Questo tubo s' immetteva e si prolungava in un altro di gomma, AB, che andava a congiungersi con un timpano a leva, F, il quale per mezzo dell'asticella G scriveva i movimenti trasmessi dal cervello all' aria contenuta nell'apparecchio registratore. Riferisco un frammento preso dal mio scritto - sulla circolazione del sangue nel cervello dell' uomo dove ho studiato l'anemia e l'iperemia del cervello A. Mosso, Memorie della R. Accademia dei Lincei. Dicembre 1879. Il giorno 29 settembre 1877 ad un'ora, pom. prendo accordo col Dott. De Paoli per fare alcune osservazioni sull'anemia cerebrale. Fisso bene il disco di guttaperca sul capo di Bertino per scrivere i movimenti del cervello. La linea C della figura 2 rappresenta le pulsazioni come sono scritte dal cervello. Gli applico il mio idrosfigmografo sul braccio destro, per registrare contemporaneamente il polso di questa parte del corpo. Noi vediamo così nella linea A l' ingrossamento che succede nell' antibraccio ad ogni sistole del cuore, e nella linea C vediamo il fenomeno corrispondente nel cervello. Io avevo spiegato prima a Bertino di che si trattava, e lo aveva pregato di far bene attenzione a tutto ciò che avrebbe provato durante l'esperimento per sapercelo dire dopo. Il Dott. De Paoli si sedette innanzi a lui ed applicò i due pollici sopra le due grandi arterie che sentiamo pulsare nel collo e che si chiamano le carotidi. Quindi mentre io guardavo la penna dello strumento che registrava sopra un cilindro affumato i moti pulsatorî del cervello, il Dott. De Paoli cominciò a comprimere leggermente le arterie per chiuderle, quando vidi che scompariva il polso feci cessare. Era così tutto pronto per l'esperienza. Bertino non disse nulla. Si misse in moto l'apparecchio che fa girare il cilindro e cominciò a scriversi la linea C ed A (fig. 2). Nel punto segnato alfa si comprimono
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., che ha due colonnette di ottone L, M fatte a forchetta, nelle quali ciascuna porta due spranghe cilindriche di acciaio, distanti 4 centimetri l’una dall'altra, in modo che costituiscono le guide del corsoio metallico AB. Questo scorre con due aperture cilindriche nelle spranghe di acciaio sopra dette, e porta una matita la quale scrive l'altezza della contrazione sopra un foglio di carta D. Appena tracciata questa linea, nell'intervallo di riposo tra una contrazione e l'altra, si comprime il bottone C, che per mezzo di una leva fa scorrere di un millimetro verso il lato destro il telaio metallico sul quale trovasi disteso il foglio di carta D. Il telaio scorre con dolce attrito nell'incasso della piattaforma trasversale F. A questo modo si scrivono l' una accanto all' altra tutte le altezze successive alle quali fu sollevato il peso: e si ottiene un tracciato della fatica come quello della figura 7. Nelle esperienze fatte nel laboratorio si preferisce di scrivere sulla carta affumata di un cilindro che gira lentamente per mezzo di un orologio. Il corsoio registratore in tal caso porta una penna laterale come si vede nella figura 6. L’ apparecchio è alquanto più costoso, ma si ha il vantaggio di non essere obbligati a muovere noi la carta dopo ogni contrazione. Il corsoio N ha due uncini: ad uno si fissa la corda P colla quale lo si tira per mezzo della flessione delle dita. Questa corda porta alla sua estremità un forte anello Q, di cuoio, nel quale si introduce la prima falange del dito medio. All'altro uncino del corsoio che trovasi sulla faccia opposta, per mezzo di un'altra cordicella O si attacca un peso S, di 3, o 4, o più chilogrammi, come è indicato nella figura. La cordicella passa sopra una puleggia metallica. Siccome queste piccole corde si logorano facilmente, quando si lavora di continuo con grossi pesi, è meglio servirsi di corde di minugia, come quelle che si adoperano pei violoncelli. La figura 6 rappresenta l' apparecchio come è disposto nel momento di fare una esperienza. Vi
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Ab ovo. Dal principio, dall'origine. Ad Calendas graecas. Alle calende greche. (Tramandar alle calende greche ossia all'infinito). Ad majorem dei gloriam. Per maggior gloria di Dio. Papa Gregorio il Grande. Aequam rebus in arduis servare mentem. Conservare in situazioni difficili la mente squilibrata. Affiavit dens et dissipati sunt. Dio soffiò e furono dispersi. (Iscrizione d'una medaglia olandese di commemorazione per la disfatta dell'armata spagnuola nel 1588). Alea jacta est. Il dado è gettato. (Cesare, Nel 49 av. Cristo passando il Rubicone). Alter ego. Un secondo io. Altum silentium. Profondo silenzio. Amicus certus in re incerta cernitur. L'amico fidato si riconosce nelle difficili situazioni. Anathema sit. Sia maledetto. Apage, Satana (s)! Allontanati. Satana! Matt. IV, 10. Audacter calumniare. semper aliquid haeret. Calunniare audacemente, sempre rimane qualcosa attaccato. Plutarco, Sull'adulatore. Audiatur et altera pars. S'ascolti anche l'altra parte (si deve ascoltare anche l'altra campana). Seneca. Aurea mediocritas. Aurea mediocrità. Orazio. Odi. Auri sacra fames! Sacra avidità dell'oro! Virgilio, Eneide. Aut Caesar, aut nihil. O Cesare, o nulla! Aut prodesse volunt aut delectare poëtae. I poeti o vogliono giovarci, o dilettarci. Orazio, Ars Poëtica. Avaritia prima scelerum mater. L'avarizia è la madre di tutti i mali. Ave, imperator, morituri te salutant. Ave Imperatore, i morituri ti salutano. (Saluto dei gladiatori, prima di cominciare il combattimento).
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L'onore e la giustizia sono il primo limite ai sacrifizi che si possono ricercare agli amici: ogni lesione all' uno o all'altra non debb'essere nè chiesta né concessa: Ab amicis honesta sunt petenda . Generalmente gli amici volgari, cioè quelli che professano amicizia per interesse, per vanità, per convenienze sociali, pretendono che sagrifichiate loro il vostro onore e la giustizia che dovete a voi stesso e agli altri: per amicizia, se siete giudice, dovete tradire la giustizia; se testimonio, la verità; se impiegato, l'interesse pubblico! Voi dovete decantare i difetti di questi amici come virtù, e seguire il loro partito anche quando hanno torto. Alla loro presenza voi non potete dar lode al merito eminente di chi loro spiace, nè condannare la loro condotta allorché dalle leggi del giusto e dell' onesto si scostano. Comparisce un libro nuovo? Voi non dovete censurarne le nocive teorie, perché l'autore é loro amico, parente, conoscente od altro, ecc. In somma le pretensioni degli amici volgari, promosse da, affezioni private, non mai hanno per norma l'idea dell'utilità pubblica, e spesso direttamente le si oppongono. =* Cosi nella 3.ª edizione; nella 4.ª fu fatta sostituire (ed é facile vederne il motivo ) « emergenti » da affezioni private, si scostano dalla verità e dalla » giustizia, che sono la norma dell'uomo onesto ». Il secondo limite si trova paragonando il sacrifizio col vantaggio; allorché il sacrifizio, che vi richieggo, è maggiore del vantaggio che ne traggo, la mia dimanda é inurbana, e questa inurbanità si desume da quella maggioranza. Un fatto spiegherà meglio la mia idea. Francesco I re di Francia assisteva ad un combattimento di lioni che davasi nel suo serraglio. Una donna di corte lascia avvertentemente cadere dalla loggia, in cui trovavasi, il suo guanto nell'arena ove combattevano quelle fiere, e dice al cavaliere di Lorges, giovine bello, ben fatto e bravo: Se voi mi amate, come dite, andate a prendere il mio guarito. Il giovine discende di sangue freddo, raccoglie il guanto, risale, lo getta con disdegno in faccia alla dama, le volta le spalle, e non vuole più vederla. - La dama, per far parlare di lei e mostrare a qual segno era amata, aveva esposto a pericolo la vita del suo amico. In generale é indiscreto chi ricerca un servizio che reca più incomodi a chi lo eseguisce, che vantaggi a chi lo riceve. Montaigne vuole che tra gli amici il linguaggio sia franco e senza velo; che le parole colpiscano al segno che mira il pensiero: Tu sei uno stolto, tu sogni, tu deliri, e simili. » L'amicizia non é » abbastanza virile e forte, egli dice, se nelle » dispute si spiega con riservatezza e con timore; » giacchè, come dice Cicerone, non si può disputare » senza condannare il sentimento del proprio » avversario. Chi si oppone alle mie idee (segue » a dire Montaigne) punge la mia attenzione, » non eccita la mia collera; io vo incontro » a quello che m'instruisce contraddicendomi: la » causa della verità deve essere comune all'uno » e all'altro, e superiore alla vanità d'entrambi. » Io sono più fiero della vittoria che guadagno sopra » di me, quando mi piego alla forza delle regioni » che mi vengono opposte, che quando mi » riesce di vincere il mio avversario per la sua » debolezza ». Si può rispondere a Montaigne che il discorso, per essere franco, non è necessario che sia ingiurioso, e che la verità non perde alcun diritto quando è presentata con modi gentili. Voi dite che i triangoli d'un triangolo non sono uguali a due retti: io vi contraddico tosto e dimostro che dite un errore; ma aggiungerò io un solo grado di forza alla mia dimostrazione regalandovi il titolo di stolto? Questo titolo irrita il vostro amor proprio, ma non illumina il vostro intelletto. Invece di questo paragrafo, la 3.ª edizione ha quest'altro: » Tutti diranno in generale che Montaigne ha » ragione, ma nel caso pratico quasi tutti si mostreranno » più ligi agl'interessi della loro vanità » che agl'interessi dell'utile pubblico e del vero, » e per non sentirsi offesi nell' amor proprio rinuncieranno all'amicizia .»
