente e parvero lunghi come quei dell'agonia, finché suonò un passo nel corridoio. La fanciulla, ridendo scosse la testa, dilatò le pupille, portò le mani ai capelli, e, guizzando, sarebbe balzata dalle coltri, se prima non si fosse precipitato verso di lei un uomo. Un grido acutissimo s'udí, che non pareva umano, e sparí la pazzia. Chi non avrebbe pianto? Adriano posò la testa allo spigolo della finestra e guatò sdegnosamente l'ombra della notte; nessuno si accorse delle sue lagrime. Severina, dopo molte risa convulse e selvaggie, ruppe in lagrime e posò la testa sul guanciale, come persona stanca. Don Giulio piegò un ginocchio e, presa una mano di lei, vi pose le labbra e chiese, tremando ed esaltato, il conforto di una benedizione, che ottenne di poi. Marco, che veniva gesticolando verso il Ritiro , assorto in penose investigazioni, delle quali non conosceva bene egli stesso la ragione, intese quel grido acutissimo, in cui pareva trasfusa tutta un'anima umana, l'amore, la gioia, e la pazzia. Si arrestò di botto, e quasi si svegliasse da un sogno, si orizzontò, ritrovò sé stesso, capí che la bella storia era finita, sorrise in atto di chi si rassegni, e mosse gli ultimi passi verso il cancello del Ritiro . Lo trovò chiuso, perché i servi, occupati altrove, non si sognavano punto di lui; sforzò colle mani le sbarre e le sentí rigide, dure, resistenti e nel loro tintinnio alquanto canzonatorie; alzò gli occhi alle finestre e vide un muoversi di lumi e un disegnarsi di ombre su per le ampie cortine; tutto era silenzio là dentro, ma era facile immaginare perché ciascuno tacesse. Immaginò alla sua maniera quella scena di aspettazione, di pianto, di slanci indomabili, di frenesie voluttuose, sebbene meste, e non seppe trattenersi dal dare una scossa a quell'inferriata. Piovigginava ancora, e, sebbene nessuno avesse voluto di proposito escluderlo, tuttavia parve al dottore che il conte o altri si fosse vendicato dell'audacia d'un povero dottorino, che aveva fermati gli occhi e il desiderio sopra una baronessa. - Era la prima volta ch'egli si accorgeva che la figlia d'un barone è una baronessa. Piovigginava ed egli, come un pezzente, non sapeva staccarsi da quella illustre porta, e andava cercando nell'ombra l'immagine diletta, per la quale tanto soffriva; ah poveretto! aveva fatto a fidanza sulla virtù razionale del suo ingegno e sulla fierezza stoica del suo carattere, spregiando in malo modo le esigenze del cuore. Il cuore aveva sofferto e taciuto fin lí, ma ora punto dall'ira e dalla gelosia, sorse a spaventosa ribellione; l'amore per la bella baronessa dagli occhi molli, dalle membra delicate, che egli aveva contemplata bellissima nel sonno, piú bella nel sorridere, quasi ammaliatrice nell'abbracciare nella follia e nell'abbracciare un amico, - quest'amore compresso, trascurato, reietto tornò con tutte le lusinghe delle memorie, con tutta la poesia delle imagini, con tutte l'armi di chi, desiderando vuol contrastare ad altrui un bene, e infuriò sotto la pioggia, il vento, il freddo... - Ah l'indegno! - disse con un rantolío alla gola, puntando la testa al cancello. - Ah l'indegno! - urlò lanciandosi a corsa per quella strada buia, e piena di fango, scendendo alla ventura per i sassi della riva, finché tornò alla gondoletta, la sciolse, vi entrò e colla punta del piede la spinse in là, fra le onde, non per voglia di morire, ma perché in tanto scompiglio della ragione e del sentimento gli pareva quella una via buona ed unica. Vi si distese come un morto nel cataletto, posò la faccia, stretta fra le palme, sull'assito e poiché, fra il rumore dell'onda e dei venti, il suo pianto non sarebbe giunto a orecchio umano, e le sue imprecazioni non a Dio, gemette e imprecò ad alta voce contro sé, il conte, gli uomini tutti meno Severina, che si figurava invece di sorprendere in quel vano tenebroso nella notte, fra l'accendersi dei lampi, e il rigoglio dei flutti. Gli ultimi fumi della vernaccia davano alle imagini della fantasia e alle cose vere contorni nebulosi, in modo da confonderle tutte quante in un via-vai da labirinto in quadri placidi dissolventisi ad ogni tratto per trasformarsi. Poiché Severina era perduta per sempre, accese l'immaginazione a determinare il valore del bene perduto, riproducendola in tutta la sua bellezza co' suoi capelli ondeggianti, che tentava toccare, con quei tremiti di labbra, che aveva tante volte sorpreso, a cui credeva accostarsi e ne prelibava quasi la dolcezza... finché un urto piú forte alla barca gli ricordò dove fosse. La bufera stava per finire, e ne fu il segnale un fulmine che si scaricò al di sopra di Nesso: Marco balzò a sedere e vide corruscarsi tutto il lago in rapide scintille d'oro, e ripiombare poi piú tetre e spesse le tenebre. Dove andava? la tempesta non era sdegnosa abbastanza per travolgerlo; l'ubbriachezza cessava, e sentivasi trascinato dal sonno. Parve ridicolo a sé stesso e se ne adirò. Non voleva essere eroe, non voleva morire. Giudicava il morire azione da vile, e forse aveva paura. Pensò che il genio buffo, il quale sorveglia ogni uomo serio, gli mormorasse: "Lí sotto non troverai Severina e domani ti pescheranno come un luccio" Il dottorino era lombardo, e sentiva tornare a poco a poco quell'antichissimo buon senso, che vola da queste parti e che proibisce a molti buoni di diventare eroi inutili. Cominciò ad arrabbiarsi, e finí col ridere, - era l'ultima conclusione - e rider forte di questo povero dottorino, cullato dalle onde come Mosè, e che molle d'acqua e di vino avrebbe voluto combattere una battaglia contro una rovina di sassi e afferrare le saette per mettersele in saccoccia. Gli parve udire la voce grossa di Celestino, che rideva, onde brancicò per cercare i remi; ma quei del conte erano rimasti sulla riva e i suoi come trovarli? Girò dunque gli occhi oziosamente all'intorno, e li fissò alla riva non troppo lontana, dove campeggiava l'ombra del campanile del suo paese e vide errare dei lumi, e lo ferirono voci indistinte, che venivano di là. Ma a un tratto trasalí per una voce non tanto discosta, che gridava: - Tonio! Tonio! - e piú lo spaventò un tabusso come d'uomo che annaspi nell'acqua; guardò e vide a tre passi un cencio nero che si voltava nell'acqua e piú in là il lume d'una barca mentre la medesima voce ripeteva: - Tonio! - Si curvò sulla sponda della gondola e scrutò fra le tenebre; gli ultimi abbarbagli del lampo non erano troppo accesi per rischiarare la scena, ma un rantolo d'uomo che si anneghi, gli manifestò troppo chiaramente che Tonio non poteva rispondere. Non era tempo di vani pensieri: trasse le scarpe, e la giubba, e si rovesciò sopra un fianco della gondola, che si capovolse. Nuotò verso il corpo, coperto tratto tratto dall'onda non ancora tranquilla; la spuma dei fiotti gli entrava negli occhi, ma guidato da un buon istinto, venne sotto al corpo, lo sollevò con una mano, lo trasse per un lungo spazio alla cieca finché, scrollando il capo, poté orientarsi sulla giusta direzione. La barca gli era sfuggita e pensò meglio fatto dirigersi alla riva. Lottava con un braccio contro le resistenze dell'acqua, che faceva gorgo intorno la sua testa non furiosamente, ma colla tremenda morbidezza di cuscini che si ammucchiano. Dietro di lui risuonò un tuffo di remi, e la medesima voce di prima: - Di qua, di qua! La testa di Tonio ballonzava pesa sulla sua spalla e tratto tratto il cadavere tirava in giù il vivo; dico cadavere sebbene Tonio viva ancora a contarla, ma allora perduti i sensi, pieno d'acqua come una botte, rigido e stecchito pareva che avesse giurato di trascinare il dottorino alla casa dei pesci. Andò ancora un poco come a Dio piacque, finché sentí sferzarsi il viso da una scuriada, che lo acciecò e per poco non gli sfuggí di mano la preda; l'afferrò con avidità rituffandosi piú d'una spanna, e ritornò a galla ansante, sbuffante, e alquanto disgustato di quell'acqua che non era vernaccia. E già la destra sentiva i pizzichi del granchio, e gli abiti molli e saturi pesavano come cappe di piombo e gli sovrastava minacciosa la noiosa legge che tira i pesi al centro, quando una nuova frustata attraverso il collo gli fe' gettare un grido di dolore; sentí serrarsi fra le orbite di un serpente, cioè di una corda, che gli lanciavano per la seconda volta dalla barca che, avendo a lottar colle tenebre, col vento e coll'onda non osava avanzarsi troppo per paura di schiacciare i naufraghi. - L'ha abboccata: forza, ragazzi. - Cosí predicava la medesima voce, e il dottorino, che aveva abbrancata la fune, si sentí a un tratto tirato in rimorchio; l'acqua tagliata dalla barca veniva a gorgogliare all'orecchio di Marco, che per quel fregamento provava in tutti i nervi un voluttuoso solletico. Era tempo. Lo trassero a riva in tale stato che Tonio poteva sfidarlo alla corsa. Mentre lo portavano in un casolare vicino rinvenne alquanto, e parlava ancora d'una miriade di lumi, visti in quella dormiveglia, di voci che schiamazzavano, come se i lanzichenecchi fossero alla canonica, e di un amalgama di ciclo e di acqua che lo chiuse in una notte profonda. Il fatto si può contar presto. Tonio, uno dei pescatori di quel paese, s'era indugiato sul lago, pigliando a gabbo certi fischi, che gli avevano zufolato: - Va' via! - onde fu colto dalla tempesta proprio nel momento che non avrebbe voluto esservi. Le sue donne a casa chiamavano già tutti i santi per nome, e i suoi amici, che l'avevano veduto un'ora prima presso Torno, avevano sfidato coraggiosamente il pericolo per venirgli incontro. Oggi a me, domani a te - dice la povera gente, e per fare una buon'azione non pensano mai a formare un comitato: perciò in dieci minuti furono nelle peste in cerca di Tonio; ma questi, che da mezz'ora nuotava in cattive acque, colla barca crepa e il timone rotto, aveva creduto migliore buttarsi a nuoto, ed era, dopo un'altra mezz'ora di lotta bestiale, ai rantoli; quando gli furono addosso il dottorino, e in seguito gli amici. Allorché riconobbero il sor dottorino nel miracoloso salvatore di Tonio, tutto il paese fu in rumore, come se si avesse detto l'imperatore; la voce si sparse per tutte le case e prima di mattina lo sapeva il sagrestano del duomo di Como, che la contava ai preti, e via via fino all'imperial regio commissario. Ai nostri giorni l'avrebbero fatto cavaliere, ma a quei tempi avari si contentarono di parlarne coll'istesso calore che d'un omicidio e dello scandalo d'una bella signora. Tonio guarí e dei due non saprei dire quale salvasse l'altro, perché, quando Marco aperse gli occhi, dopo una notte di febbre in casa sua, sentí una dolce consolazione e un gran piacere di essere al mondo, onde sono per credere che l'uomo soltanto, il quale abbia l'idea della sua dignità, è veramente vivo e incomincia a morire il dí che diventa inutile. Al suo fianco sedeva Celestino, che lo risvegliò del tutto dicendogli: - Raccontami qualche cosa del regno delle sirene; è vero che finiscono in coda di pesce?..che peccato! - Celestino gli somministrò un cordiale di risa sí sgangherate da riscuotere una mummia. La febbre durò tre giorni, ma Celestino assicurò che era tanta salute e non volle che si levasse da letto; dopo il quinto dí, poiché l'infermo aveva avuto giudizio, il dottore permise un bicchiere di contraveleno, cioè di quel vino che strappava le lagrime di riconoscenza verso la Divina Provvidenza, che dopo aver creato l'uomo, lo vuole allegro. Sul far della sera si bussò all'uscio. - Chi è? - domandò Celestino. - Sono io - rispose una voce. - Chi è l'io? - Sono il morto. Entrò Tonio, un po' pallido, ma in gambe e lo seguiva la donna con un bimbo al collo, e ultima veniva la vecchia madre appoggiata alle spalle di una bambina, che di pulito aveva soltanto gli occhi. Tonio teneva per la coda un grosso luccio, uno di quelli che l'avevano aspettato a cena quella brutta notte. - Che diavolo! - gridò Celestino. - Non è la festa delle rogazioni. - Scusi, sor dottorino... La Ghita ha voluto venire per ringraziarlo dell'incomodo, che si è preso per me l'altra sera. - Dov'è? è qui? - domandò la vecchia madre, che era cieca - È qui - le rispose la fanciulla. - Ne ho benedetti molti e sono stati fortunati. Marco stese la mano commosso a Tonio, che gli offrí il pesce d'una libbra e tre quarti, assicurando che cotto nell'aceto doveva essere un cappone. - Grazie, buon amico - rispose il dottorino. Celestino voltò le spalle e andò a suonare il tamburo sui vetri: certe cose gli rimescolavano il sangue. La vecchierella venne fino al letto e posata una mano tremante sulla testa del giovane: - Benedetto te - esclamò - benedetti i tuoi figli e la tua sposa, quando l'avrai, perché hai salvato un padre di famiglia. - Sicuro - disse Tonio; - se non c'era lei, la era finita per questi, come si dicono? Di' anche tu qualche cosa, Ghita, ci vuol altro che piangere... Anche il dottorino ebbe una benedizione e, come se tutta quella felicità gli venisse da Severina. socchiuse gli occhi per rivolgere a lei un ultimo pensiero, che fu il piú venerabile e il piú delizioso. L'amore diventava religione. Questa scena di pietà sarebbe durata a lungo, se Celestino non avesse levata la voce a sgridare Tonio, perché aveva lasciato il letto troppo presto, a sgridare la vecchia perché uscita di casa con tanti malanni in corpo e il bimbo perché aveva il naso sporco e la fanciulletta perché non si lavava la faccia. Se non si aiutava con questa sfuriata, Celestino (non state a ripeterlo) era un uomo da commettere uno sproposito, non dico piangere, ma commuoversi. Venne il giorno che i due amici dovevano lasciarsi. Marco accompagnò Celestino per un buon tratto di via, e, man mano che si andava innanzi, le parole si facevano piú scarse, finché stettero a guardarsi in faccia, tenendosi per mano, sorridendo, ma non allegramente. Celestino aveva lasciato spegnersi la pipa. Marco gli aveva narrata la dolorosa istoria del suo amore, e Celestino per assicurarsi che era veramente guarito gli disse: - Il barone, Severina e l'altro sono partiti ieri sera. - Buon viaggio - rispose il dottore, ma la voce gli si affievolí. - Troverai nel tuo scrittoio una lettera di Sua Eccellenza, che ho ricevuto ieri, ma che tenni nascosta per riguardo alla tua convalescenza. A proposito di lettere eccotene un'altra che mi ha scritto un uomo bizzarro pochi giorni or sono, e fa di leggerla mentre ritorni a casa, perché la strada è deserta e potrai riderne a crepapelle. Celestino diede la lettera, accese la pipa, toccò vezzeggiando il ganascino all'amico e gli disse: - Stammi bene, mio bel filosofo, e guardati dai colpi di sole. - Poi se ne andò fischiando. Il dottorino ritornò verso casa e, aperta la lettera rise di cuore nel riconoscere la propria scrittura e nel rileggere queste righe: "Illustrissimo signor Conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll' autorità d'un superiore.... La lettera, respinta da Ginevra per difetto di indicazione, dopo lungo giro, era venuta nelle mani di Celestino, al quale era diretta. La lettera del barone diceva semplicemente: "Il vostro Dio meriterebbe d'esistere", e chiudeva due biglietti da lire mille. - M'hanno pagato! - borbottò il dottorino e fu per stracciare quei preziosi cenci di carta, ma pensò che venivano da Severina e che molte spose del suo paese non avevano un soldo di dote. Passarono molti anni da quel giorno; la baronessa divenne contessa e dispero di ritrovarla fra i vivi; il conte ingrassò ed era nel suo pieno diritto, il barone si chiuse in biblioteca, che fu la sua prima tomba, l'epicureo Celestino, morto di colera, fu sepolto, come desiderato, colla sua pipa. La benedizione fruttò al dottorino di campar lunghi anni sano e rubizzo, e, sebben vecchio, vive ancora contento di vivere. A chi gli domanda il segreto di questa beatitudine mostra una ricetta in latino, trovata fra le carte del suo povero amico, la quale può chiudere a guisa di morale, queste pagine non immortali. Recipe vinum bonum et pippam longam , e io la consiglio alle anime sensibili. 40

IL Santo

669008
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

LA GENTE PER BENE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
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. * A te piaceva la signorina Caia, che ti si abbandonava mollemente nelle braccia, come se fosse al quarto atto d'un melodramma.... Avevi sulla spalla dell'abito la cipria delle sue guancie. . * Il color della dama. Mi piaceva per una sera, però. Non la vorrei fra le concorrenti, quando mi decidessi a gettare la mia pezzuola per trovare una sposa. * Io ho fatto un giro colla signorina Ipsilonne, che, ad ogni complimento che le facevo me ne rispondeva un altro, come se si giocasse di scherma. * Pazienza, era ingenua.... Tu avessi udita la signorina Zeta, che, per far la spiritosa, canzonava le tolette ed i modi delle altre signorine e dei giovinotti! * Ah! dev'essere stata curiosa. Cosa t'ha detto di me? * E di me? * E di me? * Ha detto che le pareva d'essere una tazza di miele, perchè si vedeva ronzare intorno tanti mosconi. * Oh Dio! Che barba! * Caro quel miele! * I mosconi volano anche intorno.... Via; la porta è chiusa e non si ode altro. Ma credo che basti. Vedono, signorine mie, che ogni medaglia ha il suo rovescio; ogni festa il suo dimani. "Ahi gioie umane, d'amarezza asperse!" La civiltà francese fa della fanciulla una bambola muta, compassata, insignificante, tutta artificio. Le inglesi sono severe, fredde, vaporose. Le americane sono emancipate. Le tedesche sono libere. Loro sono italiane; hanno lo spirito vivace, l'immaginazione pronta; sono entusiaste ed espansive. Volerle ridurre come automi modellati su figurine straniere, sarebbe una profanazione, una finzione. Siano loro stesse. Ma sappiano contenersi in modo da non meritarsi le censure che hanno udite. Si può essere amabili, schiette, allegre, anche senza staccarsi da quella dignità di contegno che s'addice ad una fanciulla. Il buon senso naturale, ed il naturale decoro, devono guidarle. Io domando soltanto di scrivere sul loro taccuino una massima di Victor Cherbullier. La leggano sempre prima di andare ad un ballo, dove la loro mamma non può udire tutte le parole che scambiano coi ballerini: "Rien ne rafraîchit plus le sang, que le souvenir d'une sottise que l'on n'a pas dite." * "Mi ricordo quand'era fanciulla" come la vecchia Pipelet di gioconda memoria, e nel carnovale, la mia zia, che mi teneva il posto della povera mamma che avevo perduta, invitava una mia cugina a tenermi compagnia. Cara quella compagnia! Aveva l'abilità di sacrificarmi completamente. Non sapeva pettinarsi da sè; bisognava che ogni mattina la cameriera di casa perdesse ad acconciarle il capo un tempo tanto più prezioso, in ragione di quell'aumento di personale in famiglia. Noi si faceva colazione per solito alle nove, ma la Teresina era alla toletta a quell'ora, oppure veniva a tavola spettinata ed in abito da camera. E guai se la zia osservava, che le signorine non debbono farsi vedere in abito da camera: che è permesso appena di portarlo nella loro stanza da letto! Diceva che a quell'ora era materialmente impossibile d'essere in ordine. E bisognava che noi s'avesse pazienza e si differisse la colazione. Tutte le lezioni, che prendevamo insieme, dovevano pure spostarsi per fare il suo comodo; ed i miei maestri non le piacevano mai. Erano un branco di ignoranti. E tutti i mobili della casa avevano qualche difetto o erano mal collocati. E le mie amiche le erano antipatiche. S'io doveva far delle visite, lei non poteva adattarsi a venire da quelle signorine pedanti, nè da quelle altre sguaiate. Quando s'andava in teatro o in compagnia, ipotecava addirittura la cameriera per farsi vestire, e