Il Re, le Torri, gli AlfieriD'Ambra, Luciomarcatura a cura diDott.ssa Stephanie CerrutoAccademia della Crusca
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Il Re, le Torri, gli AlfieriD'Ambra, LucioMilanoFratelli Treves1919
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DEL MEDESIMO AUTORE
(in collaborazione con GIUSEPPE LIPPARINI)
Il Bernini, commedia storica in 4 atti in versi;
Goffredo Mameli, dramma epico in 5 atti in
versi L 4
MEMORIE DI CORTE DEL MARCHESE ARMANDO D' APRE
Il Re,
le Torri,
gli Alfieri
ROMANZO
DI
LUCIO D'AMBRA
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
Terzo migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di produzione e traduzione sono riservati per
tutti i paesi compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.
Milano, tip. Treves - 1919
A LUIGI PIRANDELLO.
Mio caro amico,
Mentre correggo le bozze di stampa di
questo libro, il mio pensiero e il mio cuore
sono lontani, come il tuo cuore e il tuo
pensiero, come il cuore e il pensiero di tutti,
laggiù fra gli eterni ghiacciai e su le pianure
insidiosamenite minate dove i nostri soldati
combattono. E rivedendo queste pagine,
vecchie appena di anni o di mesi — ma da
dopo la guerra quale immenso aevi spatium
è mai un mese per noi! — rivedo il giorno
in cui il libro fu scritto, l'affettuosa e fraterna
navette fra le nostre due villette bianche
tra gli alberi nella dolce quiete del sobborgo
Nomentano, rivedo le sere in cui ti
piacque d'udire la lettura di queste pagine,
appena composte da me lietamente e sùbito
da te lietamente ascoltate. Nell'ampio studio
una cui parete adesso è coperta da una gran
carta dei nostri confini ove tu, che hai un
figliuolo al campo, Il sottotenente Stefano Pirandello fu poi, durante un
arduo combattimento in cui si comportò da prode soldato,
fatto prigioniero, ed è ora internato nel campo di concentrazione
di Matthausen (Austria). il nostro bravo Stefano
musicista e soldato, segui con un dito
che trema un poco, con un cuore che precipita
il suo ritmo, l'azione delle nostre truppe
acceleri la vittoria col desiderio e col sogno,
tu ti divertivi allora alle futili e gioconde
avventure di questo piccolo re di Fantasia.
Il ricordo d'un giovane re troppo gaio
che, perduto il trono in una rivoluzione un
po' operettistica, dimenticava i suoi giorni
leggeri fra le braccia d'una divetta da music-hall,
era allora vicino. E com'era vicino
quel re così era lontana l'eventualità, la possibilità
d'una guerra. Pareva una fantasia
da romanziere imaginosa e, avventuroso: il
grande Wells o il nostro non piccolo Sàlgari.
Cosi sembrò possibile a un romanziere che
una grande guerra nascesse da un capriccio
d'un piccolo re. La storia stessa ne offriva,
del resto, gli esempii. E Omero, assai
prima di Armando d'Aprè, aveva raccontato
l'epopea d'una grande guerra nata attorno
al nasetto all'in sù d'una bella donnina.
Vediamo oggi ben altre guerre scatenate
orrendamente sul mondo da ben altre ragioni,
da ben altre formidabili competizioni,
da ideali più grandi di quelli che possono
trovare negli occhi d'una donna un piccolo
specchio verde od azzurro. Vediamo oggi ben
altri re: da quello che da anni combatte in
trincea, esempio a tutti, cuore per tutti, virtù
di tutti, per riconquistare la sua cara patria
perduta e difendere fino all'estrema il suo
onore di re e di cittadino, a quello, nostro,
che dal prima giorno della grande prova è
fra i suoi soldati, a incuorarli, a confortarli,
a soccorrerli, non nella pompa ufficiale d'un
quartier generale grande, più grande o grandissimo,
ma lì, su la Linea del fuoco, sott'i
proiettili, lì dove si combatte, lì dove si muore,
lì dove si vincerà.... Ma quali sarebbero
gli eroi se non ci fossero i pusillanimi? Come
si riconoscerebbero i giganti se non contrastassero
coi pigmei? Come misurerebbe la
grande Storia le sue figure fuse nel bronzo
se non potesse paragonarle alle figurine disegnate
inpunta di lapis sui margini brevi
della piccola Granada? Ed a piccola cronaca
quella che uno' scettico piena di sentimento,
che un narratore che, ha l'aria di non credere
a nulla mentre vorrebbe invece poter
credere a tutto, racconta in queste pagine
leggere che io ti mando per distrarre un
poco, se e possibile, la tua ansia di italiano
e la tua preoccupazione di padre.
Questo piccolo romanzo pensato e scritto
in tempo di pace viene alla lace —jeu des
éditeurs et du hasard— in tempo di guerra;
e però vuol essere considerato oggi senza
pretese come allora senza pretese fu scritto.
Divertì me mentre lo scrivevo; divertì te
mentre lo ascoltavi; vorrebbe oggi divertire
chi lo leggerà. E divertire veramente, nel senso
più strettamente etimologico della parola,
che vuol dire distogliere da un pensiero troppo
assillante, distrarre da una cura troppo
grave, inserire in una lunga giornata tutta
presa da forti grandi pensieri la pausa
d'un breve sorriso che ristora come una sosta
di riposo. Non già tuttavia che non esistano
re come il piccolo Rolando secondo e
paesi spensierati come il regno di Fantasia.
Ma la grande ora che volge ci prova che vi
sono nella vita individui e nella storia popoli
per cui il vivere è lotta continua, progresso,
sacrificio, eroismo, stoicismo. Sono, così nella
vita come nella storia, gl'individui o i
popoli che fan da protagonisti nell'immensa
epopea del mondo. Ce ne son altri, invece,
per cui la vita è il giuoco al minuto che
serve appena a passare il tempo. Sono i numeri
di varietà dei music-halls d'Europa.
Quando i protagonisti della grande epopea
agiscono questi fanno da spettatori o trafficano
neutralità fra le quinte della storia per,
campare alla giornata. Ma più tardi, quando
i giganti avranno composto i loro epici dissidi,
quest jongleurs e queste ballerinette
canterine risaliranno sui loro piccoli palcoscenici
e ricominceranno a dare spettacolo
agli eroi che si riposano. E i Grandi Re, che
avranno fatto anni di guerra in trincea, sorrideranno
per primi allo spettacolo di piccoli
re che fan la guerra ai merletti di una alcova
proibita. Così forse il piccolo romanzo
che ti mando offre il metro per misurare la
statura dei re sal serio e dei popoli grandi
davvero. A te questo metro non serve poichè
tu avevi misurato prima e, prima che
gli eventi volgessero, già aspettavi ciò che
gli eventi hanno poi dimostrato. Ma a te,
comunque, questo libro verrà, per portarti la
conferma di un'amicizia e d'una fraternità
vecchie oramai di vent'anni, che le traversìe
del lungo cammino non seppero mai disunire,
di un'amicizia d'una fraternità come
le nostre, mio caro Luigi, di quelle, cioè che
non si misurano a metri.
Roma, 1.° settembre 1915.
L. D'A.
"La belle Hélène „.
La notizia ufficiale, e del resto già preveduta,
c'è giunta poche ore fa, al Circolo
del Bridge, mentre dal balcone guardavamo
fumando le carrozze e le automobili
che nel tenero tramonto primaverile
tornavano dalla passeggiata al Parco
delle Delizie. D'un tratto, tra quella
folla elegante, mentre i fanali incominciavano
a punteggiare di fuoco la strada
fiancheggiata da storici e sontuosi palazzi,
un vocìo lontano ha dominato il brusìo
sordo ed enorme della grande città
in movimento. A poco a poco abbiamo
potuto distinguere le voci di quegli uomini
in corsa che urlavano a squarciagola
l'annunzio delle edizioni speciali dei
giornali della sera e la notizia della dichiarazione
ufficiale della guerra. Il massiccio
battaglione dei giornalai fu letteralmente
preso d'assalto. Dai marciapiedi,
dalle vetture, dalle automobili, dai
portoni delle case, persino dai mezzanini
più bassi le copie ancora umide del giornali,
con le ultime notizie stampate in
grassetto sotto titoli a lettere di scatola,
erano strappate di mano ai rivenditori,
aperte febbrilmente e lette immediatamente
in gruppi e in capannelli improvvisati
nella pallida luce crepuscolare. Ma
le limousines continuavano a palpitare
del loro ànsito pesante segnando il passo
nelle quattro file di vetture in salita e in
discesa tulle cariche d'eleganti signore
nei priori chiari e freschi abiti di primavera,
l'immensa folla continuava a
muoversi, ad andare e venire lentamente
sui marciapiedi, più densamente ancora
assiepata d'innanzi ai grandi caffè
sfavillanti di luce. Solo un gruppo di
giovani, passando sotto il balcone del
Circolo del Bridge che era situato di
rimpetto alle finestre d'un grande, giornale,
Il Conservatore, gridò ripetutamente:
«Viva il Re! Viva Fantasia! Viva
l'esercito!». Applaudii anch'io dal balcone
e potei osservare che eravamo, in
verità, pochini a provare il bisogno di
fare un po' di rumore. La folla lasciò
cadere le grida di quei pochi giovani
come le parole di un discorso che non ci
riguarda e che ancor meno c'interessa.
Il gruppo di quei giovanotti, ricordando
la scena finale di Nanà, cominciò allora
a gridare «A Zarzuelopoli! A Zarzuelopoli!»
Il nuovo grido non ebbe maggior
fortuna. Evidentemente ogni cittadino,
più che da quella d'andare a Zarzuelopoli,
ipotesi remota, era adesso preoccupato
dalla necessità, tesi immediata,
d'andare a casa sua, a pranzare, a vestirsi
per il teatro, per le riunioni mondane
o per la solita partita. Già infatti la
grande strada si sfollava. Si facevan dei
vuoti nelle barricate umane d'innanzi ai
caffè. Carrozze e automobili voltavano
a dritta o a sinistra per le vie traverse.
Le voci dei giornalai che annunziavano
lo scoppio delle ostilità tra il nostro paese
e Zarzuelopoli erano ormai monotone come
quando, ogni sera, annunziavano i
grandi tumulti, che non c'erano stati, alla
seduta del Congresso dei deputati. Ognuno
pensava oramai esclusivamente ai fatti
suoi. La terribile notizia divulgata mezz'ora
prima non aveva fatto più impressione
di quella della caduta d'un aviatore
e dell'arrivo al traguardo d'un intrepido
ciclista. E fu così che Effemeris,
capitale del regno di Fantasia, apprese
tra le cinque e le sei di sera del 7 maggio
dell'anno di grazia 1912 la notizia della
guerra scoppiata tra il regno di Fantasia
e l'impero di Silistria. Se i popoli felici
non hanno storia, la felicità dei popoli
risiede probabilmente nel segreto di non
preoccuparsi di nulla e di dirsi che, guerra
e pace, pace e guerra, tutto al
mondo è vanità.
Ho pranzato al Circolo, poichè il pensiero
che eravamo giunti a una delle
grandi tappe della storia del mondo, se
pur mi preoccupava, non mi toglieva di
sacrificare, come ogni sera a quella stessa
ora, ad una delle mie e delle altrui
più inveterate abitudini. Pranzai alla mia
solita tavola, senza i miei soliti compagni
di dispepsia, perchè contemporaneamente
alla proclamazione della guerra c'era
quella sera la prima rappresentazione
molto attesa d'un celebre corpo di ballo
annamita che aveva fatto furore a Parigi
durante l'ultimo inverno. Mi serviva,
nella sala da pranzo deserta, il mio
solito cameriere che sapeva ancor meglio
di me tutt'i miei gusti e tutt'i miei
disgusti. Mentre mi somininistrava il mio
solito pranzo sommario e versava all'ostinato
bevitore d'acqua che io sono una
complicata serie di acque ininerali estere
e nazionali, il mio fedele cameriere mi
sembrava preoccupato e come impacciato
a trovare il modo di rivolgermi la parola
per una domanda che doveva stargli
molto a cuore. Fui allora io stesso a domandargli
che cosa lo preoccupasse, poichè
lo vedevo così insolitamente turbato;
ed egli mi domandò se veramente la guerra
era ormai dichiarata o se c'era ancora
la speranza d'un accomodamento
e d'una intesa tra le cancellerie di Effemeris
e di Zarzuelopoli. E quand'ebbe
saputo da me che gli ultimi comunicati
parlavano chiaro e che già un primo corpo
d'armata sarebbe partito nella notte
per la frontiera occidentale, il povero
vecchio asciugò una lacrima con la manica
della giubba e mi raccontò che due
suoi figliuoli facevano il loro servizio
militare negli usseri del Dragone d'oro
ed erano appunto di guarnigione in una
delle città di confine che con maggiore
probabilità sarebbero state teatro delle
imminenti operazioni militari. «Ma non
importa, aggiunse poi sorridendo. Noi
tutti dobbiamo al nostro paese quello
che abbiamo di più sacro. Io gli offro i
miei due figliuoli, sebbene al mondo non
abbia che loro. Se la Provvidenza vorrà
conservarmeli, Iddio sarà benedetto. Se
vorrà togliermeli, morirò anch'io, ma col
conforto di sapere i miei due figliuoli
morti da eroi per il loro paese e per il
loro re». Queste parole un poco enfatiche
erano dette con un tale accento di semplicità
e di sincerità che io, tuttavia non
facile alla commozione o per lo meno
difficilmente pronto ad abbandonarmici
non seppi rispondere al vecchio cameriere
se non con una voce un po' tremante
per dire tutte le sciocchezze che si dicono
in queste occasioni avendo ancora l'aria
di credere che cento grosse parole possano
menomamente cambiare il più piccolo
fatto. Dissi molte parole inutili e gli strinsi
lungamente la mano. Ma la mia stretta
di mano non fu inutile; fece almeno piacere
a me e dandola provai una profonda
ed improvvisa simpatia per quel vecchio
domestico sbarbato e canuto che
vedevo da anni, cosi indifferente, ogni
sera, in quella stessa sala, e che ora
sacrificava con tanta semplicità i suoi
due figliuoli alla fortuna del suo paese
mentre i miei compagni abituali di pranzo
al Circolo non avevano saputo rinunziare,
per sapere e osservare quello che
accadeva, neppure alle prime piroette del
meraviglioso mimo polacco ch'era la
great attraction del corpo di ballo annamita.
Sono uscito sùbito dopo pranzo per
tornarmene a casa mia. Mi sembrava che
in una sera siffatta non avrei avuto desiderio
di veder gente, nè di parlare.
Ma fuori l'aria era tiepida, quasi già calda,
e la calma profonda della notte serena
invitava alla marcia. Passai d'innanzi
alla redazione d'un altro grande giornale
che dalle sue finestre, con trasparenti
luminosi, comunicava alla popolazione
di Effemeris le ultime notizie della
serata: l'ordine di mobilitazione era stato
immediatamente trasmesso alle truppe di
terra e di mare; il generale Paolo de
Gonzales, capo dello Stato Maggiore, aveva
preso il comando supremo delle truppe;
reggimenti stavano per partire da
ogni città per andarsi ad ammassare al
confine occidentale. Una certa folla stazionava
d'innanzi a quegli schermi luminosi,
come d'innanzi al quadro bianco
d'un cinematografo-réclame. Sentivo attorno
a me qualche voce domandare:
«E il Re? Del Re non si hanno notizie?
Il Re non si muove?». E proprio in quel
punto lo schema luminoso comunicò alla
folla, da una delle finestre, che «le condizioni
di salute di Sua Maestà il Re
erano invariate». Ci fu un mormorio,
un brontolio, manifestazione di poca entità,
esuberanza di pochi individui isolati.
Il popolo di Fantasia — lo conosco bene
oramai — e specialmente quello di Effemeris,
giocondissima capitate, non perde
mai l'equilibrio della sua serena indifferenza,
nè per esaltare nè per condannare.
Gioie e sventure lo lasciano egualmente
tranquillo. È da gran popolo, non scomporsi
mai. E il popolo di Fantasia è un
grande popolo: almeno lo dice la storia.
Era veramente strano che a Sua Maestà
non avessi pensato fino allora e che dopo
l'annunzio della guerra dichiarata ci volessero
quei commenti della folla per richiamarmelo
in mente. Era certo che Sua
Maestà non avrebbe potuto marciare al
fuoco alla testa dei suoi eserciti. I più
forti generali possono sdrucciolare su
una buccia d'arancio, ed era precisamente,
ammessa la metafora, quello ch'era
capitato quindici giorni prima a Sua Maestà.
La sua buccia d'arancio, provvida ed
improvvida insieme, era stata la ripiegatura
d'un tappeto mal tirato in cui giorni
prima. Sua Maestà aveva malauguratamente
inciampato andando a ruzzolare
su lo scalino d'un caminetto ch'era lì
presso e che gli aveva spezzato, come un
biscottino, il femore sinistro. Già da quindici
giorni almeno Sua Maestà era in
letto e doveva rimanerci ancora almeno
un mese, supino, con la gamba ingessata,
distesa ed immobile, e con un diavolo
per capello. Non che il Re dovesse
essere desolato di non poter capitanare
i suoi eserciti durante quella guerra in
cui egli non aveva mai creduto: aveva
un capo di Stato Maggiore eccellente, e
lui invece, il giovane Re Rolando secondo,
non ostante il bel nome eroico e cavalleresco,
non aveva mai amato troppo
i disagi della vita militare. La rivista passata
col canocchiale alle più belle donnine
del corpo di ballo lo aveva interessato
sempre più di quella passata alle
sue truppe, a cavallo, sotto un sole torrido
d'agosto o di settembre, alla fine di
tre settimane infernali di grandi manovre
che aveva dovuto pur troppo conoscere
quando, principe ereditario, comandava,
per modo di dire, almeno nei bollettini
militari e nelle cerimonie ufficiali, il corpo
d'armata di Pulquerrima. Ma Rolando
secondo era però coraggioso ed orgoglioso.
Doveva seccargli di non poter essere
alla testa delle sue truppe magari
a costo di farsi ammazzare, e doveva turbarlo
profondamente il pensiero che
qualche giornale avesse potuto fare allusione
alla comodità di certe coincidenze
e al vantaggio, a prima vista misconosciuto,
di non avere in casa propria i
tappeti ben tirati e qualche facile possibilità
d'inciampare. È vero che a questa
possibile malignità dei giornali repubblicani,
ch'erano poco letti ma appunto per
questo motto numerosi, avrebbero fieramente
risposto i giornali socialisti che nel
regno di Fantasia, come in tutt'i regni
di questo mondo, passato il periodo delle
prime bizze infantili e messo il dente del
giudizio, erano ministerialissimi e quanto,
mai riguardosi per la monarchia e
per le istituzioni. E infine Rolando secondo
doveva anche provare un certo
rimorso di non potere andare alla guerra
poichè la guerra avveniva per causa
sua, e di non potersi cavallerescamente
battere con tutto il suo paese per ciò per
cui tutt'il suo paese si batteva: voglio
dire, una donna!
Per una donna, precisamente. Diretto
a casa avevo preso non so più come la
via diametralmente opposta a quella di
casa mia. Andavo, andavo diritto innanzi
a me, per le grandi vie sonore e vuote
dei nuovi quartieri che avevano fatto passare
improvvisamente, in tre anni, l'avventurata
capitale da un terribile rincaro
delle pigioni a una non meno terribile
crisi edilizia; andavo diritto, fumando, e,
poichè non v'è antinomia tra il fumo
del tabacco e quello del cervello, fumando
pensavo e ricordavo fumando. E, tra
tanti pensieri e tanti ricordi, un verso mi
ronzava nel cervello e su le labbra, un
verso italiano di Vincenzo Monti, il primo
verso di Vincenzo Monti, se non per
ordine cronologico o di merito, certo per
ordine numerico nella traduzione dell'Iliade.
Anche un lettore del tutto illetterato
avrà potuto sospettare che il verso
che mi accompagnava lungo la via come
un ritornello era appunto:
«Cantami, o
diva, del Pelide Achille...»
E con quel
verso mi tornavano in mente anche altri
frammenti dell'Iliade, sempre ben inteso
nella traduzione del Monti, poichè non
ho vanità letterarie e devo confessare
due cose con molta umiltà: che il greco
non l'ho saputo neppure al liceo e che
se ho voluto conoscere l'Iliade dopo averla
letta per tre anni in greco ho dovuto
rileggermela nella sua migliore traduzione,
in quella fatta nell'armoniosa lingua
d'Italia; poichè Fantasia ha una lingua
dura e monotona che non conviene ai
poeti. E col verso del Monti mi veniva in
mente che di questa nuova Iliade del
secolo ventesimo — poichè anche nella
guerra di Fantasia come in quella di
Troia bisognava chercher la femme
io solo potevo essere il nuovo Omero, se
non ispirato veridico e preciso, in semplice
prosa, in prosa da processo verbale.
E andavo, andavo, andavo sempre diritto
innanzi a me, ripetendomi il verso
famoso:
«Cantami, o diva, del Pelide
Achille!...»
C'era di mezzo anche qui, infatti, un'ira
funesta che minacciava d'addurre lutti
infiniti ai venti milioni d'abitanti del dolce
regno di Fantasia. Intanto, a furia d'invitare
la diva a cantare, la diva, la mia
placida musa prosastica, cantava veramente
nel mio cervello il ritornello beffardo
dei miei ricordi di stretto amico di
Sua Maestà, di suo fedele confidente e di
suo pedagogo galante quando muoveva nei
salotti di Pulquerrima i primi passi mal
sicuri nel cèrcine della sua inesperienza.
E la diva cantava cosi forte che m'indusse
a un rapidissimo dietro-front per tornarmene
sùbito a casa a cominciare una
fatica vile di fatti ho cominciata stasera
stessa, meno di due ore dopo la mia passeggiata
vagabonda e cinque ore dopo
la proclamazione della guerra: coprire
qualche foglio di carta coi miei più curiosi
ricordi, perche mi piace di rammemorare
nei suoi particolari questa gioconda
commedia di cui fui raramente
attore ma sempre assiduo e privilegiato
spettatore e perchè in questo modo posso
ingannare piacevolmente la mia impazienza
di veder come i miei personaggi
andranno un giorno o l'altro definitivamente
a finire. Questa mia curiosità
comincia veramente a diventare febbrile.
La commedia dura oramai da dieci anni,
e dopo dieci anni il più benevolo spettatore
può, senz'essere rimproverato di
soverchia precipitazione, permettersi di
formulare il desiderio d'abbandonare il
teatro. Dieci anni appunto ci separano,
giorno più, giorno meno, dal pomeriggio
in cui a Londra, dove io ero, fresco
di nomina, addetto all'Ambasciata di Fantasia;
nel gabinetto del mio ambasciatore
ebbi l'onore di stringere per la prima
volta la mano di colui che è oggi Rolando
secondo e che era allora un imberbe
principe ereditario mandato all'università
d'Oxford perchè avesse l'aria di compirvi
i suoi studii. Durante quei due anni
di studii leggermente sopportati dal giovane
principe, questi era stato dal mio
ambasciatore affidato specialmente alle
mie cure. «Siete giovani tutti e due, aveva
detto, e v'intenderete!» Non era questa,
da parte dell'ambasciatore, la prova incontestabile
d'un grande acume psicologico,
ma è un fatto che c'intendemmo
a meraviglia. Insieme al corso universitario
d'Oxford io feci percorrere, a Londra,
al mio giovane e principesco amico,
un corso supplementare molto completo
e molto accelerato. Sebbene il programma
fosse anche qui carico e svariato,
il giovane principe, che già sopportava
con leggerezza, come ho detto, i gravi
studii di Oxford, sopportava con leggerezza
anche più grande i più leggeri studii
di Londra. Ci sono evidentemente per
tutti gli studiosi delle preferenze. Il principe
ereditario di Fantasia aveva, a Londra,
una spiccata inclinazione per la
storia naturale praticamente dimostrata.
Studiava tutte le notti con grande impeto,
e avrebbe fatto volentieri, come suol
dirsi, di giorno notte, tanta era la sua
sete del sapere in quelle speciali e piacevolissime
discipline.
Mentre così la diva mi cantava le prime
cento righe del mio poemetto eroicomico
in prosa e mentre risalivo verso casa
mia, il suono di una fanfara mi raggiunse
portato dal vento della dolce notte
primaverile. A poco a poco, la fanfara
s'avvicinò, poi si tacque per cedere a un
rullio di tamburi il piacere di destare
a mezzo sonno una città addormentata.
E insieme al rullio dei tamburi mi giunse
l'eco d'un forte stropiccìo, come d'una
rozza tela, silenzio della città vuota
e chiusa. Riconobbi il ritmo caratteristico
d'un reggimento in marcia. L'eco dei tamburi
era sempre più vicina e già turbante
del capo tamburo spuntava all'angolo
della via ove io m'ero soffermato.
Era evidentemente il primo reggimento
della guarnigione di Effemeris che partiva
per la guerra. Visto da lontano il
reggimento. in marcia era la montagna
russa di duemila gambe che, chiuse nei
pantaloni di tela giallastra, si alzavano
insieme e insieme s'abbassavano, e un
ondeggiare, ritmico anch'esso, di un mare
d'alti colbacchi azzurri e violetti che pesavano
su la testa dei fantaccini. Passò
cosi il gruppo dei tamburi, passò la fanfara,
la musica, passarono gli zappalori,
il cavallo bianco del colonnello, il primo
battaglione ed ecco tra il primo ed il
secondo battaglione, chiusa in un gruppo
di ufficiali, la bandiera bianca, azzurra e
viola del regno di Fantasia. Io ripensai
al mio pranzo solitario, al mio vecchio
cameriere commosso, ai suoi due figliuoli
che andavano a battersi. E mentre la
bandiera passava io ed il cocchiere d'una
carrozza da piazza che stazionava lì presso
fummo i soli che la salutammo rispettosamente,
scoprendoci. Attorno al reggimento
che partiva al suono giocondo
delle sue trombe, al ritmo guerresco dei
suoi tamburi, nelle grandi case chiuse,
nelle grandi strade vuote, nessuno. Non
un saluto, non un addio. Non una curiosità
destata da quella musica, dall'eco
di quei duemila passi cadenzati, non
una finestra che si aprisse a mostrare
l'interesse momentaneo d'un berretto da
notte. I soldati partivano soli, soli col
loro destino; ed io che non ho alcuna
ambizione avrei voluto essere per un
quarto d'ora re assoluto di Fantasia per
mandare indietro, a dormire, quei duemila
bravi figliuoli e scaraventare alla
guerra tutti quelli che dormivano pacificamente
dentro le case chiuse pregustando
il piacere di far la guerra da
grandi strateghi, tra qualche giorno, sul
territorio senza pericoli d'un tavolinetto
di marmo, dietro le trincee aromatiche
d'una tazzina di caffè.
Il reggimento era passato ed io avevo
ripreso il mio cammino verso casa. Senonchè
casa mia è situata in tal modo
che non potevo raggiungerla senza passar
davanti alla radiosa facciata dell'Opera;
e passandovi davanti — non ostante
i sempre più vivaci inviti della diva —
non seppi resistere alla tentazione d'entrarvi
per dieci minuti. Quando apparvi
in fondo ad uno dei palchetti di corte
che erano tutti vuoti e dove io avevo
libero accesso, il corpo di ballo annamita
eseguiva le sue più irresistibili evoluzioni
e il teatro crollava dagli applausi.
Tutt' il fior fiore della società di Effemeris
era lì, ingioiellato e incravattato,
incipriato e impomatato, nei palchi dorati,
nelle poltrone soffici di quel teatro
dove l'eco della musica d'un reggimento
che partiva per la guerra non poteva
neppure aver tentato di soffocare
le graziette voluttuose e suggestive d'una
squisita danza del ventre, annamita forse
ma certamente pornografica, muscolosamente
ricamata dalle quattro prime ballerine.
E, mentre riuscivo dal teatro, mi
piacque di mettere a contrasto quelle due
folle, un reggimento che partiva e una
folla mondana nervosamente eccitata da
una danza provocante, in mezzo al profondo
silenzio d'una città d'un milione
di abitanti che la sera stessa della proclamazione
d'una guerra in pieno secolo
ventesimo dormiva filosoficamente il suo
più bel sonno.
«Cantami, o diva, del Pelide
Achille....»
Un'altra volta su le mie
labbra tornò l'epico ritornello. Ma non
è più tempo questo per parlare sul serio.
L'epopea è la divina ingenuità del popoli
fanciulli, e il popolo di Fantasia, che è
molto vecchio ma non conosce nè il greco
nè l'italiano, ha conoscenza dell'Iliade
solamente a traverso la sua riduzione più
adatta al colore del tempo: la riduzione
francese negli allegri couplets della Belle
Hélène, l'epopea rifatta a operetta da
Meilhac e Halévy.
La collezionista d' "elle.
Decisamente, per la diplomazia io non
avevo la vocazione necessaria.
Ero entrato nella carriera senza sapere
perchè e ne uscii per ragioni non molto
più chiaramente definite. Dall'ambasciata
di Londra ero tornato in patria per le
mie vacanze d'estate lasciando il mio ambasciatore
col più cordiale arrivederci.
Non ci siamo riveduti mai più. Venni a
Pulquerrima a ritrovare mia Madre, la
mia città natale, gli amici della prima
giovinezza. Ritrovai tutto questo e trovai
per soprammercato una graziosissima signora
che mi fece girare la testa. Disgrazia
volle che la gentile signora di Pulquerrima,
pur decisa fin dal primo momento
alla resa, non si decidesse ad arrendersi
prima della scadenza del mio
congedo. E poichè la questione d'Oriente
m'interessava assai meno della questione
d'amore intavolata tra me e la bella signora,
non partii. Chiesi prima un prolungamento
di congedo. E l'ottenni. Chiesi
poi un'aspettativa di sei mesi. E l'ottenni.
Chiesi infine di non tornare più a
Londra e d'esser messo definitivainente
a disposizione del ministero. E, in grazia
della mia amicizia col principe ereditario
di Fantasia, ottenni anche questo. E
poichè l'essere a disposizione del Ministero
significa che il Ministero non può
in alcun modo disporre di voi, nessuno
ebbe più bisogno della mia attività diplomatica,
e anche quando la questione
fra me e fa signora era stata liquidata e
composta in una liaison monotona e stanca
che avremmo interrotta senza strapparci
nè i postiches nè i capelli, il Ministro
degli Esteri non ebbe mai più l'idea
di strapparmi ai miei dolci ozii di
Pulquerrima.
E lì a Pulquerrima il giovane principe
mi ritrovò, tre anni dopo il nostro incontro
di Londra. Terminati gli studii,
il giovane principe si vide assegnare, con
lauto appannaggio, la piacevolissima e
gioconda residenza di Pulquerrima. Il
giorno che lessi nei giornali che Sua Altezza
Reale il principe ereditario di Fantasia
sarebbe giunto alle otto antimeridiane
a Pulquerrima ebbi cura d'essere
alla stazione alle otto meno cinque minuti.
Vidi scendere il giovane principe,
in borghese, elegantissimo, rasa come un
clergymann, incaramellato come un dandy
e, ahimè, profumato come una cocotte.
Mentre i suoi aiutanti di campo
passavano ai facchini le più gelose valigie
di Sua Altezza, il principe era preso
in un fitto gruppo di autorità che andavano
dal Prefetto del dipartimento al capitano
dei pompieri e che tutte recitavano
a dovere il complimento e il benvenuto
prudentemente elaborati a casa e mandati
accuratamente a memoria. Modesto e
niente affatto autorevole, io mi confondevo
fra le autorità minori, fra un tenente
delle guardie doganali e un ex
deputato repubblicano diventato presidente
d'un circolo monarchico per tentare
di tornare al Congresso. Ma Sua Altezza
ha una vista acutissima e un colpo.
Mi sentii infatti chiamare
per nome e, aprendomi un varco
olezzante di naftalina fra le redingotes
delle autorità, mi trovai ad essere, a dispetto
di tutt'i protocolli, stretto fra le
braccia del mio giovane amico che non
si stancava di manifestare una gioia esuberante
per il fatto d'avermi inopinatamente
ritrovato a Pulquerrima. Le autorità
guardavano sbalordite le inesplicabili
di Sua Altezza per un
giovanotto qualunque ch'era persino venuto
alla stazione in giacchetta. Furono
sbalordite ancor piu quando, all'uscita,
videro che il principe volle ad ogni costo
farmi salire nella sua vettura, costringendo
così il suo aiutante di campo a
prender posto nella vettura seguente. Il
giovane principe ebbe dalla popolazione
di Pulquerrima dimostrazioni entusiastiche.
Se fosse tornato vittorioso da
una guerra non sarebbe stato più vivamente
acclamato dall'immensa folla
che si assiepava lungo le strade che
il nostro corteo doveva percorrere per
giungere al palazzo reale.
Pulquerrima è città eminentemente
espansiva, facile ad acclamare tutto e
tutti, anche senza ragione, e però per
poco porlava in trionfo il giovane principe,
entusiasmata anche dal fatto che
il Sovrano, dovendo mandare il suo regale
figliuolo a far le sue prime armi galanti,
aveva scelto, fra le trentatrè grandi
città del suo regno, proprio Pulquerrima,
come quella che vanta le donne più
belle, più ardenti e più facili all'amore.
Il principe,che s'interessava poco di architettura,
più che la grandiosità dei rettifili
che attraversavamo, più che la bellezza
vistosa dei palazzi modernissimi che
li fiancheggiavano, osservò sùbito che le
donne di Pulquerrima, le quali popolavano
le finestre e gremivano i marciapiedi
sventolando con entusiasmo non
solo monarchico i loro fazzolettini di batista,
erano in generale bellissime. Riconobbe,
a voce alta, che Pulquerrima
doveva essere una città divertentissima.
Il prefetto del dipartimento s'affrettò, infatti,
a ricordare rispettosamente a Sua
Altezza che Pulquerrima vantava musei,
celebri nel mondo intero non meno di
quelli del Louvre, del Campidoglio o del
Prado. Ma, fino a palazzo, parlando col
prefetto di statue e di civiltà morte, Sua
Altezza continuò a guardare, sorridendo,
senza perderne una, tutte le statue vive
che acclamavano insieme, in lui, il nobile
principe ed il bel giovanotto.
Poichè ad Oxford solo le donne di Londra
l'avevano interessato, non c'era ragione
che il principe cambiasse di gusti
e di studii rientrando nel regno di Fantasia
e giungendo a Pulquerrima. Mi parlò
di nuovo di donne quella sera, dopo
pranzo. Sua Altezza, stanca del viaggio,
aveva dispensato tutti dalla corvée d'assistere
al suo primo pranzo a Pulquerrima
e aveva pregato me solo di rimanere,
così come ero, in giacchetta, a dividere
con lui il modesto menu d'un brodo
concentrato, d'un paio d'ali di pollo
e d'una bottiglia di Porto. Dopo pranzo
prendemmo il caffè su una loggia coperta
che guardava il mare. E il principe
approfittò di quell'ora di pace per mettermi
al corrente delle sue ultime avventure
londinesi e di tutt'un suo complicato
e intricatissimo armeggio galante
che negli ultimi tempi non gli aveva lasciato
un minuto di respiro. E mi manifestò
la sua preoccupazione di dovere
purtroppo a Pulquerrima ricominciare
tutto daccapo, incontrando difficoltà alle
quali, a Londra, non era più abituato,
Rassicurai subito il principe. La sua situazione
galante migliorava di molto poichè
la volontà regale l'aveva fortunatamente
trasferito nella città fatta a posta
per l'amore. Anche Sua Maestà aveva
passato a Pulquerrima i suoi anni più
giovanili e le più vecchie dame di corte
ricordavano, a titolo di orgoglio e d'onore
per le loro famiglie, con quanto zelo
s'erano in quei tempi lontani consacrate
a far piacevole al giovane priricipe, divenuto
poi re, il suo non breve soggiorno.
— Vostra Altezza, — gli dissi — mi permetta
di richiamare la sua memoria su
alcune partite di scacchi che io ebbi l'onore
di giuocare con Vostra Altezza all'ambasciata
di Londra. Anche Pulquerrima
sarà per Vostra Altezza una grande
partita a scacchi che durerà diversi
anni. Si narra che i cortigiani d'un sovrano
che amava giuocare per vincere
ad ogni costo preparassero le carte in
modo che giuocando con loro il sovrano
avesse sempre il maggior numero di punti
e partita vinta in mano. Parimenti le
giovani signore di Pulquerrima, che si
troveranno ad essere impegnate in questa
galante partita di scacchi con Vostra
Altezza, terranno ad onore di giuocare nel
peggior modo possibile e muoveranno
tutte come una sola incontro al re
perchè questi possa far loro l'onore di
mangiarle. Nè c'è per altro da temere
che gli alfieri che accompagnano quelle
pedine possano in alcun modo contrastarne
il giuoco capriccioso. Nel giuoco degli
scacchi, quando si tratta del re, anche
gli alfieri contano poco. E quando Vostra
Altezza degnerà di manifestare il desiderio
di mangiare una pedina, gli alfieri
che l'accompagnano s'affretteranno senza
dubbio a farsi da parte. La storia degli
scacchi e delle Corti ce lo insegna: gli alfieri
più avari e più suscettibili fra loro
non hanno mai punto d'onore di fronte
al re. Vostra Altezza non ha dunque che
da giuocare liberamente, da andare avanti
e indietro come le piacerà. Lo scacchiere
è delizioso. Il giuoco è facile. La
vittoria è indubbia.
