Ma per ora, in sul primo entrare degli ordini popolari alla direzione della cosa pubblica, questa democrazia imperiale, ha nel medesimo tempo diffuso ed abbassato la cultura della Francia. L’istruzione popolare si estende, ma gli studi superiori decadono; l’attività industriale aumenta prodigiosamente, ma la scienza inaridisce. I subiti guadagni, le improvvisate fortune, i giochi di banca crescono il lusso e corrompono i costumi. Le forme del conversare ingentiliscono nel popolo; ma la famiglia è meno rispettata. Tra la donna onesta e la donna corrotta s’è messo il demi-monde, che serve d’agevole passaggio dal bene al male. È sorta una nuova letteratura che nei romanzi, nei drammi, nei giornali, sotto scusa di descrivere il mondo come è, sotto il nome di realismo, idealizza i costumi corrotti. Le donne del demi-monde sono appunto le sue eroine. — Esse si danno non a chi le paga, nè a chi son legate dal dovere; ma a chi esse vogliono, a chi esse amano davvero. — Ecco la teoria contro cui invano protestano in Francia gl’ingegni più eminenti, i caratteri più nobili, i veri rappresentanti del genio francese.
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Un sacello, in quel punto, avrebbe interrotto la continuità prospettica dei quattro bracci della croce, ingombrato lo spazio vuoto sotto la cupola michelangiolesca; e una piccola architettura, nella grande, avrebbe riprodotto la scala delle grandezze, abbassato il tono dello spettacolo architettonico proprio dove avrebbe dovuto raggiungere l’acme, nel punto più sacro. Capovolge i termini della questione: invece di un'architettura impiccolita progetta un «oggetto», un baldacchino processionale, ingrandito: come se una folla di fedeli in processione l’avesse portato fin la e là si fosse arrestata, alla tomba dell’Apostolo. Così, invece di un «calando», si avrà un «crescendo»: una sorpresa, una scossa psicologica, un balzo dell’immaginazione. Ma non soltanto questo: le quattro aste del baldacchino, quattro poderose colonne bronzee ritorte, si avvitano nello spazio vuoto, lo mettono in vibrazione con il loro ritmo elicoidale e i riflessi del bronzo e dell’oro. E un fulcro che suggerisce una rotazione: alla centralità michelangiolesca, il Bernini ha sostituito una circolarità spaziale, un moto d’espansione, a spirale.
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È importante avvertire che quando il ghiaccio all’intorno, sciogliendosi in parte, si sarà abbassato alquanto, dovrete levare al secchio il turacciolo che ne chiude inferiormente il buco, e da questo lasciare escire l’acqua, ricolmando il vuoto con altro ghiaccio ed altro sale. Ed anche avrete cura, ogni qual volta vi occorrerà di aprire la sorbettiera, di non farvi cader dentro nè sale nè ghiaccio.
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Preparate intanto un battutino con mezza cipolla non molto grossa, 2 spicchi d'aglio, 2 pezzi di sedano e un mazzettino di prezzemolo; quindi mettetelo al fuoco con 150 grammi d'olio, e quando sarà colorito versatevi mezza palla di cavolo verzotto e altrettanto cavolo nero, tagliato piuttosto grosso; quando il cavolo avrà abbassato un poco, aggiungete un mazzo di bietola, pure tagliata, e una patata tagliata a tocchetti. Condite con sale e pepe, e versatevi un po'di sugo di pomodoro o conserva. Qualora nel bollire questo composto rimanesse asciutto, bagnatelo colla broda dei fagiuoli. Quando questi saranno cotti, mettetene una quarta parte, interi, fra gli erbaggi, unendovi le cotenne; gli altri passateli dallo staccio e scioglieteli nella broda, versando poi tutto nel recipiente dove sono gli erbaggi. Fate bollire tutto insieme ancora un poco, quindi versate ogni cosa nella zuppiera, dove avrete già preparato 400 grammi di pane scuro, raffermo, tagliato a fette sottili.
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Ha abbassato la testa, ma non ha pianto. L'ho rispettata. - Che... devo fare? - ha balbettato. Il Teschio si è massaggiato la gola. La sua mente bastarda si è messa al lavoro. Ha tentennato un istante. - Ce la devi ..., far vedere ... Ce la devi far vedere a tutti. Barbara ha barcollato. - Cosa vi devo far vedere? - L'altra volta ci hai fatto vedere le tette -. E rivolgendosi a noi. - Questa volta ci fa vedere la fessa. La fessa pelosa. Ti abbassi le mutande e ce la fai vedere -. Si è messo a sghignazzare aspettandosi che anche noi avremmo fatto lo stesso, ma non è stato cosi. Siamo rimasti gelati, come se un vento del Polo Nord si fosse improvvisamente infilato nella valle. Era una penitenza esagerata. Nessuno di noi aveva voglia di vedere la fessa di Barbara. Era una penitenza pure per noi. Lo stomaco mi si è stretto. Desideravo essere lontano. C'era qualcosa di sporco, di ... Non lo so. Di brutto, ecco. E mi dava fastidio che ci fosse mia sorella lì. - Te lo puoi scordare, - ha fatto Barbara scuotendo la testa. - Non m'importa se mi picchi. Il Teschio si è messo in piedi e le si è avvicinato con le mani in tasca. Tra i denti stringeva una spiga di grano. Le si è parato davanti. Ha allungato il collo. Non è che poi era tanto più alto di Barbara. E nemmeno tanto più forte. Non ci avrei messo una mano sul fuoco che se il Teschio e Barbara facevano a botte, il Teschio aveva la meglio tanto facilmente. Se Barbara lo buttava a terra e gli saltava sopra lo poteva pure soffocare. - Hai perso. Ora ti abbassi i pantaloni. Così impari a fare la stronza. - No! Il Teschio le ha dato uno schiaffo. Barbara ha spalancato la bocca come una trota e si è massaggiata la guancia. Ancora non piangeva. Si è girata verso di noi. - Non dite niente voi? - ha piagnucolato. - Siete come lui! Noi zitti. - Va bene. Ma non mi vedrete mai più. Lo giuro sulla testa di mia madre. - Che fai, piangi? - Il Teschio se la godeva da matti. - No, non piango, - è riuscita a dire trattenendo i singhiozzi. Aveva dei pantaloni di cotone verdi con le toppe marroni sulle ginocchia, di quelli che si compravano al mercato dell'usato. Le andavano stretti e la ciccia le ricadeva sopra la cinta. Si è aperta la fibbia e ha cominciato a slacciarsi i bottoni. Ho intravisto le mutande bianche con dei fiorellini gialli. - Aspetta! Io sono arrivato ultimo, - ho sentito che diceva la mia voce. Tutti si sono girati.
Se non fosse così, sarebbe paruto che Dio si fosse abbassato, e che, in grazia dell' uomo peccatore, quasi cedendo nel conflitto, egli avesse operato. All' opposto egli fece tutto per amore del suo Figliuolo Unigenito, senza un risguardo diretto e primario all' uomo: ma l' uomo fu racquistato e salvato appunto perchè così esigeva l' amore del Figliuol suo, che era pur uomo. Conciossiacchè è proprio dell' uomo amare la propria natura anche negli altri soggetti che la partecipano, e quindi Cristo per un amore naturale amò gli altri uomini e li desiderò salvi, e il suo Padre nessun suo desiderio poteva negargli. Nè questo desiderio di Cristo cozzava coll' ordine della giustizia, perchè il Verbo incarnato aveva tal possa da soddisfare appieno il debito contratto dall' uomo, e anche soprabbondantemente. Conciossiacchè egli stesso era Dio, e gli atti suoi di culto erano per questo adeguati alla divina maestà. Ma oltre a ciò egli potè dare a Dio un culto maggiore che non gli si spettava in ordine di giustizia. Perocchè la giustizia voleva che Cristo, come innocentissimo e santissimo, fosse al tutto beato e nessuna pena soffrisse. Ora Egli invece, fu abbandonato dal Padre al dolore e fino alla morte, e parve che Iddio peccasse quasi contro quest' uomo, come un altro uomo aveva peccato contro Dio. Certo è che Iddio contrasse un debito infinito verso di Cristo, quando essendo questo infinitamente giusto e degno di ogni protezione e cura, pure in quel cambio il lasciò fra le angustie, e fino lasciò distruggere l' umanità di lui; ed egli si sottopose obbediente a così crudele decreto, che aveva tutta l' apparenza di essere ingiusto, e che il sarebbe stato, se la volontà stessa di Cristo non l' avesse accettato, rinunziando per amore di Dio Padre al proprio diritto. Allora si trovarono adunque due partite aperte: dall' un canto gli uomini avevano un infinito debito con Dio: dall' altro eravi fra gli uomini uno, che aveva con Dio un credito infinito. Questi però era il ricco, questi poteva essere il Redentore de' suoi simili: e gli riscattò difatti e ricomperò col suo credito, col quale ebbe di ritorno il chirografo del debito di quelli, e lo stracciò, affiggendolo alla croce. Così nel desiderio e nella mano del Cristo pendette la salute del mondo, perchè in lui solo stava la possibilità che ristabilito fosse l' ordine turbato della giustizia. E la salvezza però di ciascuno è un dono del Redentore. Ristabilito pertanto quest' ordine della giustizia, non erano più posti confini alla comunicazione della bontà di Dio: niente più impediva che Dio: 1. si ravvicinasse di nuovo all' uomo e il riducesse ancora colla comunicazione della grazia nell' ordine di perfezione soprannaturale; e 2. che quindi sanasse e riformasse tutta la sua pervertita natura. Cristo cioè ebbe potestà di comunicare ai suoi simili di quello spirito che aveva in sè e che usciva di sè, perocchè egli aveva tolto via ciò che vietava il far ciò, vale a dire il debito dell' uomo, cui Cristo col prezzo di sè stesso largamente pagò. Ora potendo Cristo fare questa comunicazione del proprio Spirito divino all' uomo, e volendolo in un modo sapiente e per varii gradi secondochè gli dettò la sua sapienza e bontà, in ciò usò pur egli dei segni, come que' mezzi che erano convenienti alla umana natura e fino dalla prima istituzione dell' uomo adoperati da Dio. E di questo modo, di questi gradi e dell' ufficio e natura di questi segni ora ci cade qui di dover brevemente ragionare. [I segni adoperati da Cristo per salvare e perfezionare l' umanità redenta da lui, sono di due specie, cioè altri sono istruttivi , e altri effettivi o Sacramenti. Parliamo prima di questi, rimettendo al capitolo seguente il ragionare degli altri] (1). L' uffizio adunque dei segni dati da Dio all' uomo, perchè con essi si perfezionasse dopo il peccato, era diverso dall' uffizio de' segni dati all' uomo avanti il peccato. Avanti il peccato l' uomo era santo e quella parte dell' umana natura, ove come in propria sede abita la santità, era in comunicazione diretta con Dio e da lui immediatamente attingeva la grazia. Sicchè essi non potevano avere altra incombenza che di disporre convenientemente le parti inferiori dell' uomo acciocchè bene si accordassero in servigio della suprema. L' uomo peccatore all' opposto non poteva essere perfezionato se prima non riacquistava la giustizia. E però i segni deputati a mezzi di sua perfezione dovevano essere cotali che avessero efficacia e virtù di dare ad esso la stessa santità, almeno in certa speranza e promissione. Il che mirabilmente si accordava alla condizione della natura umana già guasta dal peccato. Poichè il guasto di essa natura principalmente in questo effetto si manifesta, che l' anima spirituale nelle sue operazioni si trovò legata e fatta schiava ai movimenti del corpo: sicchè ella non ha più in balia di sè, come prima, il corpo animale, ma anzi questo si muove senza sentire il freno di quella, e di più trascina l' anima stessa dietro alle sue proprie operazioni, e la sforza ad operare in un modo consentaneo ai suoi sentimenti e fantasmi. Il che è una servitù lagrimevole dell' anima, e un dimostramento dell' alterazione sofferta dal peccato. L' anima adunque nell' umanità peccatrice è influita dal corpo. Or che restava se non di fare che questa influenza del corpo tornasse a bene dell' anima stessa? E così ordinò la sapienza divina, la quale si servì di certi segni sensibili a riformare l' uomo, che per la via del corpo dovessero giungere col loro effetto fino all' anima, tirando questa stessa alla dirittura della giustizia e infondendole per la medesima via la grazia e la santificazione. Per le quali cose sapientemente l' angelico Maestro insegna: [...OMISSIS...] . - Ma all' incontro dopo il peccato, anche rispetto alla parte superiore, l' uomo abbisogna di ricevere alcun che dalle cose corporee pel proprio perfezionamento (1). Vero è però che la maniera onde per la via de' segni sensibili e però delle sensazioni corporee l' anima riceve la grazia è misteriosa e del tutto incognita (2). Tuttavia se fosse lecito in cosa sì arcana formare qualche congettura, a me sembrerebbe non improbabile, che quelle sensazioni, che eccitano i segni sensibili a ciò destinati da Dio o certo quelle impressioni che essi fanno, avessero cotale efficacia congiunta da rendere la parte superiore dell' anima più indipendente che prima non era dal corpo, e porgere alcuno interiore e soprannaturale eccitamento al soggetto umano che il movesse alla contemplazione di Dio e quindi alla percezione di questo; venendo il soggetto a ciò sollevato da quella virtù divina che accompagna quelle sensazioni. Giacchè Iddio è sempre tutto presente a tutte le cose e vuole riempirle di sè e santificarle: ed è solo difetto delle cose se nol veggano e nol percepiscano. Sicchè rinforzata la creatura intellettiva e toltole questo difetto che prima aveva, pel quale non vedeva Iddio soprannaturalmente, già per questo solo ella viene a vederlo, senza che in Dio sia nata alcuna mutazione di avvicinamento o allontanamento da parte sua, se non riguardo all' effetto ch' egli produce. E` adunque l' identità del soggetto umano, sensitivo a un tempo e intellettivo, che può spiegare come ciò che nasce nel senso ridondi a migliorare la volontà intellettiva: tanto più che nel senso sta propriamente la radice della natura umana, e, informata di soprannaturale virtù questa radice, indi viene l' elevazione di tutto l' uomo a Dio. E in questo sistema si vedrebbe, perchè il corpo non venga riformato, sebbene per un movimento che comincia da lui nasca la riformazione dello spirito. Tanto più che questo movimento del corpo non ha luogo che nella via delle parti più delicate e sottili del corpo che immediatamente servono alle sensazioni; e gli altri sistemi, di cui è il corpo umano composto, non ne sono immediatamente affetti, e per conseguente nè pure riformati. Ora questa maniera di spiegare l' azione de' Sacramenti sull' anima, che è il gran quesito di S. Agostino: « Come l' acqua tocchi il corpo e lavi il cuore« (1) »; converrebbe a capello, se non mi inganno, con ciò che dice il grande Basilio nell' opera che scrisse dello Spirito Santo. Parlando egli del battesimo, un effetto egli assegna all' acqua santificata, un altro allo Spirito Santo, dei quali due effetti risulta il frutto intero del battesimo. Ora l' effetto che egli assegna all' acqua [è] di togliere il peccato cioè di mortificare l' uomo vecchio: laddove allo Spirito attribuisce l' effetto di vivificare l' uomo nuovo. E così anche noi diciamo, che l' effetto dell' acqua informata dalle sacre parole, è quello di tòrre la corruzione originale, che ha sua sede originaria nel corpo, il quale aggrava lo spirito, e quindi di levare dall' anima, cioè dalla suprema parte della volontà, quella tendenza che è un abituale consenso nel male: e l' anima sollevata da una tale schiavitù, libera da tali ceppi, rettificata e ben disposta alle cose divine, può allora ricevere il lume dello Spirito Santo, che influisce in essa senza ostacolo pei meriti della passione di Cristo. Ora si oda quanto convenientemente insegni tutto ciò il gran Padre che abbiamo nominato. [...OMISSIS...] In questo bellissimo passo adunque il santo Dottore non attribuisce all' acqua, come quella che è cosa corporea, se non un effetto nel corpo, soprannaturale però e tale che ridonda nell' anima. Giacchè il corpo, come dicevamo, mosso da una virtù divina può dare all' anima tal movimento e quasi tal guizzo da farla atta a toccare poi lo Spirito divino che le si fa incontro. A questo Spirito poi attribuisce l' operazione di avvivare egli solo quest' anima colla sua virtù tutta spirituale e non immersa, se mi è lecito così parlare, in materia alcuna. E veramente la grazia risiede nell' intelletto, e questo non opera per mezzo di alcun organo materiale (2). Quindi una sola virtù immateriale può esser quella che infonda direttamente la grazia: ma come le sensazioni nell' ordine naturale aiutano e dispongono l' anima intellettiva a formare le intellezioni, così nell' ordine soprannaturale l' elemento materiale, avvalorato dalla parola, dispone l' uomo a ricevere la vita della grazia intellettuale. Concludiamo da tutto ciò, che la prima differenza dei segni dati all' uomo peccatore, da quelli dati all' uomo innocente, si è, che questi secondi dovevano essere un rimedio contro il peccato e però aver virtù di dare all' uomo la santità; quando quei primi non prestavano all' uomo che disposizioni alla santità. Or veduto l' ufficio dei segni deputati da Dio a dover ristorare la umanità peccatrice, gioverà che noi veggiamo o richiamiamo il modo altrove indicato e l' ordine onde l' umanità per via di segni si ristora e ripristina alla salute. Il quale ordine procede così: che la grazia conferita per via del segno sensibile vada a terminare mediante il corpo nella personalità umana, e questa sia ristorata la prima, restando ancora la natura umana nelle sue parti inferiori soggetta alle funeste conseguenze del peccato, e però corrotta e pervertita: che la persona poi così riguadagnata e risarcita salvi e rigeneri anche la natura, ma non però ad altra condizione che a quella della morte e distruzione di essa natura. Perocchè ogni uomo è abbandonato alla dissoluzione della morte, dopo la quale venuto il tempo prestabilito, egli deve risorgere e ricomporsi a una compiuta perfezione; e ciò in virtù dell' anima salva, ossia di Cristo che abita in lei immortalmente. Sicchè l' anima perfetta trae dietro a sè la perfezione del corpo, e la persona trae a sè la perfezione della umana natura. Questa ristorazione, della persona dapprima e poi per essa anco della natura, è manifestamente insegnata in tutte le divine Scritture; ma ella è la chiave questa dottrina massimamente colla quale aprire il senso di molti luoghi della sublime lettera di S. Paolo ai Romani, la quale spesso tocca e si fonda su questa distinzione della ristorazione della persona umana e della natura (1). Quando la grazia di Gesù Cristo opera la rigenerazione dell' uomo peccatore produce in lui una mutazione nel principio personale, come abbiamo detto altrove, il quale è il principio attivo più elevato che nell' uomo si trovi. Conciossiacchè come nell' uomo privo di grazia il supremo principio della sua attività è la volontà naturale, serva all' errore ed alle passioni; così nell' uomo rigenerato dalla grazia il principio supremo di agire è la stessa grazia divina informatrice della sua volontà. E quindi S. Paolo vuole che si distinguano i figliuoli di Dio, secondo quelle parole: « Tutti quelli che sono spinti a operare dallo Spirito di Dio, questi sono i figliuoli di Dio« (3) »: ecco il nuovo principio attivo introdotto nell' uomo. Sicchè a tutta ragione si può dire, che un' altra persona è nata nell' uomo per la grazia da quella di prima, sebbene la natura umana non siasi mutata e anche il soggetto sia restato il medesimo (4). Ella è questa dottrina che fa intendere tutta la forza e la verità di quella parola, già consacrata nell' uso ecclesiastico, di rigenerazione a indicare il rinnovellamento dell' uomo che si fa per Cristo; del quale parlò Cristo a Nicodemo quelle celebri parole: « In verità, in verità ti dico, chi non sarà rinato di nuovo, non potrà vedere il regno di Dio« (5). » Delle quali parole stupì quel maestro della legge e non ne poteva intendere il significato, il quale era però assai meno traslato che non paresse. E consuonano a questo stesso modo di dire quelle altre maniere che occorrono assai frequenti nelle divine Scritture: nascere di Dio, essere figliuoli di Dio (1) ed altre tali, che si riferiscono alla persona rinnovellata; conciossiacchè acconciamente si dice nascere la persona e essere figlia di quel principio da cui riceve la sussistenza come persona. Di maniera che l' angelico Maestro, della riunione dell' uomo peccatore con Dio, ebbe a dire così: [...OMISSIS...] . E di qui è la similitudine vera con Dio che si mette nell' uomo per opera della grazia: similitudine la quale consiste in un consorzio della natura divina; ciò che compisce appunto il concetto di generazione, che vale trasfusione o comunicazione della natura di un soggetto in un altro. E perchè, come dicevamo, questa natura divina comunicata all' uomo non è tutta la natura costituente l' uomo, ma solo una parte, il principio supremo di lui; perciò convenevolmente si dice essere la persona che viene mutata col sopraggiungersi all' umanità dell' elemento divino. Quindi l' uomo nuovo e l' uomo vecchio, in quelle parole dell' Apostolo: « Rinnovellatevi nello spirito della mente vostra, e vestite l' uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità« (3). » Dove la parola uomo nuovo e quella creato dimostra il rinnovellamento della persona (4): là dove la parola vestire indica la conservazione della natura umana sopra cui la nuova persona si veste e si depone (5). Le fasi poi: nello spirito della mente vostra; e quell' altra: nella giustizia e nella santità della verità; dichiarano, quale sia la parte dell' uomo rinnovellata, cioè la suprema, col rinnovellarsi della quale nasce la nuova persona. Le medesime osservazioni si possono fare su quell' altro passo dell' Apostolo ai Colossesi: « Non vogliate mentire fra voi, spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi e vestendo il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento, secondo l' imagine di lui che lo creò« (1). » Dove dicendo, che si rinnova nel conoscimento , dimostra che questa rinnovazione si fa nella parte suprema, e dicendo che lo creò , dimostra che non è una mutazione che solamente succeda, ma l' aggiunta di cosa nuova; e dicendo secondo l' imagine, dimostra che l' uomo si fa a imagine di Dio per la grazia, cioè per Dio stesso che abita nell' uomo: e convenevolmente si dice, che Dio è simile a sè stesso, quando nessun' altra cosa senza Dio può essere in alcun modo a Dio somigliante. Vedesi che questa maniera di parlare non è a caso, nè solo usata l' una o l' altra volta nelle Scritture, ma ella è propria e costante nei sacri libri e massime nelle lettere di S. Paolo. Egli è coerentemente alla stessa dottrina che l' Apostolo dice, che quando nasce l' uomo nuovo, muore il vecchio e che non si deve il vecchio far rivivere: [...OMISSIS...] . E dice: il corpo del peccato essere distrutto; volendo dire che questo corpo pieno di concupiscenza non ha più quella forza che aveva di regnare colle sue voglie sottomettendosi la volontà, e che però questo corpo, relativamente alla volontà e alla persona, è già come morto, chè nulla più può e nulla conta; come poco appresso dicendo: « Stimatevi essere morti al peccato, e vivi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro. E però non REGNI il peccato nel vostro corpo mortale, sicchè ubbidiate alle sue concupiscenze« (4). » Il qual regnare del peccato è appunto l' influire e muovere la volontà umana. E quindi dà all' uomo, considerato come persona, due esistenze, l' una nella carne e l' altra nello spirito; che è quanto dire l' esistenza della persona priva di grazia e al peccato soggetta, e la persona nuova informata dalla grazia e da lei mossa: « Quando ERAVAMO NELLA CARNE » (ecco le sue parole) «le passioni de' peccati operavano » (ecco i principii operanti) «nelle nostre membra, acciocchè fruttificassero alla morte. Ora poi siamo sciolti dalla legge della morte » (cioè della carne destinata alla morte), «nella quale eravamo legati, dimodochè serviamo nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera« (5). » Egli è vero che anche nell' uomo nuovo rimane la concupiscenza, giacchè non si risana la parte inferiore ma solo la suprema, e però avviene che la carne disubbidisca allo spirito. E S. Paolo ciò non dissimula: ma dice tuttavia francamente, che non vi ha nulla di condannevole in quelli che hanno l' esistenza in Cristo (1); intendendo col pronome quelli le loro persone; giacchè le nature loro non sono ancora esenti dalla corruzione che le danna alla morte. E ciò perchè non sono più essi (la persona) quelli che operano i moti della concupiscenza, ma è il guasto che nella loro natura rimane, cioè un principio inferiore al supremo, che appartiene bensì alla natura, ma non alla persona: « Or poi già non IO opero ciò, ma quel peccato che abita in me« (2). » Nelle quali parole il pronome personale IO significa la persona, e il peccato che abita in me è una frase che equivale a quest' altra: quel peccato che sebbene sia cessato formalmente, pure materialmente preso abita ancora nella mia natura. E quell' in me è da intendersi detto non in modo che significhi propriamente la persona, ma la natura; conciossiacchè nel discorso comune tutto ciò che è della natura si suole attribuire alla persona, per la cognazione e strettezza che ha quella con questa, e perchè la persona è nata a reggere la natura e questa è fatta per uso di quella. E perchè non nascesse equivoco S. Paolo diede egli stesso l' interpretazione di questo ME usato per natura, dicendo: « Io so che non abita IN ME, cioè NELLA MIA CARNE alcun bene« (3). » Colla quale aggiunta, cioè nella mia carne , dimostra di avere sentito il bisogno di spiegare quell' uso del pronome ME, acciocchè qui non si prenda a significare la persona, ma la parte inferiore della natura umana. E da questi due usi del pronome IO, coll' uno de' quali si prende a indicare in senso proprio e rigoroso la persona, coll' altro per figura di sinˆddoche a indicare ciò che è annesso alla persona e ne costituisce la natura, cioè la parte inferiore dell' uomo, nasce quel che introduce S. Paolo tosto appresso, il qual ragiona così:« Perocchè a ME (persona) sta congiunto il volere, ma non trovo come condurre l' opera voluta al suo intero effetto (per difetto delle potenze che dovrebbero ubbidire alla volontà e nol fanno). Conciossiachè non faccio (io persona) quel bene che voglio; ma faccio (cioè la mia natura fa), quel male che IO (persona) non voglio«. E da ciò appunto che fa quel che non vuole, deduce che non è la sua persona che il fa, ma la sua natura, argomentando così:« Ma se io faccio quel che non voglio, dunque non sono già IO (persona) che il faccio, ma quel peccato che abita in me. Trovo adunque una legge che a ME (persona) che vuol fare il bene, stia il male congiunto: poichè IO (persona) trovo il mio diletto nella legge di Dio SECONDO L' UOMO INTERIORE (cioè la persona nuova rigenerata), e poi veggo un' altra legge della mia mente e captiva ME nella legge del peccato che è nelle mie membra«. Dove egli dice che la legge delle membra captiva e assuddita lui, volendo dire che tiene legata e impedita la sua volontà superiore e personale, perchè al buon volere non corrisponde l' ubbidienza pronta e fedele delle membra o inferiori potenze. Conciossiacchè il debito ordine sarebbe che la natura ubbidisse alla persona, il qual ordine venne già espresso fin da principio nelle divine Scritture in quelle parole di Dio a Caino: « Sotto di TE » (pronome personale che viene a suonare quanto sotto la tua persona) «sarà il tuo appetito« (1), » che è la parte inferiore della natura umana. Quello adunque che i segni, istituiti da Dio al perfezionamento dell' uomo peccatore, mirano a fare, si è di guadagnare la persona riformandola e rigenerandola; e non badano a riformare così tosto il corpo, il quale verrà poi rigenerato a suo tempo, cioè nella risurrezione dei corpi, tirandolsi dietro l' anima in grazia, nella quale abita lo Spirito Santo (2). Il perchè S. Agostino egregiamente disse: « Il regno de' cieli non cerca altro prezzo che TE stesso » (cioè la tua persona e non il resto della tua natura). «Tanto egli vale quanto sei tu. Dà TE e avrai quello« (3). » E nei pii libri viene inculcato di dare SE stesso a Dio. Si possono vedere le belle cose che ha il celebre libro della Imitazione di Cristo in conformità di questo sentimento. In un luogo egli fa parlare Cristo così al discepolo suo: [...OMISSIS...] . Concludiamo adunque, che il secondo carattere de' segni dati al perfezionamento dell' uomo peccatore e la differenza da quelli dati all' uomo innocente, si è il modo onde i primi santificano l' uomo, il quale consiste« nell' indurre la santità nella persona umana per via di sensazioni corporee, rinnovellando così la persona, senza però rinnovellare al tempo stesso il corpo che a essa è congiunto«. Da ciò che abbiamo detto nei due capitoli precedenti consegue, che quei segni sensibili, i quali sono deputati alla ristorazione dell' uomo peccatore, devono essere una cerimonia religiosa determinata e istituita peculiarmente da Dio medesimo, autore della santificazione. E questo è il terzo carattere di quei segni che possono avere valore da santificare l' uomo dopo il peccato; è la terza differenza che li separa dai segni con cui il Creatore perfezionava a principio gli uomini innocenti. Perocchè i segni nell' età innocente dell' uomo non era bisogno che avessero tanta virtù da infondere nell' uomo la grazia stessa e la santità, ma solo da disporlo e dargli occasione da doversi conservare questi beni e accrescerlisi (1). Quando i nuovi segni dovevano ricevere da Dio medesimo una efficacia straordinaria, al tutto straniera alla loro natura, colla quale operando nel soggetto umano lo sollevassero fino alla congiunzione con Dio medesimo. E all' opposto mediante il peccato tutta la natura era stata privata di ogni soprannaturale virtù, e di più nelle cose dell' universo era già entrata la corruzione. Ora tutti gli oggetti naturali che compongono l' universo non possono produrre nell' uomo che effetti naturali per sè medesimi, e anche questi in gran parte funesti pel guasto entrato in essi. Tutto al più possono valere a significare o simboleggiare cose spirituali, ma non a produrle: e anche quelle significazioni sarebbero sterili per l' uomo, che privo di lume soprannaturale non le intenderebbe. Volendo dunque Iddio con dei segni sensibili significare la grazia e la salvazione che egli intendeva di dare all' uomo peccatore, per modo che l' uomo intendesse in que' segni l' ordine sublime di detta grazia e di detta salvazione, e volendo altresì che i medesimi segni avessero efficacia e virtù di produrre o almeno di occasionare, o per sè o per la fede loro annessa, le cose che significavano; era al tutto necessario che egli manifestasse la sua volontà e che determinasse quali fra tutti gli oggetti sensibili, atti a significare, egli trascegliesse all' ufficio di detti segni, comunicando loro quella virtù e quel valore. Questo era quanto dire, che Dio [doveva] istituire questi segni e dichiarargli agli uomini: e da quel punto che si fossero da Dio istituiti e dichiarati, quei segni diventarono una religiosa cerimonia, e sono questi i segni a cui, per contraddistinguerli da tutti gli altri, si applicò peculiarmente il nome di Sacramenti. Egli è manifesto che i Sacramenti per tal modo istituiti diventano, oltre la cagione o l' occasione della salute, altresì un culto che a Dio si presta e una cotale consacrazione dell' uomo all' onore e culto divino (2). Egli è dunque il terzo carattere, dei segni dati da Dio all' uomo pel suo perfezionamento,« l' essere Sacramenti, ossia cerimonie religiose, che significano e producono od occasionano la salute dell' uomo e il suo consacramento al culto divino«. Ma questi segni istituiti espressamente da Dio in cerimonie religiose a lui grate, con che acquistavano la natura di Sacramenti, non impedivano però che la divina Provvidenza usasse ancora molti altri segni o simboli naturali a istruire l' uomo, ammonirlo, eccitarlo: sicchè continuarono i segni primitivi, e solo si sopraggiunse la determinazione di alcuni speciali [segni] in cerimonie di culto. Il perchè divideremo i segni, dei quali Iddio si servì in beneficio degli uomini, in due classi, chiamando quelli della prima segni istruttivi , quelli della seconda segni effettivi o Sacramenti. Una natura nemica di Dio, fonte della esistenza, non può sussistere: e se ella dura, non è per rispetto di lei che il Creatore la mantiene, ma sì in grazia di altra natura di lui amica. Il peccato adunque ha per naturale conseguenza la distruzione di chi pecca. Se gli Angeli dopo il peccato non furono annichilati, fu solamente che essi dovevano servire ai disegni di Dio, ad accrescere la gloria di Cristo e la santità degli eletti, e ad essere un monumento perpetuo della sua giustizia insieme e della sua bontà conservatrice in cospetto a tutte le create intelligenze e a Dio stesso. L' uomo potè essere distrutto senza venire annichilato, perchè l' uomo risulta dalla unione di due elementi, il corpo e l' anima, tolta la quale unione l' uomo non è più, sebbene esistano ancora gli elementi de' quali egli si componeva. Nell' ordine della divina giustizia e della divina bontà fu trovato che una tale distruzione dell' uomo, che non portava annichilamento, ma lasciava soprastare gli elementi, non opponevasi alla massima glorificazione di Dio e santificazione della creatura, presa questa nel suo complesso; e però la natura umana peccatrice fu abbandonata alla sua sorte naturale, cioè alla morte. L' ordine del divino consiglio nella redenzione dell' uomo era appunto quello, che per mezzo della morte si ristorassero tutte le cose rovinate dal peccato. Così davasi corso alla giustizia, e col soddisfarsi pur della giustizia facevasi luogo alla divina misericordia. In tal modo tutto si conciliava, non derogavasi nè all' uno nè all' altro dei due sommi attributi della divina natura, giustizia e bontà, e operavasi in un modo ammirando ciò che dice il Salmo: [...OMISSIS...] . La morte per sè stessa o è una conseguenza naturale della limitazione della creatura, o è un suicidio di essa creatura, o finalmente una giusta vendetta del Creatore. Se vi potesse essere una creatura corruttibile, come l' uomo, nello stato di natura pura, ella sarebbe stata mortale, sebbene non avesse peccato: e in questo rispetto la morte non è che una naturale conseguenza della creatura limitata nelle sue forze e nella sua azione. Se poi si considera che il peccato porta anco fisicamente un' alterazione nella natura umana, capace a produrre in essa o certo ad accelerare la sua distruzione, in questo aspetto la morte si può chiamare un suicidio della creatura. Se poi si riguarda la morte dell' uomo come una cotal punizione del peccato, ella in quest' ordine di giustizia è giusta vendetta del Nume ingiuriato. Ma la morte considerata in qualsivoglia di questi tre aspetti, ella non si presenta ancora menomamente come un mezzo di placare Iddio e di riconquistare la sua misericordia. Acciocchè la morte potesse essere un tratto di giustizia il quale facesse la via alla misericordia, conveniva che ella fosse un sacrificio e un sacrificio grato al Signore. Ora perchè la morte acquistasse la natura di sacrificio era uopo, che chi la sosteneva la pigliasse volontariamente e per amore di giustizia; era uopo insomma che alla morte si aggiungesse l' oblazione e che questa oblazione fosse accettata da Dio . Nessuno degli uomini che ereditavano il peccato di Adamo poteva tanto; nessuno amava tanto la giustizia; nessuno aveva il coraggio di morire per essa, perchè non conosceva, non aveva alcuna esperienza dei beni che stanno al di là della morte: avesse anco saputo e potuto morire per la giustizia, la sua offerta era ancora troppo scarsa a dover poter pagare l' immenso debito della natura umana con Dio, e il suo sacrificio [sarebbe stato] perduto. Non c' era che la morte di Cristo che potesse [esser] valida a tanto officio; era la morte di un innocente che offeriva sè stesso, che dava più che non doveva, un prezzo infinito ed atto a pagare pienamente e con soperchio il debito della umana natura. Così l' Uomo7Dio potè essere sacerdote facendosi vittima. Questo fatto pertanto della incarnazione del Verbo fu il fatto, come abbiamo detto innanzi, che rese possibile la salute dell' uomo peccatore. Del merito della passione dell' Uomo7Dio i Sacramenti scaturirono: essi dunque nascono tutti dal sacrificio e hanno questo intrinseco carattere di portare l' effetto di questo sacrificio in se medesimi. Laonde dice S. Tommaso, che Cristo per la sua passione [...OMISSIS...] . Egli è per questo, che coi Sacramenti della nuova legge si rappresenta e rinnova in imagine la morte di Cristo e però quasi si vede questa sott' occhio operante in essi. Questa dottrina è dell' Apostolo, il quale nella lettera ai Romani la applica al battesimo, mostrando in lui effigiata la passione di Cristo: [...OMISSIS...] . Le quali parole alludono al battesimo che si faceva ordinariamente per immersione della persona nell' acqua, che era figura del seppellire e del risorgere poi, estraendosi dall' acqua la persona. La medesima rappresentazione del sacrificio di Cristo ed anzi rinnovazione è dimostrata nella Eucarestia, della quale dice: [...OMISSIS...] . E degli altri Sacramenti soggiunge il Cardinale Bellarmino, non così noto, ma tuttavia certo è che significano tutte quelle cose almeno implicitamente; perocchè significando tutti la grazia, di conseguente significano altresì il principio e il fine di essa grazia (4). Nè solo i Sacramenti della legge nuova, ma anche quelli dell' antica avevano per così dire l' impronta della distruzione in sè e della morte, come si vede particolarmente in tutti i sacrificii. E però S. Tommaso dice che [...OMISSIS...] . I segni dunque destinati da Dio a dover perfezionare l' uomo dopo il peccato dovevano essere, per così dire, altrettanti atti di quel sacrificio che era richiesto dalla giustizia offesa, e col quale questa veniva placata, e però quasi espressioni della passione di Cristo e di quella morte altresì degli uomini tutti, la quale unita a quella del Redentore prende anch' essa forma e natura di sacrificio accettevole. Ora anche in questo differivano dai segni perfezionatori dell' uomo innocente, al quale non era necessaria alcuna vittima di propiziazione, nè che la umanità fosse colla morte realmente distrutta. Fin qui de' segni destinati a risarcire e riformare l' umanità peccatrice. Ora egli è da por mente a quello che abbiamo di sopra toccato (1), cioè che sebbene fosse necessario, a tenore della legge della divina Provvidenza circa il perfezionamento della creatura umana, che Iddio fornisse l' uomo peccatore di alcuni segni di un' indole particolare, i quali chiamiam Sacramenti, di cui al tempo della innocenza non era bisogno, ciò che anco fece la divina bontà; tuttavia non cessò però punto l' ordine primitivo, col quale Iddio aiutava lo sviluppo dell' umanità, circondandola di segni e per questi rivelandole le verità, di cui ella vieppiù si ammaestrasse: ma l' istituzione de' Sacramenti non fu se non dalla serie dei segni coi quali Iddio parlava all' uomo, un trarne alcuni e questi elevarli a dover essere sacre cerimonie e per grazia speciale aggiunta loro sopra gli altri efficaci. E il torne alcuni pochi a cui aggiunger Dio questa sua virtù era massimamente necessario alla umanità peccatrice; perchè, divisa questa da Dio e con essa la natura, avveniva che tutto ciò che ella operava e tutte le cose, colle quali comunicava immediatamente, erano rimaste puramente naturali, perduto quell' adombramento di soprannaturale e divina forza che involgeva le cose tutte del mondo innocente, quando la divina natura era congiunta e aderente alle sue creature anche in modo grazioso e con effetti soprannaturali, come detto è. Sicchè se all' uomo non fossero rimasti che segni puramente naturali, questi non potevano in modo alcuno aiutarlo a nulla che appartenesse alla sua eterna salute e all' opera della grazia. Continuò dunque l' ordine dei segni primitivi (senonchè resi ad esser puramente naturali), e a questi Iddio ne aggiunse alcuni pochi speciali deputati da lui a dover aiutare l' uomo come religiose cerimonie al suo soprannaturale destino. Quei primi sebbene puramente naturali, tuttavia erano istruttivi appunto perchè significavano: e a tal fine li volgeva la Provvidenza, a rivelare cioè alla mente dell' uomo sempre più le verità salutifere. I Sacramenti all' incontro erano atti di culto, e non avevano a solo fine d' illustrare la mente umana, ma di salvare l' uomo stesso. I segni però, che chiamammo semplicemente istruttivi e che erano il mezzo della divina rivelazione, sebbene di loro natura fossero puramente naturali e ad essi non fosse aderente alcuna virtù dello Spirito Santo, sicchè Iddio l' usava come provvisore e non propriamente come santificatore; tuttavia per indiretto giovavano l' uomo anche quanto allo stato suo soprannaturale. E ciò avveniva quando l' uomo avesse già in virtù della fede ottenuta la riconciliazione con Dio e la grazia divina; conciossiacchè allora cominciavano ad appartenere alla prima di quelle quattro classi di segni che abbiamo distinte (1), cioè a quelli che, sebbene puramente naturali tuttavia dall' uomo in possesso della grazia vengono usati e volti a proprio merito e lume maggiore; conciossiacchè investito l' uomo dalla grazia, tutto in lui può essere da questa vivificato, e però anche quegli effetti che in lui sono prodotti da cagioni naturali. Conviene poi distinguere due tempi, nei quali la divina Provvidenza fece uso coll' uman genere di questi segni istruttivi: il primo da Adamo fino ad Abramo, il secondo dalla vocazione di questo Patriarca in poi. Nel primo tempo Iddio comunicò la rivelazione delle salutifere verità a tutta la umana famiglia: nel secondo tempo alla sola casa di Abramo propagginata per Isacco e Giacobbe. Ragione dell' aver Iddio cessato dal comunicare al corpo della umanità le sue rivelazioni, si fu la corruzione di questa: la quale sviata dietro le sensibili cose, in esse finiva il lume di sua intelligenza, e però non riceveva più con rispetto le comunicazioni di Dio, nè aveva intendimento a capirne i cenni, nè grazia a giovarsene. La distrusse col diluvio, rinnovellandola colla famiglia di Noè: ma i discendenti di questo patriarca moltiplicati perdettero il senno dietro ai diletti delle cose materiali e non rivolsero più l' animo a udire Iddio che pur parlava loro; e perciò Iddio non udito cessò dal loro parlare, e trascelse di tutti un uomo fedele per rivelarsi indi in poi a lui e alla sua stirpe, escludendo le altre generazioni da questa speciale sua cura. E in ciò fare la divina pietà mirava tuttavia al bene universale degli uomini (2). Perocchè il grande scopo della scelta che faceva della stirpe Abramitica era di fare che al mondo non venisse meno chi ricevesse e conservasse il deposito delle verità, a cui conservare diligentemente si esigeva oggimai che fosse deputata una società di persone, la quale ne avesse speciale incombenza e venisse a quest' uopo di speciale provvidenza soccorsa, fino a tanto che il Cristo venuto al mondo colla sua onnipotente virtù riguadagnasse di nuovo l' umanità tutta e la rimettesse a parte delle verità al mondo conservatesi e della pienezza della salute. Conciossiacchè senza l' istituzione di quest' ordine di persone incaricate del ministero di conservare il sacro deposito, questo lasciato in balìa degli uomini, sarebbe in breve tempo perito e ogni luce spentasi sopra la terra. Sicchè come nelle comunanze numerose è necessario stabilire certi ordini e