la zia ed io dovevamo aiutarci a vicenda. In palco, poi, si metteva al posto di contro alla zia, ed io era relegata tutta la sera sullo sgabello in mezzo. Non c'era caso che mi offrisse una volta di cambiar posto. E, per ospitalità, non potevo domandarglielo, nè fare osservazioni. Bisognava che le offrissi i fiori da scegliere prima. E se li provava tanto in capo, sul petto, e si serviva così bene, che a me rimanevano degli avanzi appassiti. In carrozza pure, prendeva posto accanto alla zia, senza che occorresse neppure dirglielo. Qualche volta le mie povere abbigliature si sciupavano tutte, strette così, accanto al babbo sulla panchetta dinanzi. Ma la Teresita si stendeva a suo agio, seppelliva la zia sotto le sue gonne e arrivava fresca come una rosa. In casa, poi si prendeva l'incarico di studiare tutti i caratteri, come se ci fosse venuta con quella missione. Io aveva quel difetto, e quel pregio; e la zia era placida, e troppo indulgente; ed il babbo era avaro; e le persone di servizio ci derubavano come tanti briganti. * Come! Voi spendete tanto per la carne? E tanto per le ova? E questo pollo è costato tanto Ma buona gente! A casa mia si mangia meglio assai, e si spende la metà. Quel pollo è magro, tíglioso. Si può avere per trenta soldi. Il resto se l'è tenuto la cuoca. Io non so come la sopportiate. Non sa cucinare. A casa mia le bistecche sono tutt'altro: queste sembrano suole di scarpe. Ed ogni giorno aveva fatta una scoperta nuova sull'ordine della nostra casa, ed erano sempre indiscrezioni. Quando poi veniva in campagna l'autunno, era un raddoppiamento di biasimo. Si trovava addirittura ad un bivacco. Tutto era incomodo, tutto rozzo. Quasi quasi si meravigliava che nei sentieri del giardino non si stendessero tappeti per farla camminare sul liscio. E combinava lei le gite, i píc-nics. Ed entrava in confidenza coi vicini di villa, prima e più di noi; e passeggiava cogli altri ospiti, anche s'erano giovinotti, sola con loro per delle ore in giardino, ed usciva quando noi si stava in casa; e stava in casa quando noi s'usciva. Mie giovani lettrici, se sono ospiti in casa altrui, badino, le prego, di non lasciarvi le tristi memorie che m'ha lasciate la Teresina. La persona ospitata deve fare una completa abnegazione della propria volontà, delle proprie abitudini, dei proprii gusti. È necessaria questa rinuncia assoluta, per bilanciare l'immensa deferenza della famiglia che la ospita, e metterci un limite, affinchè non abbia a diventare un sacrificio di tutte le ore. E qui mi viene a proposito di avvertirle, che nulla è più scortese di quell'abitudine tanto generale, pur troppo, di far esaurire tutte le formole di preghiere inventate da Adamo in poi, prima di aderire a sonare o a cantare, in compagnia. La padrona di casa, che per quella sera le ospita, è messa in grave imbarazzo. Deve unire le sue insistenze alle altre, ed aver l'aria di imporre un sacrificio? O deve astenersene, e dimostrare che non desidera di ascoltarle? Difficile alternativa. - - - Non ho mai compreso perchè le signorine, che debbono rimanere sotto gelosa custodia nella loro città, dove sono note loro e la famiglia, ed hanno un mondo di amici e conoscenti intorno, debbano poi godere una libertà relativa, ma sicuramente soverchia, quando si trovano in viaggio o alle bagnature, ignote fra gl'ignoti; dove potrebbero anche essere prese in fallo. Il nuoto è uno degli esercizi prediletti dagli Inglesi e dagli Americani. Ma non credo necessario, per adottare la loro abitudine delle bagnature, adottarne pure la flirtation nsidiosa e sconveniente. To flirt, coqueter, ono parole che in italiano non hanno riscontro. Le traduciamo: flirteggiare, civettare; a le parole sono barbarismi nella nostra lingua, come la cosa è un barbarismo nei nostri costumi. Noi, espansivi e schietti, ci pieghiamo male a quella meschina scherma di parole, che giocano su sentimenti frivoli; e, quando riesciamo a scimiottare le signore straniere, lo facciamo a scapito del nostro carattere. Credano a me, signorine, non si lascino attirare da quello scoppiettìo di frasi leggere, brillanti e fuggevoli come fuochi d'artificio. Quando si disperdono e svaniscono nell'aria, portano sempre con sè qualche briciola del loro decoro. Briciole appena visibili, atomi, ma che importa? "Gatta cavat lapidem." In campagna come in città, ai bagni come altrove, una giovinetta non deve mai uscire da sola, a meno di trovarsi in un paese non frequentato da colonie di villeggianti avventizi. Nel contrarre nuove relazioni deve usare la massima prudenza e lasciarsi dirigere completamente da' suoi genitori. Alla tavola d'albergo, se non ha due persone della famiglia fra le quali sedere, ed il caso le colloca da un lato uno sconosciuto, non deve scambiare con lui che le parole strettamente necessarie, finchè non sia stato presentato alla signora che l'accompagna, e questa gli abbia accordata la sua relazione. L'unico punto su cui in campagna ed ai bagni le signorine possono permettersi qualche libertà, è il vestire colori più vivaci, foggie più ardite, un cappellino un po' bizzarro o un po' sull'orecchio, fori naturali in capo a tutte le ore, ed anche passeggiare a capo scoperto... Tutto questo è concesso; ma quanto al contegno, deve essere tanto più riserbato in quanto che sono meno conosciute, e chi le osserva deve giudicare dall'apparenza. - - - Se una signorina è stata ospite in una casa, appena ritornata in famiglia, dovrà scrivere una lettera espansiva alla signora od alla signorina che l'ha ospitata, ringraziandola delle cortesie ricevute. Non scrivano a molte persone, signorine mie. Oltre le lettere di dovere ai parenti vecchi, alle maestre, possono tener corrispondenza con qualche amica. Ma siano vere amiche, di quelle a cui si scrive non per fare dello stile epistolare, ma per vero affetto, e col linguaggio dell'intimità. Non occorre dire che, in tutta la loro corrispondenza non ci deve essere una parola che la mamma non possa leggere. Quanto a formole, non s'aspettino ch'io ne dia. Le lettere tengono luogo di discorsi. Scrivano come discorrerebbero e basta. L'introduzione, la chiusa, sono storie del tempo trapassato remoto. La lettera comincia con quello che s'ha a dire, e finisce quando non s'ha più nulla a dire. Ecco la sola regola ch'io ammetto. Non si firmino mai serva, perchè le signore non sono mai serve di nessuno. Non facciano litanie di saluti in fine nè sfoggio di aggettivi sulla soprascritta, a tutto beneficio del portalettere e dei portinai. Non usino carta colle iniziali, come non usano carte da visita; siano semplici, schiette; se hanno dello spirito, non ne privino le loro corrispondenti, e lascino andare i loro giovani pensieri come "La rondine alla primavera e la preghiera al cielo."

IN RISAIA

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Vita letteraria

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Sacchetti, Roberto 1 occorrenze

artista sempre, abbandonava lui primo la causa dell'autore! mentre la burrasca imperversava in teatro e gli attori rientravano barcollanti, sbalorditi dagli urli e cacciati dai proiettili lanciati dalla platea, Praga si contorceva dalle risa, e pigliava uno spasso infinito dal comico della propria disgrazia; non serbava rancore al pubblico anzi gli acquistava stima per lo spirito che aveva dimostrato accoppando il suo aborto. Fallito il tiro, ne mulinava un altro. Una volta fece, in collaborazione con Arrigo Boito, una commedia, intitolata, credo, Le madri galanti e fu recitata al Carignano di Torino da una compagnia la cui prima donna era analfabeta e bisognava metterle in gola la parte. I due poeti confidavano tanto nel successo che avevano portato con sè, per la rappresentazione, le loro famiglie. Subito al primo atto scoppiò il finimondo. Arrigo Boito, bravo fino alla temerità s'era avanzato tra le quinte più sulla scena, e là, le mani nelle tasche dei calzoni, una sigaretta sfatta tra le labbra sottili, gli occhi aguzzi luccicanti dietro gli occhiali, ritto, impassibile sfidava l'uragano. Praga venne a prenderlo per il braccio dicendo: « Vieni, Arrigo, prima che ci accoppino » e discesero al vicino caffè del Cambio e cenarono allegramente mentre a due passi si faceva della commedia l'estremo scempio. Però mi ricordo che Praga conservava una particolare tenerezza per questa commedia e non diceva, come dell'altre sue, « era una famosa porcata, » ci aveva messo mano il suo Arrigo, per il quale ebbe sempre una devozione fraterna e un'ammirazione senza limiti. Gli amici, ai quali raccontava i particolari buffi dei propri rovesci, sanno che non perdonò mai al pubblico della Scala la condanna del Mefistofele e dopo sei anni il suo sdegno per quel sacrilegio aumentava ancora. Non sapeva rider bene che di sé stesso. Emilio Praga scrisse parecchi libretti per musica, e in questi soventi lo aiutò il Boito, perché il poeta delle Penombre capace di passare una notte intorno al congegno di una strofa, non poteva assolutamente far cosa che richiedesse l'attività continuata e regolare di qualche settimana. Respinto dal teatro si rivolgeva al giornale: aveva nella stampa degli amici dispostissimi a pubblicare qualunque cosa sua, perchè gli volevano bene e perchè il suo nome era pur sempre un valore. Si metteva con ardore a imbastir novelle e racconti per appendice ; era sicuro del fatto suo, avrebbe guadagnato tesori, ci contava, e ne disponeva: offriva generalmente a' suoi più intimi a Boito, a Fontana, a Torelli di collaborare con lui ; un giorno ch' io ero in angustie mi propose candidamente di fare insieme un romanzo per lettera come fosse una miniera da scavare. Lui scrisse la prima lettera; io passai la notte a far la seconda, se la pose in tasca e non se ne parlò più. Il mestiere non era cosa per lui; l' arte ci s'infiltrava a sua insaputa, ci metteva, come dissi, troppo del suo, gli costava più fatica delle sue liriche migliori, e tirati i conti questa pretesa letteratura alimentare non serviva che ad alimentare le sue illusioni. In quindici anni menò a fine, credo, due novelle pubblicate dal Pungolo nel 1867 cominciò nell' appendice della Platea un romanzo, le Memorie del Presbiterio Alla settima appendice il romanzo fe' una sosta: il giornale morì e Praga vendette il romanzo incominciato al Pungolo Per nove anni di seguito ad ogni Natale egli portava al Fortis lo scartafaccio e ne riceveva una cinquantina di lire, poi passato il primo dell' anno lo ritirava per finirlo, l'allungava d' un paio d' appendici e lo lasciava lì. Veniva una cosa ineguale, stravagante, stiracchiata dalle idee più lontane e diverse, ma ricca d'immagini, di pagine splendidissime; l'intreccio gli si arruffava sotto mano sempre più: e lui si compiaceva di smarrirsi in quel labirinto di poesia. Quando era in angustie si risolveva ad un tratto d' uscirne. Avesse campato cent'anni non ne sarebbe mai venuto a capo. Voleva ch' io lo aiutassi a sbrigarsene alla peggio: poi lo diede a Ferdinando Fontana, e questi, quando il nostro povero amico morì nel novembre del 1875, restituì lo scartafaccio sempre monco al Pungolo Anche I. Ugo Tarchetti collocava i suoi romanzi nelle appendici del Pungolo ed era riuscito ad averne trecento lire caduno. Se la tisi e il tifo non lo avessero ucciso a ventinove anni, ora glieli pagherebbero tre volte tanto. L'uno e l'altro ebbero indole schiettamente ed esclusivamente poetica, furono i temperamenti più refrattari agli inviti della realtà. Pure incontrarono sovente le buone occasioni ; perchè Milano è un mercato letterario dove, seguendo le leggi della domanda e dell'offerta, si può procacciarsi colla penna una discreta posizione; lo scrivere non è qui, come altrove, una mania solitaria, ma una professione riconosciuta e quasi regolare. E se il compenso non è tanto, ciò dipende dalla poca estensione della coltura in Italia, dalla scarsità del pubblico che legge e dalla nessuna espansione della nostra lingua all'estero. Ma sarebbe ingiusto l'ostinarsi in un pessimismo senza fondamento, mentre le condizioni dei letterati vanno rapidamente migliorando. A Milano hanno conquistata una decorosa agiatezza Salvatore Farina, Giuseppe Ghislanzoni e altri parecchi; a Milano mandano i loro scritti Ruggero Bonghi, De Amicis, Bersezio, Carducci, Guerrini, Verga, Capuana, quasi tutti i veri scrittori italiani, e sono bene accolti e discretamente retribuiti. * Risolta la quistione dei mezzi di sussistenza, lo scrittore trova qui ogni maniera d'incoraggiamenti e di conforti. E prima la notorietà facile e pronta. Giovanni Verga aveva pubblicato a Torino, a Napoli, a Firenze parecchi racconti senza che il suo nome fosse uscito dalla cerchia de' suoi amici; nel 1873 venne qui, diede al Treves i manoscritti dell' Eva e della Storia d'una capinera e pochi giorni dopo le due maggiori case editrici milanesi si disputarono i suoi romanzi. Luigi Capuana, scrisse per degli anni stupende rassegne settimanali nella Nazione di Firenze, quando Firenze era la capitale, e fuori nessuno lo conosceva: soltanto la sua grande sincerità gli aveva attirato le inimicizie e i sarcasmi solitari di qualche autore impermalito; ebbene ora scrive nel Corriere della Sera e tutti i giovani colti sanno che il Capuana è il più dotto, il più pensatore, il più coraggioso e sincero critico letterario che abbia l'Italia. Milano è finora la sola città nostra dove ci sia un vero pubblico la classe colta coi novantamila italiani delle diverse regioni vi formano un tutto omogeneo, armonico, che vibra e risponde tutto insieme, ad un tratto alla stessa commozione, alla stessa provocazione. Basta un titolo felice, un tratto di spirito, una parola opportuna, un aneddoto piccante, un'arguzia, magari una sciocchezza un po' gustosa per indicarvi all'attenzione di tutti ; uno è subito conosciuto per quel che merita e si può spendere per il suo valore. Certo queste notorietà durano quel che possono durare; vi sono delle glorie d'un anno e delle riputazioni d'un giorno: il pubblico spazza e butta i cocci che gli hanno dato tutto il diletto che contenevano; però è un gran bene quello di non dover lottare e languire nell' indifferenza, di non dover profondere un tesoro di vergini forze nei tentativi sterili, ignorati; il poter misurarsi col giudizio del pubblico, il potente interrogare dà agli spiriti timidi, agli intelletti schivi una giusta misura della propria capacità li rinfranca, li preserva dalle divagazioni solitarie, dagli smarrimenti che avviliscono. La facile notorietà non può far male che ai vanesi, i quali, perchè un bel giorno si sono spinti a galla, credono di poterci rimanere. Milano crea delle riputazioni effimere, ma non dimentica le meditate. Il nome di Manzoni non ha perduto raggio della sua apoteosi; tutti gli anni al 23 di maggio una folla riverente visita la palazzina in via del Morone. Il nome di Carlo Cattaneo conserva tutta la sua autorità; quello del Rovani è pronunziato in tutte le discussioni artistiche : i giovani ricordano con tenerezza Praga e Tarchetti. Al Cimitero monumentale, ne' giardini rialzati c'è una colonnetta mozza con l'epigrafe: Qui giace un poeta e il poeta che giace là è l'autore della Fosca Un brav' uomo di custode mi diceva l'anno passato: Chi insci gh ven semper gent, di giovin, di donn e ghoo vist de quii bei dolor!... Milano, profondamente ignara di quanto accade fuori del dazio, conosce bene tutti i suoi e predilige in particolar modo gli artisti : questa bohême di principi del pensiero, che hanno l' aria di amare l'incognito, ha una grande ansietà, anzi un bisogno assoluto e continuo della pubblica attenzione. Praga, più ingenuo e più sincero di tutti i suoi confratelli diceva: « Io bacerei chi mi loda; » la lode è la vera rugiada dell' ingegno. Qui lo scrittore trova non solamente degli stimoli e dei compensi ai travagli dell'ingegno ma anche dei sollievi continui per la vita d'ogni giorno; una schietta bonarietà, una sincera illimitata indulgenza per le sue ineguaglianze di condotta, per le sue inevitabili incoerenze per le sue necessarie stravaganze di artista. E, quando egli lascia questa città, s'accorge, per la dolorosa esperienza del contrario, come gli fosse necessaria questa amorosa, questa benedetta tolleranza lombarda, e quanto conferisse alla feconda operosità del suo spirito. In nessun altro luogo come qui si combina l'attenzione con la tolleranza; il rispetto con l' indulgenza. Oggi voi fate un marrone, un' imprudenza, e tutti vi gridano la croce addosso: stringetevi nelle spalle, lasciate passar l' uragano ; l' indomani nessuno vi rinfaccia più l'errore della vigilia, qualcuno lo rammenta scherzando, i più lo dimenticano; fate qualcosa di buono e tutti daccapo a ricantare le vostre lodi, tutti premurosi a ridonarvi la considerazione di prima, a risarcirvi dello strapazzo inflittovi momentaneamente. Eppoi nessuna rigidezza aristocratica, nessuna sciocca burbanza borghese: qui tutte le persone educate si conoscono, formano una società sola dove gli artisti non solo sono ammessi ma godono di particolari immunità e si perdona loro volentieri qualche infrazione alle leggi della moda e delle convenienze. Tutti, uomini politici e uomini di affari, nobili e borghesi, avvocati, banchieri, impiegati ricercano la compagnia degli artisti, degli scrittori, dei giornalisti, s' interessano alle loro passioni, si riscaldano alle loro discussioni, vengono ogni sera a pigliare una scintilla alla fiamma sempre viva dei loro ideali, a interrompere la monotonia delle proprie faccende con la cronaca delle loro eccentricità, a ritemprarsi nella loro giovialità schietta e rumorosa. Basta che due di loro si trovino alcune sere di seguito al caffè, alla birreria, alla fiaschetteria perchè tosto si formi intorno ad essi un crocchio composto de' più svariati elementi. In qualche altra città, dove pure la vita artistica prospera e cresce da parecchi anni, gli artisti fanno società a parte. La società che s'intitola da sè stessa la buona società, si degna bensì di ricorrere al loro spirito per interrompere la noia sempiterna delle proprie futilità; ma solo di tanto in tanto, in giorni determinati, giorni di saturnali nei quali ci si permette una certa mescolanza, e in luoghi neutri di dove si esce senza impegni ulteriori : ed anche lì gli artisti si chiamano per precauzione col titolo cavalleresco, ne hanno oramai tutti qualcuno, si antepone al loro nome illustre, la volgarità di un cavaliere, commendatore magari avvocato ed essi hanno la bontà di prestarsi a questa mascherata umiliante, di accettare un formalismo perfettamente grottesco. A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchielli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga .... e si crede di dir molto. Conversazioni esclusivamente letterarie, come a Firenze, non ce ne sono: ma la letteratura non è esclusa mai. Nelle sale della Krammer, in quella società squisitamente mondana s'incontravano Guerzoni, Giovanni Visconti Venosta, Verga, Navarro della Miraglia, la signora Torelli-Viollier più nota col pseudonimo di marchesa Colombi, la signora Speraz (Bruno Sperani) ed altri. Alle domeniche di Cesare Cantù in via dei Morigi ci vanno medici, avvocati, professori d'ogni scienza, il nipote Celso, ufficiale dei bersaglieri ci porta qualche volta dei compagni d'arme, ci vanno delle giovinette, delle mammine, e delle nonne venerande, e tutti si trovano bene nella compagnia degli accademici più laureati. Nel celebre crocchio della contessa Maffei tutte le arti hanno oramai delle tradizioni, perchè da quasi mezzo secolo quei due salottini modesti e ricchi di preziosi ricordi hanno ospitato tutte le notorietà italiane e tutti gli stranieri distinti che sono venuti a Milano. Nel 