E, sin dal giorno dopo, senza lasciar
passare neppure ventiquattr'ore, il principe
infatti si mise maledettamente a
giuocare. Non abbandonava lo scacchiere
un solo minuto. Pensava a questa o a
quella mossa da fare o da tentare dalla
mattina alla sera e vi pensava ancora
dalla sera alla mattina. Ogni giorno, nelle
prime ore della mattinata, il principe ed
io avevamo preso l'abitudine di fare tre
o quattro giri a cavallo nel galloppatoio
del Parco delle Delizie, la grande villa
di Pulquerrima, ove, nelle ore mattutine,
conviene il fior fiore della società
pulquerrimese. Ma durante quelle nostre
prime passeggiate, più che a giuocare,
Sua Altezza badava a studiare meticolosamente
lo scacchiere, ed una volta ancora
io avevo cosi l'onore d'iniziare Sua altezza
in tanto ardue discipline.
Sua Altezza, che a Londra aveva mosso
i suoi primi passi a traverso stati civili
assai meno complicati, si meravigliava
di dover rilevare che, quasi senza eccezione,
ogni pedina era fiancheggiata da
almeno due alfieri, di cui uno solo avrebbe
a rigore potuto precisare ufficialmente
la sua posizione su lo scacchiere. E giunse
così rapidamente a concludere che
nello scacchiere sul quale egli si trovava
a giuocare le pedine più rigidamente virtuose
eran quelle che d'alfieri si contentavan
d'averne solamente due.
Per sua fortuna, in questi giuochi galanti
Sua Altezza aveva di Ferro la memoria
come la salute, e, in capo ad una
settimana infatti, non sbagliava d'un alfiere
per nessuna pedina. Le elencava
ad una ad una, coi loro due, tre o quattro
alfieri. Avevo adoperato, per condurlo
a questo risultato, un eccellente sistema
mnemonico: il nome di ogni signora
era seguito da un numero ch'era
quello dei suoi alfieri e, per brevità, da
alcuni nomi di battesimo ch'eran quelli
degli alfieri medesimi. Esempio: la
principessa Urquela, quattro: Emanuele,
Alvaro, Marcello, Venceslao; la contessa
de la Rochebleue, tre: Tizio, Caio e Sempronio.
II principe ne recitava cinquanta
di seguito, senza riprendere fiato e senza
il più piccolo errore. Ripetevamo l'esercizio
la sera e la mattina. E l'dentificazione
dei soggetti durante le nostre mattutine
passeggiata a cavallo al Parco
delle Delizie era semplicissima. Sua Altezza
notava una signora bionda, bruna
o castana, e mi chiedeva sùbito chi fosse.
Se io la nominavo, immediatamente
il principe, senza un attimo di perplessità,
aggiungeva lo stato di servizio galante
della signora: Quattro: Antonio, Armando,
Serafino e Gioachino.... Cinque:
Pietro, Paolo, Giuseppe, Giacomo e Giovanni!
Pochi giorni più tardi cominciammo a
scendere da cavallo dopo due o tre giri
e a prendere l'abitudine di fare un mezzo
chilometro a piedi in quel viale dei Tigli
che in quelle ore mattutine era un vero
salotto all'aria aperta, fra cielo e mare. Ad
una ad una, tutte le signore sollecitarono
l'onore di essere presentate al principe
contemporaneamente ai loro alfieri ufficiali
e ufficiosi. Talchè in capo ad una
diecina di giorni il principe teneva circolo
di belle signore, con una scioltezza, con
una sicurezza, con una tranquillità che
non avrei superate io che in mezzo a
quelle buone amiche mie avevo vissuto fin
dai miei più teneri anni, nel viale dei
bambini. Ne corteggiava insieme tre o
quattro, e con alcune, che piu agilmente si
prestavano al suo giuoco, andava avanti
a vapore. E gli alfieri guardavano, vedevano
e lasciavano fare, più lieti e pettoruti
che mai se la loro pedina era la
favorita. Una volta Sua Altezza mi disse:
— Se stesse ai loro mariti, mi toccherebbe,
per non far dispiacere a nessuno,
di prenderle tutt'insieme.... Una alla volta,
per carità. Posso distribuire i numeri
d'ordine, come negli stabilimenti di
bagni. Non scontento nessuno.
Una sola volta un alfiere ufficiale parve
un poco seccato della come a briglia
sciolta che Sua Altezza faceva una mattina
a sua moglie, sotto i suoi occhi e,
peggio ancora, sotto quelli di tutta Pulquerrima.
Mentre ritornavamo a casa
a cavallo il principe mi raccontò il piccolo
incidente: quando aveva potuto finalmente
raggiungere sua moglie in un
viale appartato dove il principe l'aveva
dolcemente trascinata, l'alfiere aveva fatto
capire a Sua Altezza, con un sorriso
amaro, che anche i doveri della sua devozione
di cittadino dovevano avere un
limite là dove incontravano i suoi inalienabili
diritti di marito. «Ma che aveva
quell'uomo impossibile per guardarmi di
traverso in quel modo?» mi disse il principe,
meravigliato. Fermò la sua attenzione
e si riconcentrò, e, dopo un silenzio,
lo sentii aggiungere, ripetendo il cognome
della pedina facile e dell'alfiere
difficile: «Carenda, sei: Luca, Luigi, Luciano,
Leone, Lorendo e Leopodo. è
quella che batte il record del sei, ora mi
ricordo benissimo. Ma che ha dunque
da brontolare, lui? Ho forse il solo torto
di chiamarmi Rolando per il marito di
quella collezionista d'Elle?
L' Isola e il faro.
Noi ci abituiamo facilmente a considerare
come definitive e generali le nostre
prime e particolari impressioni, se il caso
ce le ha offerte con una certa insistenza.
C'è molta gente che ama semplificare e
dividere l'umanità in tanti gruppi eguali,
raccolti sotto varie denominazioni, per
le quali un ministro sarà sempre necessariamente
un uomo molto affaccendato
che non ha nulla da fare, un deputato
un ciarlone interminabile che non ha nulla
da dire, un giornalista un uomo senza
coscienza e una donnina all'acqua ossigenata
il prototipo della donna fatale.
Così anche per il giovane Rolando una
signora di Pulquerrima non poteva assolutamente
avere meno di due alfieri
a sua disposizione, o, per maggiore esattezza,
non poteva essere a disposizione
di meno di due alfieri. Me ne persuasi
sùbito quando, essendo stato il principe
presentato alla duchessa di Frondosa,
Sua Altezza corse difilato da me e frugò
immediatamente nelle fiches galanti che
aveva cosi accuratamente mandate a memoria:
«Frondosa? Frondosa? Ma è mai
possibile? Nessun numero? Nessun nome?
Amico mio, lei dev'essere sul conto
di questa bella signora molto, ma molto
male informato».
Dovetti stentare a persuaderlo ch'ero
informato benissimo e che questa gentile
mosca bianca, per quanto potesse
sembrare incredibile, era bianca veramente.
Era, anzi, una delle curiosità della
società pulquerrimese, la quale era
appunto famosa per la sua raffinata eleganza,
per l'ospitalità dei suoi salotti,
per lo spagnolismo superstite delle forme,
per il numero delle grandi famiglie
completamente rovinate e per l'insospettabile
virtù della duchessa di Frondosa.
E c'era, per di più, non poco merito nella
virtù della giovane duchessa: non solo
perchè era bellissima e perchè gli uomini
la assediavano senza tregua, non
solo perchè la sua natura non l'aveva
fatta ritrosa e prudente ma anzi lei portava
a scherzare assai pericolosamente
col fuoco, ma sopratutto perchè sua madre
le aveva sempre dato e continuava
a darle, non ostante la cinquantina ormai
prossima, i più deplorevoli esempii.
Ma la duchessa di Frondosa era fatta
cosi: aveva la virtù serena, il cervello
a posto, i nervi equilibrati e il cuore
ad una sola piazza. E questa sola piazza
non concedeva che un po' di posto a un
marito che la giovane e bella duchessa
aveva sposato per amore quand'era ancora
assai giovane, a un marito che portava
con molta disinvoltura i suoi quarantacinque
anni che erano poi quarantanove.
Di questi quarantanoveanni venticinque
contavano al duca di Frondosa
per l'anzianità in quella carriera diplomatica
che il suo largo censo e il suo
nome gli avevano fatta percorrere molto
rapidamente. Ambasciatore a quarantacinque
anni, il duca poteva vantarsi di
non avere trascorso più di nove o dieci
anni dei venticinque della sua carriera
nelle residenze diplomatiche. Era stato
per lo più lasciato indisturbato nella sua
bella e dolce città di Pulquerrima a disposizione
del varii ministri degli Esteri
che in generale non avevano mai osato
disporne in alcun modo. Con l'andare
degli anni, infatti, il duca di Frondosa,
invece di perdere l'ardimento, l'esuberanza
e l'impulsività che sono caratteristiche
degli anni più giovanili, le aveva insolitamente
acquistate. Finchè gli era
sembrato che il giovane regno di Fantasia
fosse come un bambino che aveva
bisogno di tutti e finchè il grado della
sua carriera non gli aveva permesso d'avere
direttamente voce in capitolo, il duca
di Frondosa era stato un giovane diplomatico
impassibilmente docile, correttamente
disciplinato ed incolore. Ma quando
gli sembrò che il suo paese fosse oramai
grandicello e pronto ad uscir di tutela,
il duca di Frondosa, che intanto
era divenuto ministro plenipotenziario
ancora in età giovanissima appunto perchè
non dava ombra a nessuno, cominciò
a regolarsi in modo da mandare a gambe
levate un ministro degli Esteri o un
Gabinetto intero almeno una volta ogni
sei mesi. Il suo involontario e preciso
giuoco di massacro si ripetè almeno tre
volte, finchè, per il più elementare istinto
di conservazione, i ministri degli Esteri
presenti, passati e futuri, essendosi
accorti della precarietà che l'attività di
servizio del duca di Frondosa rappresentava
per la loro delicata e pavida vita
ministeriale, non si passaron la voce di
metterlo da parte e di elevare al suo
posto qualche diplomatico meno di lui
persuaso che oramai il regno di Fantasia
dovesse all'occasione camminare senza
cèrcine e far sentire che aveva anch'esso
tanto fiato nei polmoni da poter parlare
ad alta voce come tutti gli altri.
Il duca di Frondosa aveva poi due gravissimi
difetti per essere un buon diplomatico
malleabile da ogni Governo:
aveva le sue idee e, quello ch'è peggio,
non consentiva in alcun modo a cambiarle
con quelle degli altri.
I ministri, bianchi o neri, deputati o
senatori, orientati da una parte o dall'altra,
avevano un bel succedersi al ministero
degli Esteri: il duca di Frondosa
non per questo credeva necessario di
cambiare opinioni. Se al ministro d'oggi
piaceva di mutare tutto quello che
aveva fatto il ministro di ieri, il duca
di Frondosa non si faceva nè più in qua
nè più in là. Quello che per lui era
bianco continuava ad essere bianco anche
se il nuovo ministro voleva ad ogni
costo che sembrasse nero. « È chiaro che
se il nuovo ministro degli esteri, soleva dire, possono
cambiar d'idee come si cambia di
vestito. Le prendono in prestito o in affitto
per pochi mesi di servizio straordinario
e non hanno mai il tempo di
affezionarcisi. Ma io non posso invece
cambiare le mie, poichè le servo e le
serbo da venticinque anni». E, dopo l'ultimo
incidente diplomatico in seguito al
quale la sua messa a disposizione del
Ministero fu un provvedimeno prudente
e quasi definitivo, il duca di Frondosa,
al ministro d'allora che gli ricordava quali
fossero le sue idee di stagione rispose
tranquilllamente: «Eccellenza, da venticinque
anni non sono affatto le mie».
Il ministro gli fece osservare che non era
lecito ad un ambasciatore avere idee diverse
da quelle del suo ministro ed aggiunse,
assiomaticamente, che se ciò avviene
è incontrastabile che le idee dell'ambasciatore
devono esser cattive. «Non
oserei crederlo, signor ministro, rispose
don Alvaro di Frondosa, poichè mi son
trovato ad averle in comune proprio col
suo predecessore. E, ad ogni modo, io
ho il dovere di rappresentare all'estero il
regno di Fantasia, che è sempre lo stesso,
e non i governi che si succedono ogni
sei mesi. Se ricevo ordini, obbedisco. Senz'ordini,
agisco secondo le mie idee ed
i miei sentimenti». Ed essendosi il colloquio
col ministro fatto ancor più vivace,
l'importuno ambasciatore aggiunse:
«Non ho tempo, del resto, per seguir
le idee di tutt'i e informarmi
di quali sieno quelle di moda per la stagione.
Mutano cosi spesso.... Nè so avere
nel guardaroba del mio cervello idee e
vestiti da mezza stagione, buoni così per
l'inverno come per l'estate». Quand'ebbe
capito che non c'era assolutamente modo
di ragionare con quell'uomo troppo ragionevole,
il ministro lo lasciò dire e si
decise a fare. Al primo Consiglio dei ministri,
mise a disposizione del Ministero
il duca di Frondosa e ce lo lasciò in
santa pace. Nè i ministri che lo seguirono
ebbero mai l'imprudenza di voler turbare
quell'immeritato e onesto riposo.
Tre volte, l'ho già detto, il carattere troppo
energico, le idee troppo ferme e la
parola troppo franca del duca di Frondosa
avevano tratto il regno di Fantasia
a due passi dalla guerra. Bisognava ad
ogni costo evitare che il pericolo si ripetesse
una quarta volta. Lasciarlo a casa
voleva quindi dire salvare la patria.
Il primo incontro di Sua Altezza con
la duchessa Isabella di Frondosa non
ebbe nulla di molto impressionante e di
complicatamente romanzesco. Mi dispiace
di dover confessare che una così tempestosa
avventura cominciò nel modo più
semplice che si possa imaginare, ma io
non so proprio che farci. Se fossi un romanziere
troverei certamente nella mia
imaginazione o, alla peggio e più comodamente,
nei romanzi degli altri uno
spunto più caratteristico e più drammatico.
Ma io non sono un romanziere. Il
mio còmpito, molto più modesto, esclude
ogni volo di fantasia e si limita ad essere
quello di un cronista fedele, preciso e
scrupoloso per cui tutt'il valore del racconto
è nel ricordare molti fatti con poche
parole. Nei primi mesi del suo soggiorno
a Pulquerrima Sua Altezza non
aveva avuto occasione d'incontrare la duchessa
di Frondosa, la quale viaggiava
con suo marito attraverso l'Europa: poichè
ogni anno il duca soleva assegnarsi
una missione straordinaria a suo esclusivo
uso e consumo per rendersi conto de
visu del vero stato della politica internazionale
e potere al club criticare l'operato
di tutt'i ministri che non operavano
nulla al ministero degli Esteri.
Il duca e la duchessa di Frondosa erano
appena da pochi giorni rientrati a Pulquerrima
quando una mattina lo yacht
imperiale dell'imperatore Goffredo terzo,
in crociera di piacere, gettò l'àncora appunto
nel porto di Pulquerrima, salutato
dalle salve tonanti della formidabile
flotta di Fantasia. Sua Maestà il Re
era giunto il giorno prima dalla capitale
per accogliere il suo imperiale ospite ed
amico. Molte feste sontuose ebbero luogo
in quella settimana, tra le quali una
colazione, seguita da ricevimento, a bordo
della nave ammiraglia, la Fantasio.
E proprio a questo ricevimento Rolando
incontrò per la prima volta la duchessa
di Frondosa. Fu una presentazione come
tante altre. Una riverenza della duchessa,
un inchino e un baciamano di Monsignore.
E sùbito dopo Monsignore mi
prese pel braccio, mi trasse in disparte
e mi manifestò la sua meraviglia: «Frondosa?
Frondosa? Ma è mai possibile?
Nessun numero? Nessun nome? Amico
mio, lei dev'essere questa volta, sul conto
di questa bella signora, molto ma molto
male informato».
Ritrovai il giovane principe, più tardi,
accanto alla duchessa, fuori di quella
folla di ufficiali di marina, di autorità
di diplomatici, di mondani, nella loggetta
a poppa riservata al comandante. Il principe
guardava la bella e onesta dama
con certi occhi incantati e con una bocca
cosi spalancata che vi sarebbe entrata
comodamente una palla di quel cannoncino
che luccicava lì accanto, alla luce
d'oro del più colorito tramonto pulquerrimese,
contrastando con l'eleganza leggera
delle poltroncine di vimini rosa di
quel salottino a mare. Non ho mai saputo
che cosa la duchessa avesse detto in quel
primo colloquio che doveva poi essere foriero
di grandi cose. Solamente è certo,
perchè lo potetti controllare io stesso dal
mio posto d'osservazione, che parlò sempre
la duchessa, limitandosi Sua Altezza
a manifestare silenziosamente i segni del
più estatico rapimento. Per conto mio,
capii benissimo l'estasi del Principe. La
duchessa di Frondosa non aveva solamente
su le sue allegre compagne di Pulquerrima
il primato della virtù ma anche
quello dello spirito. Il principe era giustamente
meravigliato di trovare così due
qualità che non credeva molto diffuse nell'elegante
sciame femminile della sua residenza
e più ancora non credeva ai suoi
occhi e ai suoi orecchi trovandole riunite
nella stessa piccola e deliziosa persona.
Piccola, deliziosa persona. Fu questo
appunto che più stupì Sua Altezza. Nella
sua vita di corte e di salotto gli esempii
di virtù femminile erano stati cosi limitati
che Sua Altezza, se voleva farsene
un'idea, era rimasto a quelli della storia
romana. E però il concetto della virtù feminile
richiamava nel suo spirito necessariamente
l'imagine d'una grave e solenne
matrona che per offrire alla patria i suoi
gioielli offre alla, virtù bellica delle legioni
i suoi figliuoli esemplari. Con la
duchessa di Frondosa sera invece trovato
davanti una graziosa donnina che non
aveva nulla di romano, ma qualche cosa
piuttosto di greco e di francese insieme,
un piccolo, delizioso Tanagra vestito all'ultima
moda di Parigi, un Tanagra ridisegnato
in una punta secca di Helleu,
una squisita bamboletta vivente che
sprizzava malizia dagli occhi, una donnina
che aveva l'argento vivo addosso
e la cui conversazione spumeggiava e pizzicava
come il bicchiere di sciampagna
ch'egli aveva in mano ascoltandola parlare
argutamente con una birichineria
che innamorava. Come mai tanta virtù
poteva entrare in un così tenue e leggero
corpicino e come mai una testolina così
vivace poteva, agitandosi tanto, rimaner
sempre a posto? Sua Altezza aveva studiato,
specialmente a Corte, gli stati d'animo
egli stati di servizio femminili ed aveva
potuto osservare che se la regale famiglia
vantava anche, in un lungo corso di
secoli e di generazioni, l'esemplare rarissimo
di qualche donna d'illibati costumi,
queste rarità non erano mai state reclutate
fra le regali discendenze feminili cui
natura era stata prodiga dei nobili doni
che fan l'avvenenza del volto o la vivacità
dello spirito. Studiando, giovinetto, la storia
della sua gloriosa famiglia, quando
era stato invitato ad ammirare la virtuosa
vita di un'ava, il giovane principe aveva
sempre domandato, al paziente capitano
del Dragoni azzurri che lo aveva
istruito in queste delicate discipline, se
l'ava era brutta o era stupida; e ogni
volta il capitano dei dragoni azzurri aveva
dovuto rispettosamente per l'una cosa
o per l'altra annuire. Tanto che oramai
da tre generazioni i suoi predecessori sul
trono di Fantasia, per ricondurre un po'
di virtù domestica nella storia famigliare,
avevano accuratamente cercato per
sposarle, nelle varie Corti europee, non
le principesse più nobili, ma le meno
avvenenti.
Cadeva il sole dietro le colline. Nella
penombra violetta del crepuscolo le corazzate,
tutte insieme, al suono delle musiche,
abbassavano le bandiere e punteggiavano
il mare e il cielo con le leggere
architetture d'oro delle loro illuminazioni.
Io ero rimasto verso poppa, appoggiato
al parapetto della bella nave,
conversando in un gruppo d'ufficiali. Una
mano invisibile, nell'ombra, sul terrazzino
del comandante, aveva acceso sotto
un paralume di tulle rosa una minuscola
lampadina elettrica ch'era come ma piccola
rosa fiorita per incantesimo sul tavolinetto
di vimini da cui la duchessa
e Sua Altezza erano appena separati. Non
distinguendo più, nella penombra rischiarata
in un sol punto da quel Fiore roseo,
nè gli atteggiamenti dei due, nè chi parlasse,
scorgevo appena due figure, una
tutta bianca e l'altra tutta nera, vicine,
allungate, schiacciate come due ombre
profilate sopra un muro illuminato. Cessata
la cerimonia dell'ammàina bandiera,
la musica aveva attaccato l'ultimo valzer.
Gli ufficiali andavano attorno pel
ponte invitando le dame agli ultimi giri
sul ritmo voluttuoso e appassionato della
danza viennese. Qua e là, attorno alle
tavole bianche dei buffets, gli ultimi tintinnii
delle ultime coppe di sciampagna.
Dovunque bandiere spiegazzate, vasi di
fiori sguarniti di corolle e a terra tutto
un tappeto malinconico di poveri petali
già sfioriti e calpestati. A destra e a sinistra,
vicino e lontano, nelle parti meno
illuminate della corazzata, s'accendevano
e si spegnevano le lucciole irrequiete delle
sigarette dei fumatori. E, dovunque, la
malinconia accorata delle feste che finiscono.
Di tanto in tanto, nelle pause del
valzer s'udiva il fischio stridulo dell'ufficiale
di guardia che dava i segnali alle
lancie che imbarcavano e portavano via
gli invitati più solleciti ad andarsene.
Nella distrazione della nostra gaia conversazione
io avevo completamente dimenticato
Sua Altezza. Ma non dovevo
tardare ad essere richiamato alla mia
ininterrotta attenzione di spettatore e ad
imaginare quale piega stava per prendere
la commedia che già seguivo con tanto
interesse. I miei sguardi erano ritornati,
senza volerlo, al terrazzino di poppa e
alle due figurine bianca e nera profilantisi
appena nell'oscurità, quando vidi
d'improvviso la figurina bianca levarsi
e allontanarsi bruscamente dalla figurina
nera, mentre la voce della duchessa di
Frondosa gridava il mio nome. Accorsi.
Trovai la duchessa in piedi, appoggiata al
parapetto, sorridente; e d'innanzi a lei
il principe, ora anch'esso in piedi, che
si torturava con una mano nervosa i
baffettini nascenti. E, prima che io avessi
avuto il tempo d'interrogare, la duchessa,
col suo più bel sorriso pacato,
con la sua voce più tranquilla, con un
volto che respirava la più sicura pace,
mi spiegava d'avermi chiamato perchè
Sua Altezza voleva già andarsene e desiderava
che io l'accompagnassi a cercare
il suo aiutante di campo. In pari tempo
donna Isabella tendeva la mano a Sua
Altezza e disegnava col piede e il ginocchio
destro la più leggiadra riverenza del
tempo in cui le donne non avevano ancora
sostituito alle riverenze delle Corti
una ginnastica da cortile. In pari tempo
Sua Altezza s'inchinava a sua volta profondamente,
prendeva il mio braccio e
s'allontanava con me verso il centro della
nave mentre la duchessa accoglieva festosamente
gli omaggi del gruppo di ufficiali
che avevo or ora lasciati e che avevan
dovuto aspettare, per inchinarlesi,
che quella pittima di Sua Altezza se ne
fosse finalmente andata.
Se la duchessa di Frondosa rivelava
una così sorridente serenità, Sua Altezza
invece doveva essere letteralmente fuori
di sè. Difatti, senza voler neppure accordarmi
un minuto per cercare il suo
aiutante di campo, mi trasse verso la
scaletta e saltò su la prima lancia che
trovò lasciando in asso quel povero sottotenente
di vascello di guardia che già
col suo fischietto s'era affrettato a chiamare
la lancia reale. E c'era di peggio.
Sua Altezza abbandonava così la festa
prima che se ne fossero allontanati suo
padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva
anche essere assolutamente necessario
per un uomo che una donna desiderosa
di metter le cose a posto aveva
garbatamente ma esplicitamente licenziato,
ma non era niente affatto protocollare
per un principe reale che giungeva così
a filar via all'inglese, senza salutare nessuno,
come fosse il più libero ed il più
oscuro degli invitati. Per il momento il
malumore del principe si sfogò in un
silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e
saliti che fummo nella vettura di Corte
che ci riaccompagnava a palazzo, Sua
Altezza mi fece capire che anche io non
ero affatto escluso dal suo risentimento.
Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla
— altra negligenza di etichetta —
contro il vento della sera. Ma s'era
bruciato le dita e gittando via, con gesto
irritato, sigaretta e fiammifero, aveva
brontolato a denti stretti: «Ma anche
lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa
era una Giovanna d'Arco!».
Povero, dimenticato capitano dei Dragoni
azzurri che aveva passato le sue più
belle ore a insegnare storia a Sua Altezza
senza che Sua Altezza riescisse a
farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente
chiara della vergine
guerriera! Per pigro abito di semplificazioni
il giovane principe aveva solo
ritenuto di tanti lunghi commenti che
Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa
e restia. Ciò gli bastava, poichè non
aveva seguito alla Sorbona i corsi del
professor Thalamas, per raffigurare in
lei il tipo rappresentativo dell'austerità
femminile. Mi guardai bene quindi dal
ripetere schiarimenti che il capitano dei
Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare
inutimente e mi limitai a chiedere
rispettosamente al principe che cosa
fosse avvenuto. E il principe, com'era
sua abitudine, non in avaro di spiegazioni.
La conversazione sera fatta a mano a
mano molto galante e la duchessa
sembrava ed era semplicemente incantevole.
Abituato a non incontrare mai
difficoltà, Monsignore credeva che la via
dell'avanzata gli fosse facile e piana anche
con quella bella signora. Io l'avevo
avvertito, è vero, della sua incensurabile
fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come
son testardi tutti gli «enfants gatés», si
era ficcato in mente che io ero, che non
potevo essere che male informato. Lo
provava anche il fatto, del resto, che la
duchessa civettava deliziosamente e che
si lasciava far la corte con la più affabile
condiscendenza, tanto che a un dato
punto l'odore dei fiori, la bellezza della
duchessa, il fascino della notte primaverile,
la voluttuosa carezza del valzer viennese
avevano provocato l'ardire del principe
e l'ombra che circondava la coppia
l'aveva decentemente favorito. Che cos'è
mai, del resto, alla stregua dei peccati
mortali, prender la mano d'una bella signora
e baciarla lungamente schiacciandovi
un po' sopra le labbra? Senonchè
la duchessa aveva ritratto la mano e aveva
tranquillamente invitato il principe a
rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse
ve l'aveva prima rimesso. Ma
il principe, che per le gaffes grandi e
piccine non aveva mai avuto una istintiva
ripugnanza, stimando che fosse il
caso di scherzare ancora e tentando di
riprendere la mano restia, aveva detto
alla duchessa con un sorrisetto superiore
e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete
essere tanto difficile?». E proprio a
questo punto donna Isabella s'era bruscamente
levata rispondendogli di botto
chemcertamente il principe da Sua Altezza
l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato
abituato a un'assai minore severità. E
quindi, dopo la botta e la risposta, la
scena innocente cui anch'io ero stato
chiamato a partecipare.
La poca severità dell'Infante Anna-Maria
verso di tutti e specialmente verso
il suo regale nipote che sin dalla più tenera
adolescenza, prima ancora di recarsi
ad Oxford, aveva portato alla vetusta
e venusta parente i suoi lion d'arancio,
era notissima a tutto il regno di Fantasia
ed era per, difficile per Sua Altezza
considerare come un'offesa alla regale
famiglia il richiamo ad una verità
ch'era ormai incontrastabile per voce di
popolo confermata anche dall'esperienza
personale di varie centinaia di sudditi.
Non tenne quindi, oltre quella sera della
prima impressione, alcun rancore per
quella mancanza di rispetto ad una zia
cui egli doveva la rivelazione precoce
della sua sola e vera vocazione; e, nei
giorni e nelle settimane seguenti, ricercò
e rivide la duchessa di Frondosa come
se nulla fosse stato, sperando di riuscire
col tempo, con la pazienza e col fascino
della sua futura corona, a ridurre Giovanna
d'Arco a più miti e condiscendenti
consigli. Cominciò a frequentare i salotti
che la duchessa frequentava, a correre in
vettura, lui che amava tanto di vedere e
di farsi vedere, le passeggiate eccentriche
e solitarie che la duchessa prediligeva,
a frequentare assiduamente il teatro
di musica cui la duchessa non mancava
mai, lui che in fatto di musica non poteva
sopportare idee melodiche più complicate
di quelle d'una canzonetta da
caffè-concerto o d'una marcia da circo
equestre. La duchessa leggeva molto e
il principe faceva la fortuna delle librerie.
La duchessa era assidua alle conferenze
e il principe non ne trascurò più
una. Cercava di vederla ogni mattina,
ogni giorno, ogni sera. La giornata gli
sembrava insopportabile se non aveva alcuna
possibilità d'incontrare la duchessa.
Io ero il suo lieto confidente nelle buone
giornate. Scontavo il suo malumore nelle
cattive.
E, finalmente, si decise a mancarmi di
rispetto per la prima volta e, poichè mi
vide docile ai suoi capricci, non fu certo
l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo,
due ore prima d'una garden-party che
Sua Altezza offriva, per completare le
presentazioni, alla società pulquerrimese.
Facevamo colazione soli, come quasi tutti
i giorni. Intuii che aveva qualche cosa
di serio da dirmi poichè vedevo che non
apriva bocca neppure per mangiare e
che non cessava d'arricciarsi i baffetti.
N'ebbi la conferma quando fummo al
caffè e quando, ordinato al maggiordomo
di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito
che voleva qualche cosa da me e lo capii
appunto perchè aveva l'aria di non
volermi chiedere nulla. Parlava invece
della nostra buona amicizia, della grande
fortuna che aveva avuto di ritrovarmi
inopinatamente a Pulquerrima e faceva
l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza
arrossire come una bella donna che si
guardi e, si ammiri allo specchio, della
mia abilità diplomatica, del mio tatto,
della mia mia astuzia, della mia esperienza
mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi,
ch'erano per lui un lusso forzatamente
limitato, ricorse alle imagini. Io
ero il pilota abilissimo della sua navicella
gettata, al suo primo viaggio, in pieno
alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza
di non far punto sentire la mia
presenza e di tenere silenziosamente il
timone in modo da lasciare a lui l'illusione
d'essere già un vecchio capitano di
lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua
navicella andava oramai purtroppo per
una rotta che non seguiva la mia traccia
ma che dipendeva unicamente dalla sua
volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini,
quando si accorse che queste erano molto
comode per dire quasi con facilità la
cosa molto difficile che aveva da dire,
le imagini si complicarono di metafore
e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi,
davano luogo ad un discorso
straordinario col quale Sua Altezza, con
l'aria piu serena di questo mondo, mi
proponeva semplicemente di aiutarla, se
non in tutti i suoi amori, almeno nei
suoi amori difficili. Insomma, per far breve
il discorso, si trattava nè più nè meno
che di questo: la navicella dell'amore di
Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di
felicità promessa dall'amore restio della
duchessa di Frondosa. Per non rischiar
d'incagliare in qualche secca e per
non perdere inutilmente e faticosamente
molte ore di navigazione occorreva sapere
se in quell'isola inesplorata c'era
almeno la più lontana speranza di trovare
un punto d'approdo. E a chi domandarlo,
per avere un dato geografico
sicuro, se non alla duchessa in persona?
Lei sola conosceva la sua isola. Continuava
ella, infatti, a scherzare, a civettare
col Principe, a giuocare col fuoco.
Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai
possibile che quel faro fosse una burla
tentata ai danni dei navigatori più arditi
e più ostinati e che veramente poi, dietro
quel faro, come la duchessa pretendeva,
non ci fosse alcun porto? Questo,
io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo
le carte galanti dei più esperti marinai
di Pulquerrima erano mute al riguardo.
E saperlo era facile. Bastava parlare
alla duchessa Isabella della lunga e
disperata navigazione di Sua Altezza, di
quella sua povera navicella sentimentale
sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano
e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile
e misteriosa. Si trattava, insomma,
di far sapere all'austera signora
dell'isola che la povera navicella non navigava
così a casaccio per puro capriccio,
ma che il suo povero capitano aveva veramente
e definitivamente perduto la bussola
e che in tal caso era elementare
dovere di umanità e di pietà aprire al
fragile legno le braccia tranquille d'un
dolce porto ospitale.
Non esito a confessarlo. Non so quale
specie di sadismo morale mi traeva ad
ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza
quest'inconcepibile discorso di cui
non avrei tollerato da nessun altro neppure
la prima sillaba. Questa condiscendenza
tacita della prima volta doveva
essermi fatale in seguito. Tuttavia, per
quella prima volta, riuscii a declinare il
poco onorevole incarico. Continuando le
metafore di Sua Altezza, che comodamente
permettevano a entrambi di non
arrossire, dichiarai che la mia esplorazione
era forse impossibile, ma che era,
ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai
recisamente che l'isola non aveva
porti nè grandi nè piccini, che l'isola
era stata sempre disabitata e che la luce
che Sua Altezza scambiava per quella
d'un faro era invece quella d'una dolce
capanna sotto la quale la duchessa
e suo marito filavano un amore perfetto
degno dei più leggendarii amanti. Non
c'era quindi altro da fare che macchina
indietro. Per approdare c'erano cento
isole abitabilissime attorno a quell'isola
inospitale, isole con porti garentiti e provati,
con visibilissimi fari accesi che veramente
invitavano i navigatori, isole che
costituivano tutto l'arcipelago del salotti
di Pulquerrima e tra le quali non c'era,
per navigare, altro imbarazzo che della
scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè.
Mi chiese solamente, lasciando le
metafore, se veramente credevo la duchessa
di Frondosa così onesta e risposi
che la reputavo veramente onestissima.
Monsignore volle anche degnarsi di farmi
osservare che in tal caso disperato egli
avrebbe finito per innamorarsene sul serio.
Ed io non potei che stringermi nelle
spalle, senza rispondere.
Non se ne parlò più. Venne l'estate.
Passarono giorni, settimane e mesi. Sua
Altezza continuava intanto a muoversi
come voleva su lo scacchiere galante di
Pulquerrima, ma io comprendevo che
tutte le pedine cui dava caccia fortunata,
che tutte le torri che faceva cadere con
un sospiro e qualche volta anche con
uno sbadiglio non erano altro per lui
che tentativi per distrarsi dalla sua idea
fissa, che pretesti per sfogare su le torri
che precipitavano le esuberanze d'ogni
genere che la torre incrollabile provocava
in quel cuore e in quel sangue di
ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava
a vedere ogni giorno la duchessa
di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava
a giuocare con lui di parole con
quella sua bella serenità che non si turbava
mai. Educata dalla prima aspra lezione,
Sua Altezza non tentava più il
passaggio troppo rischioso dalle parole
molto vaghe ai gesti abbastanza precisi.
E, una sera, tornando da un pranzo dai
Frondosa al quale avevamo assistito insieme,
Sua Altezza mi confessò che non
solo il fascino della duchessa Isabella lo
attirava in quella casa, ma che anche il
duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo.
Non aveva mai visto, mi diceva,
uomo più compìto, gentiluomo più perfetto,
diplomatico più illuminato e padron
di casa che gli fosse paragonabile.
Contava di farne oramai un suo amico,
un suo strettissimo amico, senza nulla
togliere per altro all'affetto di lunga data
ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e
mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era
più d'altronde da discutere. Dopo la moglie,
il marito.... Era, decisamente, l'amore.
Le fatiche d' Ercole.