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Durante la funzione, il padrino di battesimo tiene la mano sulla spalla del bambino e risponde, per lui, alle domande del prete, che gli chiede se rinunzia al mondo, se rinunzia alla carne, se rinunzia al diavolo; infine, tre ab renuntio; risponde al vis baptizari, chiesto dal prete, con un voto, sempre per conto del bambino; infine, dice il Credo insieme al prete, con la madrina, con la nutrice, se vi sono, e con tutti gli astanti. Per lo più, se il padrino è molto ignorante di queste risposte latine, vi è chi gliele suggerisce. Dopo il battesimo, il padrino rientra in carrozza, arriva a casa, ed è lui che presenta alla madre e al padre, il nuovo cristianello o la nuova cristianella: in quel momento, dà i doni alla puerpera e al neonato. Poi, la sua corvée non è finita ancora, poiché egli deve regalare alla levatrice, alla nutrice, alle persone di servizio della casa, alla prima una somma variabile da venti a cinquanta lire, alla seconda da dieci a venti lire, agli altri da cinque a dieci lire: tutto questo, partendo da un punto di vista di agiatezza sua e della famiglia, perché queste mance si possono estendere o ridurre, a volontà. In Francia vi è l'abitudine di offrire anche scatole di confetti, confetti bianchi simili a quelle delle nozze: è sempre il padrino, che li offre, les dragées du batptême; ma in Italia non si usano. Se vi è madrina, bisogna fare un dono, ma modesto, anche per essa: un piccolo gioiello, magari una medaglia, con una data, basta. In chiesa bisogna andare in tight o in redingote; guanti non tortorella, ma chiari, cravatta non bianca, ma d'accordo con la redingote. Se le relazioni fra il padrino e il figlioccio sussistono, il padrino è tenuto a un dono, nell'onomastico e nel genetliaco, e il figlioccio lo ricambia, egualmente, nell'onomastico e nel genetliaco. Alla madre del figlioccio, dei fiori, nell'onomastico. E scusate se è poco!
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(Ab.). Volete osser certi che la vostra carità vada a sollievo della vera miseria? procurate per quanto ve lo permettano le vostre occupazioni, di fare la carità personalmente. L'elemosina che farete distribuire dai servi od altre persone che non hanno verun interesse né materiale né di cuore nel farlo, non ingrassa ordinariamente coloro che intendete di sollevare. Io non parlo nemmeno di quelle beneficenze che vengono affidate da certe congregazioni ad uomini che non si vergognano di mettere le elemosine, che hanno l'incarico di distribuire, al prezzo di turpi compiacenze; e non posso che raccomandar caldamente ai benefattori, ai parroci, ai Consigli di andar guardinghi nella scelta della persone a cui è affidato questo compito sacrosanto e delicatissimo. E la ragione di questo ve la dà il buon Tommaseo. «Come conoscere, dice egli, le virtù delle mentite necessità, il pudore dignitoso dalla trista vergogna se le benefattrici (poiché il bravo scrittore si rivolge particolarmente a quel sesso che ha maggior cuore per intendere que' santi consigli) non veggono co' proprii occhi il bene che fanno, se col proprio cuore non sentono la carità? Se quest'angelica opera del tergere le lacrime umane affidano a mano mercenaria, quasiché servile opera fosse, quasiché temessero le benedizioni dei miseri consolati?».
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Ab Jove principium, dicevano i nostri antichi, e anche noi cominceremo col tracciare le linee di quel, galateo che, se deve sempre osservarsi dinanzi agli uomini e nelle case loro, a più forte ragione va riguardosamente osservato dinanzi al Creatore supremo e nelle case ove Egli risiede. Fra i miei lettori molti, io voglio sperarlo, possederanno il bene inestimabile della fede sotto quella forma che S. Paolo chiamò rationabile obsequium; sapranno dunque benissimo quali ragioni e quale importanza abbiano anche certe dimostrazioni esterne di culto o di convenienza che giustamente sono prescritte. Ma posso anche supporre che vi sian delle anime, perfettamente e sinceramente credenti, che non abbiano potuto acquistare la cognizione o la pratica di tali norme, posso supporre altresì che alcuni, pur non aderendo alla fede comune, abbiano il nobile e lodevole desiderio di comportarsi in modo che nulla possa offendere o disgustare i credenti con cui si trovino insieme. Le mie avvertenze, dunque, potranno far del bene a tutti, e non faranno male a nessuno. In chiesa si va per le funzioni religiose consuete; si va per alcune cerimonie solenni; si va, infine, per ammirare bellezze d'arte. E comincio subito da questo caso. La nostra Italia è così ricca di meraviglie architettoniche, di quadri, di sculture, di mosaici, intagli, cesellature e oggetti preziosi d'ogni sorta, che non vi è, si può dire, nessuna modesta città di provincia, e forse anche nessuno sperduto paesello che non veda entrar i visitatori nelle sue chiese. Nelle città principali poi, in quelle che la rinomanza ormai mondiale ha classificato tra le artistiche per eccellenza, è un flusso e riflusso perenne: tanto che saggiamente in alcuni luoghi sono state fissate alcune norme riguardo al tempo. E' evidente che non si sceglierà mai volentieri l'ora delle sacre funzioni e specialmente quella della Messa cantata. Chi ha senso di religiosità e riguardo gentile a quella degli altri, sa quanto sia molesto quello scalpiccio, quel mormorio, quel trapassar di luogo in luogo di un gruppo talvolta numeroso di persone, mentre tutto intorno spira e impone il mistico silenzio del raccoglimento. Ma quando fosse assolutamente inevitabile entrare in tali ore, la persona bene educata attenua il rumore dei passi, tien sommessa la voce, e se vi è un «cicerone» sta vicino a lui più che sia possibile, al fine di non costringerlo a parlar troppo forte. Non si creda però che, anche a chiesa vuota e silenziosa, sia lecito dipartirsi molto da queste norme. Vi può esser sempre, in un canto, qualche silenzioso orante che, proprio in quel momento, espande i dolori del suo cuore e chiede soccorso alla bontà suprema: rispetto a lui. E rispetto, sempre, in ogni caso, al luogo sacro. Non tutti sanno, ma tutti dovrebbero sapere che passando davanti all'altare del S.S. Sacramento è obbligo piegare il ginocchio a terra, e che se vi fosse esposizione solenne o per le Quarant'ore o per altra funzione, è prescritto piegarle ambedue. Così si deve fare anche nel momento dell'elevazione, nel caso che durante la visita si stesse celebrando qualche Messa: bisogna allora aver la pazienza di attendere che siano cessati gli squilli del campanello, e proseguir poi, più tacitamente e riguardosamente ancora, il pellegrinaggio d'arte. Le donne dovrebbero entrare in chiesa solamente col capo coperto e modestamente vestite... Ma ahimè! non tocchiamo un doloroso argomento. Basti, a nostra vergogna, ricordare i cartelli ammonitori che sono appesi alle porte d'ogni chiesa: basti dire che alle grandi basiliche, ormai, è stato necessario metter di guardia un vigile, il quale ha l'incarico, non credo gradito certamente, di ammonir le visitatrici (meno male che la maggior parte sono straniere) di coprirsi le braccia e le spalle di cui fino allora avevan fatto esposizione sul listone di Piazza S. Marco o nelle vie e ai caffè circostanti a S. Maria del Fiore, o sotto la Galleria Vittorio Emanuele presso al Duomo di Milano. C'è poi anche l'altro cartello: vietato sputare. E il divieto è espresso ora in questo, ora in quel modo, ma la sua insistenza prova che non siamo riusciti ancora a vincerla su questo importantissimo punto di igiene e di decoro. La persona sana e pulita non sente mai il bisogno di sputare: tuttavia, se circostanze e ragioni specialissime la obbligassero a farlo, non dimentichi che tale atto così schifoso a vedersi, deve essere compiuto con la massima secretezza, in un apposito fazzoletto. Veniamo ora al contegno da tenersi durante le sacre funzioni. Occorrerà dire che non si deve stare sdraiati sul sedile, né accavallar le gambe? Le nostre signore, così avvezze adesso a tale libertà di modi e alla gioia ineffabile di mostrar i polpacci e perfino le loro ginocchia, non sanno talvolta privarsene nemmeno nel luogo più sacro. Quando si deve stare in ginocchio e quando a sedere e quando in piedi è prescritto dalla liturgia. Alle persone deboli e vecchie è naturalmente concessa maggiore libertà; basta per loro che stiano genuflesse nei momenti più solenni, quando lo squillo del campanello li annunzia reiteratamente. Ma chi non può stare in ginocchio non si creda lecito però, se è fra i banchi, di stare in piedi mentre gli altri siedono o stanno genuflessi: è grave scortesia verso quelli che sono dietro toglier loro la vista dell'altare e delle cerimonie che vi si svolgono, per mostrar loro quella del proprio dorso, spesse volte massiccio ed esorbitante. Durante le prediche è prescritto un rispettoso e assoluto silenzio. Nel passato, era invalsa la strana usanza di testimoniar al predicatore la propria ammirazione con un concerto di tossi e raschiature di gola, che si alzava unanime quand'egli faceva punto per la prima pausa, e più ancora alla fine.