1835 c'è stato il Balzac; egli ha dedicato alla contessa Clara Maffei uno dei suoi più squisiti lavori La fausse maîtresse e le ha mandato poi le bozze corrette di un altro suo racconto; era, dice lui stesso, il regalo che serbava per i suoi intimi. In que' due salottini sono passate d'allora in poi le generazioni d'illustri che ci hanno lasciato qualche scintilla del loro genio, qualche fine parola, qualche arguzia profonda, qualche aneddoto piccante. La loro memoria è colà viva e famigliare la signora li rammenta con un dolce e tranquillo rammarico come fossero parenti perduti da molti anni. Però questo cumulo di passato non opprime il presente: la conversazione non vi è punto invecchiata, si rinnova sempre e comprende e rispetta e favorisce le idee nuove. Uomini diversissimi per animo, intelletto, occupazioni, divisi nel terreno dell'arte, della scienza, delle convinzioni, degli interessi, s' incontrano in casa della contessa e diventano garbati fra loro, quasi cordiali. Molti non si parlarono mai altrove che fra quelle pareti; fuori di là non si conoscono più. Il ricevimento degli ospiti distinti avviene senza preparativi, senza cerimoniale, senza le solite freddure plebee, colle quali anche in molte case per bene si disgustano gli amici più cari per far la corte al personaggio. Non si offende la modestia nè l'amor proprio di nessuno; ci vanno dei giovani, dei ricchi signori, di quelli che vivono del proprio lavoro, e sono tutti ricevuti allo stesso modo ; nemmeno si annunzia ; entrate e la signora vi porge la mano con una bontà sempre uguale per tutti e vi presenta a quelli che non conoscete. Certe sere trovate la marchesa Visconti, e la Tessero, le nipoti di Manzoni e qualche povera musicista venuta a Milano per tentare un concerto. La presentazione in casa Maffei non implica alcun formalismo, alcun vincolo; la contessa riceve ogni giorno dalle due alle cinque e poi dalle otto alla mezzanotte invariabilmente tutto l' anno salvo tre mesi di estate : ci andate quando volete ; non si è tenuti nè a visite periodiche, nè ad assiduità impossibili. Molti, distolti dalle occupazioni non ci vanno che un paio di volte l' anno: ma l'ultima sera dell'anno tutti i suoi conoscenti ci vanno non fosse che un minuto per augurare alla contessa tutte le prosperità che si merita e a quel suo crocchio gentile un altro mezzo secolo di vita. Colla morte del Tarchetti, del Rovani e di Emilio Praga che in diverso modo e con diversissimi intenti rappresentarono la lotta contro l' indifferenza e il pregiudizio, si sciolsero i tre crocchi che si raccoglievano intorno a loro. Iginio Ugo Tarchetti morì nel 1869. Giuseppe Rovani l'ho visto una volta sola al caffè Gnocchi, nel gennaio del 1874 pochi giorni innanzi che si mettesse in letto dell'ultima malattia: disfatto, appena l'ombra, mi dissero, di quel ch'era stato; pure quel viso accigliato e accidioso aveva ancora uno strano fascino di simpatia e quell'occhio ottenebrato de' baleni che non dimenticherò mai. Alla fine di quel mese in una triste giornata invernale che veniva un' acquetta gelida e penetrante l' accompagnammo accompagnammo al Cimitero Monumentale. C'era anche il Praga, il quale mi ricordo fece una scenata che poteva aver conseguenze, perché un tale recitando l'elogio sulla bara del defunto voleva con l'esempio d' Orazio scusarne « le classiche voluttà dell' intemperanza » e lui, infuriato, si mise a gridare : te voeut fenilla, o asen! Per fortuna il discorso era finito davvero, portavano il feretro nel Famedio, tutti si movevano e l'oratore non intese l'apostrofe. Emilio non ammetteva che si dicesse di uno che aveva il vizio di bere, neppure per iscusarlo. Il povero Praga allora in un periodo di serenità, l' ultimo che abbia avuto, voleva persuadermi e certo era riuscito a credere egli stesso d'essere un uomo ordinato, sobrio, d'abitudini regolari e casalinghe. Teneva la cattedra d'estetica drammatica al Conservatorio di musica - misera cattedra che gli fruttava novanta lire al mese! - e in quel tempo passavamo insieme quasi l' intera giornata; ma lui ad ogni momento, a proposito d' ogni appuntamento ch'io gli chiedevo: « Aspetta che pensi se non è giorno di lezione. » Aveva scritto - e scriveva - un dramma in versi intitolato Altri tempi cinque atti lunghi lunghi, e carezzava amorosamente lo scartafaccio voluminoso. Lo leggeva volentieri a tutti, la sera in quel suo salotto decorato all'antica con mobili Louis XV al lume tremolante d'un candeletto e come la fiammella anche la sua voce aristocratica dolcemente blesa aveva delle incertezze fantastiche, affiochiva di quando in quando, s'addormentava in un mormorio che dava una malinconia profonda e nessuno ardiva interrompere. La sua bella mano si smarriva allora in un gesto vago, come l' ala spossata di una rondine che ripiega il volo: poi ad un tratto egli la portava vivamente alla fronte, se la passava sul viso e, con una facezia meneghina, rompeva l'incanto. Si trattava di un soggetto spagnolo quanto mai, un intrigo di uno studente, di Salamanca intende, con la figlia d' un conte, superbo come un ragno, fiancheggiata della indispensabile duena e il dramma aveva lieto fine. In mezzo a questo polveroso arsenale di logora scenografia, l'autore che a poco a poco s' era innamorato dell'opera sua aveva messo qua e là della vera e splendida poesia; la bizzarra e briosa ispirazione ispirazione rinchiusa in quella bottega di rigattiere, fioriva i davanzali di rose fresche ed odorose. C'era poi una buona vena di comico due personaggi figli prediletti di quel suo umorismo dolce e malinconico, un vecchio zio mezzo scemo o, come il Praga avvertiva, spiritíco; poi un Pilade gobbo, maniaco di classicismo e ubriacone convinto, il quale ne faceva di cotte e crude e quando l'autore s'accorgeva dai nostri occhi che i tiri birboni e le stramberie del suo originale passavano il segno s'affrettava a soggiungere: Te set l'è goeub Con quest'immagine di disunità fisica ch'egli coloriva incurvando le spalle, ribatteva e preveniva tutte le nostre obbiezioni. Venuta la bella stagione trovò un'ortaglia vicino a Monforte, dietro il palazzo Cicogna e là, dopo pranzo, si passava qualche ora allegramente a giocare alle boccie o a fare una partita di chiacchiere in compagnia d'artisti, bravi giovani sempre cordiali e sempre di buon umore. A due passi dalla Prefettura, a dieci dal Corso Vittorio Emanuele, pareva d'essere in fondo a una campagna remota. Alcuni vecchi alberi bellissimi che forse una volta appartenevano al parco del palazzo vicino avevano, là dimenticati, disteso i loro rami da tutte le parti e per questo piacevano all'autore dei Paesaggi che trovava in quella libertà di fronde una certa somiglianza con la immaginosa abbondanza del suo stile. C'era a completare la scena campestre una rustica osteria, ma aveva una usanza deplorevolmente urbana; faceva credito agli avventori e rincarava il conto ai morosi. Praga cominciò coll' andarci anche alla mattina e finì col passarci le intere giornate; voleva rimettersi a dipingere, riprendere il filo da lunghi anni interrotto degli studi pittorici nei quali aveva esordito con lavori che sono pregevoli ancora, e si lusingava di far scontare ai pennelli la improduttività dei suoi versi. "Avrei dovuto far unicamente il pittore, diceva, questa almeno è arte che frutta da mantenere una famiglia. " Ed inutile è soggiungere che non ne fece nulla. In quell'ortaglia si fecero le più care festicciole ch'io abbia mai goduto. Quando venivano amici di fuori li menavamo là a desinare; mi ricordo di una volta che vennero da Torino il Giacosa, il Molineri, il Faldella ed erano con noi il Boito, il Torelli Viollier, Ferdinando Fontana, che fece in fin di tavola questa terribile dichiarazione: « Sono socialista e ne ho il diritto: è l'unica protesta della monade umana contro il dualismo sociale. » Praga era felice perchè Molineri, Giacosa e Torelli sapevano a mente le sue Penombre e Torelli per canzonarlo si mise a recitare i versi Brianza con la monotona e frettolosa cantilena dello scolare che sa la lezione. Povero amico, noi ci accorgevamo che il suo ingegno s'andava spegnendo e non viveva più che nei ricordi. Verso il fine delI' estate, andò in villa dalla Dandolo e ne tornò in uno stato deplorevole già preso dal male che poi lo finì. Mi mandò a chiamare, andai a casa sua in via della Cerva e trovai presso al letto il Cavallotti, col quale era da un pezzo un po' freddo. Il Praga gli leggeva il suo dramma: quando ebbe finito il Cavallotti se n'andò dicendogli qualche amichevole parola e lui poi sclamò tutto commosso: L'è un bon fioeu Lo accompagnammo dopo alcuni giorni a quella stessa Casa di salute dove l'anno prima era morto il Rovani. Tuttavia si riebbe ancora, in primavera esso prese casa fuori Porta Vittoria e ci sfuggiva; al principio dell'inverno, nel novembre 1875 morì ed è sepolto nel piccolo cimitero di Porta Magenta. * Il Teatro Milanese, fondato da alcuni dilettanti che si proponevano modestamente d'imitare a Milano l'esempio del torinese Toselli, e trasformato poi da Carlo Righetti in una regolare compagnia di autori ed attori col titolo solenne di Accademia, era, a dispetto del titolo, un ritrovo di matta e spiritosa scapigliatura. Il Righetti che ha trovato questa felicissima versione italiana della bohême e ci ha dato nel suo noto romanzo scene gustose della nostra vita letteraria, dovrebbe raccontare le vicende, almeno quelle che si possono dire, di quel crocchio del quale fu magna pars egli stesso. Uscito il Righetti, smessi gli intenti, o se volete le illusioni letterarie, il Teatro Milanese è, come locale il ritrovo della galanteria prezzolata, grossa e minuta, come repertorio il piedistallo d'un grande artista e quando questi ne scenderà, perderà ogni importanza. Bisogna però notare che per esso il Duroni scrisse qualche buona commedia e il Fontana vi fece le sue prime armi con la famosa Statoa del sur Incioda. * Ora i superstiti della scapigliatura milanese si raccolgono nel piccolo Caffè del Teatro Manzoni, dove convengono dei repubblicani e dei socialisti tranquilli e bonari come Napoleone Perelli e capita qualche volta, quando è a Milano, anche Ulisse Barbieri sempre in guanti chiari e sempre disperato d'aver ne' suoi drammi fatta strage di tutte le individualità storiche e mitologiche, non escluso il Padre Eterno. Ma il tipo del genere è Fulvio Fulgonio, predestinato fin dal battesimo alla letteratura dei libretti d'opera, ottima pasta d'uomo, indulgente con tutti, anche con la fortuna che lo maltratta da oltre quarant'anni, chè è sempre al verde e tien nota scrupolosa de' suoi debiti. Qualche anno fa aveva un conto piuttosto inveterato col caffettiere, e questi una sera gli fè negare il solito caffè : allora lui s'appressò al banco e avuta spiegazione e conferma dell'ordine disumano con tutta serietà gli disse : « Mi dia dunque venti centesimi perchè possa andarlo a prendere in un altro posto. » Alcune settimane dopo negoziò una buona transazione per un amico ricco che gli regalò, in premio, 2500 lire : lui pagò tutti i suoi creditori e la sera venne in caffè vestito di novo, colla borsa leggera e il cuore più leggero ancora. Ha un figlio in collegio e un suo parente paga per mantenervelo una pensione di ottocento franchi: Fulvio Fulgonio riscuote lui il semestre e lo spedisce regolarmente: non toccherebbe quei danari fosse digiuno da due giorni. Al suo stoicismo sereno fa contrapposto la malinconia curiosa di Cesare Tronconi l' autore di Passione maledetta e delle Madri per ridere perpetuamente in collera contro i critici che maltrattano i suoi romanzi e più contro quelli che non ne parlano. Fulgonio sorride, Tronconi sospira: l'uno fa il suo mestiere alla giornata, senza darsi fastidio del poi, l'altro è in pensiero del poi e se ne amareggia il presente. Nè questo è il solo contrasto di quel piccolo mondo : tutti fanno l' opposizione alle idee, ai sistemi, alle autorità riconosciute; opposizione di massima senz'altro impegno. Del resto tante idee quanti cervelli, e vogliono tutti dire la sua e ne nascono delle dispute che ogni sera ricominciano e non fluiscono mai. Però basta un'ondata di sentimenti per trascinarli tutti. La sera del 9 gennaio 1878 un repubblicano intransigente prese là dentro la difesa di Vittorio Emanuele contro un giornalista radicale e la compagnia gli battè le mani. Però le discussioni, per quanto vivaci, non trascendono in attacchi, non lasciano mai dietro a sé ombra di rancore; e questo è merito della bonarietà milanese. Anche la la massima tolleranza e cortesia: ci va Samuele Ghiron il moderatissimo Violino di spalla del Fanfulla a far pesca di barzellette e di aneddoti e tutti gli vogliono bene. Aforista, apologista, evangelista della compagnia è Felice Cameroni il Pessimista del Sole giornale commerciale, che, in grazia sua, ha accoppiato le rassegne drammatiche e le bibliografie ai listini di borsa e ai bollettini de' mercati senza l'intromissione della politica, acquistando una particolare competenza in materie così diverse da quelle che formano si può dire il suo vero ed unico intento. Tutte le sere verso l'otto il Cameroni è al suo posto, dentro il caffè d'inverno, e fuori l'estate colla faccia volta al pilastro dove sta il cartello del teatro : d'inverno prende un capiler, d'estate una marena invariabilmente. Perchè non conobbi mai uomo più metodico ed esatto di questo apostolo della rivoluzione verista in letteratura e della ribellione sociale in politica. Vorrebbe sovvertire il mondo ma non sarebbe capace di mancare alla garbatezza più scrupolosa; impiegato modello alla Cassa di Risparmio non froda l'orario d'un minuto: le sere di prima recita paga il supplente. E si assicura che questo partigiano della filosofia sensista più desolante, questo apologista degli scrittori che negano la famiglia è un figliuolo modello. Ve ne darò una prova ma non gliel'andate a dire chè gli farebbe dispiacere, non osava leggere a tavola per rispetto a sua madre : e fu lei a pregarlo di fare il suo comodo. Morto il Manzoni la società che si radunava tutte le sere da lui nella famosa casetta di via del Morone si sciolse. I suoi componenti non si vedono quasi più. Giulio Carcano, salvo qualche rara apparizione in Consiglio comunale, fa vita da sè, con la famiglia e alcuni vecchi e fidati amici. Il Cantù riceve, com'ho detto, tutte le domeniche in casa sua: frequenta qualche poco il teatro. Alle prime rappresentazioni lo si vede al Manzoni nel palchettone di seconda fila sopra l' ingresso della platea, e non perde sillaba della recita: quella testolina scarna, eretta, vivace, coi lineamenti fini, marcati, con quella ricca zazzera che appena comincia a incanutire, non è la testa d'un settantenne: ha l'espressione, l'energia fugace, la volontà, la fermezza d'una virilità forte che si direbbe, immortale. Certe volte, quando sulla scena il dramma di qualcuno dei nostri autori più in voga tira innanzi alla meglio, un sorriso arguto brilla nei suoi occhietti azzurri e increspa le sue labbra sottili. Allora, a guardarlo, mi piglia uno strano sgomento: mi pare che egli debba, giudice severo e implacabile, sopravvivere alla nostra generazione e che abbia il còmpito di sotterrarla e giudicarla come ha fatto delle due precedenti. Singolare destino il suo: egli non fu mai bene del suo tempo e la sua vita laboriosa è rimasta sempre in una solitudine morale che avrebbe fiaccato qualunque fibra pieno possente della sua. Per i letterati suoi coetanei, spiriti tranquilli, indulgenti, più studiosi che operosi era troppo giovane ed irrequieto: è era troppo rigido ed austero per i giovani. M' immagino che Cesare Cantù soffra, come altri illustri scrittori, la malinconia di credersi trascurato. Ma la nuova generazione, che, forse egli suppone sconoscente e irriverente, ha tutto il rispetto per lui, venera in lui l'artefice della più vasta opera storica del tempo nostro e non domanderebbe di meglio che poterlo conoscere più davvicino. * Il professore Giovanni Rizzi tiene un crocchio che è anche una scuola perchè composto quasi esclusivamente di allievi e di allieve. Fra queste, due signorine la Sormani e l'Albini, sono, la prima con due commedie, la seconda con alcune novelle, entrate onorevolmente nella vita letteraria. * Però i letterati seguono anch'essi la corrente positiva del tempo: si vedono meno tra loro e vivono un po' più cogli altri. Gli interessi, le faccende e la politica, a Milano specialmente, li separa più che un tempo li unisse la comunanza di studi e di aspirazioni. Il Cavallotti vive quasi esclusivamente co' suoi amici della Democratica. Paolo Ferrari dedica le sue giornate all'Accademia e al Consiglio comunale, le sue sere al bigliardo della Società, patriottica e le sue notti ai lavori drammatici: nessuno sa meglio di lui metter d'accordo nella vita il serio ed il comico, la barzelletta e l' assioma professorale. Al tempo preistorico, mitologico della tenebrosa Consorteria delle F (Fortis, Ferrari, Filippi, Faccio, Fano) il Ferrari era l' ordinatore di beffe graziose e solenni, n' ha fatte tante e così originali che ce ne sarebbe da fare un intero novelliere: ora, non si permette più d' insanire che semel in anno in martelliani al Risotto annuale della Patriottica. * Filippi si trova dappertutto, di giorno al Caffè delle Colonne, al Biffi, al Cova; la sera in tutti i teatri, dalla Scala al Milanese e al Santa Radegonda, entra col suo enorme cappello in testa, v'infligge un aneddoto che deve essere sempre nuovo, ed è detto con tanto garbo che lo si sente volentieri anche per la decina volta; se nel palco c' è un posto buono lo piglia senza farselo dire, ma non è indiscreto; fatta la sua comparsa, spacciato il suo frizzo, s' alza e se ne va senza salutare, se gli stendete la mano ve la stringe sbadato, se allungate un piede ve lo pesta, non vi chiede scusa e tira via sempre collo stesso passo posato e maestoso, collo stesso faccione sereno e sorridente di cuor contento. Perciò i giovani che non lo conoscono, lo credono superbo: a torto, perchè egli è molto più fiero della bellezza molto discutibile delle sue mani che non del suo talento incontestabile. Non ha goccia di fiele: è una buona pasta, e, non ostante la prima apparenza, alla mano con tutti; se fa bene una cosa, se ne compiace per il primo, se la fa notare, e la dimentica; se piglia un granchio, lo confessa, non si sgomenta nè ride, e lo dimentica. Vi rende servigio se può, piglia il suo bene dove lo trova, se lo gode, non invidia quello degli altri. Quando in quando scompare, e qualche giorno dopo compaiono sulla Perseveranza sue corrispondenze da Parigi, da Monaco, da Londra, magari da Madrid o dal Cairo; poi ritorna sempre fresco e tranquillo: egli ha girato così mezzo mondo senza scomporsi, senza affaccendarsi ; il suo cappellone lucido non ha un pelo arruffato, il suo gesto, il suo viso non serbano traccia di stanchezza o di fatica. Non manca ad alcuna festa, ad alcuna allegria: non ha fretta mai ed arriva a tutto e sempre in tempo. Egli è certo l' uomo più felice ch'io conosca, perchè è contento di sè e si contenta degli altri. Buontempone e girellone com'è, dove piglia il tempo di scrivere un articolo o due al giorno e delle appendici di quasi cinquecento linee l'una? Ma chi lo sa? Forse il segreto della sua attività, sensitiva, intellettiva, produttiva a moto continuo sta in questo : non si perde nel fantasticare che, dice bene il Goethe, fiacca l'energia della mente. Il lavoro non gli costa nulla; l'ho visto io dopo una giornata di strapazzo, che avevamo girato molte ore in una città di provincia, con una pioggia torrenziale, e c'eravamo rifugiati in un caffeino pieno di fango e di confusione, pigliare