Mi sono rigorosamente proposto, in
queste memorie, di non accordare una
sola pagina agli svolgimenti letterarii che
sarebbero i «pezzi di bravura» d'un romanziere
di professione, poichè io non
devo inventare ma ricordare, non analizzare
ma riassumere. Un buon cancelliere
che non vuol perdere tempo non raccoglie
parola per parola ogni più minuta
testimonianza, ma le ascolta tutte con
attenzione e registra ampiamente solo
quella che maggiormente può service alla
chiarezza del processo e che le può tutte
sintetizzare. È, inutile, dunque, che io segua
la lunga navigazione d'isola in isola
dell' arcipelago galante di Pulquerrima
cominciata instancabilmente da Sua Altezza
da quando la sua nave da diporto
aveva dovuto, almeno temporaneamente,
rinunziare a gettar l'àncora nell'imprendibile
isola felice della duchessa di Frondosa.
Mi basterà di redigere il giornale
di bordo d'una sola giornata di navigazione.
Già i latini, maestri di tutti, insegnarono
i vantaggi della sintesi per gli
scrittori pigri: ab uno disce omnes.
Venuto l'autunno Sua Altezza provò il
bisogno di viaggiare. La cosa accadde
così. Da varie settimane i giornali d'Europa
consacravano lunghe colonne al ritorno
dal Polo d'un ardito principe italiano.
Vedevo Sua Altezza seguire con
interesse i racconti della audacissima esplorazione.
Fu prima curiosità, poi interesse,
poi ammirazione, poi desiderio d'emulazione,
poi manifesto tormento d'invidia,
che una sera s'aprì violentemente quando
il principe, dopo pranzo, mentre leggeva
ancora giornali e giornali, buttò per aria
un fascicolo dell'Illustration pieno di fotografie
del principe italiano ed esclamò:
«Ma insomma non c'è più al mondo
che il duca degli Abruzzi? Non si fa più
altro che parlare di lui? Di lui che non
è neppure principe ereditario, ch'è terzogenito
d'un ramo cadetto, mentre di
me, di me che sono figlio d'un re, che
son principe ereditario d'un regno come
quello di Fantasia, che sarò re un giorno,
di me chi si occupa?...». E venendomi
davanti, quasi a piantarmi negli occhi
le dita agitate: «Me lo sa dire lei chi si
occupa di me? Me lo sa dire?...». E poichè
non glielo seppi dire camminò a
grandi passi per il fumatoio, accese una
sigaretta, gettò il fiammifero ancora ardente
su una portiera come avesse un'urgente
necessità di mettere il fuoco al Palazzo
reale, raccolse a terra i giornali
europei, schiacciò uno su l'altro, bistrattandoli,
su un divano di marocchino
e lasciandovisi cader sopra in segno di
supremo disprezzo esclamò: «I giornalisti..
Tutti emballés per il duca degli
Abruzzi.... E io? Ah, io non ci sono pei
signori giornalisti? Ma la vedremo, perdio,
se non ci sono.,..» E, balzando di
nuovo in piedi e venendomi di nuovo
d'innanzi, gridò come se dovesse udirlo
l'Europa intera: «Parto!».
Invece di partire, si mise a scrivere;
e scrisse tutta la notte, al Presidente del
Consiglio, al Ministro degli Esteri, a quello
dell'Interno, a quello dell'Istruzione,
persino a quello dell'Agricoltura. In queste
lettere chiedeva che il Consiglio dei
Ministri considerasse l'opportunità, per
il decoro di Fantasia, di non rimanere al
di sotto dell'Italia e d'avere anche in lui
un principe di sangue reale capace di
commuovere, con le ardite imprese, tutta
la stampa d'Europa e d'America. Non
lessi quelle lettere, poichè s'egli non aveva
segreti per me in materia galante non
aveva per me che segreti in ogni altra
occasione della sua vita. Ma dovettero,
quelle lettere, essere commoventissime e
veramente persuasive se due giorni dopo
il Consiglio dei Ministri s'adunava d'urgenza,
come avevano avvertito i giornali
di Effemeris, e se tre giorni dopo Sua Altezza
era chiamata alla capitale dell'autorità
paterna convinta oramai della necessità
di permettere che Sua Altezza Reale
il principe ereditario di Fantasia scoprisse
finalmente qualche cosa anche lui. Tornò
da Effemeris raggiante e, appena disceso
dal treno alla stazione principale di Pulquerrima
e appena salito con me in automobile,
incastrò nell'occhio la caramella,
mi guardò con un sorriso ch'era tutt'un
programma ed esclamò: «Col duca
degli Abruzzi, sa, faremo i conti. È andato
a un Polo? S'accomodi. Ma ce ne
son due. E io vado all'altro».
Esagerava. Non andò al Polo. Ma nei
tre o quattro giorni seguenti al suo ritorno
a Pulquerrima ricevette un ragguardevole
nemero d'illustri geografi che
egli accoglieva coi segni della più viva
ammirazione per quanto non li avesse
mai sentiti neppure nominare. Ci fu un
gran discutere, tra geografi, per stabilire
che cosa Sua Altezza avrebbe potuto scoprire
con minor disagio e con più sicurezza
di riuscita. I varii specialisti contesero,
durante lunghe sedute, d'innanzi
al principe che ascoltava silenziosamente,
curioso di vedere dove l'avrebbero finalmente
mandato a coprirsi di gloria e
stupito di apprendere che al mondo, dopo
tanti millennii e non ostante tanti esploratori,
ci fosse ancora tanta roba da scoprire.
La maggior difficoltà, quindi, era
di trovare per Sua Altezza una missione
originale. Propose il principe che gli si
affidasse la scoperta di qualche mare poichè
egli aveva un bellissimo yacht ed
amava molto navigare. Ma dovettero, i
geografi, fargli notare che proprio in fatto
di mari non c'era assolutamente più
di nulla disponibile e che, dopo lunghe
meditazioni, essi non potevano offrire alla
scelta di Sua Altezza che deserti e foreste
vergini. Sua Altezza preferì le foreste,
non, come sarebbe possibile credere, per
la verginità, ma per amore dell'ombra e
per non bruciarsi al sole dei deserti la
pelle che egli aveva assai delicata. I geografi
fornirono a Sua Altezza tutti gli
schiarimenti necessarii su la via da seguire
per terra e per mare e sul miglior modo
di coprirsi di gloria col minor disagio
possibile. La foresta vergine da attraversare
era di facilissimo accesso e non c'era
poi bisogno di percorrerla tutta. Bastava
piantare la bandiera bianca, azzurra e
viola di Fantasia un po' più in là del
terzo albero. In quarto ai rilievi di superficie
e di vegetazione Sua Altezza, se
non voleva affaticarsi, poteva contentarsi
di calcoli sommarii e di dati approssimativi.
La foresta era vergine e dopo
la spedizione di Sua Altezza sarebbe certamente
tornata più vergine che mai per
molti secoli ancora. L'imaginazione del
principe poteva quindi liberamente scorrazzare
in quelle inesplorate contrade. Un
geografo l'avrebbe del resto accompagnato
per alleggerire i suoi lavori. Inutile
dire che, poichè l'affetto di Sua Altezza
è dispotico com'era dispotico il trono
dei suoi avi, dovetti accompagnarlo anche io.
Rimanemmo assenti tre mesi. Veramente
l'esplorazione non occupò più di un
paio di settimane. Si trattò d'una comoda
traversata per mare, di cinque o sei giorni
di piacevole cavalcata e d'una mezza
giornata di comodissima marcia, tanto da
giungere in vista della foresta vergine lasciando
al geografo della spedizione l'incarico
di toccarla. Lo lasciammo a raccogliere
dati, rilievi, calcoli topografici,
geografici, geologici, idrografici, atmosferici
e via dicendo. Ma poichè era troppo
presto per tornare a Pulquerrima e poichè
non basta esplorare, ma occorre anche
dimostrare che l'esplorazioue e stata
difficile e che fu necessario a compierla
gran tempo, si calcolò a tre mesi il termine
minimo d'una esplorazione appena appena
decente. Di questi novanta giorni
n'eran passati solo quindici e ce ne
rimanevano settantacinque. Andammo ad
occuparli comodamente e pacificamente a
Nuova-York, nel più stretto incognito naturalmente.
E fu solo quando il geografo
ci raggiunse, dopo avere spedito a
Fantasia le comunicazioni necessarie su la
nostra scoperta, che riprendemmo la via
dell'amata patria. Durante là traversata
Sua Altezza non trascurò di rimanere
molte ore del giorno al sole, sopra coperta,
per dare al suo volto quel colorito
bronzeo che i restaurants di Nuova-York
e le eleganze della Quinta Strada non
erano riusciti a dargli, e senza il quale
non v'ha evidentemente esploratore che
possa chiedere e meritare d'essere preso
sul serio.
Avemmo al ritorno ad Effemeris e a
Pulquerrima onori trionfali, che il principe
sopportò con modesta dignità schivando
solo lo sguardo, addormentato dietro
le lenti cerchiate d'oro, del geografo
della nostra compagnia.
Ma proprio in quei giorni accadde che
Sua Altezza Reale il duca degli Abruzzi
attraversasse una volta di più i disegni
ambiziosi di Sua Altezza Reale il principe
di Fantasia. I giornali europei consacrarono
poche righe al ritorno del mio
regale amico dalla sua foresta vergine, e
lunghe colonne al racconto della spedizione
polare del duca degli Abruzzi, il
quale, proprio in quei giorni, in due conferenze
tenute a Roma, alla presenza dei
Reali d'Italia e d'un parterre di principesse
e d'ambasciatori, aveva raccontato
le traversie del suo animoso viaggio. Mi
venne davanti; una sera, il giovane Rolando,
con gli occhi spiritati e le mani
convulse: «Decisamente, caro mio, questo
Duca comincia a seccarmi.... Ecco
che adesso non gli basta di scoprire un
polo, ma deve anche raccontarlo a tutti....
Crede forse che non abbia un paio
di polmoni anch'io e che non possa
anch'io raccontare com'ho scoperto la
mia foresta.... Lui parla? Parlo anch'io.
Fa una conferenza? Nè farò una anche
io!»
E, detto fatto, Sua Maestà il Re, informato,
trovò naturalissimo che il suo intrepido
figliuolo consolidasse con una
conferenza il prestigio della Monarchia.
Ma dove il Re riconosceva veramente intrepido
il figliuolo non era nella esplorazione
di cui non ignorava le segrete comodità
ma a bensì nel coraggio di parlarne
e nel tranquillo ardire con cui osava cimentarsi
in una conferenza; poichè era
tradizionale nella famiglia di Fantasia il
poco culto delle discipline letterarie, e,
come arte oratoria, non v'era sovrano
di Fantasia che non avesse incespicato
almeno dieci volte anche leggendo dieci
righe d'un brindisi politico scritto dal
ministro degli Esteri.
Sua Altezza Reale, ch'era tutt'altro che
un imbecille, si rese conto tuttavia che
si può fare una conferenza sopra un'esplorazione
anche senza che l'esplorazione
ci sia stata, ma che è assolutamente
inconcepibile redigere una conferenza tollerabile
su una esplorazione che non ha
avuto peripezie. Bisognava, dunque, inventare
le peripezie. E, col suo più bel
sorriso, per questo ufficio Sua Altezza
benignamente si rivolse a me, raccomandandomi
di trovarne quante più potevo,
un po' nella mia immaginazione e il resto
in qualche libro poco noto di qualche
altro meno illustre esploratore.
La vita diplomatica m'aveva fortunatamente
addestrato nell'arte di dire bugie
senza averne l'aria, e in una settimana
la conferenza fu da me redatta in modo
che poteva veramente illudere il popolo
di Fantasia su gli oscuri eroismi del nostro
pugno di prodi esploratori. Mentre
io lavoravo nella biblioteca reale, Sua
Altezza aveva ripreso attivamente il suo
galante giuoco di scacchi; un fruscìo di
gonnelle rispondeva spesso dal salotto vicino
al fruscìo delle mie carte. Finalmente
una sera potetti annunziare al principe
che la conferenza era pronta e invitarlo
ad ascoltarne l'indomani la lettura, anche
per apprendergli su quale tono modesto
e disinvolto gli eroi moderni devono narrare
ai popoli le loro audaci avventure.
E il giorno dopo, appena finito di far
colazione, Sua Altezza ed io ci chiudemmo
nella biblioteca armati di sigarette
e di buona volontà. Sua Altezza mi ascoltava
senza respiro e con lo stesso interesse
con cui avrebbe seguito i feuilletons
di un romanzo d'Eugenio Sue. A due
o tre riprese manifestò la sua meraviglia
nel vedere con quanta facilità io riuscivo
a dar vita e colore non a quello che era
stato ma a quello che avrebbe potato essere.
Ma non eravamo ancora ad un terzo
della conferenza che la porta s'apri e
Sua Altezza fu avvertita che la duchessa
di Villahermosa era nell'appartamento vicino.
Il Principe mi sembrò assai lieto
dell'interruzione. Mi spiegò che la duchessa
veniva a vedere la sua collezione di
medaglie, poichè la sera prima non aveva
resistito all'invito di Sua Altezza quando
aveva saputo che nella collezione erano
alcune medaglie del Pisanello. Andava
pazza pel Pisanello, l'eccellente duchessa!
Sua Altezza mi chiese, d'aver pazienza.
La visita non sarebbe stata lunga e, del
resto, così sembrava al principe, c'era
qualche cosa da alleggerire in quella
prima parte che gli era apparsa eccellente
ma forse un poco prolissa. E se
n'andò, acceso in volto, impaziente; e
sentii che, richiudendo, dava una mandata
di chiave alla pesante porta che separava.
Ma anche le porte pesanti non hanno
soverchi segreti per gli uditi sottili. M'ero
messo attentamente a rivedere le pagine
già lette del mio manoscritto, qua sopprimendo
un aggettivo, là sacrificando un
particolare, per seguire il principe che
per dire qualche cosa — come in generale
avviene di tutt'i critici aveva trovato
prolisso quello che cinque minuti prima
gli era apparso stringato. Ma io non sono
un autore ostinato a difendere l'intregrità
del suo territorio prosastico ; e non c'era
del resto pericolo, sopprimendo un episodio,
di snaturare il racconto della nostra
spedizione ch'era già quanto mai snaturato
di per sè stesso. Ma i rumori che
mi giungevano dalla stanza vicina non
tardarono molto a distrarmi dal mio lavoro
di revisione; e ad informarmi, meglio
di un buco praticato nella pesante porta
che ci separava, sul genere d'occupazioni
cui Sua Altezza e la duchessa s'erano,
dopo brevi preliminari collezionistici, assai
calorosamente abbandonati. Ma la vita
di Corte mi aveva già abituato a sentire
ogni genere di rumori con la stessa tolleranza
con cui ne vedevo di tutt'i colori.
Era del resto evidente che, per quanto
una dama possa andar pazza per le
medaglie del Pisanello, un'ora e più è
un limite di tempo veramente superiore
ad ogni più esagerata e platonica ammirazione.
Era trascorsa più di un'ora, infatti,
quando Sua Altezza ricomparve nella biblioteca
con l'aria più tranquilla e più
innocente del mondo. Ma uno sguardo
scambiato fra noi bastò a spiegarci reciprocamente
la durata di quella visita ai
medaglieri di Sua Altezza. Quando gli
occhi si spiegano le parole sono inutili e
fu quindi in silenzio che Sua Altezza tornò
a sprofondarsi nella sua poltrona di
marocchino rosso e, accesa una sigaretta,
mi invitò con un cenno di mano a riprendere
la lettura interrotta. Ricominciai imperterrito
a leggere mentre Sua Altezza
cedeva a poco a poco a quella sonnolenza
soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti
e gli amori felici. Ma era destino
che la conferenza venutami giù di getto
dovesse essere nota al principe per frammenti:
chè leggevo appena da dieci altri
minuti quando la porta s'apri di nuovo e
Sua Altezza venne informata che la marchesa
di Setteporte chiedeva anche essa
di vedere la collezione di medaglie: non
aveva, questa seconda dama, una spiccata
preferenza per il Pisanello ma il
suo interesse per il medagliere del principe
non era meno vivace. Questa volta il
principe si levò un po' meno vivacemente
di prima e non m'invitò a rivedere
quello che avevo letto: mi suggerì invece
cortesemente di prendermi un breve riposo
chè in dieci minuti al massimo
avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice.
Ci volle invece un'ora e mezza. Questa
volta ero disoccupato, e, disteso su un
divano, fumando, potevo anche meglio
della prima volta avere esatta nozione
delle manifestazioni di riconoscenza cui
giungeva l'ammirazione soddisfatta della
marchesa per le collezioni di Sua Altezza.
Il gran Condé dormiva placidamente e
profondamente nella notte precedente alle
sue più ardue battaglie. Io potevo quindi,
con non minore forza d'animo, appisolarmi
durante quelle scaramucce d'amore.
I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi
testimoni a tutto abituati possiedono
la medesima imperturbabilità.
E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua
Altezza mi destò rientrando nella biblioteca,
gli sguardi non bastarono più e
ci vollero le parole per manifestarmi
chiaramente il suo malumore.
— Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa
comincia a diventare fastidiosa, e queste
signore non mi dànno il tempo di respirare.
Ho veduto iersera queste due signore
all'Opera e le ho invitate, come
invito tutte, a venire ad ammirare la mia
collezione di medaglie a bere una tazza
di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una
dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare
a rovesciare le parti: poichè
non si lascian pregare, sarà necessario
che incominci io a farmi pregare!
Non insistemmo e riprendemmo per la
terza volta la lettura. Eravamo nel cuore
della conferenza adesso, e Sua Altezza,
non più sonnolenta, ma sostenuta invece
da quell'eccitazione nervosa che segue i
grandi strapazzi intellettuali, seguiva la
mia narrazione col più vivo interesse e
con frequenti cenni d'approvazione. Ma la
porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza
venue informata che la principessa
di Malaguena desiderava d'ammirare a
sua volta collezione di medaglie. Vidi
Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo
stringendo i pugni e frenando la sua ira,
finchè il maggiordomo non si fu allontanato
e non ebbe richiusa la porta. Poi
si volse verso di me che, levato il volto
dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza
sorridendo:
— Lei sorride! — esclamò Sua Altezza,
con un tono irritato. — Lei sorride, eh?
Ma vorrei un po' vederla al mio posto.
L'invito alla principessa di Malaguena
non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola
a cavallo al Viale del Tigli.
Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione....
E ci tenessi, almeno.... Ma
niente affatto! Sparo a polvere tanto per
rimanere in esercizio. Ma per loro basta.
Sono uccellini che si contentano del rumore
per potersi decentemente dare per morti.
Feci rispettosamente osservare a Sua
Altezza che, ingrato come tulti gli uomini
si lamentava ingiustamente d'una troppo
benigna fortuna.
— Ma è la terza, sa, — rispose il principe,
— e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto.
Non raccolsi quello che v'era di poco
lusinghiero in questa ripetuta esclamazione
che mi riguardava e approfittai invece
del silenzio del principe, che camminava,
con le mani in tasca e il naso
verso terra, su e giù, furiosamente, per
la biblioteca, per ricordargli che la principessa
di Malaguena lo attendeva e che
non era possibile farla più oltre aspettare;
e che, date le circostanze, non gli
rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente
e andarla sùbito a raggiungere.
— Io? Ma lei è matto! — esclamò il
principe fermandosi davanti alla mia scrivania
e usando con me un linguaggio
cosi confidenzialmente irriverente che era
naturalmente giustificato dalla sua agitazione.
— Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò
a mio padre, stasera stessa, che
Pulquerrima è una residenza inabitabile,
e che qui non basta un principe ereditario
ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto,
che cosa faccio io? Mi faccia il
piacere di cedermi il suo posto...._Grazie.
Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua
bella conferenza me la finisco per conto
mio.
E si mise a leggere, seduto al mio posto,
coi pugni stretti alle due tempie. Osai
ricordare a Sua Altezza la principessa
che aspettava.
— La principessa? — mi rispose senza
levar gli occhi dal manoscritto. — La
principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi
faccia questa cortesia. Le dica che sono
uscito, che son malato, che non voglio
essere seccato. Le dica che la collezione
di medaglie non c'è più. È sparita, me
l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito
e in una crisi di follia l'ho gettata
tutta dalle finestre. Lei saprà che
cosa dire. Le situazioni difficili son fatte
apposta per lei.
Gli amici dispotici son come i sovrani
assoluti: non discutono. E io che conoscevo
Sua Altezza non tentai di ragionare
e mi decisi sùbito a sbrogliare una
volta di più una matassa intricata. Aggiustai
la mia cravatta, spolverai la cenere
delle sigarette sul mio vestito, presi
un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza,
assorta, continuava a leggere le nostre avventure
di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura
di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo,
nella gabbia della leonessa. La
quale leonessa era quanto mai addomesticata
e leggiadra. Mi strinse la mano
con cordialità e prese per buone tutte
le spiegazioni che le davo per l'assenza
del principe trattenuto quel giorno dalle
sue gravi responsabilita al comando del
Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo
profondo rammarico di non poter ammirare
la collezione di medaglie. Le chiesi
se anche la sua predilezione fosse per
il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria
di cadere un po' dalle nuvole. Per
fortuna non si sbilanciò a domandarmi
se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima.
E, tanto per tener viva la conversazione,
mi scappò di bocca — giuro che
fu senza malizia! — ch'ero collezionista
anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa
assai più leggera, i ventagli. Gli eventi
precipitarono. La principessa non tardò
a dichiararmi che le collezioni di ventagli
la interessavano in generale assai più
di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia
dichiararle che sarei stato felice di
mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi
fissasse una data e mi sentii rispondere
ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito.
Tutto questo naturalmente con un'innocenza,
con una semplicità, con una serietà
impassibile come che si trattasse
veramente di medaglie e di ventagli. Non
c'era altro da fare che quello che feci:
aiutare la principessa a indossar di nuovo
il Mantello e offrirle la mia automobile
per recarci a casa mia, scusandomi
di non poterle mostrare, cosi all'improvviso,
che una collezione incomplela e
disordinata. Naturalmente in automobile
non si parlò che di ventagli. In materia
d'amore davvero la parola è fatta per
nascondere il pensiero. Non parlavamo
che di ventagli. Io risalivo a mano a mano
fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo.
La principessa mi ascoltava
con la più intensa attenzione come se
non si fosse mai interessata d'altro in
vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei
ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo
tutt'e due di guardarli. Era avvenuto
lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello,
da sei mesi, non avevano visto altra
luce oltre quella filtrante dagli spiragli
delle loro inviolate custodie.
Quando i fatti compiuti ci permisero
di parlar d'altro che di ventagli, la seducente
principessa mi costrinse a confessare
che proprio quel giorno Sua Altezza
non aveva avuto proprio nulla da
fare al comando del Corpo d'Armata e
che non s'era mosso da palazzo. Aveva
infatti incontrate poco prima la duchessa
di Villahermosa e la principessa di Setteporte
che le avevano parlato con entusiasmo
dei Pisanello. E, con una moina
adorabile, la principessa di Malaguena mi
chiese:
— Spiegami un poco in due parole che
cosa sono i Pisanello. Devo far credere
di averli visti anch'io. Capirai, caro, che
non posso essere da meno di loro.
— E i miei ventagli? — chiesi.
— I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è
bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli
son per il piacere. Ma le medaglie
son per l'onore!
Scacco al Re!
A mano a mano che rievoco le avventure
del mio regale amico, mi avvedo che
l'onore d'essere l'amico intimo, il confidente
prediletto e il consigliere segreto
d'un Principe ereditario m'è costato sovente
qualche rinunzia d'amor proprio:
c'era, del resto, in questa rinunzia necessaria
un'evidente legge di compensazione,
poichè perdevo in decoro privato
quel che acquistavo in decoro pubblico.
Cosi l'equilibrio del mio onore rimaneva
in fondo inalterato: vuol dire che quello
che si vedeva da tutti era in proporzioni
molto maggiori di quello che potevo vedere
io solo, con una buona lente di ingrandimento
di ottimismo personale.
È certo che, a poco a poco, assecondando
i gusti del futuro re, lusingandone le vanità,
incoraggiandone i capricci, io seguivo
il mio disegno di psicologo curioso
di condurre il mio personaggio sin dove
poteva e doveva arrivare logicamente
dato l'abbrivo che aveva preso. Ma è anche
certo che nel giuoco, a furia di piccole
concessioni, di facili accomodamenti
e d'elegantissime transazioni, io ero arrivato
a considerare naturalissime certe
piccole cose curiose che Sua Attezza
mi faceva fare, certe piccole cose che
avrebbero fatto arrossire qualche faccia
meno della mia oramai diplomaticamente
abituate a non cangiar mai di colore.
In fondo, Sua Altezza era giunta a non
considerarmi più che come un suo amico,
come un'esperta guida nell'itinerario galante
che voleva percorrere la sun esuberanza
di adolescente fatto appena uomo.
Ero forse più per lui un signore anch'io,
un diplomatico senz'avvenire ma
pur sempre un diplomatico, un gentiluomo
che anche se cortigiano si ricordava
ad un dato punto di dover esser quello
prima che questo? Non credo. Mi pare
invece che a poco a poco diventai per
lui una specie di cameriere amico, uno
stipendiato pei più strani servizii dissimulati
sotto le eleganti maschere della
più stretta amicizia, un salariato da alcova
retribuito da lui con sorrisi cordiali
invece che con denari contanti. E la cosa
mi apparve naturale, tanto naturale che
non mi avvidi se non molto più tardi
dove si sarebbe andati a finire se avessimo
continuato ad andare avanti di buon
passo su quella via spregiudicata in cui
il principe non si rendeva più conto di
quel che mi faceva fare e io mi rendevo
conto anche meno di lui di quel che facevo
per volontà sua. In rondo ero evidentemente
vittima anch'io dell'illusione
della sua corona futura e del suo prossimo
trono. Mi sembrava che, com'egli
domani con una vittoria militare avrebbe
potuto allargare i confini del suo territorio
e del suo regno, cosi poteva con
una parola allargare per sè e per i suoi
sudditi, amici o no, anche i confini della
morale, e allargarli tanto da perderli addirittura
di vista. Avevo già veduto su
lo scacchiere mondano di quella società
elegante tutt'il giuoco docilmente prestarsi
al capriccio del piccolo futuro re che
attraversava lo scacchiere a piacer suo,
in lungo e in largo, avanti e indietro.
Avevo veduto le più oneste dame diventar
tante torri che crollavano appena il
re faceva un passo nella loro direzione.
Avevo veduto mariti ufficiali e amanti
ufficiosi diventar tanti alfieri pronti a inchinarsi
al passaggio del piccolo re, anche
e anzi sopratutto se era diretto verso
la torre cui quegli alfieri dovevano decentemente
servir di presidio. Ero su lo
scacchiere anch'io ed ero diventato anch'io
un docile alfiere in quel giuoco
galante. Andavo di qua e di là, di su e
di giù, pronto a un cenno, a un sorriso, a
una parola, a uno sguardo. Ero, oramai,
un piccolo alfiere galoppino adibito ai
servizii di camera di Sua Altezza. Adesso
mi accorgo che le mie funzioni non
erano molto brillanti. Allora mi sembrava
di continuar le glorie dei miei avi,
ed avrei giurato che il mio paese non
m'aveva fatto segretario d'ambasciata che
per servirlo, onorarlo e farlo rispettare
a questo modo.
Una sera pranzavo al Circolo quando
Sua Altezza mi feee chiamare al telefono.
Era il principe in persona: «Ha libera
la sua serata? — Liberissima, principe.
E anche se non fosse libera troverei sempre
il modo di liberarla per Vostra Altezza.
— Può aspettarmi allora ancora
qualche minuto al Circolo? — Ai suoi
ordini, Altezza. — Fra meno d'un quarto
d'ora vengo a prenderla con l'automobile».
E pochi minuti dopo l'automobile,
infatti, correva via verso un teatro dove
una celebre e bellissima attrice francese
in tournée dava la sua prima rappresentazione
recitando Il Re, la graziosa commedia
di Robert de Flers, de Caillavet
e Arène. «Ho sentito recitare Manon Manette
a Parigi, mi diceva il principe. È
bellissima. Son curioso di vedere che impressione
le fa». L'impressione, poco dopo,
al teatro, fu eccellente. Manon Manette
era quanto di più parigino, di più
capriccioso, di più affascinante si possa
imaginare. Naturalmente Manon Manette,
come si conviene ad ogni buona attrice
repubblicana, quand'ebbe saputo che dal
palco di proscenio a sinistra assisteva
alla rappresentazione Son Altesse Royale
il principe ereditario del regno di Fantasia,
non recitò più che per quell'unico
regale spettatore. Non lanciava le sue arguzie,
non prodigava i suoi sorrisi e le
sue grazie, non moltiplicava al momento
delle chiamate di fine di atto i suoi inchini,
che per quel palchetto di proscenio a
sinistra. Non ci sono infatti oramai che
le attrici repubblicane e i ministri socialisti
per essere oltremodo sensibili al fascino
delle monarchie, delle teste corollate
e dei principi ereditarii. Al secondo
alto la bellissima attrice apparve in scena
con un magnifico pendentif di brillanti
e smeraldi. E durante quell'atto l'attrice
sorrise al principe più che mai. Non capivo
perchè. Lo seppi dopo.
Nell'intermezzo tra il secondo e il terzo
alto il principe mi invitò a seguirlo
nel salottino che precedeva il suo palco.
Si mordeva le labbra, si stiracchiava i
baffetti impomatati come ogni volta che
aveva qualche cosa di molto difficile e
di molto delicato da dirmi. Avrei voluto
toglierlo sùbito d'imbarazzo dicendogli
che non era proprio il caso di fare tanti
complimenti e di avere tanti riguardi con
me e che una volta di più io ero perfettamente
disposto a lasciarmi affidare la più
strana missione di galoppino galante che
alla fiducia del principe fosse piaciuto di
rimettermi. Ma le mie nobili parole d'incoraggiamento
non furono affatto necessarie,
perchè, proprio al momento in cui
ero per pronunciarle, il principe si decise
a bruciare i suoi vascelli e a dirmi,
con quell'aria tranquilla e sicura con
cui mi diceva le cose più spaventevoli e più
straordinarie di questo mondo:
— Avrà certo già capito, amico mio,
che Manon Manette mi piace immensamente.
Le ho già manifestato la mia vecchia
ammirazione parigina in due modi:
mandandole quel pendentif di brillanti
ch'ella aveva al collo durante questo secondo
alto e facendola pregare di venire
domani al palazzo a vedere la mia collezione
di medaglie e a prendere una tazza
di tè.
— Ed è mai possibile che la bella attrice
non abbia sùbito accettato l'invito
con lo stesso slancio con cui ha evidentemente
accettato il pendentif? — interruppi
io. — Vostra Altezza desidera forse che io
rinnovi e che decida Manette ad accettarlo?
— No — rispose Sua Allezza,— l'invito
è bell'e accettato. Era già inteso infatti
che il pendentif, brillando al secondo
atto sul seno di Manon Manette,
avrebbe significato che il tè di domani
sarebbe stato ugualmente gradito.
Cominciavo a non capire veramente
questa volta che cosa mai Sua Altezza
volesse da me. Ma Sua Altezza non perdette
tempo ad illuminarmi su la singolare
missione che stava per essermi affidata.
— Le devo confessare, amico mio, un
mio segreto. Io ho assoluto bisogno di
una illusione: l'illusione di dover conquistare
una donna. Lei ricorderà una
delle nostre prime conversazioni di quell'epoca
in cui ci ritrovammo qui a Pulquerrima,
diversi anni dopo il nostro incontro
in Inghilterra, quando lei era segretario
all'ambasciata di Fantasia a
Londra ed io studiavo ancora ad Oxford.
Le dirsi il mio desiderio d'avere qualche
avventura e di conquistare alcune di
quelle belle signore cui lei mi aveva presentato
nelle nostre mattutine passeggiate
a cavallo nei viali del Parco delle Delizie.
E ricordo perfettamente d'aver detto
che Vostra Altezza non avrebbe avuto
molte difficoltà e che un suo desiderio
sarebbe stato certamente un ordine per
le nostre più irreprensibili dame.
— Ed è stato precisamente cosi,
purtroppo! — aggiunse il Principe. — Io
non ho avuto che da chiedere un dito
perchè mi dessero, come suol dirsi, tutta
la mano, non ho avuto che da accennare
al più vago e lontano tentative d'assedio
perchè tutte le piazzeforti si arrendessero
senza colpo ferire. Per riprendere l'imagine
ed il giuoco che le son cari, io
non ho avuto che da fare un passo su
la scacchiera perchè tutte le più salde
torri crollassero fra le mie braccia come
tanti castelli di carte. Ebbene, io sono
stufo, arcistufo di facili conquiste, di rese
senza combattimento, di vittorie senza
gloria, di delusioni senza illusioni, di offerte
senza domanda. Desidero finalmente
una donna che mi resista, desidero una
donna che mi faccia aspettare, desidero
una donna che abbia l'aria di non volerne
sapere di me, d'infischiarsene dei miei
titoli e della mia futura corona, di tutt'i
principi ereditarii come me e magari anche
di tutt'i re come mio padre. Voglio
anch'io, in nome di Dio, vincere alla fine
qualche dillicoltà, quelle piccole difficoltà
almeno del primo incontro, della prima
ora, che lei, per esempio, incontrerà certamente...
Così ho pensato a quell'attrice.
Mi sembra che faccia al caso mio. È
attrice: la commedia è il suo forte. È
francese: dev'essere maestra di civetteria.
È repubblicana: deve odiare a morte
regni e regnanti.
Caddi dalle nuvole. Possibile che il
principe, non ostante le mie lezioni di
scetticismo e di cinismo elegantissimi,
fosse ancora tanto ingenuo da pensare sul
serio, quando era stanco della soverchia
condiscendenza galante trovata tra le più
nobili e austere dame del suo mondo, da
pensare sul serio ad un'attrice, e a quale
attrice! per trovare quelle resistenze di
cui la sua sazietà di enfant gâté della
galanteria aveva tanto bisogno? Segnalai
la mia meraviglia al principe, ma la sua
risposta, poco dopo, mi provò che l'ingenuo
non era lui, ma che ero invece proprio io.
Vostra Altezza mi permetterà di osservare
che la sua scelta mi sembra francamente
errata. Manon è un'attrice le cui
molte avventure sono note al mondo intero.
È francese, e la donna francese,
parigina specialmente, è, dicono, cosi cortese
in amore che non fa mai fare anticamera;
e molto meno poi oserebbe far fare
anticamera a un figlio di re un'attrice
repubblicana. Vostra Altezza ricorderà
quel giorno che a bordo del suo
yacht il figlio dell'imperatore Goffredo,
il cui impero è minacciato da un forte
partito repubblicano, raccontava che suo
padre non aveva nessuna preoccupazione,
sicuro com'era che il giorno in cui il
suo impero sarebbe rovesciato ci sarebbe
stata sempre una repubblica pronta a
ridargli un trono con tutti gli onori, e
un presidente disposto a cedergli il posto.
— Verissimo, — rispose il principe. —
Francese quanto vuole, repubblicana come
vuole, ma attrice, non lo dimentichi.
Attrice vuol dire recitare, essere capace
di fare ogni parte in commedia. E qui
si tratta appunto di recitare una parte.
Capirà che non posso decentemente pregare
una signora di farmi la cortesia di
resistere: sarebbe farle offesa. Posso benissimo
invece chiedere questa cortesia
ad un'attrice. È una parte che conoscerà
a meraviglia perche già tanti autori gliel'hanno
fatta recitare nelle loro commedie.
Solamente bisognerebbe che Manon
sapesse che questa è la commedia che io
desidero domani dalla sua esperta civetteria
per una deliziosa, nuova, dolcissima
illusione di cui io ho tanto bisogno. E
bisognerebbe — ed ecco il favore che
volevo chiedere al suo spirito capace di
superare con grazia e con eleganza impareggiabili
tutte le più scabrose difficoltà
bisognerebbe che questo a Manon
Manette lo facesse sapere e lo spiegasse
proprio lei.
La missione era molto difficile e oltremodo
delicata, ma non tale da spaventarmi;
e, del resto non c'era modo di declinarla.
M'ero trovato, d'altra parte, in imbarazzi
assai peggiori, speciamente il
giorno in cui avevo dovuto persuadere
un marito ad allontanare da casa il suo
più stretto amico perchè il principe, che
era naturalmente l'amante della signora,
n'era non meno naturalmente geloso. Il
giorno dopo dunque bussai alla porta del
salottino che Manon Manette occupava
al Suprême Hotel; ripetendomi vertiginosamente
in mente, per la centesima volta,
il discorsetto meticoloso e preciso che
m'ero mandato a memoria. Ero sicuro
con quello del mio effetto, sicuro d'aver
trovato il modo più facile per dire una
cosa diflicile, o, da un altro punto di vista,
il modo più difficile per dire una cosa
facile. Ma, sia che al momento opportuno
io non ricordassi più perfettamente il
discorso, sia che nel discorso a me fosse
sembrato molto velato quello che invece
era sfacciatamente chiaro, questo solo so
di certo: che a un dato punto Manon Manette,
quand'ebbe ben capito dove il mio
discorso andava o almeno voleva andare
a finire, si levò bruscamente slacciandosi
con mano nervosa il pendentif che le
era stato donato dal principe con l'invito
a prendere il tè e che la sera prima
avevo ammirato a teatro. I segni più manifesti
della collera erano sul volto deliziosamente
maquillé di Manon Manette;
e credo infatti che, se la cipria e il carminio
gliel'avessero permesso, ella sarebbe
stata, come si conviene, o rossa in viso
per la vergogna o pallidissima per l'indignazione.