Cominciamo ab ovo, cioè alla stazione. I viaggiatori si dividono in due categorie: i prudenti, gl'irrequieti: i prudenti che arrivano un'ora prima, s'adattano al limbo della sala d'aspetto e non nuociono che a se medesimi, però diventano importuni se al minuto della partenza spingono i vicini, pestano calli, si buttano in vagone mettendo la propria valigietta sui piedi o sulle ginocchia altrui. Ma questi sono guai di secondo ordine: chi invece ci salva dagli irrequieti? Arrivano, balzano dalla cittadina, di cui il cavallo trafelato pare che stia per cadere morto, mettono in mano al cocchiere cinque lire,dieci (non hanno mai spiccioli), non aspettano che renda loro l'avanzo, si scagliano all'uffizio dei biglietti, tempestano, litigano, arraffano il tickett, abbandonando persino il bagaglio, eppoi, panfete, con uno, due, tre colli in mano si scaraventano in un vagone... il treno si muove, i guardiani gridano, essi trionfano! Gli irrequieti invece trovano da ridire all'orologio della stazione; quell'orologio è matto, il servizio pessimo; sbuffano perchè una volta entrati loro, il convoglio non parte, tirano in scena le ferrovie..... di molti paesi, dove non sono mai stati. Basta! Ecco i viaggiatori a posto; tutti cercano di accomodarsi alla meglio - la gente educata sta dov'è, e si rassegna. La gente che non ammette galateo in ferrovia si agita, fa piramidi del proprio bagaglio, cacciando sotto quello degli altri viaggiatori, o vuole a tutta forza serbare un collo che oltrepassa il peso stabilito, seppure non vi fa la grata sorpresa, dopo un momentino, di esibir una gabbia, un canestro con un gattino, un cane, che porta con sè di contrabbando. Altri lanciano occhiate fulminee contro quelli che occupano i posti migliori. Di questi irrequieti ve n'ha di dieci specie diverse. Vi son quelli che dove è vietato di fumare accendono lo sigaro, contando sulla bonarietà dei vicini, oppure si mettono al finestrino e se li richiamate all'ordine, rispondono con asprezza: il fumo non penetra! Altri, ad ogni stazione, si buttano allo sportello, saltano giù, disturbando tutti, risalgono, unicamente per l'incapacità di condursi da persone civili. Certi sputano, sbadigliano, si distendono con mal garbo, mettono i piedi sul sedile di contro. Vi son poi quelli che hanno il ticchio di assumere una speciale toeletta e par che si credano nel loro gabinetto; levano gli stivali, il soprabito, la cravatta, il cappello, a segno da ispirare seri timori alle signore formaliste; calzano poi delle pianelle, indossano una giacchetta, si chiudono il cranio in un berrettino.... dopo di che si mettono a russare, o, se è notte, vi accendono sotto il naso un lampadino e fanno le viste di leggere. Un'altra varietà di viaggiatori è quella che mangia sempre; tiran fuori dalla sacchetta del salame, del formaggio, delle pere, delle melarancie e sbucciano, tagliuzzano tutta codesta roba, riempiendo il vagone di scorze, di bricciole, e di poco aromatici profumi, spingendo a volte la cortesia fino a voler costringere i vicini a dividere con loro quelle provviste, che escono da fraterno contatto con le pianelle ed i pettini. Vi sono gli aristocratici che guardano tutti d'alto in basso, perchè, la spolverina da viaggio togliendo spesso di distinguere la vera condizione dei compagni di viaggio, temono di avere a che fare con gente che sia meno di loro. Ma peggio di codesti che si limitano a sorridere ironicamente, a non stendere la mano per offrirvi di passar il vostro biglietto ai conduttori, sono i ciarlieri. Appena sono seduti questi iniziano fra di loro (se sono in due soli) un dialogo o monologo sul gusto di quello che nelle commedie vien detto d'esposizione: cioè si raccontano, con un po' di fioritura ad usum compagno di viaggio, chi sono, chi non sono, d'onde vengono, dove vanno, e se non fate motto v'interpellano direttamente, vi interrogano, vi fanno una specie d'istruttoria, insomma, vi costringono a rompere il ghiaccio, togliendovi la libertà di pensare, guardare, riposare o dormire. Taccio di quelli che temono l'aria, il sole e si impuntano a chiudere tutti i vetri, di quelli invece che si ostinano a tenere aperto; di quelli che fanno gl'impertinenti con le signore che non hanno compagni maschili, e le riducono a mutare vagone od a ricorrere al conduttore: è tutta gente da metter nella categoria degli ineducati. Ma dunque che cosa si deve fare? chiederanno le lettrici. Dio buono! Essere persone per bene. Non so dare legge positiva su quelle benedette finestrine come su quella tal ventola abat-jour che ripara la lampada: fonte di perenne lotta tra i viaggiatori. Figuratevi che un giorno trovandomi col direttore dei telegrafi italiani e con un ingegnere della Società delle ferrovie, richiesi entrambi di fornirmi qualche ragguaglio, ma su certi quesiti trovai anche loro inetti a rispondermi. È ammesso che la finestrina di destra appartiene ai viaggiatori che sono da quel lato e quella di sinistra agli altri; è più lecito volerla chiudere che tenerla aperta, come pure tenere la ventola abbassata che alzata: ma con tutto ciò la questione è così complessa che quei signori mi citavano appunto il caso di due viaggiatori che l'avevano risolta....... con un duello. Però, se il diritto è dubbio, il galateo parla chiaro. Nei casi in cui una data cosa disturbi due persone, si deve esaminare quale sia più gravemente disturbata e meno in grado di sopportare il disturbo; così, se ad un giovanotto spiace non fumare, ed invece ad una signora attempata o malaticcia l'odore del tabacco nuoce, il galateo esige che non si fumi; se il finestrino, chiuso, priva alcuni d'aria, ma, aperto, fa correre ad altri il pericolo d'un'infreddatura,quel finestrino va chiuso...e così via. La persona per bene entra od esce con riguardo, saluta, appicca discorso se le pare di far cosa grata, e se trova compagni che le garbino, non manca mai alla cortesia, inquantochè cede subito ai desiderii di chi le è vicino rapporto alla disposizione del riparto; non attacca brighe con nessuno, non brontola, non tratta con arroganza gli impiegati e neppure i fattorini, insomma si ricorda che un vagone non è una camera privata, ma una specie di caffè o di albergo ambulante che impone molti riguardi. La persona per bene poi, in quel che riguarda il vestire, evita in pari tempo una ricercatezza disadatta ed una trascuranza pressochè indecente. Una signora ammodo, quindi, in viaggio, non si ridurrà allo stato d'un fodero d'ombrello, d'uno spauracchio come certe Miss; non metterà in viaggio scarpe sdruscite, guanti sudici, roba di dieci colori diversi, verde, azzurro, giallo, rosso, sì da, parer un pappagallo: ma, d'altra parte, quella signora eviterà il lusso incomodo o ridicolo, non viaggierà in veste bianca, cappellino a piume, merletti e gioielli, poichè invece di sembrar una dama, se vestisse così parrebbe una persona digiuna d'ogni norma di buon gusto e di tatto. Le dame, viaggiando, assumono anch'esse un vestire molto semplice, cappellino con velo bruno od azzurro, pelliccia o waterproof di panno, alpaga o tela, secondo la stagione, collo e polsini bianchi o sciarpetta al collo; vestito semplice, senza gale e guarnizioni. Chi fa una gita od una visita in campagna può vestirsi con cerca ricercatezza, ma coprendo la toeletta con uno spolverino per non arrivare sgualcita od impolverata. Portar gioielli in ferrovia è un grave sbaglio e quasi quasi un pericolo. Chi reca con sè oggetti di gran valore o forti somme, le faccia cucire in una tasca interna del soprabito o della gonnella... e non ne parli mai. Le cautele visibili diventano quasi un richiamo per chi abbia cattive intenzioni. Non imitino quelli che mettono il denaro che portano seco loro in una sacchettina, appesa ad armacollo e se la tengono stretta fra le mani, guardandosi intorno e susurrando agli ignoti vicini: Eh? quando s'hanno dei valori bisogna star attenti! Non bastano gli occhi d'Argo!... Costoro corrono il pericolo di attirarsi dei contrattempi. Gli occhi d'Argo... è cosa nota... a volte si chiudono ed allora paf! una cinghia è presto tagliata. In quanto alle armi, è bene usar prudenza per non farne un pericolo invece che una difesa, e non ferirsi da sè, oppure offendere i vicini. Del resto, per chi non ha in tasca un mezzo milione e viaggia in ferrovia, sono pressochè inutili. Le conversazioni in viaggio devono aver per regola il massimo riserbo. È ridicolo farsi passare per un pezzo grosso, millantandosi; è inurbano e pericoloso mettere in campo questioni nazionali o politiche, censurar alla leggera il paese in cui si viaggia, vantar troppo il proprio, insomma esporsi ad aver delle brighe o degli alterchi. Convien anche aver qualche nozione sui luoghi che si visitano per non dire degli spropositi madornali e per sapersi regolare riguardo alla via da seguire, alle fermate, agli alberghi, ecc. L'anno scorso incontrai una giovane coppia tedesca a cui chiesi se contava visitare la Brianza.Era d'autunno. - Oh! disse lo sposo, vorrei farlo, ma temo... - Il caldo? - Eh! no... i briganti! I briganti, nel verde giardino di Lombardia, a due passi da Milano! I briganti,cioè i tradizionali uomini bruni, in giacchetta corta, con cintura scintillante d'armi, cappellone a cono, trombone in mano... Diedi in una irresistibile risata, con grande meraviglia del bravo tedesco. A proposito di giovani coppie, raccomando a queste, di... non essere troppo affettuose in ferrovia: è una cosa in pari tempo importuna e ridicola lo scambiare carezze e tenere parole che mettono nell'impaccio i babbi e le mamme formaliste che hanno seco loro dei ragazzi e che in altre persone provoca delle celie di cattivo gusto. L'amore è una cosa tanto bella e santa che è mancanza di tatto e di delicatezza l'esporla ai motteggi. Le norme date per salire in vagone reggono anche per scendere; se ci sono vecchi, donne o bimbi si aiutano, si tien loro le sacche o gli scialli: si procura d'evitare questioni e di rassegnarsi con filosofica urbanità nei casi di forza maggiore; per la scelta dell'albergo si consulta, non il primo conduttore d'omnibus venuto, ma la guida, seppure non si sono assunte prima, da altri, le informazioni necessarie. È sempre savia cosa procurarsi delle lettere di raccomandazione per gente del paese; può essere una gran risorsa. Se occorrono medici o dentisti, sartori o che so io, non conviene affidarsi ai proprietari dell'albergo; pel medico o dentista ricorrere a quelli dell'ospedale, poichè il fatto che occupano un posto di fiducia è già per se stesso una garanzia. Per bottegai affidarsi ai conoscenti se se ne hanno, oppure alla fama. In generale le persone capaci sono note. Il lusso è superfluo pei forestieri, anche nelle più eleganti capitali: però le toelette eccentriche, le affettazioni di semplicità nihilista, i pastrani e cappelli da uomo, gli occhiali sul naso ed altre bizzarrie non sono da adottarsi. Per visitare musei o girar la città si inetta qualche vestito di lana scuro, un bel cappellino grigio o color nocciuola; per recarsi a teatro si scelga un vestito di seta nera o di satin di cotone, un po' elegante con un bel cappellino nero o bianco e si potrà essere presentabili, portando seco poco bagaglio. Nei musei bisogna guardarsi dal toccare gli oggetti esposti: è conveniente dare una mancia al cicerone. Sarebbe gretto respingerlo per l'economia di una o di due lire. Se annoia, lo si tenga solo per guida, dicendo che non s'ha d'uopo di spiegazioni. In generale bisogna informarsi delle tariffe e star a quelle: non lesinare e in molti casi sacrificare qualche spicciolo per causar alterchi che finiscono sempre a danno del forestiero. Quando poi si è con donne è assolutamente inurbano correr rischio di spaventarle o di doverle lasciar a lungo in mezzo ad una turba di curiosi o di malevoli, per finir una discussione con un fattorino od un fiaccheraio. Se si viaggia con altri, patti chiari e mettersi sempre d'accordo sulla spesa. Tornerò su quest'argomento parlando dei luoghi di bagni, dove porrò anche le norme sul contegno da tenersi aIl'albergo. È sconveniente, visitando gallerie o chiese, deridere ad alta voce Ie cose che si vedono od i riti della religione del paese; più che sconveniente, in certi casi può riuscire pericoloso: anche i costumi vanno rispettati, l'uomo veramente per bene leva il cappello in una chiesa cattolica... e lo mette in una sinagoga, accetta con la stessa urbanità il denso caffè dei turchi, la spumosa birra dei tedeschi, l'idromele dei norvegiani ed il latte di coco degli abissini; mostra la stessa deferenza a qualunque ospite, sia un signore europeo, uno scheik, od un moro. Il motteggio è sempre incivile, ed anzi lo è tanto più, quando chi se lo permette è o sembra superiore alla persona derisa. I forestieri, se alloggiano da conoscenti e ne ricevono molti favori devono, appena partiti, ringraziare con lettera e più tardi inviare un ricordo. Essi invece non hanno, in genere, obbligo d'invito. Sono gli ospiti che pagano e si va a visitar musei, se si fanno gite e se si prendono palchi a teatro.