deputare certe persone a speciali ministeri; così nella comunanza delle nazioni la nazione ebraica era quella che Dio deputò a mantenere il magistero delle verità salutifere (1). Questa disposizione benefica della Provvidenza, che mirava alla salute di tutta la terra pur sembrando di restringere la sua cura alla famiglia de' Patriarchi, è ciò che pone in vista S. Paolo nella Lettera ai Romani, ove mostra che la legge non valse a salvare gli ebrei, i quali furono riprovati, e questa riprovazione diede anzi occasione alla salute dei gentili: [...OMISSIS...] . Nè però furono abbandonati gli Ebrei, le reliquie dei quali saranno pure salvate, il qual salvamento ridonderà pure in vantaggio del mondo intero: [...OMISSIS...] . Conciossiacchè è da dire che la nazione ebraica venne coltivata e sviluppata bensì negli iniziamenti dello spirito, e tuttavia fu immatura alla piena luce di Cristo: laddove le genti maturarono prima a ricevere la luce di Cristo, sebbene non fossero atte alla luce minore e preparatoria della legge e della rivelazione iniziatrice alla venuta del Messia. E però dice pure l' Apostolo [...OMISSIS...] . Ora il preciso tempo in cui Dio cominciò a dare a una famiglia particolare i segni istruttivi che prima dava al corpo intero degli uomini, si fu allora che venne istituita la circoncisione e promesso Isacco, o l' anno appresso in cui questi nacque: dopo che erano passati dal diluvio più di quattro secoli e mezzo (4), durante i quali il mondo era tornato a corrompersi. Perocchè prima Iddio chiamò il santo Patriarca Abramo fuori della sua patria, che era Ur città di Caldea e ne uscì venendo col suo padre Thare in Haran dove dimorò alquanto. Spacciato poi del padre, cui sepellì in Haran, fu nuovamente da Dio chiamato, perchè se ne andasse nella Cananea. E di qui cominciano le promesse divine del seme eletto, che avrebbe posseduto quel paese di Canaan. Il nascimento però del figliuolo della promissione era troppo ancora lontano: fu solamente ventiquattro anni di poi che la nascita d' Isacco come prossima si annunzia: e allora si istituisce la circoncisione a suggello che doveva contrassegnare e distinguere da tutte (5) la schiatta prescelta a dover ricevere in deposito le rivelazioni che da quell' ora innanzi Dio avrebbe fatto agli uomini. Fin qui adunque Abramo non aveva fatto per così dire che il noviziato a ciò che doveva poi essere. Ma dopo tant' anni di tal noviziato, toccando quel santo Patriarca già l' anno centesimo, Iddio pose mano a mantenergli il promesso facendogli nascere Isacco che fu circonciso a riprova del patto: dal che comincia, a mio parere, l' istituzione piena di quella stirpe designata a ricevere e conservare le divine comunicazioni. Il perchè anche S. Paolo unisce insieme l' essere il popolo Ebreo destinato a ricevere le comunicazioni divine e l' essere circonciso: [...OMISSIS...] . Ecco qui l' essere gli Ebrei depositari dei divini eloquii fatto un conseguente della circoncisione che Abramo ricevette, come dicemmo, quando gli fu promesso e gli doveva già tosto nascere quell' Isacco la cui discendenza avrebbe posseduta la terra della santità e della fecondità (2). Quale fu poi il tempo preciso nel quale cessò quella serie di segni istruttivi, coi quali Iddio comunicò al seme eletto di Abramo la verità che voleva rivelare agli uomini? Quanto durò lo svolgimento intero di quelle verità che si dovevano a mano a mano consegnare da Dio alla casa eletta de' Patriarchi? Io credo non errare se affermo che il fine delle antiche rivelazioni destinate alla casa di Giacobbe si può porre nell' anno 453 avanti la venuta di Gesù Cristo, o in quel torno, che risponde all' anno del mondo 3551 (3). Egli è in quest' anno che Neemia rinnovella l' alleanza del popolo d' Israello col Signore. Questa nuova alleanza celebrata solennemente per opera di questo grand' uomo era assai manifesta figura della nuova alleanza che doveva farsi pel Cristo, e dimostrava l' alleanza antica già pervenuta al suo termine. Lo stesso veniva significato dal nuovo fuoco sacro riacceso miracolosamente dall' acqua crassa trovata dai Leviti in quel luogo ove era stato nascosto l' antico: la quale acqua, di cui Neemia aveva fatto aspergere le legne e le vittime preparate in sull' altare, si levò in fiamme all' entrare dei raggi del sol nascente, perpetua imagine nelle divine Scritture di Cristo. Il secondo tempio rifabbricatosi e dedicatosi pur or di nuovo, quel tempio che doveva essere più grande del primo, secondo le predizioni dei profeti, non per la mole e ricchezza dell' edificio, ma perchè destinato ad accogliervi il Messia; accennava pure con bella imagine la nuova Chiesa spirituale che già doveva essere fondata dal Redentore, passata e distrutta interamente l' antica. Insomma cadono in quest' epoca tutti i segni, che l' ordine antico è oggimai finito e che non si fa che aspettare l' ordine nuovo a cui preparare quell' antico era rivolto. Non lasciano dubitare di ciò lo circostanze tutte che accompagnano una tal' epoca e che si devono attentamente considerare. Qui finiscono i Profeti, l' ultimo de' quali è Malachia, di cui pure è la profezia del secondo tempio visitato dal Messia, della oblazione monda che si offerirà in tutta la terra, e del dover essere il veniente Messia un fuoco ardente che purifica e monda. Nel tempo medesimo che si chiudono per tal modo le profezie, cominciano le settanta settimane di Daniello, predizione mirabile che appalesa il tempo preciso della venuta dell' aspettato Legislatore, e il cui principio cade appunto nell' anno indicato della nuova alleanza celebrata da Neemia, il 453 avanti il nascimento di Cristo. Seguendo questa legge la serie successiva delle profezie intorno a Cristo, che le anteriori profeteggiano le cose del Cristo più in generale, e le posteriori meglio particolareggiano; doveva quella delle LXX settimane appartenere alle ultime fra tutte le profezie, conciossiacchè nulla restava oggimai a dirsi di più preciso e di più determinato (1). Daniele ebbe questa grande rivelazione in sulla fine della cattività Babilonese: e il fine di questa celebre cattività di settanta anni predetta già da Geremia (2), è appunto una nuova figura della liberazione del mondo che doveva essere fatta pel Messia, e del fine di quell' antico popolo che serviva sotto il peso importabile della legge. Chi bene osserva nelle divine Scritture troverà che questo solenne tipo della schiavitù babilonese e della francagione da essa del popolo eletto è come il costante segno a cui mirano le predizioni precedenti appartenenti all' antico patto; ed egli pare questa grande sciagura del popolo ebraico l' ultimo colpo, col quale la divina Provvidenza avesse decretato di dargli forma e di compire la sua educazione. L' antico patto doveva preparare il nuovo. La dottrina fondamentale del nuovo era di fare conoscere agli uomini e adorare la Trinità delle divine persone: qui parava la missione di Gesù Cristo (3). Ma la Trinità delle persone non poteva essere conosciuta e adorata dagli uomini prima che questi non avessero conosciuta e adorata l' unità della divina sostanza. La dottrina adunque dell' unità di Dio era la preparazione che doveva precedere quella della Trinità. Egli è per questo che tutte le antiche Scritture che riguardano il popolo ebraico, e per parlare ancor più generalmente, tutti i segni istruttivi dati successivamente a questo popolo, tendono costantemente ad abbattere l' idolatria, verso la quale tutta la umanità incredibilmente aggravavasi, e stabilire la cognizione e il culto del solo vero Dio Creatore del cielo e della terra. Qui tendono costantemente le prime e le ultime parole delle antiche carte: qui convergono e parano tutte le linee dell' istoria maravigliosa dell' Ebreo popolo. Ora questo scopo fisso alla educazione del popolo ebreo fu da Dio intieramente ottenuto e compito al tempo in cui Israello tornò dalla schiavitù babilonica, riedificò Gerusalemme, le mura, la piazza e il tempio. La seconda alleanza che celebrò Neemia col popolo, non fu, come la prima, infranta ognora e manomessa col peccato dell' idolatria, ma fu stabile e immune da sì fatta abbominazione, come doveva essere a rappresentare vivamente la perpetua e vera alleanza, che Cristo e il popolo da lui francato, avrebbe stretto con Dio (1). Per ciò nel Profeta Zaccaria è chiamata la nuova Gerusalemme città della verità, cioè fedele: [...OMISSIS...] . E nel tempo stesso che queste cose annunzia Geremia nella Giudea, le medesime cose prediceva Ezechiele in Babilonia a' suoi concaptivi. Questi vide il Signore portato dai Cherubini uscire dal vecchio tempio poco prima che fosse distrutto da Nabucodonosor, e vide lo stesso Signore sui Cherubini rientrare nel tempio di nuovo edificato, colla promessa di sua stabile dimora in quel luogo: [...OMISSIS...] . Veramente l' allontanamento costante dell' idolatria da questo tempo in poi fu tale nel popolo Ebreo, che nè pure le più atroci persecuzioni come fu quella di Antioco Epifane, non poterono più crollare e smovere dal culto dell' unico vero Dio e dall' aspettazione del Messia, che solo restava a recare la pienezza delle rivelazioni. [...OMISSIS...] Il tempo adunque entro cui furono dati da Dio i segni istruttivi alla stirpe d' Israello abbraccia un corso di oltre ai quattordici secoli. Nei quattro primi questa stirpe trovasi ancora nello stato di società familiare. Il Signore la trae dall' Egitto, e al Sinai la costituisce nazione, 405 anni dopo il nascimento d' Isacco. La educazione di questa schiatta, come nazione, dura dieci secoli: i quattro primi colla legge mosaica, confortata dagli avvenimenti; gli altri sei, che cominciano con Davidde, che 443 anni dopo la legge pubblicata sul Sinai è riconosciuto Re dalla tribù di Giuda, acquistano un ampliamento di luce da quanto Dio rivelò a' suoi eletti e che fu scritto nei Salmi, nei libri Sapienzali e in quelli dei Profeti. Può dimandarsi, perchè tardò il Cristo ancor quattro secoli e mezzo, dopo che erano comunicate alla casa di Giacobbe tutte le rivelazioni destinatele, e resa al tutto salda nella dottrina dell' unità di Dio e del suo culto? Non lice agli uomini entrare curiosamente investigando i divini consigli; pure egli par probabile, che fra le molte ragioni a cui poteva riguardare la divina Provvidenza in così facendo, queste due non mancassero: la prima, che non bastava la rivelazione dell' antico patto essersi tutta comunicata, ma conveniva altresì che fosse studiata e meditata e penetrata ben addentro negli animi, e conformate altresì ad essa le operazioni, acciocchè la plebe del Signore riuscisse per essa preparata e matura al ricevimento del Messia: e a un tal lavoro bisognava non poco tempo (3). La seconda [fu] che, come dicevamo, l' elezione del popolo Ebraico, non fu solo a suo vantaggio, ma in servigio degli altri uomini altresì. Il perchè era necessario, che due cose operasse la divina Provvidenza per esso popolo, cioè che a lui terminasse di dare la rivelazione, e che poscia ne facesse brillare il lume dalla Giudea anche all' altre nazioni, acciocchè queste se ne giovassero come di un preparamento che le acconciasse a ben accogliere il sole del Vangelo. E la schiavitù stessa dell' ebraico popolo in Babilonia aveva questi due fini ad un tempo, e di correggere col castigo l' infedeltà e durezza d' Israele, e di spargere presso l' altre genti i divini oracoli, di cui l' israelitico popolo era il depositario. Quasi per intero le dieci tribù rimasero, anche dopo la riedificazione di Gerusalemme, disperse fra le nazioni. I primi che tornarono da Babilonia, uscito il decreto di Ciro, non oltrepassavano il numero di cinquemila, e delle ventiquattro famiglie sacerdotali non fecero ritorno che quattro. E benchè in più tempi poscia troppo più ritornassero, che quei primi, tuttavia rimasero da quel tempo assai Ebrei disseminati per tutto il mondo: e quello che è maraviglioso, tutti costanti nella fede e nel culto del vero Dio, senza che più traboccassero nelle idolatriche superstizioni dei popoli fra cui vivevano. Ora di ciò quei popoli idolatri ricevevano la notizia dell' unità di Dio e della vera religione. Questo consiglio della divina Provvidenza era noto anche ad essi medesimi. [...OMISSIS...] Dopo due secoli e mezzo che colla dispersione degli Ebrei e colle molte relazioni di questi colle nazioni idolatriche si proseguiva quest' opera di far conoscere il vero Dio al mondo tutto (2), Iddio provvide altresì d' un altro mezzo questo suo grande e benefico consiglio, cioè del volgarizzamento delle divine Scritture in greco, lingua comune allora a tutti i popoli colti, fatto dagli interpreti che mandò il Sommo Pontefice Eleazaro a Tolomeo Filadelfo in Alessandria e che si fa cadere l' anno 176 avanti la venuta di Cristo. Così non solo per la viva voce, mezzo proprio delle società familiari, ma finalmente anche per la scrittura, mezzo proprio delle società nazionali, le dottrine rivelate furono aperte e pronte a tutto il mondo, che doveva essere conquista della verità Incarnata. Quindi è, che come il Precursore fu mandato a dare l' ultima mano alla formazione del popolo santo, apparecchiando, come dice il Vangelo, al Signore una plebe perfetta (1); così pure poteva dire Cristo anco per risguardo ai gentili che « le regioni già biancheggiano per la ricolta« (2). » Ora facendoci noi a divisare quelli che abbiamo chiamati segni istruttivi in classi, primieramente due principali generi ci si presentano, quello delle parole e quello delle cose. Ora le parole segnano le idee e le richiamano per una associazione di memoria fra la parola udita e l' idea; e anche per una analogia che passa fra l' ordine delle parole e quello delle idee, come prima fu detto (3). Quindi se una lingua qualunque si parlasse a un uomo che non avesse mai avuto sensazione di sorta alcuna e per ciò stesso non idee fattizie; quest' uomo nè intenderebbe cosa alcuna di quelle voci di cui componesi la lingua parlatagli, nè verrebbe mai a capo d' impararne l' uso per quantunque tempo la udisse. Le sensazioni adunque che dànno le percezioni e quindi le idee prime delle cose sono indispensabili all' uso delle lingue vocali, le quali ricevono da esse il loro valore e uso, o certo la loro possibilità. Or poi se le percezioni sensibili e le idee prime che da esse si hanno, recano questa luce alle lingue vocali, senza la quale queste nulla notizia potrebbero comunicare; molto più era necessario che delle percezioni sensibili accompagnassero i discorsi divini coi quali il Creatore voleva comunicare all' uomo la cognizione di sè e in generale delle cose soprasensibili. Questo vero risulta da ciò che ragionammo di sopra (1) e conviene qui averlo chiaramente presente. Lo sviluppo naturale dell' uomo tiene quest' ordine: che 1. percepisca co' sensi suoi le cose materiali e se ne formi mediante tale percezione le imagini e le idee; 2. quindi che colla lingua possa comunicare le idee ricevute pei sensi, cioè altrui risovvenirle e disporre queste idee variamente, cioè far di esse diverse sezioni (astratti) e varii accoppiamenti (giudizii raziocinii e ragionamenti); 3. nelle imagini e idee delle cose materiali e nei prodotti avuti da queste coll' uso della lingua trovare delle analogie colle cose insensibili e divine; 4. e ciò principalmente mediante la lingua o il discorso che chiama l' attenzione sopra quelle analogie e le fissa in mente e le richiama e moltiplica. Tutto questo ragionamento dimostra che Iddio non poteva ammaestrare gli uomini primitivi nelle cose divine che non cadono sotto i sensi, con delle sole parole vocali (2); ma che conveniva a dar corpo e senso a queste parole, e far che elle non suonassero vanamente agli orecchi umani, ch' esse primieramente significassero oggetti materiali e sensibili, e in secondo luogo, che in questi oggetti fossero emblemi delle cose insensibili per una cotale analogia di esse a quelle, e questo emblema analogico venisse fatto osservare. Ciò posto, le cose materiali si percepiscono da noi primieramente col senso esteriore. In secondo luogo esse ci vengono rappresentate anco dalla imaginazione, essendo il senso già a lei preceduto. Per ciò tutti si riducono finalmente a dover essere percezioni e imagini . Ora due cose possono essere percepite dal senso: 1. i fatti esterni che avvengono; 2. dei segni o cerimonie espressamente istituite acciocchè vengano percepite, e per esse noi veniamo a conoscere quello che esse cerimonie vogliono rappresentare. Queste due specie di segni emblematici appartengono alle percezioni. Anche le imagini possono farci l' ufficio di segni istruttivi emblematici per due modi. Perocchè l' imaginazione può essere scossa e eccitata a ricevere le impressioni: 1. da delle visioni , che così noi le chiameremo, o in sogno o in veglia; 2. ovvero da delle locuzioni metaforiche , da parabole, allegorie e da ogni maniera insomma di traslato che cade nel discorso: il che è ciò che alcuni chiamano parlare enigmatico delle sacre Scritture. Perciò a quattro specie si riducono i segni emblematici istruttivi, cioè 1. fatti o avvenimenti esterni; 2. cerimonie; 3. visioni; 4. lingua enigmatica. E tale doveva essere e fu il sistema de' segni istruttivi coi quali Iddio rivelò agli uomini la serie delle divine verità. Noi ne faremo prima l' enumerazione di alcune delle tre prime specie; e poi diremo alcuna cosa di quelli che appartengono all' ultima, cioè alla lingua enigmatica. Già abbiamo veduto che tutto l' universo materiale fu da Dio imaginato e creato con tale sapienza ch' egli fosse emblema dell' universo spirituale (1). Or quella stessa divina Sapienza e Provvidenza ordinò siffattamente gli avvenimenti o mutazioni che succeder dovevano sì nel mondo esterno come nella società umana, che questi avvenimenti e mutazioni dovessero appunto essere un continuato emblema di quella dottrina religiosa che veniva così di mano in mano agli uomini comunicata: la quale per ciò procedeva sviluppandosi e ingrandendosi di pari passo colla storia dell' umanità. Tutto adunque era rappresentativo in quel primo tempo, cose, persone, fatti. Ed egli sarebbe pur bellissimo e utilissimo lavoro il trar fuori per ordine, secondo una fine critica, tutti quei tanti emblemi coi quali Dio parlò agli uomini. Ma a noi non è conceduto qui di far tanto; non possiamo che darne dei principali un brevissimo cenno. Nel tempo anteriore all' elezione della famiglia dei Patriarchi i principali emblemi che seguitarono ai primi, posti nella prima creazione delle cose e nella prima istituzione dell' uomo innocente, da noi già indicati, furono i seguenti: 1. Il Cherubino colla spada versatile e fiammeggiante posto alla parte orientale dell' Eden, che impedisce la via che reca al legno della vita ai primi uomini scacciati dal luogo delle delizie e della immortalità. Questo tipo fu rinnovellato nella rivelazione data alla famiglia de' Patriarchi coll' essersi stabilita quella porta orientale del tempio di Gerusalemme, che doveva essere sempre chiusa, e per la quale il Profeta Ezechiello vide uscire ed entrare quel misterioso Cherubino quadriforme e fiammante (1): [...OMISSIS...] . L' uno e l' altro di questi tipi rappresentava la porta del cielo (la carità, la grazia), chiusa dopo il peccato, e per la quale Dio solo poteva passare, e non l' uomo senza Dio. Ma l' uomo vi entrava avvolto e rapito dalla divinità, come il Profeta Ezechiello che viene dall' impeto del carro dei Cherubini trasportato dentro quella porta (2). Così Cristo uomo e quelli che sono incorporati in Cristo, sono portati dentro dalla divinità che li circonda e assume seco: gli altri non possono sostenere il fuoco del Cherubino, ma ne rimangon consunti (3). Il terzo tipo di questa porta celeste della santità, chiusa a tutti fuorchè a Dio, fu dato nel tempo della nuova legge nell' utero di Maria, cui per consenso di tutti i Padri e gl' interpreti figuravano i due tipi precedenti; perocchè ivi il solo Dio entrò e ne uscì il Dio uomo. 2. Abele tipo del Messia. 3. I figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, che colla loro divisione marcavano e rendevano più evidente l' inconciliabilità dei due principii, il bene e il male morale; e come la creatura non si poteva accostare al Creatore senza che egli il primo si accostasse: ciò che ricade all' emblema primo del Paradiso chiuso, secondo quel detto dell' Apostolo che « Iddio abita una luce inaccessibile« (4). » 4. La distinzione degli animali mondi e immondi rappresentò pure la stessa divisione del bene e del male morale, degli uomini buoni e dei cattivi. Questo è un tipo antico. Al tempo poi del popolo eletto fu rinnovato lo stesso tipo colla separazione di questo popolo dalle altre nazioni. E questo secondo tipo era rappresentato da quel primo: perciò gli animali mondi rappresentavano gli Ebrei come Santi (rappresentanti dei Santi); e gli immondi, i Gentili. Tale è la chiara spiegazione di questo tipo che si ha nella visione che ebbe S. Pietro in Ioppe riferita negli Atti apostolici, dove per fare intendere al santo Apostolo di dover predicare il Vangelo e battezzare non meno i Gentili che gli Ebrei, gli è mostrato in sogno il lenzuolo pieno di quadrupedi, di serpenti e di volatili, e gli è detto: « Sorgi, o Pietro, uccidi e mangia« (1). » Nel nuovo Testamento una simile separazione è rappresentata coi tipi degli agnelli e dei capretti, dei pesci buoni e non buoni, del frumento e della zizzania. E qui conviene riflettere in generale, che gli animali sono stati presi per emblema degli uomini, e nei varii costumi di quelli fu espresso e significato il vario costume di questi. Ciò conveniva specialmente agli uomini primitivi nei quali prevaleva la parte animale e non conoscevano sè stessi tanto da astrarre la parte intelligente e riconoscerla per principale e veramente umana. Usavano bensì di questa ma per così dire senza saperlo, perchè senza riflessione; e per la stessa ragione negli animali bruti immaginavano che avvenisse quello che in essi e che i principii di operare fossero uguali e per ciò non operassero senza ragione (2). Questo errore era delle masse, sebbene alcuni pochi si sollevassero talora a conoscere che il cavallo e il mulo non ha intelletto (3). Ora la divina Provvidenza mirava principalmente alla massa degli uomini, e non aveva per iscopo principale di t“rre loro uno o un altro errore materiale, ma di condurli al bene morale. Questo ottenuto, gli errori materiali svanirebbero da sè, perocchè sono i progressi che fa l' uomo nella moralità quelli che il mettono a segno da potere poscia progredire anco intellettivamente. Quest' ordine col quale la divina Provvidenza guida innanzi la perfezione dell' umanità, è l' opposto di quello della filosofia. Questa fa gran caso di qualche errore materiale e perde di mira la perfezione morale. Non solo è ciò ingiusto, anteponendosi il bene minore al maggiore, ma è anche contro natura. Perocchè l' ordine della natura umana esige e chiede di tendere prima a ciò che è immediatamente morale, e allora questa ha prese forze e agio di rettificare con pace e frutto gli errori puramente intellettivi. Conosciuto questo essere l' ordine proprio e legittimo del progresso della perfezione umana, non sarà maraviglia di vedere la divina Provvidenza che, non contrariando punto l' uomo nel credere che fa i bruti simili a sè nell' operare, tolga anzi questi per emblemi co' quali ammaestrarlo: appunto in un modo simile a quello che faceva quel filosofo greco che inventò più tardi le favole (Esopo). Ecco pertanto alcune prescrizioni emblematiche che Dio fece agli uomini de' primi tempi intorno agli animali bruti, acciocchè fossero segno e specchio di ciò che dovevano fare gli uomini fra di loro. Agli uomini usciti dall' arca proibisce di mangiare la carne col sangue: e ciò per rimuoverli dalla ferocia e dal metter le mani nel sangue umano: [...OMISSIS...] . Un altro ammaestramento voleva Iddio dare agli uomini con questo precetto, ed era di inculcargli il rispetto all' anima dell' uomo, e così chiamarli a riflettere alla dignità di quest' anima intelligente e fatta a similitudine di Dio, alla quale l' uomo animalesco non sapeva anco p“r mente. E per far ciò metteva innanzi agli uomini quest' anima come principio della vita animale, giacchè in quest' atto era più facile a quegli antichi poter fissare colla mente quest' anima e riconoscerla per qualche cosa. E conciossiachè la vita animale comincia nel sangue, per ciò s' inculca il rispetto al sangue, appunto come alla sede dell' anima (3). Laonde prosegue a dire Iddio in conferma del precetto di non mangiare carne col sangue: [...OMISSIS...] . Egli vi ha qui un' altra cosa a riflettere. Iddio a Noè uscito dall' arca dà la potestà di ammazzare e di mangiare gli animali: [...OMISSIS...] . Or non esclude dal potersi mangiare se non la carne col sangue. Si manifesta dunque chiaramente che questo rispetto al sangue delle bestie è puramente emblematico, non per sè, ma per ragione del sangue dell' uomo, che solo dicesi fatto a imagine di Dio. Ove si consideri questo vero, che le bestie in questa antica e primitiva scuola che dà Dio agli uomini, sono prese per emblema a significare uomini, verso cui sono i doveri morali, si vedrà come falsamente il Calmet ed altri assai vogliano indurre da siffatti luoghi dei divini libri la conseguenza: che la Scrittura supponga nelle bestie qualche parte d' intelligenza (2). Per altro lo stesso permesso, che Dio dà alla famiglia di Noè dopo il diluvio di ammazzare gli animali, è emblematico. E in quegli animali (di cui si fa pure rispettare emblematicamente il sangue), si ravvisano gli empi condannati da Dio a morte, e però indegni di vivere: tipo rinnovellato nello sterminio, che da Dio fu comandato agli Ebrei, dei Cananei e di que' varii popoli idolatri coi quali ebbe guerra il popol di Dio. E dove si rifletta che la famiglia di Noè rappresentava l' umanità rinnovellata da Cristo, perseguitata e martoriata che dimanda a Dio vendetta del suo sangue, verrà agevolmente alla memoria il Salmo che dice: [...OMISSIS...] . Insomma si viene a significare per quel permesso, che l' uomo non ha diritto alla vita se non per Iddio e per l' imagine che di Dio ne porta in sè stesso; e che l' uomo empio è abbandonato alla morte. Per ciò egli sembra, che a Noè e alla sua famiglia sia stato dato altresì il diritto della pena di morte da infliggersi pel delitto di omicidio, secondo quelle parole: « Chiunque effonderà il sangue umano, il sangue di lui sarà sparso« (4). » Dove si vede che l' imagine di Dio su cui è fatta l' anima umana varrebbe a riparare i buoni dall' essere uccisi, ma non gli uccisori perchè cattivi e da Dio alla propria ventura lasciati. Questo tipo viene illuminato da diverse osservazioni. Alla umanità antidiluviana, tipo dei peccatori, fu diniegato di far vendetta di Caino, di Lamec e degli altri micidiali. Voleva insegnarsi con questo, che Dio solo è il padrone della vita degli uomini; e che per far vendetta dei malvagi, siccome gli uccisori sono, egli non cede il suo diritto di morte agli stessi malvagi: ma incarica di fare questa sua giustizia i buoni, che vengono così a rappresentare la persona di Dio stesso. Conciossiacchè Iddio ha dominio della vita non solo perchè Creatore, ma, rispetto ai peccatori, anche perchè giudice e vindice della giustizia; e se conserva loro la vita, ne è anche per ciò sempre padrone. Or la divina giustizia non si può placare se non colla distruzione del peccatore, e però colla effusione del sangue, sede e simbolo della vita di lui: indi il Signore aveva riserbato a sè il sangue nei sacrifizii, per additare questo suo diritto sovrano di vendetta e di conquista. Il dir poi che egli fa che col sangue effuso nei sacrifizii si sarebbe placato, era un tipo del sangue di Cristo, solo atto a placarlo: [...OMISSIS...] . Che gli uomini attribuissero alle bestie intelligenza, ciò è facile di spiegare coll' ignoranza loro. Ma parlando Iddio, non si può assegnar questa causa al dare che egli fa ragione alle bestie, e convien prendersi ciò per un emblema volto a significare ben altro. Con quest' avvertenza medesima si deve intendere quello stringere che fa Iddio alleanza dopo il diluvio non solo cogli uomini ma colle bestie ancora: [...OMISSIS...] . Che questo parlare sia simbolico e venga a dire: io risparmierò d' ora innanzi tanto quelli che vivono da uomini come quelli che han costume di bestia, pare manifesto (3): massime raffrontando insieme tutti i diversi luoghi della Scrittura che dànno luce a queste maniere di parlare. La Scrittura si spiega da sè stessa. L' Apostolo S. Paolo, a ragion d' esempio, ci dichiara nascondersi una legge simbolica in quella nella quale si proibisce di mettersi la musoliera al bue che tritura, e dice il Santo: « Forse che Iddio si dà cura de' buoi?« (1) » trovando chiarissimo che con quella legge si voleva provvedere di cibo l' operaio evangelico che ha cura delle anime, e che nel bue triturante veniva rappresentato (2). Sarei infinito ove io volessi discendere a divisare il simbolo che si traeva da tutte le specie di animali, e mi rimetto all' opera de' Principii discussi dalla società Ebrea7Clementina, dove si traggono fuori i diversi enimmi che la divina Scrittura toglie dagli animali bruti (3). 5. I giganti, emblema dell' umana superbia e impotenza (4). 6. La famiglia di Noè nell' arca, tipo della Chiesa di Gesù Cristo salvata pel legno della croce (5). 7. Cogli usciti dall' arca uomini e bruti, Dio fa un' alleanza sempiterna. Ella era il tipo di quella alleanza che doveva farsi fra Dio e il popolo nuovo redento da Cristo (1). L' eternità e immobilità del patto con Noè e suoi discendenti non poteva avere altra ragione che questa tipica. Indi è l' efficacia delle parole che usa Dio ad annunziare quest' alleanza. Egli odora la fragranza del nuovo sacrificio che gli offerisce Noè: egli ripete più volte la formola dell' alleanza: [...OMISSIS...] . Pone per segno di questa alleanza l' arco celeste che avrà tale ufficio per tutte le generazioni avvenire (2): [...OMISSIS...] . Certo non vi ha patto sempiterno, secondo i dogmi cristiani, fra Dio e l' umanità se non quello del mediatore Gesù Cristo (4). E quando così si descrive il Figliuol dell' uomo che verrà sulle nubi, le quali sono l' emblema degli Angeli (5), apparisce assai chiaro, che l' arco celeste è un' acconcissima figura del Verbo incarnato che congiunge la terra al cielo. Ora il tipo del nuovo patto, del patto sempiterno venne più volte rinnovellato di poi presso il popolo Ebreo (6). Il Deuteronomio, che significa seconda o nuova legge, il patto rinnovato da Giosuè con Dio dopo entrati gli Ebrei nel possesso della terra promessa, e principalmente l' alleanza rinnovata da Neemia dopo il ritorno dalla schiavitù di Babilonia, come detto è innanzi, sono altrettante figure di una verità così importante, che non era mai abbastanza rammemorata e impressa negli uomini, perchè la fondamentale a cui tutte le altre si riferivano. .. La torre di Babele tipo delle opere dei malvagi che cominciano con grandi e superbe speranze, ma che restano imperfette e confuse. Questa maniera d' istruire gli uomini da Dio tenuta non è semplicemente una nostra opinione: ella è una verità positiva insegnataci dalla stessa Scrittura, la quale a un tempo registra i simboli e li spiega, mette innanzi gli enimmi e ci dice che sono tali, chiamandoci a penetrarne il senso nascosto. Tutta la storia ebraica, secondo l' Apostolo, è una serie di segni e di figure colle quali Iddio venivasi formando e ammaestrando quel popolo (1): e i Padri della Chiesa sono così uniformi in questa sentenza, sicchè ella si può dire a tutta ragione essere dottrina cattolica. Iddio scelse dal genere umano l' individuo Abramo: a questo suo eletto fece una famiglia in Isacco: questa famiglia la cangiò in nazione al monte Sinai, quando le diede la legge e strinse il patto solenne con essa col quale si faceva suo Re (2): questa nazione fu cangiata nella umanità tutta mediante il Messia. Il titolo di Dio di Abramo, d' Isacco e di Giacobbe che prese, è un titolo che esprime un Dio adorato da degli individui (3). Quando egli è per trarne i discendenti dall' Egitto, assume il titolo di Dio degli Ebrei, denominazione di un Dio nazionale, cioè coltivato da una nazione (4). Il Messia all' incontro si chiama Dio di tutta la terra (1). Quel tempo che passò dalla morte di Giacobbe in Egitto (2) fino al tempo della liberazione, è un anello di mezzo fra lo stato di società domestica e quello di società nazionale; e propriamente si può dire una continuazione della società familiare che si prepara a divenir nazione. Iddio si acconciò alla limitazione umana, e i segni istruttivi emblematici che diede al suo popolo furono corrispondenti a questi diversi stati nei quali la riflessione di lui e particolarmente la facoltà di astrarre si andava in lui sviluppando e perfezionando (3). 1. L' abbandono della propria casa . - L' abbandono comandato ad Abramo della propria casa e della patria era un simbolo del distacco spirituale dalle cose terrene, condizione necessaria della virtù soprannaturale. Egli spicca questo simbolo nella efficacia delle parole che usa Iddio per separarlo dagli altri uomini: [...OMISSIS...] . Questa separazione influiva anco allo sviluppo delle naturali facoltà di Abramo: conduceva la mente di questo Patriarca a formare una grande astrazione, a metter da una parte Iddio, la fede alla sua parola, la virtù; dall' altra tutto ciò che più piace al cuore umano, il luogo natale, le abitudini, i parenti, i familiari; e a scegliere fra queste due cose, infra loro partite e contrapposte (5). 2. Il seme promesso . - Il seme promesso ad Abramo era un simbolo del Messia che doveva appagare pienamente la umana natura, nutrendola di virtù e di felicità. 3. La terra promessa . - Venuto Abramo nella Cananea dove l' aveva chiamato Iddio apparendogli (6), promette di dare al seme di lui quella terra, simbolo della Chiesa di Gesù Cristo e del cielo (7). 4. Melchisedecco - e il suo sacrificio di pane e di vino è quel simbolo del Messia che viene spiegato da San Paolo nella lettera agli Ebrei. 5. Il primo patto stretto da Dio con Abramo . - Passò non poco tempo dopo le promesse fatte da Dio ad Abramo, e questo indugio era un' occasione di esercizio alla fede del santo Patriarca e giocava mirabilmente a condurre la sua mente a pensare più spiritualmente, più in grande, venendo ad apprezzare non solo il presente, ma più ancora il futuro. Avvicinandosi però il tempo in cui le promesse dovevano cominciare ad avverarsi, Iddio conforta Abramo nella sua aspettazione, dicendogli: [...OMISSIS...] . Ma il santo Patriarca non sapeva ancora colla sua mente fare astrazione da tutte le cose sensibili e terrene e massime dalla felicità familiare: non poteva concepire una felicità al tutto spirituale, come gli veniva proposta, da trovarsi in Dio solo, anche soprabbondantemente. Perciò come Iddio non gli avesse ancor promesso nulla con avergli promesso sè stesso, soggiunge Abramo: [...OMISSIS...] . Il Signore lo condusse fuori a cielo scoperto e facendogli guardar le stelle, gli disse: « Così sarà il seme tuo«. » E dice la Scrittura, che qui Abramo credette e il creder suo gli fu riputato a giustizia: [...OMISSIS...] . La cerimonia che sacrò questo patto di alleanza si fu da parte di Abramo un sacrificio solenne; e da parte di Dio una fornace fumante e una lampa di fuoco che apparì nella caligine della notte passando fra le vittime divise in due parti, e una orrenda visione che ebbe Abramo caduto in profondo sopore, nella quale gli fu mostrato che egli sarebbe morto in buona vecchiezza e il suo seme peregrino per quattrocento anni, solo dopo i quali doveva divenir possessore di quella terra. Con questi segni Iddio istruiva Abramo, che pur non era tutto la felicità di questa vita e lo sollevava a pensieri più ampii che si stendessero fin oltre il sepolcro, degni di un' anima che sopravvive alla distruzione del corpo. 6. Il patto sempiterno e la circoncisione . - Passarono quindici anni e ad Abramo nasceva la figliuolanza promessa: indugio che sforzava Abramo a sostenersi e a operare vie più con virtù spirituale, staccandosi dalle cose della terra. Quando fu giunto il sant' uomo all' età di novantanove anni, il Signore rinnovò il patto col suo seme, e ciò con parole più alte e magnifiche che non aveva fatto; perocchè allora gli promise che quel patto sarebbe sempiterno (1) tanto con lui che col suo seme; il che supponeva l' immortalità dell' anima, e dimostrava che il patto era nell' ordine delle cose non transitorie, ma che non passano, nell' ordine che riguarda l' uomo nella sua parte immortale. E acciocchè meglio apparisca la diversità delle promesse temporali dalle eterne, dice Iddio ad Abramo di averlo esaudito anche nei suoi prieghi in favore di Ismaele e che gli benedirà anche questo figlio, ma il suo patto sempiterno sarà con solo Isacco (2), chè da questo doveva nascere il Messia. A questa alleanza e protezione dalla parte di Dio doveva rispondere da parte di Abramo la perfezione morale, che Iddio gli intima fino a principio: « Io sono Dio onnipotente: cammina dinanzi a me e sii perfetto« (3). » E segno di questa giustizia morale, che colla fede nella parola di Dio doveva rinunziare e quasi toglier da sè il male della carne venuto per origine, si fu la circoncisione allora appunto data al santo Patriarca. 7. Simboli della Santissima Trinità . - I tre Angeli, fra i quali parla un solo e un solo è adorato da Abramo a cui dànno l' annunzio del prossimo nascimento d' Isacco, sono riconosciuti da' Padri per simbolo della Trinità. Il numero tre è con frequenza ripetuto negli avvenimenti e nei riti (4), appunto perchè gli uomini si assuefacessero a congiungere a questo numero qualche cosa di misterioso e divino, e così si apparecchiassero a ricevere poi il dogma della Santissima Trinità che il Messia doveva chiaramente annunziare al mondo. Gli stessi tre Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono emblemi delle tre divine persone. 1. Agar e Sara . - Agar e Sara, l' una serva e l' altra libera, sono tipi della Sinagoga e della Chiesa. E` l' apostolo che ne dà l' interpretazione (1) e accusa d' ignoranza gli Ebrei che non intendessero questo tipo. [...OMISSIS...] Anche in Rebecca si può ravvisare un tipo della Chiesa dei Gentili (3). Lo stesso tipo trovano i Padri nelle due mogli di Giacobbe Lia e Rachele (4). Lo stesso di nuovo nel nascimento di Fares e di Zara, figliuoli gemelli di Tamar; quegli che prima aveva sporto il braccio e che pur nacque dopo, simbolo della Sinagoga; questi che nacque innanzi, della Chiesa che prevalse alla Sinagoga (5). 2. Sacrificio d' Isacco . - Il tipo del sacrificio di Isacco, sì efficace a significare il sacrificio di Cristo, non è solo spiegato nelle divine Scritture, ma è uno di quelli altresì di cui par che dica l' Apostolo che allora stesso furono intesi e conosciuti per tipi quando furono dati. Conciossiacchè dice che per la fede Abramo l' offerse e lo ebbe per una parabola (6). 3. Giuramento colla mano sotto il femore . - Non vi è traccia di questa cerimonia presso altri popoli: e nella Scrittura non si narra usata se non due volte dai due santi Patriarchi Abramo e Giacobbe (7). Egli è manifesto che vi si nasconde un mistero, spiegato da S. Agostino e altri Padri, cioè che con quel segno si voleva additare il Cristo che doveva uscire dai lombi di quei Patriarchi, pel qual Cristo si faceva il giuramento (.). 4. Giacobbe e Esaù . - Questi due figliuoli furono un tipo dei predestinati e dei presciti, spiegatoci dall' Apostolo (1). Giacobbe uomo semplice rappresenta il giusto del Vangelo che coll' umiltà e colla mansuetudine giunge a soverchiare gli uomini feroci: e però è tipo principale di Gesù Cristo. Le pelli caprine di cui egli si copre per ottenere la benedizione paterna, sono un tipo, secondo S. Agostino, dei peccati degli uomini di cui apparve Gesù caricato (2). 5. La scala di Giacobbe . - Questa era un bellissimo emblema del mediatore che congiunger doveva il cielo colla terra e che doveva discendere da Giacobbe. Gli angeli che ascendevano e discendevano possono significare le anime sante che per Cristo ascendono in cielo, e le grazie che di colassù i ministri di Dio ci riportano. 6. Lotta coll' angelo . - Giacobbe, che lotta coll' angelo e rimane vincitore e solo ratratto il nervo del femore, è un tipo di Cristo che pugna col suo Padre sdegnato contro l' uman genere peccatore, e disarma la sua giustizia sol col sofferire la morte nella sua umanità, che è rappresentata nel femore di Giacobbe: di che acquista il nome di gran principe, che è il significato della parola Israele. 7. Giuseppe venduto . - Questo tipo di Gesù Cristo è mirabilmente dichiarato da tutti i Padri ed interpreti. .. Schiavitù di Egitto e liberazione . - La schiavitù del popolo Ebreo sotto i Re Egiziani è il tipo della schiavitù del demonio da cui ci libera Gesù Cristo figurato in Mosè. Già ho accennato come il Mar Rosso indica, per testimonio di S. Paolo, le acque battesimali tinte della virtù del sangue di Cristo. 9. Pasqua . 1. Peregrinazione pel deserto . - L' uomo, dopo liberato dal peccato per Cristo colle acque del battesimo, si mette per questa vita piena di tentazioni e di pericoli viaggiando alla patria del cielo. Il viaggio del popolo di Dio che fa pel deserto dopo passato il Mar Rosso, era il tipo di tutto ciò. Non c' è avvenimento in questo mirabile peregrinaggio che non sia un emblema o segno istruttivo, come insegna S. Paolo. 2. Legge morale . - Iddio fu Re di questo popolo, la cui forma di governo da Giuseppe Ebreo fu chiamata acconciamente Teocrazia (1). Il Signore pubblicò una triplice legge, cioè morale, giudiciale e cerimoniale (2): e in tutte queste tre parti della legge ebraica si trovano moltissimi precetti emblematici, anche fra le stesse leggi morali. Eccone alcuni (3): a ) Il Sabbato in cui ogni uomo si doveva astenere dalle opere servili, rappresentava la libertà e la pace dei figliuoli di Dio, cui pienamente goderebbero nella requie eterna. Questo è uno dei primissimi emblemi, giacchè si trova nella narrazione della creazione fatta da Dio, il quale, riposatosi dopo creato il mondo, è modello ai giusti che, dopo le fatiche sostenute a conseguir la virtù, vi riposano, fatti simili a Dio (4). b ) La legge, comandata di portarsi scritta sul braccio e innanzi la fronte, indicava come essa doveva dirigere le azioni e i pensieri nostri. Lo scriversi poi sopra la soglia delle porte delle case mostrava, il non doversi vergognar punto l' Israelita di lei; ma pregiarla come il più caro ornamento (5). c ) Molte cose, come fu accennato innanzi, furono prescritte verso gli animali, a emblema di ciò che doveva farsi verso gli uomini. Si proibisce di cuocere il capretto nel latte della sua madre (6); di non pigliare i pulcini mentre sono ancora nel nido (7); di non uccidere la pecora cogli agnellini; di non legare la bocca al bue che tritura (.); di non mutilare gli animali (9): coi quali precetti si comanda di rispettare le affezioni naturali; di coltivare l' umanità, la dolcezza, la gratitudine, e la consideratezza in tutto ciò che si fa. d ) E` legge di non vestir vestimento contessuto di lana insieme e di lino; di non seminare la vigna di due specie di sementi (1). Il decreto è emblematico, e dimostra la schiettezza e semplicità che deve usare l' Israelita nelle sue parole e nell' operare. e ) Non arerai col bue accoppiato insieme coll' asino (2). S. Paolo medesimo ci spiega l' emblema di questa legge dicendo ai Corinti: [...OMISSIS...] . Torna a un medesimo lo spiegarla coi santi Basilio e Agostino (4) degli operai evangelici, de' quali non si deve congiungere nella vigna del Signore un sapiente con un insipiente. Dell' una e dell' altra interpretazione la sostanza è, che non si deve mescolare il sacro e il profano e evitare la compagnia dei malvagi. f ) La donna non vestirà veste di uomo, nè l' uomo userà veste di donna (5). Che qui si nasconda un simbolo si scuopre dal dirsi, che è abbominevole innanzi al Signore chi fa tali cose. Le quali forti parole appalesano, che si intende coprirsi sotto quella legge un più grave delitto che non il vestire vestimento di altro sesso, a rendere odioso ed abbominato il quale delitto mira quella terribile dichiarazione. g ) Colla proibizione di far sì che animali di diverso genere non fossero accoppiati insieme per la generazione, emblematicamente si condannano i vizii contro natura (6). Finalmente i Padri della Chiesa dicono in generale che tutti i precetti della legge mosaica significavano la giustizia di Cristo, a cui disponevano altresì gli uomini (7). 