Rimase invece molto pallida
e molta rossa nel tempo stesso, ma collera
e indignazione non entravan per nulla
nella responsabilità teatrale di quel
vivacissimo contrasto di colori.
— Sua Altezza il principe di Fantasia,
— ella mi disse, — incaricandovi di tenermi
questo discorso, ignora evidentemente
chi io sono e che cosa sono. Egli
ha ancora dell'attrice in particolare e della
donna francese in generale l'opinione
bugiarda e tradizionale che se ne ha nelle
vecchie Corti europee, nelle famiglie bigotte
e timorate di Dio e nel pubblico dei
caffè-concerto. L'attrice è una donna senza
pudori e la donna francese è generosa
sino alla prodigalità. Ebbene, direte al
principe che io sono assolutamente degoulée
di osservare ch'egli m'ha scambiata
per una di quelle signore eleganti
che sono l'abituale appannaggio galante
del giovani principi di sangue reale, ereditarii
o no. L'attrice, lo sappia una volta
per tutte, non ha bisogno per resistere di
recitar la commedia come una donna onesta,
e la donna francese oramai la sola
che faccia ancora cerimonie. A differenza
del popolo ardimentoso ed impetuoso di
cui fa parte, essa non opera per rivoluzioni,
ma per lente, meditate ed illuminate
evoluzioni. Riportate dunque al principe
questo suo biglietto da visita di ieri
e ditegli che sono dolente di non poter
oggi, al suo palazzo restituirgli, com'era
inteso, il mio.
E, così dicendo, mi restituì il pendentif.
Invano spiegai, rettificai, corressi, supplicai.
Manon Manette fu irremovibile,
insensibile al fascino della mia eloquenza,
impermeabile alle lacrime della mia commozione.
— No, no, è inutile che insistiate, —
mi disse alla fine. — II principe deve
cominciare finalmente a saper distinguere
fra una signora per bene e un'attrice.
Quello ch'è possibile dire a una così detta
signora per bene suona offesa per me e
per quelle come me. Dovrebbe sapere che
noi abbiamo sempre resistito. Ed è per
questo che le signore per bene non ci
possono vedere. Noi costringiamo anche
loro a farsi pregare, ed è una cosa di cui
sono, poverine, assolutamente incapaci.
Non c'era più che fare e, inchinatomi,
m'allontanavo portandomi via il pendentif
del principe; ed ero già sulla porta,
quando Manon mi raggiunse, mi prose
per mano e mi trattenne:
— Ma se metto alla porta, — mi disse
col suo incantevole sorriso, — se metto
alla porta il latore della sconvenientissima
ambasceria di Sua Altezza, prego
il mio cortese amico, poichè tutti sanno
che ambasciatore non porta pena, di rimanere.
Ed è con voi che o sarò felicissima
di bere in casa mia la tazza di tè che
il principe m'aveva offerto a palazzo. Saprà
cosi proprio da voi che io bevo quando
ho sete e che a nessuno deve essere
lecito insegnarmi come io debba o non
debba bere. Non ho bisogno di suggeritore.
Vado benissimo a memoria.
Venne il tè e bevemmo. Fu un tè squisito,
offerto senza cerimonie, veramente
col cuore in mano, se posso esprimermi
così.
Quand'andai via, ringraziandola, confuso
per la sua inattesa ospitalità, Manon
Manette vide tra le mie mani il gioiello
del principe ch'ella mi aveva sdegnosamente
restituito. Con un incantevole sorriso
la graziosa attrice mi disse:
— Ed è dalle vostre mani, intendiamoci
bene, solo dalle vostre mani che riprendo
questo gioiello, considerandolo come un
dono prezioso della vostra personale amicizia
e come un attestato della vostra
improvvisa riconoscenza.
E, ripreso il pendentif, se lo riannodò
attorno al collo con un terzo incantevole
sorriso. Poi, ricordando il mio infelice
discorso di poco prima:
— Così Sua Altezza, — disse, — fra i
tanti alfieri compiacenti e le tante facili
pedine del suo giuoco di scacchi ha trovato
finalmente anche una torre. Ed è
finita come doveva finire...
— Cioè?...
— Con scacco al Re!
Giuoco di torri, d'alfieri e di pedine.
Tra molti difetti comuni con la maggior
parte dei miei simili io ho anche
alcune qualità abbastanza originali: sono,
per esempio, riconoscente. Così, ritornato
a casa dalla mia fortunata e sfortunata
ambasceria, una breve meditazione mi
persuase che, se Manon Manette mi aveva
deliziosamente sdebitato verso di lei
riprendendo dalle mie mani il prezioso
pendentif che aveva respinto dalle mani
del principe, mi rimaneva tuttavia un obbligo
verso Sua Altezza: quello di non
permettere che il pendentif in questione
fosse per me solo il modo di apprezzare
nella più graziosa intimità i fascini delle
attrici francesi e repubblicane. Non era
forse soverchiamente esagerato pretendere
che servisse almeno a iniziare in questi
galanti studii etnici di usi e costumi,
oltre che me, anche Sua Altezza. Non mi
feci vedere a palazzo quella sera, ma,
appena pranzato, ritornai al teatro dove
Manon Manette dava, furoreggiando, la
sua seconda rappresentazione. Gli scrittori
francesi che si preoccupano sempre
di fare le loro pieces adatte meticolosamente
ai bisogni e alle specialità delle
loro interpreti cercano anche, quando
possono, di dar loro durante la commedia
il riposo di un mezzo atto per permettere
a queste graziose dive di ricevere
senza troppa fretta nei loro camerini ammiratori
ed amici. Lo scrittore parigino di
cui quella sera Manon Manette esponeva
d'innanzi a tutto lo snobismo intellettuale
di Pulquerrima l'ultimo, arguto article de
Paris era stato addirittura cortesissimo
verso la sua interprete e per un atto intero
della sua commedia, il secondo, l'aveva
lasciata tranquillamente tra le quinte.
Ebbi così la fortuna di trovare Manon
Manette nel suo camerino, intenta a cercar
di capire in qual modo, nella lingua di
Fantasia, i giornali pulquerrimesi della
sera rendessero omaggio alla sua grazia e
al suo talento. Mi accolse come può accogliere
un uomo una donna che ieri non
lo conosceva, che oggi non ha avuto più
segreti per lui e che considera tutto questo
come la cosa più naturale e più indifferente
del mondo. Mi chiese sùbito,
però, in qual modo Sua Altezza aveva
appreso la notizia del suo primo fiasco
galante, capitatogli proprio dove e quando
meno se l'aspettava. E raccontai lungamente
una scena immaginaria, quasi
drammatica, certo assai commovente: il
principe desolato, furibondo all'idea che
ella avesse potuto prestargli l'intenzione
di offenderla, pazzo di desiderio e d'amore,
pronto a qualsiasi sacrificio, inviperito
contro di me cui affibbiava ogni
responsabilita affermando che solo il
poco tatto messo da me nelle mie parole
aveva potuto costituire per Manon Manette
un'offesa, Manon Manette si divertiva
un mondo mentre io le riassumevo
con un volto da funerale questo vario e
diverso elemento drammatico insinuatosi
a un tratto nella frivola commedia che
tutti e tre recitavamo dalla sera prima.
Ebbi un bel dire che io ero in una posizione
indiavolatamente difficile, che rischiavo
di perdere per una sciocchezza
e per un puntiglio l'amicizia e la fiducia
del principe e che alla fin dei conti io
ci facevo una pessima figura. Non riuscii
assolutamente a nulla. Capitarono anche
in camerino due giornalisti pulquerrimesi
che venivano a portage all'attrice francese
l'approvazione dell'alta critica dopo
l'omaggio del pubblico. Non stentai ad
osservare che Manon Manette è come
tutte le attrici e tutti gli attori del mondo:
la vista di uno scrittore di gazzette basta
a sconvolgerla tutta. E per lei, come per
le altre, tutt'e due erano la stessa cosa.
Uno dei due critici in parola era uno
dei maggiori commediografi e dei più illustri
scrittori della letteratura contemporanea
di Fantasia. L'altro era un povero
avvocatino, senza grammatica e senza
senso comune, capitato non si sa perchè
a scriver di critica, e che, dopo ogni
première, mendicava una opinione da un
amico e una frase fatta da un giornale
per scrivere certi articoletti che facevano
l'indomani l'inesauribile sorgente d'ilarità
di tutte le sale di redazione. Manon Manette
accolse entrambi con le stesse manifestazioni
di deferenza e d'ammirazione.
Per le attrici non importa il giornale, non
importa la mano che scrive, importa solo
l'aggettivo. S'inebriano dell'aggettivo anche
se l'han pagato di tasca loro. È un
tratto di carattere che hanno in comune
con i ministri.
Poichè non ho mai amato troppo le
conversazioni in tre o in quattro, appena
potei farlo decentemente lasciai i due
critici, quello sul serio e quello per ridere,
sotto l'inebriante fuoco di fila degli
occhi bistrati di Manon Manette. Ma la
graziosa donna, sempre presente a sè
stessa, non trascurò per amor dell'arte
l'arte dell' amore, e, raggiuntomi su la
porta del suo camerino, mi ordinò senza
discutere di venirla a prendere dopo la
recita: «Je ne peux pas lâcher mes deux
aristarques: mais nous souperons ensemble».
E, difatti, dopo finita Ia commedia,
tornando in palcoscenico, trovai Manon
Manette già pronta, chè non aveva fatto
che gettare un mantello su la toilette scollava
del terzo atto. Vidi in questo una notevole
differenza tra le attrici francesi
e quelle di Fantasia: queste appena finito
di recitare si tolgono le toilettes di
prezzo per non sciuparle: quelle cominciano
appunto allora a consumarle. Più
abile, l'attrice francese sa che sciupare
una toilette è il miglior modo per procurarsene
una nuova.
Non racconto qui, immodestamente, le
mie avventure. Mi sia quindi permesso
di sorvolare, abbassando un pudico velo,
su la cena con Manon Manette e su le tenere
manifestazioni che la seguirono. Ma
non posso tacere che la mia riconoscenza
verso Sua Altezza fu letteralmente raddoppiata,
tanto che vedendo il pendentif
che Manon Manette aveva ancora intorno
al collo sentii che non era possibile lasciarvelo
più oltre. Spiegai a Manon Manette
i miei sentimenti e i miei scrupoli
e tentai ancora una volta di muoverla a
pietà verso Sua Altezza. Presi allora il
mio coraggio a due mani, e non solo il
mio coraggio ma anche il pendentif, che
slacciai dal collo palpitante della graziosa
attrice. E, poichè Manon manifestava la sua meraviglia
nel vedermi riprendere ciò che ella poche ore prima si era
spontaneamente regalato, dovetti spiegarle
che quel pendentif non aveva per
una donna come lei altro valore che
quello d'un attestato di riconoscenza e
d'un affettuoso ricordo e che era perciò
assai strano, per non dir peggio, che io
manifestassi tutti questi nobili sentimenti
con un gioiello che non era mio. Anch'ella
doveva del resto trovare assai strano
d'aver al collo un attestato di riconoscenza
di Sua Altezza che non le doveva
nulla e un ricordo di Sua Altezza con cui
ella non aveva ancora scambiato una parola.
La rituazione era complicata e delicata;
ma assicurai Manon Manette che
avrei saputo risolverla l'indomani. Si trattava
semplicemente d'annodare intorno al
suo collo un gioiello che fosse veramente
un attestato della mia personale riconoscenza
e un ricordo del piacevole modo in
cui avevamo occupato le ore di una siesta
dopo colazione e d'una siesta dopo
cena. Superata così ogni difficoltà ero
sul punto di riporre nella tasca posteriore
della mia marsina il gioiello di Sua Altezza
quando l'imminente scomparsa del
pendentif ebbe un effetto immediato e
imprevedibile sul quale avevo avuto l'ingenuità
di non contare. E, riprendendo
con dolce violenza dalle mie mani il gioiello
di Sua Altezza, Manon Manette
dichiarò che avrebbe accettato assai volentieri
il ricordo che avevo avuto la cortesia
di offrirle, ma che era assai più corretto,
a suo parere, che il pendentif fosse
stato restituito a Sua Altezza, l'indomani,
da lei in persona. Così fu stabilito.
E l'indomani, a palazzo, quando ricevetti
Manon Manette e la introdussi nel salotto
privato di Sua Altezza, potei sùbito osservare
che Manon Manette aveva addosso
tutti e due i gioielli, quello di Sua Altezza
ed il mio. Ero adesso meno ingenuo
della sera prima, tanto è vero che
nella mattinata, mandandole al Suprême
Hôtel il promesso ricordo, avevo scelto
invece del pendentif un braccialetto. Era
perfettamente stupido e superfluo attestare
nello stesso modo la riconoscenza anticipata
di Sua Altezza e la mia riconoscenza
posticipata.
Appena fatte le presentazioni di Manon
Manette a Sua Altezza e di Sua Altezza a
Manon Manette mi ritrassi immediatamente,
col pudore riguardoso d'un cameriere
di albergo che ha accompagnato
nella stanza a loro destinata due giovani
sposi appena arrivati e impazienti di
mormorare alla loro volta il leggendario:
Enfin seuls! Ebbi appena il tempo di
ammirare, richiudendo la porta, il profondo
inchino con cui la bella atirice repubblicana
dimostrava a Sua Altezza che
per un'autentica repubblicana il figliuolo
di Sua Maestà il Re di Fantasia rappresenterà
sempre qualche cosa di più suggestivo
del figliuolo, mettiamo, del signor
Poincaré. Ed ebbi appena il tempo di
vedere dal volto e dagli occhi di Sua Altezza
che il privilegiato rampollo d'una
vecchia monarchia come quella di Fantasia
ha le idee cosi larghe da non temere
il berretto frigio, sopra tutto quando questo
gli appare sul capo della piu deliziosa
donnina che mai si possa immaginare. E
su questo, ahimè, avrebbe dovuto calare
il sipario. Ma fortunatamente il mio regale
amico, eroe di commedia modernissima,
aveva in comune coi più illustri
eroi delle tragedie classiche l'irresistibile
bisogno di un confidente. Non dovetti
quindi che aspettare l'ora del pranzo per
ricostruire attraverso il dire e il non dire
di Sua Altezza la scena cui non m'era
per decenza stato concesso d'assistere e
per ricostruirla così come adesso la consegno
alle pagine di questi annali veridici e modesti.
Sorvolo su le prime formalità che non
hanno alcun interesse. Compiute queste,
Sua Altezza, che aveva offerto a Manon
Manette l'esposizione dei suoi medaglieri
e una tazza di tè, riservò il tè per più
tardi e diede sùbito mano alle manovre
d'approccio per cui le pesanti custodie
che racchiudevano le preziose medaglie
offrivano una meravigliosa piattaforma.
Le custodie erano già pronto in bell'ordine
su una grande tavola e, aprendole
l'una dopo l'altra, Sua Altezza cominciò
sùbito un nutritissimo corso di numismatica.
Solo quando la sua testa poteva, senza
aver l'aria di nulla, avvicinarsi a quella
di Manon Manette inchinata e intenta ad
ammirare qualche medaglia di maggior
pregio, Sua Altezza osava arrischiare i
primi tentativi per passare ad altro discorso.
Ma questi tentativi non erano affatto
incoraggiati dall'attrice che, impassibile,
continuava ad esaminar le medaglie,
ad una ad una, quasi che non fosse
venuta che per questo. Sua Altezza, intimidita,
non osò quindi bruciare i suoi
vascelli che all'ultimo momento, quando
cioè aprì la custodia che racchiudeva i
più incliti esemplari, i famosi Pisanello
oramai cosi popolari fra le signore dell'alta
società pulquerrimese. Manon Manette
che, prima di rappresentarlo, aveva
letto Bourget, non sapeva bene chi fosse
quell'incisore, ma sapeva che era di quelli
da considerare, per far buona figura, coi
segni del maggiore rispetto. Terminate
quindi le più svariate esclamazioni del
suo vocabolario, prese in mano una medaglia
e cominciò a guardarla con quello
sguardo attento e indifferente delle persone
che sanno di dover ammirare un
oggetto che non desta in loro nessuna
ammirazione. E siccome non v'ha ammirazione
calorosa che non sia prolungala
Manon Manette tenne così a lungo
nella sua mano sinistra il Pisanello depostovi
da Sua Altezza che il principe
ebbe il tempo di vincere la sua timidezza
e di prendere la mano della bella attrice
per portarla alle sue labbra e baciarla.
Ma la bella attrice si ritrasse immediatamente,
con gli occhi bassi, il volto acceso,
e mormorando a guisa di protesta
un «Oh, Altesse!» che, secondo l'impressione
der mio regale amico, valeva un
Perù. Sua Altezza attribuiva evidentemente
tanto valore a quella dignitosa ritirata
solo perchè il Perù non era roba
sua, ma è certo che l'atteggiamento dell'attrice
indusse Sua Altezza a una prudente
riserva che si prolungò durante
altri dieci minuti occupati da una fittisima
conversazione su autori francesi
e commedie parigine. Un romanziere non
si farebbe sfuggire l'occasione di descrivere
in tutti i suoi particolari la lunga
scena durante la quale Sua Altezza cercò
le vie per ottenere quello che Manon Manette
sembrava non avere alcuna intenzione
d'accordare. Come i più prudenti
guerrieri, Sua Altezza temporeggiava. Io
mi sono imposto di non sviluppare tutto
quello che mi basta indicare e perciò
devo omettere il racconto di tutti questi
temporeggiamenti che fecero perdere a
Sua Altezza e a Manon Manette molto
tempo, tutt'il tempo necessario per far
giungere, inaspettata, la visita della duchessa
di Frondosa.
L'annunzio della visita era stato, a bassa
voce, comunicato a Sua Alteza, la
quale, immediatamente, trovandosi in una
situazione difficile, fece chiamare me per
sbrogliarla. Quando entrai nel salotto,
trovai il principe con gli occhi fuori della
testa e Manon Manette che ci guardava
un po' spaurita senza capire bene se si
trattava di un attentato anarchico preparato
contro Sua Altezza o se Sua Altezza
era stata improvvisamente colpita da
un furioso attacco di mal di denti....
Traendomi in disparte, il mio regale amico
mi mise sùbito al corrente di quanto
avveniva. Era proprio nato, poverino,
sotto una cattiva stella e il destino avverso
si divertiva a giuocare con lui: dopo
essersi fatta attendere per tanto tempo
invano, la duchessa di Frondosa, vinta
finalmente dal fuoco dell'inestinguibile
amore di lui, si decideva a venire e ad
arrendersi. Ma quando? Proprio quando
Sua Altezza si trovava su le braccia un'altra
donna che non poteva tenere nè poteva
mandar via, così, su due piedi, quando
appena una parte dei programma era
stata espletata. Con decisione fulminea
spiegai al principe ch'egli non poteva
fare altro che o rinunziare alla duchessa
di Frondosa o mettere Marion Manette di
là, con me, nella biblioteca, col pretesto
di un'udienza di somma importanza che
Sua Altezza doveva immediatamente concedere,
costretto a interrompere una così
piacevole conversazione, la quale sarebbe
stata, appena libero il principe, ripresa.
Fu attribuita a Sua Altezza Reale il Principe
Leopoldo, zio di Sua Altezza, e che
in quel momento tagliava certamente il
suo banco pomeridiano di baccarat in
un club parigino, la parte antipatica d'arrivare
nel momento più inopportuno che
si possa immaginare. Con molte scuse
Manon Manette fu affidata momentaneamente
alle mie cure, e l'eccellente figliuola
invitò Sua Altezza a discutere con calma
gli affari di Stato che reclamavano la
sua attenzione poichè ella non aveva
fretta ed avrebbe passato piacevolmente
il tempo con me che ero un suo vecchissimo
amico di ventiquattro ore. Inutile
dire che il principe era fuori di sè
dall'ansia e dalla gioia e che fremeva
nella impazienza di vederci uscire dalla
porta di destra per potere aprire sùbito
quella di sinistra accogliere finalmente
la tanto bramata preda che veniva a gettarglisi,
viva, fra le braccia.
Almeno cosi credeva. Gli avvenimenti
non tardarono a deluderlo. Non ascoltai
dietro la porta per tre ragioni: perchè
ascoltare alle porte non è nelle mie abitudini;
perchè questo è un sistema troppo
comodo di cui si abusa solo nelle commedie;
e particolarmente poi perchè le
porte massicce del gabinetto del principe
erano ovattate e non permettevano il
passaggio di nessun rumore. E c'era anche
questo: ero persuaso fermamente che
la virtù della duchessa non correva nessun
pericolo e che se ella, accogliendo,
per non aver l'aria d'aver paura, l'insistente
preghiera di Sua Altezza, s'era decisa
a venire ad ammirare i Pisanello,
doveva essere incrollabilmente risoluta a
non interessarsi assolutamente di altro.
La duchessa di Frondosa è come suo marito:
non cambia le sue idee. S'è affezionata
anche lei all'idea di essere una donna
per bene. Prima ancora che questa
mia persuasione mi fosse confermata, la
sera, dalle confidenze di Sua Altezza, ebbi
la prova che una volta di più non mi
ero ingannato quando, venti minuti dopo,
la mia conversazione con Manette
fu interrotta da una porta che s'apriva
e dalla voce nervosa di Sua Altezza che
invitava f'attrice a raggiungerlo. Decisamente,
anche se un giorno la virtù della
duchessa di Frondosa avesse dovuto arrendersi,
la difficile resa non sarebbe avvenuta
in venti minuti. Quando uno è
abituato a difendersi, si difende fino all'ultimo
anche quando sa di dover perdere.
Le buoni abitudini non sono, meno
delle cattive, difficili a sradicarsi.
La sera, l'ho detto, Sua Altezza mi raccontò
quanto era avvenuto. Tutte le speranze
erano di nuovo sfiorite. La visita
della duchessa di Frandosa non era stata
che una sfida, una spavalderia, e, per
dir tutto, una maledetta presa in giro.
E, quel che è peggio, la duchessa era stata
più che mai prodiga di civetterie.
Se fino a quel giorno il suo contegno
si era contentato d'aprire uno spiraglio
alla speranza, quel giorno l'indiavolata
civetteria della duchessa aveva addirittura
spalancato le finestre. E quando Sua
Altezza s'era creduta autorizzata ad affacciarsi,
le finestre gli erano state chiuse
violentemente sul muso. Ne aveva ancora
naso ed orgoglio ammaccati. E, su
mia richiesta, Sua Altezza narrò succintamente
anche la scena finale dopo l'uscita
brusca della duchessa Isabella e il brusco
richiamo di Manon Manette:
— Si figuri! Si figuri il mio stato! — mi
disse Sua Altezza. — Avevo tanto bisogno
di sfogarmi.... Dopo avermi permesso
tante speranze la duchessa m'aveva così
inaspettatamente lasciato a mani vuote
ch'era una vera fortuna trovar lì Manette
a portata di mano. Ma lei, caro
d'Aprè, le aveva fatto troppo bene la lezione.
Aveva ricominciato come nella prima
parte della sua visita a far la ritrosa,
a sfuggirmi, a farsi pregare.... Oh, ma,
le ho parlato chiaro, amico mio.... Non
era più quello momento da sospiri.....
«Cara mia, le ho detto, intendiamoci, ora
basta, non resistete più oltre. So che lo
fate per farmi piacere. Ma non insistete,
vi prego.»
— E Manette?
— Ha gridato Vive le Roi e ha mandato
per aria il berretto frigio. E, col
berretto frigio, tutto il resto.... È andata
avanti senza suggeritore. Se lei sapesse:
recita a meraviglia....
Lo sapevo.
Sua Maestà!
I romanzieri della vecchia scuola, giunti
al punto del loro racconto in cui non
avevano assolutamente più nulla da raccontare
se non saltando a piè pari lo
spazio di molti anni, voltavano pagina
e alla prima riga del nuovo capitolo
informavano invariabilmente il lettore:
«Erano passati vent'anni..» I romanzieri
della scuola moderna disdegnano questi
troppo facili mezzi da romanzo d'appendice
e ricorrono più volentieri a un trucco
tipografico che solo può convenire a
un romanzo letterario il quale voglia essere.
— chapeau bas! — un'opera d'arte.
Non avvertono il lettore che sono passati
vent'anni, ma avvertono il tipografo di
lasciar due pagine bianche e di scrivere:
«Seconda parte» su la prima di queste
due pagine bianche le quali contengono
così gli invisibili puntini sospensivi della
vita lunga e monotona che trascorre senza
offrir nulla da raccontare al romanziere.
Io m'astengo così dal ricorrere ai
mezzucci elementari dei vecchi romanzieri
come dal far uso di quelli assai più
raffinati dei nuovi. E siccome, del resto,
non ho da saltare vent'anni ma un aevi
spatium assai più breve, non faccio nessun
salto mortale narrativo e vado solamente
veloce per la via del più economico
riassunto. Così mi bastan cinque righe
per percorrere i cinque anni di vita
da Sua Altezza trascorsi ancora giocondamente
e galantemente a Pulquerrima prima
di diventare Sua Maestà Rolando II.
Fu una sera, durante un ballo a Corte:
nel bel mezzo della quadriglia d'onore,
che allora era ancora d'etichetta danzare,
Sua Altezza fu rispettosamente avvertita
che Sua Maestà stava per rendere l'ultimo
respiro, rendendo insieme a Dio un'anima
di cui, a dire il vero, s'era, forse
per non abusare dei doni divini, assai
discretamente servita. Sua Altezza danzava
la quadriglia avendo al suo braccio
la duchessa di Frondosa che continuava
da sei anni ad accendergli la fantasia e
tutt'il resto come il primo giorno e che
continuava, da parte sua, imperterrita,
a passare a traverso il fuoco senza bruciarsi.
Il maestro delle cerimonie era
stato chiamato al telefono — filo diretto —
da Effemeris e, poco dopo, rientrando
con volto di circostanza, mi avvertì a
bassa voce che una grande ora stava per
suonare su l'orologio della monarchia e
per la vita del nostro paese: telefonavano
infatti dalla Corte di Effemeris che Sua
Maestà s'era congedata o stava per congedarsi
definitivamente dai suoi venti milioni
di sudditi. Era stato raccomandato
al maestro delle cerimonie di far partire
Sua Altezza con l'ultimo treno notturno
e di preparare intanto il principe, con le
cure e le cautele che dovevano essere il
natural segreto d'un maestro delle cerimonie,
adatto evidentemente ad ogni genere
di cerimonie, anche funebri, alla
grande responsabilità che lo avrebbe atteso
l'indomani sul primo gradino del
trono e all'aureo peso della corona che
avrebbe raccolta l'indomani, se non calda
ancora almeno tiepida, dalle mani di
Sua Maestà il defunto padre suo. Consigliai
al maestro delle cerimonie d'attendere
che la quadriglia fosse finita e mai
quadriglia ci sembrò più lunga. Guardavo
Sua Altezza e vedevo che si divertiva un
mondo. Pensavo al volto contrito che
avrebbe sostituito tra cinque minuti quel
bel vino chiaro e sorridente da giovanottone
di venticinque anni. Pensavo ch'eran
quelli i suoi ultimi cinque minuti di spensieratezza
e di giovinezza. L'eliotropio roseo
che gli adornava ancora la fronte giovanile
sarebbe appassito domani, stretto
nel cerchio pesante di una corona regale.
Povero ragazzo, le ore belle finivano oramai
anche per lui! Cherubino è parte di
paggio, non è parte di re.
Quand'ebbe ricamata con grazia la sua
ultima riverenza alla duchessa di Frondosa,
sfiorandole la mano con l'ultimo
bacio e tentando ancora bruciarne le
incombustibili polveri con l'ultimo
sguardo incendiario, Sua Altezza s'avviò in
compagnia del suo aiutante di campo verso
la sala ove il maestro delle cerimonie
ed io lo attendevamo, compunti certo e
quasi quasi anche commossi. Sua Altezza
fu pregata di ritirarsi un momento nel
suo appartamento privato. E poichè il
maestro delle cerimonie faceva molte cerimonie
anche per parlare, specialmente
quando la commozione gli toglieva di bocca
almeno una mezza dozzina di consonanti,
toccò a me anche questa situazione
scabrosa, come voleva del resto il mio irreparabile
destino. Dovetti così, prima
preparandolo con arte al colpo, poi vibrando
questo risolutamente, avvertire
Sua Altezza che il suo augusto genitore
s'era sentito improvvisamente male dopo
pranzo e che, non accennando la salute
del Sovrano a migliorare, Sua Altezza era
pregata di partire immediatamente per
Effemeris. Non ostante le nostre proteste
Sua Altezza capì benissimo che l'Augusto
genitore era già bell'e morto, ma sopportò
il colpo con spirito veramente virile: senza
lacrime e senza vane parole, ma con
un volto contratto dal quale era facile
indovinare che su venti milioni d'abitanti
di Fantasia il solo che avrebbe veramente
rimpianto il re morto o morente sarebbe
stato Sua Altezza. Non certamente come
suddito, il che sarebbe stato del tutto
inesplicabile, ma come figlio, il che era,
e inutile dirlo, più che naturale.
In cinque minuti, senza dire una parola,
Sua Altezza ebbe mutato la sua irreprensibile
marsina di taglio inglese con
la sua piccola tenuta militare. Pregato
anch'io di accompagnarlo, dovetti mutare
il mio abito da sera con un soprabito
nero del principe.
L'automobile era già pronta nella gran
torte del palazzo mentre il maestro delle
annunziando il lutto che colpiva
Sua Altezza, la famiglia reale e tutto
il regno di Fantasia, interrompeva nelle
sale magnifiche il ballo proprio nel bel
mezzo del valzer della Vedova allegra.
Accompagnato dal suo aiutante di campo
e da me, Sua Altezza scene lo scalone
reale fra la folla degli invitati che, commentando,
abbandonava la festa. Le dame
chiuse nelle chiare sorties de bal, i gentiluomini
impellicciati si ritrassero ai due
lati dello scalone inchinandosi e scoprendosi.
Sua Altezza passò senza battere
ciglio, con la mano al berretto, senza vedere
nessuno. Non degnò d'uno sguardo
neppure la duchessa di Frondosa. Salimmo
in automobile tra un gran sfolgorio
di luci, un gran frusciare di sete, un
vivo odore di fiori. E l'automobile, veloce
e leggera, filò via immediatamente,
nella notte, prima attraverso due interminabili
file di automobili e di carrozze
che attendevano e poi attraverso la città
addormentata cui Sua Altezza non doveva
ritornare che molto più tardi, in
viaggio ufficiale, dietro la nera siepe di
alti colbacchi della Guardia Reale.
Per le persone che hanno un esagerato
concetto di loro stesse c'è un metodo
infallibile per superare il dolore: quello
di sapere che questo dolore è guardato,
che l'ora dolorosa ha una platea. Era
evidente in ogni gesto e in ogni atteggiamento
di Sua Altezza durante il breve
tragitto da Pulquerrima ad Effemeris che,
più di un figliuolo che accorre a seguire
il funerale di suo padre, egli sentiva di
essere un re di più che entrava nella
storia. Ogni giro di ruote sui lucidi infiniti
binarii avvicinava non il principe
Rolando a suo padre ma Rolando II al
suo trono. La commozione figliale era
quindi superata da un altro sentimento
più forte e più necessario: il sentimento
della dignità regale, il raccoglimento con
cui occorre sentir battere all'orologio del
mondo i minuti primi che, quando sono
sessanta, hanno formate senza saperlo,
col loro passettino solito e indifferente,
una delle grandi ore della Storia.
Una delle grandi ore della Storia! La
frase ricorre sovente nei più bei periodi
dei giornalisti. Ed è singolare osservare
che le grandi ore della storia sono, per
coloro che le vivono, proprio quelle in
cui sembra che non avvenga mai nulla.
Evidentemente la storia si elabora in silenzio
o, se dice le sue grandi parole, le
dice in una lingua misteriosa che gli storici
potranno interpretare più tardi ma
che sono e restano indecifrabili pei contemporanei.
Mentre scrivo queste righe
sento su la mia fronte il peso delle mie
trentasette primavere: si dice così, come
se nella vita degli uomini contasse solo,
come fardello, la più leggiadra delle quattro
stagioni. Da che ho uso di ragione
di grandi ore della storia ne ho sentite
suonare più d'una, ma non di una sola
potrei dire oggi quale fu la grandezza.
Perchè una grande ora della storia consenta
a rivelare che cosa aveva nel grembo
dei suoi sessanta minuti occorre che
quella ora sia guardata almeno a mezzo
secolo di distanza. L'età ragionevole dell'uomo
essendo posta dall'opinione comune
a un'epoca che coincide con quella
alla quale un onesto padre permette per
la prima volta al suo figliuolo d'uscir
solo di sera e con la chiave di casa, ed
essendo raro che un uomo possa aspettare,
indisturbato dal destino, sino a settant'anni
l'ora di capire anche lui cosa
fossero e contenessero le grandi ore della
storia, a senza altro evidente che l'uomo
non può farsi un'idea esatta che delle
grandi ore vissute dai suoi predecessori.
Le grandi ore della storia che ha vissuto
lui apparterranno ai suoi lontani nipoti.
Essi soli avranno il segreto che apre quei
lucchetti indecifrabili. La storia ha due
tempi: un primo tempo che è quello
delle generazioni che la vivono ed un
secondo che è quello delle generazioni
cui è concesso d'interpretarla.
Io non potei che vivere quella grande
ora della storia di Fantasia di cui parlavano
a lettere di scatola i giornali di
Effemeris. La vissi, come sempre, ai talloni
di Sua Altezza la quale, poichè le
abitudini comode sono le più difficili a
sradicarsi, mi conservava la sua benevolenza,
anche ora che era diventata Sua
Maestà. È segreto della gente seria quello
di vivere le grandi ore inesplicabili con
una gravità e una dignità compatibili solamente
con grandi ore che sarebbe possibile
spiegare. E Rolando II, nel breve
tragitto ferroviario da Pulquerrima a Effemeris,
aveva fatto trar fuori dai suoi
bauli non solamente una fascia di crespo
con cui mettere il segno del lutto su la
sua bella tunica verde, ma anche una
serietà che dava, se mai avesse potuto
durare, le migliori speranze per l'avvenire
del regno di Fantasia. Giunto ad
Effemeris, aveva ricevuto con regale compunzione
le condoglianze dei ministri e
degli alti dignitari della Corte e dello
Stato. Uscito dalla stazione per salire in
automobile aveva ricevuto con un mesto
sorriso di re benevolo e di figlio addolorato
i plausi del popolo di Fantasia che
— morto il Re, viva il Re!— dopo avere
bagnato montagne di fazzoletti con fiumi
di lacrime per la morte del vecchio Sovrano,
ora, all'arrivo del Sovrano nuovo,
li rasciugava agitandoli in segno di giubilo
al sole della più bella giornata di
primavera che mai re possa desiderare
per ascendere in letizia il suo trono. E
l'indomani, ai funerali del re defunto il
giovane re, passando diritto e fiero dietro
l'affusto di cannone dove suo padre, così
poco militare in vita, dormiva in morte
il suo primo ed ultimo sonno guerriero,
Rolando II rapiva i cuori di tutta la popolazione
femminile della capitale. La
sua figura era popolare poichè il re defunto
soleva far pubblicare sui giornali,
almeno una volta alla settimana, con la
periodicità fissa d'una inserzione a pagamento,
i ritratti del suo augusto figliuolo:
chè, abile amministratore della
sua casa regnante, amava mettere in mostra
quel bel giovanotto che anche i nemici
più acerrimi del suo regno dovevano
riconoscere per l'unica cosa ben fatta
della sua lunga storia regale: storia
quanto mai felice e però, se oso esprimermi
così, storia senza storia.
Quando, compiuto il funerale, Rolando II
risalì in automobile con le gambe
spezzate per aver percorso mezza Effemeris
a piedi e con gli occhi stanchi per
aver fatto quel lungo sforzo di non battere
ciglio cui son condannati gli occhi
umani quando hanno l'onore d'essere occhi
di re, Pulquerrima tornò nel cuore
del Sovrano che Effemeris acclamava in
una limousine ermeticamente chiusa
dove non si vedeva sagoma umana se non
quella dello chauffeur.