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La scuola non è più oggi com'era ab antiquo il monopolio dei ricchi e delle altre classi privilegiate. La scuola è oggidì patrimonio di tutti. Quanti figli di contadini non sono arrivati alle somme cariche dello Stato, anzi a dirigere la cosa pubblica del proprio paese?! Ciò è frutto dell'istruzione e dell'educazione popolare,che oggi s'infiltra dappertutto, anche in fra le campagne, mercè il grande,l'immenso beneficio della scuola. La scuola è un santuario; e tale dev'essere considerata da coloro che la frequentano. Mandare i figli a scuola è un dovere dei babbi e delle mamme; ma è un sacrosanto dovere dei figli il frequentarla con profitto. E per trarne profitto bisogna sopratutto portare non solo rispetto,ma venerazione verso gl'insegnanti. Il maestro è il nostro secondo padre,anzi spesso c'insegna molto di più e meglio del primo! Guai al fanciullo che non sappia rispettare l'autorità ed ascoltare la parola del suo precettore! In iscuola bisogna saperci stare colla sommissione, collo stesso rispetto che si deve usare in chiesa. È pessima educazione,stando a scuola, disturbare i compagni vicini, ciarlare con essi, fare ad essi dei dispettucci, sottrarre loro qualcosettina, anche di minimo valore, fare occhiate o boccacce convenzionali ai compagni lontani, pessima e riprovevole sopratutto la disattenzione propria provocando quella degli altri alle parole del maestro. A scuola bisogna restare ben composti sui banchi, che non bisogna nè tagliuzzare con coltellini nè lordare coll'inchiostro. Nè si debbono strappare o guastare libri, nè sciupare nè sporcare quaderni; come pure conviene astenersi da qualunque sbaffo o giroglifico sui muri, sui cartelloni e su altra suppellettile scolastica. Nè lo scolaro si rivelerà diligente ed educato solo entro le aule della scuola; ma deve conservare questo contegno anche quando ne esce. Imperocchè, ultimata la lezione, non c'è bisogno di correre all'impazzata, strimpellando coi piedi e rincorrendo i compagni o sbandarsi e soffermarsi a giuocarellare sul portone della scuola in giuochi sconci e sguaiati, accompagnandoli con grida altrettanto sguaiate e disadorne. Lo scolaro per bene, uscito dalla scuola, si accomiata dal maestro, saluta i compagni, rammanisce i libri e i quaderni e s'avvia a casa, sia pure con portamento ilare e marziale, ed ivi giunto, soddisfatto d'aver compiuto il Suo dovere, si riposa fra le ginocchia del babbo e della mamma ch'è suo obbligo di tenere al corrente del progresso dei suoi studi, sapendo bene che questa è la maggiore consolazione dei genitori. Insomma il fanciullo deve considerare la scuola non come un passatempo od una punizione, ma come una palestra di bene per il suo intelletto, per l'anima sua, per il suo stesso fisico, che dai banchi della scuola riporteranno la prima salutare impressione per tutta la sua esistenza.
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E non ab- biamo scrupoli di riunire le bimbe ai fanciulli sotto la nostra vigilanza materna. La compagnia della donna abitua per tempo il piccolo uomo a dominarsi, ad essere generoso, a quella urbanità e a quei riguardi che più innanzi nella vita lo renderanno disinvolto e simpatico: e la compagnia dei fanciulli fa le bimbe più schiette, più vivaci, più semplici.
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Stucchino gli risponde col fiato corto: - Ab...bia...mo sen...ti...to tutto, signor cappellano! Se quei manigoldi le avessero torto anche soltanto un capello, avremmo «atomizzato» immediatamente la cantina. Ma con che energia lei ha attaccato! Quel pirata d'acqua dolce avrà fatto degli occhi così! - Credi? - dice il cappellano con una strizzatina d'occhi. - Però che sia questa la prima e l'ultima volta che venite a spiare la banda del Nord. Ormai lo sapete: ogni atto di spionaggio è vietato. Per ambedue le parti, s'intende! Dunque, via le orecchie dalle fessure! Il cappellano fa uno scherzoso gesto di minaccia, e con i suoi ragazzi se ne va a gran passi tra le macerie, verso la sua motocicletta.
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Già i latini, maestri di tutti, insegnarono i vantaggi della sintesi per gli scrittori pigri: ab uno disce omnes. Venuto l'autunno Sua Altezza provò il bisogno di viaggiare. La cosa accadde così. Da varie settimane i giornali d'Europa consacravano lunghe colonne al ritorno dal Polo d'un ardito principe italiano. Vedevo Sua Altezza seguire con interesse i racconti della audacissima esplorazione. Fu prima curiosità, poi interesse, poi ammirazione, poi desiderio d'emulazione, poi manifesto tormento d'invidia, che una sera s'aprì violentemente quando il principe, dopo pranzo, mentre leggeva ancora giornali e giornali, buttò per aria un fascicolo dell'Illustration pieno di fotografie del principe italiano ed esclamò: «Ma insomma non c'è più al mondo che il duca degli Abruzzi? Non si fa più altro che parlare di lui? Di lui che non è neppure principe ereditario, ch'è terzogenito d'un ramo cadetto, mentre di me, di me che sono figlio d'un re, che son principe ereditario d'un regno come quello di Fantasia, che sarò re un giorno, di me chi si occupa?...». E venendomi davanti, quasi a piantarmi negli occhi le dita agitate: «Me lo sa dire lei chi si occupa di me? Me lo sa dire?...». E poichè non glielo seppi dire camminò a grandi passi per il fumatoio, accese una sigaretta, gettò il fiammifero ancora ardente su una portiera come avesse un'urgente necessità di mettere il fuoco al Palazzo reale, raccolse a terra i giornali europei, schiacciò uno su l'altro, bistrattandoli, su un divano di marocchino e lasciandovisi cader sopra in segno di supremo disprezzo esclamò: «I giornalisti.. Tutti emballés per il duca degli Abruzzi.... E io? Ah, io non ci sono pei signori giornalisti? Ma la vedremo, perdio, se non ci sono.,..» E, balzando di nuovo in piedi e venendomi di nuovo d'innanzi, gridò come se dovesse udirlo l'Europa intera: «Parto!». Invece di partire, si mise a scrivere; e scrisse tutta la notte, al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Esteri, a quello dell'Interno, a quello dell'Istruzione, persino a quello dell'Agricoltura. In queste lettere chiedeva che il Consiglio dei Ministri considerasse l'opportunità, per il decoro di Fantasia, di non rimanere al di sotto dell'Italia e d'avere anche in lui un principe di sangue reale capace di commuovere, con le ardite imprese, tutta la stampa d'Europa e d'America. Non lessi quelle lettere, poichè s'egli non aveva segreti per me in materia galante non aveva per me che segreti in ogni altra occasione della sua vita. Ma dovettero, quelle lettere, essere commoventissime e veramente persuasive se due giorni dopo il Consiglio dei Ministri s'adunava d'urgenza, come avevano avvertito i giornali di Effemeris, e se tre giorni dopo Sua Altezza era chiamata alla capitale dell'autorità paterna convinta oramai della necessità di permettere che Sua Altezza Reale il principe ereditario di Fantasia scoprisse finalmente qualche cosa anche lui. Tornò da Effemeris raggiante e, appena disceso dal treno alla stazione principale di Pulquerrima e appena salito con me in automobile, incastrò nell'occhio la caramella, mi guardò con un sorriso ch'era tutt'un programma ed esclamò: «Col duca degli Abruzzi, sa, faremo i conti. È andato a un Polo? S'accomodi. Ma ce ne son due. E io vado all'altro». Esagerava. Non andò al Polo. Ma nei tre o quattro giorni seguenti al suo ritorno a Pulquerrima ricevette un ragguardevole nemero d'illustri geografi che egli accoglieva coi segni della più viva ammirazione per quanto non li avesse mai sentiti neppure nominare. Ci fu un gran discutere, tra geografi, per stabilire che cosa Sua Altezza avrebbe potuto scoprire con minor disagio e con più sicurezza di riuscita. I varii specialisti contesero, durante lunghe sedute, d'innanzi al principe che ascoltava silenziosamente, curioso di vedere dove l'avrebbero finalmente mandato a coprirsi di gloria e stupito di apprendere che al mondo, dopo tanti millennii e non ostante tanti esploratori, ci fosse ancora tanta roba da scoprire. La maggior difficoltà, quindi, era di trovare per Sua Altezza una missione originale. Propose il principe che gli si affidasse la scoperta di qualche mare poichè egli aveva un bellissimo yacht ed amava molto navigare. Ma dovettero, i geografi, fargli notare che proprio in fatto di mari non c'era assolutamente più di nulla disponibile e che, dopo lunghe meditazioni, essi non potevano offrire alla scelta di Sua Altezza che deserti e foreste vergini. Sua Altezza preferì le foreste, non, come sarebbe possibile credere, per la verginità, ma per amore dell'ombra e per non bruciarsi al sole dei deserti la pelle che egli aveva assai delicata. I geografi