3. Legge cerimoniale . - E` dottrina dell' Apostolo che la legge cerimoniale fosse emblematica. Basti recar qui un solo luogo delle sue Epistole. Ai Colossesi egli scriveva: [...OMISSIS...] . Egli non sarebbe bisogno recare tante prove di questa verità di cui tratta tutto il presente libro, se degli eruditi, o più veramente grammatici de' nostri tempi, non mostrassero un' avversione incredibile a trovare emblemi e figure negli avvenimenti registrati nelle Scritture e nelle ebraiche leggi. Io credo che costoro si mostrano assai lontani dal conoscere lo stato intellettuale e il genio degli antichi popoli che nell' Oriente tuttora si conserva; e dall' aver fede in quella divina Provvidenza che, regolando le cose tutte con materno affetto, alla condizione degli uomini cui voleva istruire e abbonire si accomodava. Ma non è mio intendimento di entrare con cotestoro in una lotta erudita (la quale però non temerei, attesa la bontà della causa e gl' immensi monumenti a mio favore che gli studii critici, fatti modernamente intorno alle antichità e il genio di tutti i popoli, mi somministerebbero). Mia intenzione e fine di queste carte è solo di esporre la dottrina della Chiesa cattolica: e credo un fatto innegabile questo, che in tutti i secoli, massime i più antichi, i Padri e scrittori della Chiesa con grande unanimità riconoscono le antiche Scritture essere tutte piene de' segni istruttivi emblematici , di cui parliamo. A suggellare un tal fatto sostenga il lettore che io aggiunga un testimonio di somma autorità nella Chiesa quale è l' Aquinate, che come è noto raccolse il succo di tutta la tradizione e la midolla per così dire della dottrina cattolica sparsa negli innumerabili monumenti dell' antichità. Così adunque epiloga il grand' uomo la dottrina tradizionale della Chiesa intorno alle figure contenute nella legge cerimoniale di Mosè e alla natura di queste figure paragonate con quelle che si trovano nella legge nuova. [...OMISSIS...] Da queste ultime parole si vede il filosofo che parla. Egli è lo stato intellettivo dell' umanità nei diversi tempi che si deve meditare e dal quale solo si può conoscere quale maniera di insegnamento fosse acconcia nei diversi periodi della vita del genere umano; e massime dal diverso grado di sviluppo che venne conseguendo negli uomini la facoltà di astrarre. Il santo Dottore prosegue dunque a determinare due stati della cognizione umana così: [...OMISSIS...] . Fin qui l' Aquinate. Venendo poi a divisare le varie parti della legge cerimoniale, ella si compone di due parti cioè di segni istruttivi emblematici (3), e di Sacramenti . Di questi secondi ragioneremo in appresso: ora il nostro discorso non si volge che intorno ai primi. I segni istruttivi emblematici contenuti nella legge sono di tre specie, vale a dire: 1. i sacrificii ; 2. le cose sacre , come sarebbero il tempio, i vasi sacri, le vesti sacerdotali; e 3. le osservanze . I primi formano il culto dovuto a Dio, le ultime determinano la conversazione e la vita dell' uomo, e le seconde sono strumenti e mezzi che servono tanto al culto come alla vita. Diremo qualche cosa di tutte tre queste maniere di segni istruttivi emblematici. Giusta la dottrina del Cristianesimo due sono le vite dell' uomo, la presente e l' eterna: nella presente l' uomo è imperfetto e si perfeziona nell' eterna. Ma l' una è simile all' altra, perciocchè quelle stesse cose che quaggiù credute per fede formano la santità, colassù vedute nel proprio loro essere formano la gloria. Sicchè ciò che è emblema della vita santa deve essere per sua natura anco emblema della gloriosa. Dell' una poi e dell' altra vita il modello è Cristo, nel quale è espressa la perfezione delle due vite. Non deve adunque far maraviglia se gli antichi emblemi esprimessero, secondo i Padri, tutte due queste cose a un tempo, conciossiacchè non poteva essere diversamente, giacchè se aver dovevano similitudine con una di quelle cose, per la ragione stessa dovevano averla colle correlative (1). Laonde anche i sacrifici ebraici sono a un tempo figure della santità della vita e figure della celeste gloria e figure di Cristo che quelle due vite in un modo perfetto ebbe in sè medesimo. Gli animali immolati a Dio sono emblema degli uomini che devono essere tanto in questa vita che nella futura a Dio dedicati con intero e perenne sacrificio: particolarmente poi rappresentano tutti il sacrificio dell' eterno Sacerdote Gesù Cristo. Di tre specie di sacrificii erano nell' antica legge, l' olocausto, il sacrificio per lo peccato, e il sacrificio pacifico. Nell' olocausto, dice l' Angelico, si bruciava tutto per significare che come tutto l' animale risoluto in vapore si alzava in alto, così tutto l' uomo e le cose sue erano soggette al dominio di Dio ed a lui da offerirsi. Nel sacrificio per lo peccato una parte della vittima si bruciava, e un' altra cadeva in uso dei Sacerdoti; e ciò a significare che l' espiazione dei peccati si faceva da Dio pel ministero dei Sacerdoti. Nell' ostia pacifica che si offeriva, o in rendimento di grazie, pei beneficii ricevuti, o per ottenerne di nuovi, una parte si bruciava in onore di Dio, un' altra cadeva in uso de' Sacerdoti, e una terza in uso degli offerenti: e ciò a significare che la salute dell' uomo procede da Dio secondo la direzione de' suoi ministri e colla cooperazione degli stessi uomini che si salvano. I primogeniti dovevano essere tutti offerti al Signore in segno della sua signoria tanto come Creatore, sì come per la qualità di vendicatore dei peccati. Ma gli animali immondi dovevano essere riscattati con certo prezzo e i mondi dovevano essere immolati senza riscatto. E ciò a significare che a Dio non è grato se non il sacrificio di cose monde. Or poi il primogenito dell' uomo riscattavasi collo stesso prezzo onde si riscattava l' asino, animale immondo, che era di cinque sicli: efficace modo di significare la immondezza dall' uomo contratta col peccato originale, e la necessità del nascere un giusto il quale potesse essere sacrificato in odore di accettevole sacrificio; il quale non poteva essere che Cristo. Tutto era figurativo negli istrumenti e utensili delle sacre funzioni del popolo Ebreo. Ecco alcune di queste figure. a ) Il tabernacolo è in piccolo il tempio: e l' uno e l' altro rappresentavano la Chiesa, o certo il corpo dell' umanità nelle sue relazioni con Dio. E` l' Apostolo S. Paolo che chiama Cristo « il ministro della santità e del vero tabernacolo cui ha formato il Signore e non l' uomo« (1). » L' antico tabernacolo adunque non era il vero, ma una figura del vero. Questo vero tabernacolo non è terreno ma celeste, cioè tutto spirituale (2): non si tratta di un luogo santo materiale ma della santità stessa, dell' essenza della santità. Perciò continua a dire: [...OMISSIS...] . Cristo adunque era quel Sacerdote che offeriva un dono celeste, un sacrificio spirituale: laddove i discendenti di Aronne non offerivano che doni terreni ed erano simboli, secondo l' Apostolo, dello spiritual sacrificio (3). L' entrare che faceva una sola volta all' anno il solo sommo Sacerdote nel santuario, secondo l' Apostolo, era il tipo dello entrare che doveva far Cristo in cielo una sola volta per sempre, pel sacrificio della sua morte: un solo sacrificio, la sua morte; un solo gran Sacerdote in cielo vivente in perpetuo. E si osservi che lo stesso sacrificio eucaristico è più veramente celeste che terreno, poichè la vittima è ivi nascosta agli occhi terreni e non si parte dal cielo; sicchè tanto la vittima quanto il Sacerdote anche nella Eucaristica è veramente in ciel; e in questo gran rito può dirsi veramente che è il cielo che comunica colla terra. Aperto poi il cielo per Cristo, è tolto quel divieto che non entrasse che il solo Sacerdote in quel verace Santuario: e perciò l' antico rito è abolito perchè oggimai a tutti è aperto l' adito nel Santuario (1): [...OMISSIS...] . b ) I monti santi erano due, il Sion ed il Moria. Il monte di Sion, sopra il quale era edificato il palagio di Davidde, figura del Cristo, rappresentava la giustizia nella quale è fondata la Chiesa. Basta confrontare fra loro i varii luoghi della Scrittura per accertarsene. Giacchè in essi or si dice che Gerusalemme ha i suoi fondamenti sopra Sionne, come nel Salmo LXXXVI, 1: [...OMISSIS...] . E or che è fondata nella giustizia, come nel profeta Isaia che della nuova Gerusalemme dice con parole proprie e non enigmatiche: « Tu sarai fondata nella giustizia« (3). » Dai quali due luoghi confrontati insieme si vede che i monti santi e la giustizia sono sinonimi significando la stessa cosa, quelli in enigma e questa fuor di ogni velo (4). I Salmi esprimono la stessa cosa non in forma di enigma solamente, ma anche di espressa similitudine, là dove dicono: « La tua giustizia è come i monti di Dio« (5). » Egli è a questo fondamento solidissimo che attribuiscono le Scritture Sante l' immobile fermezza della casa del Signore. Cristo dice colla stessa maniera di parlare, che la sua Chiesa non può essere scossa dall' inferno, perchè fondata sopra la pietra (1) e i Salmi dicono che egli « prepara i monti della sua potenza (2). » Per questo ancora Davidde e in lui Gesù Cristo disse [...OMISSIS...] . c ) In generale il Re del popolo di Dio era l' emblema del vero Re del popolo eletto, Gesù Cristo. Per ciò era stato ordinato nel Deuteronomio, che questo Re dopo che sarà assiso nel solio del suo regno si trascriverà il Deuteronomio di questa legge in un volume, ricevendone l' esemplare dai Sacerdoti della tribù di Levi (4). I Re di Giuda seduti sopra una cattedra di legno nell' atrio principale del tempio (5) leggevano nell' anno sabbatico a tutto il popolo la legge nuova, ossia il Deuteronomio: e così leggiamo che faceva il santo Re Giosia (6). d ) Anche il monte Moria su cui era edificato il tempio, era uno de' monti santi. I quali erano due, [come due] sono i principii della giustizia (7) e della legge, cioè la ragione e la rivelazione, la natura e la grazia, la giustizia ideale e la giustizia reale: e due sono parimente gli oggetti della giustizia, cioè Iddio e la creatura ragionevole; inde i due precetti della carità. e ) La giustizia ideale non eccede l' ordine delle idee, ma la giustizia reale appartiene all' ordine delle cose: questa tocca il sentimento, quella la sola norma dell' operare: questa seconda è il lume, e quella è la forza di operare secondo questo lume. Appartengono queste due cose ai due modi dell' essere, l' uno ideale e l' altro reale. Queste due giustizie, se così mi lice chiamarle, sono egualmente necessarie all' uomo, perchè l' uomo ha bisogno di un lume per conoscere i suoi doveri e di una attività che il faccia capace di eseguirli. Que' due santi monti, su l' uno de' quali era la casa del Re che comunica al popolo la scienza della legge, sull' altro la casa di Dio che comunica la grazia la quale muove la volontà, sono gli emblemi delle due parti della giustizia di cui parliamo. Poichè questi sono i due perni di tutto l' universo morale, non è maraviglia che l' emblema di essi sia ripetuto sì di frequente nelle divine Scritture. Già l' abbiamo trovato al principio delle cose in quelle due piante della vita e della scienza del bene e del male (1) locate nel mezzo del paradiso. Entro il tabernacolo e il tempio avevaci lo stesso emblema, e questo era ripetuto nel sancta e nel sancta sanctorum . Perocchè nel sancta vi aveva il candelabro, simbolo della luce che illumina l' intendimento, e appartiene alla scienza, e i pani della proposizione, simbolo della vita e della forza che avvalora la volontà, ciò che appartiene alla grazia. Medesimamente nel sancta sanctorum v' avevano le tavole della legge o la scienza, ordine ideale: e la manna o cibo vitale, ordine reale. Questi due elementi sono della natura delle cose; e quindi la spiegazione che io do di tali [simboli] non può sembrare in conto alcuno ricercata e speculativa al lettore sensato. E perchè si vegga che questa dottrina appartiene anzi al deposito delle più comuni tradizioni cristiane, io citerò un brano di un pio libro, dove si contiene quanto ho detto. Il celebre autore dell' Imitazione dice appunto così: [...OMISSIS...] . (Ecco le due cose di cui parliamo, l' una appartenente all' essere reale e all' ideale l' altra. Seguita in questo modo toccando come queste due cose si abbiano nella legge nuova). [...OMISSIS...] (Or ecco come accenna dopo di ciò il tipo di queste due cose nella legge antica). [...OMISSIS...] f ) Gerusalemme, o città santa (4), era l' emblema della Chiesa di Cristo per l' unione degli eletti nel mezzo de' quali abita il loro Re. g ) La terra promessa significa il medesimo dal lato dell' abbondanza di tutti i beni di cui godono i Santi che compongono la Chiesa, massime nella consumazione della loro predestinazione in cielo. E però quella è detta la terra che scorre latte e miele, con una espressione che sarebbe soverchia a pigliarsi alla lettera e non trasportandosi al significato traslato che viene sempre indicato da quelle espressioni che nella divina Scrittura mostrano di eccedere prese materialmente. h ) La lunghezza della vita promessa ai mantenitori della legge era simbolo dell' immortalità, e tutti gli altri beni terreni simboleggiavano i celesti (1). i ) Le feste degli Ebrei erano sette temporanee e una continua: perocchè, dice S. Tommaso, era come una continua festa pel popolo di Dio, perocchè ogni giorno la mattina e la sera s' immolava l' agnello. E per quella continua festività del perenne sacrificio si rappresentava la perpetuità della divina beatitudine: come anche più prossimamente il perpetuo sacrificio di Cristo che sempre è vivo a interpellare per noi. Le sette feste erano le seguenti: 1. Il Sabbato, in memoria della creazione, simbolo della vita spacciata dalle cose terrene. 2. La festa della nuova luna, in memoria della conservazione e del governo divino dell' universo: e rappresenta la Chiesa di Gesù Cristo e Maria che a questa presiede. 3. La Pasqua era in memoria della liberazione degli Ebrei dall' Egitto, e rappresentava l' agnello che toglie i peccati del mondo, immolato appunto nell' anniversario dell' agnello mangiato dagli Ebrei in Egitto. 4. La Pentecoste che celebravasi, cinquanta giorni dopo Pasqua, in memoria della legge data al Sinai, e rappresentava lo Spirito Santo che doveva discendere in quel giorno appunto sopra gli Apostoli. 5. La festa delle trombe nel primo giorno del settimo mese, in memoria della liberazione d' Isacco quando Abramo trovò l' ariete intricato colle corna nella siepe: e questa significava la predicazione degli Apostoli. 6. La festa dell' espiazione il decimo dì del settimo mese, alla quale la festa delle trombe era come l' invito, in memoria dell' essersi Iddio placato alle preghiere di Mosè, quando il popolo Ebreo ebbe adorato il vitello d' oro: e rappresenta l' emendazione del popolo Cristiano dai peccati. 7. La scenopegia o festa de' tabernacoli, in memoria della protezione da Dio accordata al popolo nel deserto, l' ottavo dì della quale era la festa della Colletta, in cui mettevasi a parte ciò che il popolo voleva offerire per mantenimento del pubblico culto, e ciò in memoria dell' unione, pace e abbondanza del popolo di Dio nella terra promessa dove erano dopo la peregrinazione: le quali feste figuravano la peregrinazione dei fedeli pel deserto di questo mondo e la loro unione in cielo. a ) Gli animali figuravano i Gentili e nella varietà di questi animali erano significati i varii vizii di cui i Gentili erano macchiati. Il mangiare nelle sacre Scritture è l' emblema del congiungersi intimamente, acquistare la stessa natura e ripor[vi] la propria felicità. Era dunque vietato con quell' osservanza agli Ebrei di addomesticarsi coi Gentili, pigliare la natura ossia i costumi di questi, e riporre la propria felicità non in Dio ma nei beni sensibili nei quali gli incirconcisi (i viziosi) ponevan la loro. L' immondezza legale era figura della immondezza spirituale: pena di tale immondezza era la scomunica, cioè la separazione dal popolo puro e mondo, acciocchè questo non contraesse pure la stessa macchia. b ) Le frutta dei tre primi anni erano immonde; e ciò a significare il peccato originale per il quale le cose tutte di questa terra sono infette sino a tanto che Cristo non le purifichi. Per ciò quel lasciarsi dei primi frutti è detto circoncisione nelle Scritture, poichè come questa richiamava alla mente l' original peccato, così quei frutti de' primi tre anni; dopo il quale venivan quelli del quarto anno che si offerivano al Signore, e così si purificava la pianta che produceva negli anni seguenti frutti puri, di cui potevano raccogliere e mangiare i figliuoli d' Israello. Ecco come è espressa questa legge nel sacro Testo: [...OMISSIS...] . c ) Le fimbrie poste nei quattro angoli del pallio, e le bende color celeste che indi pendevano, erano simboli della purità degli occhi, che dovevano allontanare lo sguardo dalle cose seducenti e impure, e dar opera alla contemplazione delle celesti. Anche questa spiegazione risulta manifesta dalla lettera del sacro Testo: [...OMISSIS...] . d ) Nel Deuteronomio (3) è comandato: [...OMISSIS...] . I Farisei secondo la lettera scrivevano in membrane la legge e le si tenevano legate alle mani e alla fronte le appendevano, acciocchè si muovessero innanzi agli occhi loro. Ma il precetto era simbolico, e per le mani significavasi l' operazione e per gli occhi la contemplazione, volendo dire che la legge si doveva meditare colla mente ed eseguire coll' opera e così averla del continuo presente allo spirito. e ) Molte poi osservanze erano volte a conservare la politezza esteriore de' corpi, la quale significava la mondezza interiore dello spirito. 4. Legge giudiziale o politica . - Anche le leggi politiche degli Ebrei non erano senza figure. S. Tommaso non fa altra distinzione da queste leggi alle cerimoniali, quanto al contenere figure, se non che le cerimoniali osserva essere state istituite direttamente e principalmente a dover essere figure, e « i precetti giudiziali sono figurativi, non in primo luogo e per sè, ma per un cotal conseguente. » [...OMISSIS...] . 5. Sangue delle vittime, nell' alleanza contratta ai piedi del Sinai . - Mosè, che disceso dal Sinai per ratificare l' alleanza innalza i dodici altari e fa sacrificio, usa fra gli altri riti quello di aspergere col sangue delle vittime non solo il popolo ma ancora il libro dell' alleanza. Ciò rappresenta il doppio effetto dell' applicazione del sangue di Cristo che salva i fedeli e rende possente la parola di Dio, ossia la lettera della legge collo Spirito Santo. 6. Tavole della legge spezzate . - Le prime tavole della legge spezzate da Mosè rappresentano l' antica legge che doveva essere abolita e rinnovellata. 7. Serpente di bronzo e altri simboli nel deserto . - Notissima immagine di Gesù Cristo è quella del serpente di bronzo. E così pure il legno che indolcisce le acque amare, la pietra percossa colla verga di Mosè, la manna e altri tali sono troppo noti simboli del Messia o dei fatti della sua vita. .. Uomini grandi del popolo Ebreo . - Tutti gli uomini grandi del popolo Ebreo, come Mosè, Giosuè, Sansone, Davide, Salomone e i Profeti furono parimenti tutte figure di Gesù Cristo. I simboli enumerati fin qui vogliono essere altrettanti esempi che mi valgano a provare la verità generale, che Iddio usò ad ammaestramento degli uomini questo mezzo delle sensibili rappresentazioni. Or raccogliendoci a contemplare quei simboli in massa, non ci sarà difficile il conoscere quali maniere di cognizioni essi miravano a far entrare nelle menti degli uomini. Due specie di cognizioni sono insensibili, cioè le astratte e le negative . Queste ultime hanno bensì per oggetto qualche cosa di sussistente e di reale, ma questo ci è piuttosto indicato al vedere della mente che offerto da percepire (1). Per ciò non potendo questi due oggetti cadere sotto i sensi corporei, ai quali l' uomo è condizionato, hanno bisogno di simboli per essere dall' uomo ricevuti nello spirito e impressivi con qualche efficacia, cioè di rappresentazioni sensibili che abbiano con essi una cotale similitudine, analogia, relazione, come già fu detto. Lumeggiamo via meglio la cosa con qualche esempio: pigliamo l' idea della giustizia, la quale è un' idea astratta che non cade punto sotto i sensi. Gli uomini avevano bisogno di ben fissare un' idea sì importante, di fissarla in modo che l' avessero nel loro spirito netta, spiccata dalle altre cose che a lei non pertengono e possente in modo che prevalesse in forza alle stesse idee delle cose sensibili. Ora gli uomini primitivi erano tutto senso, non percepivano che pel senso, non credevano che al senso, perciocchè non essendo ancora formate in loro le grandi astrazioni, queste nulla operavano sullo spirito. Come adunque poteva il divino istruttore condurre tali uomini a formarsi l' astrazione della giustizia e renderla questa nelle menti lucente, cioè rendere atte le menti a vedere e quindi gustare l' ineffabile bellezza della giustizia, che di sua natura sfugge ai sensi corporei? (2). Questo era il primo problema che si era proposto di sciorre il gran Maestro degli uomini; ed ecco in che modo lo sciolse ed operò dietro ad un tale scioglimento. Egli cominciò dal far andare unite insieme la felicità temporale e la virtù, il vizio e la temporale infelicità, promettendo dei premi temporali a quelli che avessero operato secondo le norme della sua legge, e delle pene temporali a quelli che avesser violati i suoi comandamenti. Or posciachè i beni e i mali sensibili e terreni erano i soli ben conosciuti dagli uomini primitivi, e però i soli che fossero sopra loro efficaci e possenti, col fare Iddio questa congiunzione aveva resa importante la virtù e il vizio anche agli occhi di quegli uomini non atti che a percepire le cose sensibili. Se la virtù e il vizio fossero stati al tutto sciolti dai beni e dai mali temporali, non era possibile agli uomini primitivi di mettere in tali oggetti una grande importanza: tali oggetti non potevano chiamare la loro attenzione, col solo lungo affissare della quale solamente le idee astratte acquistano vita ed efficacia nell' animo degli uomini e prendono per così dire un corpo. Ma con quella congiunzione avvenne, che tutto l' amor degli uomini posto ai beni sensibili e tutto il timore dei mali serviva alla virtù e alla giustizia come al solo mezzo unico di ottenere quei beni desiderati e di schivare quei mali temuti. Furono dunque gli uomini per tal modo condotti a dire seco medesimi: « Or ella deve essere pure la bella cosa questa giustizia se essa sola trae con sè tutta l' abbondanza dei beni desiderabili; egli deve essere pure brutto e deforme il vizio, s' egli arreca tutti i mali temibili, se in odio di lui l' essere supremo castiga così severamente i viziosi«. Qui si vede eccitata l' attenzione umana a riflettere seriamente sulla natura della virtù e del vizio, del giusto e dell' ingiusto: qui si vede gli uomini stimolati di continuo a vigilare e spiare se nelle proprie azioni si intromettesse furtivo quel peccato che li renderebbe subitamente sventurati, e fatti anzi tutti solleciti e industriosi a dover conoscere e introdurre nella maniera del loro vivere quella virtù che aveva possa di far stillare il cielo in ubertose rugiade, e dare la pinguezza alle biade della loro terra e la fertilità ai loro armenti. Con ciò si era fatto il primo passo, ed era un gran passo quello di far conoscere agli uomini tre cose. 1. che la giustizia valeva almeno altrettanto di tutti i beni terreni di cui era madre; 2. che questa giustizia sebbene insensibile meritava pure una grande attenzione e doveva nascondere in sè stessa qualche cosa di misterioso e di sublime; 3. che la natura divina era sommamente amante di questa giustizia, dal momento che distribuiva i beni in ragione di lei. Ma pervenuta la mente umana a questa istruzione, ella già doveva salire più alto, e aveva acquistato il punto di appoggio, per così dire, dal quale spingersi al di là di tutte le cose terrene e pervenire al concetto puro della giustizia. E veramente Iddio con quella congiunzione del bene e del male morale al bene e al male temporale aveva per così dire resa sensibile la giustizia, le aveva aggiunto un corpo, era, se mi lice usare questa similitudine, l' anima tutta spirituale che si vede mediante un corpo da lei animato. Trovato così il modo di far vedere all' uomo sensibile la virtù e la giustizia, questa era già entrata nel pensiero dell' uomo. Or non restava altro se non spogliarla di ciò che non le apparteneva, e così ridurre a perfetta purezza quell' idea che era bensì formata, ma che si trovava ancora grossolana e materiale, quasi come l' oro non appurato nella miniera. La materia dunque su cui esercitare l' estrazione non mancava più: era posto da Dio un gran fatto esterno, sensibile, dal quale era contrassegnata e marcata la giustizia, come da un segno luminoso, che non permetteva che ella non fuggisse più dall' occhio spirituale dell' uomo. Ma Iddio doveva ancora aiutare l' uomo a fare una tale separazione del concetto della giustizia da ogni altro concetto. Questo era il secondo problema dell' educazione umana; ed ecco anche di questo problema, la divina soluzione. Prima Iddio aveva congiunta la giustizia coi beni terreni, e con questo artificio trasse gli uomini a porre la loro attenzione sulla giustizia come cosa di molta importanza. Poscia divise questi beni terreni dalla giustizia e lasciò questa sola, e con tale artificio ridusse nella mente dell' uomo la giustizia isolata, la pura astrazione di giustizia; ciò fu la soluzione del secondo problema. Per tal modo fece Iddio nascere nelle menti umane un' operazione simile a quelle che fanno i chimici quando vogliono isolare qualche sostanza, che prima la congiungono a un' altra che poi separano per la maggiore affinità che ha questa seconda con una terza. Col congiungere la giustizia coi beni temporali Iddio indusse gli uomini a fissare col pensiero questa giustizia. Fissata bene che l' avessero, ella non aveva più bisogno dell' accompagnatura dei beni temporali; e però questi furono staccati da lei ed ella rimastasi sola reggentesi da se stessa come una volta a cui si tolgano di sotto le armature e le centine. Ora tutto il tempo che precedette la venuta di Cristo fu speso principalmente nella prima operazione (1): al nuovo Testamento appartiene la perfezione della seconda. Per questo nell' antico patto sono sempre promessi ai giusti dei beni temporali e nel nuovo è detto che la mercede loro copiosa è nei cieli. Nulladimeno anche nell' antico si cominciò la seconda opera che dal Messia si doveva al tutto perfezionare (2). Per ciò si vede quanti patimenti fossero dati anche in quel tempo a Giobbe e a Tobia, uomini giusti: ma furono però patimenti che ebbero fine con un esito buono anche temporalmente. Vi aveva un amore del luogo natale; e Iddio per ammaestrare Abramo che qui non istà il vero bene, chiama quel Patriarca fuori della Caldea. Vi aveva un istinto alla figliuolanza; e Iddio nol contraria in tutto, ma rende sterili le donne più sante (1), e fa che i genitori debbano spesso aspettare i figliuoli fino all' ultima vecchiaia e ad averli come suo dono, acciocchè lo servano lungamente anche senza mercede temporale, e così imparino a pregiare la giustizia per sè stessa e a riconoscere Iddio come datore de' beni: il che mirava a fissare nelle menti questa idea per sè negativa di Dio (2). Abramo è tentato fino ad esigere da lui il sacrificio di quel figliuolo, natogli in vecchiezza, sul quale era appoggiata tutta la speranza della sua gran discendenza. Il santo uomo messo in quella prova, aveva da una parte l' amore del figlio, dall' altra la giustizia: doveva scegliere, e per scegliere doveva riflettere al valore delle due cose fra cui cadeva la scelta. Preferendo la giustizia al figlio, egli aveva pronunciato seco medesimo questo giudizio:« la giustizia è una cosa tanto preziosa che va anteposta agli stessi figliuoli«. Di più aveva giudicato:« Iddio che mi comanda tal cosa è un essere così grande e buono che mi può riccamente compensare della mia perdita«: ed essendo costretto di dover formare colla sua mente questo giudizio, egli veniva a fissare la potenza, la fedeltà e la bontà di Dio. Così queste idee negative s' imprimevano e scolpivano nella sua mente, condotta dalle circostanze, guidate dal supremo maestro a dover fare somiglianti riflessioni. Non c' è forse un solo bene temporale che Iddio già nell' antico tempo non l' abbia fatto venire in collisione colla giustizia e di cui non abbia richiesto il sacrificio (3). Grande era l' amor naturale della ricchezza temporale e del dominio. Iddio promette tutto ciò ai Patriarchi, promette loro la Cananea, vasto e reale possedimento, se a lui saranno fedeli e ubbidienti. Ecco la prima operazione colla quale Iddio impegnava quegli uomini a porre tutta la loro attenzione nella giustizia. Dopo di ciò egli fa che vivano tutta la loro vita pellegrinando in paese straniero, senza possedere pure un palmo di terra e che si contentino di una parola, di una promessa da eseguirsi solo molto tempo dopo la loro morte, quattrocento anni dalla chiamata di Abramo (1). Quest' era la seconda operazione colla quale li teneva staccati dai beni temporali e faceva loro riflettere che vera ricchezza è solo il timore di Dio, la vita giusta e il fidarsi della sua parola: tutte idee astratte e negative. Ora convien qui porre una osservazione. Le idee astratte possono formarsi nella mente umana coll' aiuto de' simboli naturali. Ma per condurre la mente bambina dell' uomo a fissare e bene imprimersi le idee negative appartenenti alla natura divina e ai suoi attributi, ciò non era egualmente acconcio: e la ragione ne è manifesta a chi considera la differenza fra le idee astratte e le idee negative di Dio. Il principio di ogni astrazione si trova naturalmente nella mente umana, che ha in proprio l' idea dell' essere, l' astrattissima di tutte le idee; e le altre idee astratte non sono che la stessa idea dell' essere limitata, circoscritta, applicata. A ragion d' esempio, l' idea della giustizia è l' essere applicato a giudicare del prezzo delle cose poste in relazione colla volontà che sente di doversi accomodare a tali giudizii. Questi giudizii si fanno in tutte le azioni: e l' astrarli dalle azioni e il ridurli ad una formula generale è il medesimo che formarsi gli astratti del giusto e dell' ingiusto. La materia adunque da cui si toglie l' idea della giustizia è data nell' ordine della natura, come è pur dato il principio dell' astrazione (l' idea dell' essere). Non si richiede adunque altro acciocchè la mente si formi tali idee, se non di rendergliele importanti, sicchè ella dal bisogno che n' ha sia stimolata e mossa a fissarle e formarsele, contemplandole anche con diligente attenzione. Al che la provvidenza usò della industria sopra descritta, di congiungere la giustizia colle prosperità temporali, e poi da queste spartirla. Ma le idee negative di Dio non hanno alcuna materia nell' ordine naturale; hanno solo delle analogie. Non si poteva dunque con dei simboli puramente naturali condurre il pensiero umano a formarsi accurate idee della divinità; chè anzi tali simboli, se fossero stati puramente naturali, l' avrebbero agevolmente ingannato, facendogli credere che Dio fosse simile alle cose naturali. Per condurre adunque il pensiero degli uomini a Dio, dovevasi sollevarlo sopra tutta la natura e fargli intendere, che Dio era un Essere principio di tutte le cose, il quale da queste interamente differiva e la cui natura era tanto grande e levata che da mente umana concepire non si poteva perchè non vi avevano cose dall' uomo percette che rendessero di lui similitudine. Ora a far questo Iddio tolse a divietare agli Ebrei tutte le imagini delle divinità (1), per pericolo appunto di confondere la natura con Dio, attribuendo o le divine proprietà alla natura o a Dio le proprietà naturali; il che era stato larghissima fonte d' idolatria, massime presso gli Egiziani, fra i quali gli Ebrei avevano lungamente abitato e non lasciatili senza andarne tinti di loro costumanze. [...OMISSIS...] Veramente di nessuna cosa sono più sollecite le divine Scritture quanto di far conoscere Dio incomprensibile: di che è ragione contenersi nella incomprensibilità quel più e quel tutto che può conoscere l' uomo di un tal essere; e a significar questo para anche il nome ineffabile, conciossiacchè quel non potersi pronunziare un tal nome doveva significare non potersi comprendere un sì grande Ente. Chiamasi anche Dio nascosto e che abita una luce inaccessibile (3). Per sì grande concetto non usavansi dunque più i simboli, ma solo il linguaggio proprio, e l' esclusione di ogni simbolo, la quale esclusione essa stessa significava, e potrebbesi chiamare un efficacissimo simbolo. Questo esser però di natura incomprensibile doveva esser conosciuto dagli uomini colla indicazione de' suoi effetti. Tutto l' universo era effetto che indicava questa causa prima: ma la mente umana doveva essere eccitata a fissarla principalmente col nuovo e collo straordinario; e quindi la necessità de' portenti. Non che questi disvelassero la natura divina o a pieno ne esprimessero gli attributi, ma determinavano però meglio l' Ente supremo, il quale per essi acquistava un nome. A ragione di esempio, egli si chiama il Dio di Bethel (1) per la visione che ebbe in questo luogo Giacobbe. Egli si dice il Dio che ha tratto gli Ebrei dall' Egitto con mano forte (2): il Dio che ha parlato dal Sinai (3): e così di tutti gli altri grandi e straordinarii avvenimenti. Quando anche la lingua che esprimeva Iddio non avesse guadagnato con questi fatti un nome o una espressione di più, doveva però imprimersi nelle menti e contrassegnarsi con quel fatto Iddio, ciò che era un aiutare l' umano intendimento ne' suoi primi sviluppi a fissarsi e aderire a Dio e alle cose divine e insensibili. E l' uomo pur coll' essere condotto a vedere Iddio negli avvenimenti straordinarii e mirabili come invisibile cagione, veniva a imparare in che modo il doveva vedere anche negli ordinarii e comuni, sebbene questi non lo scuotessero e quasi dire svegliassero come quelli. Sebbene nelle età prime quando l' uomo era nuovo e nuova era la natura, questa aveva una cotal forza maggiore di farsi considerare come opera stupenda e di levare a Dio le menti collo stupore (1). Perchè adunque l' uman genere ancor fanciullo e vuoto di cognizioni si conducesse a formarsi e ben imprimersi le idee negative di Dio , si richiedeva un magistero maggiore della provvidenza che non sia per condurlo a formarsi le astrazioni. A condurlo a queste bastava il linguaggio e i simboli naturali: ma per le idee negative di Dio voleva anzi la cassazione di ogni simbolo od imagine, ed in una la considerazione degli effetti divini, in tra' quali vi dovevano apparire di quelli che si togliessero al tutto dal corso regolare e ordinario della natura. Ma un altro spediente messo in opera dalla sapienza di Dio per maggiormente scolpire nella mente all' uomo quelle idee negative che gli bisognavano e che nella natura non avevano ritratto alcuno, furono i simboli moltiplici e mostruosi . Non servivano già questi a esprimere la natura divina. Come abbiamo veduto, erano divietate tutte le rappresentazioni, o naturali o anche artificiali di essa divina natura in sè stessa considerata. E che il divieto delle imagini non fosse universale ma si restringesse a quelle che si ordinavano a significare la divina essenza, mi par provarsi anche con quel luogo della Scrittura dove si parla di Dio disceso sul Sinai a dar la legge. [...OMISSIS...] . Per tal modo col non mostrarsi Dio sotto figura alcuna volle insegnare, che la sua essenza è cosa al tutto diversa da quanto si trova nella natura; e quindi proibì che non l' effiggiassero. Qui è manifesto che la proibizione delle imagini e sculture si restringe a quelle che si facevano per rappresentare la natura divina; l' uso delle quali avrebbe rovesciati gli Ebrei nella idolatria, come era avvenuto sotto il velo delle imagini. Ragione che dà lo stesso sacro Testo, del non essersi Iddio mostrato figurato sul Sinai: [...OMISSIS...] . Ma altro è a considerarsi Iddio nella sua recondita maestà e pura essenza, e altro nelle comunicazioni che di sè fa alle sue creature. La maggiore di queste, la più solenne, quella che regola tutte le altre è la divina Incarnazione. Or la natura divina circoscritta per così dire e velata dall' umanità è il principale soggetto dei simboli mostruosi che si scontrano nelle sacre pagine. La ragione di questi accozzamenti di varie figure che non sono in natura è questa. Iddio anche circondato dalla carne è però cosa così augusta e così lontana dal trovare in tutte le altre cose acconcie similitudini, che non si può altramente avvicinarsi a simboleggiare i suoi molti e singolari pregi, che col pigliare a simbolo di lei, non già alcun essere naturale, ma un qualche ente imaginario e artificiale che congiunga in sè le membra e le proprietà di molti. Con un tal simbolo mostruoso si viene a significare, che la cosa che si rappresenta eccede i confini degli esseri che sono nella natura, e unisce in sè medesima le qualità e virtù separate in molte e varie nature. Per chiarir meglio questa sapientissima economia che tenne Iddio nell' ammaestramento degli uomini, scegliamo fra i simboli moltiplici e mostruosi usati nelle Scritture il più solenne di tutti, che abbiamo già accennato, ma che gioverà un po' più distesamente descrivere, voglio dire il carro di Dio . Questo carro è un simbolo costante nelle divine Scritture. Egli rappresenta la Provvidenza, colla quale Iddio conduce le creature tutte, ma una Provvidenza trionfatrice; rappresenta la Provvidenza nell' atto che trionfa de' suoi nemici e li disperde; egli è perciò principalmente un carro terribile di battaglia. Per ciò si dice ch' egli porta « la gloria del Signore« (2), » ossia il Signore glorioso. Essendo poi Gesù Cristo quegli dalle cui mani è condotta la Provvidenza del mondo, secondo il detto d' Isaia, che « la volontà del Signore sarà diretta nella sua mano« (3); » per ciò Gesù Cristo è altresì l' auriga di questo carro maraviglioso. Chè la Scrittura fa espressamente menzione di questo auriga, come si può vedere nelle parole dette da Eliseo quando Elia fu rapito, il quale sclamò: [...OMISSIS...] . Questo carro dicono le divine Scritture va circondato da dieci milioni di spiriti esultanti e beati (1), ed è carro di fuoco (2). Con questo fuoco Iddio incarnato accende, vivifica e immortala i suoi santi e incenerisce altresì gli empi: egli è un carro di guerra e ne sono l' armi le fiamme; i Cherubini l' attirano, o anzi il portano (3). La prima visione di questo misterioso carro, terribile e trionfale sembra quella che ebbe Adamo (4), quando s' avvide dei Cherubini stanti alla custodia della porta orientale dell' Eden (5) minaccevoli di morte contro chi si attentasse di inoltrare il passo oltre a quella soglia (6). Dice la Scrittura che essi custodivano « il legno della vita« (7), » al quale non va l' uomo se non passando per le fiamme, e non può passarvi illeso, quando prima non abbia ricevuto da Dio quella tempera al tutto divina che resiste a tali fiamme, anzi che innatura l' uomo con esse e il fa in esse vivere la vita immortale. Perocchè queste fiamme sono quella potenza misteriosa e irresistibile, colla quale Dio brucia e distrugge nell' uomo tutti i godimenti de' beni creati e naturali; di che avviene che essa distruzione sia intollerabile a quelle anime che non hanno null' altro per bene se non le creature, anime che diventano miserissime pur coll' essere spogliate a forza di tutti i beni lor cari, ed è in cotal modo un annientarle, un crucciarle d' indicibili affanni: e non altro fa il fuoco dell' inferno e del purgatorio (1). La tradizione di questa terribile forza di cui va Dio circondato passò a tutte le genti; ed è per questo che si reputava anche dalle nazioni idolatre che la visione di Dio fosse insostenibile all' uomo, e che l' uomo il quale vedesse Iddio, morrebbe di tratto: sentiva il genere umano l' alienazione che egli aveva dalla divinità; era la profonda coscienza della colpa originale che in lui parlava (2). Un' altra insigne visione di questo carro divino fu quella che ebbe il solo Mosè e non il popolo sul Sinai medesimo. [...OMISSIS...] Nei Salmi si dice espressamente che si mostrò a Mosè il carro di Dio (4). Questo carro di vittoria fu l' esemplare veduto dal Santo Legislatore in quel monte a cui similitudine fece poi l' arca (5), perpetuo trofeo della sconfitta degli Egiziani: e perchè quest' arca era appunto rappresentativa di quel carro di vittoria e trono di gloria ove Iddio siede e vola sui Cherubini; perciò il Salmo LXVII dice che il carro di Dio è nel Sinai e nel Santuario, cioè nel Tabernacolo dove fu riposta poi l' arca (6). L' incarnazione e l' ascensione al cielo viene simboleggiata da questo carro. Il Verbo di Dio discende e si mostra sopra la terra terribile a' suoi nemici per l' infallibile effetto della sua volontà: egli riascende in cielo trionfatore sul carro medesimo e si trae dietro i vinti captivi (7). Egli viene in soccorso dei suoi eletti sbattuti e perseguitati dagli empi e seco traendoli li campa da tutti i pericoli (1). Sta alla testa come capitano del popol suo e lo conduce siccome un pastore (2). Ma la visione di questo mobile trono ossia carro di Dio provisore e del Verbo incarnato più manifesta e più compiuta, fu quella che ebbe Ezechiello nel quinto anno della trasmigrazione del Re Joachino sei anni innanzi la distruzione di Gerusalemme. Iddio mostrava di dovere uscire del tempio profanato e della città santa, non più santa, in cui abitava, abbandonandola in preda a nemici ministri dell' ira sua. Veniva il bellico carro dell' Onnipotente da Babilonia quasi alla testa non più delle armate del suo popolo, ma bensì degli eserciti dei Caldei che sotto la sua guida dovevano fare scempio e rovina della infedele Gerusalemme (3). Or quest' azione del giustissimo sdegno dell' Eterno era pure un tratto di sua provvidenza e faceva parte del grande ordine secondo il quale Iddio con un solo pensiero governa tutte le cose sia nei momenti della sua misericordia, sia in quelli