la penna e scrivere difilato quindici cartelle faceziando, facendoci pregustare i frizzi che andava trovando man mano. I suoi articoli hanno, a differenza di tanti altri più raffinati, un gran merito di sincerità e sono spacciati colla naturalezza che dimostrano. Che età ha il Filippi? L' età di chi non vuole invecchiare. Da giovane pareva, dicono persone per la loro età degne di fede, mostrare mostrare più anni di quel che avesse ; ma s'è fermato presto e da un gran pezzo. * Se, tra mezzogiorno e la una, vedete un brougham alla porta del Caffè Cova, è certo che aspetta Leone Fortis, che lo fa aspettare delle volte un buon paio d' ore. Se glielo rammentaste risponderebbe che non può tener carrozza propria. Ed è una vera ingiustizia, perché egli è nato per fare il gran signore. A quell' ora o mangia in silenzioso raccoglimento la sua bistecca quotidiana innaffiata con dei sorsellini del non meno quotidiano bordò, o fa il chilo, una gamba sull' altra, la mano sinistra sul polpaccio o magari sullo stivale, la destra che fa di quando in quando un gesto largo e ricade, la persona abbandonata , il ventre arrotondato, la testa rovesciata sulla spalliera in atto di noia suprema. È un atleta in riposo. Parla di rado e a pause, durante le quali, alza il labbro inferiore e si beve i baffi. Così pure sta la sera nel suo palco al Manzoni. Come tutti gli uomini d'indole dominatrice non è mai solo: è corteggiato come si conviene alla sua potenza. Molti che gli dicono dietro le spalle ira di Dio sono con lui manierosi e gentilissimi; lui non s'illude menomamente sulla sincerità di queste garbatezza, ma, sovrano indulgente, si contenta del loro omaggio ufficioso e lascia correre. Certe volte, quando qualcuno che ce l'ha con lui, affetta di non vederlo, gli pianta gli occhi addosso ed è ben difficile che non riesca a farsi salutare. Non ho mai visto alcuno passargli vicino proprio indifferente. Così stracco, tediato, uggito - queste sono le tre gradazioni della sua accidia apparente - sembra non si interessi a nulla, si secchi dell'universo mondo - eppure non gli sfugge parola del discorso e del gesto degli interlocutori ; spesso non vuol vedere - ma vede e osserva istintivamente e dopo anni ed anni vi riproduce il personaggio o la scena più impercettibile con un' esattezza prodigiosa. Se l'argomento è vivo e interessante davvero, v'accorgerete dall'articolo che scriverà l'indonmani che egli lo ha afferrato nelle mezze tinte più fine e delicate. È un lavoratore a scatti; sonnecchia un poco, ma quando si sveglia è d'una attività formidabile, scrive due, tre, quattro articoli di seguito con quella sua mano lenta, sdegnosa, risoluta, s'abbandona ma dice esattamente quel che vuole o come vuole, e trova degli accorgimenti, delle sottigliezze, che affascinano gli avversari e fanno qualche volta disperare gli amici politici. Nei giorni di lotta fa tutto il giornale lui e non c'è nè spazio, nè orario che peni: se non bastano quindici colonne si fa il supplemento e se il giornale non esce alle quattro escirà alle cinque, alle sei, alle sette - gli abbonati di provincia non lo ricevono, ma sta pur certo che in città lo leggono tutti e ciò gli basta: il suo regno è Milano, egli vi ha inaugurato la sovranità della stampa, la tiene e non dà segni di voler abdicare. Ci sono a Milano dei giornali solitamente più dotti e più precisi o più piacevoli; ma al tempo delle elezioni, o di una qualche viva quistione amministrativa o economica, o teatrale, o artistica, che stuzzichi particolarmente il sentimento, l' interesse, o anche solo la curiosità del pubblico - il Pungolo è ancora com' era quindici o vent' anni addietro, il leader della situazione. È articolista, polemista, critico tutto a modo suo e sempre impareggiabile. L'Illustrazione italiana era un foglio noto per i suoi disegni unicamente; dacchè il Fortis vi scrive quello sue famose Conversazioni è diventato anche un periodico letterario. Leone Fortis, Leo fortis come lo chiamava il Bianchi Giovini, un tempo suo avversario, è un nome felicissimo, tanto felice che par trovato apposta per lui: esprime tutto l' uomo. Infatti egli è buono, indulgente, tollerante, ha degli abbandoni d'una bonomia commovente, ma guai a stuzzicarlo, guai poi a cascargli sotto. Però perdona e, se non dimentica, trascura. Egli vuol bene a 'suoi amici, nessuno sa rendere un servigio con maggior garbo di lui e non lo rinfaccia. Quelli che non gli voglion bene lo temono o perchè ne hanno paura o perchè ne hanno bisogno. È entrato da quindici anni nel partito moderato non come recluta ma come capitano, anzi come potenza alleata; ha le sue schiere e ne dispone dispone, ha i suoi ufficiali e li impone. Alla Costituzionale benché s' inquietino della sua indisciplina e lo tengano quasi come uno eresiarca, gli fanno volentieri delle concessioni, perché sarebbe malagevole combattere senza di lui, e sarebbe causa disperata combattere contro di lui. In mezzo al parapiglia politico è rimasto l' artista del Cuore ed Arte ama le forme e un po' la scena, va tutte le sere al teatro, non scrive più drammi, drammatizza la vita per suo conto, e così la gusta in grazia della forma che lui gli sa dare. Detesta il realismo - se diventasse realista si annoierebbe troppo. * Al Cova nello stanzino in fondo si trovano la sera alcuni scrittori e ispiratori della Perseveranza il direttore Landriani, la modestia personificata, che si nasconde, scompare nell'opera sua tanto che molti lettori del suo giornale ignorano il suo nome e la sua esistenza; l' avvocato Zambaldi, gentilissima persona, moderato estremo, scrittore mordacissimo; Camillo Boito, il dotto critico artistico, architetto, novelliere, scrittore possente, a cui la Costituzionale ruba molte ore che l'arte saprebbe rendere più utili. La politica li unisce troppo tra loro e li divide troppo dagli altri. * Al Cova, verso le quattro ci va anche Arrigo Boito e vi si trattiene una mezz'ora. Fuori di lì non lo si vede in nessun posto eccetto che a casa sua in via Principe Amedeo n. 1 dove del resto non è facile penetrare : i suoi amici picchiano in un certo modo convenuto alla finestra del suo stanzino che è a terreno verso strada. Perchè Arrigo Boito, con tutta la riputazione di pigrizia che s' è fatto, lavora indefessamente tutti i giorni dalle nove alle quattro ; chi passa sotto la sua finestra è quasi sicuro di sentire la voce flebile del suo pianoforte che gli ripete le armonie di Bach e ne riceve le gelose confidenze delle sue ispirazioni. Non già che abbia il lavoro stentato, tutt'altro, prova ne sia che l' anno passato ha scritto in poche settimane il libretto del Jago per il Verdi, ma è incontentabile dell'opera sua e il Nerone fu rifatto già tre o quattro volte da capo a fondo. Se parlate con lui lo trovate pieno di condiscendenza: non fa nè teorie nè dissertazioni, nè sproloqui d'arte; approva tutto quel che gli dite con dei frequenti: benissimo, perfettamente, sicuro, pronunziati con quel suo accento originale, marcato, sensibilmente enfatico, e forse pensa ad altro. Non discute che con sè stesso; si direbbe che, stanco della lotta quotidiana colle due mura che lo inebbriano e lo tiranneggiano, non voglia fare uno sforzo inutile per contraddirvi. La sua camera stretta e profonda, incomoda, con delle raffinatezze impercettibili, ha una scrivania su cui trovate una Bibbia, una raccolta di pentasdruccioli, i volumi di Bach e di Marcello e un diavolino di Cartesio, rappresenta bene le due faccie di quel suo prodigioso talento: la severità e la bizzarria. * Uno degli intimi suoi è Luigi Gualdo, il romanziere gran signore, che non pensa a ricavar guadagni dal suo lavoro per l'invidiabile ragione che ha da vivere del suo, ma che senza alcun scopo di lucro, lavora non per vanità, per un vero bisogno d'artista. Per Milano lo si vede di rado anche lui, qualche volta l' inverno verso le quattro quando fa bel tempo esce a fare un giro sul Corso tutto solo, le mani nelle tasche, astratto, pensoso, e per questo e per la sua singolare maniera di vestire, ha l'aria d'un forestiere. Vive solitamente rinchiuso, la sera fa delle visite. D'estate va sul lago, ogni anno passa alcuni mesi a Parigi e scrive da qualche anno in francese, per non commettere - dice lui - de' francesismi. * Lo scrittore più mondano dopo il Filippi è senza dubbio Giovanni Verga, che abita qui a intervalli, vi conosce e frequenta la società più aristocratica ma solamente quella. La prima volta che lo vidi fu in casa Maffei una domenica sera che le due salette erano piene di signore tra cui sei o sette giovani e molto belle, e queste lo circondavano in modo ch'io non mi potei appressare a lui. Lui stava lì contegnoso in silenzio in mezzo al vivace cicalio, e sorrideva di quel suo sorriso serio, a fior di labbra che fa malinconia. Per questo suo fare riservato misterioso che dimostra patimenti profondi non meno che per la eleganza squisita del suo sentimento artistico dicono che abbia delle avventure. Non gliene state a chiedere a lui ; è così poco vanesio che non ve ne direbbe nulla, anzi vi riderebbe discretamente sul viso. Però anche a Milano, nella più allegra e socievole città d'Italia, gli scrittori non fanno più la vita scioperata d'una volta. Gli è che la letteratura è diventata un lavoro e che lavoro aspro indiavolato! Non basta più scrivere qualche centinaio di versi e nemmeno un volume, per guadagnarsi un vitalizio di considerazione. Il pubblico è più vasto, legge di più, ma dimentica più facilmente. Anche a Milano s' è smesso il vizio di girellare tutto il giorno da un caffè all' altro e prima delle quattro sarebbe difficile trovare nella galleria altri che i soliti cantanti a spasso. Ci sono degli scrittori tuffati da mane a sera e tutto l'anno nell'opera propria, e ci dicono che il tempo passa troppo presto. Esempio: Luigi Archinti, il brioso e competentissimo critico artistico del Corriere della Sera non va in nessuna società, nessuno sa che vita faccia: o piuttosto si sa benissimo, lavora indefessamente: la scrittrice che tutta Italia conosce col pseudonimo di Neera e di cui ben pochi sanno il nome vero è una modesta madre di famiglia, molto seria benchè di carattere vivace e giovanissima, vive unicamente per la famiglia, lavora per la famiglia e come: tre o quattro romanzi all'anno, articoli per il Fanfulla, per il Corriere del mattino per la Gazzetta Letteraria per sei o sette giornali minori, e si lamenta che gli editori non gliene stampino quanto si sentirebbe di farne. * Uno che non s'incontra mai a ciondolarsi o ad ammazzar il tempo è Salvatore Farina. Si può quasi dire che non sta a Milano. Evita assolutamente le società letterarie: l'anno passato aveva preso gusto al giuoco del bigliardo e per soddisfarlo senza avere il rischio d' imbattersi con de' confratelli si associò a un certo circolo commerciale ed agricolo tutto di fittaioli, di bottegai in ritiro e mercanti di grano : ci andò per tre o quattro mesi tutte le sere un'oretta a far la sua partita beatissimo del suo supposto incognito. Ma una sera ch' era nata una discussione intorno a certa frase di giornale, dove si vanno a ficcare i critici! uno della compagnia si appressò a lui e lo interpellò: ch' el disa on po' lu che l'è on scritor an lu?... Inutile aggiungere che d' allora in poi non l' hanno più visto. È innamorato della propria casa e spende tutte le sue cure, tutti i cari momenti d' ozio per farla bella, comoda, confortevole e godersela in santa pace. Sarebbe felice se ci fossero dei felici a questo mondo: Salvatore Farina ha come tutti gli uomini soddisfatti del bene che hanno, il timore di perderlo; soffre di iponcondrie periodiche ora per il polmone, per gli occhi, per il ventricolo e che so io. Quando lo pigliano coteste malinconie consulta medici di cui non eseguisce le prescrizioni, butta via le loro ricette, si sottopone a delle cure eroiche di sua invenzione e naturalmente guarisce sempre. La famiglia non è soltanto il suo ideale letterario, è l'obiettivo, il sentimento dominante di tutta la sua vita. Se siete tristi, se avete la famiglia lontana, se gli svaghi soliti non vi soddisfano, se le solite conoscenze sono in disaccordo col sentimento dell'animo vostro e Milano vi sembra una rumorosa solitudine, in questi momenti di sconforto e di accidia andate da lui e troverete la una vera famiglia, quasi un profumo di casa vostra, una buona e amorevole intimità, la migliore intimità, quella che non esclude i riguardi e implica la reciproca stima. Salvatore vi darà del lei, non mancherà di usarvi tutte le garbatezze ma per di più si interesserà alle cose vostre, potrete contargli i vostri fastidi, le vostre pene come a un fratello e a un amico d'infanzia. E lui s' interessa veramente a quel che gli direte e vi parlerà senza finte compassioni, senza tenerezze convenzionali, allegramente con franca e delicata giovialità, magari vi condurrà a scherzare del vostro sconforto; fatto sta che uscirete col cuore più leggero e quasi quasi non vi rammenterete le vostre pene. È uomo di spirito ma altrettanto buono: sarebbe difficile ingannarlo, conosce bene, da subito, le persone, ma per temperamento ha bisogno di crederle oneste e sincere. Ha poi la benevolenza memore ed operosa ; se gli confidate un bisogno, dopo qualche settimana quando credete se ne sia dimenticato e forse non ci pensate più, trovate alla porta un suo biglietto. Egli s'è ricordato di voi ed ha cercato e trovato il modo di rendervi il servigio che vi bisogna e che forse non gli avrete neppure domandato. In casa Farina il sabato sera, si riuniscono alcuni amici, tutte conoscenze della famiglia; ci va Eugenio Torelli Viollier, direttore del Corriere della Sera con la sua signora, la marchesa Colombi Giovanni De Castro, i due Ghiron e qualche altro. Non si parla nè di politica, nè di letteratura. Si fanno dei discorsi casalinghi, si parla di cucina, del tempo, dei figliuoli. Torelli ha sempre in tasca qualche nuovo rompicapo, egli è, lo si sa, appassionato degli indovinelli e delle mistificazioni innocenti, ciò che non gli impedisce d'essere un brillantissimo scrittore, un giornalista serio, dotto, studioso, coscienzioso come ce n'ha pochi; si dicono delle barzellette decenti, si gioca una partita a campana e martello, si fanno magari quattro salti e si concerta qualche desinaretto per le grandi solennità. * Ma non tutti hanno il temperamento, gli agi, i conforti necessari per vivere continuamente da sè; e Milano ha questo di buono che mentre potete star nascosto dei mesi e sottrarvi completamente alle molestie, agli oziosi, ai seccatori, se ad un tratto vi piglia, come piglia a molti lavoratori solitari, il bisogno assoluto e repentino di veder gente, voi potete a qualunque ora, dalle quattro della sera alle quattro del mattino trovare buona e gaia e confaciente compagnia. E, ne converrete, una facilità preziosa e che non si ha dappertutto. Il forestiere, chi è rimasto lontano molto tempo è sicuro di trovar qualche amico, qualche compagno che lo rimette al punto della vita milanese. Gualdo, Verga, capitano così al Biffi dopo mesi e anni di assenza e non manca mai chi alle tre del mattino li accompagni fin sull'uscio di casa loro. Al Biffi per tre o quattro anni è durato un crocchio dei più gioviali e dei più svariati; ci veniva, come ho detto, un po' di tutto; impiegati, avvocati, professori dell'Accademia, superstiti redattori del giornale la Vita Nuova giovani letterati, che sono usciti dalla vita letteraria, che non hanno ancora trovato il sentiero buono d'entrarne, il romanziere e critico Virgilio Colombo, DeMarchi poeta e scrittore valente e troppo modesto, Giovanni Pozza grande inventore di romanzi e di novelle bellissime, già tanto belle in embrione che è un vero peccato scriverle. Ma l'anima, o per meglio dire il pontefice di questo sinedrio era Luigi Capuana; difatti c'è in lui il misticismo, l'eloquenza, l'unzione del teurgo e del filosofo: conosce tutto, legge tutto; e se lo mettete sul discorso sa parlar di tutto e bene e profondamente. È perpetuamente innamorato, ma quando un intrigo gli va per le lunghe e gli riesce difficile - lui ha bell' e pronta una catastrofe di suo genio e ne fa .... una novella. Però tutte quelle sue novelle famose sono tutte cominciate in terra e terminate nelle nuvole; noi, per burla, lo chiamavamo il vecchio dacchè ha capelli pochi e canuti e baffi candidissimi in flagrante contraddizione non solo coi suoi quarant' anni ma col viso florido e giovanile. Qualche maligno aggiungeva che portava bene i suoi annetti, difatti a prima giunta ha l'aspetto di un vecchietto ben conservato. Poi lo si presentava come il nostro papà e lui pigliava la canzonatura con spirito. Ora la bella compagnia è un po' sbandata, ma se ne formano continuamente delle nuove, allo stesso posto, e al Gnocchi e alla fiaschetteria Toscana: e Samuele Ghiron ha la sera il suo da fare per girare dall' uno all'altro per cercare aneddoti, e spacciare quelli che ha raccolto. * Scontenti di Milano non ne conosco che uno: Dario Papa, l'irrequieto e valoroso dp del Corriere. È uno spirito ansioso di operosità febbrile, di progressi fulminei e colossali, desidera un mondo nuovo e sogna continuamente di andare in America. E ci anderà un giorno e forse troverà che somiglia ancora troppo a questo suo mondo vecchio, ma buono, e tornerà a desiderare e a ritrovare la sua Milano che ha saputo apprezzarlo e lo stima per quel che vale e gli darà certo l'avvenire che si merita. Fatto sta che quando siete stato un anno a Milano vi ci affezionate e la grande città vi ha adottato per sempre: lontano, voi avete sempre istintivamente dei confronti in suo favore, penserete ad essa come al paese veramente vostro perchè scelto da voi e se ci ritornate vi accoglierà come uno de' suoi figliuoli. ROBERTO SACCHETTI. Il 31 gennaio scorso, Roberto Sacchetti mi spediva da Roma questa monografia sulla Vita letteraria a Milano e mi dimostrava desiderio di vederne le bozze di stampa. Povero amico! Io riceveva le bozze da Firenze proprio il giorno in cui il telegrafo recava la triste notizia della sua morte che tanto addolorò quanti l'avevano conosciuto ed avevano avuto campo di pregiarne l'animo mite, l'aperto intelletto e le tante virtù. G. OTTINO.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 3 occorrenze