fornirono a Sua Altezza tutti gli schiarimenti necessarii su la via da seguire per terra e per mare e sul miglior modo di coprirsi di gloria col minor disagio possibile. La foresta vergine da attraversare era di facilissimo accesso e non c'era poi bisogno di percorrerla tutta. Bastava piantare la bandiera bianca, azzurra e viola di Fantasia un po' più in là del terzo albero. In quarto ai rilievi di superficie e di vegetazione Sua Altezza, se non voleva affaticarsi, poteva contentarsi di calcoli sommarii e di dati approssimativi. La foresta era vergine e dopo la spedizione di Sua Altezza sarebbe certamente tornata più vergine che mai per molti secoli ancora. L'imaginazione del principe poteva quindi liberamente scorrazzare in quelle inesplorate contrade. Un geografo l'avrebbe del resto accompagnato per alleggerire i suoi lavori. Inutile dire che, poichè l'affetto di Sua Altezza è dispotico com'era dispotico il trono dei suoi avi, dovetti accompagnarlo anche io. Rimanemmo assenti tre mesi. Veramente l'esplorazione non occupò più di un paio di settimane. Si trattò d'una comoda traversata per mare, di cinque o sei giorni di piacevole cavalcata e d'una mezza giornata di comodissima marcia, tanto da giungere in vista della foresta vergine lasciando al geografo della spedizione l'incarico di toccarla. Lo lasciammo a raccogliere dati, rilievi, calcoli topografici, geografici, geologici, idrografici, atmosferici e via dicendo. Ma poichè era troppo presto per tornare a Pulquerrima e poichè non basta esplorare, ma occorre anche dimostrare che l'esplorazioue e stata difficile e che fu necessario a compierla gran tempo, si calcolò a tre mesi il termine minimo d'una esplorazione appena appena decente. Di questi novanta giorni n'eran passati solo quindici e ce ne rimanevano settantacinque. Andammo ad occuparli comodamente e pacificamente a Nuova-York, nel più stretto incognito naturalmente. E fu solo quando il geografo ci raggiunse, dopo avere spedito a Fantasia le comunicazioni necessarie su la nostra scoperta, che riprendemmo la via dell'amata patria. Durante là traversata Sua Altezza non trascurò di rimanere molte ore del giorno al sole, sopra coperta, per dare al suo volto quel colorito bronzeo che i restaurants di Nuova-York e le eleganze della Quinta Strada non erano riusciti a dargli, e senza il quale non v'ha evidentemente esploratore che possa chiedere e meritare d'essere preso sul serio. Avemmo al ritorno ad Effemeris e a Pulquerrima onori trionfali, che il principe sopportò con modesta dignità schivando solo lo sguardo, addormentato dietro le lenti cerchiate d'oro, del geografo della nostra compagnia. Ma proprio in quei giorni accadde che Sua Altezza Reale il duca degli Abruzzi attraversasse una volta di più i disegni ambiziosi di Sua Altezza Reale il principe di Fantasia. I giornali europei consacrarono poche righe al ritorno del mio regale amico dalla sua foresta vergine, e lunghe colonne al racconto della spedizione polare del duca degli Abruzzi, il quale, proprio in quei giorni, in due conferenze tenute a Roma, alla presenza dei Reali d'Italia e d'un parterre di principesse e d'ambasciatori, aveva raccontato le traversie del suo animoso viaggio. Mi venne davanti; una sera, il giovane Rolando, con gli occhi spiritati e le mani convulse: «Decisamente, caro mio, questo Duca comincia a seccarmi.... Ecco che adesso non gli basta di scoprire un polo, ma deve anche raccontarlo a tutti.... Crede forse che non abbia un paio di polmoni anch'io e che non possa anch'io raccontare com'ho scoperto la mia foresta.... Lui parla? Parlo anch'io. Fa una conferenza? Nè farò una anche io!» E, detto fatto, Sua Maestà il Re, informato, trovò naturalissimo che il suo intrepido figliuolo consolidasse con una conferenza il prestigio della Monarchia. Ma dove il Re riconosceva veramente intrepido il figliuolo non era nella esplorazione di cui non ignorava le segrete comodità ma a bensì nel coraggio di parlarne e nel tranquillo ardire con cui osava cimentarsi in una conferenza; poichè era tradizionale nella famiglia di Fantasia il poco culto delle discipline letterarie, e, come arte oratoria, non v'era sovrano di Fantasia che non avesse incespicato almeno dieci volte anche leggendo dieci righe d'un brindisi politico scritto dal ministro degli Esteri. Sua Altezza Reale, ch'era tutt'altro che un imbecille, si rese conto tuttavia che si può fare una conferenza sopra un'esplorazione anche senza che l'esplorazione ci sia stata, ma che è assolutamente inconcepibile redigere una conferenza tollerabile su una esplorazione che non ha avuto peripezie. Bisognava, dunque, inventare le peripezie. E, col suo più bel sorriso, per questo ufficio Sua Altezza benignamente si rivolse a me, raccomandandomi di trovarne quante più potevo, un po' nella mia immaginazione e il resto in qualche libro poco noto di qualche altro meno illustre esploratore. La vita diplomatica m'aveva fortunatamente addestrato nell'arte di dire bugie senza averne l'aria, e in una settimana la conferenza fu da me redatta in modo che poteva veramente illudere il popolo di Fantasia su gli oscuri eroismi del nostro pugno di prodi esploratori. Mentre io lavoravo nella biblioteca reale, Sua Altezza aveva ripreso attivamente il suo galante giuoco di scacchi; un fruscìo di gonnelle rispondeva spesso dal salotto vicino al fruscìo delle mie carte. Finalmente una sera potetti annunziare al principe che la conferenza era pronta e invitarlo ad ascoltarne l'indomani la lettura, anche per apprendergli su quale tono modesto e disinvolto gli eroi moderni devono narrare ai popoli le loro audaci avventure. E il giorno dopo, appena finito di far colazione, Sua Altezza ed io ci chiudemmo nella biblioteca armati di sigarette e di buona volontà. Sua Altezza mi ascoltava senza respiro e con lo stesso interesse con cui avrebbe seguito i feuilletons di un romanzo d'Eugenio Sue. A due o tre riprese manifestò la sua meraviglia nel vedere con quanta facilità io riuscivo a dar vita e colore non a quello che era stato ma a quello che avrebbe potato essere. Ma non eravamo ancora ad un terzo della conferenza che la porta s'apri e Sua Altezza fu avvertita che la duchessa di Villahermosa era nell'appartamento vicino. Il Principe mi sembrò assai lieto dell'interruzione. Mi spiegò che la duchessa veniva a vedere la sua collezione di medaglie, poichè la sera prima non aveva resistito all'invito di Sua Altezza quando aveva saputo che nella collezione erano alcune medaglie del Pisanello. Andava pazza pel Pisanello, l'eccellente duchessa! Sua Altezza mi chiese, d'aver pazienza. La visita non sarebbe stata lunga e, del resto, così sembrava al principe, c'era qualche cosa da alleggerire in quella prima parte che gli era apparsa eccellente ma forse un poco prolissa. E se n'andò, acceso in volto, impaziente; e sentii che, richiudendo, dava una mandata di chiave alla pesante porta che separava. Ma anche le porte pesanti non hanno soverchi segreti per gli uditi sottili. M'ero messo attentamente a rivedere le pagine già lette del mio manoscritto, qua sopprimendo un aggettivo, là sacrificando un particolare, per seguire il principe che per dire qualche cosa — come in generale avviene di tutt'i critici aveva trovato prolisso quello che cinque minuti prima gli era apparso stringato. Ma io non sono un autore ostinato a difendere l'intregrità del suo territorio prosastico ; e non c'era del resto pericolo, sopprimendo un episodio, di snaturare il racconto della nostra spedizione ch'era già quanto mai snaturato di per sè stesso. Ma i rumori che mi giungevano dalla stanza vicina non tardarono molto a distrarmi dal mio lavoro di revisione; e ad informarmi, meglio di un buco praticato nella pesante porta che ci separava, sul genere d'occupazioni cui Sua Altezza e la duchessa s'erano, dopo brevi preliminari collezionistici, assai calorosamente abbandonati. Ma la vita di Corte mi aveva già abituato a sentire ogni genere di rumori con la stessa tolleranza con cui ne vedevo di tutt'i colori. Era del resto evidente che, per quanto una dama possa andar pazza per le medaglie del Pisanello, un'ora e più è un limite di tempo veramente superiore ad ogni più esagerata e platonica ammirazione. Era trascorsa più di un'ora, infatti, quando Sua Altezza ricomparve nella biblioteca con l'aria più tranquilla e più innocente del mondo. Ma uno sguardo scambiato fra noi bastò a spiegarci reciprocamente la durata di quella visita ai medaglieri di Sua Altezza. Quando gli occhi si spiegano le parole sono inutili e fu quindi in silenzio che Sua Altezza tornò a sprofondarsi nella sua poltrona di marocchino rosso e, accesa una sigaretta, mi invitò con un cenno di mano a riprendere la lettura interrotta. Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!