del suo furore. Questa unità di pensiero è manifestamente espressa nella visione di Ezechiello. In quella non si figura già Iddio occupato di un atto solo e passeggiero, ma sì bene quell' Ente sapientissimo che quando si occupa di un fatto non perde la memoria degli altri; che non si lascia assorbire come fa l' uomo da una passione di iracondia o di benevolenza per modo che nol guidi sempre la considerazione di tutta la serie degli avvenimenti che formano una indisgiungibile catena; insomma quel Dio che da Babilonia viene guerriero a oppugnare Gerusalemme è il Dio provisore, è quel Dio che governa insieme le cose tutte dell' universo. Ciò è quanto si rileva dall' analisi della visione. La visione del figliuolo di Buzi (1) ha tre parti. Nella parte superiore è il firmamento, simbolo della immobilità di Colui che muove tutte le cose. « E sul firmamento era come un trono di pietra zaffiro (altro simbolo d' immobilità e durevolezza) e su quella figura di trono era la figura come dell' aspetto di un uomo« (2). » Quest' uomo era l' auriga, cioè, Gesù Cristo, il Verbo, vero Dio che doveva rendersi vero uomo. La parte di mezzo erano i Cherubini, simbolo degli spiriti celestiali e beati della Chiesa trionfante (3). Essi portano gli stemmi del Figliuolo di Dio, che è il loro Signore e l' auriga loro, cioè hanno forma di uomo nel tutto insieme, perchè fu l' umanità che Dio volle innalzare al di sopra degli Angeli coll' unirla alla persona del Verbo. L' auriga, il guidatore della Provvidenza è finalmente un uomo divinizzato, un uomo Dio, così piacendo all' Eterno di sollevare sopra tutte le nobilissime creature quella che per sè fra le intelligenti occupa il più basso luogo, cioè la creatura umana. Ma quest' uomo è tanto innalzato perchè è anche Dio (4): e però quei Cherubini sono anche aquile, avendone la testa e le ali. Ed essi hanno ancora il capo di leone e il capo e i piedi di vitello, stemmi delle due qualità del Signor loro, che sono l' esser egli Re di tutte le cose e unico sempiterno Sacerdote. Conviene dire, che i celesti spiriti sieno santi e beati appunto pel profondo conoscere di tanto mistero e pel continuo ammirar che fanno un sì profondo senno di Dio nell' incarnazione; sicchè portano di tutte queste cose l' impronta nelle loro anime, indi deducendo la loro vita e il loro movimento, devotissimi sì come sono a servire a effettuazione e consumazione di un tale disegno, superiore a quanto può stendersi il pensiero della finita intelligenza. Ma la parte inferiore di quella grande visione erano le ruote le quali toccavano terra (1), e simboleggiavano il mondo delle cose mobili e esteriori nel quale ciò che è formale è propriamente quella parte che costituisce la Chiesa che milita nella presente vita, e colla quale Iddio e Cristo in cima ai beati comunica per mezzo di essi spiriti angelici e delle anime già pervenute a stato di angelo (2), che sono le cagioni medie per le quali opera Iddio e Cristo in sulla terra. Nè questo ministerio dei celesti, anello di mezzo fra Dio e gli uomini in istato di via, toglie punto, nè impedisce che lo stesso Dio operi anche immediatamente nella Chiesa militante collo spirito suo che tutto penetra, e tutto accende, ed avviva: di che il Profeta: [...OMISSIS...] . Ma questo spirito spira da Cristo, e non fa che imprimere Cristo nelle anime (4): e però anche le ruote portano gli stessi stemmi de' Cherubini e hanno quattro faccie (5), di uomo, di leone, di bue, e di aquila, impresse nei dossi de' due cerchi di cui ciascuna è composta, incrocicchiati l' un nell' altro e formante come una sfera rivolubile da ogni parte: conciossiacchè anche la Chiesa militante non ha altre insegne che quelle di Cristo, alla cui similitudine si deve volgere tutta e conformare e per lo spirito parteciparne le sublimissime qualità. Fin qui noi abbiamo parlato dei tre primi generi di segni istruttivi, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Ci rimane a dire del quarto genere, ossia della « lingua simbolica (1). » La lingua per sè stessa non è rappresentativa se non in una piccola parte, cioè nelle parole e costrutti onomatopeici. Ed essendo ella un aggregato di suoni, manifesto è che non può imitare se non cose sonore e che però questa sua imitazione si restringe a una minima parte degli innumerevoli oggetti segnati dalle parole. Ora il nostro discorso non si volge a questa minima parte, ma ha in mira l' uso della lingua in generale. La lingua richiama le idee e le idee richiamano le imagini; le imagini sono somministrate da quei tre fonti che ho toccato, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Sotto la parola di avvenimenti abbiamo voluto raccogliere tanto 1. le cose esistenti nella natura come 2. i fatti che vi succedono. Sotto quella di cerimonie tutti i fatti che sono stati posti dall' uomo in pruova all' uomo di significare e perciò 1. tanto le cerimonie stabili, quali son quelle stabilite da Mosè pel culto divino, 2. come quelle azioni che venivano fatte dai Profeti a intendimento di significare le cose avvenire, verbigrazia il maritaggio del Profeta Osea colla donna peccatrice e i nomi imposti ai figliuoli che ne nascono (2). Sotto la parola di visioni finalmente intendiamo tutte le [visioni] imaginarie che dipingono alcuna cosa sensibile alla fantasia del veggente, gli si presentino esse in sogno o in veglia, palesi a tutti, o visibili a lui solo. Ora le parole possono richiamare e risuscitare nella fantasia le imagini ricevute in queste varie maniere, cioè: 1. esse possono significare un oggetto sensibile nella natura esistente; 2. un fatto avvenuto; 3. una cerimonia sacra; 4. un' azione cerimoniale o significativa; 5. una visione avutasi. In tutti questi casi le parole significano una cosa significativa. Non sono esse stesse le imagini sensibili, ma bensì le cose da loro significate sono queste imagini e simboli di idee astratte o negative. Ma le parole prestano di più un altro servigio. Quando anco non sia avvenuta una visione (la quale consiste sempre in accozzamenti di oggetti sensibili già da noi percepiti in separato), le parole possono tracciare e comporre una specie di visione nella nostra fantasia. E ciò esse fanno col risuscitare nel nostro spirito degli oggetti sensibili componendoli variamente in modo che essi rappresentino al nostro pensiero alcun che appunto per la loro composizione o per l' accordo che hanno colle circostanze presenti. Così fa il linguaggio nelle allegorie e nelle parabole. Ora questi sono i due fonti di tutta la lingua simbolica: ella o annunzia una cosa reale sensibile e rappresentativa, o eccita nello spirito delle imagini variamente accozzate dalla efficacia della lingua stessa in modo che pel loro accozzamento quelle vengano a rappresentare o indicare l' oggetto insensibile che è lo scopo del ragionamento. Discendiamo più al particolare. La parola terra non è già per sè stessa simbolica se non significa altro che la terra: ma se questa terra stessa si considera come un simbolo o segno di altra cosa, allora la parola terra è simbolica. Sicchè non è già che una lingua possa essere mai simbolica per sè stessa, ma bensì, tale si appella perchè ella segna ed esprime degli oggetti che sono dei simboli (1). E ciò che si dice di un oggetto particolare simbolico si può dire di un complesso di oggetti i quali uniti insieme formano una storia, una cerimonia, una serie di azioni, una visione o un prospetto d' imaginazione, secondo la classificazione che noi abbiamo data de' simboli (2). Quando la lingua esprime un oggetto che egli stesso è preso per segno di qualche altro oggetto, ella si chiama simbolica (3). Ma questo oggetto7segno non può essere sempre così atto a segnarne un altro che al tutto ed esclusivamente lo determini; anzi quasi mai avviene, e le più volte, per non dir sempre, un oggetto stesso può usarsi a segnare più e più oggetti, cioè tutti quelli che hanno con lui qualche somiglianza, o qualche rapporto qualunque si voglia. A ragion di esempio se io prendo per simbolo un fiume che si rigonfia e minaccia di rovesciare le città co' suoi flutti, quale sarebbe l' Eufrate, il mio simbolo potrà significare l' impeto e la superbia di un conquistatore: e in tal caso il dire l' Eufrate minacciò colle sue onde sterminio, in lingua simbolica significherà, il Re o l' esercito nemico che si accosta con empito. Ma questa parola Eufrate potrebbe esser simbolo egualmente atto a esprimere i popoli abitatori delle sue sponde pel rapporto di vicinanza che ha con questi; e quindi dicendo l' Eufrate esultò di gioia, in lingua simbolica può significare il tripudio degli abitatori di Babilonia. Ora questa indeterminazione, che ha il simbolo, si deve rimuovere in qualche maniera, perchè la lingua simbolica si possa interpretare con sicurezza; altrimenti ella non presenterebbe se non dei discorsi equivoci e sempre incerti. Ora questa via d' interpretare la lingua simbolica ora è più, ora meno difficile. Indi avviene alla lingua simbolica primitiva ben sovente una certa oscurità , non assoluta ma relativa, ed è allora quando vi si trova questa oscurità, che ella viene nominata enimmatica . In che modo si può dunque giungere alla determinazione sicura del significato del simbolo? Or dissi che la oscurità della lingua enimmatica primitiva non è assoluta, cioè non nasce della perplessità della stessa lingua, ma relativa alle cognizioni e all' abilità dell' interprete, poichè vi ha sempre una via che conduce alla sua piena e certa intelligenza. Ma qual' è questa via? Questo si fa in sette maniere, ed ecco quali sono: 1. Coll' aggiungere al simbolo la spiegazione in parole proprie. Così Ezechiello nel capo XVII narra quello che due aquile operavano. Ora esse non erano che simboli di due Re. Ma come saperlo? E come indovinare quali Re fossero? Il profeta stesso spiega il suo simbolo dicendo, che per quelle due aquile intendeva figurare il Re di Babilonia e il Re di Egitto. 2. Coll' intrameschiare alle parole simboliche tali parole proprie che mostrino le prime esser simboliche e a che significare ordinate. A ragione di esempio Osea (II) parla di una vigna di cui spianterà le viti e le ficaie. Ma egli è facile d' intendere che questa vigna è simbolica e segna il suo popolo, se si considerano le parole proprie che seguono alquanto dopo, ove il Profeta dice, che una tal vigna rientrata a Dio in amore « canterà come a' giorni della sua gioventù e come a' giorni della sua uscita dalla terra di Egitto« (1). » 3. Talora il discorso simbolico si rende chiaro e determinato in virtù delle circostanze di chi parla e di quelli a cui parla. Sapendosi che chi parla è un inviato dal cielo a minacciare di castighi sopravenienti le scelleratezze del suo popolo, questo solo già mette sulla strada a intendere i simbolici detti del Profeta: per lo meno il sapere ciò, esclude una quantità d' interpretazioni che potrebbero forse avere luogo non sapendosi al tutto la qualità dell' uomo che parla e de' suoi uditori. Ridotto così il numero de' sensi possibili assai minore, viene fra questi stessi determinato l' unico ammissibile dal considerare tutte le altre circostanze. Quando Isaia minaccia che il Signore chiamerà con un fischio la mosca che è nelle estremità dei fiumi di Egitto, e l' ape che è nel paese di Assur (1), è facile l' intendere che la mosca e l' ape qui sono due simboli e che voglia segnare il Re di Egitto e quello di Babilonia: e ciò dal sapersi la circostanza che la Giudea era collocata fra questi due Re potenti, e che erano essi i nemici più formidabili da cui aveva essa a temere. 4. Può togliersi l' incertezza del simbolo da una circostanza storica straniera a quelle di chi parla e di chi ascolta. Poniamo esser noto che la colomba era lo stemma di Babilonia: si farà chiaro con ciò che la colomba nominata nel Salmo LXVI è un simbolo di quel potente impero. 5. Può il simbolo rendersi chiaro e certo per convenzione. Se la convenzione è privata, la lingua diventa un gergo , e questo non ha mai luogo nella Scrittura. Una metafora venuta in tant' uso che si è fatta proprietà di una lingua, sicchè appena ritiene più qualità di metafora, ma corre come parola che fosse propria, giacchè non si bada quasi più al suo primo senso, egli si può dire un simbolo chiaro e palese per convenzione comune e pubblica (2). Non però è questa una convenzione al tutto arbitraria, ma è sempre fondata nella similitudine o in qualche altra relazione che passa fra il significato primitivo e proprio della parola, e quello che le fu dato traslatamente. Così nella lingua ebraica un legame materiale è simbolo di una legge, e però stringere vale il medesimo che comandare , per un traslato comunemente usato presso gli Ebrei. Nel primo libro de' Paralipomeni, ciò che la volgata traduce « praecepit Dominus Moysi » dovendosi tradurre il testo ebraico alla lettera, riuscirebbe: Iddio strinse Mosè (3). 6. Il simbolo si rende ancor chiaro per la notizia storica della sua istituzione. Dovendosi tenere il nostro discorso entro i limiti della lingua simbolica, ed essendo ordinato solo a porgere un chiaro concetto di quella lingua primitiva colla quale Iddio doveva venire istruendo il genere umano bambino, non faremo parola che della istituzione di parole simboliche. Già ne abbiamo veduta la necessità per l' uman genere bambino: ne abbiamo veduto anche il modo onde queste parole dovevano stabilirsi. Non faremo dunque qui che riassumerci, ma secondo il nostro solito non colle stesse parole colle quali abbiamo esposte tali dottrine altrove, ma dando loro un aspetto nuovo e una nuova luce. A venire a capo di ciò noi dobbiamo in primo luogo schierare sott' occhio del nostro lettore gli aiuti che prestò il linguaggio allo sviluppo della umana intelligenza. In secondo luogo sarà nostro carico il dimostrare che tali aiuti non poteva il linguaggio prestargli allo spirito se non avesse ammesso in sè stesso i simboli, e così non si fosse reso simbolico. Ecco adunque il riassunto dei diversi vantaggi che dà la parola allo spirito nel suo intellettivo sviluppamento. I. La parola: 1. completa , 2. fissa la percezione. Dico che la completa. Quando l' uomo privo d' altre idee percepisce un oggetto sussistente, egli se ne forma una cotale idea ma imperfetta. Solo quando gli pone il nome a questo oggetto percepito, la sua idea di lui è completa. La ragione di ciò si è, che la percezione è un atto molteplice dello spirito, cioè composto di più parti, è un prodotto di più facoltà, come il prova l' analisi di essa percezione. Ora ciò che dà unità a queste molteplici operazioni dello spirito, ciò che unisce quelle varie parti è un segno a cui se le attacca. Questo segno, cioè la parola, acquista virtù per una cotale associazione di risvegliare a un tempo 1. l' imagine sensibile (materia dell' idea), 2. l' essere (sua forma) e 3. la veduta dello spirito che nell' imagine vede l' essere. Per questa parola l' essere per sè indeterminato viene meglio determinato, precisato; e lo spirito con tale guida è volto a cogliere per così dire l' oggetto reale scopo di tale operazione, e quello che viene propriamente nominato nella intenzione dello spirito col nome proprio . Dico ancora che la parola fissa la percezione. Una percezione innominata è tenue, e svanisce tosto dalla mente. Ma quando il suo oggetto ha acquistato un nome, questo nome gli lega, per così dire, le ali, e nol lascia sfuggire, il tien fermo nella presenza della mente, il richiama presente quando se ne è partito e il rende atto a poter venir colto quando si voglia dall' attenzione, che col mezzo del nome suo si rivolge a lui e il contempla e il lavora con quante riflessioni meglio gli piace. II. La parola relativamente alle idee positive , che sono il fondamento della classificazione specifica delle cose, ritiene innanzi allo spirito la specie e la richiama: il che fanno i nomi comuni . III. Relativamente alle idee negative la parola 1. fissa un sussistente nel comune , mediante la facoltà del verbo: 2. rapporta a questo sussistente esse idee, che diventano altrettante indicazioni di quel sussistente fissato nel comune, con una operazione che si può acconciamente nominare una cotale creazione intellettuale; e 3. ciò che è il più, fissa un sussistente nell' universale , il che è quanto dire sostantivizza l' ente, la verità, la giustizia e la bontà, e così ascende alla più grande e perfetta idea di Dio che a lui sia possibile di avere nel presente, congiungendosi in questa mirabile operazione il comunissimo (l' ente possibile) e il particolarissimo (il sussistente). IV Finalmente rispetto alle astrazioni generiche è la parola quella 1. che eccita la veduta dello spirito, 2. che la dirige questa veduta, e 3. che la limita e determina; senza le quali tre condizioni non potrebbe lo spirito nè muoversi, nè procedere, nè quietarsi nella visione di que' rapporti o caratteri, che costituiscono appunto la natura delle idee generiche. Veduti e classificati i vantaggi che la parola presta allo spirito nella formazione e nel perfezionamento delle idee, non ci sarà difficile d' intendere come la parola, a poter prestare sì nobili servigi, non poteva non essere stata nella prima sua istituzione simbolica. E veramente riprendiamo in mano questi vantaggi nell' ordine in cui gli abbiamo registrati; cominciamo dalla percezione, a cui corrisponde l' istituzione de' nomi proprii . Ho detto che il nome proprio che esprime l' oggetto della percezione unisce insieme diversi elementi e ne fa risultare un solo oggetto d' intelletto, e che questi elementi sono: 1. l' essere universale, 2. l' imagine o percezione sensitiva, 3. la veduta dello spirito. Ma in tutto ciò non c' è ancora la sussistenza , ed è solamente quando il nome si riferisce a un oggetto reale, individuo, sussistente, che si dice nome proprio. Pigliamo un esempio: il nome del primo uomo era un nome proprio: analizziamolo insieme, cerchiamo di scoprirne l' intima natura. Quale è dunque la natura di questo nome ADAM? Guardiamo che cosa significa: egli per sè non significa che terra , ossia soggetto composto di terra. Questo nome, dice la divina Scrittura, fu imposto da Dio ad Adamo per esprimere con esso che Adamo era stato formato dalla terra. Ma un nome che significa un oggetto composto di terra, per sè considerato, è egli un nome proprio o un nome comune ? Non più che un nome comune, poichè egli non restringe il suo significato a solo il primo uomo, ma significa egualmente qualunque oggetto composto di terra. Tanto è vero che lo stesso nome, che fu preso a dover significare il primo uomo che fu al mondo, si usa anche a significare UOMO in genere, pigliandosi nell' ebraica favella questa voce ADAM tanto come nome proprio di Adamo, quanto come nome comune della specie umana. La natura adunque degli antichissimi nomi propri è tale, che essi siano per sè veramente nomi comuni , ma che vengano appropriati a un individuo sussistente, non per la loro intrinseca natura, ma per qualche mezzo a loro estrinseco. Noi esamineremo fra poco quale possa essere questo mezzo o circostanza estrinseca che riduce un nome comune e lo coarta nella significazione di nome proprio. Intanto tornando alla nostra analisi del nome Adam diciamo, che l' oggetto da lui espresso, un composto di terra, dovendo essere un oggetto percepito dalla mente ed espresso con quel nome in quel modo appunto che la mente il concepisce, egli si compone e risulta, questo oggetto intellettivo, dei tre elementi indicati, cioè 1. dell' essere, 2. della percezione sensibile della terra, la quale si presenta al nostro senso coi suoi caratteri fisici, e 3. della veduta dello spirito, colla quale veduta questo fissa un aggregato di terra (materia) possibile a sussistere. Ma questo aggregato di terra non è indicato ancora come hic et nunc attualmente sussistente, e in tutto determinato e ristretto a una sussistenza individuale e propria. La sussistenza adunque, la quale sola dà al nome il carattere di proprio, non è compresa negli antichissimi nomi proprii, ma questi sono nomi comuni applicati a un essere sussistente e resi così suoi proprii da qualche mezzo o industria estrinseca e straniera ai nomi stessi. Qual è dunque questo mezzo, industria o circostanza, che fa capire un individuo reale e sussistente, al sentirsi pronunciare un nome comune? Questo mezzo non è sempre il medesimo: talora è un' altra voce che viene aggiunta al nome comune e che lo fa proprio attaccandolo a un individuo sussistente: talora è una tacita disposizione dello spirito di coloro che usano di quel nome. A. Dico che una voce talora ferma il nome comune a significare un individuo sussistente. Questa voce è comunemente un pronome: 1. Alcuna volta è il pronome dimostrativo questo ; ma rimanendo un tal pronome separato da esso nome comune cui determina, non ne cangia la natura. Così se io dico: quest' uomo; sebbene una tale locuzione determini il nome comune uomo a significare l' uomo che è presente e forse anco da me indicato coi cenni, o l' uomo nominato più sopra nel discorso, tuttavia il vocabolo uomo resta nome comune che fa, solo per quel caso, l' ufficio che farebbe il proprio; 2. Più spesso fan proprii i nomi comuni nelle lingue antichissime i pronomi personali che si affiggono al nome comune e fanno con esso lui un solo vocabolo. Per non prendere gli esempi se non dalla lingua ebraica, molti sono i nomi a cui è affisso dal loro istitutore il pronome possessivo mio : così Rachele impose a Beniamino, il cui parto difficile la fece morire, il nome di BEN7ON7I, che vuol dire figlio del mio dolore (1). Il nome che aveva Sara prima che Iddio glielo mutasse, era SARA7I, cioè signora mia (2). Il nome ISA7I, vuol dire mio uomo (3). A Dio stesso per dargli un nome proprio e contraddistinguerlo dagli dei degli idolatri, talora da chi lo invocava si aggiungeva il pronome possessivo mio , come in Adona7i Signor mio (1); e in quella appellazione che gli diede Agar, quando ebbe la visione nella solitudine, che li nominò il Dio che vede me (2). Egli è manifesto che per quel primo che impone un tal nome, esso nome ha forza di proprio, perchè determina una relazione unica e stabile dell' oggetto nominato colla persona che il nomina, e però quell' oggetto non può esser più vago nè accomunarsi ad altro, che a quella cosa sussistente che ha la relazione indicata coll' imponitore del nome. Ma per gli altri uomini in che maniera quel nome conserverà la vece e l' ufficio di nome proprio? (3). Non [in] altra certamente che in virtù della memoria che dura dalla prima sua istituzione: sicchè anche un nome così determinato dal pronome possessivo mio , per conservarsi nel suo vigore di nome proprio, ha bisogno che per tale passi a esser ricevuto dal comune degli uomini. 3 Talora il nome comune prende la forza di proprio dall' aggiungervi che vi si fa un nome per proprio antecedentemente ricevuto. Così dicendo il Dio di Abramo, è il nome proprio di Abramo che determina a far l' ufficio di proprio il nome comune di Dio. B. La seconda maniera, onde un nome per sè stesso comune si fa correre per proprio, è una tacita disposizione e operazione dello spirito di chi parla e di chi ascolta (la quale operazione appartiene alla facoltà del verbo) per la quale operazione chi pronunzia od ode quel nome comune subito vi attacca l' oggetto individuale e sussistente. La sussistenza dunque non è espressa, ma viene supplita dallo spirito. Per esempio, tornando a un esempio recato avanti, nella parola Adam non è punto nè poco espressa la sussistenza individua del primo uomo che fu; e pure al suono di questo nome tosto si presenta allo spirito non già solo le qualità comuni di ciò che è terra, suo vero significato, non già solo l' uomo in genere, nella quale prima restrizione di significato lo spirito aggiunge qualche cosa da sè; ma sì bene il primo padre di tutta l' umana specie, che è la restrizione somma del senso che può ricevere quel vocabolo, restrizione che da comune il rende al tutto proprio. Questa operazione che fa lo spirito colla quale all' udire un suono intende più di quello che il suono esprime, si opera non per la virtù che quel suono ha come segno, la quale virtù non si potrebbe estendere oltre la cosa significata, ma per una associazione fra la cosa significata da quel suono e la cosa supplita dallo spirito (4). La cosa non è nuova nella lingua. Non si deve credere che la lingua esprima tutto ciò che noi intendiamo per essa: vi ha un' infinità di cose che sono supplite dallo spirito di quelli che parlano e che ascoltano, e che non sono punto segnate coi suoni. Sarebbe lungo l' entrare in questa materia per altro molto importante a essere trattata in una filosofia delle lingue. Noi osserveremo solo che questi sottointendimenti sono specialmente innumerevoli nelle lingue antichissime, e si può in generale stabilire questo principio che i primi uomini esprimevano il menomo possibile di quanto bisognava perchè i loro sensi fossero intesi. Mi rimetto intorno a ciò al trattato delle elissi e delle reticenze che si trova nei grammatici. E dico, ora che cosa è che induce lo spirito nostro a supplire nel nome comune la sussistenza individuale , sicchè noi veggiamo il particolare nel comune? Ciò nasce da molte cagioni: ma la principale è certamente l' uso positivo della lingua da noi appresa fin dall' infanzia, il che è quanto dire la primitiva istituzione del nome passata di padre in figlio, di bocca in bocca fino a noi. Fin qui ancora non apparisce la necessità de' simboli, ma quello che abbiamo detto ci lastrica la via di giungere a conoscere questa necessità. Intanto si può conchiudere da ciò che abbiamo detto che in questa specie di nomi il comune si congiunge e lega col proprio e si fa servire come di segno a dover segnare questo proprio sussistente. Andiamo innanzi. Questa idea comune che risveglia in noi la persuasione della sussistenza di un oggetto, quanto si estende ella? E` una idea specifica o generica? Ella è una idea specifica . Questo ha bisogno di spiegazione. Quando noi percepiamo coi sensi un oggetto sensibile, non percipiamo mica tutta la natura e proprietà di quell' oggetto: no, è vero che noi crediamo di averlo percepito tutto e fedelmente; questo è un errore comune (1). In quella vece noi non abbiamo percepito dell' oggetto se non quel tanto che la capacità del nostro senso fu atta a ricevere, e in un modo al tutto conformato, per non dire sformato, alla qualità del senso medesimo. Di più fra le varie sensazioni che noi riceviamo da un oggetto medesimo all' atto della sua percezione e delle quali l' intero della percezione stessa si compone e risulta, ve ne ha solitamente una che primeggia sull' altre, che più ci colpisce e tira tutta a sè la nostra attenzione: e suol essere quella a cui rivolgiamo il nome che imponiamo all' oggetto. Così a ragione di esempio, nella percezione del sole non sarà la sua grandezza, la sua forma o altra qualità quella che più ci muove, ma l' acutezza della sua luce. Indi denominandolo, il sole non sarà già chiamato cosa rotonda o con altro nome, ma sì bene cosa ossia oggetto luminoso. Nella percezione del firmamento l' uomo non sarà già ferito tanto dal suo colore quanto dalla sua estensione; il firmamento sarà quindi nominato oggetto esteso, o anche semplicemente l' esteso (1). Qui pertanto si vede che il fondamento de' primi nomi proprii doveva essere una qualità sensibile, quella che nei diversi oggetti spiccava fuori dell' altre (2). Ora che idea è quella di una qualità sensibile? ella è una idea specifica accidentale. Ma non come accidente si poteva prendere dall' uomo questa qualità: l' uomo era costretto dall' indole della sua mente di sostantivare la sua percezione: quella qualità dunque veniva sostantivata, presa come una sostanza. Tale concetto appunto è ciò che dà queste denominazioni, il luminoso, l' esteso. Questi nomi che in latino riescono neutri, equivalgono a dire una sostanza luminosa, una sostanza estesa. Tali erano i nomi comuni che in origine servivano per nomi proprii in virtù dell' istituzione e dell' uso. Or si consideri la differenza che passa fra le idee significate da questi vocaboli l' esteso e l' estensione, il luminoso e la luce o luminosità (3). Si vedrà assai agevolmente che l' estensione e la luminosità sono pure astrazioni: all' incontro l' esteso e il luminoso sono astratti sostantivati. Ora questi astratti sostantivati sono il primo passo che fa lo spirito umano onde pervenire alle astrazioni. Sebbene gli astratti sostantivati sieno più complessi e le pure astrazioni più semplici, tuttavia lo spirito umano si forma prima quelli che queste. E la ragione di ciò si è che lo stesso spirito umano è un complesso di facoltà, non una sola facoltà; per ciò i primi passi dello spirito sono complessi, operando più facoltà insieme; e i semplici sono gli ultimi. Ciò che dico non è una pura conghiettura, ma un fatto. Mi appello a coloro che conoscono le lingue antiche nelle quali si vede un' abbondanza straordinaria di astratti sostantivati posti in luogo di astratti puri. A ragion di esempio nella ebrea, in quel luogo del Genesi, in cui la Volgata dice che la terra era inane e vuota (4); altri tradussero che era inanità e nullità (5). Ma l' Ebreo dice all' incontro coll' astratto sostantivato, che era « l' inane e il vuoto« (6). » Isaia dice secondo la Volgata che « il Signor Iddio verrà nella fortezza« (7); » ma l' Ebreo dice all' incontro « veniet in forti «. » Nel salmo CXVIII (137), si dicono retti i giudizii del Signore, ma l' Ebreo lo esprime coll' astratto, che noi tradurremmo « i giudizii del Signore sono rettitudine«: » ma la lettera dell' Ebreo sostantiva l' astratto di rettitudine come il latino direbbe neutralmente rectum , cosa retta. E ad ogni piè sospinto si trovano di tali esempi nelle lingue tutte più vetuste. I due ultimi esempi che ho recati non sono astrazioni specifiche sostantivate, ma sì bene generiche; e li ho addotti perchè si veda che lo spirito umano sostantiva non solo la specie ma anco il genere, quando a questo è pervenuto. Ma questa osservazione sia toccata di passaggio. Ritorniamo al filo del nostro ragionamento. Gli uomini primitivi nominavan dunque gli oggetti sensibili e sussistenti con de' veri nomi comuni, i quali diventavano in tal modo proprii nello spaccio che avevano; sicchè« l' esteso« era il nome proprio del cielo,« il luminoso« era il nome proprio del sole, e così via. Ma lo spirito umano non potea fermarsi in ciò, egli avea bisogno altresì di astrazioni pure, di nomi che fossero puramente comuni e non proprii. Ora che avvenne? quel che dovea avvenire, cioè che essendo avvezzi gli uomini a dare il nome di« esteso« al firmamento, di« luminoso« al sole, non si poteano poi applicar questi nomi comuni ad altri oggetti senza che venisse in mente, a chi li usava, il sole, il firmamento, ecc., il che è quanto dire, stante l' accettazione universale di questi nomi per proprii, che tutte le cose solennemente luminose si chiamavano soli, tutte le cose estese e grandi si chiamavano firmamento, ecc.: o sia, che è il medesimo, che il firmamento divenne« il simbolo« dell' estensione, il sole della luminosità, e così via. In tal modo gli astratti puri che sono idee insensibili furono concepiti nelle menti degli uomini mediante altrettanti loro« simboli« che mirabilmente aiutavano la mente a dar corpo per così dire e sostanza a tali idee. Così l' istituzione de' simboli ebbe origine dalla natura stessa e dalla prima istituzione della lingua primitiva. Ed egli è evidente che se« i simboli« aiutarono in tal modo lo spirito umano alla formazione degli astratti puri, molto più il dovettero aiutare alla formazione delle idee negative di Dio e degli spiriti trascendenti. Concludiamo da tutto questo discorso che la lingua primitiva doveva esser simbolica, e che questi simboli aveano la chiara loro intelligenza dalla notizia tradizionale della loro istituzione, che trapassava di generazione in generazione coll' uso della lingua stessa (1). 7 Finalmente v' ha un' altra via onde il simbolo si rende determinato e chiaro, e questa è il complesso armonico di più simboli insieme presi. Quella ambiguità e incertezza che avrebbe un simbolo solo preso isolatamente viene levata da degli altri simboli che insieme con lui si presentano nel discorso. Conviene però qui osservare che se si tratta di effigiare in questo complesso di simboli un avvenimento futuro, esso può rimanersi nell' oscurità fino a tanto che non riceve luce dall' avvenimento medesimo, e ciò non già perchè egli non valga ad esprimere quell' avvenimento nel modo il più fedele e preciso; ma perchè non può necessariamente che rappresentarlo in alcuni suoi termini ed estremi senza potere metterne sott' occhio il nesso. Il medesimo avviene in quelle profezie nelle quali si predicono gli avvenimenti descrivendoli dalle loro circostanze, le quali insieme prese non possono convenire che a quegli eventi predetti, ma che prima di vederle avverate sembrano fino inconciliabili fra di loro. E chi poteva a ragion d' esempio trovare prima dell' avvenimento il nesso fra quelle due profezie sopra Sedecia (1): delle quali l' una diceva che non avrebbe veduto Babilonia, e l' altra che Nabucodonosor non l' avrebbe ucciso ma l' avrebbe condotto in Babilonia? Il fatto mostrò come tali predizioni si conciliavano quando Sedecia non fu ucciso ma accecato, ed entrò in Babilonia senza vederla. Così parimente come conciliare queste tre predizioni sopra il Messia: l' una diceva che sarebbe stato chiamato Nazareno, l' altra che sarebbe nato in Betlemme, la terza che Iddio l' avrebbe fatto venir dall' Egitto? Il fatto è che nato in Betlemme per puro accidente fu ritenuto esser di Nazaret patria dei suoi abitatori (sic) e dov' egli pure condusse con essi molta parte della sua vita, e che fuggito ancor tenerello in Egitto di là fu chiamato da Dio nella Giudea. Da tutto quello che abbiamo detto si può intendere facilmente che la lingua simbolica istituita a principio non può essere stata al tutto stazionaria; ella dee avere avuto un progresso, dee avere sofferto delle vicissitudini. E` ciò una conseguenza della natura dell' uomo inclinata a trovar nuovi simboli di paro che a trovar nuove idee; come pure a ciò si presta la natura di un simbolo stesso che può passare dal significare uno al significare un altro oggetto, e l' oggetto significato dal simbolo può essere un altro simbolo egli stesso. La storia pertanto de' simboli è un argomento di ricerche erudite immense, e che sola potrebbe deciferare la storia della umanità: ma come ella non può esser a pieno trattata nell' opera presente, così pure ella non può essere proporzionata alle nostre piccole forze, nè manco al picciol tempo che ci rimane da dedicare agli studii. Noi non porremo qui pertanto se non una sola osservazione, che tocca la base che dar si dovrebbe a questa storia de' simboli. Diciamo che la base di una tale storia dovrebbe essere la simbolica primitiva, quella che veramente ebbe in parte una origine divina come abbiamo innanzi dichiarato. Questa pertanto dovrà essere la prima ricerca di chi si accinge ad una tale storia« quale fu la simbolica primitiva?« ricerca nella quale i documenti storici di tutto l' Oriente, l' antichità di tutte le nazioni, e di tutte le lingue raffrontate insieme potranno dare, come io spero, una piena luce. Trovato questo fondamento, e come regola suprema della storia indicata rimarrà a dimandare« quali furono le alterazioni che sofferì la simbolica primitiva?« che cosa fu dimenticato di lei, che cosa aggiunto, che cosa permutato? Nel qual buio reca chiarezza, siccome face luminosa che dee precedere, quella parte della filosofia delle lingue che insegna come di mano in mano l' uomo inventò i nomi e qual parte del linguaggio fu prima e qual dopo. Ne darò qui un solo esempio preso da due sole parole, cielo e terra. Io mi persuado che nella lingua primitiva il cielo e la terra fossero nominati con de' nomi comuni sostantivi, il quale è, come abbiamo veduto, il primo modo, onde gli uomini dovettero denominare le cose (2). Fu dunque il cielo denominato dall' altezza sua, la terra dalla sua bassezza in rispetto al cielo, cioè il nome proprio del cielo si fu l' alto , il nome proprio della terra si fu« il basso « (3). Fin qui de' segni istruttivi dati da Dio all' uomo dopo il peccato perchè gli fossero mezzi di perfezione. Ora ci bisogna parlare de' segni effettivi o sia de' Sacramenti; e di questi pure dobbiamo tracciare la storia, e render palese il progresso in che vennero crescendodo nelle varie età, fino a Cristo dal quale ricevettero loro intera perfezione. A tal uopo si dee prima conoscere la differenza che divide i Sacramenti che ebbero gli uomini prima della venuta e passione del Redentore, da quelli che ebbero dopo; e questa è la ricerca a cui noi ora poniam mano. La differenza de' Sacramenti si dee dedurre primieramente dal differente stato soprannaturale degli uomini pe' quali essi sono istituiti: il quale stato viene determinato dalla natura della grazia da cui sono illustrati. Conviene adunque rammentare ciò che noi abbiamo detto circa la differenza della grazia dell' antico Testamento, e quella del nuovo (1), la qual differenza noi l' abbiamo ridotta a questa parola, che l' antica grazia era deiforme , e la nuova triniforme (2). Abbiamo ancora detto che il principio della rivelazione, dietro la quale conseguitava la grazia nell' antico Testamento era il Verbo occulto, nel nuovo il Verbo manifesto (3). Al fine poi di spiegare in che maniera nell' antico Testamento il Verbo potesse essere principio della rivelazione, abbiamo fatto osservare, che ogni rivelazione si attribuisce al Verbo, come dicono i teologi, per appropriazione di parlare; il che non importa già un dire che sola la persona del Verbo operasse nelle antiche rivelazioni, le quali come opere esterne competono alla divina natura, e però a tutte e tre indistintamente le persone; ma quella maniera di parlare non viene a dire altro se non passare una cotale simiglianza o analogia fra le cose rivelate e il Verbo generato dal Padre, quasi con un pronunziare che fa l' intelletto una parola interiore. Nel che vedesi ancora come si dica rimanersi il Verbo occulto in quell' antica rivelazione, poichè ciò che si rivelava non era tanto, che bastasse a dare alle anime una, tuttochè imperfetta, percezione del Verbo. Il Verbo divino adunque era principio dell' antica rivelazione a quel modo che la parola di un precettore è principio della scienza del discepolo; similitudine che non quadra però al tutto; perocchè la parola del maestro umano è materiale e distinta dalle verità spirituali, che vede il discepolo colla sua mente. Si pensi dunque un maestro la cui parola sieno le verità stesse senz' altro segno; sicchè egli abbia virtù di presentarle immediatamente alla mente di quelli che insegna: queste verità si direbbero il principio della scienza del discepolo. Ora ciò non toglie che sotto altro aspetto si possa dire principio della scienza del discepolo anche il maestro stesso che ha virtù di comunicare quelle verità. E però nell' antico Testamento le verità comunicate interiormente allo spirito degli uomini erano il Verbo (per appropriazione); e tuttavia il maestro che comunicava queste verità era il Padre. Perciò l' essere stato nell' antico Testamento principio della rivelazione e della grazia il Verbo, non toglie punto il potersi dire anche il Padre principio di quelle antiche rivelazioni. E consideriamo un po' attentamente come il Padre fosse principio dell' antica rivelazione. Ciò che si voleva con questa era d' infondere nelle menti delle traccie, e quasi un abbozzo del Verbo: il quale abbozzo preparasse la tavola per così dire a riceverne poi a suo tempo la perfetta imagine. Or dunque il termine di questa interna operazione era il Verbo, ma il principio era il Padre. Conciossiacchè essendo il Padre quegli che genera e manda di sè il Verbo, a lui compete altresì il disegnare nelle menti le prime linee per così dire o vestigi del Verbo medesimo. Questo è ciò che viene a dir Cristo dove afferma che il Padre è quegli, che tira gli uomini a lui. « Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non l' avrà tirato« (1). » Non si contenta di dire semplicemente« il Padre«, ma dice« il Padre che mi ha mandato« cioè che mi ha generato e mandato altresì nelle menti coll' atto stesso che mi ha generato; esprimendo in tali parole acconciamente il modo onde il Padre tira gli uomini al Verbo, che è quello di mandare il Verbo stesso, o le traccie di lui, nelle loro intelligenze. Distinguasi adunque negli uomini due stati, in rispetto alla relazione soprannaturale con Dio; l' uno è di quelli uomini i quali conoscono già il Verbo; l' altro stato di quelli che non lo conoscono ancora, ma a ricever la cognizione e percezione di lui si dispongono. Questa disposizione vien loro a gradi pei quali l' uomo si avvicina sempre più al Verbo, di cui riceve un cotal riflesso di luce che cresce fino a che è degno di denominarsi percezione del Verbo stesso. Or dunque innanzi che questa percezione sia formata, il Verbo come tale propriamente parlando non opera in essi: il qual Verbo in essi opera tosto che in essi è formato (1). Da qual principio viene loro quel lume o più tosto quel barlume che è come l' aurora del sole che gli tien dietro? questo è appunto quel tirare che il Padre fa gli uomini al Verbo. Al Padre si attribuiscono adunque tutte le disposizioni che precedettero o che precedono la venuta del Verbo nell' uomo, e rimote e prossime. Così il Padre fu quello che mandò il Verbo al mondo nella incarnazione, e tutto il disegno di questa grande opera al Padre si attribuisce (2). Venuto poi il Verbo, il Padre cede a lui il lavoro di compir l' opera della salute umana; e questa è quella grande opera di cui sì spesso parla Cristo aver ricevuta dal Padre, [...OMISSIS...] . Dice d' essere stato mandato dal Padre: questo è quello che fece il Padre; e l' esser mandato dal Padre negli uomini è una espressione che equivale a quest' altra« il Padre trae gli uomini a me«. Dice che fu mandato perchè faccia« l' opera sua«, cioè l' opera del Padre, quell' opera che il Padre ha cominciato col mandare il Verbo negli uomini, e che perciò rettamente opera del Padre si dee nominare. Ora quest' opera che il Padre ha imposto al Figliuolo è che egli facesse conoscere agli uomini il Padre suo, perchè il Padre operando non si è reso visibile agli uomini, ai quali non ha comunicato se non le vestigia del Figlio, e il Figlio. Questa opera ricevuta a farsi dal Padre, Cristo l' annunzia in quelle parole [...OMISSIS...] . Perciò il Padre fu come uno che favella senza esser veduto. « Ciascuno che udì dal Padre e imparò, viene a me« (6). » E non dice che udì il Padre, ma che udì dal Padre; perciocchè l' uomo percepì i vestigi del Verbo nel suo spirito, ma senza conoscere il principio che glieli comunicava. Il perchè le profezie dicevano che « nessuno saprebbe onde il Cristo venisse« (1), » e Gesù dopo aver detto che chi udì e imparò dal Padre viene a lui, soggiunge: [...OMISSIS...] . L' opera adunque dell' umana santificazione nascer doveva per la comunicazione del Verbo divino, il quale dovea far conoscere agli uomini il Padre celeste pel suo sermone e pel suo spirito. Or l' uomo essendo un essere fornito di corpo, datogli per istrumento da percepire ed attingere le cognizioni di cui è privo in nascendo; conveniva che il Verbo a rendersi palese all' uomo s' incarnasse e per la via de' sensi comunicasse