A venticinque anni la dolce giovinezza
alterna senza difficoltà i più frivoli piaceri
della tavola e i più gravi problemi
dello spirito. Talchè, acceso in volto dai
vapori d'una gioconda digestione, Sua
Maestà, ritrovandomi dopo colazione nello
studio paterno dove un suo ritratto ad
olio era già stato sostituito a quello non
meno oleoso ed oleografico del defunto
genitore, tornò con me alle leggere conversazioni
di Pulquerrima e vi tornò nel
modo più impreveduto: sfogliando i telegrammi
di condoglianza che i segretari
avevan deposti, debitamente annotati, su
la scrivania regale. Li leggeva ad
uno ad uno, Sua Maestà, con pacata melanconia.
Ogni volta che ne sollevava uno dal pacchetto
di sinistra per passarlo, dopo letto,
al pacchetto di destra, diceva a me i nomi
dei mittenti: erano colleghi amabili e cortesi,
imperatori e re d'altre nazioni, principi
ereditari e principi cadetti, colleghi
di domani o di dopodimani, ministri e
ambasciatori, generali e ammiragli, senatori
e deputati. Vidi ad un tratto disegnarsi
sul suo volto uno dei suoi più
chiari sorrisi e udii la sua voce dire allegramente:
«Anche lei.... Isabella....Molto
gentile...». E mi passò il telegramma di
condoglianza della duchessa di Frondosa,
telegramma che era firmato anche
dal duca; ma il duca aveva il torto d'esser
marito ed è noto da che mondo è
mondo che i mariti non contan mai nulla
per gli amanti nè in fondo ai telegrammi
nè in fondo ad ogni altra cosa. E quand'ebbi
restituito il telegramma che Sua
Maestà piegò e infilò nella tunica, in fondo
alla tasca interna, proprio lì, sul cuore,
la voce di Sua Maestà sospirò dolcemente:
«Isabella!» Poi, dopo una pausa,
aggiunse: «Era, l'altra sera, molto più
gentile dell'usato. Il ghiaccio del suo cuore
cominciava a fondersi. Cominciavo a
sperar seriamente di poter giungere a
cogliere il frutto di ciò che avevo seminato».
Non è mia colpa se lo stile conversativo
di Sua Maestà non sapeva trovare imagini
più personali di queste. Il volto del
giovane re s'era di nuovo oscurato e
la sua voce aggiungeva: «Ero, ne son
certo, alla vigilia della resa». A queste
parole seguì un lungo sospiro. Al lungo
sospiro seguì un lungo silenzio. Al lungo
silenzio seguì un nuovo lungo sospiro.
Al nuovo lungo sospiro seguì un nuovo
lungo silenzio. E poichè sospiri e silenzi
diventavano sempre più lunghi e
non era evidentemenle possibile andare
così, a un ultimo lungo sospiro
e a un ultimo lungo silenzio seguirono
finalmente queste memorabili parole:
— Ma sul più bello.... Ah, mio padre
non è morto a tempo!...
E mentre a questo elogio funebre seguivano
ancora un sospiro e un silenzio,
io pensai a quel povero re gaffeur
che anche morendo aveva dovuto dare
ancora noia a qualcuno. E mentre per
scuotere l'impressione di ciò che quelle
parole avevan di troppo personale mi
dicevo che non era colpa mia se al re
defunto non toccava che quell'elogio, dovevo
anche riconoscere che quell'elogio
era meritato e che un re il quale abbia
un figliuolo impegnato in una galante
avventura può, valendosi dei privilegiati
rapporti col divino benefattore che l'ha
fatto re per grazia celeste, ottenere, quando
l'ora di morire sia giunta, almeno una
proroga di cinque o sei giorni.
Che per cinque o sei giorni non avuti
a disposizione al momento buono c'è sempre
il rischio di dovere poi aspettare
una nuova occasione per cinque o sei
mesi. Accadde così a Sua Maestà, la
quale, pur tra le nuove gioie e i nuovi
affanni del regno, non dimenticava la
bella torre rimasta laggiù, su lo scacchiere
di Pulquerrima, proprio alla vigilia
di crollare finalmente anche lei. Ne parlava
ogni giorno, quasi ogni ora. Per
una via o per l'altra giungeva sempre
a insinuare nella conversazione il nome
della duchessa di Frondosa; e, quand'era
coi ministri e della duchessa non c'era
assolutamente modo di parlare, parlava
del duca, chiedeva che uomo fosse, che
valore avesse diplomaticamente, quale
fosse attualmente la sua posizione politica.
Anche a parlar del duca si sentiva
in cuore un po' di duchessa. E il vantaggio,
questo, dei mariti: che non solo vedono
amata la loro metà ma si sentono
amati anche loro, almeno per metà.
Il teatro cinematografico ha un gesto
quanto mai espressivo e quanto mai falso:
e il gesto che fa un attore, movendo
la mano, portandola alla fronte, raggruppando
su questa perpendicolarmente le
dita, quando vuole far comprendere al
pubblico che gli è venuta improvvisamente
un'idea. Il gesto è falso perchè le
idee non vengono generalmente così, e
perchè le idee prima di trovarle nella
nostra testa noi le troviamo nella testa
degli altri. Nulla nasce da nulla e però
un'idea non sorge in un cervello d'improvviso
e spontaneamente. Poichè tutto
è derivazione, generazione, concatenazione,
completamento e perfezionamento,
mise au point come dicono i francesi, una
idea nostra nasce da un'idea d'un altro,
un pensiero che ci è manifestato ce ne
suggerisce un altro che noi manifestiamo
a nostra volta. Solo Adamo avrebbe avuto
il diritto di fare il gesto caro agli attori
cinematografici. Ebbe egli solo la prima
idea da cui poi venne tutt'il resto. E
in fondo anche Adamo, come generatore
spontaneo d'idee, è sospettabile e discutibile
dal momento che per dargli l'idea
di che cosa poteva fare di Eva fu necessario
l'intervento del serpente. Il serpente
che suggerì a Sua Maestà, alcuni mesi
dopo la sua ascesa ai trono, che cosa potesse
fare della duchessa Isabella di Frondosa,
aveva nome don Pedro de Aldana
ed era presidente del Consiglio, press'a
poco inamovibile, del dolce regno di Fantasia.
Ebbi la fortuna d'assistere anche a
quest'altra grande ora della storia d'una
dinastia. Conseguentemente a quanto ho
detto più sopra, era impossibile che un'idea
sbocciasse nel cervello di don Pedro
senza che un'altra idea nel cervello o
su le labbra di un altro le offrisse il modo
di venire al mondo. L'idea forcipe apparve
su le labbra di Sua Maestà, in un grigio
giorno d'inverno, nella solitudine del suo
studio ov'egli non aveva mai nulla da
studiare: era un'idea semplice, senza parole,
molto aperta, un po' rumorosa: uno
sbadiglio, uno sbadiglio che voleva dire:
«Mi annoio!» E allora, nel desiderio d'alleviare
la noia di Sua Maestà, don Pedro
de Aldana trovò a sua volta la sua idea
che manifestò con un garbato sorriso e
con cinque semplici e timide parole: «Vostra
Maestà dovrebbe prender moglie.»
Se le idee sono concatenate, non e detto
che questa concatenazione debba sempre
essere immediata. Tra un'idea madre e
un'idea figlia può correre uno spazio di
tempo anche piu grande dei nove mesi
necessarii alla funzione generativa. Così
può accadere che l'idea madre sia madre
senza saperlo, il che accade anche, nei
primi tempi, in natura. I primi travagli
della gestazione solo infatti misteriosi e
impenetrabili, e i contraccolpi ch'essi dànno
sono generalmente addebitati alle cause
più innocentemente estranee a quelli
effetti. Così Sua Maestà, quando si diede
attivamente a cercar moglie per le
più antiche Corti d'Europa, attribuiva
quella sua improvvisa vocazione di marito
al peso della sua solitudine di scapolo
e alla necessità imperiosa della ragione
di Stato. Credeva di dare retta alle
esortazioni di don Pedro nel senso della
necessità di mettersi a posto definitivamente,
di dare al popolo di Fantasia il
prestigio d'una nuova regina, di consolidare
la posizione politica del suo regno
in Europa imparentando due dinastie per
creare fra due popoli quella cordialità di
sentimenti che dura quanto durano i
rapporti di famiglia: fin quando, cioè,
l'interesse preciso dell'individuo non
soverchia quello astratto del gruppo d'individui.
Credeva insomma di cercare moglie,
viaggiando l'Europa e raccogliendo
in tutte le lingue, in tutte le capitali, i
più eloquenti segni di simpatia universale
per il suo vecchio regno e la sua annosa
dinastia. In realtà, cercando sua moglie,
cercava ancora la duchessa di Frondosa.
Invano aveva tentato di dimenticarla,
ignorando che se è lecito e possibile dimenticare
il passato non si può dimenticare
l'avvenire, il quale cammina sempre
davanti a noi e non possiamo levargli
gli occhi di dosso se non a patto di volgergli
le spalle e di tornarcene indietro.
Ma, poichè Sua Maestà. Rolando II cominciava
appena il viaggio d'andata, non
era assolutamente il caso di parlare di
ritorno. Anzi il suo ardente entusiasmo,
il suo amore della vita, gli facevano assolutamente
escludere la possibilità d'un
qualsiasi viaggio di ritorno. Sarebbe ritornato
senza saperlo, come ritornano gli
uomini che s'illudono di poter andare
sempre avanti: con uno, cioè, di quei
viaggi circolari che dopo aver girato mezzo
mondo e mezza vita vi riportano infallibilmente
al punto di partenza.
Aveva riveduto la duchessa Isabella
quanto più sovente gli era stato possibile.
Se ricusava di andare ad inaugurare magari
un'esposizione mondiale in una qualunque
delle più insigni grandi città di
Fantasia, non si lasciava mai sfuggire
l'occasione d'inaugurare sia pure un asilo
infantile nella dolce città di Pulquerrima
dove la duchessa continuava, più virtuosamente
che mai, a dimorare. Trovava
così, almeno un paio di volte al mese,
qualche cosa da inaugurare a Pulquerrima.
E, quando i bilanci municipali della
città non bastavano al collocamento di
tante «prime pietre», quelle «prime pietre»
erano fornite sottomano dalla cassetta
privata di Sua Maestà. Poichè non
è l'uso che i sovrani assistano anche al
collocamento della seconda, della terza o
della quarta pietra, posta la prima quelle
altre pietre non venivano mai. Talchè
Pulquerrima fu in capo a due anni di
segno lastricata di «prime pietre», così
come quelli che ci sono stati affermano
che l'inferno sia lastricato di buone intenzioni.
Ma per quante «prime pietre» collocasse,
Sua Maestà non riusciva mai, ad
ogni viaggio a Pulquerrima, che a collocare
e a ricollocare nulla più che la
«prima pietra» anche della sua felicità
sentimentale. Riportava sempre indietro
nella valigia tulle le altre pietre che la
duchessa Isabella, fra un tè e un pranzo,
rifiutava col suo più bel sorriso di donna
fermamente decisa a non farsi costruire
una nuova casa per far mutare
di residenza alla sua onesta felicità. Partiva
cosi, Sua Maestà, ogni quindici giorni,
pieno di speranze, e ritornava sempre
di pessimo umore. A tal segno che c'era
da temere ogni volta, al suo ritorno, una
crisi di gabinetto; e i ministri, non appena
Sua Maesta metteva piede nel treno
reale per Pulquerrima, s'affrettavano, per
paura di non fare più a tempo, a distribuire
tutte le onorificenze che coi loro
nastri multicolori dovevano saldamente
legare il loro avvenire politico al carro
leggero della gratitudine nazionale.
Dopo un anno di viaggi a Pulquerrima
e all'estero, don Pedro de Aldana, senza
averla mai veduta, fissò finalmente la
sua scelta per la sposa del Re. Se l'idea
figlia non era ancora venuta al mondo,
già Rolando II sentiva nel sub-cosciente
— si parla così in alto stile scientifico
— che non valeva la pena di preferir
come moglie questa o quella, visto che
cercare moglie per sè voleva dire cercare
il modo di raggiungere finalmente la moglie
d'un altro. Aveva osservato, viaggiando,
a titolo di pura curiosità, che le spose
veramente affascinanti erano nelle Corti
e negli Stati più modesti: e, se convenivano
ai suoi gusti estetici, non potevano
convenire ai gusti politici del suo primo
ministro. Talchè, persuaso dell'inconciliabilità
di questi gusti, lasciò che don
Pedro de Aldana gli desse moglie a piacer
suo, e dopo avere percorso l'Europa
disse a don Pedro le grandi parole remissive
con cui un uomo incerto fra due
qualità di cioccolatine lascia al commesso
del negozio la facoltà di decidere:
«Faccia lei!»
Cadde così la scelta di don Pedro su
la principessa Alice di Cardun, figlia del
Re di Asturia. Asturia e Fantasia essendo
state poste dal capriccio della geografia
politica porta a porta; conveniva oltremodo
alla politica di Fantasia e di
Asturia porre su l'armata frontiera un
ramoscello di fiori d'arancio. Se non era
bella la sposa, era bellissima la combinazione
diplomatica e, poichè un re non
ha il diritto di portare nel talamo coniugale
la grazia d'una sposa ma ha dovere
di portarvi la tranquilla garanzia
d'un trattato di alleanza, conveniva a Rolando
II di tacere, per la ragione di Stato,
lo stato di qualsiasi sua altra ragione. Se è
vero che si dà prova di maggiore generosità
e di più larga benevolenza regalando
la roba propria che non regalando quella,
degli altri, la benignità celeste s'era dimostrata
incomparabilmente generosa, accordando
alla futura regina di Fantasia
ogni sorta di beni, forse celesti, ma non
certamente terreni. Sua Maesta aveva, nel
cassetto della sua scrivania, il ritratto
della regale fidanzata. Lo guardava di
tanto in tanto, per abituarsi, e lo guardava
sempre quando c'ero io, forse perchè
io potessi al caso fargli coraggio. Vedevo
allora sul suo volto disegnarsi, con
un'ombra nera, un dubbio: il dubbio che
la ragion di Stato esigesse troppo da lui,
e che con la sola ragion di Stato non fosse
possibile fare ciò che assicura attraverso
i secoli, di rampollo in rampollo, la
durata delle dinastie..Lo incoraggiavo affermandogli
che bisogna far fronte al
proprio destino, quando si e re, ad occhi
chiusi. E lo sentii rispondere un giorno,
con un sospiro ch'era di sollievo:
« Ad occhi chiusi. È tutt'un programma
coniugale questo, mio caro d'Aprè!»
E finalmente un giorno, quando mancavano
tre mesi alle nozze regali, Sua
Maestà, guardata ancora una volta, con
la solita ombra nera sul viso, la fotografia
della sposa promessa, bella d'una bellezza
forse invisibile a noi perchè non di
questo mondo, Sua Maesta sentì nascere
d'improvviso l'idea figlia. Poichè le sue
labbra non erano abituate a serbare i
segreti del suo cervello, l'idea figlia era
appena nata nel mistero della scatola cranica
che già si manifestava con queste
parole:
— Ma, ora che ci penso, bisognerà pensare
alla Corte della Regina. Bisognerà
nominar le sue dame d'onore. E, prima
di tutte, naturalmente, Isabella.
Poichè è fatica insopportabile anche
quella di essere sinceri con noi stessi,
Sua Maestà aggiunse sùbito:
— La Regina non potrebbe trovare migliore
amica.
Poi si riprese e, levatosi dal tavolino,
venutomi davanti, mi disse:
— Senta: quando Isabella sarà qui....
Si resiste ad un principe, ma non ad
un Re....
E poichè un po' della storia — reparto
storia galante — somministratagli dal
povero vecchio capitano dei dragoni gli
era rimasta ancora nella memoria, sorrise
e, gettando via leggermente assieme
al fiammifero con cui aveva acceso
la sigaretta anche tutte le piccole possibili
differenze fra lui e Luigi decimo-quinto,
esclamò:
— La mia Pompadour!
La " scena-madre „
Ora che trascrivo scrupolosamente le
memorie dei principali fatti della vita del
mio regale amico ad uso e consumo dei
futuri inevitabili ricercatori di documenti
sul suo regno e su la società che lo costituiva,
devo confessare sinceramente che
anche a me una testa coronata, finchè
non ne ebbi conosciuta una e molto da
vicino, faceva l'effetto d'essere qualche
cosa di speciale, qualche cosa di molto
diverso dalle nostre povere teste vuote
o piene di oscuri mortali, non consacrati
re o imperatori da una fortunata toccatina
di diritto divino. Ho potuto poi convincermi,
invece, che quelle teste possono
qualche volta essere più piene delle
nostre, qualche volta più vuote, quasi
sempre son più dure, ma sono in fondo
perfettamente analoghe a quelle che modestamente
ci appartengono. Da quando
poi la democrazia ha fatto sì che la nuova
politesse des rois sia quella d'imborghesirsi
sempre più, noi non vediamo
altro oramai che re in giacchetta i quali
firmano sbadigliando i decreti preparati
da un ministro in redingote. Ricordo perfettamente
che un giorno Sua Maestà —
poichè io gli manifestavo il mio rammarico
profondo nel vedergli conservare la
sua fiducia e la sua simpatia verso un
presidente del Consiglio che un anno prima
gli aveva mandato cento deputati socialisti
al Congresso e che dopo gli aveva,
tra un infuriare di liberi scioperi e
di più liberi comizi, appioppato nel nuovo
Ministero anche tre ministri socialisti
di quelli che non fanno tanto gli schizzinosi
per indossare quella redingote che,
a badarci bene, è poi in fondo una livrea
come la blusa — ricordo che un
giorno Sua Maestà, dicevo, mi rispose
col suo più impertinente sorriso: «Che
vuole, amico mio? So benissimo che
don Pedro de Aldana, se campa ancora
abbastanza, finirà col dovermi una bella
sera accompagnare alla frontiera. Ma a
me poco importa. I miei capitali sono
fuori di Fantasia, a Londra, a Roma, a
Parigi. Con un po' di denaro, un po' di
salute e un po' di buonumore si vive bene
da per tutto, re o non re. Senza don Pedro
dovrei lottare, aver partiti, essere
con questo o con quello, vivere giorno
per giorno una battagiia politica. Don
Pedro invece addormenta tutto. Suggerisce
dei sogni e poi fa sognare: è un
ministro oppiaceo. E intanto dorme anche
lui con le mani sul ventre e dormo
anch'io pacificamente le notti di questi
ultimi anni di regno, che, con o senza
don Pedro, sarebbero sempre gli ultimi.
Chè, oramai, caro d'Aprè, a uno a uno,
piu presto o più tardi; siamo destinati
a scomparire tutti quanti...»
Poiche bisogna ricordare che non v'ha
nulla di più repubblicano o almeno nulla
di più anti-monarchico d'un re del secolo
ventesimo. S'aggiunga che il re nell'intimità
del quale ho avuto la fortuna e
l'onore di vivere alcuni anni era quanto
di piu apolitico si possa imaginare. Spingeva
il suo disinteressamento per la politica
fino a non leggere neppure, un
quarto d'ora prima di recarsi al Congresso
dei deputati a pronunziarlo, il discorso
della Corona che i suoi ministri gli
redigevano periodo per periodo all'apertura
d'ogni nuova legislatura. Il discorso
ch'egli leggeva ai senatori e ai deputati
era cosi completamente nuovo anche per
lui; e infatti, a mano a mano che leggeva,
non riusciva molte volte a nascondere
certi piccoli movimenti nervosi di
compiacimento o di dispetto a seconda
che le cose che i suoi ministri gli facevano
dire e promettere gli piacevano
o gli dispiacevano. La sua indifferenza
giungeva a tal segno che una volta egli
arrivò al Congresso coi foglietti del discorso
della Corona nella tasca della sua
marsina, ma senza neppure sospettare
che, distrattamente, aveva preso quelli del
discorso pronunziato sei mesi prima all'apertura
di un'altra nuova legislatura.
Era un discorso pieno di brillanti promesse
e di oculate riforme, col quale sei
mesi prima il governo di don Pedro de
Aldana aveva tracciato il vasto programma
dei lavori parlamentari ad un Congresso
che, invece di mettersi a lavorare
senza perdere tempo, s'era dato sùbito a
far tanto chiasso che don Pedro aveva
dovuto rimandarlo a riposarsi a casa dopo
un semestre d'ostruzionismo, di chiassate
infernali, di urne infrante, di vetri
spezzati e di canzoni rivoluzionarie intonate
con bellissime voci tenorili e baritonali
sui banchi dell'Estrema Sinistra. Ed
è d'innanzi al nuovo Congresso che aveva
seguìto, tre mesi dopo, lo scioglimento
di quel Congresso di sbarazzini, che Sua
Maestà aveva cominciato a leggere con
bella foga oratoria il vecchio discorso
preso distrattamente invece del nuovo. È
vero che Sua Maestà s'occupava poco di
politica, ma aveva però una memoria di
ferro e, detta una volta una sciocchezza,
non la dimenticava più. Riconobbe
quindi presto il discorso di sei mesi prima.
Ebbe un breve momento di timor
panico, ma poi andò avanti risolutamente
sino alla fine, attendendo da un momento
all'altro — mi raccontò egli dopo - che
il Congresso rumoreggiasse o commentasse
clamorosamente la scandalosa distrazione
del sovrano. E, giunto senza
inconvenienti alla fine del vecchio discorso,
Sua Maestà, che aveva anche, dopo
tutto, molto spirito, si credette in obbligo
d'osservare che il Congresso doveva avere
riconosciuto, nel discorso da lui letto pochi
minuti prima, il discorso della legislatura
precedente, al quale non era stata
mutata neppure una virgola, e di dichiarare
ai deputati che il suo Governo aveva
preferito non redigere un nuovo discorso,
poichè il vecchio Congresso disciolto
dopo soli sei mesi di vita infeconda aveva
lasciato al nuovo l'ereredità del vasto programma
riformatore contenuto in quel
precedente discorso.
Sua Maestà, dopo questa trovata, ebbe
la sorpresa di vedere che il Congresso
cadeva dalle nuvole udendo le sue parole:
nessuno aveva riconosciuto il discorso,
poichè a Fantasia ed altrove breve è la
fama delle più illustri orazioni regali. E
dalle nuvole cadde anche più precipitosamente
Sua Maestà il giorno dopo, quando
dovette riconoscere una volta di più
che se egli era un sovrano di spirito era
però un monarca costituzionale che non
capiva un'acca di politica e ancor meno,
se possibile, di politica parlamentare.
Tanto è vero che, proprio quando egli
credeva d'avere accomodato con spirito
una sua distrazione, commetteva una
gaffe piramidale: quella di pretendere che
un uomo politico al Governo mantenga
fede almeno per sei mesi alle sue idee e
al suo programma.
Il primo discorso conteneva il programma
del primo ministero Aldana; e Sua
Maestà non previde il più piccolo inconveniente
nel fare di quel discorso la bandiera
del Ministero nuovo, poichè questo
era ancora presieduto da don Pedro
de Aldana, presidente inamovibile. Ma gli
inconvenienti li vide invece il Congresso
che il giorno dopo mandò, sotto una
grandinata di palle nere, quel povero
don Pedro ad imparare a casa sua quello
che del resto egli sapeva benissimo: e
cioè che bisogna, almeno ogni tre mesi,
cambiar d'idee quando si vuole, ogni sei,
cambiare partito. Sua Maestà, che voleva
decisamente andare alla frontiera al
più presto possibile, mandò don Pedro
al Congresso per la terza volta, con un
terzo Ministero. L'inevitabile presidente
del Consiglio redasse un discorso à succès
con le idee più fresche che avevano
corso in quelle settimane su pei banchi
della maggioranza. E, ringraziando
Iddio che non si trattasse questa volta di
un discorso della Corona, il discorso al
Congresso andò a leggerselo lui stesso.
Sua Maestà, commentando con me quegli
avvenimenti la sera del giorno in cui
al Congresso don Pedro de Aldana, scacciato
come un cane il giorno prima, aveva
raccolto l'unanimità più uno, concluse
che decisamente. la politica non era fatta
per lui e che la sua più irresistibile vocazione
di re e di uomo era incontrastabilmente
ed esclusivamente quella di fare
all'amore.
E l'amore infatti, continuava ad occupare
tutte le sue ore libere che, contrariamente
a quello che si crede, non
sono poi molte per un povero diavolo
che deve fare, almeno facendosi vedere, il
duro mestiere di re. Il mio regale amico
continuava come prima ad occuparsi
sempre più delle dame della Regina che
della Regina stessa. La povera piccola Regina,
giallina, magrolina e silenziosa, si occupava
della malferma salute e non compariva
in pubblico se non alle cerimonie
ufficiali e con un'aria di malinconia
che faceva venir voglia di piangere su
l'inclemenza del suo lacrimevole destino.
La duchessa di Frondosa continuava ad
essere l'indomabile passione di Sua Maestà,
che, dopo avere avute, senza amarle,
tutte le care donne che desiderava —
care nel senso affettivo — non poteva
logicamente innamorarsi come un pazzo
se non di quella che ad ogni costo non
voleva saperne di lui e che continuava
tranquillamente, con la sua bella sanità
morale di donna bene equilibrata e di
signora veramente per bene, a infischiarsene
della corte spietata e disperata del
Re, come si era infischiata prima delle
galanterie esuberanti del principe ereditario.
Come tutti gli uomini — e come
tutte le donne — che hanno qualche ora
da buttar via inutilmente, il mio regale
amico cercava adesso, nella lettura dei
romanzi, un conforto alle sue pene di
cuore. Leggeva i più romanzeschi e i più
avventurosi. Continuava a considerarmi
come l'indicatore ufficiale per le sue letture,
e prima d'aprire un romanzo mi
domandava se conteneva passioni esaltate
e febbrili, storie di ratti e fughe,
ogni specie insomnia di violenze d'amore.
E, mentre divorava questi libri che
lo eccitavano sempre di più, si teneva
sempre vicina a Corte la duchessa Isabella.
Aspettava con impazienza febbrile
il mese in cui il duca e la duchessa di
Frondosa erano di servizio. E non si contentava
del servizio normale, ma studiava
e trovava mille indiavolati pretesti per
ridurre quella povera duchessa a fare
anche degli extra.
Ma la duchessa intanto, pur avendo
l'aria di capire benissimo tutte quelle
complicate manovre, non lasciava mai di
sorridere nella sua serena invulnerabilità.
Da parte sua il duca, con quella sua
faccia impassibile, continuava ad aver l'aria
di non vedere nè che sua moglie sorrideva,
nè che il re si struggeva. E arrivammo
così alla sera fatale. Durante tutta
la giornata, Sua Maestà era stata più
innamorata che mai. Nella mattinata aveva,
avuto luogo una partita di caccia, alla
quale anche la duchessa Isabella aveva
assistito, più bella che mai a cavallo, più
affascinante che mai in abito da caccia,
più che mai sorridente e serena e tranquilla
e sicura di sè. Dopo colazione avevo
veduto il re parlare a lungo nervosamente;
torcendosi i baffetti, muovendosi
continuaniente su le gambe come se avesse
l'argento vivo addosso o un esercito di
formiche all'assalto su pei regali polpacci.
Lo guardavo da lontano, fumando
in compagnia del duca di Frondosa, il
quale aveva cura di dirigere il luccichìo
della sua caramella sempre dal lato opposto
a quello ove passeggiavano Sua
Maestà e la duchessa. Don Alvaro mi
parlava di politica estera: è la sua fissazione
da quando il suo carattere impetuoso
ed impulsivo sollevò i tre famosi
incidenti diplomatici e lo fece richiamare
indisponibilmente a disposizione del Ministero.
Io ero segretario alla Legazione
di Lisbona quand'egli v'era ministro
plenipotenziario. Io lo sostituii durante
alcune settimane in cui non aveva saputo
resistere ai fascini della season londinese.
E poichè, a differenza da quando c'era
lui, non avvenne il più insignificante incidente
in quei ventun giorni — cosa veramente
incredibile in quel gaio paese —
il duca aveva preso a considerarmi come
un diplomatico di primissimo ordine e
a parlarmi di politica, ogni volta che
m'incontrava, per avere da me dei lumi
su la situazione internazionale che a lui
sembrava sempre, invariabilmente, oltremodo
oscura.
Quella sera pranzavo dai Frondosa.
Prima di pranzo, andai a palazzo a bere
la consueta tazza di tè col mio regale
amico, che trovai in uno stato di esaltazione
indicibile. «Anche oggi, mi disse
appena mi vide, anche oggi quella donno
mi ha respinto. E la sola che mi resiste
ed è la sola che adoro. Si ricorda,
lei, il famoso scacchiere galante? Tutte le
pedine, tutte le torri hanno ceduto al re,
tutti gli alfieri si sono cortesemente fatti
da parte per lasciarmi liberamente scorazzare.
Ero giunto alla sazietà, lei lo
sa, al disgusto di queste avventure troppo
facili. Non avevo che da levare un
dito.... Ma questa volta non un dito solo
ho levato, ma ne ho levati dieci, e niente!...
E una cosa che mi fa impazzire....
Lo sa lei, lo sa lei che io me ne infischio
d'essere re se devo trovarmi davanti una
torre che non posso mangiare?» E continuò
a sfogarsi a lungo, in modo che
mi sentivo davvero intenerire il cuore;
e lo avrei una volta di più volentieri
aiutato, senza tanti scrupoli, se mai fosse
stato possibile di farlo. Quando mi
levai per andarmi a vestire mi disse:
«Ah, già, lei pranza stasera, dai Frondosa...
Come le invidio di poterla vedere
per tutta una serata.... Le darei la mia
corona per il suo posto a tavola!» Non
ebbi molta fatica a persuaderlo che questa
forma di commercio delle corone regnanti
non e ancora entrata nel protocollo
mondano, e mi avviai con indifferenza
verso quel pranzo per il quale il mio
regale amico avrebbe barattato il su regno.
Il che non mi sembrava, del resto,
un'esagerazione. Se un suo famoso predecessore
aveva offerto il suo regno per un
cavallo, egli poteva benissimo offrire il
suo per un pranzo, dato il deprezzamento
contemporaneo del mestiere di re, e la
poca solidità, oramai, della carriera.
Sedendomi poco più tardi, con l'indifferenza
di un uomo che vive a regime
e ch'è bevitore di acqua, alla tavola da
pranzo di casa Frondosa, non sospettavo
neppur lontanamente di sedermi invece
in una comoda poltrona per assistere
alla più comica commedia che abbia
mai veduta fuori di quelle del teatro le
quali raccolgono, come sapete, in una
sola d'un solo autore dieci commedie di
altri autori perchè gli autori drammatici
hanno memoria di ferro e, sentita una
volta una scena, non se la dimenticano
più. Era pranzo d'intimi, quella sera. Si
doveva pranzare e poi accompagnare la
duchessa all'Opera dove doveva aver luogo
la prima rappresentazione del Boris
Godounow di quel grande musicista russo
che nel cognome per un paio di povere
piccole vocali ha bisogno d'un mezzo
squadrone di consonanti. Non eravamo
che tre ospiti e i padroni di casa. Il
pranzo volgeva alla fine quando il maggiordomo
s'avanzò verso di noi, e rispettosamente
avvertì che telefonavano da Palazzo,
e che Sua Maestà desiderando di
venire, a visitare la duchessa di Frondosa
quella sera, voleva sapere se la duchessa
poteva riceverlo. Guardai sùbito don Alvaro
e, per la prima volta, vidi passare
un'ombra di fastidio su quel volto impenetrabile
e impassibile, mentre, tuttavia,
con l'aria più naturale di questo mondo
rispondeva al maggiordomo di far dire
a Sua Maestà che la duchessa di Frondosa
sarebbe stata felicissima di riceverla.
Vidi sùbito la serata perduta. Addio, Opera!
Addio, grand'uomo dalle troppe consonanti!
Non mi disperai per questo, chè
le commedie della vita m'interessano sempre
più di quelle del teatro, e un presentimento
mi avvertiva che, nella commedia
dell'amor respinto recitata da Sua
Maestà e dalla duchessa di Frondosa, stavamo
per arrivare alla scena-madre. E
anzi provai, poco più tardi, un vivo disappunto
quando vidi che il re, senza tante
cerimonie, proprio perchè presentiva
che la scena-madre era vicina, licenziava
gli spettatori. Ci levavamo infatti appena
da tavola quando sentimmo sotto la vôlta
del portone il rombo dell'automobile regale
che entrava, quella piccola automobile
dalle persianette chiuse con cui il
mio regale amico s'abbandonava alle sue scappatelle
notturne. Ed ecco poco dopo
entrare il mio regale amico, irreprensibile
nella sua marsina, col suo immancabile
garofano rosso all'occhiello. Ed eccolo,
appena entrato e scambiati i saluti, dirci
che salendo le scale s'era ad un tratto ricordato
che quella sera c'era all'Opera
la prima rappresentazione del Boris Godounow,
ch'era veramente desolato di
questa dimenticanza, che chiedeva alla
duchessa ed a noi di non privarci per
questo d'una première così importante,
poichè egli si sarebbe immediatamente
ritirato. Vidi sùbito dove voleva andare
a finire; e quello che egli desiderava avvenne
infatti con la massima precisione.
La duchessa, naturalmente, non volle permettere
al re di ritirarsi, e questi allora
ad insistere perchè al teatro andassimo
almeno noi uomini! «Prego questi signori,
egli disse, di non fare complimenti.
E li prego vivamente di liberarmi, almeno
per loro uomini, dal rimorso d'una
serata perduta». Era, sotto la preghiera,
un ordine, e non c'era che da inchinarsi,
tanto più che già Frondosa s'era inchinato
per primo ringraziando, già aveva
baciato la mano di sua moglie, stretto
quella del re e s'era diretto verso la porta.
Noi lo seguimmo, io ultimo, con l'aria
più mortificata di questo mondo. Proprio
sul più bello, ahimè, mi toccava di andarmene.
Un regno no perche non l'avevo,
ma un anno di vita lo avrei dato certamente
volentieri per poter rimanere dietro
un paravento. Decisamente c'era una
cattiva stella per quella première. Arrivati
a teatro, la nostra automobile dovette
tornarsene indietro. Il teatro era
chiuso, la rappresentazione essendo rimandata
per l'indisposizione d'un cantante.
Vidi una seconda volta il viso di
don Alvaro oscurarsi: un attimo. Eravamo
all'ingresso dei palchi di Corte.
Frondosa ed io eravamo scesi dall'automobile,
e Frondosa domandava se quella
sera Sua Maestà il Re avrebbe dovuto
venire a teatro. Gli fu risposto di sì e
che alle sette di sera era stato telefonato
a Corte per avvertire del rinvio della
rappresentazione. Mi sforzai di rimanere
impassibile perchè don Alvaro non credesse
che avevo rilevato la stranezza di
queste circostanze. Ma vidi per la terza
volta passare un'ombra sul volto del mio
antico ministro. Tuttavia questi già risaliva
in automobile e, ridendo del contrattempo,
ordinava allo chauffeur d'andare
al Circolo.
Finimmo lì la serata. Cominciammo a
giuocare. Frondosa a un pazzo chemin
de fer, io a un tavolinetto di modesto,
tranquillo e prudente écarté. Poi ci perdemmo
di vista. Fui chiamato al telefono.
Lessi i giornali. Alle undici già cascavo
dal sonno e andai a dormire col rammarico
d'uno spettatore che, dopo d'essersi
annoiato ai primi due atti, trova le
porte chiuse al terzo e non può rientrare
in teatro mentre sente le omeriche risate
degli spettatori che sono nella sala e che
sono giunti finalmente al punto più bello
della commedia.
Questo spettatore ritardatario si farebbe,
nel caso, raccontar la commedia da
un amico, all'uscita dal teatro. All'uscita
dal teatro io ebbi la fortuna di sentirmela
raccontare dallo stesso protagonista. Dormivo
già profondamente, a mezzanotte,
quando sentii il mio domestico che gridava
nel buio della mia stanza, cercando
a tastoni la chiavetta della luce elettrica:
«Signor marchese.....Sua Maestà! Sua
Maestà!» Balzai sul letto, corsi all'idea
d'un attentato ed ero per saltare giù, ma
la luce elettrica s'era accesa, il domestico
era scomparso e Sua Maestà entrava per
la prima volta in casa mia, in camera
mia, a mezzanotte, quand'io ero costretto
a riceverla nella soverchia intimità d'un
pijama. Aveva indosso la pelliccia aperta
su lo sparato un po' spiegazzato e teneva
la guancia sinistra coperta con un
fazzoletto. E, dopo poche parole febbrili
d'introduzione, mentre io cercavo di completare
alla meglio la mia toilette troppo
sommaria, mi raccontò quanto segue:
— Amico mio, una tragedia! Una vera
tragedia! Sono disonorato come
re e come uomo! Ho commesso una vera pazzia,
indegna d'un gentiluomo, del primo
gentiluomo d'un nobile paese come il nostro.