. - Un ab... Ma Rhett... - Non riuscí a continuare. L'informazione, con tutto l'orrore che comportava, le toglieva il respiro. - Non sapevi che fosse incinta? Non fu neanche capace di crollare la testa. - Ah be'. Forse no. Credo che non lo avesse detto a nessuno. Voleva che fosse una sorpresa. Ma io lo sapevo. - Lo sapevi? Come mai? - Lo sapevo. Senza che nessuno mi avesse detto nulla. Ma era troppo felice da un paio di mesi; quindi avevo capito che la sua gioia non poteva avere altro motivo. - Ma il dottore aveva detto che un altro bambino significava la morte per lei! - Infatti è stato cosí. - Quindi si volse al cocchiere: - Ma non potete andare piú presto? - Non può essere che muoia, Rhett! Io... non sono morta e... - Non è forte come te. Non è mai stata forte. Non ha mai avuto altro che un gran cuore. La carrozza si fermò e Rhett aiutò Rossella a scendere. Tremante, atterrita, ella si afferrò al suo braccio con un subitaneo senso di abbandono. - Entri anche tu, Rhett? - No. - E risalí in carrozza. Ella salí in fretta i gradini, attraversò il porticato, spalancò la porta. Nella luce giallastra della lampada erano Ashley, zia Pitty e Lydia. Rossella pensò: «Che fa qui, Lydia? Melania le aveva proibito di rimettere piede in casa». I tre si alzarono vedendola; zia Pitty si morse le labbra per impedire che tremassero; Lydia la fissò addolorata e senza odio. Ashley sembrava inebetito come un sonnambulo e avvicinandosi a lei mettendole una mano sul braccio, parlò anche come un sonnambulo. - Ha chiesto di voi - disse. - Posso vederla adesso? - Si volse verso l'uscio chiuso della stanza di Melania. - No. C'è il dottore. Sono contento che siate venuta, Rossella. - Sono venuta il piú presto possibile. - Si tolse il cappello e il mantello. - Il treno... Ma è proprio...? Ditemi, Ashley: sta meglio, non è vero? Parlate! Non mi guardate cosí? È proprio... - Ha chiesto di voi - ripeté Ashley e la fissò. Nei suoi occhi ella lesse la risposta alla sua domanda. Per un attimo il suo cuore cessò di battere; quindi uno spavento piú forte dell'angoscia, piú forte del dolore, lo rianimò. «Non può essere vero» pensò con impeto, cercando di scacciare il pensiero atroce. «I dottori sbagliano. Non voglio crederlo. Non posso. Se lo credo mi metto a urlare. Devo pensare a un'altra cosa.» - Non lo credo! - gridò con veemenza guardando i tre visi che avevano i tratti tirati, come per sfidarli a contraddirla. - E perché Melania non me l'ha detto? Non sarei andata a Marietta se lo avessi saputo! Gli occhi di Ashley si svegliarono e furono pieni di tormento. - Non lo aveva voluto dire a nessuno, Rossella, e specialmente a voi. Temeva che se lo aveste saputo l'avreste sgridata. Voleva aspettare tre mesi... per essere sicura e certa che tutto andava bene; e allora ridere e dire a tutti quanti che i dottori avevano avuto torto. Ed era tanto felice. Sapete come è sempre stata amante dei bambini... e come desiderava una bimba. E tutto è andato bene fino... Senza nessuna ragione... La porta della stanza di Melania si aperse e il dottor Meade ne uscí, richiudendo l'uscio. Rimase per un attimo con la barba grigia piegata sul petto; quindi guardò i. quattro allibiti. Il suo sguardo cadde per ultimo su Rossella. Le si avvicinò ed ella vide che nei suoi occhi, oltre al dolore, era antipatia e disprezzo che le riempirono il cuore di rimorso. - Finalmente siete venuta - disse il dottore. Prima che ella rispondesse, Ashley si era avviato verso l'uscio chiuso. - Voi no, adesso - disse il dottore. - Vuole parlare con Rossella. - Dottore - fece Lydia mettendogli una mano sulla manica. Benché la sua voce fosse senza tono, era piú supplichevole che se avesse gridato. - Lasciatemela vedere un momento. Sono qui da stamattina aspettando, ma lei... Lasciatemela vedere un momento. Voglio dirle... debbo dirle... che ho avuto torto... per una certa cosa. Non guardò Ashley né Rossella; ma il dottor Meade lasciò cadere su quest'ultima un'occhiata glaciale. - Vedrò, miss Lydia - disse brevemente. - Ma solo se mi date la vostra parola di non affaticarla dicendole questo. Ella sa che avevate torto; e le vostre scuse non potranno che turbarla. Pitty cominciò timidamente: - Vi prego, dottore... - Miss Pitty, sapete benissimo che non fareste altro che gridare e svenire. Pitty si raddrizzò e ricambiò il dottore la sua occhiata. Aveva gli occhi asciutti e in ogni sua linea era una fiera dignità. - Bene, cara, vedremo piú tardi - disse il dottore rabbonito. - Venite, Rossella. Attraversarono il vestibolo in punta di piedi; dinanzi alla porta il dottore posò duramente una mano sulla spalla di Rossella. - Sentite, miss - sussurrò brevemente: - niente isterismi e niente confessioni al letto di morte da parte vostra; o, giuraddio, vi torco il collo! È inutile che mi guardiate con quell'aria innocente. Sapete quello che voglio dire. Miss Melly deve morire tranquilla; e voi non dovete alleggerire la vostra coscienza dicendole qualche cosa di Ashley. Non ho mai fatto male a una donna; ma se dite qualche cosa... ve la farò pagare. Aperse l'uscio prima che ella potesse rispondere, la spinse nella stanza e richiuse. La stanza, modestamente arredata con mobili di noce, era nella semioscurità; un giornale era stato messo dinanzi alla lampada come schermo. Sembrava la camera di una scolaretta, col suo lettino stretto a spalliera bassa, le tendine abbassate, i tappeti chiari; cosí diversa dalla sontuosità della camera da letto di Rossella coi suoi mobili intagliati, le tende di broccato rosso, i tappeti di velluto. Melania era a letto: sotto le coperte la sua figura era minuta e sottile come quella di una bimba. Due trecce nere le ricadevano ai lati del volto; sotto agli occhi chiusi si disegnavano due profondi cerchi violacei. Vedendola, Rossella rimase come radicata a terra, appoggiata allo stipite. Malgrado la semioscurità, vedeva che il volto di Melania aveva un color di cera giallognola, come se non avesse piú sangue; e il naso era stranamente assottigliato. Fino a quel momento Rossella aveva sperato che il dottor Meade fosse in errore. Ma ora sapeva. Aveva visto in ospedale troppi visi che avevano quell'espressione; e sapeva che cosa presagiva. Melania era moribonda; ma per un momento il cervello di Rossella rifiutò di arrendersi. Non poteva morire. Era impossibile che morisse. Dio non lo permetterebbe perché lei, Rossella, ne aveva troppo bisogno. Non se ne era mai resa conto prima. Ma ora la verità sorgeva dai piú ascosi recessi della sua anima. Ella aveva sempre fatto assegnamento su Melania come su stessa, senza saperlo. Ora Melania moriva e Rossella sapeva che non avrebbe potuto fare a meno di lei che era stata la sua spada e la sua difesa, la sua forza e il suo conforto. Attraversò la stanza in punta di piedi, col cuore stretto dal panico. «Non posso lasciarla morire!» pensò; e piombò accanto al letto in un gran fruscío di vesti. Afferrò la manina che giaceva sulla coperta e fu nuovamente atterrita sentendola cosí fredda. - Sono io, Melly - disse. Gli occhi di Melania si apersero un poco; poi, come se fosse stata soddisfatta nel vedere che era veramente Rossella, si richiusero. Dopo una pausa la moribonda trasse un respiro e mormorò: - Mi prometti? - Oh, tutto quello che vuoi! - Beau... ti occuperai di lui? Rossella poté soltanto annuire, sentendosi soffocare, e strinse lievemente la mano che era nella sua, per assentire. - Te lo do. - Vi fu un debole tentativo di sorriso. - Te lo diedi già una volta, prima... ricordi? prima che nascesse. Se si ricordava? Come poteva dimenticare quel periodo? Risentí precisamente come se fosse allora il calore soffocante del pomeriggio di settembre; ricordò la paura degli yankees, udí Io scalpiccío delle truppe in ritirata, riudí la voce di Melania che la pregava di tenere con sé il bambino se lei fosse morta... ricordò anche che quel giorno aveva odiato Melania e sperato che morisse. «L'ho uccisa io» pensò con angoscia superstiziosa. «Ho desiderato cosí spesso la sua morte; e Dio mi ha ascoltata e mi punisce. » - Non parlare cosí, Melly! Sai che supererai anche questo... - No. Prometti. Rossella deglutí. - Certo che prometto. Lo tratterò come se fosse mio figlio. - Collegio? - La voce di Melania era debolissima. - Certo! Università di Harvard, Europa e tutto ciò che sarà necessario... un pony... lezioni di musica... Oh Melly, ti supplico! Tenta di guarire! Il silenzio ricadde; sul volto di Melania apparvero i segni di una lotta per raccogliere la forza di parlare ancora. - Ashley... - disse. - Tu e Ashley... - E la voce tacque nuovamente. Il cuore di Rossella si fermò e le pesò come un masso di granito. Melania sapeva. Rossella lasciò cadere il capo sulla coperta e un singhiozzo che non volle uscire la strinse alla gola come una morsa di ferro. Melania sapeva. E Rossella non provava piú vergogna, piú nulla se non un selvaggio rimorso di avere per tanti anni offeso quella soave creatura. Melania aveva sempre saputo... eppure era rimasta sua amica. Oh, poter rivivere quegli anni! Non poserebbe mai piú i suoi occhi su quelli di Ashley... - O Dio - pregò rapidamente - ti supplico, falla vivere! Sarò buona con lei. Non parlerò piú con Ashley finché vivo, se la fai guarire! - Ashley... - riprese Melania debolmente; e le sue dita cercarono di toccare il capo chino di Rossella. Il pollice e l'indice riuscirono ad afferrare una ciocca di capelli, con la stessa forza che avrebbe avuto un bambino. Rossella comprese il desiderio della morente: che ella levasse il capo. Ma come incontrare lo sguardo di Melania e leggervi la conoscenza del suo tradimento? - Ashley... - mormorò nuovamente Melania. Rossella sentí che sarebbe assai meno tremendo per lei guardare in faccia Iddio, nel giorno del Giudizio Universale, e leggere la sentenza nei Suoi occhi. La sua anima si contorse, ma ella alzò il capo. Vide gli stessi occhi neri pieni di dolcezza, infossati e resi opachi dalla morte imminente; la stessa bocca affettuosa che tentava faticosamente di trarre il respiro. In essi non era alcun rimprovero, alcuna accusa... solo l'ansia di non avere abbastanza forza per parlare. Per un attimo Rossella fu cosí stupita che non provò neanche sollievo. Poi un fiotto di calda riconoscenza verso Dio la inondò; e per la prima volta dalla sua infanzia ella levò al Cielo una preghiera priva di egoismo. «Ti ringrazio, Dio mio. So che non ne sono degna; ma Ti ringrazio perché non glielo hai fatto sapere.» - Che vuoi dire di Ashley, Melly? - Ti... occuperai di lui? - Certo. - Si raffredda... cosí facilmente. Vi fu una pausa. - Occupati... dei suoi affari... capisci? - Capisco. Me ne occuperò. Fece un altro sforzo. - Ashley non è... un uomo pratico. Solo la morte poteva far riconoscere questo a Melania. - Occupati di lui, Rossella... ma... che non se ne accorga. - Sorveglierò lui e i suoi affari, senza che se ne accorga. Fingerò di dargli