la sua virtù e sapienza allo spirito umano. Il Verbo incarnato fu Cristo che predicò, operò e patì per compire la grande opera commessagli dal Padre. Così la rivelazione esterna fu compita, a cui rispose il compimento dell' interna, cioè la grazia data sempre in misura di quella (3). Però l' umanità di Cristo fu il mezzo pel quale venne alle anime umane rivelato il Verbo divino, e la pienezza della grazia in lui contenuta. Laonde se l' umanità di Gesù Cristo fosse stata sempre presente agli uomini, non sarebbe bisognato l' istituire de' Sacramenti. La vista di quella santissima umanità, le sue parole, il contatto delle divine carni erano altrettanti mezzi sensibili pe' quali da Cristo poteva passare negli uomini ogni maggiore abbondanza di grazia. Al tatto delle sacratissime mani di Cristo era annessa virtù non solo di sanare tutti i morbi del corpo, ma anco quelli dell' anima, e così di « sanar tutto l' uomo intero« (4) » in corpo e in anima: le parole sue erano « spirito e vita« (5) » e il suo sermone « mondava« » l' uomo da ogni macchia di peccato (6); la vista dell' umanità sacratissima di Cristo aveva efficacia di innalzare l' anima di chi la vedeva alla cognizione e contemplazione del Verbo e per esso del Padre (1). Perciò l' umanità di G. Cristo era quel mezzo sensibile, che agendo sui sensi dell' uomo valeva soprabbondantemente a ristorarlo e santificarlo. Ma questa umanità non dovea restar sempre palese e sensibile fra gli uomini, ma da essi occultarsi; doveva ascendere alla destra del Padre (2). Era dunque necessario di lasciare al mondo qualche altro mezzo o segno sensibile, acciocchè per l' azione di cose sensibili l' uomo racquistasse la salute, e questo mezzo furono i Sacramenti. Egli è a questo che allude Gesù Cristo quando in sul partire dal mondo diceva quelle parole: « Padre Santo - fino a tanto che io era con essi, io li conservava nel nome tuo (3), » e ancora «« conservali tu nel nome tuo - santificali nella verità« (4), » attribuendo al Padre la virtù santificatrice de' Sacramenti, come fontale origine dello Spirito Santo, il quale però procedendo per via del Figlio dice che « li santifichi nella verità, » che viene a dire nel Figlio che disse «« io sono la verità« (5). » Il più augusto di questi Sacramenti è quello della Eucaristia. Per esso Gesù trovò il modo di far rimanere sopra la terra in occulto la sua sacratissima umanità nello stesso tempo che è palese in cielo in istato glorioso: e questa umanità, mediante un tal Sacramento, si trova contemporaneamente in qualsivoglia luogo del mondo e vicina a tutti gli uomini. Mentre fu visibile in terra comunicò della propria autorità e virtù a' suoi Apostoli, acciocchè potessero consecrare ed amministrare gli altri Sacramenti (6). Egli prescrisse loro l' uso di alcune parole, in virtù delle quali in suo nome e come suoi istrumenti amministrassero i Sacramenti. Determinò loro altresì l' uso di alcune materie cioè dell' acqua e dell' olio, di alcuni riti come dell' imposizione delle mani, alle quali cose debitamente adoperate aggiunse la virtù santificatrice uscente dal suo corpo (1). La sua umana presenza consacrò parimente il matrimonio in Sacramento. Perciò egregiamente S. Tommaso scrive che [...OMISSIS...] . Si chiederà, in qual maniera l' umanità di Cristo possa comunicare della virtù alla materia de' Sacramenti? Di quell' acqua o di quell' olio ch' egli toccò nel Giordano o in altra occasione mentre era su questa terra, può in qualche modo concepirsi, ma della materia che si usa nella Chiesa dopo la sua salita al cielo come si può dire altrettanto? Rispondo direttamente alla questione, che in più modi, a noi del tutto incogniti, l' umanità sacratissima di Cristo può comunicare di sua virtù all' acqua del battesimo, e all' olio della Cresima e dell' Estrema unzione; e fra questi modi non è punto assurdo, anzi egli è cosa probabile e pia, il concepire che l' umanità santissima in un modo invisibile ed ineffabile si metta al contatto con quelle materie al pronunciarsi delle parole mistiche da chi amministra il Sacramento. E qual maraviglia di ciò, se nella consecrazione del pane e del vino, avviene invisibilmente non solo il contatto dell' umanità di Cristo con quelle sostanze, ma ben anco quel fatto degno d' ogni stupore che l' umanità dell' Uomo7Dio assuma la sostanza del pane e del vino in sè e la tramuti in sè stesso? Se in questo che è il massimo de' Sacramenti l' umanità di Cristo unisce a sè sì fattamente quel cibo e quella bevanda fino a transustanziarla, quanto più è facile a credersi che l' umanità medesima di Cristo possa venire, in proferendosi delle parole, a un invisibil contatto con quelle altre sostanze, il che sarebbe pur tanto meno di quel che crediamo fermissimamente avvenire nel Sacramento eucaristico! (3). E non viene rinforzata questa opinione dall' insegnarsi comunemente nella cristiana teologia, che la facoltà del benedire e consecrare il pane eucaristico contiene in sè anche quella di amministrare i tre Sacramenti sopra toccati, e in universale la facoltà di benedire tutte le cose? Egli è poi manifesto che ne' Sacramenti dell' ordine, della penitenza e del matrimonio la virtù santificatrice della divina umanità si dee comunicare in altro modo. In questi Sacramenti non è la carne ma l' anima dell' Uomo7Dio che immediatamente opera: conciossiachè si effettuano que' Sacramenti mediante atti di potestà giudiziaria o sacerdotale, o finalmente mediante un atto di amore; e gli atti di potestà e di amore vengono dall' anima a dirittura. Egli è Cristo giudice che opera nel Sacramento della penitenza, Cristo sacerdote in quello dell' ordine, Cristo sposo nel matrimonio. Ma ci tornerà ancora il bisogno di ritoccare quanto qui vogliamo solo avere accennato. Veramente i Sacramenti della nuova legge non sono già puri elementi sensibili e materiali, ma ciò che è sensibile in essi non è che l' esterno e questo esterno in un senso assai vero potrebbesi chiamare tutto insieme la materia del Sacramento (1). Ad esso va congiunto una parte invisibile che è lo Spirito Santo, il quale veramente è la forma di tutto il Sacramento. Queste due parti l' una esterna e l' altra interna son espresse in quelle parole che Cristo disse del Battesimo: « Se alcuno non sarà rinato dall' ACQUA, e dallo SPIRITO SANTO non può entrare nel regno di Dio« (2). » Nè si contentò Cristo d' indicare con tutta distinzione queste due parti, di cui è formato il Sacramento; ma volle anche fare intendere che la parte principale ed attiva, il che è quanto dire la parte formale, in esso è propriamente lo Spirito invisibile, al che fare soggiunge: « ciò che è nato di carne è carne, e ciò che è nato di spirito è spirito« (1). » Non dice più ciò che è nato dall' acqua e dallo spirito; ma a dirittura ciò che è nato di spirito. E` dunque uopo di considerare la parte esterna e la parte interna del Sacramento, il sensibile e lo Spirito Santo, come due cose congiunte insieme in un modo ineffabile e formanti un solo Sacramento, appunto a quel modo, come innanzi dissi, dovea essere allo stato innocente del mondo congiunto Iddio colla natura e come una cosa con questa operare (2). A quella similitudine, per giovarmi di un pensiero di S. Tommaso (3), che nella favella umana opera congiuntamente qualche cosa di materiale, cioè la voce, e qualche cosa di spirituale, cioè un' intelligenza, che dirige e cagiona quella serie di suoni; sicchè la favella è una sola produzione di due cagioni, che opera congiuntamente; così anco il Sacramento risulta e dall' esterna operazione dell' uomo, e da quella interna del Santo Spirito che s' accompagna all' operazione esteriore. E questa non è, secondo la mente dell' Angelico, un solo accompagnamento (4). Ma Iddio con quel congiungersi che fa alla parte sensibile ed esteriore del Sacramento è come l' anima per così dire che avviva e avvalora essa parte materiale del Sacramento. Vero è che nella similitudine della lingua, ciò che fa intendere il significato delle parole non è solamente l' esser esse disposte e regolate dall' intelligenza che le pronunzia, ma bensì l' esser ricevute da una intelligenza che ha in sè stessa il lume della verità e la facoltà di ragionare cioè di applicare quel lume alle sensazioni (5). Sicchè nel mirabil fatto della intelligenza delle lingue, tutto il formale dell' intendere procede dal lume interno di chi intende, e le parole non sono che suoni materiali che diventano segni appunto in virtù di quel lume. Il perchè ritenendoci a questa similitudine di S. Tommaso e volendo usare il parlare teologico, la parte esterna del Sacramento non sarebbe più che una causa istrumentale e fisica, ma di quelle che operano indirettamente alla consecuzione dell' effetto (6). E questo conviene con ciò che abbiamo più sopra esposto circa il modo di operare de' Sacramenti (1). Ma se noi non usiamo la parola Sacramento a solo significare la parte esteriore di lui, ma tutto insieme essa e lo spirito che è come l' anima sua; senza alcuna esitazione noi affermeremo allora, che il Sacramento è non solo causa fisica, ma ben anco causa fisica7diretta (2). E con queste distinzioni crediamo agevole il comporre insieme i diversi pareri de' teologi cattolici, e i vari luoghi delle Scritture e de' Padri che sembrano fra loro contrari e ripugnanti. E tuttavia aggiungerò una parola su quel mirabile modo di agire della materia de' Sacramenti santificata dalla forma. Io non parlo che del pane e del vino consecrato, dell' acqua del battesimo e dell' olio della cresima e della estrema unzione. E di queste corporali sostanze o qualità domando io: in che modo esercitano esse sull' uomo quell' azione, che le rendono, come detto abbiamo, cagioni istrumentali indirette della grazia? (1) operano esse per la via delle sensazioni? Rispondo che non per la sola via delle sensazioni, ma sì bene per un principio anteriore a quello della sensazione, voglio dire pel principio della vita. Noi abbiamo veduto che la vita è qualche cosa che precede il sentire, il quale è una funzione della vita (2): abbiamo veduto ancora come il principio vitale presiede sì fattamente a tutta l' animalità, che qualsivoglia modificazione nasca in esso, l' animalità tutta si risente e modifica secondo certe leggi, il che si appalesa ne' nuovi fenomeni che, secondo certe leggi, compaiono nelle diverse facoltà e funzioni ed atti dell' essere animato. Che se la modificazione che risente il principio vitale è buona, tutto nell' animale si ristora e si rallegra: se per opposto è mala, nascono in lui variatissimi sintomi morbosi. Ora io avviso che la virtù della materia santificata ne' Sacramenti operi ineffabilmente sul principio animale; e per questa via modifichi salutarmente l' animalità, in quelle sue parti più sottili e delicate, che inservono agli istinti migliori; e indi avvenga che l' uomo cominci in questa parte ad essere acconciato e disposto all' ultima e tutta spirituale azione che contemporaneamente e congiuntamente viene operata dalla grazia. Per tal modo è bensì necessario il contatto alla valida collazione de' Sacramenti indicati, ma non è punto uopo che questo contatto generi un' avvertita sensazione. Questa maniera di operare si renderà ancora meno difficile a spiegarsi in qualche modo, quando si pensi che la comunicazione di Dio coll' uomo non avviene già mediante qualche modificazione che sostenga la natura divina, ma sì mediante una modificazione della natura umana. Perocchè Iddio è immutabile; è presente in ogni luogo, in ogni cosa. Acciocchè dunque l' uomo il percepisca, non si richiede se non che l' uomo riceva la facoltà di percepirlo; come a vedersi una luce diffusa ovunque non si addimanda se non una virtù visiva: conciassiochè ai ciechi quella luce splendente in ogni luogo parrebbe che non fosse. Si tratta dunque nella rigenerazione soprannaturale dell' uomo di dare a questo un principio di vita nuova contenente virtù di vedere Iddio presentissimo a tutte cose (1). Ora egli è meno difficile a intendere come all' uomo possa essere aggiunto questo nuovo principio vitale senza alcuna mutazione da parte di Dio, che non sia l' intendere come Dio stesso potesse essere comunicato pel veicolo dei sensi. Questa virtù o vita nuova, onde l' uomo si fa potente di vedere Iddio, verrebbe in tal modo a sussister nell' uomo in una maniera molto analoga a quella onde comincia in esso l' intelligenza. Questa, che è la facoltà di veder l' essere iniziale, viene prodotta nell' uomo all' atto della generazione in quella maniera che abbiamo altrove descritta. Ora a quella foggia che organizzandosi l' animalità dell' uomo mediante la generazione carnale vien dato a questo contemporaneo il lume dell' intelligenza, perchè la carne viva ch' egli riceve è porzione e propaggine della carne del primo uomo, a cui il lume d' intelligenza è stato affisso, così essendo stato affisso all' umanità di Gesù Cristo il lume divino o anzi Dio stesso, non è meraviglia che [a] quel contatto delle carni divine colle carni degli altri uomini questo divino lume pure si comunichi, cioè ricevano gli uomini la virtù soprannaturale di vedere Iddio, quasi, voleva dire, come un corpo riscaldato ne scalda un altro al suo contatto, o quasi come un ferro magnetizzato ne magnetizza un altro che a lui si strofina, o più veramente a quel modo che le particelle inanimate del cibo intromesse per le vie dello stomaco nei meati sottilissimi del corpo umano, ricevono per quella elaborazione e vicinanza di parti vive anch' esse la vita. La ragione poi per la quale questo discorso non si può applicare a' tre Sacramenti della penitenza, dell' ordine e del matrimonio è la seguente: Il fine essenziale al Sacramento della Penitenza è l' assoluzione da' peccati, e il sacerdote amministrandolo fa un atto di giudice. Ora un tal atto non si fa coll' applicare all' uomo alcuna medicina, ma col pronunciare la sentenza: il perchè non è bisogno d' altro in questo Sacramento che delle disposizioni del penitente, e del proferimento dell' assoluzione. Il fine essenziale al Sacramento dell' Ordine è di conferire una potestà sul corpo reale e mistico di Cristo, non di guarire o migliorare direttamente l' uomo che lo riceve. Ora la potestà viene conferita semplicemente dalla volontà di chi la possiede e ne può disporre, e può conferirla in quel modo che a lui ne pare. Ella passa dunque dal Vescovo negli ordinandi come passò da Cristo ne' Vescovi, senza bisogno che venga applicata al corpo umano alcuna sostanza medicinale per così esprimermi, se non come segno stabilito a manifestare la volontà di Cristo; dalla qual sola quella potestà si trasferisce. Finalmente il Sacramento del Matrimonio ha per fine di santificare l' amore che unisce gli uomini, e ciò si ottiene per l' imitazione dell' amore ch' ebbe Cristo verso gli uomini. Ora l' unione dell' uomo e della donna è attissima a rappresentare appunto l' indissolubile unione di Cristo colla sua Chiesa. Ora Cristo comunica appunto dell' amor suo agli sposi battezzati, che osservano nelle loro nozze quanto stabilisce la Chiesa a fine di riconoscerle per Sacramento. Conciossiachè se la Chiesa vede in quelle nozze l' imagine dell' unione sua con Cristo, anche Cristo ivi parimente la ravvisa e se ne piace, e così comunica loro della grazia del suo amore. Riepilogando tutto ciò che abbiamo detto, la perfezione della grazia non si potea comunicare agli uomini che colla comunicazione del Verbo pel quale solo potevano conoscere il Padre, e dal quale ricevere lo Spirito Santo, e quindi edificarsi nelle loro anime la rivelazione e la grazia triniforme. Ma il Verbo si dovea comunicare mediante l' umanità da lui assunta. Questa umanità assunta dal Verbo, cioè l' umanità di Cristo era piena di grazia e aveva potenza di trasfonderla negli altri, non pure perchè inabitata e retta da Dio, ma perchè coi patimenti soddisfaceva alla giustizia e pagava il debito della redenzione, e a Dio rendeva un ossequio infinito, e da lui di poter tutto in vantaggio degli uomini si meritava (1). Era ella adunque strumento acconcissimo a comunicare agli uomini la cognizione del Verbo da cui era informata, e la pienezza della grazia. Ma ciò potea fare non solo immediatamente per sè stessa quella umanità, ma comunicando altresì la stessa virtù ad ogni altra cosa sensibile (2). Ora queste comunicazioni di virtù e di santità che si riversa per così dire e travasa dal Verbo nell' umanità assunta da questa, nelle cose sensibili, materia de' Sacramenti, al proferirsi delle parole, e dalle cose nelle persone che ricevono i Sacramenti, sono altrettante azioni reali che non potevano aver luogo in modo alcuno prima della reale incarnazione di Gesù Cristo. Però degli antichi Sacramenti non si potea dire ciò, che tanto acconciamente si dice de' nuovi, cioè che per essi l' uomo S' INCORPORA a Cristo (1): la qual maniera prende luce di evidentissima verità dalla dottrina da noi esposta sul modo onde l' umanità di Cristo opera ne' Sacramenti. E perciò quelli che si chiamano Sacramenti dell' antico Testamento non potevano in alcun modo avere la virtù di quelli del nuovo, e convenevolmente sono detti da S. Paolo « elementi infermi e poveri« (2). » I Sacramenti di Cristo adunque operano nell' uomo con un' azione reale e necessaria. Conviene rammentarsi de' due principii che abbiamo stabiliti nel sistema della perfezione umana, l' uno il principio della morale naturale, e l' altro il principio della religione soprannaturale (1), quello consiste in un' idea dietro la quale opera la volontà, questo consiste in una percezione che muove istintivamente l' uomo anteriormente ad una deliberazione volontaria. La grazia de' Sacramenti è un principio antecedente alla volontà, opera nella essenza dell' anima prima che nelle potenze (2) ed è perciò che la sua azione è da parte di sè necessaria (3). Egli è per questo che S. Paolo avvisa l' uomo di non gloriarsi del suo operare, perocchè con solo questo egli non ha la salute, ma egli l' ha per l' operazione che fa in lui Cristo; il che è quanto dire che non è il principio morale che lo salva, ma il principio religioso . La potenza e la necessità con cui opera questo principio è tale, che l' atto e l' effetto suo viene paragonato alla creazione, e l' uomo che riceve una tanta azione è una nuova creatura, nel qual senso disse l' Apostolo: « Niente vale la circoncisione nè il prepuzio, ma la nuova creatura« (4), » la qual nuova creatura non si fa per alcuna morale naturale, ma per la mistica e ineffabile operazione de' Sacramenti di Cristo nell' anima di quelli che li ricevono. E nella lettera a' Romani, è l' Apostolo quasi solo inteso a dimostrare pur questo, che la morale dell' uomo è un principio insufficiente alla salute dell' uomo, che la volontà è così debole che è incapace di mantenere la legge; ma che all' uomo fa bisogno l' altro principio religioso, che opera in lui, prevenendo la sua volontà, per la potenza di Cristo, e così il fa rinascere, e l' avvalora a mantener poi anche la legge morale, sicchè tutto ciò che l' uomo può avere di salute in sè il trae dall' abbandonarsi a Cristo, o dalla fede in lui, nella sua potenza e virtù salutifera « per le opere della legge nessuna carne si giustificherà in faccia sua« (5) » perchè tutti hanno peccato e sono impotenti a mantenere la giustizia, avendo l' ingiustizia aderente a sè stessi per natura: [...OMISSIS...] . Che resta dunque a salvamento? Non la umana, ma la giustizia di Dio, cioè quella che infonde Iddio pe' Sacramenti e che ha per base la fede: [...OMISSIS...] . E sono i Sacramenti quelli che infondono la fede, di cui tante cose dice S. Paolo, massime il Battesimo, il quale è ordinato appunto a rigenerar l' uomo colla infusione dell' abito della fede (3). Or dunque, se questo è l' operare de' Sacramenti della nuova legge, se la loro è un' azione reale, se il poter fare quest' azione reale viene loro comunicato dalla reale umanità di Cristo, che restava adunque di virtù a que' riti che si chiamano Sacramenti dell' antica legge, quando Cristo non era ancora realmente venuto al mondo e non aveva patito, e perciò non potea da lui derivarsi una tanta virtù? Nessuna azione reale poteva ad essi derivarsi, come più sopra abbiam detto. Nulla di meno anche allora non mancava il mezzo della salute, ed essi stessi que' riti a ciò non poco giovavano. Se Cristo allora non era nell' ordine delle cose , poteva però essere nell' ordine delle idee ; e come dopo Cristo gli uomini sono salvati dalla sua reale azione, così avanti Cristo erano salvati, se mi è lecito così esprimermi, dalla sua azione ideale . Che cosa è l' idea di una cosa? egli è il principio della cosa (4). Cristo dunque coll' essere nelle menti degli antichi cominciava per essi ad esistere e ad operare. Il principio adunque da cui dedurre la differente virtù degli antichi e de' nuovi Sacramenti è la distinzione fra l' ordine ideale e l' ordine reale (5): gli antichi Sacramenti appartenevano al primo di questi due ordini, e i nuovi appartengono al secondo. Perciò egli basta considerare la natura del primo di questi due ordini e paragonarla colla natura del secondo a dover poter conoscere qual fosse l' indole e la virtù de' Sacramenti antichi messi a paragone de' nuovi. Come l' ordine ideale non è che un primo elemento dell' ordine reale; così gli antichi non potevano essere che primi elementi de' nuovi Sacramenti; ed è perciò che con questo nome di elementi li chiama S. Paolo (1). Per la ragione contraria, come l' ordine reale è il compimento e la perfezione dell' ordine ideale, così i nuovi Sacramenti sono il compimento e la perfezione degli antichi. E però disse S. Paolo che « la legge non avea condotto nulla a perfezione« (2). » L' idea ancora è il tipo esemplare della cosa, e perciò gli antichi Sacramenti stavano a' nuovi come la rappresentazione sta al rappresentato. Ed è questo che S. Paolo dice chiamandoli ombra delle cose future, della qual ombra il corpo è Cristo (3). L' idea non ha alcuna azione reale sull' uomo, e la grazia consiste in una azione reale (4). Gli antichi Sacramenti adunque non potevano contenere la grazia, e però S. Giovanni dice: « la legge è stata data per Mosè, ma la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (5). » Nelle quali parole è da osservare la proprietà di quello« è stata fatta« e non data, come la legge, indicando così l' energia e l' efficienza della grazia, a differenza della legge che si comunica in parole senza cangiar nulla nell' uomo. L' idee e la cognizione rappresentativa delle cose può aver congiunta la promessa e la predizione di esse, e quest' ufficio prestavano appunto gli antichi Sacramenti. Per ciò distinguendo gli antichi Sacramenti da quelli del nuovo S. Agostino dice: [...OMISSIS...] . A cui consuona quanto il Sommo Pontefice Eugenio IV scriveva agli Armeni: [...OMISSIS...] . Un altro ufficio, ed il più nobile, a cui furono destinati i Sacramenti dell' antica legge era di eccitare la fede nelle promesse del venturo Messia, e la certa speranza del Redentore. Al quale ufficio è acconcissimo l' ordine ideale, che rappresenta la cosa futura all' intelletto, massime s' egli sia aiutato e sorretto da imagini le quali colorano e incarnano, per così dire, le idee traducendo sotto i sensi le cose ideate. E questo appunto facevano i Sacramenti antichi, i quali nel mentre che pubblicavano continuamente le promesse rivelate dal Redentore, le fermavano e le scolpivano nelle menti. Indi nasceva o certo si manteneva, e s' avvigoriva la fede nel Cristo futuro, la brama della sua venuta, e la grande aspettazione di lui; e questo era atto della volontà meritorio; perocchè per questa fede l' uomo si riconosceva misero e bisognoso di chi il giustificasse, e si fidava di Dio e di Cristo, che avrebbe egli operata quella giustificazione, che l' uomo non potea dare a sè stesso. E l' uomo che a Dio così s' abbandonava non poteva non essere da lui sostenuto e soccorso. Ora Cristo in tal modo nelle menti degli antichi esistente in idea operava, la quale operazione è una cotale emissione del suo spirito, di cui dice S. Pietro [...OMISSIS...] . E S. Giovanni osa ancor più, e dice che « l' agnello è stato ucciso fino dall' origine del mondo« (2) » per indicare che è stata rivelata la sua morte, conosciuta, creduta, e così resa operativa a salute degli uomini. S. Paolo poi si stende nella lettera agli Ebrei (3) a lungo a mostrare come tutti gli antichi Padri ebbero ogni loro salute e virtù dalla fede, e dice che di questa fede era « autore« » Gesù, quegli stesso che ne fu anche il « consumatore« (4) »: autore della fede antica, consumatore della nuova: non che Gesù, come figliuolo dell' uomo, esistesse realmente nell' antico tempo, ma egli esistea nelle menti e nella fede, e così operava, e dirigeva le loro operazioni (5). Finalmente i Sacramenti antichi non pure giovavano a mantenere o fomentare la fede di generazione in generazione; ma in quelli che li ricevevano erano« segni protestativi« della fede già ne' loro animi concepita. Perciò dice S. Tommaso che « i Sacramenti della vecchia legge erano certe protestazioni di quella fede, in quanto significavano la passione di Cristo e i suoi effetti« (1). » Tanto più che que' Sacramenti sotto la legge di Mosè vennero da Dio comandati, sicchè inchiudevano ad un tempo un atto di fede e un atto di ubbidienza: con che divenivano condizioni a dover piacere a Dio, al quale non può piacere il disubbidiente. La salute avanti Cristo non veniva che dalla fede in Cristo. Perciò egregiamente dice l' Angelico: [...OMISSIS...] . Or se la fede nell' antico tempo era il principio della giustificazione vedesi come questa giustificazione potea seguire talora senza i Sacramenti, come presso le nazioni, talora co' Sacramenti, come presso gli Ebrei, essendo questi Sacramenti da loro richiesti da Dio per segni della loro fede (3). Di qui si vede ragione perchè in Abramo la giustificazione precedette la circoncisione; fu perchè alla circoncisione precedette la fede. V' ebbe nel santo Patriarca prima la fede, poi la giustificazione, finalmente la circoncisione suggello di quella giustificazione che aveva ottenuta per la fede. Perciò il Genesi attribuisce alla fede la giustificazione di Abramo, dicendo « Abramo credette a Dio, e gli fu riputato a giustizia« (1). » Commentando il qual passo l' Apostolo soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma questa fede che giustificava dovea essere effettiva ed operativa; chè non sarebbe stata vera fede alla parola di Dio quella che fosse disubbidiente. Perciò, dopo istituiti i Sacramenti come atti protestativi della fede, si doveano questi praticare per ubbidire a Dio che gli avea comandati e non vi potea essere vero fedele che li trascurasse. I Sacramenti adunque mettevano il suggello alla fede, e la completavano, la rendevano meritoria col renderla ubbidiente e perciò effettiva (3). Indi è che S. Giacopo attribuisce la giustificazione di Abramo alla ubbidienza, cioè alla fede ubbidiente, dicendo: [...OMISSIS...] : le quali parole fanno la dichiarazione di quelle sovra recate di S. Paolo, anzi che loro contraddire. Per tal modo i Sacramenti antichi giustificavano l' uomo non in virtù loro propria, come quelli del nuovo patto, ma della fede di quelli che li ricevevano in quanto erano atti consumativi di questa fede (5). Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui si può raccogliere quale è la legge, secondo la quale crescer dovea la perfezione umana soprannaturale, e in che stato si trovava questa perfezione innanzi alla venuta di Cristo, in che dopo questa venuta. Ritorniamo un po' sui nostri passi, giacchè un argomento sì rilevante richiede che sia illuminato con ogni più diligente dichiarazione. Abbiamo già toccato altre volte questo vero, che« la dottrina della perfettibilità umana« come la presentano i filosofi, è in contraddizione alla dottrina cattolica. I filosofi e propriamente parlando i sofisti vogliono che« l' uman genere considerato nelle sole sue forze naturali abbia una tendenza e un movimento reale verso una sempre crescente perfezione«. La dottrina del cristianesimo all' incontro intorno alla perfettibilità della specie umana consiste ne' capi seguenti: 1. L' uomo fu creato da Dio innocente. In questo primitivo stato all' umanità presiedeva la felicissima legge della perfettibilità e l' uomo avea tanto la tendenza quanto il reale movimento incessante verso una maggior perfezione. 2. L' uomo si corruppe mediante la colpa. In questo stato di scadimento l' uomo non perdette una cotale tendenza alla perfezione, poichè questa è a lui naturale, giacchè la sua natura è come un germe destinato a svilupparsi; ma perdette il reale movimento verso la perfezione, perchè a cagione del peccato sono entrate in lui delle altre tendenze verso il male più forti di quelle verso il bene, che però isterilirono e al tutto oppressero la tendenza alla perfezione. Di più. Inserito nell' uomo un germe di corruzione più forte del germe nativo di perfezionamento, quello dovette crescere e vegetare più rigoglioso e soffocar questo, e per ciò nel genere umano corrotto, ove si considera abbandonato alle sue sole forze, secondo lo spirito della cristiana dottrina« vi ha una sterile tendenza al bene e un reale continuo movimento verso il male«, ciò che è quanto dire, che non è la legge di perfettibilità che domini, ma la legge di degradamento . S. Tommaso, questo autorevolissimo compendiatore dell' ecclesiastica tradizione, insegna in più luoghi avervi una degradazione continua dell' umana specie abbandonata a sè stessa, a cui riparare dovette Iddio, venir crescendo successivamente i lumi della sua rivelazione. Ecco uno di questi luoghi assai chiari del santo Dottore: [...OMISSIS...] . 3 L' uomo che aggravato dal peso della propria corruzione precipitava nel male fu soccorso da Dio, colla rivelazione e colla grazia. Questo elemento divino è un nuovo principio, un nuovo germe che pur egli deve svilupparsi e crescere, ed è più vigoroso dello stesso germe del male. Esso per ciò dà origine ad una« nuova legge di perfettibilità« a cui è avventuratamente soggetta non l' umanità abbandonata a sè stessa, ma solo l' umanità aiutata da Dio. Da tali verità S. Paolo deduce per corollario, che la salute e la perfezione umana è superiore alle sole forze naturali dell' uomo. Conciossiachè l' uomo avendo un principio prevalente di degradazione conosce il bene e non ha le forze di seguirlo. Per riferire compendiate le sue parole egli dice che [...OMISSIS...] . Di che avveniva che eran perduti, per giudizio lor proprio, perocchè il conoscere il vero era la condannazione del male che operavano (2). Nè più valse a salute degli uomini la legge mosaica. Poichè anche questa non faceva che dar la notizia delle cose a farsi, non la virtù di farle. Ed ora « non sono giusti appresso Dio gli uditori della legge, ma sono giustificati solo quelli che la eseguiscono« (3). » In quanto alla cognizione della presente legge, dice S. Paolo, « i Gentili avevano il lume naturale, e però erano legge a sè stessi« (4) » e mostravano talora di conoscere il bene anche ponendo alcune opere buone, o disputandone (5). Ma come non valse loro il conoscere il bene, se non a condanna maggiore, così non valse a' Giudei l' aver la legge se non ad aumento di condannazione non praticandola (6). Nè nella natura adunque, nè nella legge esterna, la quale nel suo stato di legge esterna nulla conteneva di soprannaturale, poteva l' uomo trovare virtù e forza che riparasse alla corruzione originale: egli era infermo, egli era impotente sì a seguire la ragione che ad osservare la legge, ed era fatta la sentenza « tutti quelli che senza legge peccarono, senza legge periranno, e tutti quelli che peccarono nella legge, secondo la legge saranno giudicati« (1). » Iddio adunque diceva all' uomo, che « renderà a ciascuno secondo le sue opere« (2). » Ma l' uomo per questa via di giustizia non poteva salvarsi perchè le sue opere non potevano esser buone. Il principio morale (il volontario) era guasto nell' uomo, e quinci non era da sperare salute: tutti secondo un tal principio erano rei: rei li dichiararono le divine Scritture senza eccezione da Giudei a Gentili (3). Ci voleva adunque un altro principio, argomenta S. Paolo, da cui venisse la salute umana. E questo principio qual poteva essere se non era il morale? Risponde l' Apostolo: questo principio è « la virtù di Dio che dà salute ad ognuno che crede; al Giudeo prima ed al Greco« (4). » Non la giustizia può salvar l' uomo, ma la gratuita misericordia di Dio, che salva i suoi stessi nemici. E però dice, che la « giustizia di Dio (cioè la sua santa misericordia) si è manifestata senza la legge - che questa giustizia di Dio (e non dell' uomo) si è manifestata per la fede di Gesù Cristo (la qual sola può salvare) poichè tutti peccarono e però tutti abbisognan della gloria di Dio« » che risplende in una misericordia così preveniente. E conchiude che dunque siamo « giustificati gratis per la grazia di lui per la redenzione che è in Cristo Gesù - che però l' uomo non si può gloriare menomamente« (5). » Egli reca l' esempio di Abramo, la cui giustificazione provenne anch' essa da una gratuita misericordia in conseguenza della sua fede, non per una giustizia dovuta alle sue opere. [...OMISSIS...] . Da questa frase S. Paolo argomenta che per la fede fu giustificato Abramo non perchè ciò meritasse secondo una stretta giustizia, ma per un dono della grazia di Dio. Perchè la Scrittura dice: « gli fu riputato il suo credere a giustizia«. » Quel « gli fu riputato« » viene a dire che non gli era dovuta strettamente da Dio una tale giustificazione: [...OMISSIS...] . E questa è quella beatitudine che Davidde commenda in coloro a cui furono rimesse le colpe (2): erano colpevoli, ma sono tuttavia beati perchè Iddio ha loro perdonato, e gli ha resi salvi senza loro merito di propria virtù. Se la giustificazione di Abramo fosse stata dovuta per giustizia, la Scrittura l' ascriverebbe alle sue buone opere; ma nulla di ciò; l' ascrive tutta alla sua fede, senza le opere. Ella dunque fu e non poteva essere che gratuita (3). Ma per un' altra ragione, secondo l' Apostolo, era necessario il principio extra7morale, oltre per quella della impotenza dell' uomo ad operare il bene. Quando anco le forze morali dell' uomo fossero intere, egli non avrebbe potuto eseguire una perfetta giustizia, che al tutto il salvasse. Rimaneva certo intatto il principio della giustizia; perocchè Iddio è giusto [...OMISSIS...] . Ma che? qual è il codice, secondo il quale si dee giudicare e distinguere quelli che operano il bene? quelli che operano il male? forse la legge naturale? forse la sola legge mosaica? No, dice S. Paolo; ma l' Evangelio: [...OMISSIS...] . Alla somma giustizia e perfezione di Dio partiene di giudicare secondo una legge perfetta; ma la legge naturale non è che incipiente, la legge mosaica non è che legale. La legge perfetta è una legge interiore e soprannaturale a cui non giungono le forze della volontà naturale, se non sorrette dalla grazia. Egli è dunque questo principio extra7volontario in ogni caso necessario alla salute dell' uomo. Forse, dice S. Paolo, che Iddio non renda giustizia ai Gentili se fanno il bene? se mostrano l' opera della legge scritta nei loro cuori? (1). No; ma questo preteso bene che fanno dee subire la prova del giudizio divino, che sarà fatto secondo la legge perfetta. Forse che Iddio non rende giustizia agli Ebrei che operano le loro cerimonie? No; ma la circoncisione anzi giova, purchè « vi sia la condizione aggiunta che osservi la legge« (2). » E che questa legge sia non la lettera, ma veramente « le giustizie della legge« (3)« la consumazione o perfezione della legge« (4),« la legge spirituale«, » che è il carattere della legge evangelica. Perocchè non è vero Giudeo quegli che è tale al di fuori, nè vera circoncisione quella« che è al di fuori nella carne; [...OMISSIS...] . Tutte le opere dell' uomo non arrivano a tanto, se Iddio stesso non solleva l' uomo a quest' ordine di perfezione. Perciò quando anco « Abramo fosse giustificato in virtù delle opere sue, che potrebbe esser ciò? avrebbe gloria, ma non presso Dio« (6). » Avrebbe potuto soddisfare gli uomini, che giudicano con una norma imperfetta, quale è il lume della ragion naturale; ma non avrebbe mai soddisfatto Dio, il qual giudica con una norma perfetta, col lume del suo Verbo, nel Vangelo fatto a noi manifesto. Ogni operazione umana adunque qualunque ella possa essere, rimansi imperfetta, e incapace di giustificare pienamente l' uomo nel divino cospetto; e non havvi altro fonte perciò di salvamento se non l' operazione di Dio stesso; sì fattamente che il solo Dio sia in ultimo glorificato. Ora se questo è l' ordine dell' umano salvamento e perfezionamento; se questo non si può ottenere se non per quella via che umilii l' uomo, e Dio solo esalti; qual sarà quella strada legittima che a tanto lieto fine ci scorga? forse quella de' fatti nostri? non già, ma quella della fede nella sua misericordia: [...OMISSIS...] . A questa dunque dee l' uomo ripararsi come a solo asilo di suo salvamento. Ma forse che facendo dipendere la salute umana da un principio estraneo all' umana volontà (1), si viene con ciò ad escludere l' uso di quella potenza e però l' esercizio delle buone opere? Non già, dice l' Apostolo, perchè il principio extra7morale, che è la virtù di Dio ed aiuta l' uomo credente, opera anzi sulla volontà e la fortifica, la rende capace di adempire la legge, che prima non era. [...OMISSIS...] . Ella è questa efficacia operativa della fede che S. Paolo chiama ora « giustizia della fede (4) » ora «« obbedienza della fede« (5). » Ed egli pare che l' ordine della giustificazione e santificazione dell' uomo secondo S. Paolo fosse il seguente: Cominciò l' uomo negli antichi tempi dopo il peccato a prestare a Dio una fede che almeno in quanto alla sua materia era naturale, cioè aveva per oggetti cose di questo mondo, e non invisibili e soprannaturali. Ora questa fede è al tutto sproporzionata al prezzo della santità giacchè quella è di cosa naturale, questa è soprannaturale. Iddio non di meno concedette all' uomo la giustificazione in vista di quella sua fede; ma non gliela potea concedere per giustizia, sì bene per pura grazia senza verun merito precedente (1). E veramente la fede di Abramo a bel principio fu di cosa naturale, cioè egli credette alla paternità promessagli contro tutte le apparenze umane quando il suo corpo era spento per poco e mezzo morta la vulva di Sara« per estrema vecchiezza«: e tenne tuttavia per fermissimo che quello che Iddio prometteva egli poteva ancora mantenere. Non ebbe adunque per oggetto di sua fede la divina santità, ma la divina potenza: [...OMISSIS...] e questa in cosa della presente vita « quale è un' amplissima discendenza, e perciò, dice l' Apostolo, gli fu riputato a giustizia« (3) » non secondo il debito ma secondo la grazia. Così avvenne la giustificazione gratuita di Abramo e degli antichi Santi. Ma come una grazia ne trae seco un' altra, così dopo avere Iddio giustificato Abramo, strinse con lui un' alleanza, la quale era una ripruova della giustificazione ottenuta da Abramo. Conciossiachè Iddio non fa alleanza se non co' giusti, come dicono le Scritture. Inoltre gli dà la circoncisione per segnacolo non meno di questa alleanza (4), che della giustificazione donatagli (5). Per conseguente di ciò avvenne in quinto luogo che Iddio consegnasse alla famiglia del Patriarca le sue rivelazioni: dicendo S. Paolo [...OMISSIS...] . Ora questi eloquii divini costituivano una materia soprannaturale alla fede, e così questa fede diveniva soprannaturale per cagione della sua stessa materia; ed ella si disviluppava, e rendeva sempre più esplicita, più che veniva crescendo il lume della rivelazione, cioè più che si veniva rivelando e svolgendo la gran tela dell' economia della umana salute e deificazione. Conviene adunque nel progresso della perfezione religiosa dell' uomo distinguere due fedi, l' una che precede la giustificazione, l' altra che la sussegue; l' una che ha per sua materia oggetti di questa vita, l' altra che ha per sua materia« gli eloquii divini « cioè le rivelazioni intorno alla comunicazione spirituale della divinità coll' uomo. Colla giustificazione comincia propriamente la grazia, anzi la giustificazione stessa è la prima grazia abituale e stabile; e questa grazia vien crescendo di mano in mano col crescere delle rivelazioni, e fa crescer la fede alle medesime. Ma giova ancora un po' più addentro ricercare la natura di questa fede, donata agli uomini da Dio medesimo colla sua grazia, e vedere in quale stato ella trovar si dovesse ne' giusti dell' antico Testamento. Già abbiamo distinta la reale comunicazione che fa Iddio di sè stesso all' uomo, dagli effetti o doni ch' egli produce nell' uomo senza tuttavia comunicare sè medesimo (3). E veramente altra cosa è che un agente produca un effetto restando egli stesso nascosto, e altro è che l' agente stesso si mostri operante. Colui che, stando dietro ad una tela o ad un muro, in virtù di certe sue macchinette fa comparire su questa tela o su quella scena qualsivogliano diverse rappresentazioni di figure che variamente si muovono; questi produce e dà vedere al di fuori i suoi effetti, ma sè stesso ancora non appalesa. Vero è che da questi effetti si può conghietturare e in alcun modo conoscere il giocoliere nascosto, il qual pure non si percepisce. Così parimente è a dirsi delle operazioni divine negli animi degli uomini. In alcune di esse Iddio produce mirabili effetti, senza però comunicare realmente e pienamente sè medesimo, in alcune altre dà sè medesimo a percepire. Nelle prime operazioni si può però ascendere coll' argomento della mente ad una causa al tutto divina, apparendo l' effetto così eccellente o difficile a prodursi, che nessuna causa finita il potrebbe. Ora la reale e piena manifestazione e comunicazione che Dio fece di sè agli uomini fu solo nella incarnazione (1). Prima di Cristo adunque vi aveano bensì delle operazioni divine nelle anime degli uomini, degli effetti e doni di Dio, ma Dio stesso non era ancora sostanzialmente e pienamente comunicato all' umanità. Nulla di meno Iddio7incarnato veniva rivelato. E questa ideale comunicazione di Dio era quella, che veniva dalla grazia illustrata e vivificata. Ma questa era una comunicazione tenuissima e al tutto iniziale; senza il lume della grazia poi era impossibile cosa che fosse intesa perocchè Iddio non si può intendere per via di sole idee (2), ma per atto di percezione. Nulla di meno l' ideale concetto unito alla grazia, che è una virtù reale, diede agli uomini una idea7percezione; o sia una tenue iniziale percezione della divinità, sì che non abbiamo dubitato di chiamare anche quella grazia dell' Antico Testamento deiforme . Questa idea7percezione di Dio e di Dio7Uomo era la materia della fede soprannaturale dell' antico Testamento (3). Conviene considerare attentamente la diversa maniera onde Iddio operava nell' uomo in antico, e quella onde Iddio opera dopo la unione ipostatica di Dio coll' umana natura in Cristo. Nell' antico Testamento tutta l' operazione di Dio nell' uomo era mentale , ma nel nuovo non opera per la sola via della mente, ma sì bene anche per la via della natura sensibile, perchè essendosi il Verbo fatto carne, la sua sacratissima umanità è divenuta istrumento atto ad operare anche sulla corporea natura degli uomini e purificar questa e santificarla a