Ma la duchessa era cosi bella stasera,
così indiavolatamente coquette! Per
due ore ho continuato a parlarle d'amore,
a dirle le mie pene, a invocare la sua
pietà. Non avevo più fiato, non avevo
più parole. E lei, niente, dura come un
macigno. Quella donna non ha cuore!
E, ad un tratto, è avvenuta la cosa terribile.
Che vuole che le dica, caro d'Aprè?
Ero fuori di me, ero pazzo, avevo la
febbre, la volevo ad ogni costo. Mentre
lei sorrideva, mentre lei si burlava di me
con mezze paroline ch'erano altrettanti
schiaffi per la mia vanità di uomo, io la
guardavo.... Come era bella! E la mia
passione, che durava oramai da tanti
anni, non riusciva a piegarla. Mi sentii
disperato. Mi tornarono in mente tante
letture, tante scene di romanzo, tanti personaggi
esaltati, le più drammatiche soluzioni
dei drammi d'amore disperati
come il mio. E poi, non so neppure io
com'è stato. Ad un dato punto ho perduto
la testa, una benda m'e caduta su
gli occhi e.... Lei era su una larga dormeuse,
era deliziosamente scollata, profumata
squisitamente, irresistibilmente bella....
Ho sentito che quella donna che
adoravo non sarebbe mai stata mia.... Il
pensiero che in fondo io ero il re, il signore,
il padrone, e che tuttavia quella
donna mi respingeva, mi ha anche attraversato
il cervello.... Insomma ho pensato
cento bestialità e non so neppure più quali.
Ricordo solo che a un dato punto
mi sono gettato su lei, che l'ho afferrata
per le braccia, che l'ho rovesciata indietro,
che ho cercato affannosamente la sua bocca, la
sua bocca che mi sfuggiva,
senza neppure riuscire a raggiungerla....
L'avessi almeno raggiunta una volta
sola!... È stata una lotta di trenta secondi,
poi un grido di lei, una porta che
si apre violentemente. Mi rialzo sùbito.
Anche lei si solleva sui cuscini riaccomodandosi
i capelli. Su la porta, pallidissimo,
è don Alvaro, tornato a casa, forse
insospettito dalla mia visita, in quel punto
stesso. Sono rimasto al mio posto, inchiodato,
esterrefatto. E Frondosa s'è
avanzato verso di me. Aveva in mano una
cravache presa in anticamera. Io lo guardavo
avvicinarmisi, intontito, senza fare
un gesto, senz'aver fiato Tier dire una
parola. E, a un tratto, a due passi da me,
Frondosa ha levato lo scudiscio, l'ha fatto
ricadere violentemente sul mio volto, qui,
su la guancia sinistra.... Guardi!
E scoprì la guancia traversata dal lungo
segno rosso del colpo di cravache.
— E Vostra Maestà? — chiesi io febbrilmente,
mentre il re ricopriva pudicamente
col fazzoletto la sua ferita d'amore.
— Io? E che potevo fare io? Dica lei.
Reagire in casa sua?... Mettermi a fare a
pugni come un facchino?... Nulla potevo
fare, amico mio. Sembra strano, a prima
vista, ma è cosi.... Intanto Frondosa s'era
riavvicinato, sempre senza una parola,
alla porta e l'aveva spalancata, rimanendo
lì presso, per invitarmi ad uscire. Che
potevo fare? Mi sono inchinato alla duchessa,
sempre seduta, adesso pallidissima
anche lei, con gli occhi chiusi, le
labbra contratte, e mi sono avviato per
uscire. Ho dovuto passare così, col volto
segnato; d'innanzi a don Alvaro impassibile....
E avevo la ferita che mi bruciava,
che mi bruciava, oh quanto mi bruciava....
Mi bruciava fuori e mi bruciava
dentro!... E poi.. Poi ho ritrovata la
mia automobile e sono corso da lei....
Durante il racconto Sua Maestà s'era
a mano a mano calmata un poco. Adesso
s'era levata, s'era tolta la pelliccia e sul
mio tavolino da notte aveva preso una
sigaretta. Io non sapevo che dire. Ero inebetito
dall'ammirazione. La scena-madre
superava decisamente ogni mia maggiore
aspettativa.
— Ebbene, lo crederà? — mi disse allora
Sua Maestà accendendo la sigaretta.
— Passando innanzi a Frondosa io non
ho provato nessun sentimento d'ira o di
rancore, nessun desiderio di vendetta....
E vuole che le dica tutto.... giacchè lei è
lo specchio della mia coscienza?... Vuole
che le dica tutto? Ho provato anzi, addirittura,
un sentimento d'ammirazione.
Caro d'Aprè, fra tante pedine, tante torri
crollanti, tanti alfieri compiacenti, avevo
trovato, finalmente, un uomo. — E
dopo una pausa. — Tanto che, se non
fosse stato per un sentimento di pudore,
io gli avrei stretto la mano....
"..Et in cipriam reverteris.... „
Com'è ancora costume della maggior
parte dei teatri di Fantasia, l'epilogo
drammatico dell'avventura amorosa del
mio regale amico fu immediatarnente seguito
dalla farsa in cui la parte del brillante
fu molto egregiamente sostenuta dal
presidente del Consiglio, don Pedro de Aldana.
Dopo il suo drammatico racconto,
Sua Maestà il Re mi aveva cortesemente
invitato a vestirmi sùbito e ad accompagnarlo
a palazzo. Non permise neppure,
tanta era la sua impazienza, che chiamassi
il mio cameriere ed egli stesso mi
aiutò a calzare le scarpe, a infilare i
pantaloni, a preparare la camicia e la
cravatta, a compiere le necessarie abluzioni
e tutto ciò con l'arte consumata
del più perfetto valet de chambre. Qui
le parti, passando dal gran secolo al nostro
secolo democratico e proletario, erano
completamente rovesciate. Molti cortigiani
avevano ai bei tempi l'onore di
partecipare al petit lever d'un re, ma
credo che per la prima volta un re assistesse
e partecipasse in quel modo al
petit lever d'un suo umil cortigiano.
Sentivo con un po' d'umiliazione che le
istituzioni se ne andavano e che decisamente
nel mondo oramai tutto andava a
rovescio prima d'andare tutto, inevitabilmente,
a catafascio. Uscimmo. Nell'automobile
regale che ci aspettava alla
porta di casa mia, Sua Maestà mi spiegò
finalmente che cosa desiderava da
me. Bisognava immediatamente convocare
per l'alba il Consiglio dei ministri che
doveva essere messo al corrente della situazione
e invitato a risolverla. Giunti a
palazzo, lavorammo al telefono tutt'e due
per un'ora a telefonare a tutti i ministri
o ai loro ministeri o alle loro case.
Il solo don Pedro de Aldana, a dire il
vero, era ancora, a un'ora dopo mezzanotte,
al Ministero degli Affari Interni.
Ma don Pedro, era noto, dormiva cosi saporitamente
tutt'il pomeriggio al Congresso
dei deputati che la notte soffriva d'insonnia
e lavorava sino alle tre o alle
quattro del mattino al Ministero giuocando
col suo capo di gabinetto a un
giuoco tranquillo ed onesto, raccomandabilissimo
agl'insonni: il domino. Tutti
i ministri si affrettarono a rispondere che
all'alba - il che non era poi un grande
sacrificio al Monarca e alla monarchia
poichè eravamo d'inverno pieno e albeggiava
alle sette — sarebbero stati a palazzo
come Sua Maestà desiderava. Uno
solo si affrettò a dichiarare che, poichè
Sua Maestà aveva bisogno dei suoi consigli
e aveva qualche grave preoccupazione
che lo turbava, egli non poteva assolutamente
più continuare a dormire.
Veniva, quindi, immediatamente a mettersi
agli ordini di Sua Maestà: appena
il tempo di vestirsi.... Era, naturalmente,
uno dei tre ministri socialisti.
Mezz'ora dopo, infatti, capitava a palazzo
e apprendeva da me, con profonda
costernazione, che Sua Maestà, dopo aver
dato a me tutte le istruzioni necessarie,
era andato tranquillamente a dormire,
poichè, grazie a Dio, sebbene la faccenda
fosse seria, tuttavia nè la sua vita nè
quella dello Stato potevano dirsi seriamente
in pericolo. Il povero ministro socialista
fu desolato di vedere che Sua
Maestà avrebbe così ignorato il nobile
sacrificio, da lui eroicamente compiuto,
della sua notte di riposo a fianco dell'onesta
compagna che aveva recentemente
sposata in municipio ed in chiesa,
da quando cioè la cara signora aveva
manifestato il suo risentimento verso la
libera unione che le impediva d'assistere
ai pranzi di Corte. È certo che i re i
quali vogliano ancora tentare d'essere
serviti con vera devozione e con zelo
esuberante debbono rivolgersi ai ministri
socialisti. Furono infatti gli altri due ministri
socialisti i primi ad arrivare a palazzo
reale, verso le sette, quando albeggiava
appena, dopo una notte in cui il
ministro socialista ed io avevamo trascinato
da un divano all'altro e da una poltrona
meno comoda ad una più comoda
il nostro irrequieto dormiveglia.
Questi tre buoni «compagni» mi parvero
così inquieti e così angosciati per
il pericolo che doveva minacciare Sua
Maestà che io non ebbi cuore di farli
soffrire più a lungo e li misi sùbito al
corrente di quanto avveniva, pronto a
ripetere la mia esposizione dei fatti quando
don Pedro de Aldana e gli altri fossero
alla lor volta sopraggiunti.
— Loro sanno, — dissi, — che Sua
Maestà, dopo avere avuto molte facili avventure,
dovute al suo fascino, personale
e a quello della sua corona regale, ha
avuto anche una vera quanto sfortunata
passione per una nobilissima ed onestissima
dama della nostra aristocrazia. È
una dama di Corte, la bellissima duchessa
di Frondosa. Iersera Sua Maestà si è recata
a visitare a casa sua la duchessa, la
quale ha fatto talmente perdere la testa
a Sua Maestà che Sua Maestà, insieme
con la testa, ha perduto a un dato punto
anche il lume degli occhi e, cedendo ad
un istinto brutale che ogni mortale, anche
re, ha in fordo a se stesso, ha tentato
di prendere la duchessa con la violenza,
smanioso di carpirle ad ogni costo
un bacio.
- Un bacio? — m'interruppe uno dei
tre ministri.
— Per il momento un bacio, o signori.
Ma sventuratamente Sua Maestà non ha
preso neppure questo, chè proprio in quel
momento rientrava in casa il duca di
Frondosa, il quale, armatosi, al grido
della moglie, d'una cravache trovata in
anticamera, è andato difilato ad assestarne
un colpo magistrale su la guancia
sinistra di Sua Maestà. Questi, non potendo
in alcun modo reagire poichè è non
nel protocollo preveduto il caso in cui
un sovrano può mettersi con un suo gentiluomo
di Corte a fare a pugni, sia detto
con rispetto per le loro idee, come un
facchino qualunque, si è ritirato immediatamente
coprendo, con comprensibile
pudore, mediante un fazzoletto, la guancia
sinistra attraversata dal segno paonazzo
dello scudiscio vendicatore. Ma
la situazione liquidata momentaneamente
con questo dignitoso silenzio non può
rimanere così. Sua Maestà, non sapendo
d'altra parte come risolverla, ha desiderato
ch'essa fosse comunicata a lor'signori,
avvezzi a dirimere col loro senno
le più gravi e le più ardue faccende di
Stato. E, non volendo, per un senso di
pudore facile a comprendersi, essere costretto
a raccontare lo spiacevole incidente
di cui la sua guancia sinistra è
stata vittima iersera, ha incaricato me
di informarli di quanto è avvenuto e d'invitarli
a deliberare in conseguenza. Da
onesto e leale re costituzionale, Sua Maestà
non dimentica che egli non può prendere
da solo alcuna decisione, e ricorda
che ogni suo decreto porta in testa la formula
tradizionale: «Sentito il parere del
Consiglio dei Ministri».
I tre ministri socialisti furono profondamente
sconvolti dal mio sintetico ed
imparziale racconto, e, non appena don
Pedro de Aldana e gli altri sopravvennero,
mi risparmiarono la fatica di ripeterlo;
e, a frasi rotte, convulse, informarono
il loro presidente e i loro colleghi
costituzionali di quanto era la sera prima
avvenuto. A dire il vero, i ministri costituzionali
mi sembrarono molto metro impressionati
dei loro colleghi socialisti,
probabilmente per una più lunga esperienza
dei costumi delle Corti. C'era nel
salotto ove eravamo riuniti una grande
tavola ovale e i ministri vi si disposero
intorno immediatamente, perchè questo
è il primo dovere di quindici ministri
quando quindici ministri si trovano insieme.
Io rimasi nella mia poltrona e
don Pedro de Aldana, che era stato fino
allora impenetrabile, prese la parola. Il
suo discorso fu breve: la frase grammaticalmente
più semplice e più concisa che
sia possibile imaginare: soggetto, verbo
e attributo.
— La situazione — opinò il presidente
del Consiglio — è grave.
Poi guardò la poltrona ov'io m'ero modestamente
rannicchiato in attesa degli
avvenimenti e osservò:
— Quantunque si tratti d'un Consiglio
di ministri in tutte le dovute forme, bisognera
eccezionalmente permettere ad
un estraneo di assistervi, poichè il marchese
d'Aprè potrà all'uopo fornirci sui
fatti che sono accaduti e sui desideri di
Sua Maestà le dilucidazioni che ci saranno
necessarie.
Io ero tutto contento di vedere che non
mi mandavano via e che si preparavano
a operare innanzi a me il salvataggio
della dignità del Sovrano, quando sentii
il presidente del Consiglio aggiungere:
— Ma bisogna trovare la formula....
E tutt'i ministri si misero a pensare. Io
mi sentii ad un tratto molto preoccupato,
poichè è noto che quando un Consiglio
di ministri si mette a pensare è quasi
impossibile che un'idea venga fuori da
tanto lavorìo cerebrale. Ma don Pedro
de Aldana, che non pensa mai, è tuttavia
l'uomo delle trovate geniali per uscir
sempre dal rotto della cuffia nelle più
difficili situazioni. Così don Pedro mi fece
sùbito respirare.
— Ho trovato. È nella nostra carta
costituzionale , onorevoli colleghi, che
il Consiglio dei ministri è virtualmente
presieduto da Sua Maestà. Il marchese
d'Aprè rappresenta, in questa circostanza,
il Sovrano. Egli può dunque rimaner qui
di diritto, purchè egli assuma la nostra
presidenza.
Tentai di fare dei complimenti. La mia
poltroncina era cosi comoda! Ma don Pedro
de Aldana fu irremovibile.
— La situazione non è costituzionalmente
pura, finchè ella non sarà passato
da quella poltrona a questa.
E, cosi dicendo, m'indicava la poltrona
da cui egli s'era or ora levato. Osservando
così che per salvare rispetto dovuto
alla Costituzione bastava adagiare la mia
persona su una incomoda poltrona stile
Impero invece che su una comodissima
poltrona di marocchino rosso, presi posto
alla tavola dei ministri, mentre l'onorevole
presidente si sedeva alla mia destra.
Sùbito dopo il Consiglio deì ministri
cominciò ad esporre le sue idee, e tante
erano quelle che si affollavano nei cervelli
dei quindici ministri che don Pedro
de Aldana, approvato dai colleghi, mi
invitò a esporre le mie.
— Servirà, — aggiunse il presidente del
Consiglio per salvare l'amor proprio dei
suoi colleghi, — servirà per sgombrare
la via alle nostre.
Non avrei mai creduto che le idee dei
ministri, anche se quindici come nel regno
di Fantasia che non bada a spese,
fossero cosi numerose da avere bisogno
di sgombrar loro la via, e avrei creduto
piuttosto che la cruna d'un ago sarebbe
stata per loro un valico più che sufficiente.
Ma, per natura arrendevole e niente affatto
avaro di quella chiaroveggenza che
gli dei benevoli vollero accordarmi, cominciai:
— Io credo che tutte le loro idee, o signori,
debbano aggirarsi intorno a questa
delicato problema: come riparare l'offesa
fatta da un suddito a Sua Maestà.
— Perfettamente, — rispose il ministro
della Pubblica Istruzione, dotto scrittore
di questioni filologiche che spingeva la
concisione del suo stile, per cui era universalmente
reputato, sino a non parlare
che per avverbii.
— Non c'è neppure da pensare, aggiunsi
sùbito, — alla possibilità d'un
duello.
— Evidentemente, — interloquì il filologo.
— Un re non può battersi che alla testa
dei suoi eserciti.
— Precisamente, — interruppe ancora
il filologo.
Gli avverbi del dotto e conciso ministro
cominciarono a darmi maledettamente
sui nervi, talchè, raccolte le mie
forze, e per impedirgli d'inserirne altri
tra le mie parole; mi gettai a una velocità
fantastica nel mio discorso:
— Un re, dunque, non può battersi. Il
codice cavalleresco ha valore per tutt'i
suoi sudditi, ma non può averne per lui.
Un re non può dare querela. Il codice
penale ha valore per tutt'i suoi sudditi,
ma non si può riconoscergliene alcuno
per lui. Il re non può fare a pugni come
— chiedo ancora scusa se, senza volerlo,
offendo le rispettabilissime idee di qualcuno
dei ministri presenti — come un
facchino qualunque. Il prezioso libretto
dell'italiano monsignor Della Casa può
essere sconosciuto a qualsiasi cittadino
di Fantasia, dai sei mesi ai cento anni,
ma non può in alcun modo essere dimenticato
mai dal Sovrano. Il re non può
neppure relegare alla frontiera il suddito
che l'ha offeso. Venti milioni di sudditi
hanno perfettamente il diritto, quando
essi vogliano per avventura farne uso,
di mandare alla frontiera il Sovrano, ma
il Sovrano non può mandare a godere
dei fascini dei climi stranieri neppure un
solo suddito su questi venti milioni di
sudditi che costituiscono il suo regno.
Il Re, dunque, non può far nulla per riparare
l'offesa fattagli dal duca di Frondosa
iersera. Ma d'altra parte, pur riconoscendo
la impossibilità di una qualsiasi
riparazione, noi non possiamo chiedere
a Sua Maestà d'offrire cristianamente
la guancia destra a chi ieri sera
gli offese la sinistra, e quarto iersera è
avvenuto egli non può certo tollerare!
Cogliendo al balzo la provvida palla del
mio punto fermo, il ministro filologo mise
a sua volta i1 punto esclamativo del suo avverbio:
— Supinamente!
Ci fu un silenzio. Due o tre voci di
ministri interrogarono :
— E allora?
— Allora, — risposi, — il mio dovere
è compiuto. La via è sgombra per le
loro idee. S'accomodino pure, signori.
Il presidente del Consiglio intervenne:
— Chi di voi ha delle idee le esponga....
Ma uno alla volta, per carità.
Raccomandazione del tutto inutile, chè
le parole di don Pedro de Aldana furono
seguìte da un silenzio di tomba. Su
quindici ministri, idee neppure una. La
percentuale era ancora inferiore a quello
che io avevo pessimisticamente preveduto.
Al solito don Pedro salvò le apparenze:
— Comprendo e apprezzo, miei cari
colleghi, la vostra delicatezza, — disse,
— nel volermi lasciar libero di manifestare,
prima di ogni altro, le mie. Ma, riservandomi
di esporre le mie idee quando
lo giudicherò più opportuno, credo che
convenga non precipitare decisioni avventate
e controllare prima le idee or
ora esposte del marchese d'Apre molto
cortesemente, molto lucidamente e....
— Velocissimamente! — scaraventò il
filologo che non mi poteva perdonare
d'aver chiuso la via ai suoi avverbi.
— Siamo dunque tutti d'accordo su
questi quattro punti: un re, offeso, anche
sanguinosamente, non può battersi,
non può querelare l'offensore, non può
somministrargli una buona lezione a
scappellotti e non può farlo deportare.
Nel caso speciale, poi, non può neppure
farlo arrestare. La scena è avvenuta in
casa del duca di Frondosa. Caso mai,
la querela potrebbe darla il duca a Sua
Maestà, per violazione di domicilio in
attesa di violazioni ulteriori.
— Logicamente! — insinuò il filologo.
— Bisogna quindi purtroppo concludere, —
riprese don Pedro, abituato a passar
sopra agli avverbi del suo collega come
se nulla fosse, — bisogna concludere che,
date le tradizioni, gli usi, i costumi, i regimi
e le leggi del nostro paese e specialmente
del nostro tempo, un re che abbia
ricevuto uno schiaffo non può fare altro che....
— Tenerselo! — affermò il ministro del
Tesoro.
— Filosoficamente! — concluse quello
dell'Istruzione,
E, rivolgendosi a me, don Pedro domandò:
— Lei, marchese, e d'accordo?
— D'accordo....
— Complet...., - tentò ancora d'intercalare
il filologo che non s'aspettava di
trovarmi anche questa volta più svelto
di lui.
— No. Mi perdoni, Eccellenza, d'accordo
sì, ma senza avverbi. E la mia conclusione
sarebbe anzi, se permettono, ancora
più desolata e desolante della loro.
A me pare, infatti, che si potrebbe affermare....
— Recisamente, — avventò il filologo
tutto felice d'esserci questa volta riuscito. —
Affermare che in un popolo civile
e retto a regime costituzionale; composto
di quanti mai milioni di cittadini si
voglia, l'unico cittadino che, preso uno
schiaffo, se lo debba inevitabilmente tenere
non è altri e non può essere altri
che il re. Ma, nondimeno, mi sia permesso
di richiarnare l'attenzione dell'onorevole
Consiglio dei ministri su questo
punto essenziale. Anche ammesso che il
re debba tenersi l'offesa fattagli, non si
può ammettere ch'egli debba ogni giorno
trovarsi d'innanzi ii suo offensore. Ora
questo appunto avverrebbe, essendo il
duca e la duchessa di Frondosa costretti
dalle loro rispettive funzioni di gentiluomo
d'onore e di dama di Corte a frequentare
quotidianamente Sua Maestà. Nè,
d'altra parte, si può pensare d'invitarli a
rassegnare le loro dimissioni o di dispensarli
ex-abrupto dalle loro funzioni.
L'avvenimento solleverebbe uno scandalo
enorme e si cercherebbe l'origine di misure
così gravi. La scudisciata ricevuta
da Sua Maestà finirebbe con l'esser resa
di dominio pubblico dalle agenzie d'informazioni
e dalle gazzette ufficiali.
I quindici ministri erano tutti col naso
su la tavola come se dal rosso tappeto
di peluscia dovessero saltar su al loro
cervello le idee. E fu appunto a questo
momento della discussione che le idee
saltaron fuori tutte insieme e, con le idee,
scoppiò naturalmente la guerra civile tra
i ministri: accadde infatti che uno dei
tre ministri, strenuamente spalleggiato
dagli altri due, cominciò ad evocare
i foschi e romanzeschi ricordi
delle Corti medioevali e delle passate tirannie:
storie macabre e complicate di
ratti, di soppressioni, di sicari e di veleni,
tutt'un romanzo indiavolato che andava
da Lucrezia Borgia alla Maschera di
Ferro.
I dodici ministri costituzionali insorsero
allora come un sol uomo contro
l'autocrazia delle tre Eccellenze d'Estrema
Sinistra.
— Forcaioli! Siete dei vili reazionarii!
— gridavano i ministri monarchici
— E voi siete dei demagoghi! — urlavano
gli altri, i socialisti.— Siete i ciarlatani
della libertà. Bisogna anzitutto difendere
il Re, proteggere le istituzioni.
Tutti i mezzi sono buoni.
— Voi tornate alla forca, al sìcario, al
veleno!
E voi vi scamiciate in piazza! Finirete
con la rivoluzione a questo modo!
Nella foga della discussione, persino
il ministro dell'Istruzione aveva aggiunto
un verbo al suo avverbio e il dotto filologo
gridava, in piedi su una sedia e
agilando le braccia come un ossesso:
— Discutiarno calmamente! Discutiamo
calmamente!
La parola della concordia, dopo una
buona mezz'ora di discussione e di tempesta,
fu riportata finalmente dal presidente
del Consiglio che silenziosamente
aveva assistito al commovente spettacolo
della perfetta armonia di quella concentrazione
dei partiti democratici ch'egli
aveva operata col suo terzo Ministero,
dopo avere invano tentato altre concentrazioni
coi suoi Ministeri precedenti. Silenziosamente,
ho detto, e forse dormendo,
poichè avveniva al presidente del
Consiglio, nella sala del Consiglio dei ministri
che gli avveniva ogni giorno
al Congresso: era in lui un effetto immancabile,
che non appena sentiva discutere,
cominciava immediatamente a dormire.
Almeno aveva le braccia conserte,
gli occhi chiusi, il grosso labbro inferiore
rilasciato, il mento abbandonato sul petto,
tutto l'atteggiamento abituale
del suo attuale letargo durante le più fiere orazioni
parlamentari. Era la prova d'una coscienza
tranquilla d'uomo pratico che
sa che solo i fatti e non le parole contano, d'un
capo di governo che poteva liberamente
lasciar dire chè tanto lui sapeva sempre,
destandosi, come doveva fare per avere il
voto unanime e costante della sua schiacciante
maggioranza. Si destò finalmente
e col suo tranquillo sorriso argomentò:
— Onorandissimi colleghi, io v'invito
vivarnente alla calma. Lo scambio delle
idee fra voi è stato oramai ampio e completo.
Ora possiamo decidere. Il marchese
d'Aprè, che rappresenta qui Sua
Maestà, ha posto assai chiaramente il problema,
e, venendo da lui, possiamo esser
certi che questo solo problema interessa
Sua Maestà. Poichè abbiamo veduto
la impossìbilità assoluta in cui si
trova Sua Maestà di riparare l'ingiuria
subita, bisogna evitare prima di tutto che
lo spiacevole fatto possa ripetersi e allontanare
inoltre da Sua Maestà la persona
del suo offensore. Per raggiungere questo
scopo una via ci deve essere.
— Si tratta di trovarla, — spiegò il
ministro delle Comunicazioni che fino allora
non aveva aperto bocca.
— Semplicemente! — annuì il dotto filologo
— Pensiamo! Pensiamo! — opinarono
contemporaneamente, con fiero cipiglio,
i due ministri militari che, come si conviene
in un paese libero alle più moderne
riforme, erano la condanna vivente della
superstizione delle competenze ed erano
ambedue borghesi: ex-agente di cambio
il ministro della Marina e ex-professore
di filosofia nei licei regi il ministro
della Guerra, entrato nella vita politica
grazie ad una fervida propaganda antimilitarista
che gli aveva fatto perdere il
posto d'insegnante e guadagnare quello
di ministro della Guerra. Poichè era evidente
che se nell'esercito tutto era da riformare,
il ministro meglio indicato per
le riforme era l'apostolo antimilitarista
che del militarismo aveva istruito minuziosamente
il processo.
Invitati a pensare dai loro due colleghi
per cosi dire militari, i ministri si raccolsero
in meditazione. E quando un ministro
si mette a pensare e a meditare,
non si sa mai quando lo scherzo potrà
finire: lo sanno i deputati che proponendo
al Governo un'utile riforma si senton
rispondere che il ministro sta studiando
su quella materia un disegno di
legge. La cerimonia durava già da una
diecina di minuti e già due ministri dei
più attempati, esausti da quella levataccia
cosi di buon'ora, cominciavano a russare,
quando un gran colpo destò i dormienti
e i cogitabondi. Era il presidente
del Consiglio che con un gran colpo sul
tavolino annunziava la nascita impreveduta
ed improvvisa d'una grande idea.
— Ho trovato! — gridò.
Fu evidentemente una grande consolazione
per tutti quelli altri poveri diavoli
che si affaticavano a cercare, a costo
d'una meningite per un eccessivo esercizio
cerebrate cui non erano naturalmente
abituati. L'opinione di tutti fu sintetizzata
dal solito filologo con uno dei suoi
soliti avverbii:
— Fortunatamente!
— Ho trovato! — ripetè il presidente
del Consiglio che prima di persuadere gli
altri provava il bisogno di persuadere addirittura
sè stesso d'aver potuto trovare
qualche cosa.
E col gesto indicava il ministro degli
Esteri, dignitoso e pettoruto, dalla bocca
ermeticamente chiusa come se aprendola
potessero scapparne fuori i segreti
di tutte le cancellerie europee.
Il ministro degli Esteri, atterrito all'idea
che il presidente del Consiglio non
avesse trovato di meglio che far risolvere
il problema da lui, si grattò le onorate e
brizzolate basette e il labbro glabro e
con un fil di voce domandò:
— Io?
— Si, proprio lei.
Il viso del povero ministro degli Esteri
si disfece. Ma fortunatamente il presidente
già spiegava:
— Non è il duca don Alvaro di Frondosa
ministro plenipotenziario a disposizione
del Ministero?
— Per l'appunto.
— Ebbene, bisogna sùbito richiamarlo
in servizio. Cosi tutto è accomodato. È
semplicissimo. Mi sono spiegato?
— Chiaramente.
Era l'inevitabile filologo. Ma il ministro
degli Esteri, che, rinsanguato, cominciava
a riprendere i suoi colori, rispondeva:
— Richiamarlo in servizio è presto detto.
Ma comunicherò ai miei colleghi, poichè
ho l'onore d'esser ministro degli
Esteri da diversi anni, che egli fu messo
a disposizione appunto sotto la mia amministrazione.
Il duca di Frondosa sarebbe
un diplomatico di primissimo ordine:
gran nome, grande fortuna, riceve
moltissimo, ha bellissimi cavalli, è elegantissimo,
ha una bellissima signora....
e, per un diplomatico, le grazie della sua
metà fanno valere il doppio il suo talento.
Ma il duca di Frondosa è un uomo
di carattere fermo e risoluto. È sembrato
spesso impetuoso e impulsivo perchè
era coerente. Ma loro tutti m'insegnano
che in politica estera le due cose si confondono
e che la coerenza di un diplomatico
non e meno pericolosa della sua
impulsività per il paese che egli rappresenta.
— Perfettamente! — commentò il filologo
che di avverbi ne consumava molti
ma, per quanto filologo, ne aveva pochi,
ed era perciò costretto a ricorrere sovente
agli stessi, aggravando anche pia la
monotonia delle sue interruzioni concise:
— Già tre volte, lor signori lo sanno,
— riprese il ministro degli Esteri, — già
tre volte il duca di Frondosa ci mise
in gravissimi imbarazzi, a Lisbona, a Pietroburgo,
a Madrid. Anzi, l'ultima volta,
la sua coerenza fu addirittura sul punto
di far scoppiare la guerra; e fu proprio
dopo questo gravissimo incidente che, per
una prudenza elementare, decidemmo di
rinunziare ai suoi servizi, di richiamarlo
e di tenerlo, vita natural durante, indisponibilmente
a disposizione del Ministero.
Il presidente del Consiglio era uomo
di poche parole, e, una volta che s'era
deciso a una cosa, nulla più poteva rimuoverlo.
Talchè alla bella orazione del
suo collega degli Esteri egli rispose semplicemente:
— Tutto ciò sta bene. Ma guardiamoci
anche noi dai pericoli della coerenza. Sarebbe
ingenuo, e però eminentemente antipolitico,
non riparare a un danno certo
per paura d'un danno ipotetico. Ora conviene
richiamarlo in servizio e dargli
un'ambasciata. Non c'è altra via per uscire
da quest'impiccio. La volontà di Sua
Maestà è esplicita su questo punto: per
dire le cose col loro vero nome permettetemi
di affermare che Sua Maestà non
se lo vuole, insomnia, trovare più tra i
piedi.
Il ministro degli Esteri si strinse nelle
spalle. Gli altri si strinsero attorno all'opinione
del presidente del Consiglio;
desiderosi oramai d'andare a far colazione
e stanchi d'una discussione che li aveva
letteralmente esauriti.
— Dunque, — domandò il presidente,
— si può sapere quale ambasciata è
disponibile?
— Non c'è che Zarzuelopoli.
- Ahi, ahi! — esclamò don Pedro de
Aldana grattandosi la fronte come già
vi fossero insediati tutti i grattacapi futuri.
— E se lo mandassimo invece a Londra?
O a Vienna? O a Parigi? O a Pietroburgo?
O a Washington?
Riprese la parola il ministro degli Esteri.
Per varie ragioni nessuno degli ambasciatori
che occupavano quelle residenze
poteva essere mosso. Uno era un antico
ministro degli Esteri cui era stata
promessa. Parigi a vita, un altro era graditissimo
al sovrano della nazione presso
la quale era accreditato, un terzo aveva
sposato una signora imparentata a
Corte nell'impero presso il quale rappresentava
il regno di Fantasia, un quarto
era coperto di debiti e solo l'immunità
diplomatica poteva salvarlo da un fallimento
sicuro. Non c'era dunque che Zarzuelopoli,
dove il vecchio ambasciatore
aveva chiesto il collocamento a riposo.
A posti minori non c'era da pensare:
il duca di Frondosa era ministro plenipotenziario
di prima classe e li avrebbe certamente rifiutati.
— Non c'è dunque che Zarzuelopoli:
— Disogna pensarci su due volte, —
ammonì il ministro degli Esteri.
— Ci abbiamo pensato anche troppo. E
poi non c'è da scegliere. Non c'è che
Zarzuelopoli. Vada per Zarzuelopoli.
Tutti i ministri, meno tre, quello degli
Esteri e i sedicenti militari, fecero eco
alle energiche parole del loro presidente.
— Vada dunque per Zarzuelopoli!
— Irrevocabilmente! — credette necessario
di aggiungere il dotto filologo.
Il povero ministro degli Esteri sudava
freddo. L'ambasciata più delicata, più gelosa,
più pericolosa toccava a quel rompicollo
d'uomo di carattere ch'era il duca
di Frondosa. Il povero ministro, già prevedeva
le più spaventevoli complicazioni.
Se quel diavolo di Frondosa ne faceva
una delle sue! Anche i due ministri militari
erano preoccupati e cogitabondi. Il
diavolo era capace di metterci la coda e
di mandare alla guerra sul serio, in redingote
e cappello a staio, proprio l'agente
di cambio che aveva paura anche
dell'acqua dolce e il bollente antimilitarista
che aveva una crisi di nervi solo
a sentir sparare inaspettatamente una castagnola.
Ma la volontà del presidente del Consiglio
era dispotica. Aveva già preso un
foglio da decreti e già l'aveva passato al
ministro degli Esteri perchè vi scrivesse
immediatamente, di suo stesso pugno, il
decreto di nomina del duca di Frondosa,
decreto che doveva essere immediatamente
sottoposto all'augusta firma del Sovrano.
Guardavo il povero vecchio ministro
mentre scriveva. Le mani gli tremavano.
Paventava per la sua cara patria
le più terribili vicissitudini. E, consegnando
il decreto a don Pedro de Aldana,
raccomandò ancora con un fil di voce:
— Onorevoli colleghi, pensateci - ancora
una volta.
Ma già don Pedro de Aldana s'era levato,
aveva suonato un campanello e a
un giovane ufficiale di servizio aveva
chiesto di pregare Sua Maestà di volere
onorare il Consiglio dei ministri della
sua augusta e necessaria presenza. Poi
si rivolse verso di me e mi diede congedo.
— Ella può, marchese, abbandonare il
suo posto. Sua Maestà il Re viene ad
occuparlo.
Il Re infatti entrava poco dopo, ristorato
da alcune ore di sonno tranquillo,
fresco, sorridente, allegro, indossando il
più delizioso abito da mattina che mai
sarto elegantissimo abbia cucito per un
giovane re. Strinse la mano a don Pedro,
sorrise e inchinò il capo a tutti gli altri,
salutò me con un leggero cenno di mano
e sedette su la poltrona Impero che io occupavo
poco prima. Dalla comoda poltrona
di marocchino rosso dove ero tranquillamente
tornato, benevolo spettatore,
dopo aver anch'io recitato la mia breve
parte in commedia, vidi il mio regale amico
trarre dalla tasca posteriore del suo
pantalone il portasigarette dorato da cui
prese una sottile sigaretta bionda che accese
ad un fiammifero offertogli con sussiego
dal presidente del Consiglio. Immediatamente,
dopo aver scambiato poche
parole indifferenti coi ministri su la
bella giornata che si annunziava dal cielo
limpidamente sereno, prese la penna e
incominciò a firmare con la sua grossa
scrittura diritta il pacco di decreti che
don Pedro aveva rispettosamente posto
d'innanzi a lui. Quando, dopo altri venti
decreti, gli capitò davanti quello che riguardava
don Alvaro e che il primo ministro
aveva delicatamente insinuato tra
gli altri, Sua Maestà lo scorse rapidamente
e lo firmò sera muovere ciglio,
con un'ombra appena di sorriso che poteva
sfuggire agli altri ma che non sfuggiva
a me.