dei suggerimenti. Melania cercò di sorridere; i suoi occhi ebbero un'espressione di trionfo nell'incontrare quelli di Rossella. Il loro sguardo suggellò il contratto: la protezione di Ashley Wilkes contro un mondo troppo aspro per lui, passava da una donna a un'altra, e l'orgoglio maschile di Ashley non sarebbe mai stato umiliato dalla conoscenza di questo patto. Dopo la promessa di Rossella i lineamenti di Melania si distesero e sul suo volto apparve un'espressione di pace. - Sei cosí intelligente... e coraggiosa... e sei sempre stata cosí buona con me... A queste parole il singhiozzo liberò la gola di Rossella, la quale si chiuse la bocca con una mano. Aveva l'impulso di urlare come una bambina e di prorompere: «Non sono stata buona con te! Ti ho fatto torto! Non ho mai fatto nulla per te, ma solo per Ashley!» Si alzò in piedi bruscamente mordendosi un dito per riacquistare il dominio di sé. Le tornarono alla mente ancora una volta le parole di Rhett. «Ti vuol bene. Questa sarà la tua croce.» La croce era adesso piú pesante. Non bastava aver cercato in ogni modo di toglierle Ashley! Melania, che aveva avuto per tutta la vita una fiducia cieca in lei, le conservava lo stesso affetto e la stessa fiducia anche nella morte. No, non poteva parlare. Non poteva neanche dirle nuovamente: «Fai uno sforzo per vivere». Doveva lasciarla andare cosí, senza sforzi, senza pena, senza lacrime. L'uscio si aperse piano; il dottor Meade apparve sulla soglia facendole un cenno imperioso. Rossella si curvò sul letto, ricacciando indietro le lagrime e prendendo una mano di Melania se la posò contro la guancia. - Buona notte - le disse; e la sua voce fu piú ferma di quanto credeva. - Prometti... - e il sussurro fu ancor piú lieve questa volta. - Tutto, cara. - II capitano Butler... sii buona con lui. Ti... ti ama tanto. «Rhett?» pensò Rossella stupita; ma le parole rimasero senza significato per lei. - Sí, cara - rispose automaticamente; e dopo aver baciato leggermente la mano, la posò di nuovo sul letto. - Dite alle signore di venire subito - le mormorò il dottore mentre ella gli passava davanti. Con gli occhi annebbiati, Rossella vide Lydia e Pitty seguire il dottore, tenendo con le due mani le gonne accostate ai fianchi per impedire che frusciassero. L'uscio si chiuse dietro a lei e la casa fu silenziosa. Ashley non si vedeva. Rossella appoggiò il capo alla parete, come una bimba cattiva posta in un angolo, e premette una mano sulla gola che le doleva. Dietro quella porta Melania se ne stava andando e con lei se ne andava la forza che l'aveva inconsciamente sorretta per tanti anni. Perché, perché non aveva mai compreso quanto amasse Melania, quanto bisogno avesse di lei? Ma chi avrebbe mai pensato a quella piccola donna come a una torre di sostegno? Melania cosí timida dinanzi agli estranei, Melania che non osava dire ad alta voce la propria opinione, che temeva la disapprovazione delle vecchie signore, Melania che non aveva il coraggio di fare «sciò» a una gallina?! Eppure... Il pensiero di Rossella tornò attraverso gli anni a quel caldo meriggio a Tara, quando una nuvoletta di fumo grigio si levava da un corpo vestito di azzurro e Melania era al sommo della scala con la sciabola di Carlo fra le mani. Ricordò di aver pensato in quel momento: «Che sciocca! Non ha neanche la forza di alzare una spada!» Ma sapeva che se fosse stato necessario, Melania avrebbe sceso quella scala di corsa e avrebbe ucciso lo yankee... o ne sarebbe stata uccisa. Sí, Melania, con la spada in mano, era stata pronta a combattere per lei. Ed ora, guardandosi tristemente indietro, Rossella comprendeva che Melania era sempre stata al suo fianco con una spada in mano, discreta come un'ombra, amandola e lottando per lei con appassionata fedeltà, combattendo contro yankees, fuoco, povertà, opinione pubblica e perfino contro gli amati parenti. Rossella sentí il proprio coraggio e la propria fiducia in se stessa abbandonarla, quando si rese conto che la spada che aveva fiammeggiato fra lei e il mondo era rinchiusa per sempre nella sua guaina. «Melly è la sola amica che ho mai avuto» pensò tristemente «la sola donna, eccetto la mamma, che mi abbia mai voluto veramente bene. Anche lei è come la mamma. Tutti quelli che la conoscevano si afferravano alle sue gonne.» E ad un tratto ebbe l'impressione che dietro quell'uscio chiuso giacesse Elena che lasciava il mondo una seconda volta. Le parve di essere nuovamente a Tara, dinanzi al mondo, nella desolazione di sapere che non poteva fronteggiare la vita senza la terribile forza di chi era dolce, gentile, tenero di cuore.
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Parecchi ricchi gentiluomini ed ecclesiastici napoletani testarono ab antico in favor di San Gregorio Armeno de' legati per uso di patrimoni, di cappellaníe, di maritaggi, di atti di beneficenza. Erano adunque fortunati i chierici che avessero potuto ispirare amicizia alle monache potenti di quel luogo: il traffico de' voti nel ballottaggio del badessato, le abilita al godimento di molti privilegi, uno de' quali si è pur quello di dispensare a seconda del loro gusto cotesti benefizi. E però il chierico protetto è sicuro di acchiappare presto o tardi il patrimonio e la cappellanía, nel qual caso la protettrice fa sovente a proprie spese la festa della prima Messa; e mi rammento di un tale chierico, divenuto, Dei gratia, prete, il quale, per essersi addentrato nella benevolenza della patrona, si ebbe non solamente gratis le spese della festa, ma eziandio un sontuoso banchetto in casa sua per 24 persone, apportatogli dalla carrozza in livree di gala, che la monaca chiese in prestito dalla propria famiglia. La badessa approvava tali scandalose prodigalità, anzi le fomentava dicendo: "Io pure ho fatto lo stesso; scapriccitevi, povere ragazze! in fede mia, si è fatto sempre cosi." Per altro inculcava loro fra' denti di non fare in mia presenza ostentazione di quelle stoltezze: al che assentivano le suore, avvedutesi ch'io non voleva punto conformarmi al loro modo di pensare e di operare. Egli è perciò, che al vedermi comparire innanzi interrompevano sempre i loro ragionamenti, e nel mandare il suddetto pranzo al prete si studiarono d'impiegare le più minute precauzioni, acciocchè la lautezza rimanesse sconosciuta a me. Usavano nella Settimana Santa di acconciare magnificamente una parte del coro per eseguirvi, in memoria del fatto evangelico, la funzione della lavanda dei piedi. Erano collocati sugli altari i simboli della Passione, unitamente a tutta l'argenteria, particolate di ciascheduna delle monache, mentre un'infinita quantità di ceri illuminava la scena. Dirò scena, o commedia? Duolmi di adoperare in divini argomenti la seconda denominazione. Ma che cosa infatti di più comico, di più ridicolo, di più profano al pudore cristiano, del vedere un Gesù Cristo perfettamente liscio e sbarbato in volto, con veste e forme femminili, nell'atto di lavare i piedi a dodici apostole in sottanino ed in calzette di seta? Scommetto che se i Mormoni dell'America, quei comunisti ed eretici dannati, venissero a penetrare che la Chiesa romana suole trasformare in tal modo il Figlio di Dio, non esiterebbero un istante di ritornare a braccia aperte in seno al cattolicismo. I quattro chierici morivano dalla pietosa voglia di vedere scalze le sante apostole. A notte avanzata del giovedì santo, quando il tempio fu chiuso agl'incirconcisi, e che pur io mi fui ritirata, poggiarono ad una delle grate del coro la più lunga scala della chiesa, e coll'aiuto di questa montarono sul cornicione del coro medesimo, ove preso posto, si fecero spettatori e sovente confabulatori del dramma. - È ben vero che le cose passarono tranquillamente, nè si ebbe a deplorare alcun disordine. Io ne conosceva il progetto sin dal giorno innanzi, e mi ritirai prima del solito per lasciarle libere. - Erano allora decorsi otto anni, dacchè io era entrata nel chiostro; ed in questo intervallo non avevano giammai scorta in me la benchè minima inclinazione per un prete, per un monaco o per un chierico; neppure pel mio confessore, il quale, nonostanbe la persistente mala voglia che gli dimostrava, ostinavasi, or sotto questo or sotto quel pretesto, a farmi scendere nel confessionale spesso spesso. Non già perchè il mio cuore a ventisett'anni fosse morto all'amore, o perchè avessi aspirato al selvatico onore di farmi rigido Catone dei poveri innamorati: no, davvero; ma mi disgustava la loro ipocrita e simulata bacchettoneria: quel voler ostentare delle virtù ed un candore che non avevano; mi disgustava la persecuzione che movevano a qualcuna delle loro compagne, se per caso stranissimo avesse questa concepito simpatia per un uomo che non fosse sacerdote od avviato al sacerdozio. Queste finzioni, questi egoismi di casta, e non altro, io detestava. Che se avessero francamente mostrata la loro debolezza per tale o tal altro prete, per tale o tal altro chierico, io le avrei con pari franchezza compatite, come avvenne più volte con qualche educanda, monaca o conversa che mi aveva confidato il segreto della sua fragilità; le avrei compatite con quel cuore propenso a' sentimenti di umanità, partecipe delle debolezze di sua natura, con quel cuore sensibile, che sotto la ruvida lana tuttavia batteva..... Una volta era desso in procinto di rinfiammarsi (non per un religioso) chiesi soccorso a Dio, e Dio ne spense le faville. Una passione di quella sorta non avrebbe fatto che aggravare la mia sventura. Egli era un medico; l'amai per ispontanea ispirazione, l'amai nei più reconditi penetrali dell'affetto, innanzi che la ragione se ne fosse accorta. In grazia del mio ufficio d'infermiera lo vedeva spesso: spesso nella cella dell'inferma l'accompagnai con gli occhi umiliati a terra, col sentimento dell'abdicazione che avevo fatta ad ogni commozione tenera, col convincimento che sotto il voto della monastica castità, spregevole sarei stata da lui reputata, ove uno sguardo solo mi avesse tradita. Ah, chi non ha indossato il cilicio non sa quanto sordo alle invocazioni del cuore sia l'isolamento del cenobio! Non comprese egli i miei sforzi a reprimere que' palpiti ribelli, nè per conseguenza conobbe il mio trionfo. - Tanto meglio! Seppi più tardi, che il suo cuore era dedicato ad altra donna meno disgraziata di me. Egli morì nel fior degli anni, sul più bello della sua carriera..... Fu egli compianto dalla giovane che amava? Ritorniamo al racconto. Passati due anni nel suddetto ufficio, fui nominata sagrestana; era l'incarico che più degli altri metteva la monaca in contatto coi preti. Opinarono allora parecchie suore che avrei finito coll'amarne qualcuno; altre, più svelte, si strinsero in congiura per farmi cadere. La sagrestana mia predecessora, nel darmi la consegna dei sacri arredi, mi disse che dei quattro chierici, uno solo essendo esatto nelle sue incombenze, di lui