quella guisa che abbiamo dichiarato poc' anzi, sottraendola massimamente dalla potestà de' demoni (4). Ora la natura umana è cotalmente ordinata che riceve per gli organi vitali e sensitivi la materia delle cognizioni. Non essendoci adunque prima della venuta di Cristo una operazione per la quale Iddio si facesse sentire all' anima dell' uomo per la via dell' animalità, conveniva che tutta quell' idea di Dio, che formava come abbiam detto la materia della fede nell' antico Testamento, fosse negativa, e che la percezione che vi aggiungeva la grazia, non in altro consistesse se non in una cotale energia divina data a quella idea sebbene di forma puramente negativa. Di che apparisce via meglio come si potesse chiamare deiforme quella percezione; cioè non punto per ciò che rappresentava (essendo al tutto negativa l' idea), ma per la forza o energia da cui era accompagnata, il che spiega medesimamente come ciò che si comunicava nella rappresentazione non tanto dir si potesse Iddio medesimo immediatamente, ma un suo effetto, un suo dono (1). Si distingua adunque nella materia della fede dell' antico Testamento la parte rappresentativa dall' energia annessa. Quella prima parte era veramente nulla, perchè le idee negative non hanno rappresentazione alcuna , e per questo appunto si chiamano negative. Esse però hanno un' indicazione della cosa non rappresentata, la quale indicazione serve a determinare la cosa, unica maniera di conoscerla. Iddio e Iddio7incarnato non era rappresentato propriamente nelle anime degli antichi, ma indicato ; e questa indicazione per la virtù della grazia annessavi bastava però a dominar l' uomo; cioè l' idea negativa del Creatore potea aver tanta forza da prevalere a tutte le altre idee e percezioni (2). All' incontro nel nuovo Testamento Iddio7incarnato si è comunicato realmente e pienamente all' umana natura, e si comunica continuamente; e quindi l' anima dell' uomo ne sente e percepisce la real forma e natura, e quindi ne ha un' interna positiva rappresentazione , o intuizione. Ora il non conoscersi una cosa per sè medesima e l' aversi di lei una semplice indicazione viene a dire che quella cosa la si conosce per mezzo di altre cose da noi percepite le quali significano, simboleggiano o indicano essa cosa per una qualsivoglia relazione a noi cognita che con essa si hanno. Il perchè se di Dio7incarnato nell' antico tempo non s' aveva che quella idea negativa di cui toccammo, egli è manifesto che questa idea non poteva reggere nella mente senza quelle altre cose che fossero appunto gl' indizii di Dio, e però non senza simboli, figure e segni di ogni maniera. All' incontro nel nuovo Testamento si ha una percezione dell' uomo7Dio, e però ella è un' idea che ha corpo, è un' idea positiva; la quale può reggersi da sè, senza bisogno di quegli indizii che facevano uopo nell' antico Testamento. Questi indizii , vestigi umani, o traccie indicative di Dio e delle cose divine non fanno bisogno nel nuovo Testamento, se non per quel tanto della divina notizia, che non s' acquista per grazia ma solo per gloria. Laonde nella condizione della gloria, quando Iddio si vede e contempla al tutto svelatamente, cessa ogni simbolo ed ogni figura. [...OMISSIS...] Tre stati adunque si distinguano relativamente al bisogno de' simboli instruttivi e d' indizii: 1 quello in cui si percepisce interamente la cosa reale, nel quale cessa ogni bisogno di segni, e parlando della divina cognizione è lo stato de' comprensori; 2 quello in cui si percepisce in parte la cosa reale e in parte non si percepisce, e in questo non v' è bisogno di segni per quella parte che si percepisce, ma per l' altra che ci rimane impercetta. Tale è lo stato del' uomo in grazia nel nuovo Testamento indicato da S. Paolo in quelle parole « in parte conosciamo, e in parte profetiamo« (2) » cioè conosciamo come i Profeti dell' antico Testamento per via di figure. E poichè quella parte che noi quaggiù ignoriamo risguarda la vita futura del cielo, perciò i simboli misteriosi non si trovano nel nuovo Testamento se non nel libro dell' Apocalisse, che tratta della intera rivelazione che farà di sè Gesù Cristo, o in quegli altri luoghi nei quali a questa compiuta rivelazione di Dio, e di Cristo glorioso si accenna; 3 finalmente quello in cui la cosa reale punto nè poco si percepisce, nel quale stato i segni o indizii sono indispensabili, e senz' essi non si potrebbe avere pensiero alcuno della cosa. E questo è lo stato degli uomini dell' antico tempo, che S. Pietro chiama « luogo caliginoso« » dove non il sole ma solo splendeva la lucerna de' Profeti (3). L' antico tempo adunque era quello de' simboli o indizii della divinità, il nuovo è tempo misto, parte di percezione e parte d' indizii ; il futuro è tempo solo di percezione . Questa è la ragione per la quale venendo Cristo cadde e fu tolto quell' ammasso di riti, cerimonie e legalità che trovasi nell' antica Chiesa [...OMISSIS...] L' uomo nell' antico Testamento necessariamente dovea dunque essere legato e per così dire oppresso da un gran numero di pratiche e di simboli esterni e materiali, perchè senza di queste non potea sostenersi, e lumeggiarsi nella sua mente il concetto di Dio. Quello era un giogo, come dicono le Scritture stesse, insopportabile (2) e tuttavia necessario. Bastò poi un solo lume accresciuto nella mente dell' uomo, perchè tutto quel fascio di osservanze si rendesse inutile (3), nè più necessaria quella servile condizione; bastò che Iddio si comunicasse realmente agli uomini, il che fece il Verbo incarnandosi: indi la libertà de' cristiani; e perchè il Verbo è la stessa verità sostanziale, perciò egli disse [...OMISSIS...] Ma nel nuovo Testamento i segni prendono un altro ufficio che aver non potevano nell' antico. In questo non facevano che istruire, che sorreggere la mente a Dio; ma nel nuovo Testamento essi diventano i veicoli dell' azione reale, che il Verbo esercita su di noi e colla quale si comunicano; perocchè, come detto è, partecipano dalla reale umanità di Cristo una reale virtù di comunicarci ineffabilmente Dio medesimo. Ora poichè la fede è delle cose che non si veggono, apparisce da ciò che è detto, che il regno della fede era propriamente l' antico Testamento. Questa è la ragione perchè quel personaggio che rappresenta il Padre de' credenti (1) si trovi non nel nuovo, ma nell' antico Testamento, quando la cognizione della persona del Verbo era tutta negativa, e perciò tutta fede. Nel nuovo all' incontro regge la fede bensì, ma mista con una cotal luce « in parte veggiamo, e in parte profetiamo« (2) » come gli antichi. E tuttavia, sebbene la cognizione del Dio incarnato che venne data nell' antico Testamento fosse puramente negativa, ella però aveva un progresso ed uno sviluppamento. Questo progresso consisteva nell' aumento successivo delle indicazioni , colle quali Iddio determinava nella mente degli uomini le verità riguardanti il Dio Redentore. La prima rivelazione fu fatta subito dopo il peccato. Il demonio fu conosciuto come un essere malefico sotto l' indicazione di un serpente; Gesù Cristo sotto l' indicazione del seme della donna . La rivelazione è concepita in queste parole: Iddio dice al serpente: [...OMISSIS...] . Egli è manifesto, che con delle indicazioni al tutto naturali qui si determina degli oggetti soprannaturali. Però una tal maniera di parlare non potea mettere nelle menti degli uomini altro concetto che solo negativo di questi oggetti, quando le menti stesse non fossero interiormente illustrate colla comunicazione reale delle cose divine così indicate; il che fu fatto solo nel nuovo Testamento. Tali indicazioni di Dio Redentore crebbero di mano in mano: in Melchisedecco fu conosciuto come sacerdote, in Mosè come legislatore, in Giosuè come conquistatore, in Davidde come re; ma tutti questi personaggi erano uomini, puri uomini, ed esprimevano delle dignità appartenenti alla società umana; le quali non potevano per ciò realmente far conoscere Cristo, ma solo indicarlo ; con delle attribuzioni non uguali, o simili alle sue, ma in qualche modo analoghe. Così si sviluppava, crescendo le figure, la cognizione di Cristo; ma ella rimanevasi sempre però essenzialmente negativa. Ora in tutta l' antica legge si dee distinguere adunque: 1. le indicazioni e 2. la cosa indicata. Le prime erano materiali, esterne, naturali: ma la seconda cioè la cosa indicata, la quale era il fine di tutta la legge, era cosa spirituale, interiore principalmente, soprannaturale. Indi nasce la distinzione che fa S. Paolo fra la lettera e lo spirito della legge: la lettera conteneva le indicazioni ; ma la cosa indicata dovea cogliersi collo spirito , con un lume interno che la lettera nè conteneva in sè medesima, nè somministrava. La cosa spirituale , oggetto ultimo della legge, non essendo rappresentata ma solamente indicata , rimanevasi nell' ombra e nell' oscurità. Il percepirla era dunque impossibile nell' antico Testamento. Questa è la ragione per la quale gli Ebrei medesimi non intesero la legge nella sua profonda e spirituale verità, ma solo nella sua scorza, e per la quale dicono le Scritture ed i Padri, che l' intelligenza vera delle Scritture non si ebbe se non quando il Verbo prese carne umana [...OMISSIS...] . Cristo mostrò d' esser egli la luce che illuminava le antiche Scritture quando dopo la sua risurrezione « aprì il senso agli Apostoli a poter intendere le Scritture« (2). » S. Pietro non dubita di affermare, che gli antichi Profeti non a sè stessi, ma a' Cristiani porsero le divine rivelazioni, come a quelli che soli potevano a pieno intendere, dopo essere venuto di cielo lo Spirito Santo (3). S. Paolo attribuisce all' ignoranza dello spirito della legge l' aver gli Ebrei rifiutato il Vangelo « i quali, dice, ignorano la giustizia di Dio » (cioè la giustizia spirituale e soprannaturale che si fonda nella fede) «e la lor propria giustizia cercano di stabilire - e però alla giustizia di Dio » (che è tutto spirito) « non sono soggetti. Perocchè il fine della legge è Cristo a giustificazione di ogni credente« (4) » e però ignorando Cristo ignorano il fine e lo spirito della legge « hanno zelo ma non secondo la scienza« (5). » E perchè gli Ebrei del riputarli così ignoranti e non intelligenti della legge non si tenessero per oltraggiati, prova la loro ignoranza collo stesso Mosè. [...OMISSIS...] , cioè anteporrò i Gentili a Israello, a quelli darò più intelligenza che a questo. Ma di ciò è forse in colpa la legge, no, dice l' Apostolo, non dipendette dalla legge la materialità colla quale fu intesa; ella nel suo intimo fondo era spirituale; ma mancava il lume che scorgesse a cogliere quello scopo così alto della legge, perchè l' uomo non era ancora rinato per Cristo e resosi spirituale, ma era rozzo e materiale. [...OMISSIS...] Per questo conchiude che gli Ebrei, « andando dietro ad una legge di giustizia, non entrarono nella legge della giustizia« (3) » cioè nel Vangelo, ma rimasero al di fuori a differenza de' Gentili, i quali « non seguivano la giustizia (della legge), eppure appresero la giustizia (del Vangelo)« (4). » S. Paolo osa ancor più. Non solo la legge antica mancava della luce dello Spirito Santo (della percezione di Dio) e però lasciava l' uomo nella oscurità, non presentandogli che un corpo di precetti nudi di osservanze esterne, e di esterne temporali promesse; ma per questo suo difetto essa si rendeva anche occasione di peccati e di errori. Ella non poteva munire di esterna sanzione i peccati interiori dello spirito, come sono i mali pensieri, che Iddio solo vede e punisce. Ora questo Dio non era percepito vivamente nella sua santità, e come giudice spirituale, ma solo negativamente come un legislatore e re temporale. Sebbene adunque proibisse la legge i mali desiderii, tuttavia non valeva quella legge [a far] conoscere agli uomini la malizia e reità di questi e molto meno a far che li evitassero (5). Tanto la notizia di Dio influisce nella moralità! Gli uomini che non percepiscono vivamente quest' essere in sè stesso come invisibile e santo; non possono in alcun modo intendere a pieno l' iniquità de' peccati che si commettono col solo spirito (1). La legge mosaica adunque era incapace di dare agli uomini una tale nozione, come pure era incapace di somministrar loro nulla di perfetto nella morale; e quando ella precettava o di sfuggire le male intenzioni, o di amare i nemici, od altro tale precetto, che non si regge nell' uomo se non in virtù della percezione di Dio; ella non faceva che mettere un inciampo, una occasione di maggiormente peccare. Questo è quello che vuol dire l' Apostolo quando insegna che « non ha conosciuto il peccato se non per la legge. Perocchè io ignorava la concupiscenza se la legge non mi diceva: non volere malamente desiderare« (2); » la legge mi ha illuminato a conoscere la reità dello spirito, ma non dava forza di evitarla, e però « presane l' occasione, il peccato (cioè il fomite del peccato originale) per cagione del comandamento (che mi ha maliziato) ha operato in me ogni mal desiderio - esso toltane l' occasione dal precetto mi ha sedotto ed ucciso per mezzo della legge« (3). » Questo è il significato nel quale dice l' Apostolo che « la lettera (della legge) uccide, e lo spirito solo vivifica« (4). » In questo senso non dubita l' Apostolo di chiamare l' antica legge « legge di morte« (5) » e di esortare i Cristiani a seguirne il solo spirito colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . I Farisei si attenevano alla lettera della legge ed è noto per ciò come da Cristo sono chiamati « ciechi e condottieri di ciechi« (1); » è noto quanti errori avevano in morale (2) e quanto a ragione Cristo ebbe a dire al popolo a cui predicava: [...OMISSIS...] . E per mostrare che quella perfezione di virtù che Cristo predicava era conseguente al lume interiore, col quale potevano conoscere Iddio per la sua grazia, dopo aver Cristo enumerati i precetti più spirituali e più perfetti conchiude richiamandoli all' imitazione appunto di suo Padre « siate voi dunque perfetti, come anche il Padre vostro celeste è perfetto« (4). » Riassumendo, la legge antica, e intendiamo con questo nome il complesso delle antiche rivelazioni, risguardava la dottrina intorno a Dio e la morale. La dottrina intorno a Dio era un complesso d' indicazioni di Dio, e nulla più. Gli uomini non avevano a quel tempo il lume ch' ebbero poscia per Cristo, col quale percepivano Dio7incarnato positivamente. Questo Dio7incarnato, in una tenebra allora, fu rivelato solo nella pienezza de' tempi quando si eseguì veramente l' incarnazione. La dottrina morale rispondeva all' imperfezione in cui era la cognizione di Dio presso gli uomini. Non avendo ricevuto lo spirito di questi la percezione di Dio, esso spirito poco era veggente, dominava il senso esteriore e non poteva l' uomo in alcun modo elevarsi a quella morale che si vede in Dio, come in un esemplare da imitare, appunto perchè questo Dio non si vedeva. Restringevasi pertanto la legge nei confini delle esteriorità, e col gran numero di queste occupava gli uomini, a intendimento d' una parte di riscuotere degli ossequii morali almeno nelle cose più gravi e più sensibili, e d' altra di tenere ben segnato nello spirito il fine occulto, e a questo diretto lo spirito, come verso un essere nascosto dietro una parete. Non mancava insieme la legge di accennare anche le cose spirituali, ma queste non avevano efficacia, come le prime, sugli uomini così rozzi come erano quelli della natura. Queste perciò restavano inadempite; e le leggi materiali erano anch' esse tante, che non giungeva mai l' uomo a pienamente osservarle. Imperfetto adunque nell' osservanza delle materialità della legge; molto più imperfetto era lo stato dell' umanità nel mantenere lo spirito di essa legge appunto proposta oscuramente e ravvolta in enimmi; ma nel nuovo è data la stessa verità: però convenne che si aggiungessero le parole che chiarissero ogni oscuro; e che da esse venisse la forza della santificazione, per significare che ogni santità nel nuovo patto procede dalla rivelazione e fede nel Verbo manifesto. E se ancora si tiene in una colle parole l' enimma del rito, egli è perchè, come dice l' Angelico seguendo le vestigia dei Padri, [...OMISSIS...] . Mediante queste considerazioni s' intendono quelle parole di Cristo, il quale dice generalmente di tutti gli antichi maestri: « Tutti, quanti vennero, sono ladri e assassini, e le pecore non li hanno uditi« (1). » Perocchè essi non davano lo spirito, e per ciò non davano la facoltà di udirli; « l' udito è per la parola di Cristo« » come dice l' Apostolo (2). All' incontro Cristo aprì gli orecchi e gli occhi spirituali degli uomini, del qual fatto erano simboli i miracoli pe' quali risanava i sordi ed i ciechi. Egli mostrò Dio in sè stesso e così dice che egli solo è la porta che conduce a Dio. [...OMISSIS...] A questa dottrina risponde quella che S. Paolo espone nella lettera a' Romani. Egli attribuisce al Battesimo e alla grazia di Cristo la reale giustificazione, e prima di questo dichiara tanto i Gentili come gli Ebrei colpevoli. [...OMISSIS...] L' Apostolo dice che gli Ebrei prima di convertirsi al Vangelo erano non solo « infermi ma empi« (1), » che Cristo è morto per essi « mentre erano ancora peccatori« (2) » e quindi non giustificati nella legge; che « essendo inimici sono stati riconciliati con Dio per la morte del suo figliuolo« (3) » e che per questa morte Cristo riparò anche a quelle colpe, a cui la legge avea data occasione (4), che solo dopo la morte reale di Cristo in una parola furono tratti di sotto la schiavitù del peccato (5) e fu compita in noi « la giustificazione della legge« (6). » Ma se nell' antico Testamento, secondo queste dottrine e sotto la legge e fuori della legge tutti gli uomini erano peccatori, i quali furono riconciliati con Dio solo allora che Cristo realmente morì, come poi in altri luoghi delle divine Scritture si afferma di Abramo e di altri personaggi che possedettero la giustificazione? In primo luogo rispondo, che nelle divine Scritture si parla di due maniere di giustificazione, l' una propria dell' antico Testamento, e l' altra propria del nuovo, e che questa del nuovo è tanto eccellente e perfetta che quando quella dell' antico Testamento si mette a petto di questa, quella perde quasi il nome di giustificazione. Quando S. Giacopo dice « Abramo nostro padre non fu egli giustificato mercè le opere?« (7), » egli parla della giustificazione dell' antico Testamento. Quando all' incontro S. Paolo, ebreo e osservatore della legge, dice di sè e de' suoi correligionari che « Cristo risorse per la loro giustificazione (.) » e che per Cristo furono «« giustificati« (9), » allora parla della giustificazione del nuovo Testamento, parla come se non fossero stati prima giustificati; per ciò come se l' antica giustificazione verso la nuova fosse nulla (1). E la ragione di questa nullità della giustificazione antica quando si mette a paragone della novella si mostrerà evidente dalle verità già per noi esposte. Gli uomini tutti erano peccatori per natura; e non potevano essere giustificati se non a patto che Iddio si riconciliasse e si unisse realmente con essi. Ora qual mezzo vi potea essere di ciò prima di Cristo? La legge mosaica non era in sè stessa che un ammasso di precetti che avevano per oggetto cose esterne, materiali, o finalmente nulla più che naturali. Questo ammasso però di cose naturali aveva un fine soprannaturale, a cui cercava di rivolgere la mente e lo spirito degli uomini, ma non mostrandolo visibile nella propria sussistenza, ma indicandolo futuro , e promettendo solo che si sarebbe conosciuto a suo tempo questo fine sublime. Questo fine adunque nella sua essenza divina rimaneva del tutto nascosto agli antichi, e pure egli solo era la loro giustificazione (2). Considerata adunque quella legge in sè stessa, nulla aveva che potesse rendere l' uomo veramente giusto; e per la sua difficoltà ad eseguirla il rendeva anzi più peccatore. Questa è la giustizia che nasce dalla legge, della quale S. Paolo mette fuor di speranza gli Ebrei, sì perchè non la poteano mai conseguire, incapaci com' erano di osservar la legge; sì perchè, anche conseguita, essa non valeva veramente a giustificarli agli occhi di Dio; ma solo tutto al più a quelli degli uomini (3). Che restava dunque ad essi? ove porre la loro speranza? essi doveano volger gli occhi al fine della legge (che era Cristo), e da questo aspettare la giustificazione e la salute. Questa è quella giustificazione che S. Paolo dice nascere non dalle opere della legge, ma dalla fede (4). Or qual sentimento involgeva la fede in Cristo degli antichi Padri? Il sentimento di credersi e di confessarsi peccatori, senza potere colle proprie forze conseguire mai la giustificazione; e tuttavia nutrire in sè la certa fiducia di venir salvati, non per proprio merito, ma gratuitamente da Gesù Cristo venturo. Dovevano adunque, dice S. Paolo, credere in Cristo come in quello che giustifica il peccatore (5). Or questo atto profondo di umiltà, questo abbandono a Dio, questa fiducia nella bontà e potenza di Cristo, era tal cosa agli occhi di Dio, che non gli permetteva di abbandonare uomini, peccatori sì ma che a lui ricorrevano, in lui pienamente si confidavano. E questo non abbandonarli di Dio era la giustificazione degli antichi (1). Ora poi, giacchè una tale giustificazione è piuttosto un' aspettazione ferma di quel Cristo che giustifica comunicando sè stesso agli uomini; egli è manifesto che ella era piuttosto una giustificazione promessa e sperata che una giustificazione attuale e presente; e quindi che ove si paragona alla giustificazione de' Cristiani , i quali hanno aderente a sè « la vita « cioè Cristo, chiamato vita nelle Scritture (2), ella non è giustificazione come la cosa promessa, non è ancora essa medesima cosa; e però rettamente le divine Scritture dicono che Cristo colla sua morte salvò e giustificò realmente anche tutti gli antichi Patriarchi (3). Conosciuta la natura della giustificazione propria dell' antico Testamento, non riesce più difficile intendere la ragione degli effetti, che alla medesima attribuisce la divina Scrittura. Parte di questi effetti risguardavano la vita presente, parte la futura. I tre principali sono poi i seguenti: Il primo si era che a que' giusti aderiva ancora lo spirito di timore e di servitù; mentre a' giusti del nuovo Testamento aderisce lo spirito di figliuolanza e di amore. Sicchè l' Apostolo a' convertiti al Vangelo dicea: [...OMISSIS...] . E la ragione di ciò si è perchè Cristo (principalmente dopo essere asceso al cielo) mandò il suo Spirito e congiunse per esso realmente gli uomini a Dio, dicendo l' Apostolo che « figliuoli di Dio sono tutti quelli che sono mossi dallo spirito di Dio« (2). » Tutto ciò s' intenderà facilmente, ove si tenga ben presente il gran principio da cui muovono tutte le nostre parole. Nell' antico Testamento Dio non era realmente comunicato agli uomini, non era percepito; ma solo indicato con delle indicazioni e segni naturali. Queste indicazioni non il luminavano l' uomo, non lo afforzavano, nol rendevano partecipe della natura divina, e però nol facevano figliuolo di Dio, nel senso del nuovo Testamento . Egli adunque non poteva essere incoraggiato dentro e rinforzato; ma veggendosi peccatore nelle tenebre, escluso dal sancta sanctorum , non potea che temere, e questo era il sentimento che dovea dominare negli antichi santi. Nel nuovo Testamento surse il sole della giustizia, illuminò, incoraggiò le menti: l' uomo si sentì pieno di Dio, e partecipe della divinità allettò in sè un amore e una confidenza di figliuolo. E` Gesù Cristo stesso che distingue la condizione servile degli Ebrei, e la condizione di amici in che erano i discepoli suoi, appunto dalla percezione data a questi di Dio ed a quelli non data. [...OMISSIS...] Ecco la condizione de' servi caratterizzata dall' ignoranza e dalle tenebre in cui i servi sono lasciati dal padrone, come avveniva appunto nell' antico Testamento. E dicendo che « il servo non sa quello che faccia il suo padrone« » accenna una cognizione dell' operare del padrone, che trasportata a Dio viene a significare la sua santità, giacchè lo spirito di Cristo fa conoscere Dio appunto come Santo, che è il suo nome solenne. Prosiegue: « voi poi ho chiamati amici; perocchè tutte quelle cose che ho udite dal Padre mio le feci note a voi« (4). » Si sa che l' udire che fa Cristo dal Padre è il proceder suo dal Padre. Il dire adunque di aver comunicato loro quanto udì dal Padre è un dire che comunicò loro la propria processione dal Padre; e questa non può venire comunicata se non per la percezione interiore. Altramente, sarebbe egli possibile che Cristo avesse comunicate a' suoi Apostoli le cose tutte per singolo udite dal Padre? e chi non sa che queste sono infinite? Ma come il Padre gliele comunicò tutte senza successione, con quell' atto solo col quale lo generò; così Cristo le comunicò pure a' suoi discepoli con quell' atto appunto col quale li generò col suo spirito; perchè nella percezione, che diede loro di sè, tutte le cose veramente si comprendono, giacchè nel Verbo divino sono le cose tutte. Il secondo effetto, o carattere dell' antica giustificazione, si fu che il regno del peccato non era però ancora interamente distrutto, e i giusti stessi soggiacevano ad una cotal servitù di esso peccato. Perciò S. Paolo agli Ebrei convertiti dice: « Il peccato non vi dominerà, perocchè non siete sotto la legge ma sotto la grazia« (1) » facendo intendere così che sotto la legge dominava il peccato. E ancora facendo il paragone dell' antico Testamento e del nuovo, ed attribuendo all' antico la legge, e al nuovo la grazia, dice: [...OMISSIS...] E tosto dopo toglie a mostrare che l' uomo del peccato visse fino alla morte di Cristo, che da Cristo fu crocifisso sulla croce, e viene crocifisso in noi nel Battesimo che ci applica il merito della passione di Cristo: [...OMISSIS...] Questa dominazione poi del peccato non importa mica che quei santi personaggi non fossero veramenti giustificati nel modo detto più sopra, cioè che non avessero una dirittura di volontà e di fede: ma importa ben altro. Quegli antichi nel loro spirito non avevano ancora la percezione di Dio, non avevano la Divinità in se stessi; questa Divinità era l' oggetto della loro fede, come cosa che doveva comunicarsi loro in futuro. Ora dalla percezione della Divinità scaturisce la nuova vita, l' uomo nuovo: da quella percezione esce la grazia onnipotente contro tutti gli assalti dell' inimico. Tutta la grazia degli antichi si riduceva ad una fermezza di volontà contro il peccato, in virtù di quella fede che non dava loro la vita ma la prometteva: questo bastava per non cadere più giù, ma non per ascendere fino a Dio; come quegli che rovinato nel profondo di una valle ombrosa e fermato sulla pendice non ha forza da ritornare alla cima del colle ove vede il sole; ma pur solo di abbrancarsi a' cespugli tenendosi sospeso fin tanto che gli viene recato conforto e tirato da quel profondo. Non essendo adunque nell' uomo Iddio dominatore colla sua propria ed essenzial luce, il peccato si poteva dire ancora regnante; perocchè non era scacciato dall' uomo realmente, ma solo in isperanza. Che poi sia il solo Verbo quegli che libera l' uomo dal dominio del peccato col comunicarsi internamente, si ha espresso in quelle parole: « Se voi vi terrete nel mio discorso, sarete miei discepoli. E conoscerete la verità (cioè il Verbo), e la verità vi libererà« (1) » dal peccato, come spiega tosto appresso (2). Laonde la giustificazione dell' antico tempo non liberava interamente dal peccato, ma avea bisogno di essere completata e perfezionata colla reale incarnazione e morte di Cristo (3). Per ciò l' Apostolo afferma che « la giustificazione della legge si completava in noi , i quali non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito« (4) » per Gesù Cristo; di che fare la legge era incapace (5); sicchè quella antica era una giustificazione quasi direbbesi in potenza ed in germe, la quale dalla reale venuta di Cristo doveva essere attuata e addotta a perfezione. E questo ci prepara la strada a dichiarare il terzo carattere ed effetto di quell' antica giustificazione. Ella nasceva tutta dalla fede. Si formava con questo sentimento che l' uomo formava dentro di sè: [...OMISSIS...] . Iddio non poteva abbandonare un tal uomo, il quale prometteva di « soddisfare non da sè, ma mediante il Redentore promesso«. » Che dunque faceva Iddio? quello che fa un creditore, a cui venga dimandato dilazione al pagamento dal suo debitore. Iddio diceva: [...OMISSIS...] . Non poteva essere più equa e benigna la sentenza: perciò gli antichi giusti non erano condannati, morendo, alla dannazione; ma sospesi nel limbo, fino a tanto che venisse colui che pagasse per essi, e comunicasse loro quel lume, quella vista di sè, che li congiungeva realmente con Dio, e gli ammetteva ad un tempo stesso alla grazia del Redentore e alla gloria. Tale era l' effetto dell' antica giustizia nascente dalla fede in Cristo venturo. Perciò S. Paolo dopo aver mostrato che la giustificazione non viene dalla legge ma dalla fede, dice che « la legge è stata posta per trasgredirla fino a tanto che venisse quel SEME a cui era stato promesso« (6). » Questa fede poi che pienamente giustifica è la fede cristiana secondo S. Paolo [...OMISSIS...] - E la Scrittura ci mostra esser serrate tutte le cose sotto « il peccato, acciocchè ciò che fu promesso si desse a quelli che credono in virtù della fede di Gesù Cristo« (1). » E ancora più manifestamente apparisce, come l' Apostolo per quella fede che salva intende quella in Cristo venuto, non essendo l' antica fede che una fiducia nella fede che doveva venire e salvare, dalle parole che sieguono: [...OMISSIS...] . La fede che dovea rivelarsi era quella di Gesù Cristo venuto. [...OMISSIS...] Perciò acconciamente dice S. Paolo, che quelle parole scritte di Abramo « che la sua fede gli fu riputata a giustizia« » non sono solamente scritte per lui, ma per noi altresì, come in quei suoi figliuoli ne' quali s' è pienamente avverata quella parola (4). Laonde come ne' Sacramenti della nuova legge (cose, azioni, parole) si possono chiamare la parte materiale del Sacramento, e l' invisibile grazia si può chiamare la parte formale (5); così nell' antica legge v' avevano pure queste due parti: ma in luogo della grazia costituiva la forma di que' Sacramenti la fede di quelli che li ricevevano e li amministravano. Dalla fede poi annessa al Sacramento nasceva la giustificazione, la quale era proporzionata alla natura di quella fede, che abbiamo descritta (6). Si può dunque dire che nel popolo peculiare sceltosi da Dio, la fede avea bisogno de' Sacramenti perchè da Dio positivamente voluti (7), e che i Sacramenti avvivati dalla fede erano concausa della giustificazione. Questa giustificazione poi abbracciava due elementi, cioè la sospensione del pagamento del debito del peccato, e l' addirizzamento della volontà. Il Sacramento avvivato dalla fede otteneva innanzi a Dio la sospensione del pagamento; ma la fede era quella che dirizzava la volontà, spingendo questa al di là di tutte le cose naturali, fino all' esser divino, sebbene in un modo implicito, sicchè era sola la punta dell' anima che a Dio volgevasi per quella fede (1). Duplice era dunque la causa operante, duplice l' effetto. La causa operante era la fede col Sacramento; l' effetto era l' addirizzamento della volontà colla sospensione dell' esigenza del debito (2). Ma poichè questo dirizzamento di volontà non avea un oggetto esplicito e positivo, ma era come l' occhio guardante bensì in dirittura del segno, ma non veggente chiaramente ancora il segno, troppo lontano, per ciò dovea la volontà umana acquistare più alti gradi di perfezione, innanzi di poter passare alla visione beatifica; e i fedeli che allora morivano non vedevano per ciò immediatamente Iddio. E questo dà ragione perchè l' effetto de' Sacramenti dell' antica legge non si possa chiamare un cotal cominciamento della futura gloria, come S. Tommaso co' Padri chiama la legge nuova (3): conciossiachè quell' effetto degli antichi Sacramenti non congiunge l' uomo immediatamente con Dio, ma lo dispone all' immediata e positiva congiunzione. Perchè Eucherio di Leone dica che i Sacramenti della nuova legge dànno la vita , che sta nella percezione di Dio, e gli antichi mostravano solo la vita (4); perchè Innocenzo III scriva la circoncisione non dare l' ingresso al regno di Dio (5); verissimo detto ove pel regno di Dio s' intenda il regno de' Santi che già percepiscono Dio; e Giovanni lo Scoto riprovi l' espressione, che la circoncisione aprisse la porta del cielo (6). L' uomo è creatura di Dio: dunque è fatto all' onore di Dio (1). Iddio è creatore dell' uomo, e non poteva avere altro fine che sè stesso nella creazione: « tutte cose, dice la Scrittura, il Signore le ha operate per sè« (2). » L' uomo dunque è ordinato al divino servizio. La legge evangelica, che è la morale nella sua più alta perfezione, riduce tutti i doveri alla carità di Dio, nel qual nome di carità ella comprende ogni servigio e ogni amore. E lo stesso amore del prossimo il fa venire come un ramo dal pedale del divino amore: imponendo all' uomo che di tutte sue potenze ami il Signore, ella non lascia in libertà dell' uomo cosa alcuna dell' uomo, ma ogni suo elemento, per così dire, il consacra al divino culto. Di più, il divino culto nella perfezione della morale evangelica va preferito alla stessa vita; e quando la distruzione di questa possa accrescere a Dio onore e culto, anch' essa dee essere sacrificata. Indi l' origine de' sacrificii: indi il sacrificio accettevole, onde Cristo immolò sè stesso all' eterno Padre. Ogni cristiano è chiamato dietro a Cristo: e però ogni cristiano, colla disposizione almeno di sua volontà, dee aver sacrificato sè stesso: [...OMISSIS...] . Ora se chi sacrifica è sacerdote; la perfezione della morale evangelica importa che ogni cristiano sia sacerdote come fu Cristo, e tal sacerdote che abbia la vittima in sè medesimo (5). Nello stato d' innocenza l' uomo aveva questo spirito sacerdotale. La chiarezza di sua ragione gli mostrava che tutto doveva a Dio, e che in servire e glorificare il suo Creatore si conteneva tutta la sua morale perfezione. La rettitudine di sua volontà, la grazia che la confortava aggiungendole forze divine, avrebbe disposto l' uomo a sacrificare effettivamente sè stesso per la causa dell' onore e del culto di Dio, ove ne fosse stato bisogno. E sebbene questo bisogno non si sarebbe forse avverato, tuttavia non sarebbe mancato quella perfetta disposizione di animo per la quale il santo uomo ama più Dio di sè stesso. In tale stato non era uopo che fra Dio e l' uomo seguisse un cotal contratto positivo ed esterno, pel quale questi promettesse a Dio di servirlo fedele, e Dio gli promettesse proteggerlo. La cosa andava da sè: i rapporti della creatura e del Creatore eran chiari, manifestissimi: nè poteva dar materia ad alcuna convenzione, conciossiachè questa è inutile, ove la natura delle cose parla chiaro e di forza. Ma la mente oscurata dell' uomo peccatore, e il cuore corrotto non sapea legger più distintamente il dettato della ragione, nè udire quanto la natura e la grazia favellavano: disconobbe l' uomo il suo dovere, smarrì di vista il bene morale, cercando sua perfezione e sua grandezza nel fisico e nell' intellettuale; allora ignorò quanto doveva a Dio: e per riannodare la sua corrispondenza col Creatore, fu bisogno che intervenisse un contratto positivo mediante il quale gli si ricordasse ciò che avea tanto obbrobriosamente dimenticato, cioè che egli esisteva pel culto e per l' onore di Dio. In tal modo venìa riseminata nell' uomo la morale e la stessa perfezione della morale, che nasce da Dio comunicante coll' uomo. Per un' altra ragione poi rendevasi necessario un contratto positivo fra Dio e l' uomo dopo il peccato. La coscienza dell' uomo mostravagli dover essere Iddio irato a lui peccatore, e Dio stesso gliel fece conoscere da principio con positive rivelazioni. L' adito adunque a Dio per l' uomo era chiuso. Come poteva questi riavvicinarsi al Creatore, se Dio stesso non gli faceva conoscere di voler deporre lo sdegno, entrando così in qualche trattativa coll' uomo? E rinnovandosi l' alleanza fra il Creatore irato e la creatura colpevole, questa non potea essere che positiva, dipendendo da un atto non necessario ma gratuito della divina Misericorda di tornar l' uomo nel divino favore. Però la prima alleanza espressa che nelle divine Scritture si rammenta è quella fatta in occasione del diluvio colla quale Iddio, vendicatosi dell' umanità pervertita, rassicura la famiglia di Noè e con essa stringe alleanza: [...OMISSIS...] . Ecco il patto positivo di Dio coll' uomo, occasionato dall' infrazione del patto naturale. Ora un contratto positivo in cui entri l' uomo, conviene che abbia delle forme esterne che lo manifestino. Vi dee essere altresì un segno durevole di questo patto, acciocchè gli uomini se ne possano ricordare col venir loro, o tener sott' occhio, quel segno. E però del patto che Iddio strinse con Noè, pose Iddio questo segno: [...OMISSIS...] . Cotal segno dovea ricordare continuamente all' uomo i suoi doveri verso Dio e la stretta alleanza. E perchè efficacemente parlasse e giovasse al disegno della Provvidenza di venir crescendo fra gli uomini la apprensione della verità e la perfezione morale, dovea quel segno essere acconcio allo stato intellettuale dell' uman genere, e però col variare di questo stato doveva variare altresì quel segno e le forme onde il patto fra Dio e l' uomo si rivestiva. Diamo un cenno dello sviluppamento della umanità, al quale Iddio temperava quella sua amorevole provvidenza, onde conduceva l' uomo alla santità. Lo sviluppamento dell' uomo può considerarsi secondo le mutazioni che subiscono le facoltà dell' uomo in ciascun individuo, e secondo i rapporti sociali. Lo stato di ciascun individuo si sviluppa di mano in mano in tutte le parti seguenti: 1. Le facoltà dell' uomo a principio operano tutte simultaneamente, purchè abbiano materia ed oggetto in cui occuparsi, e ciò per istinto. L' uomo acquista più tardi, e un po' alla volta il potere sulle proprie facoltà, pel quale comanda ad alcune di operare, e ad altre di tenersi quiete, e giunge a metterne in movimento una sola alla volta. Fino a tanto che non acquista questa libera direzione delle sue facoltà, l' operare dell' uomo è complessivo, è tutto l' uomo intero che agisce; e questo carattere si ravvisa nelle opere de' primi uomini. Tale osservazione spiega come gli antichi Patriarchi nominati nella Scrittura, mescolavano colle idee religiose quelle della terra. Se le loro facoltà intellettuali avessero potuto operar sole, essi si avrebbero formato delle idee pure della divinità, cioè scevre dagl' integumenti per così dire de' sensi. 2. La materia o gli oggetti sensibili delle facoltà umane vanno sempre crescendo, il che dee variare necessariamente lo stato intellettivo dell' uomo. Convien riflettere che la materia, ossia gli oggetti sensibili, si presenta da prima complessivamente, di poi partitamente, con infinite variazioni. Il presentarsi gli oggetti sensibili partitamente fa sì che operino nell' uomo le parziali facoltà, standosi quiete le altre; e questo è il primo aiuto che presta la natura all' uomo, a poter acquistar egli il dominio sulle sue facoltà, accennato al numero primo. Perocchè egli s' accorge con tale sperienza involontaria di poter operare in due modi, cioè complessivamente con tutte le facoltà, o partitamente con poche alla volta, o con una sola: e accorto di questo, egli studia poi il modo di poter muoverle ad arbitrio o tutte, o parte, o l' una alla volta. Fra gli oggetti sensibili che si presentano alle facoltà dell' individuo, entrano altresì i suoi simili co' quali egli conversa, e onde gli nascono i rapporti sociali. 3. Si aumentano, variano, si spezzano, si adunano anche gli oggetti puramente intellettivi. Indi nasce il progresso delle varie riflessioni, le quali dividono la scienza umana in altrettanti ordini secondochè le riflessioni sono più o meno elevate (1). In ciascun ordine poi la riflessione è più o meno generale, ond' ha le tre seguenti funzioni: 1. mera contemplazione, 2. analisi, 3. sintesi. 4. Finalmente ad ogni stato intellettivo risponde uno stato dell' animo, divenendo ogni oggetto dell' intelletto segno alle affezioni del cuore. 