Le dovevano sostenere anche il capo, che si abbandonava; e denudato il povero braccio, tutto punzecchiato dall'ago di argento, una nuova puntura, bruciante, dolorosa, si aggiungeva alle altre: ella trasaliva solo leggermente, come se nessun dolore fosse più grave di quel sonno. Talvolta apriva gli occhi: e li fissava nel volto delle persone, così tristi nella espressione di stanchezza, così torbidi nel colore, così aridi e così indifferenti oramai a tutti gli spettacoli umani, che un loro sguardo stringeva il cuore. Pareva che avessero esaurito la fonte delle lagrime. Quando il padre e Margherita si vedeano innanzi quei dolorosi occhi, trasalivano. - Figlia mia, figlia mia, - diceva il vecchio, tenendole le mani. Ed ella, infastidita, stanca, riabbassava le palpebre, subito, s'immergeva di nuovo in quello stordimento, dove le sue due forme di vitalità erano il respiro affannoso e il calore della temperatura. Raramente le iniezioni di chinino arrivavano a diminuire il calore della febbre: era una variazione minima, scorante. Solo, nel mattino del decimo giorno, ella parve a un tratto migliorata: era sonno invece di torpore. E nel sonno confortante, un gelido sudore le scorreva dalla fronte, che delicatamente Margherita le rasciugava. La povera vecchia seguiva trepidante ogni minuto di quel sonno, come se da quello, ella intuisse dover dipendere la vita di Bianca Maria: e mentre pregava, mentalmente, la sua attenzione era su quel volto amato, affilato dalla infermità, che sembrava riacquistasse una novella vivacità. Mentre il benefico riposo durava, l'orecchio vigile di Margherita udì un rumore nell'appartamento. Si levò e in punta di piedi uscì fuori: era il marchese di Formosa che rientrava e la interrogava con gli occhi, ansiosamente. - Riposa: sta meglio: sta molto meglio, - mormorò la povera vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, per raccomandare il silenzio. Gli aridi occhi del padre si riempirono di lacrime: era la prima buona notizia, in dieci giorni di angoscia, di sgomento. Anch'egli entrò nella stanza di sua figlia, sedendo al suo solito posto, sogguardando quel viso magro, su cui la gran tensione nervosa pareva avesse ceduto a una crisi benefaciente. Margherita, per non turbare il sonno di Bianca Maria, non osava adoperare il termometro per sapere a che grado fosse la temperatura, ma il cuore le diceva che la febbre aveva certamente ceduto. Così, senza parlare, ella pregando mentalmente, il marchese Cavalcanti ritrovando ancora in fondo alla sua coscienza annebbiata qualche brandello di orazione, passarono due ore a sorvegliare il pacifico sonno della malata. Era l'imbrunire, quando ella aprì gli occhi, i grandi occhi che erano stati chiusi per dieci giorni, dalla mano di piombo rovente della febbre; e subito Margherita si piegò su lei, interrogando: - Come vi sentite? Il suo stupore fu che la fanciulla, invece di rispondere con un cenno della mano o della testa, dicesse con una voce fievole: - Meglio… Adesso anche il marchese Cavalcanti era accorso vicino al letto e, tremante di gioia, ripeteva: - Figliuola mia, figliuola mia. - Volete qualche cosa? - chiese la cameriera, per udire un'altra volta quella sottile voce, che le era andata al cuore. - Niente: sto meglio, - mormorò l'ammalata, con un sospiro di sollievo, dal petto liberato. Il padre le aveva preso una mano, guardando teneramente la sua fanciulla. Ed ella, che da dieci giorni lo scacciava dal suo letto, con lo sguardo e col gesto della mano, questa volta gli sorrise. Fu una luce rapidissima. Egli non sapeva dire altro, balbettando: - Figlia mia, figlia mia… E Margherita uscì dalla stanza, lietamente, come se la sua giovane padrona fosse salva, salva per sempre dall'orribile pericolo in cui aveva versato, per dieci giorni. Ora il marchese Cavalcanti si era seduto al capezzale dell'inferma, e tenendone la sottilissima mano fra le mani, sentiva ogni tanto le dita scarne della sua creatura appoggiantesi un po' di più sulle sue, a espressione di affettuosa carezza. Due o tre volte, egli si era chinato e le aveva domandato: - Vuoi qualche cosa? Ella non aveva risposto, ma quel lume fugacissimo di sorriso era riapparso. Era già notte e i visi non si distinguevano più, quando a una novella domanda del vecchio padre, Bianca Maria rispose: - Sì. - Che vuoi? Dillo subito. - Voglio il dottore, - ella disse. - Ti senti male? chiese il vecchio, fraintendendo. - No: voglio il dottor Amati. Il padre mise dalle sue la mano della figliuola sulla coltre, ma non disse nulla. - Hai inteso? Voglio il dottor Amati, - ella ripetette, con voce più alta, ma dove già un turbamento fremeva. - No, figlia mia, - egli rispose, cercando di frenarsi, pensando alla malattia, pensando al pericolo. - Voglio il dottor Amati, - diss'ella a voce forte, levando la testa dal cuscino, con un moto singolare. E parve anzi al vecchio che ella avesse digrignato i denti, dopo aver pronunziato, per la quarta volta, la sua strana richiesta. - Non è possibile, figliuola, - mormorò lui, cercando di domare la propria collera bollente. - Va a chiamare il dottor Amati, va subito! - gridò ella, come se gli comandasse. - Tu sei pazza! - gridò lui, levandosi. - Non andrò mai. - Sì, sì, sì, - urlò lei, sollevata sul cuscino, colle pugna chiuse che stringevano convulsamente il lenzuolo, - tu andrai subito, e lo porterai qui, subito, Amati, io lo voglio, vicino a me, sempre con me, va subito! - No, no, no, - urlò lui, a sua posta, senza capire più nulla, - egli non metterà mai piede qua dentro, finché io sono vivo. Margherita era accorsa, sconvolta, un'altra volta disperata, ma più disperata ancora, della novella piega che aveva presa la malattia. Appena la vide comparire, Bianca Maria le gridò: - Margherita, se mi vuoi bene, va a chiamare il dottor Amati! - Te lo proibisco, hai capito? - strillò alla cameriera il vecchio marchese, così esasperato, che le mani gli tremavano, gli occhi lanciavano scintille. - Per carità, signorina, non vi agitate, considerate che parlate a vostro padre.., per carità, Eccellenza, pensate che la signorina è ammalata… non ragiona… - diceva Margherita, piangendo. - Io non sono pazza, io voglio il dottor Amati, - gridò ancora la fanciulla, stringendo le pugna, digrignando i denti, roteando così convulsamente gli occhi, che pareva si vedesse solo il bianco della cornea. - Oh Madonna mia, oh Madonna mia! - continuava a piangere Margherita. - Per carità, per carità, se mi volete bene, andate a chiamare il dottor Amati, - singultava l'inferma, col capo abbandonato, che ogni tanto si sollevava, sbattendo sul cuscino. - È pazza, è pazza, - gridava il vecchio frenetico. - Signore mio, andatevene fuori, ve ne prego, andatevene fuori, - supplicava Margherita, vedendo che la figliuola fissava i suoi occhi, ora carichi di un'intensa collera, ora di un intenso dolore, sul padre e che ciò lo rendeva anche più frenetico. - Me ne vado, me ne vado, ma essa non lo vedrà, il dottor Amati! - gridava, lui, uscendo fuori, sentendo di non regger più. Ma dal salone dove egli aveva portato il suo furore, egli udì un urlo alto, lungo, straziante, come se all'inferma le si attanagliasse la carne: e dopo, altre grida, più basse, ma strazianti ugualmente, tanto vibrava in esse un lamento di dolore insopportabile, e parole alte e basse, che gli arrivavano confusamente. La fanciulla era caduta in convulsioni: a un tratto il rumore si chetava ed allora, tremando ancora, di una complessa emozione d'ira, di pietà, di paura, egli si avvicinava alla stanza, ma non entrava, chiamando la cameriera sulla porta. - Come sta? - Peggio, peggio, - diceva ella, piangendo silenziosamente. - Ma che dice? - Vuole il dottor Amati. - Questo, mai. I brevi dialoghi, però, malgrado che la inferma fosse immersa, a intervalli, in un coma profondo, erano uditi da lei: e due volte, uscendo dal quel torpore, le alte grida erano scoppiate, di nuovo, nella convulsione di tutti i muscoli, specialmente nella spaventosa contrattura di quelli della nuca. Attraverso le grida, quel nome, quel nome che la povera creatura aveva adorato per tanto tempo in segreto, quel nome che era stato per lei il segno della salvazione, quel nome ricompariva, sempre, ostinatamente, in quel delirio, proclamato dall'anima che non conosceva più vincoli, pronunziato imperiosamente, dolcemente, disperatamente, con tale impeto di amore, che Margherita e Giovanni che accorrevano per frenare le braccia della convulsa, si sentivano schiantare il cuore. Di là, come l'inferma levava la voce, ora stridula, ora grave, a invocare il dottore Amati, il marchese Cavalcanti trasaliva, e fremeva di quell'odio ostinato e cieco dei vecchi, che non sanno perdonare. Invano, invano egli cercava di distrarsi, di non udire, di non sentire il dolore disperato di quella invocazione; invano egli chinava il capo, turandosi le orecchie, fuggito nell'ultima stanza dell'appartamento: gli giungeva sempre quel lamento clamoroso, fitto, che nulla arrivava a sopire. Era un incubo, oramai: e malgrado la distanza, malgrado le porte chiuse, egli udiva distintamente, precisamente, le parole di amore e di dolore con cui Bianca Maria invocava il dottor Amati; le parole gli si imprimevano nella mente, gli martellavano il cervello, come una persecuzione. Ciò continuava da un ora e mezzo ed ella non si chetava, non taceva, trovando nuova forza nervosa, per chiamare, per chiamare, come se la sua voce, come se la sua chiamata dovesse passare attraverso le mura, attraverso le strade, dovesse arrivare sino all'uomo che ella voleva, per salvarsi. Ah che incubo, che incubo, udire il delirio della sua figliuola, la quale lo scacciava dal suo tetto e disperatamente faceva appello a un altro uomo! Ogni tanto, come per far finire quella follia parlante, invocante, egli si appressava alla porta della stanzetta, e udiva la voce piana di Margherita che, tenendo abbracciata la sua padrona, cercava di calmarla, mentre costei seguitava, quasi che non avesse più orecchie per altre voci, quasi che ella dovesse chiamare il dottor Amati fino a che lo vedesse comparire nella sua stanza. E il vecchio padre si allontanava, furioso e disperato, tremando di collera e tremando di angoscia, non sapendo più che fare, ora avvilito, ora feroce, indomito sempre, conservando il suo odio, non sapendo placarsi, col sangue che gli bolliva nelle vene, e con un'ambascia che l'opprimeva. Ma a un certo punto, udì suonare il campanello ed entrare qualcuno nell'appartamento e poi nella stanza di Bianca Maria. Formosa restò immobile, stupefatto. Chi era entrato, dunque? Quando Margherita apparve nella stanza ove egli si era rifugiato e lo chiamò con un cenno, egli la seguì, docilmente. Presso il letto dell'ammalata, tenendole le braccia convulse e guardandola negli occhi, era il medico curante, il Morelli, che la povera cameriera aveva chiamato. Ma Bianca Maria, anche sotto le mani ferme del medico, anche sotto il suo sguardo scrutatore, continuava a tremare, convulsamente il capo le si sollevava dal guanciale, dal collo che si tendeva, irrigidendosi: e poi la testa ricadeva di nuovo, accasciata, con un continuo piccolo movimento di va e vieni, mentre instancabilmente ella continuava a dire, ora pian piano, ora acutamente: - Amati… Amati…Amati…voglio Amati… - Ma che ha? - domandò il vecchio padre, congiungendo le mani, con le lacrime negli occhi. - Ha dovuto avere un forte eccitamento, due o tre ore fa, non è vero? - Sì… - Per qualche spavento, per qualche rumore…? - No…non so… - Ma si è esaltata? Ha gridato? - Sì… - Perché l'avete lasciata esaltare? Perché non l'avete contentata in quel che voleva? Sapevate quale pericolo correva vostra figlia! - Io non so…, non so nulla.., che volete che io sappia? - gridò il vecchio, stendendo le mani, implorando come un fanciullo. - Il pericolo della meningite, - disse il medico, a denti stretti. Adesso l'inferma aveva socchiusi gli occhi; il medico le divaricò le pupille: l'occhio apparve vitreo, immobile, come si era immobilizzata tutta la persona. - Dottore, ma che, è morta? - urlò il vecchio, come pazzo. - Paralisi temporanea: è la meningite. - E che si fa? - Eh vedremo. Intanto, vi prego, fate chiamare il dottor Amati. Il vecchio lo guardò, sconvolto. - Che dite? - Mandate a chiamare Amati. Non vedete che ella lo vuole? - …è in delirio. - Sissignore: ma quando lo ha chiesto, doveva esser ragionevole: e anche in delirio, dovete ubbidire, marchese. - Ubbidire? - Vostra figlia è in istato grave, è meglio contentarla… - In istato grave? - Potete perderla, da un'ora all'altra: essa non ha forza, per resistere alla meningite. - Dottore, dottore, non dite questo!. - Oh caro marchese, volete che vi dica la verità? Tanto la povera paziente non può udirci. Voi vi siete negato di chiamare Amati, prima: poi, avete lasciato che la signorina arrivasse a questo stato di esasperazione… Non vorrete continuare in questa negazione, la ragazza muore. - Oh Dio sacrato!… - bestemmiò il marchese. - Andrò io, da Amati… -… non verrà. - Ma perché? Non era il medico curante? E un galantuomo, è un gran medico. -… non verrà. - E andateci voi, marchese. Ora, mentre Cavalcanti faceva un atto di disperazione, la malata si era riscossa, e di nuovo rapidamente, a denti stretti, si era messa a dire: - Amati…Amati… voglio Amati… - Sentite? - disse Morelli. - Ma io non posso, - gridò Cavalcanti, - ma io ho cacciato quell'uomo di casa, non ho voluto che mia figlia lo sposasse, non posso umiliarmi a lui. - Sta bene, ma la fanciulla muore… - disse il medico, trattenendo le mani battenti della fanciulla. - Andate a chiamare Amati, per carità, per amore di Dio, non mi abbandonate, chiamate Amati, - gemeva l'inferma. - Oh Dio! che castigo, che castigo! - esclamava il vecchio, con le mani nei capelli; - ma, dottore, fatele qualche cosa, non la lasciate morire!. - Amati… Amati… voglio Amati, - ella diceva, delirando, stravolgendo paurosamente gli occhi. E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l'emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.

Ma in breve giro di anni tutti i suoi affari professionali eran finiti, poiché egli li sdegnava, li abbandonava: ed era cominciata tutta una esistenza di debiti vergognosi, di espedienti, di raggiri, in cui egli aveva cominciato per raggirare i suoi genitori e aveva finito per tessere le reti degli intrighi e degli imbrogli. Padre e madre, tetri, nel silenzio dell'animo contadinesco che non conosce espansioni, avevano venduto, man mano, tutto, seguitando a sacrificarsi per questo figliuolo che era il loro idolo, che essi adoravano come fatto di una pasta migliore della loro: e si erano infine così ridotti, erano così puniti nel loro orgoglio che aspettavano nella loro vecchia casa che il figlio mandasse loro da Napoli venti, dieci lire, ogni tanto, per mangiare. Ed egli lo faceva, legato a quel suoi vecchi da un amore feroce, fatto d'istinto filiale e di riconoscenza, tremando di vergogna e di dolore ogni volta che costoro lo avvertivano, rassegnatamente, che malgrado la tarda età, sarebbero tornati a lavorare nei campi, a guadagnar la loro giornata, per non essergli di carico: e anche i suoi soccorsi erano scarseggiati, la passione del giuoco lo aveva talmente acciecato che non sapeva neanche togliere dieci lire dalle giuocate, per spedirle ai due disgraziati contadini: e il colpo di grazia, infine, era stato quando egli aveva scritto loro, imperativamente, che vendessero l'ultima casa che loro apparteneva, la vecchia casa, coi pochi mobili e gli utensili di cucina, che tenessero il denaro e venissero a Napoli a stare con lui, avrebbero speso meno e sarebbero stati più felici: un colpo orribile, tanto li sgomentava la parola Napoli. Pure, con uno strazio taciturno, conservando la loro fierezza, fingendo di andare a fare i signori, presso il loro figliuolo signore, a Napoli, avevano obbedito, avevano litigato lungamente sul prezzo della povera vecchia casa e di quei quattro mobili antichi che avevano dal tempo del loro matrimonio; e infine, serbando preziosamente quelle poche centinaia di lire in un sacchetto di tela, viaggiando in terza classe, erano capitati a Napoli sbalorditi, non tristi, ma immersi in quella taciturnità che è la sola manifestazione della tetraggine contadinesca. E avevano vissuto in quell'alberghetto quattro mesi, in due stanze scure perché a primo piano, col figlio che rientrava a ore tardissime, talvolta quando essi si levavano, senza far nulla, senza parlare, chiusi nella stanza, guardando con occhi malinconici e meravigliati, da dietro i vetri, tutto il singolar mondo napoletano che si agita nella stretta e popolosa via dei Guantai Nuovi, rimanendo ore e ore in quella contemplazione dove s'istupidivano, incapaci però di muover lamento, diffidenti di tutto, del letto con le molle, dello specchio dalla luce falsa e verdastra, di quei pranzi miserabili serviti loro nella stanza, a cui non erano abituati e che parevano loro un lusso inaudito, di quei servi che si burlavano dei due contadini, di quella lavandaia che riportava tutte bucate le loro grossolane camicie e che li caricava d'ingiurie, alla napoletana, quando facevano una osservazione. Ogni tanto, superando quell'istintiva ritrosia di discorsi, avevano detto al figliuolo di levarli da quell'albergo, di prendere una casetta, dove la madre avrebbe cucinato, avrebbe fatto i servizii: ma lui aveva dimostrato che ci volevan troppi più denari così, che lo avrebbero fatto più tardi, quando avesse avuto una buona fortuna, che aspettava di giorno in giorno. E intanto, il loro peculio diminuiva: ogni volta che scioglievano, in fine di settimana, la borsetta di tela, avevano una stretta al cuore: spesso, quando cavavano quei denari, essi vedevano gli occhi del figliuolo illuminarsi, come per subitaneo sentimento di desiderio; ma non li aveva mai cercati, si vedeva che faceva uno sforzo a non cercarli. Ogni giorno egli diventava più torbido, più furioso: non mangiava più coi suoi genitori, passava le notti senza rientrare nell'albergo, tanto che pur nello spirito ottuso di quei contadini era entrata l'idea di una grande sventura che li minacciasse. La madre, per ore e ore, sgranava il suo rosario, perché il Signore avesse pietà dei loro vecchi giorni, mentre il padre, più astuto, più esperto, pensava che forse qualche femmina maliarda rendesse così infelice il suo figliuolo. Ma nulla gli dicevano: anche quel lusso in cui vivevano, lusso per essi, malgrado che lo pagassero coi proprii quattrini, sembrava loro una concessione del figliuolo, una grazia che egli faceva ai suoi genitori: e insieme a lui, senza intendere, senza sapere, si mettevano a sperare questa fortuna, che doveva capitare da un giorno all'altro, che li avrebbe fatti signori. Le labbra violette e secche della vecchia contadina si muovevano incessantemente, dicendo orazioni nella piccola, meschina, buia stanza dell'alberghetto dei Guantai Nuovi, mentre il vecchio contadino usciva ogni giorno, passando sempre per la stessa strada, andando cioè in Piazza Municipio e di là sul Molo, a guardare il mare nerastro e i bastimenti del porto mercantile e le navi da guerra del porto militare, affascinato, colpito, nella grande città, solo dal mare, non andando altrove, non sapendo nulla del resto della città, pauroso forse del chiasso delle carrozze, dei ladri, ritornando lentamente sui suoi passi, guardandosi intorno con sospetto. Giammai erano usciti col figliuolo, giammai: posto che eran così vestiti, essi avevan sempre detto di no, quando debolmente li aveva invitati a uscire con lui, intendendo, malgrado la loro grossolanità, che non gli piaceva di mostrarsi con loro; egli era così bello, così signore, col soprabito, col cappello a cilindro. Ma una sera, egli rientrò più agitato del solito. Rapidamente, con una certa durezza nella voce, come egli non aveva mai usato con loro, il dottor Trifari aveva detto ai suoi genitori che per il suo affare, per il suo grande affare, per diventar ricchi, insomma, gli servivano quelle ultime poche centinaia di lire che essi ancora tenevano in serbo: che gli facessero questo ultimo grande sacrificio ed egli avrebbe reso a loro tutto, centuplicato. Parlava presto, con gli occhi abbassati, come se prevedesse e non volesse vedere l'orribile occhiata fredda e desolata che scambiarono i due contadini, colpiti al cuore, gelidi. Stavano muti, il padre e la madre, guardando a terra: e allora lui, presto, affannosamente, cercando di raddolcire la sua aspra voce, li pregò, li pregò se gli volevano bene, che gli dessero quel denaro, se non lo volean veder morto. Ed essi, taciturni, s'incoraggiavano con un'occhiata: con le senili mani tremanti il padre sciolse il sacchetto di tela e ne cavò i denari, contandoli lentamente, con cura, ricominciando ad ogni cento lire, seguendo il denaro con un occhio torbido e con un moto convulsivo del labbro inferiore. Erano quattrocentoventi lire, tutta la fortuna di loro tre. Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

STORIA DI DUE ANIME

682506
Serao, Matilde 2 occorrenze

L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.