specialmente doveva servirmi. Era quella monaca, una buona ed onesta donna, sicchè seguii il suo consiglio. Frattanto le congiurate seguivano con ansietà i miei passi, per assicurarsi se, e come, e quando sarei caduta nel tranello. Che importava se il loro campione era di più che volgare figura, di crassa ignoranza, di molta rozzezza? Nel servizio della sagrestia io gli aveva data la preferenza: consolante augurio! Era ben naturale che su di lui si concentrasse l'azione della trama. Di quante iniquità non è cagione l'ozio! Le suore della consorteria trovarono di sovente una qualche scusa per iscendere al comunichino, e dire al chierico: "Ora te ne puoi star contento, eh?" "Perchè?" "Perchè hai avuta una sagrestana giovine e svelta." Unaltra volta gli dicevano: "Che fortuna!" "Perchè?" "Si dice che la sagrestana trovi molti requisiti nella tua persona." "Che idea strana! Da che lo desumono?" "Dalla premura con che ti chiama in preferenza degli altri chierici; dalla fiducia che ti mostrò consegnando ogni cosa a te." Come altrove ho detto, soffriva io molto di nervi: le convulsioni mi si erano rese periodiche. Ad ogni mia indisposizione, lo chiamarono al portello, e con impudenza di cortigiane gli recarono saluti a nome mio. - Nè qui l'impudenza si fermò: perocchè, immaginato e steso sulla carta un vigliettino con sotto il mio nome di battesimo, glielo fecero, non so per qual mezzo, venire in mano. In pari tempo m'involarono un tenue oggetto di biancheria, e in nome mio glielo presentarono. La testa del povero giovine cominciò a vacillare. Se ne avvidero quelle, allorchè, annunziatogli ch'io mi stava gravemente inferma, ei si cavò di tasca la pezzuola per asciugarsi gli occhi, nè potè altrimenti nascondere il suo travaglio. "È cotto di lei!" Dissero allora fra loro, stropicciandosi le mani, e gongolando di gioia. Ma della comica passione del chierico ben anch'io mi avvidi, non appena convalescente e rientrata nell'uffizio. Saputo l'imbroglio del viglietto e del donativo, alle intriganti monache scagliai le più energiche rimostranze: a lui feci tosto conoscere che lo scritto era falso, e che l'oggetto, a nome mio presentatogli, mi era stato poc'anzi preso dal fagotto della lavandaia. Costui masticò male la dura rivelazione: s'impegnò a restituirmi il foglio necessario alle ricerche che mi era prefissa, ma fosse per altrui suggerimento, fosse per ispontanea riluttanza, non me lo diede. Fatto sta che quel poveretto erasi ben bene innamorato di me. La sua faccia era divenuta secca allampanata: il naso affilato, gli occhi infossati. La sua bocca, naturalmente grande, avea per lo smagrimento, prese le proporzioni di quella della lucertola. - Io lo rimproverai spietatamente. "Sciocco," gli dissi, "non intendi che sei divenuto lo zimbello d'una brigata di monache, non meno pazze che insidiose, le quali, nell'atto di prendersi beffe della tue ingenuità, vorrebbero inoltre cogliere un più grande vantaggio, quello di dare argomento di molestia a me, ed ancora, se fosse possibile di abbassare qui dentro la mia riputazione a livello della loro? Rientra in te stesso, raffrena gli stolti desiderii, e bada d'ora innanzi a comportarti più saggiamente nel disimpegno de' tuoi doveri, se non vuoi perdere il pane e l'onore." Rispose, riconoscere ormai l'eccesso della propria follia: non esser però egli stesso l'autore di quella malaugurata passione, ma sì le tali e tali monache che a poco a poco glie l'avevano insinuata nel cuore: alla fin fine, l'amor suo aver toccato tale grado di intensità, da non rimanergli più veruna speranza di poterlo signoreggiare. "In tal caso," ripresi io, "non ti resta che un solo scampo: duro sì, ma inevitabile." "Parlate! Legge suprema sarà per me il vostro consiglio." "Le celie di quelle donne sono zampate di tigre; oggi ridono della tua semplicità, domani ti scaveranno la fossa. Ascolta il mio consiglio: cercati la sussistenza in altra chiesa, e portami al più presto la tua rinunzia." Il tuono secco e reciso di questi miei detti contrastava coll'interno senso di compassione che mi destava un avvenimento diretto a togliere il pane a quel povero tribolato. Quest'abboccamento, che durò appena 10 minuti, e finì pel chierico in uno scoppio di pianto, venne interrotto dall'arrivo del sagrestano. Convinta però che le monache covavano un reo progetto, e dolente per altra parte di rovinare quel giovine il quale altra colpa non aveva che quella d'esser un po' stolto, deliberai di troncarla con un mezzo più consentaneo alla pietà. Recatami dalla badessa, la pregai a nominare in vece mia un'altra sagrestana, dopo l'infermità non sentendomi io in forze da sostenere i pesi di quell'uffizio. - Costei rispose non giudicar la mia salute tanto rovinata quanto piaceva a me di rappresentarla; non esservi, d'altronde, esempio che una monaca si fosse dimessa dalla carica senza finire l'anno d'uso. Il mio confessore, al quale l'affare dispiaceva, unì le sue alle mie preghiere per indurla a cedere; ma, inflessibile alle reiterate domande, ella perseverò nel rifiuto. Stizzita però dalle mie moleste insistenze, mi disse un giorno: "Ma, insomma, perchè vuoi lasciare il posto? Perchè qualche pazzarella ti accusa di amoroso commercio col chierico? Quanta sei minchiona! Forse lei stessa, forse le altre ancora non hanno fatto, non fanno e non faranno sempre lo stesso? A tali cianciafruscole, se hai granello di buon senso, non devi badare!" Le cose camminarono così, finchè l'episodio non fu giunto a spontaneo scioglimento. Un giorno, mentre io cantava in coro, il chierico innamorato svenne in chiesa per la commozione. La chiesa era affollata: nacque un bisbiglio da non dirsi. I preti nella sagrestia si turbarono,i chierici se la godevano, le monache, calata la maschera, scaricarono sulla loro vittima le farétre, sclamando ad una voce: "Quanto è ridicolo! quanto è stupido!" Poi soggiungevano: "La santa Messa è mutata in commedia.... queste scene fanno vergogna al convento." Di lì a non molto trovai il chierico che si struggeva in pianto. "Siamo congedati tutti quattro noi chierici," mi disse con voce interrotta dal singhiozzo. "È mai possibile?" "Pur troppo. Dio mio, che sarà di me!" "Tutti quattro congedati! Hai dunque trascinato anche i colleghi nella tua rovina?" "No: la rovina sarà soltanto mia. Gli altri tre se ne vanno per pura apparenza: fra poco ritorneranno, io solo non ci ritornerò più." "Fanno bene a congedarti con tal garbatezza," conchiusi io. "Me ne duole cordialmente, ma la tua situazione in questo luogo era divenuta insopportabile." Gli abitanti delle contrade vulcaniche sono pieni di fuoco al pari de' loro vini; ed io son Napoletana. Accesa di sdegno, mi portai subito dalla badessa; le espressi la mia compiacenza, pel congedo de' chierici, ma non lasciai di redarguirla dell'ostinata renitenza nell'occasione precedende della mia rinunzia. "Se aveste accettata la mia dimissione, quando con tanta insistenza ve la chiedeva," le dissi con vivacità, "non vi sareste trovata oggidì nella crudele necessità di mettere ad effetto un provvedimento, che tornerà a scapito non meno del vostro monastero, che di quei poveri giovani. Ma ciò che è fatto, non si disfà. Un solo schiarimento mi resta a chiedervi, e questo si riferisce particolarmente al mio personale decoro. È reale, è positivo, oppur è solamente simulato il complessivo congedo di tutti quattro i chierici? In altre parole, vi riserbereste forse in petto il disegno di richiamare fra poco tre di loro, per infliggere l'esclusione ad un solo?" "No," rispose essa. "Il cielo non voglia! Comune e definitiva è, e sarà per tutti, l'esclusione!" "Avrete bastante fermezza da resistere ai maneggi delle monache che li proteggono?" Ci trovavamo presso una cappella, dedicata alla Vergine. La badessa si volse verso l'immagine, e levando le mani al cielo: "Giuro," disse, "per Maria santissima, che nessuno di loro ritornerà." "Ed io giuro," soggiunsi, "che se uno di loro entrasse per una porta, io uscirei subito da quell'altra!" Ci separammo in pace. Ma la povera donna era più di parole che di fatti. Ella contava i voti che le si rendevano indispensabili alla riconferma nel badessato. Di lì a otto giorni i tre chierici ritornarono. Nè a questo si ristrinse l'intrigo; tentò inoltre la consorteria di spandere sul mio portamento un'ombra di denigrazione. A che non giunge la perfidia fratesca! Quegli dei quattro chierici, che di fatto era espulso dalla chiesa, fu da' confessori e dai monaci della chiesa stessa denunziato al cardinale; il quale, con altrettanto smoderato desiderio di arrendersi alla voglie delle sue creature, l'obbligò a deporre l'abito clericale. L'abbadessa aveva mancato al suo giuramento: io volli mantenere il mio. Quel giorno fermai incrollabile nell'animo la risoluzione di lasciare ad ogni costo un luogo, dove ribollivano le macchinazioni e traboccava il fiele dell'invidia.
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Durante la funzione, il padrino di battesimo tiene la mano sulla spalla del bambino e risponde, per lui, alle domande del prete, che gli chiede se rinunzia al mondo, se rinunzia alla carne, se rinunzia alla diavolo; infine, tre ab renuntio; risponde al vis baptizari, chiesto dal prete, con un volo, sempre per conto del bambino; infine, dice il Credo insieme al prete, con la madrina, con la nutrice, se vi sono, e con tutti gli astanti. Per lo più, se il padrino molto ignorante di queste risposte latine, vi è chi gliele suggerisce. Dopo il battesimo, il padrino rientra in carrozza, arriva a casa, ed è lui che presenta alla madre e al padre, il nuovo cristianello o la nuova cristianella: in quel momento, dà i doni alla puerpera e al neonato. Poi, la sua corvée non è finita ancora, poichè egli deve regalare alla levatrice, alla nutrice, alle persone di servizio della casa, alla prima una somma variabile da venti a cinquanta lire, alla seconda da dieci a venti lire, agli altri da cinque a dieci lire: tutto questo, partendo da un punto di vista di agiatezza sua e della famiglia, perchè queste mance si possono estendere o ridurre, a volontà. In Francia vi è l'abitudine di offrire anche scatole di confetti, confetti bianchi simili a quelle delle nozze: è sempre il padrino, che li offre, les dragées du baptême; ma in Italia non si usano. Se vi è madrina, bisogna fare un dono, ma modesto, anche per essa: un piccolo gioiello, magari una medaglia, con una data, basta. In chiesa bisogna andare in tight o in redingote; guanti non tortorella, ma chiari, cravatta non bianca, ma d'accordo con la redingote. Se le relazioni fra il padrino e il figlioccio sussistono, il padrino è tenuto a un dono, nell'onomastico e nel genetliaco, e il figlioccio lo ricambia, egualmente, nell'onomastico e nel genetliaco. Alla madre del figlioccio, dei fiori, nell'onomastico. E scusate se è poco!
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