5. Come poi l' uomo acquistò il libero dominio delle sue potenze, l' arbitrio suo è un principio novello che influisce nell' umano sviluppamento, e che se non ne muta le leggi certo ne accresce o diminuisce la celerità. Rispetto poi ai rapporti sociali questi sono successivamente causa ed effetto dello sviluppo individuale, e lo sviluppo che ne nasce dell' umanità procede in quest' ordine: che vi sia 1. la società domestica, 2. la relazione de' servi e de' padroni, 3. la società civile, 4. [la] società fra più nazioni che finisce nella società universale. La divina Provvidenza che ha per termine fisso il condur l' uomo alla perfezione morale, diresse nella sua sapienza le operazioni di lei a seconda degli sviluppamenti naturali dell' umanità; i quali però venivano influiti e aiutati da quelle stesse divine operazioni. Di che è ragione questa, che l' ordine soprannaturale s' innesta su quello della natura, di cui è compimento. E poichè l' ordine della natura era guasto, però insieme colle facoltà umane doveva svilupparsi altresì il seme di peccato giacente nella natura, e coll' aumentare le operazioni umane crescere altresì l' umana perversità. Due adunque sono gli sviluppi simultanei dell' uman genere: 1. quello delle facoltà naturali, e 2. quello del germe vizioso che nell' uomo caduto si chiude. E secondo questi due sviluppamenti la misericordia di Dio ordinava altresì lo sviluppo dell' ordine soprannaturale, acciocchè le facoltà sviluppate potessero di mano in mano tendere a Dio, e crescesse altresì la virtù del rimedio contro il peccato. Per ciò di pari passo con ambo gl' indicati sviluppamenti delle facoltà naturali e della perversione dell' umanità procede: 1. L' incremento della rivelazione, 2. La fede de' Santi si rende sempre più esplicita, 3. Ad una fede più esplicita corrisponde nuova specie di grazia, 4. La rettitudine della volontà corrispondente alla grazia, viene negli uomini Santi sempre più dimostrandosi mediante una intenzione più pura e spoglia di vedute terrene. Or la rivelazione facevasi in parte mediante i segni istruttivi, e però abbiam veduto di questi un continuo progresso, e particolarmente abbiam distinto i segni familiari dai segni istruttivi nazionali. Ora in aiuto della volontà umana e in eccitamento dell' attenzione che dovea p“r l' uomo a' suoi doveri verso Dio, furono altresì stabiliti i segni durevoli che ricordassero i patti positivi fra Dio e lui intervenuti. E però anche questi segni variarono appunto a tenore dello stato dell' umanità (6), del grado di suo sviluppo (7) e del bisogno che avea l' uomo di rimedii contro l' inondazione della crescente corruttela (.). Alcuni di questi segni durevoli volti a rammemorare il patto positivo strettosi fra Dio e l' uomo, furono delle cerimonie religiose. Tali sono i Sacramenti. Per ciò S. Tommaso togliendo a classificare tutte quelle cose che si riferiscono al culto di Dio le divide in quattro parti, mettendo in primo luogo i sacrificii ne' quali il culto di Dio consiste; in secondo luogo gli strumenti del culto o cose sacre ( sacra ), siccom' era il tabernacolo, i vasi e gli altri utensili che si adoperavano nel tempio; in terzo luogo la dedicazione delle persone al culto divino, e qui mette i Sacramenti; e in quarto luogo le osservanze che regolano la conversazione di quelli che sono al culto di Dio dedicati distinguendoli da quei che non sono (1). Nel qual luogo e in altri l' angelico Dottore fa consistere la nozione de' Sacramenti in atto che dedicano la persona al culto di Dio (2): il che è quanto dire, in altrettanti segni esteriori, pe' quali consta del patto onde l' uomo a Dio si consacra, e Dio promette all' uomo protezione. E poichè le ragioni di un patto positivo fra Dio e l' uomo sono due, l' ignoranza dell' uomo, per la quale non conosce che languidamente la sua relazione col Creatore, e lo stato di peccato pel quale ha bisogno che Iddio positivamente gli si avvicini (3); però S. Tommaso dà due fini ai Sacramenti, l' uno di perfezionar l' uomo in quelle cose che riguardano il culto divino, l' altro di rimediare al peccato (4). Adunque perchè l' uomo fosse aiutato contro il peccato crescente, e sempre più a Dio si consacrasse, i Sacramenti avanti Cristo ebbero un progresso. Conciossiachè da principio l' uomo peccatore faceva de' sacrifizii al Signore, e il Signore in varie maniere gli mostrava il suo gradimento. Questi sacrifizii però non erano Sacramenti, perchè non segnavano alcun patto fra Dio e l' uomo; ma erano solamente un atto religioso dell' uomo, col quale cercava di ottenere il divino favore, nè disponevano l' uomo al culto, ma erano atti di culto. Non pare improbabile tuttavia, che fino ab antico quelli che facevano sacrifizii, o quelli per cui si facevano, partecipassero delle cose offerte al Signore; rito che significa assai bene l' unione dell' uomo con Dio, mostrando di aver quegli una mensa ed un cibo comune con questo. E però tal rito poteva essere un Sacramento del tempo così detto della legge di natura (1). Così parimente egli è verosimile che assai per tempo s' introducesse qualche rito onde si consecrassero i sacerdoti, i quali erano in primo luogo i padri di famiglia, fino a tanto che non v' ebbero se non società familiari divise l' una dall' altra; ma quando più famiglie si unirono in un corpo e cominciò la tribù e la nazione, allora fra i padri di famiglia si designarono alcuni de' più cospicui i quali offerissero de' pubblici sacrifizii: nello stato monarchico è poi certo che i re congiungevano questa dignità: tale era Melchisedecco re e sacerdote di Salem (2). Anche questo rito della consacrazione sacerdotale può forse annoverarsi fra i Sacramenti della legge di natura. Finalmente antichissime sono le esterne purificazioni ed espiazioni, le quali potrebbero anch' esse essere appartenenti a quegli antichi Sacramenti (3). Ma non si trova nella sacra Scrittura l' instituzione positiva divina di queste sacre cerimonie, la quale è necessaria a costituire propriamente de' Sacramenti (4). Nè basterebbe per potersi chiamar Sacramenti che fossero stati istituiti dall' uomo mosso da quel sentimento religioso che è proprio della natura umana (1): bensì la loro origine divina si riputerebbe a ragione ove l' istinto dello Spirito Santo gli avesse agli antichi santi suggeriti. E questo tiene essere avvenuto l' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] . Nella quale sentenza, che questi antichi riti fosser venuti da Dio, mi conferma il vedere come Dio stesso riconosce i sacerdoti precedenti all' instituzione del sacerdozio levitico (3), e le purificazioni precedenti a quelle per Mosè instituite (4). Ma si sviluppa ognor più il germe del peccato disseminato nell' umanità; e crescendo l' intelligenza ne' figliuoli di Noè, l' affetto alle cose terrene, e i vincoli che li stringeva fra loro e con esse, Iddio nella sua provvidenza separò Abramo dal rimanente del mondo, e in lui cominciò un nuovo contratto; una peculiare educazione dispose dare a quella famiglia, e alla nazione in che si sarebbe sviluppata, acciocchè abbandonati gli uomini a sè e non soccorsi di special provvidenza non ispegnessero il regno di Dio sopra la terra. Allora col nuovo patto cominciarono de' nuovi Sacramenti che fossero segni di lui; e il primo di questi segni, co' quali attestavano gli uomini di essere dedicati al divino culto fu la circoncisione (1). La Scrittura ci rappresenta espressamente la circoncisione come segno del patto strettosi fra Dio ed Abramo. Ecco come narra la sua istituzione: [...OMISSIS...] . Questo Sacramento appartiene nella sua origine alla società familiare; e la parte circoncisa contrassegnava l' unità della stirpe eletta da tutte le altre. Tuttavia egli era destinato a diventare un Sacramento nazionale, e tale divenne quando gli Ebrei uscirono d' Egitto o certo quando entrarono al possesso della terra promessa, tempo in cui si costituirono in nazione (1): di che all' entrare in quella terra la circoncisione, intralasciata durante il viaggio del deserto, fu ripresa (2). Il tempo che passarono nell' Egitto fu per gli Ebrei stato di tribù, che è lo stato di mezzo fra il familiare e il nazionale. Che poi la circoncisione fosse destinata a dover essere Sacramento nazionale, vedesi dalle parole del contratto seguito fra Dio ed Abramo, nelle quali il patto è fermato non solo con quel Patriarca, ma ben anco col suo seme dopo di lui nelle generazioni future in sempiterna alleanza (3); e si vuole che tutti i bambini maschi sieno circoncisi da una generazione all' altra, e anco il servo o nato in casa, o comperato (4). Questo sapersi che la circoncisione è Sacramento famigliare e nazionale, e non puramente individuale, vale a farci conoscere perchè la circoncisione non si desse alle femmine. Bastava che l' avessero gli uomini, perchè questi erano sufficienti a rappresentare la famiglia e la nazione; e le femmine partecipavano dell' alleanza perchè parti di quel corpo o di quella società che insolidariamente era legata con Dio, e perchè si consideravano formanti una sola cosa coll' uomo, per cagione dell' unione maritale, nodo della società domestica, dove la donna e l' uomo sono una carne (5). Per la stessa ragione il bambino che moriva prima dell' ottavo giorno, in cui solo era prescritto la circoncisione non è a riputarsi diviso dal popolo santo, ma sì partecipante dell' alleanza stretta da Dio col corpo di sua nazione. E però dal Sacramento de' Padri riceveva anch' egli la sospensione del pagamento che a' Padri suoi era concessa (6). Ora vediamo le condizioni di questa alleanza. In primo luogo ella fu promessa ad Abramo, e promessa gli fu, perchè uomo fedele e perfetto. [...OMISSIS...] Precedette dunque al patto, ed alla circoncisione che n' è il segno, la fede e la giustizia di Abramo. Abramo assentì a voler esser perfetto: « si gettò Abramo boccone per terra« (1): » così diede il suo assenso. Allora fu conchiuso il patto con queste condizioni: che Iddio fosse onorato e riconosciuto per Dio da Abramo e da tutta la sua discendenza (2). E Iddio all' incontro prometteva ad Abramo, per dargli prova di suo potere e di sua bontà e così dar nuova materia a sua fede, 1 di farlo padre di molte genti e di far da lui uscire dei re; 2 di dare in possesso ai suoi discendenti tutta la terra di Canaan nella quale allora peregrinava (3). Dove si osservi come ciò che promette Dio ad Abramo sieno cose temporali, esigendo però da Abramo un culto veramente spirituale; il che era un proporzionare l' educazione religiosa allo stato dell' umanità: conciossiachè era ben facile conoscere come fosse giusto il dar culto a Dio; e questo il conobbero gli uomini fino da principio; ma il riconoscere nello stesso culto ed onore di Dio la propria felicità, questo era difficilissimo, e non pervennero gli uomini a intenderlo innanzi a Cristo (4). Si esigeva uno stato intellettuale molto elevato a poter fare astrazione da tutte le cose terrene e fissare la mente nella sola giustizia come nel solo vero bene. Tanto non potea l' uomo per natura: bisognava la grazia del Redentore, come appar chiaro da quanto abbiamo detto della natura di questa grazia. Perocchè questa sola grazia dà una percezione viva delle cose spirituali e divine per l' infusione dello Spirito Santo; e in questa viva percezione di Dio, verità e giustizia sussistente, l' uomo si sazia e vede il suo vero ed unico bene. Alla quale altezza di lume non potevano arrivare quegli antichi Patriarchi: e Iddio, parlando ad essi in modo proporzionato allo stato di loro intendimento non pervenuto a riflessione d' alto grado e allo stato di loro grazia corrispondente, provò ad essi i suoi attributi di potenza, di giustizia e di bontà col proteggerli possentemente e regalarli abbondantemente di cose temporali. Frammezzo però a queste cose temporali proporzionate all' intelligenza degli uomini, Iddio prometteva qualche cosa di più: un non so che di misterioso e di recondito: dal seme di Abramo non dovevano uscire solamente dei re terreni, ma un re al tutto singolare e di una grandezza degna di Dio, per ciò spirituale e divina. E attentamente sguardando all' istituzione della circoncisione, apparisce come un doppio patto o una doppia promessa fatta da Dio ad Abramo: la prima generale e risguardante tutti i discendenti di quel Patriarca: per ciò Iddio comandò che fosse circonciso Ismaele, e senza eccezione alcuna tutti i bambini maschi di otto giorni (1). [...OMISSIS...] E Isacco non era ancor nato. Or il patto era generale, e riguardava tutti i discendenti di Abramo. Ma una condizione di questo patto generale era questa che Iddio avrebbe poi fatto un patto speciale con Isacco che dovea nascere: [...OMISSIS...] . Questo è un patto futuro e sempiterno che promette Iddio di far poi col figliuolo nascituro Isacco (5). Non solo adunque Isacco non era circonciso, ma nè pur nato quando il patto spirituale ed eterno fu promesso, e però non in virtù della circoncisione, ma della predestinazione di Dio fu scelto; e quella scelta si dovette alla fede di Abramo, che occasionò il primo patto. Conciossiachè veggendo Iddio Abramo esser fedele, propose a lui di stringere un patto, col quale Abramo e i suoi discendenti promettevano la continuazione di quella piena fede che aveva quel patto occasionato. E in segno di questa fede stabile e continua si commisero alla circoncisione, che però è chiamata da S. Paolo « segnacolo di quella giustizia che viene dalla fede« (1). » E col rito del circoncidersi, tutti gli Ebrei protestavano di volere aver quella fede stessa del loro padre Abramo (2). Or in tal modo l' atto della fede era reso facile a tutti egualmente anche a quelli che non potevano sollevarsi a intendere le cose più alte e spirituali del Redentore. Ad Abramo era stata data luce di percepirla: in quel recondito patto che Iddio avea promesso di stringere con Isacco, il santo Patriarca per lume soprannaturale avea veduto la promessa del Cristo futuro: ciò si ha espressamente nel Vangelo: « Abramo vostro padre vide il mio giorno (cioè vide me nella gloria); lo vide e ne giubilò« (3). » Ma non tutti gli Ebrei potevano avere una grazia sì straordinaria: tutti però potevano avere una fede implicita nel Redentore in quanto che essi si riferivano e protestavano di credere a tutto ciò che aveva creduto il loro padre Abramo. Egli è per questo che fu chiamato Abramo il padre dei credenti. E S. Paolo spiega in un modo sublime e spirituale la promessa fatta da Dio ad Abramo di esser padre di molte genti, intendendo per queste genti non pure quelle che sono nate da lui secondo la carne, ma quelle che partecipano della sua fede, credendo in ciò che ha creduto Abramo, e a tutte queste dice che si riferisce la promessa fatta da Dio (4). Per la medesima ragione il luogo dove andavano le anime degli Ebrei che santamente morivano prima di Cristo si chiamava il seno di Abramo (5). Era la fede di Abramo, a cui si riferivano, che le salvava. Secondo la maniera di dire scritturale il figlio esce dal seno del padre: tornar nel seno del padre significava adunque ricongiungersi al padre, e vivere della sua vita. Le anime de' giusti adunque nell' altra vita vivevano della fede di Abramo, ed è credibile che loro fosse nel limbo esplicitamente rivelato ciò che Abramo credette, e che esse nella vita presente non intesero e non credettero se non implicitamente, cioè nella fede di Abramo (1). La fede adunque significata dalla circoncisione era la fede in Cristo, e l' esser fatta in quella parte del corpo significava il dovere Cristo discender da Abramo per generazione. E Cristo veniva a redimere il mondo e p“r rimedio al peccato originale. Or questo peccato corruppe principalmente il fonte della vita. Il che significava la circoncisione pel doloroso taglio in quella parte dell' uomo, e il recidersi di quella pelle era rito idoneo a significare come doveva essere tolta e da noi rigettata la vetustà del peccato e rinunziato alla concupiscenza. Significava adunque la circoncisione una purificazione dell' uomo: l' uomo vecchio mortificato (2). E perchè l' uomo vecchio fu mortificato nella passione di Cristo, perciò quelle gocciole di sangue che in tal rito si spargevano, ottimamente segnavano la morte di Cristo, e il darsi nell' ottavo giorno al bambino accennava alla risurrezione dell' uomo nuovo in Cristo che avvenne l' ottavo giorno (3). Tanta materia di fede contenevasi nel rito della circoncisione simile nel significato al Battesimo nel quale pure la morte dell' uomo vecchio e la resurrezione del nuovo si rappresenta (1). E questa fede promettevano a Dio e protestavano gli Ebrei con tal rito, non tutti sapendo queste cose, ma riferendo la loro fede ai lumi ricevuti dal loro santo padre Abramo. Nè in questa fede finiva il culto che a Dio promettevano col circoncidersi. Essi protestavano al Signore che riguardandolo per loro padre e re si sarebbero sommessi a tutte le leggi anche politiche e cerimoniali che avesse lor promulgato, e a tutti i suoi voleri. Perciò S. Paolo dice « Io dichiaro ad ogni uomo che si circoncide che con tal rito egli si obbliga ad osservare la legge« (2) » e quindi dissuade i primi fedeli dal circoncidersi, mostrando loro che vanno con ciò a sottomettersi a un peso servile, importevole e inutile dopo Cristo (3). E in corrispondenza di una tal fede e promessa degli Ebrei, Iddio prometteva da parte sua che ad essi soli avrebbe consegnate le sue divine rivelazioni, e fu così che quel popolo il depositario de' sacri libri (4). Tali erano le condizioni spirituali del patto; di cui le condizioni temporali non erano che figure e sostegni dati alla limitazione umana (5). Or le promesse divine contenute in quel patto doveano esser condotte a compimento col succeder de' tempi. L' ultimo scopo di queste promesse era il recar l' uomo alla morale perfezione, la quale dovea effettuarsi di mano in mano per una serie di avvenimenti. L' uomo era peccatore per natura; laonde la prima cosa che convenia farsi a dargli perfezione morale era il redimerlo dal peccato e dalla pena di morte che di conseguente meritava. Ma perchè l' uomo traesse profitto dalla redenzione dovea credere nel Redentore, umiliando sè stesso incapace di venire a salute e sperando la salute sua da colui che l' avrebbe redento. Il primo patto era adunque generale e Iddio prometteva con esso di prender l' uomo in protezione, l' uomo di dar culto a Dio. Questo patto generale ne conteneva un altro particolare riguardante il mezzo di eseguire quel primo, col quale Iddio prometteva all' uomo il Redentore necessario a salvarlo, e l' uomo a Dio di credere fiduciosamente in questo Redentore, e sperar da lui solo la sua salute. Acciocchè all' uomo ancora poco sviluppato nelle sue facoltà intellettive, si scolpisse in mente la necessità che egli aveva di esser liberato dal peccato mediante un Redentore, Iddio figurò innanzi agli occhi degli Ebrei questa grande verità con un avvenimento solenne e nazionale, cioè colla schiavitù di Egitto e colla liberazione da questa schiavitù che rappresentava quella spirituale del peccato; e acciocchè apparisse la necessità del Redentore perchè fossero salvi nell' anima e nel corpo, ordinò in quell' occasione la cerimonia dell' agnello pasquale, secondo Sacramento dell' Ebraico popolo (1). Conviene osservare, come passando l' Angiolo del Signore a dar morte a' primogeniti Egiziani, salvò dalla strage le case degli Ebrei tinte col sangue dell' agnello. Quel sangue era sommamente acconcio a rappresentare quello di Cristo, che venendo immolato placava Iddio nell' ora della sua giustizia, che è l' ora del passaggio dell' Angelo. Ora in quel passaggio l' Angelo del Signore non recava agli Ebrei alcun bene, ma solo li esentava dalla morte; il che acconciamente dimostrava qual fosse l' effetto della fede nella morte futura e non ancora seguita di Cristo, cioè di apportare a' fedeli la sospensione del pagamento o castigo, non però ancora il bene positivo della gloria eterna data dagli uomini solo in virtù del prezzo già sborsato del sangue di Cristo. Ma perciocchè Cristo sacrificato sulla croce dovea esser dato anche in cibo a' suoi discepoli, per ciò l' agnello svenato dagli Ebrei dovette esser da lor mangiato, e ciò in fretta per sommo desiderio di uscir dall' Egitto e fuggire la celeste vendetta di Dio (1), cotto nel fuoco della carità col pane azimo della pura conversazione, e coll' amaro delle lattughe agresti simbolo di penitenza, cinte le reni di castità, ed i piedi calzati di opere buone (2). E per indicare l' unione de' fedeli partenenti ad una sola famiglia della quale il Padre è Dio, dovea mangiarsi in ogni casa, e niuna parte della vittima poteasi portare al di fuori (3). Ora questo secondo Sacramento consacrava di nuovo il popolo Ebreo al culto di Dio più esplicitamente e specificamente: prometteva questo popolo di credere che da Dio dovea venire la sua salute mediante il Redentore e la passione di questo, in virtù della quale liberati dalla morte del peccato dovevano pervenire al cielo significato dalla terra promessa verso cui uscendo dall' Egitto si rivolgevano. Or questo Sacramento dell' agnello pasquale è detto SEGNO nella Scrittura: [...OMISSIS...] . Ecco la promessa e il patto di Dio, ed ecco il segno del patto. [...OMISSIS...] Ecco il culto che da parte loro doveano prestare gli Ebrei. Or il segno di questo patto era una cerimonia permanente: [...OMISSIS...] . E acciocchè più vivamente si scolpisse negli Ebrei l' obbligo di questo culto che doveano dare al Signore, ritenne il Signore in ispecial suo dominio i primogeniti salvati dall' Angelo: [...OMISSIS...] . E questo pure dovea essere in segno perpetuo agli Ebrei: [...OMISSIS...] . Or poscia Iddio continuò a dare effetto al patto da lui stretto con Abramo ed Isacco, del quale l' uscita dall' Egitto era un cominciamento. Come Dio in virtù di quel patto dovea salvare Israello, essergli buon re e scorgerlo alla perfezione morale, però tolse nel deserto a dargli sue leggi. Gli pubblicò da prima la legge morale; poi la legge civile o giudiziale; e finalmente le cerimonie religiose; e in tale occasione volle rinnovato solennemente l' antico patto (4). E disse al popolo d' Israele: [...OMISSIS...] . Or in questa occasione fu istituito un nuovo Sacramento, cioè l' ordinazione de' sacerdoti (6). Come tutto il popolo era stato consacrato al culto divino e n' era segno la circoncisione, così fu peculiarmente stretto da Dio un patto colla famiglia di Aronne, mediante il quale questa famiglia si obbligava di servire in un modo speciale al divino culto, e Dio da parte sua prometteva a questa famiglia una special protezione, e di essere egli stesso la sua porzione e la sua eredità (1). Della quale eredità il mantenimento temporale de' sacerdoti che ricevevano dall' altare, avendo parte delle vittime che si offerivano per lo peccato o per impetrare e render grazia, era niente più che un simbolo. Or la consecrazione era il segno di questo patto peculiare fra Dio e gli Aronnici sacerdoti. Ed è di questo patto colla tribù di Levi che si parla in Malachia, ove Iddio dice a' sacerdoti [...OMISSIS...] . Qui parla del comando che Iddio fece a' sacerdoti di occuparsi nel culto di Dio e nelle sacre funzioni. Nè questo patto risguardava solamente le cerimonie esteriori, ma si riferiva al primo patto generale e morale: doveano i sacerdoti cercare veramente la divina gloria (4), esser santi e ministri di santità (5). E però dice: [...OMISSIS...] . Una delle cerimonie della consecrazione sacerdotale consisteva in vestire il sommo sacerdote di abiti che indicavano le virtù che il dovevano ornare. Quattro vesti vestiva; la prima di bianco lino (7), sopra questa la tunica azzurra, atte a significare la perfezione rispetto a sè, cioè la purità della vita significata nella bianchezza, e la grazia divina significata nel color celeste che sopraggiunta all' anima perfezionava la naturale onestà. Le due altre erano l' Efod, e sopra questo il Razionale atte a significare le virtù rispetto al popolo: simboleggiandosi la carità nell' Efod, e la giustizia che il sacerdote dovea amministrare nel Razionale. Per ciò sì nell' Efod come nel Razionale erano scritti i nomi delle dodici tribù che dovea abbracciare colla carità e con una imparziale giustizia. E le due pietre dell' Efod o sopraumerale chiamansi per questo memoriale de' figliuoli d' Israello; poichè la carità non si scorda degli amati (1); e il Razionale dicesi Razionale del giudizio, perchè rammentava quel ragionevole e giusto giudizio che il Sacerdote come primo giudice dovea pronunciare nelle occorrenze del popolo (2). E il Razionale e l' Efod erano congiunti insieme con uncini e catene d' oro perchè dimostrassero che le due virtù della carità e della giustizia non si dovevano mai dividere (3). Sul Razionale poi del giudicio stavano scritte le due parole Dottrina e Verità, significatrici della cognizione della legge necessaria a ben giudicare e della rettitudine del giudice che applica con verità la legge (4). La lamina d' oro poi pendente dalla mitra sacerdotale con su la scritta:« Santità del Signore« dimostra come tutte le virtù discendono dalla contemplazione continua della divina santità (5). E il cingolo cingeva il sacerdote in emblema di quella discrezione onde le virtù si debbono esercitare (1). I sacerdoti avevano parte delle cose sacrificate al Signore, e vivevan con esse. Questo è considerato da S. Tommaso come un altro Sacramento dell' antica legge (2). Egli era una condizione, come abbiamo veduto ed un segno del patto stretto dal Signore con Levi (3). I Leviti erano mantenuti dal Signore cioè colle offerte a lui fatte; e questi cibi ceduti da Dio a' sacerdoti rappresentavano il cibo spirituale e divino onde Iddio nutrisce quelli che sono peculiarmente dedicati al suo culto: il quale cibo è Dio stesso che però si chiama porzione de' sacerdoti. Come adunque l' agnello pasquale e parte delle vittime pacifiche si mangiavano dal popolo ed erano segno del patto onde questo voleva a Dio essere dedicato ed unito; così i cibi sacerdotali erano parimente segno della consumazione o realizzazione del patto speciale onde i sacerdoti a Dio si univano al culto suo dedicati (4). S. Tommaso annovera fra i Sacramenti dell' antica legge anche le purificazioni ed espiazioni legali. Poichè erano cerimonie, le quali appurando l' uomo, lo disponevano al culto di Dio (5). E come erano due i gradi della consecrazione al culto divino, l' uno comune a tutto il popolo che si otteneva nella circoncisione, l' altro speciale de' sacerdoti che si poneva in atto nella ordinazione sacerdotale; come eran due altresì i cibi sacri l' uno comune a tutto il popolo, l' agnello pasquale, l' altro proprio de' sacerdoti, la parte loro spettante delle vittime immolate e degli altri commestibili offerti al Signore; così parimenti corrispondevano a questi due gradi di sacerdozio (1) due maniere di mondarsi e purificarsi, quanto al popolo cioè le purificazioni propriamente dette da certe impurità esteriori, e le espiazioni da' peccati, e quanto a' sacerdoti e Leviti le lavande delle mani e de' piedi e la rasura di tutti i peli del corpo. Laonde volendo or noi riassumere dando uno sguardo generale su questi antichi Sacramenti diciamo: Che due erano i gradi di sacerdozio o di consecrazione a Dio dell' ebraico popolo: il primo de' quali si faceva per la circoncisione, e con esso il popolo prometteva di osservare tutte le leggi morali, giudiciali e cerimoniali da Dio intimate, dando in tal modo a Dio ossequio e culto; il secondo consisteva nella consecrazione de' sacerdoti, e per esso promettevano che oltre di osservare per sè le leggi avrebbero altresì promosso il divino culto in altrui, adoperandosi a porre in atto le esteriori religiose cerimonie, e aiutando il popolo anche al culto interiore coll' ammaestramento nella legge ed eccitarlo ad osservarla. Che a questi due gradi di sacerdozio rispondevano due cibi consecrati, l' uno pel popolo l' altro pei Leviti; i quali cibi erano come una conseguenza di que' due gradi di sacerdozio, una consumazione di quella prima consecrazione e una caparra che voleva Iddio data a quelli che a lui si dedicavano del mantenimento di sue promesse, e del comunicarsi all' umanità che avrebbe lor fatto. Queste comestioni di cibi sacri non erano dunque nuove consecrazioni propriamente, ma una continuazione delle prime; il perchè queste si replicavano; ma le prime fatte una volta, non più era uopo ripeterle. Che finalmente v' avevano le purificazioni ed espiazioni, colle quali pure il popolo, e i sacerdoti a Dio consecrati confessavano la loro indegnità e come erano male acconci al patto di Dio; come anco a questo patto eran venuti meno coll' infedeltà del peccato. Questi perciò convenivano rinnovarsi ogni qualvolta cadevano in peccato o nella immondezza legale; co' quali riti non forma[va]no già una nuova consecrazione di sè a Dio; ma si rendevano degni della consecrazione di sè al Signore, o dal popolo circonciso o da' sacerdoti consecrati. Abbiamo fin qui veduto come cominciò e progredì il patto positivo dell' uomo con Dio. Cominciò colla famiglia di Adamo peccatore e fu violato dagli uomini. Fu rinnovellato colla famiglia di Noè, e i suoi discendenti il violarono di nuovo. Allora fu scelta la famiglia di Abramo, e per segni di questo patto Abramitico furono stabiliti de' Sacramenti più determinati. Il patto con Abramo racchiudeva da parte di Dio delle promesse temporali e spirituali: queste seconde erano le principali e le prime erano figure delle seconde, atte a far intendere agli uomini il prezzo di esse. Iddio pose mano ad effettuare le sue promesse ed ogni passo che diede in ridurle ad effetto fu a lui occasione di rinnovare il patto antico e di stabilire un nuovo segno di questo patto, già in parte da Dio effettuato, affine di restringere vieppiù e consacrare a sè gli uomini colla memoria di ciò che egli fedele al promesso faceva per loro. Così istituì il Sacramento dell' agnello pasquale quando li liberò dall' Egitto per istabilirli nella Cananea promessa nel patto Abramitico; così indusse la consacrazione de' sacerdoti quando al Sinai organizzò il popolo Ebreo in nazione; diede a lui come re un Codice di leggi, stabilì tribunali, e con esso popolo, qual già vera e perfetta nazione, rinnovò l' alleanza e costituì l' aronnico sacerdozio. Nella quale occasione il Sacramento della consecrazione sacerdotale fu istituito a segno e memoria perenne di quel benefizio di Dio e a stimolo dato al popolo di via più promuovere il culto del suo divino dominatore (1). E tutti questi segni del patto che consecrava l' uomo al culto divino procedevano di pari passo, come abbiamo veduto, collo sviluppamento della divina rivelazione e della fede sempre più esplicita degli uomini. Questa fede però mancava sempre della comunicazione all' anima del Verbo, poichè il Verbo non erasi ancor vestito dell' umanità, che è il mezzo ond' egli si comunica agli altri uomini. Perciò la fede si rendeva sempre più esplicita solamente in quanto alla cognizione di Dio ideale ed in quanto a quelle circostanze dell' Incarnazione che a percepirle si chiede altro più che le facoltà naturali. Per ciò poi chè spetta allo spirituale e soprannaturale della fede, questo non l' avevano gli Ebrei comunemente se non implicito nella fede di Abramo; eccetto quei Santi privilegiati a cui dava Iddio delle particolari illustrazioni, attuali il più, e non mai tali che si potesse dire aver essi veramente e abitualmente il Verbo percepito. La natura per ciò di una tal fede implicita nella sua parte soprannaturale o divina esigeva che il patto con Dio stesso fosse esterno e che vi avessero molti esterni segni che di frequente il richiamassero alla memoria degli uomini. Ma posciachè il Verbo s' incarnò, esso Verbo fu comunicato all' umanità tutta. In questo consisteva la consumazione del patto di Abramo; le promesse spirituali di Dio che conteneva quel patto con ciò erano pienamente adempite: le promesse temporali che servivano di sostegno alle spirituali e di caparra cessavano dall' avere uno scopo, come l' armatura e le centine di una fabbrica quando questa è condotta a fine; e anch' esse s' erano già compite. Or come Iddio ogniqualvolta avea eseguito l' una o l' altra delle sue promesse contenute nel patto Abramitico avea rinnovato il patto medesimo cogli uomini, così fece pure quando vestì il suo Verbo di carne umana, adempiendo così l' ultima sua promessa, la massima delle promesse, quella promessa a cui le altre tutte erano ordinate come mezzi e apparecchiamenti e che sola per ciò formava propriamente la sostanza del patto medesimo. Per ciò dice Isaia del futuro Redentore: [...OMISSIS...] . In questo gran fatto pertanto, in cui Iddio da parte sua liberava la sua fede agli uomini, conveniva che quasi chiamando gli uomini loro dicesse così: [...OMISSIS...] . Questo è il patto nuovo che consuma l' antico, la nuova alleanza, il nuovo Testamento. Or hassi a considerare la natura di questo nuovo patto nel quale sta il compimento delle promesse fatte ad Abramo. Col Redentore donato in esecuzione di quella promessa il debito dell' uman genere venne realmente pagato, non fu già dilazionato il pagamento, il che solo otteneva l' antica fede dei giusti che speravano nel Salvatore. Di più il Verbo stesso comunicavasi allo spirito umano, e non era più sola aspettazione di una futura comunicazione. Per ciò l' uomo non parlava già più a Dio per mezzi naturali ed esterni, ma senza alcuno intermediario l' uomo e Dio si abboccavano insieme, per così dire, nella grazia del Redentore. L' essenza adunque del nuovo patto a differenza dell' Abramitico è tutta interiore, egli non si stringe con apparizioni esteriori ed esteriori dimostrazioni di potenza e maestà come sul Sinai; ma sì bene nel segreto dello spirito fu stretto col reale e personale congiungimento del Verbo e della umana natura da prima, poscia colla comunicazione del Verbo agli altri uomini per grazia (1). Tutto l' esteriore adunque nella nuova alleanza è un effetto ed effusione di questa alleanza già stretta e pienamente verificata, e per ciò è cosa questa posteriore, quando l' antiche esteriorità erano anteriori e conduttive all' alleanza medesima. Quindi consegue, che col nuovo patto l' individuo si ricongiunge veramente a Dio. In tal modo l' uomo è ricondotto allo stato primitivo della perfezione morale, nel quale egli era dedicato al culto divino per sua costituzione e lo conosceva senza bisogno di alcun patto positivo ed esterno (1) che glielo ricordasse; egli era per così dire nel culto stesso costituito, perchè il culto era in lui già in atto, perchè in atto era in lui l' unione sostanziale ed intrinseca con Dio: egli la sentiva questa unione, nella quale egli attingeva la similitudine col Creatore (2). Per la ragione medesima il nuovo patto è universale, perchè è nell' interiore dell' individuo che si consuma. Il patto con Abramo potea essere famigliare e nazionale, perchè era esteriore e positivo: potea cioè stingersi col corpo della famiglia o della nazione rappresentata da alcuni: ma nel nuovo, trattandosi che il commercio di Dio coll' uomo avviene nell' interiore dell' individuo, egli è manifesto che a tal fatto l' individuo non può delegare un altro nè essere in modo alcuno rappresentato; ma è solo al tutto opera personale. Ora quello che è personale è anche universale, perchè a ciò è chiamata ogni persona, e non una singola casa od un singolo popolo. Un' altra conseguenza dello stringersi questo patto con Dio nell' interiore dell' anima di ciascun uomo è questa, che un tal patto non ha quel bisogno di un segno esteriore che aveva l' antico; dico di un segno che fosse come solennità essenziale al contratto; sebbene anche il nuovo patto ha bisogno di quei mezzi esterni che il formano, e che sono i Sacramenti di Cristo. Il perchè ai nuovi Sacramenti è più essenziale l' essere mezzi efficaci produttori del patto che di essere segni di lui come gli antichi, i quali niente nell' anima producevano. E se anche significano i nuovi Sacramenti, ciò fanno per la volontà di Cristo, che li ha istituiti, e che ha giudicato ciò conveniente, non già per una loro intrinseca necessità, cioè perchè il patto sia di tal natura che negli esterni segni si assolva. Tuttavia havvi anche un segno necessario del nuovo patto; ma questo è tutto interiore: e come il patto si opera nell' intimo dell' animo così anche il segno suo necessario s' imprime nell' anima stessa (1) ed è ciò che le divine Scritture chiamano or segno, or sigillo, or signacolo, e che S. Agostino chiamò carattere indelebile, e dopo di lui la Chiesa tutta (2). Questo segno interiore che dovea imprimere nell' anima Cristo era adombrato nell' antico tempo e dai Profeti promesso. [...OMISSIS...] Or venendo a ricercare che sia questo segno che Cristo co' suoi Sacramenti imprime nell' anima è uopo a noi rammemorare ciò che abbiam detto intorno alla grazia del Redentore. Questa grazia l' abbiamo deffinita una comunicazione intellettiva del Verbo siffattamente che il Verbo si rivela all' anima, e questa vista del Verbo che l' anima ne riceve è il lume soprannaturale onde cominciano tutte le soprannaturali operazioni. Or la comunicazione intellettiva del Verbo altra è passeggiera, ed altra è stabile per fissa legge e se si vuol così chiamarla abituale. Di più, volendo noi analizzare questa comunicazione, ella si può considerare rispetto all' impressione che lascia nell' anima la qual viene dal Verbo stabilmente informata; o rispetto alla potenza ch' ella suscita o produce nell' uomo; o finalmente rispetto al perfezionamento della volontà a cui la santità si riferisce. Conciossiachè certa cosa è che il Verbo risplendente nell' anima vi imprime la sua forma o similitudine, e questa è quella luce secondo la quale l' uomo che opera soprannaturalmente si guida. E questa impronta del Verbo può dirsi acconciamente sigillo o segno. Ella però non è ancora santità, poichè all' esser tale conviene che la volontà umana a quella luce ubbidisca, o sia almeno pronta ad ubbidire. Or dunque essendo la grazia quella che produce e forma la santità, alla nozione della grazia non basta ogni impressione del Verbo posta unicamente nella parte intellettiva dell' anima; ma conviene che la volontà non ripugni a quella luminosa impressione. Sicchè quella luce del Verbo impressa nell' anima acquista nome di grazia solamente quando influisce nella volontà, ma non allora che in essa non influisce spingendola o movendola alla carità. Or tuttavia l' impressione del Verbo può rimanersi nell' anima ristretta nella sola parte intellettiva di lei eziandio che la volontà ricalcitri e respinga da sè ogni sua benigna e santa influenza. E questa stabile e ferma impressione del Verbo nella sola parte intellettiva dell' anima, a dispetto della volontà perversa che si rifiuta assecondarla, viene appunto operata ne' tre Sacramenti cristiani del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine, i quali con una tale impressione che si opera da Dio per ferma legge senza rispetto alla cooperazione dell' uomo pongono il divino fondamento dell' universo soprannaturale. Or egli è però ad avvertire che congiungendosi il Verbo in tal modo coll' uomo egli ne prende il possesso come di cosa sua, e che la prava umana volontà non impedisce punto che dall' esser nell' anima la luce e l' impressione del Verbo non iscaturiscano nuovi doveri all' uomo e altresì nuovo potere. Egli a cagione di quella unione col Verbo che lo possiede è consecrato al Verbo stesso: nuovo suo dovere è quello di riconoscere il Verbo siccome degno di ogni culto e di darglielo. Epperò quella impressione che ha in sè del Verbo importa il venir egli per essa ordinato e chiamato al culto soprannaturale di Dio. E perciocchè se non avesse quella luce non conoscerebbe quel suo dovere, nè avrebbe virtù in sè di elevarsi sopra all' ordine soprannaturale; laddove riconoscendo egli il Verbo in sè e amandolo come è degno di buona volontà trae da esso Verbo ogni aiuto e grazia maggiore; però convenientemente si può dire che quella impressione, quel segno, quel carattere indelebile di Cristo sia la potenza di culto soprannaturale che all' uomo viene aggiunta coi toccati Sacramenti. E tutto ciò vogliamo ora provar noi coi documenti che ci somministra l' ecclesiastica tradizione. I. Il carattere viene impresso nell' anima dallo Spirito Santo. S. Paolo parlando del carattere dice: « che in Gesù Cristo dopo aver creduto (1) siete stati segnati nel Santo Spirito di promissione« (2). » E altrove dice parlando di questo segnacolo o carattere: « Non vogliate contristare lo spirito di Dio, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (3) » cioè del vostro Battesimo. E` dunque una operazione dello Spirito Santo, secondo l' Apostolo l' impronta che in noi si fa del carattere indelebile. E all' azione dello Spirito Santo nell' anima l' attribuiscono pure costantemente i Padri della Chiesa. Udiamo S. Cirillo: [...OMISSIS...] . Giovanni Grisostomo parimente dice: [...OMISSIS...] . Ove si vede chiaramente espressa la differenza fra il segno esterno del patto stretto da Dio cogli Ebrei, e il segno interno e spirituale de' cristiani. Perocchè non essendo ancor dato innanzi a Cristo lo Spirito Santo non potevano gli antichi Sacramenti imprimere il carattere indelebile de' nostri. Dal che si conchiude che la grazia e il carattere indelebile sebbene cose distinte, come abbiam detto, tuttavia procedono dallo stesso principio, dallo Spirito Santo (.). II. Il carattere è l' impressione del Verbo fatta nell' anima. Ho già dimostrato che è proprio dello Spirito Santo l' imprimere il Verbo nell' anima, il qual Verbo è sempre il termine dell' operazione del Santo Spirito (9). Perciò dice S. Paolo, parlando del carattere battesimale ricevuto da' primi fedeli, che essi erano stati segnati dallo Spirito Santo nel Verbo della verità (10). Perciò il carattere si chiama dai Padri segnacolo di Cristo (11), e gli si attribuisce come suo effetto speciale il configurarci a Cristo. E poichè Cristo, o sia il Verbo è l' imagine del Padre (12) perciò afferma l' ecclesiastica tradizione che nel carattere indelebile riceviamo noi l' immagine di Dio. [...OMISSIS...] Per la medesima ragione avviene che i Teologi dànno allo stesso carattere il nome di Sacramento, appunto perchè è segno di cosa sacra, come quello che è segno e impressione del Verbo (3). III. Il carattere è luce o splendore. Se il carattere è un' impressione del Verbo, come abbiamo dimostrato, forz' è ch' egli sia luce e splendore, perocchè il Verbo all' anima a cui si comunica non è che luce. E questo dice S. Ambrogio nel passo ultimamente recato. Il medesimo insegna l' antico autore dell' ecclesiastica gerarchia: [...OMISSIS...] . Nè questa luce di cui si parla è altro che intellettiva, la qual dà all' anima conoscimento. Per questa osservazione si spiegano chiaramente que' passi de' Padri ne' quali si dice che col Battesimo viene impresso nell' anima il nome di Dio, volendo dire che viene impresso il carattere (2); conciossiachè come abbiamo altrove osservato, il nome di una cosa equivale, secondo la frase scritturale, alla cognizione di quella. IV. Il carattere è nella sostanza dell' anima. E` proprio del Verbo il congiungersi coll' essenza dell' anima intellettiva. E però se il carattere è una impressione del Verbo, come abbiam provato, egli deve aver sua sede nell' essenza o sostanza dell' anima nostra. Questa sentenza si può conciliare con quella di S. Tommaso che ripone il carattere nella potenza intellettiva dell' anima (3); poichè esso carattere si può risguardare da due lati, cioè in quanto segna , e in quanto opera . In quanto opera egli è potenza (e certo che la luce del Verbo impresso nell' animo, non è inattiva); ma in quanto segna (4), egli non è potenza, ma è impressione, una modificazione dell' anima, la qual riceve un lume nuovo, e in tanto giace nella sua essenza (5). Vero è, che la parola carattere nomina propriamente il segno e non la potenza; come pure egli è vero che antecedentemente alla potenza v' ha l' impressione della luce, fondamento e principio della potenza stessa: e però ragionevolmente, dice il Cardinal Bellarmino, toccando le diverse opinioni de' Teologi intorno alla sede del carattere, queste parole: [...OMISSIS...] . Di qui è, che i Concilii di Firenze e di Trento, parlando del carattere, non dissero già che questo sia in alcuna potenza, ma sì bene puramente e semplicemente nell' anima. V. Il carattere distingue il cristiano dai non cristiani. S. Anselmo dice: [...OMISSIS...] . S. Giovanni Grisostomo osserva come i chiamati alla gloria fino a tanto che erano solamente nella prescienza di Dio non potevano conoscersi e distinguersi se non da Dio: come Iddio volle poi anche contraddistinguerli con un segno che li rendesse manifesti alle creature; e presso gli Ebrei questo segno fu esterno e carnale, la circoncisione, ma presso noi fu posto nell' anima stessa, e suggellatovi dallo Spirito Santo (3). Or essendo questo segno invisibile agli occhi della carne, a' quali non luce se non il segno esterno dell' acqua battesimale, manifesta cosa è che l' anima nostra non è distinta da quelle degli infedeli mediante un tal segno spirituale, se non alla vista di quegli esseri che hanno virtù di percepire le anime, i quali sono, oltre Dio, gli Angeli beati e i demonii. E questo è quello che insegnano i Padri, come si vedrà più sotto, ove saranno addotti i luoghi de' Padri che affermano quel segnacolo indelebile dare alle pure intelligenze notizia di quali anime sieno a Cristo consecrate. L' impressione del Verbo nell' anima intellettiva non può essere mai oziosa, e, come dicono i santi Padri, è anzi attivissima in tutte le potenze dell' uomo. Però l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia , parlando del carattere che imprime il Battesimo dice: [...OMISSIS...] . Ma l' azione che esercita in noi il carattere che riceviamo in alcuni Sacramenti, non ha per oggetto solamente gli abiti animali de' quali parla il citato Padre. Egli ha un' attività e produce degli effetti nella parte più nobile dell' uomo; ed è relativamente a questi effetti che pel carattere si aggiunge all' uomo una nuova potenza soprannaturale. Cerchiamo di chiarire la natura di questi effetti, di questa potenza. Due sono principalmente questi effetti; l' uno è l' attitudine che acquista l' anima e il diritto di ricevere o di amministrare