In una profonda confusione, egli cadde sovra una sedia, al suo posto, in quella stanza da pranzo, ove erano sempre in due, da un anno e mezzo, e dove, quella sera, gli toccava restar solo, pranzar solo, poichè Anna lo abbandonava, con una libertà di azioni, una disinvoltura e una indifferenza completa. Mai, mai, era restata a pranzo fuori di casa, neppure col padre, nè per un invito formale, nè per una occasione fortuita e, così, a un tratto, per affermare la propria indipendenza, di fronte ai parenti Dentale, ella non rientrava, pranzava altrove, lontana, avvertendone con un biglietto arido, senza una parola di scusa, senza un saluto, senza dire a che ora sarebbe rientrata, togliendogli anche, brutalmente, il diritto di andarla a riprendere, facendogli intendere, chiaramente, che voleva fare il suo comodo e non esser infastidita da lui. - Debbo servire? - domandò timidamente, dalla porta, Mariangela, al suo padrone che, con la testa fra le mani, coi gomiti puntati sulla tavola da pranzo, cercava vincere i suoi nervi tesi dallo spasimo. - Servi pure. Ma della buona zuppa di erbe fumanti, egli non prese che una cucchiaiata: brancicò, col coltello e con la forchetta, un pezzo di carne allesso e lasciò stare tutto. Si passava, macchinalmente, la mano sulla fronte, volendo calmarsi, volendo riprendere un po' di tranquillità, sempre con la paura che qualcuno indovinasse la cura insopportabile che aveva dentro. Anche di Mariangela aveva soggezione, quantunque ne conoscesse la devozione assoluta. E tentò, con uno sforzo, di chiarire, alla sua domestica, quell'assenza così strana, la padrona che lascia la casa e il marito, per andarsene a pranzo, da parenti che egli non vedeva mai, in un rione lontano, per ritornare chi sa a quale ora della sera, forse avanzata. - Me lo imaginavo... - egli mormorò, come fra sè... - Era naturale che donna Francesca Dentale la trattenesse a pranzo... è san Gennaro, oggi... aveva un bell'abito, Anna, oggi? - Sissignore. Quello nero, tutto ricamato di perline. - Oh! E ti ha detto nulla, per me?. - No. Se lo doveva immaginare, però, che sarebbe ritornata di notte, perchè ha portato via la mantellina - soggiunse la domestica, candidamente. - Ah! - esclamò lui, trafitto di nuovo. - E chi ha portato questa lettera? - Un fattorino di piazza. - Da dove veniva? - Da Chiaia, mi ha detto. - Già. E chi gliela aveva consegnata?. - Un giovanotto, mi ha detto. - Ah! - disse lui, senza aver forza di conoscere altro. Col coltello, tagliuzzava minutamente la corteccia dell'arancia, che aveva cercato di mangiucchiare. Si levò di tavola, andò in salotto, vi restò, in piedi, guardandosi intorno con quello sguardo sperso che egli assumeva, nelle ore difficili della sua vita. - Volete del caffè? - chiese la vecchia fedele, dalla porta. - No, no. E per non mostrare anche più la sua miseria morale, aprì un giornale della sera che Anna comperava, con un soldo, quotidianamente, da uno strillone: e che ella leggeva lungamente, per isfuggire, spesso, alla conversazione con suo marito. Mimì scorreva le colonne di parole e di lettere e non intendeva nulla. Due volte, guardò l'orologio: non erano ancora le nove. E pensava, tra sè stesso, che non avrebbe resistito, ad attendere, in casa, Anna. Egli non esciva mai, dopo pranzo: e certo, Mariangela, avrebbe compreso la sua ansia, vedendolo partire: e si vergognava. Ma come resistere? Si sentiva male: correnti di gelo, correnti di fuoco gli attraversavano la persona: ebbe paura di aver la febbre, una febbre improvvisa, che gl'impedisse di andare. Mariangela rientrava, adesso, in salotto e lo guardava coi suoi buoni occhi amorosi e pieni di pietà. Voleva dirgli qualche cosa, si vedeva, mentre egli fremeva di fuggire. - Che vuoi? - chiese lui, rodendo il freno, fingendo una calma perfetta. - Volevo dirvi, don Domenico, che questi sono gli ultimi giorni che resto al vostro servizio ella pronunciò, con uno sforzo per celare la sua emozione. - E perchè? Perchè? - esclamò il padrone, stupito. - Perchè me ne vado - ella soggiunse, rassegnatamente. - Te ne vai? Dove, te ne vai? - Ho una sorella, ad Airola, vicino Benevento; è il paese dove sono nata, Airola. A questa sorella e a me, nostro padre ha lasciato una casetta, una stanza e una cucina sola; niente altro. Vado a morire là, nel mio paese, don Domenico. - E mi vuoi lasciare? Dopo tanti anni! - gridò lui, sinceramente commosso, dimenticando i suoi guai. - Io non vi lascerei - mormorò essa, con dolcezza servile. - È la vita che mi lascia. - Tu puoi campare molti anni ancora, Mariangela! - Ma non posso più servire - ella replicò, sempre con umiltà, a capo basso. - E come vivrai, poveretta? La casa non basta. - Ho qualche soldo, da parte, dopo tanti anni, che servivo qui: io non spendevo nulla, papà vostro e voi, eravate così buoni! Non pensate; avrò sempre un tozzo di pane. - Oh Mariangela, Mariangela, tu te ne vai! - disse lui, dolorosamente. - Te ne vai, così, dopo tanti anni! E Anna lo sa? - Lo sa - disse l'altra, con tono rassegnato. - E che dice? Che ti ha detto? La vecchia domestica non rispose. Mimì ebbe l'animo attraversato da un sospetto. - Non ha detto nulla, per trattenerti? Mariangela levò gli occhi sul volto e, a bassa voce, confessò la verità. - È lei che mi ha licenziata. - Lei? Lei? - Sì, lei. - Licenziata, proprio? - Oggi. Prima di uscire. Per la fine del mese. - E perchè? perchè? - Dice che sono vecchia, che non posso più servire, che non ho mai saputo servire. Sono vecchia, io; ed essa ne vuole una giovane - disse rapidamente, tremando, la poveretta. E per umiltà di animo cristiano, soggiunse: - La padrona ha ragione. Sono vecchia. non mi reggo più in piedi, me ne debbo andare. E, involontarie, sole, due lunghe lacrime discesero sulle guance scarne e rugose, gelide lacrime di vecchia creatura povera e finita, oramai. - Povera Mariangela - disse lui, con un sospiro profondo, ove parve si esalasse tutto il suo rammarico impotente e inutile. Non altro. Il suo tormento lo riprendeva, a morsi atroci, e, senza più aver la forza di reprimersi, afferrò il cappello e uscì di casa, accompagnato dal pio e tenero augurio di Mariangela, un augurio in cui, quella sera, trapelava, anche. la tristezza delle cose che non sono più. - La Madonna vi accompagni, in ogni passo che date. Quando fu fuori di casa, Mimì Maresca, nella molle serata di settembre, attraversata da qualche debole soffio fresco di un autunno che si avanzava, quando i suoi rapidi passi lo ebbero portato, dalla stretta e tetra e deserta via di Donnalbina, ove solo due fanali a gas, fiochi, diradavano le tenebre, in via Monteoliveto, bene illuminata, animata da viandanti, in ogni senso, attraversata continuamente dai trams che venivano da lontano, dai quartieri estremi sul mare, quando egli fu tra la gente, camminando in fretta, si sentì sollevato. un poco. Niuno sapeva dove corresse quell'uomo dallo scialbo e floscio viso, tutto assorto in un pensiero fisso, ed egli stesso andava, andava, verso via Fontana Medina. verso Piazza Municipio, spinto da un istinto di ricerca affannosa, d'inquieta indagine. Come quegli si accostava al centro della città, l'animazione della sera di morente estate, si facea più viva. File di donne passavano, venendo da Santa Lucia, da Chiaia, risalendo verso Toledo, verso i quartieri alti: altre file discendevano, e tante donne erano vestite di chiaro, quasi tutte; e molte erano vestite di bianco; e dei ventaglini si agitavano, nelle mani muliebri, delle risa trillavano, qua e là, una gaiezza circolava nell'aria, nelle cose, nelle persone; e i caffè avevano le loro tavole sui marciapiedi, sulle piazze, e la folla le occupava da pertutto; e delle musiche risuonavano, eseguendo dei pezzi popolari, delle canzoni alla moda, delle arie di ballo. Era giorno di festa, infine, per chi rispettava san Gennaro, il Patrono: e, sovra tutto, era una di quelle splendide sere di settembre, quando la gente si riversa ovunque si possa godere il fresco, sotto il chiarore delle stelle. Colui che scendeva per via Chiaia, sempre a piedi, sempre rapidamente, Mimì Maresca, percepiva superficialmente lo spettacolo così vivido e così simpatico della sera di estate: egli si urtava con le persone, scansandosi macchinalmente, proseguendo la sua via, cieco e sordo a ogni altra cosa, che il suo furioso desiderio non fosse: ritrovare Anna, subito, riprendersela, riportarsela a casa. E, animato da questa monomania, non si fermava a rammentare tutti i particolari bizzarri di quell'avventura disgraziata: la premeditazione, certo, che Anna aveva avuta in quella giornata: la brevità offensiva del biglietto: quel foglietto di provenienza non femminile: e quell'uomo, quel giovanotto che aveva consegnato la lettera al fattorino. No, tutto ciò gli era sfuggito dalla mente; egli correva, soltanto, per ritrovare Anna, non sapeva altro, andava, andava, diritto innanzi a sè. Fu sotto le grandi lampade elettriche di piazza Vittoria, ove i più bei palazzi patrizi mettono le loro facciate, ove il più elegante club di Napoli, il Nazionale , aveva la sua veranda illuminata e, fra le piante, sdraiati nei seggioloni di paglia, i socii sorbivano delle bevande ghiacciate e fumavano delle sigarette, fu solo lì, in piazza Vittoria, fra un andirivieni di persone, fra il rumorio sempre più forte dei trams , che Mimì Maresca si fermò di botto. Dove andava? Dove andava? Non ignorava, egli, forse, l'indirizzo di Francesca Dentale? Dove andava? Egli sapeva soltanto che la bella cugina di Anna, sua moglie, abitava alla Riviera di Chiaia; ma quella via è così lunga, così lunga! Sapeva, ancora, che Francesca Dentale abitava verso la Torretta, alla fine, proprio alla fine della Riviera di Chiaia, ma dove, specialmente, a qual numero, egli lo ignorava, Dove si dirigeva? A chi chiedere? In che posto fermarsi? Con quale indizio trovare questa casa? La sera si inoltrava, la Riviera di Chiaia, fatta di grandi edifizi aristocratici, fiancheggiati da piccole case borghesi, aveva pochissime botteghe, quasi tutte chiuse, o che si andavano chiudendo. Dove andava, dunque, Mimì Maresca, in una regione di Napoli così lontana dalla sua, in vie belle e popolose, ma che egli non frequentava quasi mai, dove andava, a cercare sua moglie, una donna, in una grande strada lunghissima, di cui l'occhio non scorgeva la fine, la cui larghezza impediva di riconoscere qualcuno, da un lato all'altro, con un fluttuamento costante di persone, con un movimento rapidissimo di equipaggi, dove andava egli, dunque, a cercare Anna, in una casa sconosciuta, egli non esperto, non pratico, profondamente scosso e già pentito dell'invincibile impulso che lo aveva spinto colà? E, dove andava, dunque, costui, quando gli si era detto che non lo volevano? Perchè andava, quando niuno lo desiderava, quando, egli ne era certo, sarebbe giunto inaspettato e mal gradito? Dove andava egli mai, quando la volontà di Anna era stata così chiara, così limpida, proibendogli di andarla a prendere, poichè aveva compagnia, e migliore della sua? Dove andava, quando ella lo aveva confitto a casa, in via Donnalbina, con quel biglietto, quando ella non voleva saperne, della sua presenza, divertendosi, ballando, forse, fra gente del suo ceto, ed escludendo lui, escludendolo assolutamente, lui popolano, pittore dei santi, senza finezza, goffo, goffissimo, insopportabile a lei? Dove andava mai, dunque, per farsi ricevere come un cane in chiesa, anche se avesse ritrovata la casa di Francesca Dentale, per farsi scacciare, forse, da sua moglie? E tutto l'ardor di ricerca, dunque, di Mimì Maresca era caduto: la debolezza spirituale, che era il fondo del suo essere, lo assaliva, novellamente, gli spezzava le forze fisiche e le morali. A passi lenti, oramai, si era messo sul marciapiede che rasenta il trottatoio della Villa e si trascinava lungo la ringhiera di ferro che difende i pedoni, alla mattina, dal trotto dei cavalli, su cui gli sportmen vanno e vengono, sotto le ombre dei grandi alberi del giardino pubblico, Di sera, alle nove e mezzo, non vi erano sportmen , ma il marciapiedi era ancora affollato, con la freschezza settembrina, con i profumi che venivano dai giardini di casa Colonna, di casa Alvarez de Toledo, del Vasto, di Monteleone. I suoi pensieri, in piazza Vittoria, avevan distrutto la sua esaltazione momentanea e, con essa, la sua momentanea forza. Camminava, sì, ma come un'ombra folle e vana, rallentando il passo, fermandosi, fissando gli occhi innanzi, ma senza vedere nulla, respinto spesso da chi gli passava accanto, respinto a diritta, a sinistra, sorpreso, costantemente, dal passaggio filante e rumoreggiante dei trams pieni zeppi di donne e di uomini, che tornavano da Posillipo, dalla Torretta, trasalendo a ogni volto femminile che gli appariva, e non osando neppure fissarlo bene, quasi avendo paura, oramai, d'incontrare sua moglie, chiedendo a sè stesso perchè non fosse restato, laggiù, nella solinga casa di via Donnalbina, ad aspettarla, come essa gli aveva ingiunto, perchè non le avesse ubbidito, senza discutere, anche a costo di soffrire le più acute torture, poichè il suo destino, oramai, era di vivere e di morire per lei, vivere di dolore e morire di dolore, ancora chiedendo perchè, perchè mai si trovasse colà, a quell'ora della sera, sgomento di un incontro, di cui sentiva il presentimento fatale nel suo spirito. Sfiaccolato, affranto da una giornata di fatica materiale, passata in piedi, e da una crisi morale che aveva debellato le sue fragili e fugaci energie, tremante di un pericolo morale di cui, con singolare percezione, egli pareva sentisse la imminenza, Mimì Maresca, mise moltissimo tempo per giungere, come uno spettro vagolante, sin quasi alla fine della Riviera di Chiaia, ove, forse, sorgea la casa di Francesca Dentale, ove, forse, stava Anna, sua moglie, e dove egli, adesso, aveva un terrore invincibile di ritrovare questa casa e di ritrovar questa donna. Egli si era arrestato, macchinalmente, in un punto ove l'andare e venire della gente, nella limpida e morbida sera di estate, era più forte e più allegro. Innanzi a Mimì Maresca che stava immobile, sul marciapiede, in un incrocio largo di binarii, vi era la grande fermata dei trams della Torretta: la Riviera di Chiaia vi finiva, biforcandosi in due strade, quella di Mergellina, quella di Piedigrotta, una che andava a Posillipo, verso il mare sonoro e fragrante, una che andava verso la campagna di Fuorigrotta, nell'ombra solinga e odorosa delle vigne e degli orti, Alle sue spalle, una larga, ma breve traversa, frequentatissima, conduceva all'elegante e aristocratico Viale Elena, conduceva tra palazzi maestosi e villini civettuoli, alla magnifica via Caracciolo. E i carrozzoni dei trams , dalla città, dal mare, giungevano carichi, gremiti di persone, alla fermata della Torretta, ove altra gente attendeva, in piedi, per prender posto, ove molti scendevano, molti salivano, fra gli squilli di campanelli, il rumorio delle voci e il fragor sordo e continuo degli equipaggi signorili, delle carrozze da nolo, e i canti lontani e vicini, e tutto un chiasso umano, ora basso ora alto, ora dolce ora stridente. Continuamente Maresca era urtato, spinto, investito, talvolta da gruppi di persone, mentre, alle sue spalle, in via Mergellina e nella larga traversa, il Caffè Stinco aveva collocato i suoi tavolini all'aria aperta, tutti occupati da gente. Ogni tanto, Mimì Maresca indietreggiava, verso la traversa, verso il Viale Elena: una volta, lentamente, trascinando i suoi piedi morti di fatica e la sua anima morta di tristezza, giunse sino alle acacie del Viale Elena. E fu in fondo a questa traversa che una donna, passando, lo sfiorò e si voltò, subito, a guardarlo, fisamente; la donna mosse pochi passi, indecisi, innanzi: poi, a un tratto, si voltò di nuovo, gli venne incontro, gli si piegò, vicina, dicendogli, con voce bassa e roca: - Non mi conosci? Non mi conosci più? Al chiarore che veniva da una bottega illuminata, ove delle stiratrici lavoravano, nel biancore delle tende e della tavola da stiro, egli fissò bene la donna e la riconobbe Gelsomina, che toccava i venti anni, pareva fatta più alta e più magra: il suo vestito di mussolina bianca, tutto adorno di merlettini bianchi, pareva che le andasse largo, un po' cascante sul busto e sui fianchi. Sotto un grandissimo cappello nero, carico di corte piume nere, il suo viso sembrava più smunto, più allungato. Era oltraggiosamente carico di rossetto e di polvere di riso: il colorito naturale di questo viso era sparito, completamente: sottolineati di bistro i suoi occhi, e delineate, anche in bistro, le sovracciglie fini: con atto costante, ella seguitava a mordersi le labbra, per farle diventar rosse. E, strano a dirsi, era leggermente toccato, delineato col rossetto, il segno che ella portava dalla sua nascita, sul mento, la piccola voglia, la piccola fragola. Alle gentili orecchie portava dei pesanti orecchini; delle grosse pietre verdi, quadrate, circondate da pietre bianche, falsi smeraldi con falsi brillanti. Al collo, aveva una grossa spilla, simile: e, sul braccio, uno scialletto di seta rossa, di un colore vivissimo. - Non mi riconosci? Non mi vuoi riconoscere? - ella domandò, ancora, con quella sua voce lamentevolmente rauca. - Sì, sì, - mormorò lui, con una pena immensa - ti riconosco, sei Gelsomina, buona sera! - Non mi chiamo più così! - replicò ella, crollando il capo. - Gelsomina non esiste più. - E come ti chiami? - Fraolella , solamente Fraolella . Tutti così mi chiamano. - Chi, tutti ? - chiese lui, inconsciamente. Ella lo guardò, amara, senza rispondere. Sparita, per sempre, da quegli occhi grigiastri e grandi la espressione maliziosa di dolcezza infantile e l'altra, anche infantile, d'improvviso smarrimento: un avvicendarsi, invece, di una rassegnazione passiva, di una tristezza torbida, di una curiosità dolente, di uno stupore dolente. E quegli occhi ove tutta la sua istoria si poteva leggere, per chi ricordava quelli di un tempo, quegli occhi donde tutta la gioia della innocenza e della gioventù era fuggita, contrastavano malamente con quel viso delicato, tutto imbellettato. - E che fai, qui, a quest'ora…. Fraolella ? - domandò Mimì, per dire qualche cosa, superando la sua pena. - Aspetto... aspetto qualcuno... - ella rispose, girando la testa in là. - Un innamorato? - Già. - Don Franceschino Grimaldi? Un breve riso, impresso di cinismo, uscì dalle labbra dipinte e morsicchiate di Gelsomina. - Le tue notizie sono vecchie! - ella esclamò, ridendo ancora, e fermandosi, subito, per respirare, come un tempo. - Non è più il tuo innamorato? - Ma no! - Lo hai lasciato? - Mi ha lasciata - ella soggiunse, piano, come se parlasse in sogno - Dopo tre mesi, mi ha lasciata. - Così poco? - Così poco, Mimì - disse lei, mentre, nella arrocatura della voce, qualche cosa tremava. Temeva,.. temeva.., qualche guaio... un figlio… - Non vi è stato..?- esitò lui, a domandare. - No..- niente... meglio così, Come avrei fatto, Mimì? Mi sarei dovuta buttare dalla finestra. Essi si guardarono, un momento, ambedue stravolti. Stavano innanzi a quella bottega, ove si lavorava, a grandi colpi di ferro e, vicinissimi, parlavano piano. La gente che passava, o non si accorgeva di loro, andando ai suoi piaceri e ai suoi doveri, o, accorgendosene, aveva un sorriso maligno, vedendo l'interesse di quel colloquio, credendo a discorsi amorosi o, piuttosto, a discorsi sensuali, fra quella giovine il cui aspetto, ahimè, non ingannava nessuno e quell'uomo giovine, smorto, che l'ascoltava attentamente. - Ascolta, Mimì, ascolta, - ella proruppe, ma pianissimo, dopo essersi guardata intorno, e mettendogli una mano sul braccio - due o tre volte, mi son voluta buttare dalla finestra… - E chi ti ha fermato, chi ti ha fermato? - chiese lui, ansiosamente. - La paura. Ho venti anni. Ed ero in peccato mortale! E chi si uccide, è chiaro, muore in peccato mortale! - Ma perchè volevi morire, Gelsomina? - esclamò lui, obliando di chiamarla col suo soprannome, - Faccio una vita disperata, Mimì - rispose lei, chinando il capo sul petto. Tacquero, un poco. Come il senso della fatalità passava sulle loro teste, sulle loro vite, egli, infelice, tentò reagire, e rispose: - Non ti potrei salvare, io, non potrei? - Tu? - disse lei, con accento singolare. - Io, si, io! Dimmi se posso, dimmelo, purchè io non ti sappia… così… purchè io non ti vegga... in questo stato. - Tu non puoi fare niente - ella rispose, con una tetraggine cupa, - Niente. - Ma perchè? - Perchè troppo tardi. - Troppo tardi? - È troppo tardi - ella concluse, aprendo le braccia, con un gesto desolato, non volendo soggiungere altro. Pure, vi era tanta espressione di rammarico inconsolabile, di un lungo rimpianto antico, senza conforto, tanta evocazione di un passato che era stato dolce e che avrebbe potuto essere felice, che egli, ottuso, sordo e cieco, intese il rimprovero, ma senza approfondirne la essenza disperata. Girò lo sguardo intorno, vagamente, come a raccogliere le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi ricordi: ma preso dal suo dolore personale, ancora più veemente, perchè non espresso, non trovò nulla da soggiungere. Ella fece un atto lieve, di disdegno pietoso, con le labbra, innanzi a quella sordità, a quella cecità e riprese, lentamente, parlando in sogno come un tempo: - Solo Dio.. solo la Madonna.. possono fare qualche cosa, per me… - Ma tu li preghi? - Tu preghi, ancora? - chiese lui, con ansia ingenua. - Ancora: indegnamente. Ho portato dei ceri all'Addolorata di Santa Brigida.. ho fatto tanti voti... voglio andare scalza, da Napoli a Valle di Pompei... - Ebbene? - Niente - disse lei, con voce desolata, - Bisogna pregare, sempre: sperare sempre… - Tante altre, come me, tante altre poverette, hanno pregato, hanno fatto voti… e nulla hanno ottenuto... Certe non pregano più... forse così vuole, Dio, per farci fare il Purgatorio in terra ella disse, con quello accento di sogno, di lungo sogno interiore e triste. - Così vuol Dio, forse! - Amen - disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa. Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso: - E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio? - No - egli disse, trasalendo. - Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne? - Mi dispiace - rispose lui, sempre a occhi bassi. - E ad Anna, dispiace? - No. Le fa piacere, non aver figli. - Piacere? Piacere? - gridò lei, stupita. - Le può far piacere, questo ? - Già. - Non ha cuore, dunque? Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell'interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo. - Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene? Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un'altra ambascia lo soffocava: ma in quell'ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall'acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell'ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato. - Anna non ti vuol bene? - chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza. E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sè stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella , portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella , rispose questo: - No, Anna non mi vuol bene. Un silenzio tragico regnò fra loro. - E allora, allora - lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino allora, è stato inutile che tu la sposassi? - È stato inutile. - Sei certo, che non ti vuol bene? - Come della morte, ne sono certo. - Oh Dio! - disse lei, celandosi il viso tra le inani. - Essa mi ha sposato per il danaro - continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. - Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai... - Gesù, Gesù... - ripeteva lei, sommessamente. - Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola. Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo... - Che ingrata... che ingrata... - La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse ... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi ... - Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi? - Gelsomina, Gelsomina, - gridò lui, giunto al colmo del parossismo - da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato... - Non sai dove è? - Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci! Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza: - Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto! - Mai, lo avessi fatto, mai! - gridò lui, disperato. - Era meglio morire che far questo! E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti. - Almeno... - mormorò lei, lentamente - almeno... ti è fedele? - Sì - disse lui, sordamente. - Mi è fedele. - Ne sei sicuro? - Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all'amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto... - Tuo padre, Mimì? Tuo padre? - Nulla - disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. - Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, l'hai un innamorato... - Già! - disse lei, con un riso cinico. - L'hai detto tu! - L'ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto - continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime - che non ha nè arte nè parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita , che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato! - Che orrore! - esclamò lui. - Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho, dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!... - Capisco! Che orrore! - Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?. - Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui? - Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo. Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato, Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina... - E non puoi lasciarlo? - Egli mi ucciderebbe - disse lei, tetramente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ambedue, tacendo, eran ritornati dal Viale Elena, verso la Torretta: e camminavan un po' lontani l'uno dall'altro, oppressi, schiacciati, ognuno, dalla propria sventura, più angosciati, ancora, dell'incontro che avevano fatto, l'uno dell'altro, più esterrefatti, ancora, dagli sfoghi terribili che avevan fatto, ognuno, della propria miseria, senza che, malgrado la compassione, malgrado la tenerezza, l'uno potesse consolare l'altro. La gente era meno folta, perchè l'ora si avanzava: un'aria assai più fresca, soffiava, dal mare. Macchinalmente, Gelsomina si gittò sulle spalle, si strinse al collo, il suo scialletto rosso, di un rosso ardente. Un istante, restarono fermi allo sbocco della traversa, sulla Riviera di Chiaia, rimpetto all'incrocio dei trams della Torretta, che giungevano, partivano, ora, meno colmi di persone, con un tinnìo di campanelli più languido. E a un tratto, quasi involontariamente, dalle labbra della poveretta, escì un grido: - Ecco Anna. Dirimpetto ai due, ma lontana, Anna Dentale aspettava, in piedi: e malgrado la distanza, si riconosceva, al suo viso bellissimo e calmo, ai suoi grandi occhi che vagavano, placidamente, intorno, in attesa quieta di qualche cosa. Ella era vestita riccamente di nero e delle pagliuzze scintillavano, su lei, qua e là, alla luce elettrica delle grandi lampade; una mantellina ricca le stringeva le spalle e una mano guantata di bianco, ne appariva, fra i merletti, tenendo delle rose bianche, un fascetto di rose, mentre l'altra era abbandonata lungo la persona, stringendo un ventaglio. Anna non era sola. Accanto a lei stava un giovanotto alto e snello, dalla ben formata persona, vestito elegantemente di oscuro, con un cappello di paglia, sul capo: un giovanotto dal viso fresco e grazioso, sul cui pallore fine si arcuavano dei sottili baffetti biondi, brillavano gli occhi oscuri e scintillanti, la cui bocca era sfiorata da un sorriso di compiacenza e di sarcasmo. Ogni tanto, questo giovine, che si teneva accanto ad Anna, si chinava verso lei, e le diceva una parola, con un sorriso anche più espressivo, mentre ella gli levava gli occhi, in viso, gli sorrideva, tenuemente, gli rispondeva a fior di labbro. E i due, Anna Maresca e Mariano Dentale, soli, a quell'ora avanzata, a cui la serata di metà settembre, dava una poesia anche più intensa, colpiti vivamente dalla luce elettrica, sul loro lato, non vedevano chi passava loro accanto, non scorgevano chi li guardava, dall'altro lato della via. Al grido di Gelsomina, che indicava Anna, Domenico Maresca, aveva avuto un sussulto, aveva cercato, con gli occhi, dapertutto, esclamando. - Anna... dove... dove...? - Là - indicò l'altra, con un gesto breve, della mano, con un accento bizzarro. Tutto vedeva e scorgeva, adesso, il povero Domenico Maresca, stupefatto, inchiodato al suo posto da quella visione. E nell'inaspettata, mortale rivelazione che chiudeva orribilmente il suo calvario di quella giornata, in quella rivelazione che infrangeva, di un colpo solo, tutta la sua ultima sicurezza, come tutti i deboli, come tutti i fiacchi, una paralisi morale lo abbattè, una paralisi fisica gli legò i piedi, le mani, la voce. Non visti, Gelsomina e Domenico scorsero, dall'altra parte della lunga via, Anna e Mariano scambiare qualche parola, ancora, fra loro, poi avanzarsi, un poco, in linea retta, verso loro: e Gelsomina udì il pittore dei santi, spaventato, dire con voce sorda, come se morisse. - Oh Dio... oh Dio! Ma, fra i quattro personaggi, un trams che veniva da Posillipo si fermò, s'interpose. Nell'istante della fermata, dall'altro lato, Anna e Mariano, leggermente, disinvoltamente, vi salirono, si sedettero, uno accanto all'altro, tranquilli e sorridenti, con l'aria soddisfatta di chi completa bene la propria giornata. E, avanti a Gelsomina e a Domenico, il tram filò, nettamente, fuggendo, sparendo, verso l'alto della Riviera di Chiaia. Solo allora, vincendo il suo profondo stupore, Domenico Maresca, con un ruggito forte, tentò slanciarsi: - Dove vai?, dove vai? - lo trattenne, Gelsomina, afferrandolo pel braccio. - Lasciami!... lasciami!... - smaniò lui. - Sono lontani... - mormorò lei - non li raggiungi più. Erano lì... ora sono lontani. - Dove andranno? Dove vanno? - chiese lui, puerilmente, con un singhiozzo nella voce. Ella ebbe una lieve stretta di spalle, innanzi a quella domanda imbelle. - Eh! chi lo sa! A casa tua... forse... - Credi? Credi che Anna rientri a casa? - balbettò lui. - Credo. - La troverò, tu dici? - Eh! sì, sì, la troverai! - s'impazientì lei, dinanzi ad una viltà così profonda. - E se non vi è? Se non vi è? Gelsomina non rispose. Distratta, occhieggiava a diritta e a sinistra della Riviera di Chiaia, come se dovesse scorgervi qualche cosa di strano, ma di cui fosse in attesa, in agitata attesa. - Se non la trovo, Gelsomina, se non la trovo, che ne sarà, di me? - gemette l'infelicissimo. Ella non l'ascoltava più, vinta, adesso, dalla imminenza di qualche cosa che temeva e che, senz'altro, doveva accadere. E come un fanciullo debole e malato, Domenico Maresca gemette, ancora: - Gelsomina, se non la trovo, io ti vengo a cercare! Dimmi dove stai, io ti vengo a cercare, se non la trovo... - A far che? - disse lei, con una voce ove fischiava l'ironia. - A piangere con te... a piangere... Gelsomina, se non la trovo! Dimmi, dove stai? - No - disse lei, brevemente. - Ma perchè? Perchè? Neppure tu! Neppure tu! - Non posso - ella soggiunse. - E perchè, non puoi? Perchè? Se non la trovo, che ne sarà di me? - Guarda - ella disse, con un cenno. Verso loro due si avanzava un uomo, un giovane. Portava un vestito grigio chiaro, attillatissimo, un cappelletto nero sull'orecchio, le mani in tasca, un bastoncino che usciva da una delle tasche: le sue scarpe scricchiolavano: e tutta la sua persona di una volgare beltà, aveva un'andatura provocante, la sua faccia bella e triviale, un'aria provocante. Di lontano, scorse Gelsomina che parlava con Domenico, si fermò. Egli attese, così, un minuto. Poi un fischio leggiero e lungo gli escì dalle labbra. - Eccomi - disse, come fra sè, Fraolella . - Qui sta il cane. E senza voltarsi, senza guardare, soggiunse, al pittore dei santi: - Addio, Domenico. Il pittore dei santi la vide allontanarsi, rapidamente, fermarsi col giovanotto, parlargli, a lungo. Costui, silenzioso, con un mozzicone spento all'angolo della bocca, l'ascoltava, con le sovracciglia aggrottate, l'occhio torbido. Precipitosamente, con grandi gesti, Fraolella continuava a dare spiegazioni, mentre l'altro, sempre più arcigno, crollava il capo. E si allontanarono, ambedue, nella notte: l'uomo, innanzi, col suo passo elastico, con lo scricchiolìo dei suoi stivalini, con il suo aspetto spavaldo: la donna, più indietro, con passo stanco, con le spalle curve, a capo chino, come un povero cane. Sdraiata in una poltroncina del suo salotto, Anna leggeva un libro, quietamente. Aveva indossata una vestaglia bianca, le sue belle mani escivano dalle maniche larghe. Quando Domenico rientrò in casa, era mezzanotte. E, stravolto, si fermò sulla soglia; un profondo sospiro gli sollevò il petto. Ella appena levò gli occhi, dalla lettura: - Sei qui, Anna, sei qui! - balbettò lui. - Dove dovrei essere? - chiese ella, freddamente. - Ti aspetto da tre quarti d'ora. È tardi. - Ero venuto... ero venuto, a cercarti... - Ti avevo detto di non farlo - replicò lei, con un lieve aggrottamento di sopracciglia. - Io ti ho cercata... laggiù... tutta la serata. - Hai fatto male - ella concluse, rimettendosi a leggere, senza dargli più retta. E Domenico, a un tratto, esplose la sua angoscia, tutta la sua angoscia: - Ti ho incontrata, Anna, ti ho vista! Non eri sola! Ho visto con chi eri! - Ebbene? - chiese lei, glacialmente, posando il libro sulle ginocchia. - Eri con Mariano Dentale, con Mariano! - E poi? - chiese, ancora, Anna, fissando suo marito negli occhi, con tale una collera gelida che egli allibì. - Con Mariano... con Mariano... - gridò Domenico, pianse Domenico, torcendosi le mani. Anna si alzò, chiuse il libro, lo posò sul tavolo, si avviò verso la stanza da letto, piena di un'ira muta, superbissima di sdegno taciturno. - Con Mariano... con Mariano, Anna! - piangeva lui, nella idea fissa. - Se dici un'altra parola, Domenico, - pronunciò lei, nettamente, dalla soglia - prendo il cappello e me ne vado. Ed egli tacque.

Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Abbandonava fra le mie la sua mano senza guanto, quella piccola mano affilata, tiepida, colla pelle fine come il raso. "Che sciocca sono stata a farmi vedere da voi tra le scene!" soggiunse. "Non me lo sono mai perdonato! La colpa è mia. Vi ho letto in cuore come su di un libro aperto ..." Mi strinse la mano, per proibirmi di rispondere; mise la testa fuori lo sportello e soggiunse come parlando a se stessa: "Rincresce davvero l'aver sciupate certe illusioni ... Anche delle illusioni!..." "Guardate!" esclamò con infantile vivacità poco dopo, tirandomi per la mano. "Guardate com'è bello!" Misi anch'io la testa fuori dello sportello. Il legno correva pei deliziosi viali dei colli. L'alito di lei mi sfiorò il viso, e un brusco movimento della carrozza spinse il suo volto sul mio. "Oh!" esclamò sorridendo e arrossendo, e buttandosi vivamente indietro. "Che bella sera! Vogliamo scendere?" Saltò a terra leggiera come un uccelletto, e siccome la notte era freddina, si strinse al mio braccio. "Che bel freddo!" esclamò ridendo e rabbrividendo con tanta grazia che mi comunicò il brivido delle sue membra. "Corriamo!" E corremmo come due fanciulli, ella posando appena i suoi piedini sul suolo, compiacendosi del fruscio della sua veste, e tirandosi sul viso il mantello che il vento gonfiava. "Oh, com'è bello!" esclamava quando non tremava dal freddo. "Oh! che bella sera!" Quando fummo di nuovo in carrozza ella chiuse tutti i cristalli, e si rannicchiò in un angolo del legno tremando e ridendo a sbalzi: "Accostatevi di più" mi disse; "ho freddo." Le misi un cuscino sotto i piedi, e il paletò sui ginocchi. "Ma voi avrete freddo!" diss'ella. "Facciamo a metà." Tirò indietro i suoi piedini, e gettò sulle mie spalle metà del suo mantello di velluto. "Eccovi metà del manicotto," soggiunse."Avete le mani gelate! Che piccole mani che avete, signore!" E poscia con un sospiro tutto gaio: "Ah come si sta bene così!" Sentivo il suo corpicino delicato, tremante, raggomitolato in un cantuccio, e che mi mandava sul viso il suo alito tiepido e profumato. "Che avete che non parlate?" mi disse dopo un breve silenzio. "Nulla." "Siete contento di questa passeggiata?" "Sì." "Anch'io!" esclamò, e un istante dopo, con quella sua bizzarra mobilità di pensiero: "Fate anche dei ritratti?" "Sì." "Volete fare il mio?" "Sì" "Mi farete bella?" "Come siete." "Vi piaccio?" "Assai!" "Anche voi mi piacete." Tutto ciò con tal franchezza e tal semplicità come se fossimo fratello e sorella, o forse la cosa più naturale di questo mondo. "Ebbene, che fate adesso?" mi disse vedendomi sedere di faccia a lei. "Ho bisogno di guardarvi in faccia!..." Ella sorrise dolcemente, con quello stesso sorriso di piena e schietta ingenuità, piegò la testa all'indietro, socchiuse gli occhi, schiuse le labbra senza far motto. E piovvero da tutta la sua persona su di me le sue emanazioni inebbrianti. Poscia scoppiò a ridere allegramente: "Oh! che matti! che matti!... ma pure è una gran felicità esser matti di tanto in tanto!... Quanta noia in tutto il resto!" "Anche il teatro?" domandai. "Oh, soprattutto il teatro." "Allora perché non lo lasciate?" Ella mi guardò sorpresa, con quei suoi grand'occhi spalancati da bambina, e mi disse ingenuamente: "Ma è il mio mestiere, signore!" "Ah!" "E poi ci sono anche dei bei momenti." "Gli applausi?" "Sì ... in mezzo a tutti quei lumi, e quella musica, e quegli entusiasmi ... e si sente bella ..." "Si sente?" "Sì, proprio! Da principio anche cotesto fa una certa paura ... a trovarsi così bella e così poco vestita sotto tutti quegli occhialetti che luccicano ... È qualcosa che fa piacere e fa soffrire. Poscia quei sorrisi, quegli occhi, quelle grida, quelle mani inguantate che si sporgono fuori dei palchi, montano alla testa come una febbre ... E poi c'è anche una grande soddisfazione d'amor proprio." "Quale?" "Quelle di sentirci dire da tanti signori eleganti che siamo più belle di quelle gran dame superbe che ci guardano sdegnosamente come cagnolini ammaestrati." "Ah! le visite sul palcoscenico?" "Sì, e anche in casa." "Vi piacciono?" "Sì, ce ne sono di quelle che piacciono" Diceva tutto questo guardandomi tranquillamente negli occhi, con una grand'aria di semplicità e di naturalezza. "Che cosa avete che non dite più nulla?" "Proprio nulla." "Vi dispiace che vi abbia detto queste cose?" "Oh, no!" "Poiché fra le visite che mi piacciono c'è anche la vostra. È vero che non me ne avete fatte, ma me ne farete." "Oh, no." "Come no?! Perché?" Ella aspettò lungamente la mia risposta, e riprese con la voce dolce ed il fare insinuante di un bambino che teme di aver torto: "Ma se chiudo la porta in faccia a tutti quei signori sarò fischiata ... E allora a voi per primo non sembrerò più bella ..." C'era una sincerità, tale accento di verità nella sua voce, che non seppi che cosa rispondere a quell'osservazione di cui la cruda verità mi spezzava il cuore. Anche lei s'era fatta pensosa, e teneva il capo chino fra le mani. La carrozza si fermò. Essa mise fuori il capo dallo sportello e mormorò: "Diggià!" "Volete tirare il campanello del primo piano?" mi disse. Al primo piano c'erano le finestre illuminate. "C'è gente da voi!" "Sì," mi rispose semplicemente e prese la mia mano. Si era fatta improvvisamente triste. Erano le due del mattino; la carrozza era partita; la strada era deserta e vivamente rischiarata dalla luna. Eravamo soli, davanti a quella porta, come un commesso ed una sartina che fanno all'amore di nascosto. "Verrete a trovami?" domandò. "Forse." "Perché forse? Non potete promettermelo?" "Temerei di mancare." "Ah! temete diggià di mancare!" Mi scosse la mano, dopo un breve silenzio, e ripeté con voce quasi supplichevole: "Venite a trovarmi!" "Verrò." "Ah! bravo così! Domani?" "Domani." "Verrete a prendermi dopo il ballo?" "Se lo volete ..." "Ma non lo voglio! Mi fareste un piacere, ecco!" "Ebbene, sì!" "Arrivederci, dunque." E scomparve nell'andito. Avevo fatto una ventina di passi quando udii che mi chiamava per nome. Era la prima volta che udivo il mio nome in bocca sua, e mi parve che mi mescolasse tutto il sangue. Mi volsi - era ancora sulla soglia - e la luna l'irradiava tutta. "Dove abitate?" mi domandò semplicemente. "In Santo Spirito." E le dissi anche il numero. "Che piano?" "Il terzo, l'ultimo." "Buona sera!" e stavolta partì davvero. *** Rimanevo estatico, come inchiodato davanti a quella porta, respirando l'aria fredda della notte a pieni polmoni. Sentivo un'esuberanza di vita quasi dolorosa, che mi dilatava e mi comprimeva il cuore a vicenda. Mi pareva che ella dovesse guardarmi dietro i vetri, e quelle finestre illuminate, dinanzi alle quali passavano tutt'altre ombre che la sua, mi abbacinavano gli occhi. Si, ero geloso di quegli uomini che l'aspettavano in casa sua, alle due del mattino, e li vedevo belli, orgogliosi e sorridenti, rubarmi le sue parole, la sua vista, e la felicità. Vidi come un baleno dell'avvenire; mi trovai povero, solo, meschino, ridicolo, abbandonato su quella soglia, tremante di freddo e divorato dall'invidia! Che cos'ero io per disputare quella donna a quegli uomini felici? Provai dispetto, vergogna, gelosia rabbiosa; sentii che la vertigine di quella sera mi strappava violentemente da tutte le mie affezioni, e mi gettava nell'ignoto. Ebbi paura, e l'orgoglio mi diede la forza di giurare che mai più avrei riveduto quella donna, la quale si sarebbe vergognata di confessare il suo amore per me. Non dirò che quel giuramento non mi costasse, e molto; ma ebbi la forza di mantenerlo - per invidia, per dispetto, per orgoglio, per gelosia ... non lo so ... *** Il giorno dopo, nell'ora in cui avevo promesso di andarla a trovare, combattei una lotta terribile. Venti volte fui sul punto di uscire, di correre a buttarmi ai suoi piedi. Mi afferrai a due mani a tutte le mie più dispettose passioni, e non mi mossi ... e se piangevo ero felice che nessuno mi vedesse piangere. Così suonò un'ora. Allora respirai con forza, come se avessi superato una gran prova. Faceva freddo. Di fuori un vento impetuoso scuoteva i vetri, e gemeva per le strette viuzze di oltr'Arno. Guardavo i rari fiocchi di neve che svolazzavano sui vetri, e pensavo alla mia famiglia lontana, e a tutte le tranquille gioie che avevo abbandonato per correre dietro a larve affascinanti. Mi sentivo invadere da cento ispirazioni gigantesche, e sognavo tutte le ebbrezze della gloria. All'improvviso fu suonato violentemente all'uscio. Saltai sulla seggiola come se il filo del campanello fosse stato attaccato al mio cuore. Presi un lume e andai ad aprire tutto tremante, come se attendessi una disgrazia ... Indietreggiai stupefatto. *** Era Eva, tutta imbacuccata, pallida e tremante dal freddo, che mi guardava con certi occhi dove avrei giurato che ci fossero delle lagrime. Mi aspettavo rimproveri, scene drammatiche; nulla di tutto ciò. Ella entrò, sedette accanto al camino spento, e mi disse tranquillamente: "Non siete venuto!" "Voi!" Ella sorrise dolcemente. Aveva gli stivalini tutti coperti di neve. "Siete venuta a piedi?" "Sì." "Perché?" "Non so. Avevo bisogno di farmi perdonare l'altra sera." E si sforzava di non tremare, di non far scricchiolare i suoi dentini, come se avesse temuto di rimproverarmi il freddo glaciale che regnava nella mia cameretta. Sebbene cotesta delicatezza mi commovesse, io ero tutto vergognoso, pel mio camino spento, pei miei mobili più che modesti, e pel mio vecchio mantello che avevo gettato su di una seggiola. Ruppi il cavalletto e accesi il fuoco nel camino. Ella sorrise; aveva la labbra violette e stese le manine tremanti sulla fiamma che le rendeva quasi trasparenti. "Oh! che bel fuoco!" ripeteva. Io m'inginocchiai ai suoi piedi; asciugai i suoi stivalini con un lembo del mio mantello, e poscia glielo stesi sotto i piedi a guisa di tappeto. Ella mi lasciava fare, ridendo come una bambina; guardava all'intorno con curiosità, e mi sembrava che in cotesta curiosità, così espressa, non ci fosse più nulla di mortificante pel mio amor proprio. "È la vostra camera?" mi domandò. "Sì." "Come siete felici voi altri artisti!... Quanti bei sogni dovete aver fatto fra queste pareti." Oh! il bel sogno ch'era la sua leggiadra figurina, col sorriso dolce, gli occhi umidi, le bianche mani incrociate sulle ginocchia, e la veste bruna che si piegava mollemente sulla sua persona come carezzandola, là, in quel povero angolo della mia cameruccia, illuminata dalla fiamma del mio camino! Ella aveva capricci improvvisi, bizzarri, dietro ai quali si smarriva volentieri il proprio buon senso come dietro al sorriso di un bambino. "Fatemi vedere!" disse. E si mise a rovistare in tutti gli angoli, in tutti i miei disegni, in tutti i miei cartoni, ponendo tutto sottosopra, scappando in mille ingenue esclamazioni, facendomi mille domande prive di senso e piene di grazia. "Oh! bello!" e seguitava a metter tutto sossopra, battendo le mani dinanzi alle mie tele. "Come fate a creare tante belle cose?" mi domandò facendosi seria - e senza aspettare la mia risposta: "Regalatemi qualche cosa." "Scegliete voi stessa." "Datemi quel paesaggio. È una spiaggia di mare?" "Sono I Ciclopi" "Che cosa sono I Ciclopi " "Si chiamano così certi scogli giganteschi sulla spiaggia di Aci-Trezza." "In Sicilia?" "Sì." "Oh, come sono belli!" Prese un pennello e sul margine della tela scrisse: " Eva - 22 Marzo . "Così ci avrò lavorato anch'io!" aggiunse con quel sorriso vago. E poi, facendosi seria: "Voi altri dovete trovare un paradiso da per tutto." Girò all'intorno uno sguardo sorridente e riprese: "Son contenta di essere venuta. Così ho visto il vostro nido." Il suo sguardo cadde sul modesto lettuccio, e sorrise vagamente senza dir motto. Poi tornò a sedersi accanto al fuoco, con un atto di dimistichezza carezzevole, e soggiunse guardandomi fisso: "Sì, son contenta di esser venuta; ma mi avete pur dato un grande dispiacere!" "Perdonatemi!" "Oh, non ho nulla da perdonarvi! Non vi ho nemmeno domandato perché non siate venuto. Quando non vi ho visto, all'uscire dal teatro, ho subito indovinato il motivo che vi faceva mancare alla vostra promessa ... e son venuta." Mi stese le mani, mi guardò negli occhi sorridendo, e soggiunse: "Siete ancora geloso?" "Oh ..." "Mi amate molto?" "Mi par d'impazzire." "Molti mi hanno detto la stessa cosa." "Oh, Eva!... perché mi dite questo?" "Ma a voi vi credo. Dovete amarmi così! Oh, Dio mio! com'è bello essere amata così! Ho dovuto piacervi molto per farvi pensare di me a quel modo ... Se sapeste che cos'è per una donna il sapere di aver tanto piaciuto! Quanto durerà questa impressione in voi? Chi lo sa! Ma non importa. È pur dolce l'averla destata, anche per un momento solo. Anch'io vi amo." "Voi! voi!" "Sì, vi amo perché vi piaccio tanto." Mi guardava con tanta serenità, che quelle semplici parole avevano un senso affascinante. "E poi, in questo momento, anche voi mi piacete." "Ah! in questo momento!..." "Sì, mio Dio!... bisogna mentire per farvi piacere! Con voi credevo che potessi aprire il cuore schiettamente. Potreste giurare che mi amerete sempre come oggi?" "Sì! oh, sì!" "Fanciullo!" esclamò essa con un triste sorriso, "Quanti me lo hanno detto!" "Non mi parlate in tal modo, Eva!" "Che v'importa, se in questo momento non amo che voi! Mi crederete almeno, giacché sono così franca! Sì, sarà un capriccio, sarà una pazzia. - Vi amo perché siete ingenuo, perché non siete ricco, perché non siete elegante, perché avete in cuore tutte le follie dell'arte, perché mi guardate con quegli occhi, e anch'io divento come voi, non mi riconosco più! - Ecco perché vi amo. Domani forse mi piacerà di più la cravatta di un bel giovane, come a voi piaceranno le mani rosse di una sartina. Avremmo avuto torto per ciò di godere insieme questo momento di felicità? O saremmo più stimabili se mentissimo oggi con promesse per mentirci ancora domani con menzogne? Io ne ho amati tanti! Anche voi chissà quante donne avete amato! Oggi mi piacete, vi piaccio, e son felice di dirvelo, ecco! Domani ... Chi lo sa il domani? Dunque vedete che se vi parlo con tanta franchezza avete torto di essere geloso." C'era tanta sincerità, direi tanto cuore, in quelle cose dure, che le rendeva affascinanti. Avrei potuto farmi saltare le cervella, ma non avrei potuto abbandonare la mano di quella donna che mi diceva di amarmi in tal modo, facendomi indovinare il giorno in cui non mi avrebbe più amato. Ella era seduta di faccia a me, dinanzi al camino, e quasi le nostra ginocchia si toccavano; teneva le mani nelle mie e i suoi piccoli polsi bianchi e rotondi uscivano fuori dalle trine delle maniche; mi guardava sorridente, fiduciosa, con abbandono, felice di espandersi così sinceramente, e di parlarmi col suo cuore, povera e modesta come me. Ella mi disse anche: "Vedete che vi amo davvero, se ve lo dico qui, quasi al buio, così infagottata, senza che possiate trovarmi bella ..." Il fuoco s'era spento. Ella s'inginocchiò dinanzi al camino - ella sì elegante, sì delicata, che avevo vista circondata di tutti gli splendori del lusso - s'inginocchiò dinanzi al mio povero camino, affumicato e pieno di cenere, e cercò di rianimare le poche braci. Io andavo attorno per vedere che cosa potessi sacrificare al gran freddo che faceva. Ella si avvide del mio imbarazzo e mi disse: "Vogliamo andare a prendere il thè?" "Dove?" "A casa mia." "Ma come? a piedi?" "A piedi, come due scapati. Voi mi darete il vostro mantello." "Andiamo." Faceva un freddo di gennaio; le strade erano tutte bianche di neve; ella tremava. Allorché fummo in piazza d'Azeglio, il mio primo sguardo cadde su quelle finestre del primo piano ancora illuminate. Ella che si stringeva al mio braccio, lo sentì trasalire, e lo premette leggermente come per attaccarsi a me. "Non ci ho colpa, vi giuro!" esclamò con voce supplichevole. "Speravo che a quest'ora fossero partiti! ..." Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salirle scale appresso a lei. "Zitto!" mi sussurrò all'orecchio. "Non voglio che vi vedano; spegnete il gas." Io girai la chiavetta. Eravamo al buio, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro. Essa cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente. Venne ad aprire una leggiadra cameriera. Eva le disse all'orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri. La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei. *** La camera era piccola e imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c'era un letto tutto velato di trine, con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d'amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta doveva carezzare l'epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di palpiti virginei. C'era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna e di donna amante. C'erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri. C'erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell'orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco e carezzava i piedi. Nell'altra stanza si udivano voci di uomini, e di tanto in tanto delle risa allegre. Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva. Poi si udì un rumore di tazze mosse. Improvvisamente una luce più viva invase la camera ed entrò Eva. Ella corse verso di me; mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio. "Ecco il tuo thè!" mi disse. *** E quand'io la baciavo, quand'io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido: un grido pieno d'amore e di voluttà. "Ahi! mi fate male!" Si svincolò ridendo dalle mia braccia; mi guardò fisso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto ed esclamò: "Come sei bello! Come devi amare tu! Vieni!" soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano. "Zitto! vieni qui, accanto a me!" Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi, mi prendeva la testa fra la mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava: "Bambino! bambino mio bello!" Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse: "Mi pare di amarti davvero, guarda!" Saltò dalle mia ginocchia come un uccello, corse all'uscio e girò la chiave. "Buona notte, signori!" disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: "Se ci vedessero!" Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell'uscio. "Ho sonno!" ripeté Eva, "Buona notte!" "Che imbecilli!" soggiunse poi "si credono in diritto di annoiarmi anche quando sono felice!" Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti: "Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?" "Sì." "Alla stessa ora, mi aspetterai in teatro?" "Sì." "Anzi, fai così: m'aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova. Verrò a trovarti io stessa. Prendi il fiacre numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta. Ora che farai?" "Come vuoi ch'io te lo dica se non lo so ... se non ho più la testa, se ho la febbre!..." Ella aveva i capelli sciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini. "Ebbene," mi disse, "se hai la febbre vai a casa." "No, starò a vederti dormire." "Eh?!" "Starò a guardare le tue finestre dalla via, e ti vedrò dormire." Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso. "Birbone!" Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi - mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani - e poscia, come rispondendo a se stessa: "Vattene!" mi disse "vattene!" E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi. Mi richiamò di nuovo, quand'ero sulla soglia dell'uscio. "Dammi qualche cosa di tuo" mi disse; "dammi il tuo fazzoletto." E poscia un'altra volta: "Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me." Si staccò dal seno uno spillo d'oro, e mi punse leggermente sulla mano. "Bravo!" esclamò dandovi su un bacio. "Ora vattene. Addio!" Attraversai l'andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell'uscio, senza trovar modo di aprirle. Al di là dell'altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt'a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino - uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull'uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti - saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio. *** Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch'io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie ... e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente. Sentivo che ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie - senza vedere, senza udire, senza pensare - e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all'alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso. Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti. *** Ella mi amava veramente. Quell'amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecavo paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all'improvviso mi saltava al collo, ebbra anch'essa d'amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l'amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l'orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l'affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura. "Se avessi saputo di doverti amare così" mi diceva, "non ti avrei più cercato. Mi fai male!" *** Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella mi appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava intorno a me tutte le seduzioni - per me! per me solo! - il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante ... E tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un'onda di velo. "Come ti amo!" mi diceva. "Come ti amo!" *** Un giorno mi disse, quasi paurosa: "Come farò a non amarti più?" *** E un'altra volta: "Sai ch'è più di un mese che ti amo così!" Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori. "Non mi amerai sempre così?" le dissi. "Oh, sempre!" mormorò con mestizia. "Neanche tu m'amerai sempre così!" *** In cotesto delirio, che si prolungava tanto, capirai che il mio tenore di vita era molto cambiato. Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chieder danaro. Non puoi immaginare come una tal passione sia divorante per uno che si trovi nella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il denaro, ch'è la cosa più preziosa. Io non spendevo un soldo per Eva, nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni: avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere ben alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti - e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a centocinquanta lire. Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perché fui assai vigliacco, perché fui infame. Io divenni esigente sino all'impossibile verso la mia povera famiglia - fino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte. - Non scrivevo altro che per chiedere denaro, e mentivo anche l'affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!... e non arrossivo allorché vedevo giungere quel denaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! Non arrossivo! - E allorché le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla - e non provai altro dolore che la paura di rimanere senza quattrini - e non esitai, no! ad abusare dell'inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di denaro a ogni costo - e non pensai al dolore immenso, alle ansie morali dei miei genitori che per specularci sopra ... Ah! cos'ero divenuto, mio Dio!... dove avevo la testa? che se n'era fatto del mio cuore? Non pensai neanche a morire; non pensai a buttarmi in Arno - avevo bisogno di vivere. La risposta non si fece attendere. Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire e una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l'avessi avuto di pietra. Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vendere tutto quello che possedevo, se quei denari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacché non poteva mandarmi più nulla. Riscossi il vaglia e lacerai la lettera. Ero malato, non è vero? Avevo un'orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo! Non ero io! *** Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvagge contro di lei. Allora tutte le amarezze che quell'amore mi costava mi sfilavano davanti agli occhi. Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio a divorare in silenzio la mia gelosia. - Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva tra le braccia. Poi ella compariva, sorridente, inebbriante - la luce si faceva e mi abbagliava. Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. - Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via. *** Una volta mi trovò che ridevo. "Che hai che ridi così?" mi domandò. "Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me ..." "Oh, mio Dio!... ma ne ridi in un certo modo!..." *** Un altro giorno le dissi: "Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all'improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori." "Sei matto?..." "Lo so anch'io. È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!" *** Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l'uscio e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore - non di vergogna, ma di paura. Quand'ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso: "Che persone sono quelle, Eva?" "Oh, della migliore società." "Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!" "Hai visto?" "Sì!" esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore. Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione. "Hai fatto male" mi disse semplicemente facendosi triste. "Ho avuto torto, lo so." "Non dico ciò per me, ma per te." "Oh, per me!" "Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata. Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male." "Ah! voi lo sapete!" "Sì," rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. "Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo. Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano." "Soltanto questo?" "Soltanto questo." "Oh! non basterà!" "Basterà ... perché ti amo!... Hai torto a lagnarti!" Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà - ella che non era mai seria: "Ti amo ancora e voglio che tu mi ami. Mi prometti una cosa?" "Di'." "Giurami che non starai ad origliare dietro quell'uscio." "Ah!" mormorai amaramente con un riso ch'era una contrazione dolorosa del cuore. "Oh, mio Dio!" esclamò torcendosi le mani "Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?" "Perché non volete dunque che io ascolti?" "Perché ... tu l'hai visto ... Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d'amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia ... Per risparmiarti dispiaceri ..." "Che m'importa se questi non mi vengono da voi!" Ella lesse nei miei sguardi tutta l'amarezza che non c'era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente: "Come siete ingiusto!" C'era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita. "Sì, lo sento che sono ingiusto!" esclamai. "Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti ..." "Oh!" esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie "se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!" "Non importa; essi vi fanno la corte!" "Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono." "Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva." "Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell'esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro." "Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!" "Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina." "Oh, io mi innamorai della donna, perdio!" Ella sorrise tristamente. "La donna la vedesti un momento, nel dietro scena ... e scappasti via." "Ma io vi amo così, come siete!" "Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall'ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso - che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te - e tu che non mi avresti neanche guardato se m'avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! lo so bene ch'è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!" Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese. "Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?" "Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei." "Ah! no!" esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. "Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!" e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bimbi. *** Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse. Era rossa in viso, e avea le narici dilatate. Chiuse l'uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa. "Che hai?" le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola tutta turbata e colle lagrime agli occhi. "Nulla!" rispose. Io impallidii, e non osai domandarle altro. *** Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei. "Che hai?" E stavolta fui io che risposi: "Nulla!" Ella si fece pensierosa e parlò d'altro. Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c'era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand'occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. - Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. - Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta. Una volta, mentre si parlava d'altro, esclamò: "Come son pazza ad amarti così!" E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena: "Come farò quando non mi amerai più?" Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese - giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia? Allorché partivo, sull'alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. "Che hai?" "Nulla." "Oh, non partire così!" esclamò colle lagrime nella voce. "Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?" Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime. "Credimi," soggiunsi, "la nostra curiosità è funesta. Io l'ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l'altra sera mi hai risposto: nulla." Mi prese le mani e le baciò - le sentii umide di lagrime. "Non mi ami più!" disse. "Dio lo volesse!" esclamai con un'esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni. Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci. "Si, tu mi ami! tu mi ami!" singhiozzò "ed io pure ti amo come una pazza!" Poscia, tenendosi allacciata a me come l'edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi: "Non credi che ti amo?" "Sì!" "Temi che io possa ingannarti per un altro?" "Oh, no!" E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente: "Perché quella domanda adunque?" "Perché ti amo! Perché son geloso ... in un altro modo." "Come?" "Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!" Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso. "Ascolta!" mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. "Piuttosto che cessare di amarmi ... quando lo vorrai ... domandami quello che vuoi ... Ti giuro che lo farò!" *** "Non voglio che tu venga a teatro" mi avea detto altre volte. "Perché?" "Perché ... perché ... È una fanciullaggine, lo so ... ma se ti sapessi là ... in mezzo a quella folla ... ciò mi farebbe pena." Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa. "Perché?" "Voglio vederti." "Non mi vedi adesso?" "No! vederti là ... a quel modo!..." "Mi vestirò qui per te." "Oh, è tutt'altro!..." Ella sorrise e mi disse: "Orgoglioso!" "Orgoglioso?" "Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!" "È vero ... sì!" "Ebbene," soggiunse semplicemente, "dillo pure giacché è la verità." La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi: "Però mi prometterai di non essere geloso!" Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo? Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. - Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie ... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!... Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle. Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo! "Oh! come son contenta che tu sia stato lì!" mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. "Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!" E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza. "Quanto sono felice, mio Dio!" esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità. Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. "Aspettami qui" mi disse. "È inutile, giacché me ne vado." "Te ne vai! E perché?" "Avrete molte visite ... È la vostra festa ..." "È vero!" disse tutta giuliva. "Vedete che mi rassegno anch'io ..." Ella mi guardò in volto con sorpresa. "Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!" "No." "Davvero?" "Davvero." "Domani dunque?" "A domani." "Buona sera" Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore. *** Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei. Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto. Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione: "Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!" E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto. "Perché?" io le dissi. "Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me ... Ci ho pensato tutta la notte ... Sei ancora in collera?" "Oh, no!" "Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?" Io chinai la testa senza rispondere. "Vedi", soggiunse, "se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più." Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco. "Come sei pallido!" mi disse. "Non hai dormito stanotte?" "No." "Caro! caro! caro!" esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte. Indi con improvvisa e ingenua vivacità: "Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!" In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera. "Ti piace quel braccialetto?" mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me. "Non l'avevo visto." "Ah!" esclamò come sconcertata. Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza: "È un regalo per la mia beneficiata." "Oh!" "È bello, non è vero?" Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: "Bellissimo." "È di gran valore." "Varrà per lo meno duecento lire." "Oh!" esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. "Ne vale almeno duemila!" Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme. "A che pensi?" ella domandò con una certa inquietudine. "Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire." "Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!" Io sorrisi amaramente. Si parlò un po' di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente: "Chi t'ha regalato quel gioiello?" Ella rispose con la maggior franchezza. "Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?" soggiunse vedendo che m'ero fatto serio. "Oh, avrei torto!" "E avresti torto davvero!" esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò. "Oh, Eva, perdonami!" esclamai quasi fuori di me, "Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!" Per tutta risposta ella mi dette un bacio. "Perché non hai rimandato quel braccialetto?" le domandai dolcemente. Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole. "Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!" "Sì, rifiutarlo." Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo. "Ma non si usa in teatro!" mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza. "Ah!" sogghignai. "Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!" "Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?" "Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene ... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici." "Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto." E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio. Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse. "Entrando ho interrotto la tua lettura"; le dissi, e le porsi la lettera. Ella la prese vivamente. "Oh, nulla d'importante." "Ebbene, leggila pure." "L'avevo già letta", e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino. Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco. "Chi ti scrive?" le domandai facendomi rosso in volto. "Il conte Silvani." "Ah!" "Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!" "Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!" le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva. "Oh!" esclamò ella celandosi il viso fra le mani. "Oh!" Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: "Siete pazzo!" "Avete ragione!" le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno. Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa. "Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!" ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa. "Sì" rispose seccamente. Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente: "Perché l'avete bruciata?" "Perché non vi riguardava." Perdei la testa: "È vero;" le dissi, "io non posso farvi dei regali di duemila lire!" Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai: "Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!" C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi. "M'avete fatto molto male!" mi disse. "M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo ... Ora che volete che io faccia?" "Scacciatemi." "Oh, no! ti amo troppo!" "Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!" "Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!" Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo: "Non vi credo!" Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: "Perché?" balbettava "perché?" "Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!" gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore. Mi attendevo un'esplosione di collera. - Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare. "Non mi credi!" balbettò. "E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo." "Dovresti abbandonare il teatro." "Oh!" "Dovresti romperla con tutto il mondo." "Oh!" "Dovresti venire a vivere con me." "Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!" mi rispose con uno scoppio di pianto. "Ah! è una ragione singolare!" "Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!" Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava. "L'hai voluto:" mi disse semplicemente, "ecco che t'ho obbedito." *** Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità. Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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