Il Re si levò sùbito dopo, mentre i ministri
lo imitavano. M'ero levato anch'io
e il caso m'aveva posto vicino al ministro
della Guerra antimilitarista, che s'era avvicinato
al presidente del Consiglio.
— Io non mi sono opposto, — disse il
ministro della Guerra — non mi sono opposto
alla nomina di don Alvaro di Frondosa
a Zarzuelopoli perchè conosco il
vostro senno e sono sicuro che voi avrete
già pensato a chiedere al Congresso i
crediti per le nuove spese militari. Non
si fa la guerra senza un esercito forte.
Con mio rammarico perdetti la risposta
del presidente del Consiglio poichè
proprio in quel punto, mentre i ministri
raccoglievano le loro carte e i loro cappelli
a staio, Sua Maestà mi chiamava
e mi manifestava con due parole succinte
il suo compiacimento nel vedere che la
difficile situazione era stata delicatamente
spianata.
— La soluzione, infatti, è un po' delicata,
— risposi ricordando le parole del
ministro degli Esteri.
Sua Maestà, che è molto intelligente,
capì tutto in un batter d'occhi.
— Capisco. C'è il pericolo d'una nuova
Iliade in pieno secolo ventesimo. Vuol
dire che in tal caso lei ne detterà il poema.
Il mio regale amico alludeva alle mie
lontane velleità letterarie.
— Non potrei tutt'al più che scrivere
in prosa, Maestà, — risposi sorridendo
con umiltà di prosatore.
— Scusi, — rispose il re che è sempre
pieno di spirito, — quel decreto è scritto
in prosa ma, francamente, vale un
poema....
Osservai in quel punto, volgendomi, che
tutti i ministri s'erano radunati verso la
finestra da dove potevano scorgere, esposti
alla luce, la regale guancia e lo storico
segno di cravache. Ma tutto era
scoparso sotto un po' di cipria rosea,
poichè, come c'insegna il Vangelo, torna
alla cipria ciò che dalla cipria è venuto.
E cosi Rolando secondo....
La sproporzione costante fra le piccole
cause e i grandi effetti è, nella roulette
del destino, il fortunato en plein del colpo
felice. L'ingenua malinconia degli antichi
raffigurava il destino sotto forme tragiche
e misteriose, avvolgendolo nelle oscure
e impenetrabili nebbie della fatalità
posta dagli Dei severi a supremo tribunale
delle colpe e degli errori umani. Il
giocondo scetticismo dei moderni veste il
mistero delle combinazioni di più chiari
e freschi colori e fa del destino un indifferente
croupier il quale paga od incassa
secondo il capriccio d'una pallina
governata da due sole leggi fisiche: la
legge del movimento e la legge della gravitazione
universale. Agli oracoli ambigui
che una volta profetizzavano il destino
degli uomini noi abbiamo oggi sostituito
il calcolo delle probabilità, la regola matematica
delle martingale. E in questo
giuoco leggero ci assistono con leggerezza
gli Dei profani e mondani d'un tempo
che e venuto a patti anche con la divinità.
Mentre la tragedia antica aveva negli
Dei gli invisibili architetti delle sue linee,
la commedia moderna riconosce negli Dei
garbati e bonari i più cordiali spettatori.
Su la scena della Grecia antica solo
gli Dei agivano e gli uomini, raccolti nell'anfiteatro
della vita terrestre, subivano
senza comprenderli i contraccolpi di
quelle loro azioni misteriose. Su la scena
d'un regno come quello della modernissima
Fantasia solo gli uomini agiscono,
e gli Dei, seduti nei fauteuils d'orchestre
della vita di tutti i giorni, seguono senza
indignarsene le accorte combinazioni
di quelle loro azioni realistiche e precise.
In fondo, spettatori senza cattiveria, gli
Dei si divertono alle nostre commedie,
e, quando queste più imprevedutamente
si complicano, volentieri essi batterebbero
le mani, se questo gesto plebeo da claqueurs
potesse accordarsi con la necessaria
dignità che non puo scompagnarsi
mai da personaggi divini, anche se posti,
almeno provvisoriamente, in disponibilità
in seguito alla sfrenata concorrenza che
gli Dei di tutti gli Olimpi terrestri hanno
fatta agli Dei dell'Olimpo maggiore. Un
poeta avendo avvertito un giorno gli uomini
(Les Dieux s'en vont....) alcuni uomini
credettero di doversi affrettare a
prendere i loro posti. C'è oramai una tal
ressa da per tutto e un tale culto universale
delle incompetenze che un uomo il
quale abbia bisogno di collocarsi pone
ugualmente la sua candidatura così a un
seggio mell'Olimpo come a un posto di
portinaio. Ma gli Dei, che non avevano
intenzione d'andarsene, ritornarono: il
poeta aveva, nella fretta, scambiato per
una partenza quella che non era altro
che una passeggiata per isgranchire le
gambe. Ritornarono. E poichè non trovarono
più i loro posti, occupati oramai
da uomini politici e da giornalisti in voga,
da avvocati di grido e da tenori di
cartello, da giuocolieri di circo equestre
e da segretari delle Camere del Lavoro,
gli Dei espulsi rimasero così, fuori organico,
in soprannumero.
Tra le piacevoli commedie alle quali,
procul nègotiis divini, è stato loro da
noi concesso d'assistere, nessuna dove
avere divertito il loro spirito, indulgente
e beffardo insieme, più di quella che sul
palcoscenico del regno di Fantasia ebbe,
quando sembrava esaurita, una di quelle
riprese d'interesse, una di quelle complicazioni
di situazione che sono il segreto
dei commediografi veramente esperti nell'arte
dei colpi di scena. La sera stessa
del Consiglio di ministri antelucano due
righe in testa alle «Informazioni» dei
giornali di Effemeris annunziarono al popolo
di Fantasia che Sua Eccellenza il duca
don Alvaro di Frondosa, ministro plenipotenziario
a disposizione, era stato nominato
ministro plenipotenziario a Zarzuelopoli,
e che dentro brevissimi giorni
l'illustre diplomatico, accompagnato dalla
duchessa, avrebbe raggiunto la sua nuova
residenza. I più pacifici borghesi di Fantasia,
perfino i membri più autorevoli
delle leghe propagandiste per il raggiungimento
e il mantenimento della pace universale,
letta quella notizia, dormirono
ugualmente quella notte i loro sonni tranquilli.
Io solo ebbi, nella mia notte, qualche
agitazione. Ma nel breve periodo
della mia carriera m'ero sentito dire più
volte che io avevo la sensibilità diplomatica:
sensibilità specialissima che consiste
nell'udire le parole che non si dicono
e nell'avvertire i gesti che non si
fanno. La sensibilità diplomatica è come
un sismografo intuitivo, il quale registrerebbe
una scossa di terremoto sei mesi
prima del più leggero moto tellurico. Così
quella notte io previdi — profetica anima
mia! — quello che sei mesi dopo tutti
dovevano proclamare assolutamente imprevedibile.
Previdi, cioè, la guerra. La
guerra solamente. Ci fu, come si vedrà,
ben altro. Ma il mio sismografo, giunse
fin lì, poichè v'è un imprevedibile e un
imprevisto anche per i previdenti, e anche
per i profeti il futuro ha le sue pagine chiuse.
Di natura modesto e sempre pronto a
riconoscere col mio anche il merito degli
altri, devo convenire che non fui in
realtà io solo a prevedere la guerra. Anche
i ministri militari, e perfino il ministro
degli Esteri, previdero che la politica
estera di Fantasia era sul punto di guastarsi
dal momento che il duca di Frondosa,
uomo logico e uomo di carattere,
ci metteva sventuratamente le mani. Con
la sua logica e col suo carattere il duca
di Frondosa si trovava a dover proprio
dirigere i rapporti tra Fantasia e Silistria,
rapporti che erano quanto mai illogici
e senza carattere poichè a furia di averne
troppi non ne avevano più nessuno.
Non aveva, il duca, raggiunto da un mese
la sua residenza e presentato al Sovrano
di Silistria le sue credenziali che già
il castello di carte dell'amicizia politica
fra i due stati confinanti cominciava a
traballare su le sue esili fondamenta. Sei
mesi dopo il castello intero era a terra.
Aveva creduto, il duca di Frondosa, che
amicizia politica volesse e dovesse significare
scambio reciproco di procedimenti
amichevoli; aveva creduto che il riconoscimento
del dovere e la rivendicazione
del diritto non dovessero essere il primo
tutto da una parte e la seconda tutta
dall'altra; aveva creduto che non fosse
quello di lasciarsi intimidire il miglior
sistema per non essere intimiditi; aveva
creduto; infine, che intendersi non dovesse
significare la coniugazione del verbo
pretendere da una parte sola della
contesa frontiera; aveva creduto sopratutto
che la sua missione fosse quella
di fare ad ogni costo rispettare il suo
paese e non quella di rispettare ad ogni
prezzo il paese altrui: credeva, il duca
di Frondosa, tutte queste sciocchezze e
molte altre ancora. E poichè quando credeva
a qualche cosa il duca aveva la
perniciosa abitudine di crederci veramente,
di passo in passo, di negoziato in
negoziato, di nota in nota, si trovò un
bel giorno d'innanzi alla nota da liquidare
della più dispendiosa fra tutte le rotture:
la rottura diplomatica.
In tempi di questi più leggiadri non
sempre la rottura diplomatica era sinonimo
di dichiarazione di guerra. Ma erano
quelli i tempi sanguinari e medioevali
quando ancora il mite spirito degli
uomini non aveva cristianamente parlato
di pace universale, quando ancora la conferenza
internazionale dell'Aja non era
stata inventata per mettere ogni cinque
minuti l'Aja nell'imbarazzo a dover scegliere
tra la pace e la guerra. Ora i tempi
sono mutati e lo spirito di contraddizione,
il quale a il solo in cui tutti gli uomini
si trovan d'accordo, non può che rendere
inevitabile la guerra quando tutti proclamano
desiderabile la pace. Come nel
duello fra due gentiluomini pacifici i
quattro secondi fanno sovente battere due primi i
quali preferirebbero un processo
verbale di reciproche scuse, così
nella guerra due nazioni che non si vorrebbero
torcere un capello hanno le nazioni
amiche che le rappresentano per
sospingerle per forza su quel campo di
battaglia dove per amore non si sarebbero
mai fatte vedere. Poichè è provato
che quando gli amici intervengono per
comporre un incidente questo incidente
entra veramente in una fase d'estrema
gravità, è ugualmente evidente che la
guerra fra Fantasia e Silistria era decisa
dal momento istesso in cui le Cancellerie
amiche dell'una e dell'altra parte si mettevano
in mezzo per far da pacieri. Ho
già raccontato, al principio di queste memorie,
la proclamazione della guerra di
Fantasia e la partenza delle prime truppe
mobilitate. Ho anche detto come Sua
Maestà Rolando II non avesse nessuna
parte attiva in questa prima fase della
guerra, costretto a rimanersene disteso
d'un tappeto mal cucito in
cui il piede regale era andato malauguratamente
ad inciampare. Ho già detto anche
come il popolo di Fantasia si avviasse
alla suprema prova della guerra con
spensierata festevolezza. Ora riprendo il
racconto, per chiuderlo, là dove l'avevo
incominciato, da quel primo capitolo,
cioè, in cui aleggia il ricordo offenbachiano
della Belle Héléne e al quale faranno
bene a ritornare le memorie labili
in cui le parole di questi miei «documenti»
non si fossero incise con indelebili
segni.
Una risata omerica senza una troppo
facile all'Iliade — dovette accogliere,
da parte degli Dei onnipresenti,
l'incontro fra Sua Maestà e me all'indomani
della proclamazione di guerra, quando
il giovane Sovrano, disteso sopra un
canapè, con una mano occupata a sfogliare
un fascicolo della Vie Heureuse e
con un dito dell'altra impiegato a scuoter
la cenere della più sottile sigaretta
russa, sorrise allegramente vedendomi entrare
e mi disse con l'aria più serena
di questo mondo : «Gliel'avevo detto io,
d'Apre? Siamo alla guerra». Il ricordo
omerico seguì quell'esclamazione. «E vede?
Per una donna. Come nell'Iliade».
Ed io, non per ironia ma per disdegno
dell'alta cultura, aggiunsi con un mite
sorriso: «E come nella Belle Hélène».
Ma, il ricordo offenbachiano non parve
irriverente a Sua Maestà pur se messo
lì a due passi dal suo ricordo omerico.
Parve, anzi, convenirgli più di questo.
«Gia, esclamò infatti, anche meglio: come
nella Belle Hélène». Non bisogna giudicare
da questo Rolando II troppo severamente:
non era irriverenza. Non bisogna
neppure giudicarlo troppo ottimisticamente:
non era ironia. Era una cosa
molto più semplice: che egli aveva, cioè,
una famigliarità molto più grande con
le operate di Offenbach che non con i
poemi d'Omero.
L'ottimismo non è, come superficialmente
si crede, la dottrina filosofica
che insegna la bontà delle cose e degli uomini.
L'ottimismo è la teoria filosofica
la quale insegna che ogni medaglia ha
due facce e che se da una la vita piange
dall'altra la vita sorride. Ogni caso umano
ha, per l'ottimista, due effetti: uno
malefico ed uno benefico; e l'arte di saper
vivere è tutta riposta nel segreto di
dar la minima importanza al maleficio e
la massima importanza al beneficio. Così
la guerra scoppiata fra Fantasia e Silistria
se minacciava di mille pericoli la
sovranità di Rolando II, se metteva su
le sue spalle abituate a pesi più leggeri
il grave pondo d'una responsabilità di
quelle in cui la caducità delle cose umane
deve fare i conti con l'immortalità e l'incancellabilità
della storia, aveva d'altra
parte una conseguenza immediata che,
nella sua letizia, aveva il potere di dissipare
tutte le più gravi preoccupazioni
del monarca come il sole ritornando nel
chiaro mattino apre con mani d'oro tutte
le nebbie d'un cielo antelucano: la guerra
aveva infatti costretto immediatamente
il duca e la duchessa di Frondosa a fare
ritorno in patria e a rioccupare il loro
palazzo nel più aristocratico quartiere di
Effemeris; La soluzione di continuità che
per sei mesi s'era prodotta eliminava la
situazione imbarazzante di dover richiamare
il duca e la duchessa a riprendere
a Corte le loro funzioni di gentiluomo e
di dama d'onore. Ma, se non era a Corte,
Isabella era ad Effemeris, e le capitali più
sono grandi più racchiudono la loro vita
mondana in un raggio di poche centinaia
metri. La guerra inoltre creava per
Rolando II mille piccole occasione d'incontrare
Isabella senza avere affatto l'aria
di cercarla. Caritatevole e sensibile,
persuasa anch'essa di essere involontariamente
la causa della guerra, poichè
una sua amabile condiscendenza avrebbe
radicalmente mutato il corso della storia
del regno di Fantasia, ella prodigava
la sua attività negli ospedali, nei comitati,
nelle organizzazioni in cui la pietà
delle donne preparava conforti e ristori
per gli uomini che si battevano alla frontiera.
Non appena la sua frattura gli
permise di far due passi senza essere
grottesco, Rolando II cominciò a visitare
anche lui ospedali, comitati e sotto-comitati.
Aveva l'aria d'interessarsi di tutto:
tornava due giorni di seguito a un
ospedale per confortare un ferito guaribile
in sette giorni senza riserva, mattina
e sera correva ad un sotto-comitato per
vedere un nuovo tipo di bottoni infrangibili
per le ghette dei soldati. I giornali
esaltavano con degne parole la patriottica
pietà del Re. La folla, all'uscita dagli
ospedali e dai comitati, lo applaudiva,
quando, compiuto il suo dovere, incontrando
la duchessa Isabella, risaliva nella
sua limousine, in cui, seduto di fronte
al suo aiutante di campo, io continuavo a
compiere le mie funzioni d'aiutante di
camera. Di tanta gloria regale io, imperturbabile,
non sorridevo. M'interessavo
invece al ferito guaribile in sette giorni
e alla scatola di bottoni infrangibili con
quella gravità e quella compunzione che
fra noi dovevan servire a salvare apparentemente
le apparenze.
Il primo incontro fra la duchessa di
Frondosa reduce da Zarzuelopoli e Rolando II
reduce dalla sua frattura avvenne
nella sala operatoria d'un ospedale,
mentre un esercito di dottori informava
Sua Maestà di tutt'i particolari d'una perfetta
organizzazione sapientemente raggiunta.
Un gruppo di dame era in un
angolo della sala, ed io avevo già scoperto
in quel gruppo il visino arguto
della duchessa Isabella che da lontano,
quietamente, mi sorrideva. Il Re ascoltava
le spiegazioni dei medici come in
quel periodo egli era solito ascoltare: con
gli orecchi zelantemente offerti ai suoi
interlocutori, ma con gli occhi altrove.
Ricordo anzi che un insigne medico col
quale Sua Maestà aveva lungamente conferito
e che avvicinava Sua Maestà per
la prima volta, ritenendo opportuno di
comunicare a me le sue impression su
l'incontro regale, esclamò: «Sua Maestà
è molto affabile. Ma ha, se posso osare
di segnalare questo piccolo difetto, ha
il difetto di non guardarvi mai in faccia
quando vi parla. Sembra che i suoi occhi
vi sfuggano».
Sfuggivano, sì. E cercavano. Cercavano
e finalmente trovarono. Lo vidi diventar
tutto rosso, poichè aveva ancora l'ingenuità
giovanile di colorirsi il viso con
le sue emozioni. Al primo momento ebbe
una breve incertezza e si volse a me con
lo sguardo come per domandarmi: «È
lei?» Con un impercettibile moto del mio
volto io risposi, dalla mia impassibilità:
«Sì, Maestà, è proprio lei». Si vide allora
Rolando II interrompere a metà il
racconto d'una meravigliosa operazione,
aprirsi la strada in quella muraglia di
redingotes, di camici bianchi e d'uniformi
e muovere verso il gruppo delle dame
che sùbito s'apri a scoprire la duchessa
di Frondosa come se tutte le altre diciannove
dame sapessero che tra venti Sua
Maestà non poteva desiderare d'avvicinarsi
che a quella.
Non appena fu giunto presso la duchessa
e non appena le ebbe baciato la
mano, con una rapida occhiata chiamò
me in suo soccorso. Abituato a intendere
i suoi desideri senza che questi avessero
mai bisogno d'essere formulati, capii che
Sua Maestà chiedeva a me di reggere e
dirigere la conversazione: il che non era
evidentemente protocollare, ma il protocollo
non prevede il caso in cui un re
debba trovarsi a riconversare per la prima
volta con una dama dal cui marito
egli abbia ricevuto un energico richiamo
alla limitazione dei poteri regali. Le altre
dame avevano intanto fatto circolo attorno
a noi tre. Rolando II aveva, con
un saluto collettivo, risposto all'ossequiosa
riverenza delle altre signore. Ed ora,
estatico, silenzioso, ascoltava me che parlavo
e guardava Isabella che taceva. Era
irrequieto su le gambe nervosamente tese
e distese, come sempre gli accadeva di
fare quando era molto contento. Ad un
tratto lo vidi riaccendersi in volto, erigersi
su le gambe tese ed immobili: segno
evidente che la contentezza di Sua
Maestà aveva avuto una brusca fermata.
Seguii con lo sguardo e vidi, dalla porta
ch'era dietro le spalle della duchessa
di Frondosa e proprio di fronte al Re;
apparire l'elegante e sorridente figura del
duca don Alvaro. Era ormai troppo tardi
per tornare indietro, e l'infallibile signorilità
del gentiluomo sentì ch'era assolutamente
il caso d'andare avanti, d'avvicinarsi
alla duchessa, d'inchinarsi a Sua
Maestà e di stringere rispettosamente la
mano leggermente agitata che Sua Maestà,
desolata di non poterne fare a meno, gli
tendeva con regale urbanità. Ma per evitare
di dar la mano due volte Sua Maestà
volle che quel saluto fosse anche la
fine della conversazione, di modo che una
sola stretta di mano potesse servire così
per l'incontro come per la separazione.
Baciò la mano della duchessa, s'inchinò
di nuovo alle altre dame e, tornato
fra i medici, lasciò che il suo interlocutore,
riprendesse il suo racconto senza
neppur pensare, tanto era turbato, a chiedergli
scusa d'averlo interrotto. Solo osservai
che alla ripresa non prestava, il
Re, solo l'attenzione degli orecchi ma anche
quella degli occhi, poichè d'incontrare
lo sguardo del duca di Frondosa non
sentiva, povero re, niente affatto il bisogno.
Aveva, però, il bisogno di sfogarsi e
di manifestare il suo malumore. Difatti,
non appena usciti dall'ospedale e non appena
seduti nella limousine tra la folla
che acclamava, Rolando II si volse a me
di scatto ed esclamò: «II mio trisavolo
avrebbe potuto far tagliare a quell'uomo
la testa. Io devo invece stringergli la
mano». Osservai che purtroppo i tempi
erano mutati e che non sempre mutamento
è sinonimo di miglioramento. E
mentre, inchinando il capo a destra e a
sinistra, rispondeva agli applausi del suo
popolo, Sua Maestà sospirò con profonda
nostalgia d'assolutismo: «La libertà
dei popoli è la schiavitù dei re!»
Ma anche la schiavitù dei re ha i suoi
accomodamenti avec le Ciel. Così, a togliere
Sua Maestà dall'anfibia situazione
di dover ricercare gl'incontri con la moglie
del duca e di dover evitare quelli
con il marito della duchessa, pensò quella
benedetta abitudine di don Alvaro d'essere
e di voler essere uomo di carattere.
Poichè i suoi quarantacinque anni erano
sani e robusti quanto i venti anni di tutti
i bravi ragazzi che andavano soldati alla
frontiera, il duca don Alvaro non vide
per quale ragione questi quarantacinque
anni dovevano dispensarlo dal compiere
un dovere per l'adempimento del quale
gli avevano garbatamente lasciate fresche
e vegete tutte le facoltà. Buon cavaliere,
gli parve di poter benissimo seguire a
cavallo, come soleva fare per le caccie
alla volpe e i paper-hunt, anche le cariche
d'un bello squadrone d'usseri di
Fantasia. E poichè tra tante stravaganze
il duca aveva anche quella di non lasciare
tra il dire e il fare nessun mare di mezzo,
in mese dopo la dichiarazione di guerra,
nominato in virtù di leggi eccezionali luogotenente
degli usseri, don Alvaro partiva
per la frontiera, stretta l'elegante e ancor
giovanile persona nella bella uniforme
azzurra dalla triplice bottoniera d'argento
e dagli alamari d'oro.
Vidi allora svolgersi sotto i miei occhi,
nel tranquillo andamento delle cose solite,
tutt'un tenebroso dramma d'amore
e di vendetta. Saputo che il duca di Frondosa
aveva chiesto l'onore di servire nell'esercito
di Fantasia, chiamato a palazzo
il ministro della Guerra, Sua Maestà lo
pregò di non ostacolare in alcun modo
il desiderio nobilmente patriottico e veramente
esemplare del duca, di dargli
anti corso il più rapidamente possibile e
magari anche, se fosse stato necessario,
un corso forzoso, con la creazione impromptue
di qualche disposizione o di
qualche legge eccezionale atta a far sì che
il duca potesse dare per l'amata patria
il suo sangue come lo dànno gli eroi:
senza badare ai pericoli. Poichè è oramai
stabilito dal destino che, finchè vivrà
Rolando II o colui che fu Rolando II e
finchè io avrò l'onore d'essergli amico
toccheranno a me tutte le situazioni difficili,
fu anche questa volta affidato alla
mia sapiente arte diplomatica l'arduo
còmpito di preparare il delitto senza aver
l'aria che nessuno volesse commetterlo.
Avendo infatti il ministro della Guerra,
dopo ricevuti gli ordini di Sua Maestà
fatto sapere a Sua Maestà d'essere molto
perplesso poichè quegli ordini avevano
qualche penombra in cui era necessario
portare un po' di luce, io fui mandato
dal ministro per vedere di quali penombre
potesse mai esser questione. Le perplessità
del ministro furono con me, naturalmente,
molto meno perplesse. Difatti,
dopo un breve preambolo in cui la
circonlocuzione fu ancora in onore, il
ministro della Guerra mi si piantò davanti
con l'imponenza d'un esercito intero
e in termini espliciti domandò: «Deve
insomma il duca di Frondosa morire
come tutti noi soldati per la grandezza
della Patria o deve solamente aver l'aria
di voler morire?» Poichè mi vedevo d'innanzi,
a parlare intrepidamente di morte,
quell'omettino lindo e pinto nella più pacifica
redingote io risposi di non saper
che rispondere: non sapevo infatti di che
morte il ministro della Guerra volesse
parlare e non potevo quindi che riferire
a Sua Maestà il dubbio espostomi così
drammaticamente dal suo ministro. Riaccompagnandomi
alla porta del suo gabinetto
il ministro della Guerra approvò la
mia proposta sospensiva. «Bisogna prima
conoscere chiaramente attraverso gli
ordini di Sua Maestà le intenzioni del
duca di Frondosa, chè, mio caro Marchese,
io ministro della Guerra vedo tutt'i
giorni che altro è parlar di morte altro
è morire». E lo vidi quel giorno anch'io,
guardandolo.
La perifrasi, la metafora, la circonlocuzione,
tutte le forme rettoriche per cui
l'arte di dire è quella di non dire, furono
con infallibile istinto adoperate da Sua
Maestà, quando, quella stessa sera, si trovò
a dover rispondere al dubbio esposto
per mio mezzo dal ministro della Guerra.
Se è vero, come Machiavelli affermava,
che la parola è data all'uomo per nascondere
il pensiero, Sua Maestà doveva avere
in fatto di parole un inestimabile patrimonio
tanto alla fine del nostro lungo
discorso il suo pensiero mi apparve meravigliosamente
nascosto. Ma un confidente
perfetto sa cercare e trovare sopratutto
nei nascondigli. Si stabilisce così tra
il confidente intelligente e colui che si
confida con cautela una specie di giuoco
che assai in onore tra le fanciulle borghesi
nei lunghi pomeriggi di villeggiatura.
Il confidente, che deve penetrare la segreta
intenzione d'un lungo discorso che
gli è stato confidato, comincia a esporre
con garbo e con ordine tutte le più varie
interpretazioni che al misterioso discorso
si possono dare. Il sorriso di colui che
s'è confidato avverte il confidente se si
avvicinta al pensiero nascosto o se ne allontana.
Il volto di colui che s'è confidato
si oscura? Acqua, acqua, ci si allontana.
Il volto di colui che s'è confidato s'illumina?
Fuoco, fuoco, ci si avvicina.
— Ho inteso benissimo, — dissi infatti, —
le intenzioni di Vostra Maestà le quali
evidentemente non sono che le intenzioni
del duca di Frondosa, principale interessato
nell'interessante problema che ci
preoccupa. Evidentemente al desiderio di
don Alvaro di Frondosa si può rispondere
in tre modi: prendendolo alla lettera,
avendo l'aria di prenderlo ma non prendendolo
assolutamente alla lettera o, finalmente,
non avendo l'aria di prenderlo e
non prendendolo affatto alla lettera. Cominciamo
da questa terza ipotesi. Sua
Eccellenza il ministro mostra d'interessarsi
alla domanda del duca e dopo avere
lungamente studiato il problema ringrazia
il duca della patriottica offerta e promette
di tenerla presente alla prima occasione,
a quella prima occasione che
appunto perchè è la prima, timida com'è,
non si presenta mai. (Volto nero di Sua
Maestà: acqua acqua..) È evidente che
questa ipotesi è immediatamente da scartarsi.
Il duca di Frondosa non è uomo
da offrire col desiderio segreto che l'offerta
non venga accettata. La seconda
ipotesi è più temperata: presuppone da
parte del duca la sincerità dell'offerta e
da parte del ministro l'intenzione di non
accettarla o almeno di non accettarla così
come il duca la presenta. In altri termini
il ministro della Guerra potrebbe nominare
il duca luogotenente degli usseri ma,
senza esporlo a rischi maggiori di quelli
di un'insolazione o un acquazzone, non
mandarlo alla guerra ma tenerlo alla capitale
o in un'altra qualsiasi città ad
istruire coloro che alla guerra devono
andare. (Su la faccia del re, buio profondo:
acqua acqua, non ci siamo....) Anche
questa seconda ipotesi è, senza dubbio,
da scartare. Se sbaglio, Vostra Maestà
voglia degnarsi di correggermi. (Il
Re sorride. Ci avviciniamo). Rimane la
terza ipotesi: voglio dire che il duca sia
nominato luogotenente degli usseri e mandato
a combattere dove e come combattono
tutti gli altri luogotenenti degli usseri.
(Il Re sorride ancora di più. Ci
avviciniamo sempre più). È l'ipotesi più
logica, la soluzione del problema più consigliabile.
Non risponde alla dignità del
duca prestarsi ad una specie di mascheratura
militare, a un travestimento da eroe,
ma da eroe di guarnigione. E c'è di più:
la personalità eminente del duca farà del
suo volontariato militare un esempio che
sarà mònito, consiglio, stimolo per tanti
altri. Ma quale stimolo, quale consiglio,
quale mònito sarebbero nel fatto di vedere
il duca di Frondosa, in virtù di eccezionali
privilegi, aver la gloria senza il rischio,
il premio senza la virtù, l'onore senza
l'onere, in un tempo specialmente in cui
ogni privilegio è soppresso ed in cui di
fronte al pericolo della patria ogni cittadino
è uguale? (Come, come sorride
il Re! Fuoco, fuoco....) Ma c'è ancora di
più. Non è il duca di Frondosa l'uomo
che ha creduto necessario al decoro e all'avvenire
del regno di Fantasia la guerra
che oggi il regno di Fantasia così valorosamente
combatte? Converrebbe, dopo
tutto questo, converrebbe al duca di
rimanere indietro e d'aver fatto la guerra
con la carta quando gli altri la fanno,
per lui, con le armi? Io non lo credo.
(Il Re sorride). Credo che convenga al
duca andare, come soldato, avanti....
Re sorride ancor più....) Molto avanti....
(Il Re è tutt'una festa di sorrisi). Anzi,
quanto più avanti è possibile.... (II sorriso
del Re è infinito. Fuoco, fuoco, fuoco....
Ci siamo!) Quindi, se Vostra Maestà
non giudica errate le mie conclusioni,
io riferirò queste conclusioni a Sua Eccellenza
il ministro della Guerra il quale
non attende che gli ordini di Vostra Maestà
per operare immediatamente in conseguenza.
Presi fiato, finalmente. Di fronte a me,
fumando, Rolando II continuava a sorridere,
a sorridere, a sorridere.... Sentii
che m'adorava.
— Mio caro d'Aprè, — disse finalmente,
— io non avevo il coraggio di essere così
inesorabilmente logico. Si espone risolutamente
la vita collettiva d'un esercito
quando ciò sia necessario, ma è duro al
cuore esporre, deliberatamente, la vita
d'un uomo, d'un singolo soldato. Lei ha
avuto la forza di dire quello che io non
osavo neppure pensare. Me ne rimetto
alla sua saggezza. Faccia lei.
E mi rimise così, tranquillamente, anche
la responsabilità ed il rimorso. Mi
parve in quel punto che, fra tutti i mestieri
che l'amicizia di Rolando II mi
aveva affidati, ci fosse da quel momento
anche quello del sicario. Ma il mandatario
che non vuol fallire il colpo non lascia
all'arbitrio del sicario lo svolgimento
dell'agguato. Ne intesse egli stesso la fila.
Così Rolando II concluse:
— Solo mi permetto di farle notare che
non si può mandare il duca a comandare
un plotone come un luogotenente di carriera.
Occorre trovargli un posto adeguato
ai suoi meriti e più rispondente
all'autorità della sua persona. Il maresciallo
Paolo de Gonzales è senza aiutante
di campo. Il duca di Frondosa farebbe,
io credo, al caso suo.
Mi giudichino i contemporanei come
più tardi mi giudicherà la storia. Levandomi
su quel consiglio ch'era un ordine
non battei ciglio, tanto il senso della criminalità
era ottenebrato nel mio spirito
dall'impersonalità curiosa dello spettatore.
Sul momento agii. Non fu che dopo,
uscendo nuovamente dal gabinetto del ministro
della Guerra, che avvertii dentro
di me un sordo logorìo di rimorso in
minore, di rimorso sottovoce, il rimorso
del complice. Poichè il maresciallo Paolo
de Gonzales aveva il comando delle
truppe più esposte alla furia delle armi
asturiane e poichè già due suoi aiutanti
di campo avevamo avuto morte gloriosa
per portare sotto il fuoco delle mitragliatrici
nemiche ordini agli estremi avamposti,
era quasi matematicamente certo
che il duca di Frondosa partiva per non
ritornare. Nel ritrovar quella sera Rolando II
tranquillamente sorridente, sentii
sotto quella tranquillità e in quel sorriso
la bieca crudeltà degli avi lontanissimi,
autocrati e despoti, massacratori e
avvelenatori. Sentivo che quel sorriso
vendicava, sette od otto mesi dopo, l'offesa
d'un colpo di cravache che sembrava
dileguato sott'un po' di cipria rosea e che
ora invece chiedeva, per essere cancellato,
il rosso sangue della vita d'un uomo.
Un ultimo senso di pietà parlò nell'anima
del complice e dissi a Sua Maestà
la mia angoscia:
— Credo, Maestà, il duca di Frondosa
troppo esposto. Il maresciallo Paolo de
Gonzales è un rompicollo. Dov'è lui si
muore.
— Ma dove è lui si vince, — ribattè
il Re, sorridendo. — Legga i «comunicati».
E poichè mi vedeva silenzioso e mortificato
si levò, sorrise, mi battè su la
spalla:
— Del resto il duca di Frondosa, —
disse, — sarà veramente al suo posto.
Nel coraggio il duca è uomo prudente e
calcolatore. Accanto al maresciallo servirà
da freno. Il suo calcolo limiterà l'impeto
dell'altro. Vedrà. La presenza del
duca di Frondosa avrà questo risultato:
in quel settore si morrà molto meno e
si vincerà ugualmente.
E, per mettere definitivamente in regola
con gli Dei spettatori la sua migliore
coscienza, Rolando II concluse:
— E val la pena, del resto, d'esporre
una vita sola quando una sola può salvarne
migliaia!
Non seppi che cosa rispondere. Mi giudichi
la Storia.
Mentre aspettava di giudicarmi, la Storia
intanto elaborava le preparazioni d'un
capitolo su cui fra cinquant'anni, se ancora
non si sarà compreso che l'autodidattisino
è il solo modo per imparare
qualche cosa e non si sarà ancora deciso
d'adibire gli edificii scolastici a un più
pratico uso, gli scolari dovranno passare
lunghe ore di gravi meditazioni. Questo
capitolo della storia universale avrà nome,
allora, la rivoluzione antidinastica
di Fantasia. Se ne cercheranno le origini,
dagli Ippoliti Taine dell'epoca, nel regime,
nello svolgersi della lotta di classe,
negli eccessi del militarismo sopratutto.
Io che la rivoluzione di Fantasia l'ho
vista nascere, se oso esprimermi così,
su le mie ginocchia, posso affermare invece
che la rivoluzione di Fantasia non
ebbe origine negli eccessi del militarismo
ma sopratutto, al contrario, nel difetto
delle istituzioni militari. Tra i notevoli
difetti già rilevati in lui il duca don Alvaro
di Frondosa aveva anche quello di
credere ai discorsi che i ministri sogliono
pronunziare nei Parlamenti: difetto tanto
più deplorevole quando questa fiducia era
accordata ai discorsi che i ministri della
Guerra e della Marina, una volta all'anno,
in occasione della discussione dei rispettivi
bilanci al Congresso, pronunziavano
per assicurare alla popolazione di
Fantasia ch'essa poteva dormire pacificamente
i suoi sonni tra due guanciali,
uno del quali era il suo forte esercito e
l'altro la sua invidiabile marina. In politica
come in amore non si bada alle
promesse: l'essenziale è di raggiungere lo
scopo, lo scopo immediato, così nelle Camere
dove le leggi si fanno come in quelle
dove alle leggi si contravviene. La così
detta politica degli armamenti è, per molti
paesi, non quella di armarsi ma quella di
farsi credere armati. Senonchè, quando
la politica passa dalle parole alle azioni,
l'essenziale non è più di farsi credere
armati, ma bensì di essere armati veramente
quanto meno gli altri se l'aspettano.
Il duca di Frondosa, fidando nelle
perentorie affermazioni dei ministri incompetenti
per cui l'esercito di Fantasia,
era meravigliosamente inquadrato, equipaggiato,
preparato e ammaestrato, e per
cui la marina del medesimo regno era
in grado di sbarazzarsi in tre quarti d'ora
— appena il tempo d'una passeggiatina
in alto mare — di qualsiasi flotta avversaria,
credette possibile levar la voce per
la dignità del regno di Fantasia anche
se levar la voce dovesse voler dire andare
incontro alla guerra. Gli avvenimenti non
tardarono a provare che la perfezione
dell'esercito di Fantasia aveva molte lacune
e che tre quarti d'ora l'alto mare
erano per la flotta di Fantasia una prova
assolutamente superiore alla forza dei
suoi cannoni, che, abituati a sparare in
bianco alle grandi manovre, perseveravano
a non colpire il bersaglio come se
continuassero a sparare in bianco, anche
quando, venuta la guerra, si sparava non
a polvere ma a palle. Così, dopo appena
mezz'ora, la flotta di Fantasia dovette ritirarsi.
E le sirene, che in piu miti tempi
adescavano col loro canto i navigatori,
ora inseguivano coi loro sibili, da tutte le
navi avversarie, la bella flotta sventurata
e incompresa che si ritirava come ci si
avvia ad ogni ritirata: con la massima
fretta. Nè più liete volsero, per terra, le
sorti della guerra. Si stabilì tra l'esercito
di Fantasia e quello di Silistria una
specie di figura di quadriglia per cui ora
andava avanti l'uno e ora andava avanti
l'altro. Ma, a furia d'andare e venire, l'esercito
di Silistria era sempre un po' più
avanti e quello di Fantasia era sempre
un po' indietro. Intanto, a mano a
mano che le notizie della guerra giungevano,
prima pessimiste, poi allarmanti,
finalmente catastrofiche, il popolo di
Fantasia cominciò a rivedere le volate
liriche dei primi giorni. Per le nazioni
lo stato d'animo lirico e come una scala
molto ripida, salita troppo in fretta: ci si
ferma a metà strada, per mancanza di
fiato. Così il popolo di Fantasia, fermatosi
sul pianerottolo del senso comune,
cominciò a guardare se veramente la
guerra era necessaria e se, essendovi la
possibilità di evitarla, sovrano, governo
e diplomazia non avevano l'obbligo di
vedere il vero stato delle cose di fronte
all'eventualità della guerra prima che l'eventualità
della guerra sconvolgesse tutte
le cose dello Stato. E, poichè la saggezza
popolare e abituata a ricercare sempre
dietro le idee fallite gli uomini in fallimento,
responsabili dell'errore che trascinava
il regno di Fantasia alla disfatta
furono riconosciuti il governo, presieduto
da don Pedro de Aldana, la cricca di
Corte e la piccola banda di generali
che faceva la pioggia e il bel tempo attorno
al ministro della Guerra agente di
cambio. Queste tre responsabilità assommavano,
naturalmente, nella responsabilità
di Rolando II, il quale cominciò a diventare
rapidamente impopolare. Chè la
popolarità, con la sua coda di stelle satelliti,
non segue gli astri sconfitti che
si spengono ma gli astri vittoriosi che si
formano. Come il firmamento, l'opinione
pubblica è in continua evoluzione:
mondi antichi si spengono e mondi nuovi
si formano nel mistero delle nebulose
impenetrabili. E se l'astronomo non è
mai sicuro di ritrovar stasera nel fuoco
del suo telescopio il pulviscolo d'oro che
vi lasciò ieri sera, l'uomo pubblico non
è mai certo di ritrovar stamattina nell'anima
della folla il posto che vi occupava
ancora ieri mattina. Popolarità, il
tuo nome è fragilità!
Se gli astronomi della vita sociale fossero,
come quelli della vita siderale, provveduti
di telescopi a lunga portata, sarebbe
stato possibile avvertire, nei contraccolpi
che la guerra sfortunata aveva
sul popolo di Fantasia, i primi rombi precorritori
d'un nembo per la violenza del
quale gli avvenimenti dovevano, in breve
tempo, precipitare in tal modo che,
prima che fosse riuscito a mandare il
marito d'Isabella al fronte, Rolando II
si doveva veder costretto a raggiunger lui
la frontiera. È inutile che io ricordi il
succedersi di questi avvenimenti i quali
non sono ancora molto lontani, talchè
posso affidarne la cronologica ricostruzione
alla memoria dei lettori benigni
che hanno seguito fin qui questa veridica
storia. Non ebbe, la rivoluzione che doveva
deporre Rolando II dal trono dei
suoi avi, la grandiosità di linee di quella
che dovette proclamare i Diritti dell'Uomo.
Mancò intanto, ad essa, il patetico
elemento della deposizione e dell'esecuzione
di Maria Antonietta. Poichè Maria
Antonietta, non avendo a lodarsi della
condotta coniugale del regale consorte,
aveva già da tempo ripreso la via della
Corte paterna col pretesto d'una malattia
nervosa che consigliava alla Regina
di Fantasia un lungo periodo di assoluto
riposo morale e materiale. Mancò
anche ad essa la tragicità d'una fuga a
Varennes o d'un internamento nella Torre
del Tempio, poichè il popolo di Fantasia
non ebbe per il Re violenze d'odii
rancori e, purchè se ne andasse, lo
lasciò libero d'andare come voleva e dove
voleva. Mancò ad essa, finalmente, l'elemento
suggestivo d'un fanciullo imprigionato
e proclamato re nella prigione dai
principi emigrati, e il romanzesco d'una
morte controversa e d'una probabile sostituzione
di persone, perchè Rolando II,
così assiduamente occupato a inseguire
l'inafferrabile felicità che la duchessa di
Frondosa rappresentava per lui, aveva
completamente trascurato la necessità di
dare al suo regno un erede e alla sua
rivoluzione un Delfino.
Ho vissuto a fianco di Rolando II gli
ultimi giorni del suo regno, quelli durante
i quali ogni nuovo avvenimento non
faceva che ripetere a Sua Maesta il saggio
consiglio di cominciare a preparar
le valigie. Confesso modestamente che
quelle ore non ebbero nulla di singolarmente
terribile, se non una terribile nevralgia
dentaria che affliggeva Rolando II
e che lo faceva soffrire assai più dell'idea
di dover perdere il trono. Assolutamente
refrattaria a resistere al più modesto segno
di dolore fisico, Sua Maestà si trovò
a ricevere la notizia che il Congresso
aveva compiuto il colpo di Stato e proclamato
la Repubblica, proprio nel momento
in cui l'insigne odontoiatra, al
quale erano affidati, con congruo stipendio
annuo, i denti di Sua Maestà, s'nchinava
al re che pallido e abbandonato su
la poltrona lo guardava con la bocca ancora
spalancata, e gli annunziava che la
misura più urgente da premiere per ridare
a Sua Maestà il benessere fisico
era quella di strappare il dente malato.
Fra l'insigne odontoiatra che rispettosamente
chiedeva con un sorriso a Sua
Maestà se era il caso d'armare i ferri del
mestiere e di passare all'estirpazione del
dente cariato, e don Pedro de Aldana il
quale, con aria desolata, attendeva di sapere
dal re deposto com'egli intendesse
regolarsi di fronte al Presidente della Repubblica
che le Camere avrebbero certamente
eletto nella serata, Rolando II se
ne rimaneva lì, su la poltrona, sempre a
bocca aperta, con l'aria di chiedere un
miracolo così alla scienza dell'insigne
odontoiatra come alla politica del suo
primo ministro: ed il miracolo non era
quello di fargli, finchè s'era ancora in
tempo, restituire il trono, ma quello di
fargli passare il dolor di denti senza che
dovesse subire il tremendo dolore dell'estirpazione
proclamata imperiosamente
necessaria. Compresi in quel momento
che a Rolando II doleva solamente di
aver dovuto perdere il regno senza avere
avuto almeno il tempo di barattarlo. Chè
se un suo illustre e remoto collega aveva
offerto di barattarlo per un cavallo,
egli l'avrebbe, senza pensarci un solo minuto,
barattato volentieri col mezzo di
farsi passare il mal di denti senza doversi
lasciar strappare l'iniquo molare
ch'era causa di tanto male. Senonchè l'dontoiatria
e la filosofia della storia hanno
la medesima inesorabilità e Rolando II
dovette, nella stessa mezz'ora, lasciarsi
strappare un dente di bocca e la corona
dalla fronte. La coincidenza dei due dolori
fu, del resto, probabilmente preparata
con benignità verso Rolando II dai
misteriosi dottori in fisio-psicologia che
reggono e governano il nostro destino.
Se, prima che il dente gli fosse strappato,
Rolando II non si preoccupò che di questo
dolore, dopo che il dente fu avulso
dalla delicata gengiva regale la gioia del
Sovrano fu tale che l'aiutò a considerare
con occhio sorridente qualsiasi altra avversità.
Tuttavia al pensiero di questa
avversità Rolando II fu chiamato dal brusìo
lontano, poi dal vocìo vicino d'una
dimostrazione popolare la quale veniva
sotto le finestre del palazzo reale a confermare
a Sua Maestà ch'era veramente
il caso di disporre che le valigie fossero
preparate. Guardai dalla finestra la grande
piazza esagonale su la quale aprivano
le duecento finestre del palazzo reale:
era gremita di popolo.
Ma non era l'orda terribile e incendiaria
dei Sanculotti. Era una Pacifica popolazione
domenicale d'onesti borghesi e
di padri di famiglia la quale non aveva
l'aria di venire ad avvertire il Monarca
che il popolo aveva deciso di cambiar di
regime e che la Repubblica era stata proclamata,
ma piuttosto quella di venire
garbatamente ad augurare al re un ottimo
viaggio verso la frontiera. Rolando II,
intanto, mentre giù nella piazza
la folla, tanto per aver l'aria di fare qualche
cosa, cantava un inno rivoluzionario,
guardava con occhi esterrefatti l'insigne
dottore in odontoiatria che preparava i
ferri per la terribile operazione. Ebbe
appena, Rolando II, quando il canto giù n
ella piazza si fece più alto, la curiosità
di volgersi a me per domandarmi di che
cosa si trattava. Informato sommariamente
da me di quanto avveniva, sorrise
amaramente come per dire: «Beata
tutta questa gente che può pensare a far
la rivoluzione! Se soffrisse coi denti come
soffro io!...» E si volse di nuovo, con occhi
sempre più esterrefatti, all'insigne
dottore in odontoiatria il quale prese rispettosamente
con due dita il re per il naso e per il
mento e nella bocca violentemente
spalancata introdusse il ferro liberatore.
Con azione fulminea l'insigne
dottore in odontoiatria afferrò il dente
regale e lo strappò con un dolce moto
della mano. Ma, dolce a vederlo, il moto
non dovette essere dolce a sentire, poichè
dalla gola del re partì un grido straziante
che scompigliò il mio essere sin
nelle viscere più profonde. Poi, dalla bocca
regale, versandosi nel vaso di cristallo
che l'insigne dottore in odontoiatria offriva
a Sua Maestà, uscì un mezzo bicchiere
di sangue: il solo sangue che resti
per me legato al ricordo dell'esangue rivoluzione
di Fantasia.
Dolore e piacere, avvertiva Platone,
sono cosi saldamente uniti che non si
sa dove l'uno cominci e dove l'altro finisca.
Questa mancanza d'una linea di demarcazione
fra sofferenza e voluttà è fortunatamente
solo filosofica e non ha
niente a che vedere con la estirpazione
d'un dente cariato. Se nell'astrazione del
filosofo non si sa dove il piacere cominci
e dove finisca il dolore, sotto le mani d'un
insigne dottore in odontoiatria si sa benissimo
che dopo cinque minuti di stupimento
finisce il grande dolore d'avere
un dente cariato e comincia il grande
piacere di non averlo più. Così Rolando II,
dopo che ebbe con un ultimo colluttorio
calmante sedato anche l'ultimo
nervo doloroso delle sue regali gengive,
levandosi dalla poltrona ove aveva tanto
sofferto, si volse a me con un sorriso
beato. Ed era così lieto di non soffrire
più, manifestava la sua gioia fisica in
una tale esuberanza di gesti e di parole,
che parve a me delittuoso troncare
sul nascere quella gioia commovente ricordando
a Sua Maestà che giù la rivoluzione
aspettava che lui se ne andasse.
Ma, poichè non tutti gli uomini hanno la
stessa delicata sensibilità, don Pedro de
Aldana ebbe il cuor ch'io non ebbi, e vibrò
nell'estasi di Sua Maestà il colpo
brutale d'un improvviso richiamo agli avvenimenti.
Don Pedro mise rapidamente al corrente
il Re di quanto avveniva: il colpo
di Stato avvenuto al Congresso, la Repubblica
proclamata, le Camere convocate
per la sera per eleggere il primo magistrato
della Repubblica, la sommossa
popolare scatenata per le vie e le piazze
di Effemeris, la guarnigione divisa, metà
già passata armi e bagagli alla Rivoluzione;
metà ancora fedele al Re per usargli
la cortesia di presentargli un'ultima
volta le armi al momento della sua partenza.
Sopratutto di questa partenza don
Pedro de Aldana si preoccupava. E la
sua preoccupazione non era del tutto ingiustificata
poichè se dalla piazza esagonale
gremita di folla non saliva un solo
grido ostile alla personalità di Rolando II,
giungeva sonante nelle nostre stanze il
grido di: «Morte a don Pedro! Don Pedro
alla lanterna!» Formula fuori luogo,
in verità, ma anche le rivoluzioni hanno
il loro tradizionalismo, e nessun rivoluzionario
saprebbe rinunziare al dovere di
impiccare un aristocrate alla lanterna anche
quando si tratti d'un ministro democratico
e quando le lanterne della rivoluzione
francese sono state sostituite da
globi elettrici situati a tale altezza che a
volervi impiccare qualcuno il rischio non
sarebbe meno grave per l'impiccatore che
per l'impiccato.
Nelle ore delle grandi prove si misurano
i grandi caratteri. Lo stoicismo che
Rolando II rivelò in quell'occasione fu,
o mi parve, veramente insuperabile. Poichè
la gioia d'essersi liberato d'un dente
cariato non saprebbe essere eterna, Rolando II
degnò di occuparsi anche della
Rivoluzione, e, saputo quanto avveniva,
domandò se nessuna resistenza fosse possibile.
Informato che pensar di resistere
sarebbe stato semplicemente follia, si passò
la mano su la fronte, vi raccolse un'idea,
prendendo uno di quei fieri e
teatrali atteggiamenti che la storia deve
ricordare e che per la storia sono opportunamente
preparati, guardò me, guardò
don Pedro de Aldana impaziente di correre
alla stazione, guardò l'insigne dottore
in odontoiatria che puliva e riponeva
i suoi piccoli strumenti, ed esclamò:
— C'è, o signori, qualche cosa di più
potente della Volontà del Sovrano: ed
la sovrana volontà del popolo!
Salendo a palazzo reale, don Pedro de
Aldana doveva avere una sola preoccupazione:
quella che al giovane re dovesse
mai saltare in mente l'idea di ostinarsi
a resistere e di volersi fare uccidere,
assieme al suo Primo Ministro, sui
gradini del trono. Così, quando nella storica
frase di Rolando II trove tanta rassicurante
remissività, don Pedro de Aldana
trasse dal largo petto carico d'onori
e d'oneri il respire d'un uomo che dopo
aver veduto la morte sicura ritorna inopinatamente
alla vita. Ma, poichè la felicità
dell'attimo fuggente è pavida e teme
sempre che l'attimo che fuggirà immediatamente
dopo debba minacciarla, don Pedro
tentò d'indurre Sua Maestà ad una
partenza immediata, prima cioè che potesse
venire a Sua Maestà l'idea di tornare
su la sua prima, prudente e ragionevole
deliberazione. Ma Rolando II
che s'era intanto avvicinato alla finestra
ed aveva veduto che la Rivoluzione non
aveva un aspetto terribile — poichè in
mezzo alla lavagna nera d'una densa folla
pacifica un paio di compagnie della Guardia
Reale disegnavano alcune mobili
«esse» di corazze d'argento mentre nel
silenzio d'una folla che aveva l'aria d'assistere
ad uno spettacolo alcune dozzine
di tenori volontari cantavano qualche
canzone proibita che non faceva male a
nessuno — Rolando II non vide la necessità
d'una partenza precipitosa. Ma, don
Pedro de Aldana ch'era prudente avendo
opinato che le cose potevano guastarsi
da un momento all'altro e che l'ombra
della notte favorisce intemperanze delle
folle rivoluzionarie, Sua Maestà mise il
suo Primo Ministro in libertà e lo autorizzò
a partire senza attendere che anche
lui fosse pronto alla partenza. Così
don Pedro e l'insigne dottore in odontoiatria
si ritirarono simultaneamente e frettolosamente,
dopo avere confermato a Sua
Maestà, con telegrafiche parole, una devozione
la quale non chiedeva che d'essere
messa alla prova quando la prova
non fosse per riuscire troppo pericolosa.
Quando rimanemmo soli, Rolando II
si mise a sedere e accese una sigaretta,
con una certa sprezzante bravura e con
l'aria d'un uomo che non ha nessuna
ragione d'aver fretta a cambiare di residenza.
Stimai quella tranquillità ammirevole
ma eccessiva e non mi sottrassi
al dovere di avvertirne Sua Maestà:
— Vostra Maestà, — dissi, — ricorderà
che il poeta di una commedia famosa, la
quale fu la fanfara d'allarme di un'altra
memorabile Rivoluzione, avvertiva che
tout finit par des chansons. Nella Rivoluzione
che sconvolge oggi l'ordine delle cose
nel regno di Fantasia, invece che finire
con le canzoni, con le canzoni si comincia.
Ma non c'è da fidare eccessivamente
nell'innocua temperanza di questi preludi
musicali. Del resto, se vogliamo rimanere
nella musica, anche nella sinfonia i tempi
si seguono e non si rassomigliano; e se
dopo l'«allegretto» viene l' «andante», dopo
«l'andante» viene l'«appassionato».
Però io consiglio rispettosamente a Vostra
Maestà di scegliere per sè in questa
musica, e finchè siamo in grado di farlo
comodamente, il tempo più consigliabile
in questo momento: intendo dire: la
«fuga».
Gli avvenimenti che ho raccontati fin
qui hanno provato che il temperamento
di Rolando II, pur senza giungere ad
avere l'inclinazione precisamente contraria,
non aveva certo l'inclinazione eroica.
È quindi quasi superfluo all'economia
del racconto avvertire che Sua Maestà accolse
con docilità il mio consiglio, talchè
non erano trascorsi venti minuti che egli
aveva già mutata la sua uniforme militare
col più leggiadro abito da viaggio
che sia mai stato confezionato dai grandi
sarti di Fantasia. Intanto il telefono aveva
annunziato che una folla in atteggiamento
minaccioso stazionava attorno alla
stazione nella speranza di poter dare un
rumoroso saluto agli alti papaveri della
monarchia che si sarebbero certo affrettati
a partire per l'esilio. Ma un gentiluomo
di Corte sopraggiunto in quel mentre
comunicò che infatti gli alti papaveri
già partivano tutti ma che avevano tutti
preferito di partire in automobile. E già
a quell'ora le automobili in partenza s'inseguivano
in lunga fila per le strade che
conducevano alle porte della città. La
modernità dei mezzi toglieva, mi parve,
a questa fuga ogni carattere veramente
drammatico, e gliene dava in ricambio
uno ch'era piuttosto sportivo, poichè tutta
quella fila di eleganti limousines, più che
d'una tragica fuga negli orrori della rivoluzione,
dava idea d'un placido ritorno
da una giornata di corse in un pomeriggio
di bel tempo. Rolando II non esitò a
scegliere anche lui questo sistema di partenza,
pur conciliandolo col proposito di
prendere un treno alla prima stazione
dopo la capitale. Intanto il più fidato cameriere
di Sua Maestà preparava una
valigia per le necessità immediate, mentre
gli altri domestici riempivano, con
uno zelo inconsueto, che rivelava l'ansia
di mandarla via presto, i grossi bauli in
cui Sua Maestà aveva dato ordine di chiudere
il suo guardaroba, la sua biancheria;
le sue carte politiche e il magazzino variopinto
delle sue decorazioni. Bisogna
non aver mai veduto partire un re per
l'esilio per credere che l'addio di un Sovrano
alla sua Corte abbia la medesima
povertà di commozione dell'addio di un
sottosegretario di Stato ai suoi uscieri all'indomani
d'una crisi ministeriale. Sparsasi
la notizia che Sua Maestà partiva,
dame e gentiluomini, vecchi uomini politici
fedeli al Sovrano, erano accorsi per
inchinarsi l'ultima volta alla Maestà di
Rolando II. Vidi così tra coloro che affollavano
le sale per cui il Re, andandandosene,
passava e distribuiva strette di
mano copiose e sorrisi commoventi, anche
il duca e la duchessa di Frondosa,
vecchia nobilta monarchica, ligia al regime,
e, non ostante tutte le cose profane
che avevano potuto dividde momentaneamente
i due coniugi da Sua Maestà,
profondamente compresa di quarto di sacro
era nell'ora storica in cui la Corte
cedeva alla sopraffazione della piazza.
Non c'era più sul volto del duca di Frondosa
traccia alcuna degli antichi sentimenti.
Al ricordo della corte che Rolando II
aveva fatta a sua moglie, s'era adesso
sostituito il pensiero della Corte da
cui Rolando II esciva per sempre. Vidi
il grande gentiluomo stringere devotamente
la mano del re e baciarla con profonda
commozione. E vidi la duchessa
Isabella inchinarsi sin quasi a inginocchiarsi
d'innanzi a Rolando II, il quale
le si fermò davanti e le baciò la mano
guardandola un momento negli occhi con
suprema rassegnazione come a dire: «Mi
è grato salire anche l'ultima stazione di
questo calvario per amor tuo». Il momento
fa, in verità, singolarmente patetico,
e se Rolando II mormorò a fior
di labbra: «Arrivederci!», a me parve
che gli occhi della duchessa e del Re,
lucidi di lacrime, si dicessero invece malinconicamente:
«Addio!».
Un poeta ha detto quale sia la suggestione
d'un muro derrière lequel se passe
quelque chose. Io conobbi quella notte
la suggestione che esercita la porta di
una cabina di sleeping-car nella quale sia
chiuso un re che, deposto, parta involontariamente
per l'esilio. Rolando II vi si
era chiuso non appena fummo saliti nel
direttissimo diretto al confine, il quale
ci aveva raggiunti nella quieta stazione
secondaria che cento chilometri appena
separavano dalla capitale ma che secoli
interi sembravano separare invece dalla
Rivoluzione. Spettatore per lunghi anni
dell'amabile commedia, io mi sentivo ora
preso dal patetico afflato dell'improvvisa
situazione tragica inseritasi nell'ultimo
atto dell'azione che ho raccontata. Se l'insonnia
di un re è legittima, in una notte
come quella non apparirà meno legittima,
io credo, l'insonnia d'un cortigiano che
il re ha invitato ad accompagnarlo per
l'ultima volta fin oltre la frontiera. Da
una parte e dall'altra della porta della
cabina regale le nostre due insonnie si
cercavano senza avere tuttavia il coraggio
d'aprir la porta e di trovarsi di fronte.
Intuivo che l'orgogliosa spavalderia del
re durante i preparativi della partenza
doveva ora, nella solitudine, aver dato
luogo alla tragica angoscia della tremenda
catastrofe. Imaginavo Rolando II intento
ad arrampicarsi, per risalirlo, su per l'albero
genealogico della regale famiglia,
con lo scopo di ritrovare attraverso i
secoli e i costumi le glorie insigni della
dinastia. Che tanto splendor di glorie dovesse
spegnersi prematuramente con lui,
era certo per Rolando pensiero intollerabile.
Trascorsi la notte in queste mie
inquietudini senza osare di portare sollievo
e conforto alla inquietudine di Sua
Maestà. Vedevo, intanto, dalle finestre del
corridoio, le stazioni notturne ingombre
di soldati, di feriti, di carri militari, di
tutta la congestion ferroviaria d'un esercito
in ritirata. Lo spettacolo della guerra
perduta e della rivoluzione già scoppiata
era squallido. Dal finestrino opposto
Rolando II doveva vederlo come io
lo vedevo, e quella contemplazione del
sanguinoso epilogo in cui la sua corona
cadeva spezzata non poteva non indurlo
in desolate e disperate meditazioni. La
mia ansia giunse anzi a tal segno che,
spuntata in cielo l'alba, non seppi reggere
più a lungo e aprii la porta della cabina
regale. Se vi sono gradi di scetticismo
che preparario ad affrontare impavidi
ogni spettacolo vi sono però spettacoli
che impavidamente superano, col
loro impreveduto, qualsiasi grado di scetticismo.
Tale fu quello che mi si offrì
appena ebbi aperta la cabina regale e
appena mi vidi davanti Rolando II stretto
nella seta d'un pigiamino changeant, col
volto fresco di chi ha riposato tranquillamente
la notte intera e intento a radersi,
con un rasoio di sicurezza d'innanzi
a uno specchio a due luci aperto su un
tavolinetto ch'era ai piedi della cuccetta
ancora calda del quieto sonno regale. Se
Rolando II lavorava così a non aver più
peli su la faccia, non era ancora lecito
a me di non avere con lui finalmente peli
su la lingua. Ma confesso che ne ebbi,
per la prima volta, violentemente la tentazione.
Sui suoi confini nord-occidentali il regno
di Fantasia è diviso dal limitrofo regno
d'Asturia da un lungo tunnel sotto
cui i direttissimi internazionali corrono
per quaranta minuti senza prendere una
boccata d'aria o un filo di luce. Passato
il tunnel, il direttissimo si ferma, esausto,
a fare un po' d'acqua prima di riprendere
la sua corsa. A quella stazione Rolando II
aveva deciso di scendere dal treno
per prendere congedo da me, pernottarvi
e riprendere in automobile l'indomani il
suo viaggio verso Parigi. Era una stazioncina
solitaria, e sorridente, tutta rosea
e fiorita, a varii chilometri dal paesello
inerpicato lassù su la montagna.
Accanto alla stazioncina una piccola trattoria
invitava i viaggiatori prendere
qualche ristoro. E, poichè il mezzogiorno
era ormai passato, vi entrammo anche
noi per far colazione.
Nelle commedie ben fatte, all'ultimo
atto, quando tutto pare finito, entra un
nuovo personaggio particolarmente adibito
a riprendere l'interesse illanguidito
che sta sul punto d'estinguersi. Questo
nuovo personaggio, ch'era di sesso femminile
e quanto mai grazioso, ce lo trovammo
seduto a tavola, d'innanzi a noi,
occupato a far colazione in compagnia
d'un elegante adolescente che ostentava
i modi estremamente disinvolti con cui
gli efebi impegnati in una prima avventura
cercano di nascondere agli esperti
gli smarrimenti di un'inesperienza estremamente
intimidita. Rolando II, che durante
il viaggio non aveva degnato d'un
solo sguardo lo spettacolo del suo regno
insanguinato dalla disfatta e dalla sommossa,
non ebbe occhi che per la giovane
ed elegante viaggiatrice, la quale parlava
francese e dalle parole che pronunziava
ad alta voce dimostrava il desiderio di
far sapere a noi ch'era di Parigi, ch'era
chanteuse di caffè-concerto e che si chiamava
Loulette Louly.
Ma se Rolando non le levava gli occhi
di dosso non bisogna ricercare in questo
un altro segno della sua inguaribile vocazione
per il commercio femminile, ma
piuttosto un segno del suo non meno
inguaribile e sventurato amore per la duchessa
di Frondosa. Non appena c'eravamo
seduti, Sua Maestà aveva infatti afferrato
il mio braccio e, stritolandomelo
quasi nel parossismo d'una improvvisa
commozione, aveva esclamato: «Ma guardi,
guardi.... Pare il ritratto, il ritratto
parlante d'Isabella....» Ma se m'era facile
convenire, nell'udirla rovesciare sul commensale
adolescente un diluvio di parole,
che Loulette Louly era anche troppo parlante,
non potevo con eguale tranquillità
di coscienza affermare ch'ella fosse veramente
il ritratto della duchessa Isabella.
Occorreva almeno stabilire se Sua
Maestà intendeva parlare d'un ritratto
eseguito da un fotografo o da un pittore,
poichè è noto che i ritratti dei pittori sogliono
essere discreti verso i moderni sino
a non spingersi mai più oltre d'una somiglianza
vagamente approssimativa. Ma gli
innamorati hanno cosi vivo negli occhi
l'oggetto amato che basta loro un qualsiasi
pretesto appena tollerabile per trasportarlo
sul volto di un'altra persona.
È una disposizione che gl'innamorati hanno
in comune, quando si tratti d'identificazione
errata di persone, con gli uffici
antropometrici della polizia.
Ma non occorre che una somiglianza sia
autentica perchè sia irresistibile: basta
che sia semplicemente supposta. Così Rolando II
guardò con tanta insistenza la
giovane chanteuse che giovane efebo
che l'accompagnava dimostrò a più riprese,
con gesti di fastidio, di trovare assolutamente
insopportabile l'insistenza contemplativa
di quell'ignoto viaggiatore. Si
dice che il destino degli uomini può essere
legato ad un filo, ma in mancanza
d'un filo esso può anche essere legato a
un po' di cenere di sigaretta. Difatti, levatici
per uscire, passando accanto alla
giovane coppia che troppo occupata a
discorrere non aveva ancora finito di far
colazione, Sua Maestà lasciò cadere involontariamente
la cenere della sua sigaretta,
che, nell'estasi, s'era dimenticato
di scuotere, su le spalle dell'elegante giovinetto.
Il quale, irritato com'era, alle
scuse di Sua Maestà si voltò irritatissimo,
invitando il viaggiatore a badare meglio
così alla sua sigaretta come ai fatti suoi.
Nelle grandi catastrofi gli avvenimenti si
succedono con rapidità fulminea. Così l'elegante
giovinetto non aveva ancora terminato
di rimproverare a Rolando II la
sua sbadataggine che già la mano di Rolando II
s'appoggiava su la guancia del
giovinetto con assai minor leggerezza di
quella con cui la cenere della sigaretta regale
s'era appoggiata su la sua spalla. Ai
grandi urti seguon, di solito, lunghi sbalordimenti.
Così Rolando II ed io avemmo
tutto il tempo d'uscire dalla piccola
trattoria senza che alla via di fatto al
singolare seguisse un pugilato al plurale.
Quando fu fuori Sua Maestà mi fermò
per un braccio e, col volto illuminato da
un grande sorriso, mi disse:
— Lo crederebbe? Sto meglio. Morivo
di voglia anch'io di dare uno schiaffo
a qualcuno.
Poi si fermò a pensare e battendo le
mani in segno di giubilo esclamò:
— E questa volta, perdio, mi batto.
Sono un borghese qualunque, finamente!
Convenne trovare per questo borghese
qualunque un nome, il che fu facile
perchè, abituato a non far mai complimenti
con me, decise sùbito, per l'occasione,
di prendersi il mio. Convenne anche
cercare un secondo padrino che avesse
potuto assistere Sua Maestà nel duello
inevitabile. Toccò naturalmente a me anche
il còmpito di sbrogliare quest'ultima
situazione difficile, tanto più difficile in
quanto, a vista d'occhio, in un raggio di
chilometri, non era possibile trovare altra
forma umana che quella imberrettata del
capostazione. Inoltre, a meno di farli battere
con due coltelli da tavola, non era
lecito pensare alla possibilità dello scontro
in quel luogo. Ma conveniva essere
comunque in due, pronti almeno a ricevere
e ad accettare la sfida, per poi stabilire
ad altra data e ad altro luogo la
possibilità dello scontro. Ho avuto nella
mia vita d'amico di Rolando II missioni
difficili, ma nessuna mai che potesse essere
paragonabile a quella di riuscire a
decidere il piu pacifico dei capistazione
del regno d'Asturia e d'ogni altro regno
di questo mondo. Dio volle che riuscissi
allo scopo; ma questa riuscita non fu
possibile se non a patto di rivelare al
capostazione la vera personalità di Rolando II,
poichè la suggestione del diritto
divino e tale che anche un re deposto
induce in ogni umile mortale l'impressione
che non sia assolutamente possibile
disubbidirgli. Come tornai da Rolando II
che passeggiava impaziente tra
la stazione e la trattoria, la gioia del mio
regale amico non conobbe più limiti. Poteva
dunque battersi, poteva finalmente
questa volta sbrigare una faccenda di
questo genere come la sbrigano tutti gli
uomini, e senza dovere una seconda volta
rimetterci il trono, che del resto non aveva
più.
Le gioie che si fanno più lungamente
aspettare sono quelle che meno hanno
l'intenzione di venire. Così noi aspettammo
per tre ore i padrini dell'elegante giovanetto.
Cercato costui da ogni parte, non
fu possibile ritrovarlo, e, solo al termine
di lunghe peregrinazioni per le campagne
circostanti, un piccolo telegrafista avvertì
d'averlo veduto ripartire in uno dei
treni che ogni mezz'ora eran venuti ad
interrompere con la loro esposizione di
facce ai finestrini la monotonia della lunghissima
attesa. Mi fu facile ricostruire
l'accaduto. Sebbene non ci fosse attorno,
per così dire, anima viva e sebbene io
avessi vivamente raccomandato al secondo
testimonio la cautela del massimo segreto,
il capostazione aveva dato alla notizia
e alla vera personalità di Rolando II
la massima diffusione compatibile
con l'estremamente ridotta densità di popolazione
in quelle amene contrade. Gli
uomini che non hanno storia solo, si
afferma, gli uomini felici. Ma questi uomini
felici sono singolarmente più felici
il giorno in cui possono raccontare di
essere comunque partecipi d'un avvenimento
che li dovrà far entrare, insalutati
ospiti, nella storia. Le spiegazioni
ulteriori le fornì, loquacemente, Loulette
Louly sorpresa a sua volta dall'inopinata
partenza che la lasciava sola in quel luogo
perduto, e con su le spalle, per modo
di dire, un'automobile noleggiata ad alto
prezzo. E tra me e Loulette Louly fu
facile ricostruire il dramma prospettatosi
agli occhi d'un timido figlio di famiglia
ch'era alla sua prima scappatella
d'adolescente e che inopinatamente si trovava
a doversi battere niente di meno
che con un re. Di fronte alla certezza
d'uno scandalo europeo il giovinetto aveva
considerato opportuno conservare lo
schiaffo, del resto augusto, di Rolando II,
piuttosto che incorrere nella violenta sanzione
dei piu sacrosanti scappellotti paterni.
Se alla notizia che l'avversario era
scomparso il capostazione riacquistò gli
spiriti che gli s'erano ottenebrati nell'ansia
delle misteriose responsabilità cui andava
incontro, alla stessa notizia Rolando II
perdette invece definitivamente i
suoi. Gli vidi, con gli spiriti, cascare anche
le braccia e col volto desolato d'un
uomo che accetta, poichè non può più
rifiutarvisi, un mostruoso destino, lo sentii
dire:
- Vede? Non c'è che fare. La mia cattiva
stella vuole inesorabilmente così. Se
prendo uno schiaffo, lo devo tenere, e
ci perdo il trono. Se lo do io, se lo tengono
gli altri, e ci perdo il treno.
Partiva infatti in quel punto l'ultimo
treno della sera che, attraverso il regno
di Asturia, correva verso la Francia e
Parigi. Rimaneva solo sul binario, in attesa
di ripartire, l'ultimo treno della sera
che, attraverso l'interminabile tunnel, riconduceva
nel regno, pardon, nella repubblica
di Fantasia. Disposi sùbito per
la mia partenza. E, tornato indietro per
salutare Rolando II, trovai che già Rolando II
e Loulette Louly s'erano messi
d'accordo per fare insieme il viaggio verso
Parigi nell'automobile abbandonata,
senza pagarla, dal'elegante giovinetto.
Già sorrideva fra loro, nella sera che
scendeva, nella notte che s'apriva, il primo
quarto di luna di miele. Già Rolando II
guardava estatico la sua compagna
e più la guardava più diceva a me con
gli occhi e coi sospiri:
— È proprio lei, Isabella, proprio lei!
La cocottina abbandonata e il re deposto
filaron via così, verso Parigi, nella
letizia degli incontri felici e predestinati.
E, mentre Rolando II volava in quarta velocità
verso il suo nuovo mestiere di roi
en exil, io ripresi con filosofica malinconia
il treno che doveva ricondurmi nell'amata
patria, dove mi riattendeva lo
spettacolo della disfatta e della sommossa,
nate, come ho troppo lungamente raccontato,
da un bacio di donna che senza
aver fatto provvisoriamente felice un uomo
aveva definitivamente perduto un re.
FINE.
INDICE.
A LUIGI PIRANDELLO Pag. V
I. La " Belle Hélene „ 1
II. La collezionista d'" elle „ 20
1II. L'Isola e il Faro 33
IV. Le fatiche d'Ercole 61
V. Scacco al Re! 83
VI. Giuoco di torri, d'alfieri e di pedine100
VII. Sua Maestà! 117
VIII. La " scena-madre „ 142
IX. ".... Et in cipriam reverteris.... „ 164
X. E cosi Rolando secondo.... 195