gli altri Sacramenti: l' altro è la potenza di partecipare della grazia di Gesù Cristo. Parliamo del primo di questi due effetti. Col carattere indelebile che imprime il Battesimo, l' anima vien posta in tal condizione, che ricevendo gli altri Sacramenti, ella ne possa ricevere tutti i loro effetti. La Confermazione non fa che avvalorare e confermare, come mostra il suo nome, lo stesso carattere nel Battesimo ricevuto (2). Col carattere del Sacramento dell' Ordine poi l' uomo acquista una nuova potenza per la quale egli consacra l' Eucaristia, rimette i peccati ne' Sacramenti della Penitenza e dell' estrema Unzione, e amministra validamente i Sacramenti altresì della Cresima e dell' Ordine stesso. La potenza per ciò che acquista l' uomo relativamente agli altri Sacramenti è passiva od attiva . Passiva è quella del carattere del Battesimo e della Confermazione; attiva poi quella dell' Ordine, onde può l' uomo dare all' altr' uomo con certi riti il carattere e la grazia, o sia [di] amministrare con validi effetti i Sacramenti. Egli è difficile poi il diffinire se questa potenza spirituale che vien data all' uomo in conseguenza dell' impressione del Verbo nell' anima sua sia un effetto spontaneo e necessario di detta impressione come io credo almeno probabile, ovvero sia egli solamente susseguente, senza nesso di causa e d' effetto fra l' impressione del Verbo o carattere e detta potenza, come crede il Bellarmino, che vede in questo come un vero patto positivo fra l' anima e Dio; e però la chiama potenza morale e non fisica. [...OMISSIS...] Noi non veggiamo perchè il carattere non possa toccare il suo effetto, come dice qui il Bellarmino. Che se il carattere è luce del Verbo, fulgente nell' anima (3), chi può limitare la forza di un tale splendore? A quali effetti non può giungere la virtù del Verbo stesso? Però noi non veggiamo improbabile, a ragion d' esempio, che il carattere del Battesimo per un suo spontaneo e fisico effetto renda l' anima capace di ricevere il carattere della Confermazione. A quel modo appunto come nell' ordine naturale, il lume della ragione che sta nell' anima quando nasciamo, ci fa capaci di ricevere qualsivoglia altra cognizione che ci venga da un maestro insegnata; o a quel modo onde il lume primo della ragione, ci fa capaci di riflettere poi sopra lo stesso lume e per essa riflessione renderlo a noi più luminoso. Così nell' ordine soprannaturale, il carattere battesimale è un primo lume, e il carattere della Confermazione è un altro lume che ci sopraggiunge. Come dunque non intenderebbe un discorso pieno di luminose verità colui che non avesse intelligenza, ma quel discorso sarebbe a lui inutile e nulla significante; così invano si opererebbe il rito della Confermazione in chi non avesse ricevuto il Battesimo, poichè questi non sarebbe capace di percepire quel lume maggiore che nel carattere della Confermazione s' imprime. Ugualmente a niuna verità ripugna il credere che, coll' ordine sacerdotale, l' uomo che già pel Battesimo ha il Verbo in sè stesso acquisti una nuova potenza; cioè che il Verbo già impresso nell' uomo operi di guisa che mediante i riti necessarii usati da quest' uomo s' imprima in altrui il carattere della Confermazione, o si dia la rimession de' peccati, o il pane e il vino si consacri. A quella guisa appunto che chi ha la ragione ha altresì una nuova forza volontaria di operare, e di ammaestrare altri che hanno la ragione; così colui nel quale il Verbo diventa operante per la consecrazione sacerdotale, può trasfondere e comunicare in altrui della propria virtù e della propria luce secondo certe leggi e riti dalla volontà di Cristo costituiti. Or dovremmo parlare come il carattere sia anche la potenza della grazia, cioè in qual modo la grazia conseguiti al carattere per natural conseguenza, ove l' uomo colla volontà sua non vi ponga ostacolo. Ma di questo dobbiamo parlare più sotto distesamente; e qui fermiamoci un poco a trarre qualche conseguenza dal vero esposto, che il carattere sia potenza aggiunta all' anima, la quale per esso diviene atta a ricevere in sè gli effetti de' Sacramenti o a produrre questi effetti in altrui. Come nell' ordine della natura l' intelligenza è data all' uomo pel dono della luce dell' essere, così è data all' uomo una intelligenza soprannaturale pel dono della luce del Verbo che costituisce il carattere sacramentale. Come l' aggiungersi a noi la luce dell' essere è un crearci nell' ordine della natura, così l' aggiungere a noi pe' Sacramenti la luce del Verbo è un crearci nell' ordine della grazia. E come tutto ciò che fa Dio per via di creazione non lo distrugge più mai, poichè è egli solo che lo fa, senza il concorso della creatura, secondo ciò che sta scritto: « Non hai odiato nulla di tutto ciò che tu hai fatto« (1), » così nè l' uomo può più perder giammai l' intelligenza (2); nè può perder più mai il carattere, il quale per questa ragione si chiama indelebile. I Teologi della perpetua durata del carattere adducono appunto questa ragione, che egli è impresso in un soggetto incorruttibile, cioè nell' anima (1), la quale ragione ha tutta sua forza ove si tenga la sentenza nostra che egli giaccia nella stessa sostanza dell' anima, la quale viene modificata o piuttosto accresciuta con esso carattere. Di qui ancora s' intende che la generazione spirituale dell' uomo nuovo si fa pel carattere. Rechiamone alcune prove teologiche. Gesù Cristo diceva a Nicodemo: [...OMISSIS...] . Or qui Cristo al nascimento spirituale dell' uomo non richiede altro se non il Battesimo. Non è dunque la grazia che dà questa prima rigenerazione all' uomo, poichè il Battesimo può stare senza l' effetto della grazia, ma è desso il carattere, perocchè questo è un effetto necessario del Battesimo e ne forma la propria natura (3), conciossiachè quando il rito battesimale non imprimesse il carattere ei non sarebbe più il Battesimo di Cristo, ma un altro. Si noti ancora che il nascere non è mai opera della volontà di chi nasce, ma della natura (4). Ora la grazia non si può dare senza che la volontà ne venga piegata al bene dalla sua presenza, e questo è essenziale alla grazia, sicchè la rigenerazione della grazia non si fa mai se non per qualche cooperazione di volontà. S. Agostino da quelle parole di Gesù Cristo prova assai acconciamente che il Battesimo non si può iterare. Perocchè, dice: [...OMISSIS...] . Or su questa maniera di argomentare, che usa il gran Dottore, così ragioniamo:« Non può ripetersi il Battesimo, secondo S. Agostino, perchè è la nascita spirituale, perchè ripugna al concetto della nascita di una cosa o di una persona che ella si ripeta. Or qual è la vera e intrinseca ragione sola adotta dai Concilii di Firenze e di Trento, per la quale il Battesimo non può ripetersi? Non altra che il carattere indelebile (2). Dunque, conchiudo io, il carattere indelebile è quello che forma la nascita spirituale dell' uomo«. In tal modo (vogliam dirlo con sommo rispetto al gravissimo teologo che egli è) noi ci discostiamo dall' opinione del venerabile Bellarmino, il quale nega che sia al tutto solida e concludente l' argomentazione di S. Agostino da noi recata; la quale all' acutissimo Aquinate par anzi degna di collocarsi in primo luogo fra tutte quelle che provano il Battesimo non potersi ripetere (3). E questo scostarsi alquanto che fa qui l' Eminentissimo Bellarmino da due sì gran lumi procede, pare a noi, manifestamente dal non aver chiaro osservato o tenuto presente, come il nascer dell' uomo [cristiano] non sia altro che ricever il carattere del Verbo, trovando anch' egli solidissima la ragione del non potersi iterare il Battesimo nell' indelebilità del carattere (4). Si consideri che sino a tanto che non viene affetta la volontà il lume del Verbo non può chiamarsi grazia. Ora quando questo lume influisce a santificare la volontà prima di fare quest' atto egli irraggia necessariamente l' intelletto, poichè l' intelletto è anteriore alla volontà e la volontà non si piega se non dietro a ciò che è conosciuto. Dunque il lume del Verbo prima di tutto luce nell' uomo in uno stato nel quale non è ancor grazia e questa viene appresso. Ma la generazione è il primo passo onde comincia una persona. Onde la generazione propriamente parlando non si può attribuire alla grazia che appartiene all' uomo generato, ma sì bene alla primissima impressione del Verbo che si chiama carattere. Nè noi neghiamo per questo che possa dirsi generazione spirituale dell' uomo anche il primo ricevere ch' egli fa della grazia per una cotal similitudine. Perocchè come il figlio somiglia al padre, così l' uomo che ha la grazia somiglia a Iddio, e in questo senso Gesù Cristo diceva che gli Ebrei sono figli del demonio. Altra da questa è la figliuolanza di Dio che nasce dall' impressione del carattere. Chiamasi questa figliuolanza, perchè come mediante la generazione l' uomo comincia ad essere acquistando la sostanza di uomo, e però PUO` fare poscia gli atti da uomo; così colla luce del Verbo l' anima riceve la potenza degli atti soprannaturali, e colla sua sostanza è veramente nell' ordine soprannaturale, cioè congiunta al Verbo che l' ordine soprannaturale constituisce. Si può dire che col carattere sia data all' uomo una nuova natura; non so però se una nuova persona; poichè a questa si esige la volontà. Però parmi che col carattere la persona nuova sia già in potenza; ma che colla grazia si tragga quella potenza all' atto; quasi maritandosi la volontà al carattere : due generanti dell' uomo nuovo. Di questa generazione che si opera pel carattere si oda per tanto S. Giovanni Grisostomo. [...OMISSIS...] Or a conferma del detto recherò un bel passo di Ugone da Prato, nel quale questo scrittore ecclesiastico chiaramente attribuisce al carattere la generazione spirituale che nel Battesimo avviene. Enumerando egli le varie differenze che separano il Battesimo dalla circoncisione, venuto alla quarta differenza dice così: [...OMISSIS...] . Farò anche osservare finalmente, come in molti luoghi del Vangelo si rassomiglia Iddio a un padre, il quale ha de' figliuoli scapestrati e perduti, che egli poi anche ricupera. Or di questi figliuoli disubbidienti e ribelli al padre, non si dice però che cessino con questo da essere figliuoli. Ciò si vede principalmente nella parabola del figliuol prodigo, che propriamente è simbolo del cristiano dissipato e partito dalla casa paterna; il quale però è riconosciuto dal padre per suo, appena che a lui ritorna; perchè ha in sè la fisionomia e i segni a' quali il riconosce per figliuolo sebbene in cenci e coperto di lurida sordidezza, pallido e scarno di fame. Anche il battezzato in egual modo, per iniquo che e' sia al Padre celeste, non perde la figura di figliuolo, datagli nella prima generazione coll' impronta dello spirituale carattere e per suo suddito e figliuolo la Chiesa sempre li riconosce (2). Adunque come la circoncisione distingueva e segnava la famiglia di Abramo, così il carattere contrassegna e distingue la famiglia di Dio. Cristo è solo figliuolo di Dio per natura: i battezzati per questo si chiamano figliuoli di Dio, perchè hanno Cristo seco congiunto, perchè alle loro anime è immobilmente annesso il Verbo che costituisce appunto il« carattere« o segno pel quale Iddio gli riconosce essere della sua famiglia, perchè il Verbo innaturato in essi, per così dire, è suo vero figliuolo. In tal modo il Verbo nelle Scritture si chiama anche« SEGNO«. [...OMISSIS...] Nel capo LXVI d' Isaia Iddio parla manifestamente della generazione spirituale degli uomini, e dice alludendo a' tempi della venuta del Messia: [...OMISSIS...] e dopo vien subito a descrivere le glorie e la felicità della Chiesa, e dopo aver detto che le genti verranno e vedranno la sua gloria soggiunge: [...OMISSIS...] . Or questo segno è quel vessillo nominato tante volte in Isaia, cioè il venturo Messia (3). Cristo adunque è quello che« segna« gli uomini colla impressione di sè in essi e in tal modo dà loro l' adozione di figliuoli. Di qui s' intende chiaro perchè si dica da' Teologi, che Cristo non ha il carattere (4). Gli altri uomini hanno bisogno di essere segnati da lui, ma egli che è quello che segna non è segnato da altri, non può aver bisogno di esser segnato: gli altri uomini ricevendo l' impressione di Cristo partecipano la figliuolanza di Dio, ma Cristo è figliuolo di Dio per natura e non ha bisogno di partecipare della detta figliuolanza (5). Laonde quando Cristo è chiamato nelle Scritture« patto« egli si considera in sè come l' oggetto dell' alleanza di Abramo; quando è chiamato « segno« egli si considera ne' Cristiani ne' quali viene congiunto col Battesimo. La circoncisione all' opposto era bensì« segno« del patto; ma non il« patto stesso« come Cristo si appella (6). E quindi ancora apparisce ragione perchè i Teologi chiamino il carattere una consecrazione dell' anima (7). Consecrare una cosa è destinarla al culto divino, deputarla all' onore di Dio, a lui offerirla, acciocchè egli se ne serva a suo piacimento maggiore. Or io dico di più, che questa sola è vera consacrazione: perocchè interiore. Il Verbo stesso prende il possesso dell' anima, e mette in essa la sua fede, e l' anima così è nelle mani del Verbo consegnata. Or tutti i riti esterni non possono che significare la volontà degli uomini di destinare un oggetto qualunque al culto di Dio; ma non valgono a far sì che Iddio veramente ne prenda uno speciale possesso; o certo que' riti non costituiscono questo possesso stesso. All' incontro l' anima, ricevuto il carattere, è così al Verbo unita, che non può più scongiungersi; e però è veramente e perpetuamente al Verbo e dal Verbo consecrata (1). Anche per tal modo ha dato un verace e reale fondamento alla religione: ella non si assolve più in simboli esterni, ma ha per base una vera consecrazione. Di qui ugualmente si vedrà perchè S. Tommaso, seguito da tutti i Teologi, dica, che « i caratteri Sacramentali sono puramente altrettante partecipazioni del sacerdozio di Cristo, da Cristo medesimo derivate« (2). » Il sacerdozio di Cristo non terminava in offerire solamente degli esterni sacrifizii, senza propria virtù; offeriva un sacrificio interno, infinito, che era il massimo atto di culto e l' esaurimento di ogni morale perfezione. Egli avea una virtù propria, infinita, e il suo effetto non potea mancare; lucrava le anime degli altri uomini e le santificava. Questa virtù, che avea Cristo come sacerdote, di placare Iddio e tirarlo per così dire ad abitare nell' anime a cui si applicava l' effetto di quel sacerdozio, viene partecipata ai cristiani e forma il carattere indelebile. Dice il Bellarmino, come abbiamo anche di sopra notato, che in virtù del carattere viene stretto fra l' uomo e Dio un patto, pel qual patto Iddio si obbliga di concorrere alle azioni sacramentali, cioè a dire a tutti i mistici effetti de' Sacramenti (3). Noi abbiamo osservato, che non è propriamente un patto positivo la ragione per la quale Dio concorre agli effetti de' Sacramenti amministrati e ricevuti da chi ha il carattere; ma che la ragione di ciò è la virtù sacerdotale del Verbo impresso nell' animo (1). Perocchè Cristo fece ritornare, come accennammo, la condizione del primo stato d' innocenza, in cui non erano d' uopo de' patti positivi fra l' uomo e Dio (2). Di che Cristo ridusse al suo vero effetto ciò che al popolo Ebreo non era stato che promesso, ed esteriormente in varii simboli rappresentato: cioè di rendere il popolo « un regale sacerdozio, una gente santa« (3), » che viene a dire consecrata al divino culto. Cristo adunque potea solo essere un sacerdote verace, potente di chiamare Dio dal cielo e farlo amico dell' uomo; e di questa virtù sacerdotale comunicò all' uomo comunicandogli sè stesso. Tale è la natura del carattere. Noi abbiamo considerato in primo luogo il carattere in sè stesso, cioè nella sua qualità di carattere, e come tale l' abbiamo diffinito una unione permanente del Verbo colla essenza dell' anima intellettiva, per la quale l' anima percepisce il Verbo e se ne informa. Di poi l' abbiamo considerato come potenza, perocchè questa forma nuova dell' anima le aggiunge un potere soprannaturale che non avea prima; e questo potere la fa atta a due altissime e al tutto divine operazioni, cioè ad esercitare il culto del sacerdozio di Cristo e a partecipare della grazia (1). Abbiamo parlato della potenza che si riferisce agli atti sacerdotali o sacramentali; ora dobbiamo parlare della potenza che si riferisce alla grazia e alla santificazione dell' uomo. L' ordine in che stanno fra loro questi tre aspetti, in cui il carattere può considerarsi, è appunto questo accennato, che prima sta il carattere come carattere dell' anima, di poi viene il carattere come potenza del sacerdozio, e in terzo luogo il carattere apparisce come potenza della grazia. Rispetto all' ordine in che stanno questo due potenze che procedono dal carattere, l' angelico Dottore dice così: [...OMISSIS...] . Qui S. Tommaso mostra di considerare la disposizione o potenza dell' anima ad eseguire le cose appartenenti al culto come una conseguenza del carattere, e però non come carattere stesso: la nozione dunque di carattere, come carattere, precede a quella di potenza. Prosegue poi: [...OMISSIS...] . E in queste parole l' Angelico conferma ciò che abbiamo di sopra dimostrato, cioè, che il culto cristiano essendo principalmente interiore s' immedesima, rispetto a questa sua principal parte, colla santità. Vedesi ancora nelle stesse parole, come il potere di ricever la grazia venga dopo il potere di esercitare gli atti di culto, come il potere di esercitare gli atti di culto viene dopo il carattere preso nella sua propria nozione. Per questo medesimo la grazia è chiamata dal Maestro delle scuole « l' ultimo effetto del Sacramento« (1) » ed il carattere è detto il «« segno della grazia« (2). » Indi è che tutte le scuole convengono nell' affermare che il carattere precede alla grazia (3). Io dirò di più: il carattere precede alla grazia come la causa all' effetto. Questo essere intrinseco pensiero delle scuole cristiane vedesi da ciò, che il carattere si appella da esse concordemente« Sacramento«, nè così potrebbe appellarsi propriamente, ove segnando la grazia, non valesse altresì di sua natura a produrla, perocchè i Sacramenti della nuova legge hanno questo di proprio, che sono segni al tutto efficaci, ove non sia posto alcun obice volontario a questo loro effetto di santificazione. S. Paolo favellando del carattere dice: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (4), » cioè del vostro Battesimo (5). Che vuol dire contristare lo Spirito Santo? Non altro che perdere la grazia colla commissione del peccato. Dunque lo Spirito Santo, nel quale siamo segnati, segnandoci, cioè imprimendoci il carattere, ci avea donata altresì la grazia. Egli è manifesto che S. Paolo in questo passo unisce il carattere e la grazia di una cosa sola, e considera queste due cose come effetti di una sola operazione dello spirito de' quali il principale e fondamentale è il carattere; e non pone che questa differenza fra l' esservi o non esservi la grazia, che nel primo caso lo Spirito Santo che segna l' anima è lieto ed amico, nell' altro caso egli è contristato. Anche in altri luoghi l' Apostolo unisce il carattere e la grazia come venienti dallo stesso fonte dello Spirito Santo, e come effetti di una sola operazione di lui (6). S. Paolo chiama altresì lo Spirito Santo che ci ha segnati, secondo la Volgata, « pegno della celeste eredità , » e secondo la forza della parola greca, « arra della elezione nostra (7): » il che viene a dire parte della gloria futura: giacchè l' arra è parte della cosa promessa che si anticipa in pegno del tutto, e ciò non si può intendere che nella grazia. I Padri della Chiesa tengono la stessa maniera di parlare, S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Qui dà il santo Vescovo per ragione dell' esser noi segnati questa, che un tal segno ci fa possenti a mantenere la grazia; il che mostra appunto come il carattere si possa chiamare la potenza della grazia, cioè la potenza di partecipare stabilmente della grazia del Redentore. In altro luogo dice il medesimo Dottore della Chiesa: [...OMISSIS...] . Qui congiunge al segnacolo spirituale i doni dello Spirito Santo, e mostra come dipende dalla buona volontà nostra il mantenerne gli effetti. Non poteva però far dipendere dalla volontà nostra il mantenimento del segnacolo stesso, che questo santo Padre in più luoghi dimostra al tutto indelebile. Questo segnacolo è chiamato« santo« (3) comunemente da' Padri, il che non sarebbe propriamente detto quando non aggiungesse all' anima alcuna santità. Però un celebre scrittore ecclesiastico dice, che il peccato di un battezzato, è simile a quello di un vassallo che falsificasse il sigillo del principe, e che al carattere indelebile dee susseguire la santità (4). Finalmente osservò che il Battesimo opera in virtù della passione di Cristo, e anche per questa cagione prova S. Tommaso che non si può rinnovare (5). Ora la ragione assegnata da' Concilii del non potersi rinnovare il Battesimo è quella dell' impressione del carattere indelebile. Ciò posto odasi il ragionamento di S. Tommaso: [...OMISSIS...] il che viene a dire, che tolto l' obice del peccato colla Penitenza, la virtù del Battesimo che rimane riproduce nell' anima la grazia battesimale. Ora perchè lo stesso ragionamento non si può applicare al Sacramento della Penitenza? Non per altro, dico io, se non perchè il Sacramento della Penitenza oltre la grazia non produce altro effetto, e però chi pecca dopo l' assoluzione sacramentale perde tutto l' effetto del Sacramento. Non così nel Battesimo, perocchè questo lascia il carattere anche dopo perduta la grazia, e questo carattere è radice sempre viva dalla quale, levato il peccato che la impediva, pullula e fiorisce l' ultimo effetto del Sacramento, cioè la grazia battesimale (1). Lo stesso si dica della grazia del Sacramento della Confermazione e dell' Ordine, che perduta col peccato, risuscita di bel nuovo tostochè il peccato sia tolto: perocchè rimane il carattere, il quale è quel fonte descritto da Gesù Cristo, che pullula un' acqua saliente in vita eternale (2). Il naturale effetto adunque del carattere è di santificare gli uomini colla emanazione di sè della grazia, e quando questa emanazione è impedita dalla perversa volontà, riman però viva nel carattere la potenza di riprodurla. Per questa natural congiunzione colla grazia santificante, di cui il carattere è come un fonte, viene altresì che i Padri attribuiscono al carattere l' essere segno di distinzione fra quelli di cui Cristo ha preso il possesso e fatti suoi, e gli altri da Cristo non posseduti; al qual segno gli Angeli li riconoscono e li difendono dalle nemiche insidie, o li separano e mettono, al tempo della messe, alla parte de' salvi. Di ciò credere v' è fondamento nelle Scritture. Perocchè di Cristo propriamente sta scritto, che [...OMISSIS...] . Ora se il carattere è appunto Cristo congiunto immobilmente coll' uomo nella sua parte intellettiva, ne viene che gli Angeli debbano esercitar quell' officio anche verso dell' uomo così segnato, che è come a dire Cristo per partecipazione. Però S. Basilio coerentemente al parlare delle Scritture dice, che Iddio dà le tessere a chi milita sotto di sè, soggiungendo: [...OMISSIS...] . Però io non vedo come alcuni teologi nieghino di conoscere a figura del carattere indelebile il sangue onde furono segnate le soglie delle porte de' figliuoli d' Israello in Egitto, quando passò l' Angelo uccidente i primogeniti; perocchè anzi non veggo cosa più acconcia di quel segno a significare il carattere di Cristo. Questo carattere viene impresso in virtù della passione di Cristo, per la quale operano i Sacramenti cristiani, ed è segno che difende i segnati dalla morte (1). Nè nuoce alla verità della similitudine, che il carattere non difenda i cristiani peccatori dalla dannazione; perocchè questo è accidentale impedimento posto al carattere, che per sè conseguirebbe indubitatamente quel salutevole effetto. Quindi anzichè con tali teologi, io me ne sto co' Padri più antichi della Chiesa a' quali non isfuggì la manifesta similitudine fra il segno del sangue nelle superliminari imposte degli Ebrei, e il carattere di Cristo ucciso, sulla cima dell' anima che è la sua parte intellettiva. E a conferma di ciò basti questo luogo di Gregorio Nazianzeno sopranomato il teologo per l' eccellente esattezza di sua dottrina: [...OMISSIS...] . Per la medesima ragione a me pare dover intendere del carattere quel T onde Ezechiele (3) predisse doversi segnare le fronti di que' che gemono e piangono, e onde nell' Apocalisse si affermano segnati gli eletti (4). Non è già che il Tau non significhi acconciamente la croce di Cristo, come oppongono quelli che negano esser egli figura del carattere. Ma appunto perchè egli è il segno della croce, sembrami acconcissimo a indicare il carattere che viene impresso in virtù della passione di Cristo (1). E si vorrà sostenere che le fronti di tutti gli eletti sieno improntate di una croce materiale? Il rito del segno della croce usato nella Chiesa non lascia nissuna impronta nella fronte corporalmente presa; ed Ezechiele parla di un segno che rimane nella fronte, scrittovi con inchiostro mistico, non dalla persona segnata, ma da un uomo biancovestito, che si descrive dal Profeta (2) e che si chiama espressamente un Angelo nell' Apocalisse « il quale ha il segno del Dio vivo« (3). » La fronte poi è acconcissima a indicare la parte suprema dell' anima in cui viene impresso il carattere. Solamente si può aggiungere, che il segno di cui parla l' Apocalisse, non è il carattere solo, ma unito colla grazia, poichè è quello di cui sono segnati gli eletti. E per la medesima ragione, onde al carattere gli Angeli conoscono quelli cui difendono, i demonii conoscono quelli da cui hanno a temere: [...OMISSIS...] . S' intende anche da ciò che è detto, perchè i Padri della Chiesa veggano nel carattere una caparra della celeste gloria: egli è quella luce del Verbo che rivelatasi interamente forma la celeste gloria. Spiegando quelle parole di S. Paolo « quegli che ci unse e segnò« (1) » Teofilatto dice, che [...OMISSIS...] . Il carattere, come abbiamo detto, è una cotal percezione del Verbo. Il Verbo lucente nell' anima produce varii effetti, che a due classi si riferiscono: la prima al potere del culto divino che nelle azioni sacramentali principalmente consiste; la seconda nel potere di partecipare stabilmente alla grazia del Redentore, ove non sia posto obice alcuno dalla volontà. Il Sacramento della Penitenza e quello dell' estrema Unzione ha per iscopo di levare dall' anima il peccato che è appunto l' obice che impedisce la infusione della grazia dal carattere di natura sua promanante; però questi due Sacramenti non imprimono carattere, ma lo suppongono. Il Matrimonio è un sacramento la cui essenza consiste in un contratto consumato e indissolubile. Lo scopo è di rappresentare l' unione di Cristo colla Chiesa, e però di santificare l' unione maritale a quel modo che è santa l' unione di Cristo. Perciò egli suppone bensì che ne' singoli contraenti sia già impresso il carattere, fonte della santificazione; ma egli nol dà questo carattere, non avendo un tal Sacramento di mira tanto la santificazione dei singoli in generale, quanto la santificazione dell' atto della loro unione particolare. E come l' unione maritale non è che una unione particolare delle persone, perciò essa non può che aggiunger loro un grado di santità speciale e grazia, ove le persone stesse si suppongano esser già nella grazia. Finalmente l' Eucaristia è l' unione di Cristo all' uomo per via della sua umanità in forma di cibo. Sono i corpi che si congiungono, di Cristo e del cristiano. Ora il carattere risiede nella parte intellettiva dell' uomo e non ne' corpi. Perciò l' Eucaristia non imprime il carattere. Ella è l' ultima finale santificazione dell' uomo che abbia il carattere e la grazia; perocchè come il carattere risiede nella parte intellettiva, così l' Eucaristia opera nella parte corporea e da questi due fonti procede la grazia nel cristiano acconciamente disposto. E avviene per la grazia che nella volontà risiede principalmente, che tutto l' uomo sia santificato tanto la parte spirituale che la corporale. Rimangono i tre Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine che imprimono il carattere, come detto abbiamo, imprimendo il Verbo nell' anima coi descritti effetti. [...OMISSIS...] Di ciascuno de' Sacramenti della nuova legge noi vogliamo parlare del modo ond' egli opera, e degli effetti che produce. Cinque sono i modi di operare de' Sacramenti della nuova legge. Perocchè operano o in modo simile a quello onde opera una medicina, o simile a quello onde opera il cibo, ovvero a quella maniera onde si comunica una potestà, o a quella onde si pronunzia dal giudice una sentenza, o finalmente a quella onde si stringe ed effettua un contratto. Per modo di medicina operano i tre Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell' estrema Unzione, i quali hanno una materia propriamente detta che applicano al corpo umano, come s' applica un rimedio alle corporali infermità, e quella materia è l' acqua del Battesimo e l' olio della Cresima e dell' estrema Unzione: per modo di cibo opera la SS. Eucaristia: per modo di comunicazione che altrui si fa di una potestà opera l' Ordine, nel quale la imposizione delle mani affigura la congiunzione dell' ordinante e dell' ordinato: per modo di giudizio opera il Sacramento della Penitenza assolvendo o ritenendo i peccati: per modo di contratto finalmente opera il Matrimonio che è un sacro contratto fra gli sposi. Poniam dunque mano a trattar brevemente di ciascuno de' sette Sacramenti della nuova legge; e prima del Battesimo, che è principio e porta di tutti gli altri. Non mi sta nell' animo di tenere su questo primo Sacramento del Battesimo lungo ragionamento, perocchè bastano al fine nostro le cose dette qua e là in quest' opera, che raccolte insieme, sufficientemente dichiarano la natura e gli effetti di questo lavacro di rigenerazione. Le raccorremo dunque tutte insieme ordinatamente e brevemente: e con questa recapitolazione ci studieremo di aggiungere qualche nuovo lume alle medesime. Osservammo adunque, che l' umanità di Cristo è il veicolo della santificazione degli altri uomini (1). Però prima che comparisse al mondo questa sacratissima umanità non vi poteva avere compiuta e reale santificazione. « La legge fu data per Mosè, la grazia, la verità fu fatta per Gesù Cristo« » disse Giovanni Battista, il quale confessava di avere ricevuto « dalla pienezza di Cristo« (2). » Il modo onde l' umanità di Cristo comunica la santità all' umanità degli altri uomini, non potea essere che pel contatto delle sue sacratissime carni da cui usciva virtù di sanare non meno il corpo che l' anima (3): purchè in quelli che toccavano il sacratissimo corpo, non vi avesse mala disposizione (4). Il contatto però delle carni sacratissime di Gesù Cristo vivente in questo mondo non potea essere che di pochi; e l' amore di Cristo voleva che la santificazione dovesse potersi comunicare agli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi. A sì grande uopo egli comunicò la virtù che usciva dalle proprie carni a degli elementi materiali, e così istituì i Sacramenti. E questa comunicazione medesima noi crediamo venir fatta mediante un mistico ed ineffabile contatto del corpo glorioso e invisibile di Gesù Cristo cogli elementi costitutivi delle materie sacramentali. Perocchè la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo è tale, che non pur santifica l' umanità degli altri uomini immediatamente al contatto con essa, ma dà la virtù santificante anche a quegli elementi inanimati che ella a sè congiunge e tocca, i quali elementi dagli uomini toccati producono in essi santificazione. Come ciò avvenga, non vogliamo noi perscrutare troppo curiosamente; basti il cenno fattone innanzi (1). Osserveremo solo, che la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo unito al Verbo, era però sempre soggetta e dipendente dalla volontà di Cristo; la quale poteva, secondo ciò che sapienza esigeva, variamente temperarla, raffrenarla, sommetterla a certe leggi e ben parse condizioni (2). Però appena che Cristo fu concepito e che nacque, non tutta si fece manifesta questa stupendissima virtù del suo corpo; parte a dir vero per la disposizione manchevole degli uomini (3), ma parte altresì pel consiglio della sua sapientissima e ordinatissima volontà. Or circa trent' anni si rattenne Cristo all' oscurità della vita privata: poi cominciò il divino suo pubblico ministero. Al cominciamento fu battezzato da Giovanni, e i Padri della Chiesa attribuiscono al contatto delle divine carni la virtù che ricevette l' acqua di mondare le anime degli uomini da' peccati (1). Ma perciocchè solo un po' di quell' acqua ebbe toccato veramente il divino corpo di Gesù Cristo (2); convien dire, che quel primo contatto dell' acqua del Giordano, in cui s' immerse il Redentore, fosse fatto, non tanto a comunicare effettivamente a tutte l' acque che non toccarono in quell' occasione il suo corpo la virtù di mondare i peccati, quanto a dimostrare la grande verità, che dall' umanità sua sacratissima usciva la virtù santificante e comunicavasi alle cose inanimate e materiali; e fosse fatto altresì a determinare il momento, in cui alla volontà sua piaceva di lasciare uscir libera di suo corpo quella virtù, il momento cioè dell' istituzione del Battesimo; e finalmente fosse fatto a indicare e significare il mistico e invisibile contatto reale di suo corpo coll' acque della rigenerazione (3). Nè il Battesimo così istituito traeva meno virtù dal sacrificio della croce, sebbene non ancora consumato. Perocchè un tal sacrificio era già consumato nel cuore di Cristo, i cui patimenti d' infinito valore erano già incominciati. Tuttavia il Battesimo in tal momento istituito dal divino Redentore non produceva ancora tutti quegli effetti, che da lui uscir doveano dopo la venuta dello Spirito Santo. In primo luogo egli non era ancora necessario alla salute, primieramente perchè non era ancora abrogata la legge Mosaica, che rimase estinta solo nella morte di Cristo; poscia perchè non era solennemente promulgata la legge Evangelica, che fu solo il dì della Pentecoste (1). Potrebbesi domandare, se il Battesimo da Cristo istituito, se non alla salute, fosse necessario almeno a riceverne i due essenziali effetti del carattere e della grazia abituale. Rispondo, vivente Cristo, il contatto delle sue sacratissime carni aver potuto a ciò supplire pienamente; quelli però che non erano a Cristo vicini e toccar nol potevano, aver avuto bisogno del Battesimo non alla salute, ma sì al conseguimento in questa vita di quei due mirabili doni. E facendoci più vicini a ricercare la differente virtù del Battesimo di Cristo appena istituito nel Giordano, e amministrato dopo la venuta del Spirito Santo, dico da prima non esser mancato nulla di ciò che appartiene all' essenza del Battesimo di Cristo appena ch' egli fu istituito; perocchè produceva i due effetti del carattere e della grazia. In che il carattere consista, l' abbiamo veduto, e così pure la grazia. E col carattere e colla grazia da lui uscente nasce l' uomo novello, l' uomo soprannaturale (2). Il primo concepimento di quest' uomo si fa mediante il carattere; ma il compimento di questa nascita non si ottiene che per la grazia. Conciossiachè essendo la persona un principio d' azione, e anzi il più sublime principio d' azione che sia nell' umana natura (3), apparisce che in alcun modo può dirsi col carattere nascer l' uomo, ma compiutamente non nascer che colla grazia. Cioè non può negarsi, che tosto che l' uomo riceve il carattere non abbia una nuova potenza in sè medesimo soprannaturale; ma essendo contraria la volontà, non v' ha ancor nell' uomo un principio volitivo soprannaturale, e nel principio volitivo è solo il principio d' azione compito. L' uomo che ha solo il carattere si potrebbe adunque dire aver in sua balìa la potenza di nascere soprannaturalmente, anzichè la nascita stessa (1). Perocchè il principio d' azione soprannaturale dell' uomo non è ancora posto in atto. Solo può essere all' atto ridotto, se la volontà si approfitta della luce del carattere ad operazione soprannaturale (2). Tostochè dunque il Battesimo fu da Cristo instituito, esso fu suo Battesimo, potente a rigenerar l' uomo col carattere e colla grazia. Tuttavia questi due effetti poterono sofferire diverse modificazioni ne' diversi tempi che corsero dal Battesimo di Cristo nel Giordano fino alla venuta dello Spirito Santo nel dì della Pentecoste: ed ecco in che modo. Il carattere è Cristo unito coll' anima, come abbiamo veduto. E Cristo non poteva unirsi coll' anima se non a quel modo in cui veramente si trovava essere. Dunque Cristo ancora vivente doveva unirsi coll' anima vivo; Cristo morto doveva unirsi coll' anima morto; Cristo glorioso doveva unirsi coll' anima glorioso. Nella gloria poi Cristo ebbe due stati, conversante in terra co' discepoli dopo la Resurrezione, e salito al cielo alla destra del Padre invisibile a' viatori e mandante di là lo Spirito Santo. In questi diversi periodi di tempo il Battesimo congiungeva all' anima del battezzato Cristo, in quello stato in cui si ritrovava. Or abbiamo detto, che dalla volontà di Cristo dipendevano gli effetti della virtù ineffabile della sua divina umanità; e che egli moderava e temperava questi effetti ordinatissimamente secondo che esigeva la infinita sua sapienza. E questa sapienza richiese, che a' diversi stati della sua umanità egli riserbasse certi effetti; e però che certi determinati doni e grazie provenissero dalla sua umanità ancora vivente in questo mondo, certi altri scaturissero dalla sua morte; certi dal suo corpo risorto, e finalmente certi dall' umanità sua già posta nell' altissimo trono de' cieli alla destra del Padre. Laonde il Battesimo acquistò virtù successivamente dall' umanità di Cristo a produrre tutti que' diversi effetti. S. Paolo parlando del Battesimo, amministrato a' fedeli dopo che gli Apostoli ebbero ricevuto lo Spirito Santo, attribuisce gli effetti di questo Sacramento appunto ai varii misterii o stati di Cristo. [...OMISSIS...] Qui l' effetto della giustificazione viene attribuito alla giustizia di Cristo senza farsi ancor menzione di sua morte. Prosegue l' Apostolo: « Ignorate forse, che tutti voi quanti siete battezzati in Cristo Gesù siete stati battezzati nella morte di lui?« (2). » Di che trae questa conseguenza. « Noi che siamo morti al peccato in che maniera vivremo ancora in esso?« (3); » attribuendo così alla morte di Cristo l' effetto della perseveranza nella grazia di lui e l' esser morti interamente al peccato. Però il Battesimo dopo la morte di Cristo dovea una virtù maggiore manifestare aggiungendo all' uomo forza di vincere la concupiscenza, che S. Paolo dice crocifissa in Cristo, e tal forza, per la quale l' uomo, che ad essa debitamente risponda, può vivere come morto al peccato, vivendo di una vita al tutto spirituale, secondo ciò che dice l' Apostolo: « Voi poi non siete più nella carne, ma nello spirito« (4). » Come poi dalla vita di Cristo veniva la giustificazione, e dalla morte il fermo proposito di non più peccare; così dalla Risurrezione l' Apostolo stesso deduce l' effetto di una luce maggiore data all' anima, la quale intende e comincia a partecipare le gioie della vita gloriosa. Il qual effetto non potea produrre il Battesimo, se non dopo la resurrezione: [...OMISSIS...] . E dice alla similitudine della sua morte e della sua risurrezione. Perocchè tutto l' operare di Cristo tende mai sempre a render simili i suoi redenti a sè stesso causa esemplare; e però non è credibile cosa che partecipasse ad essi quanto in sè non era proprio pienamente compito. E si osservi come la causa esemplare non è altro che una rappresentazione o effettuazione di ciò a cui altri si dee conformare; è una norma, un' immagine e quasi una pittura originale onde debbono ritrarre le copie. Ciò dunque che Cristo esprime in sè stesso quale esemplare, è ciò che produce volontariamente ne' suoi santi tali cose: nello stato suo viene significato ed espresso quello stato che dee esser prodotto e che produce in questi. Di qui la ragione perchè anche i Sacramenti sieno segni ed espressioni di ciò che producono. Ma ciò che esprimono e significano, non è condotto ad effettuazione se non dal corpo di Cristo, come istrumento della divinità; e però si richiede che lo stato di questo corpo sia acconcio a tali effetti: e questa è la perpetua dottrina di S. Paolo. [...OMISSIS...] Parole che assai acconciamente esprimono come dalla morte di Cristo scaturisca qual proprio effetto la piena vittoria dell' uomo sulla sua concupiscenza: per la qual vittoria l' uomo non pregia più il corpo presente e i desiderii di lui, ma il tiene per morto e alla morte volentieri l' abbandona: il che è quanto dire, proprio effetto della morte di Cristo è il distacco da tutte le cose umane. Della risurrezione all' incontro proprio effetto è l' unione e la percezione sensibile delle cose divine: « Se poi siamo morti in Cristo, crediamo che vivremo anche insieme con Cristo« (3). » Dalla costanza poi della vita nuova di Cristo viene la costanza della percezione delle cose divine. [...OMISSIS...] Alla Ascensione poi di Cristo appartiene lo Spirito Santo che dalla destra del Padre Cristo mandò sulla terra: « Dio è che giustifica, chi è che condanna? Cristo Gesù che è morto, anzi che è risorto, che sta alla destra di Dio, che anche interpella per noi« (1): » cioè che prega e ottiene dal Padre lo Spirito Santo e i doni per gli uomini. E dopo la venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli questo stesso s' infonde nel santo Battesimo. Già abbiamo veduto che cosa voglia dire propriamente l' espressione biblica del « ricevere lo Spirito Santo« (2). » Or a me pare, che con questa dottrina si possa conciliare colla sentenza degli altri Padri quel celebre passo di S. Leone, nel quale questo Sommo Pontefice e accuratissimo Dottore sembra di volere insegnare, che il Battesimo di Gesù Cristo sia stato istituito solamente dopo la sua risurrezione. Secondo noi il sommo uomo volgeva allora nell' animo quell' effetto particolare, che cominciò al Battesimo solo dopo la risurrezione di Cristo, come pure l' istituzione espressa della forma da usarsi nel Battesimo; non precisamente la prima istituzione di questo Sacramento. Si ascolti come parla il santo Dottore e veggasi come le sue parole possano ricevere il significato che noi loro attribuiamo. Egli scrive a' Vescovi di Sicilia, che il dì di Pasqua è il più conveniente ad amministrarsi il Battesimo, e il prova con queste parole: [...OMISSIS...] . Ora perchè mai questa virtù del Battesimo, di cui parla S. Leone, non si può intendere di quella, che anche noi diciamo essersi aggiunta a questo Sacramento colla divina Risurrezione? La specie poi dell' azione nacque al Battesimo dall' aver in quel dì fatta Cristo espressa menzione della forma onde egli voleva che indi in poi il Battesimo suo fosse amministrato, cioè coll' espressa menzione della santissima Trinità. Ma non potea per innanzi amministrarsi ugualmente il Battesimo colla nuncupazione del solo Cristo? il tener ciò non è punto sentenza dalla Chiesa riprovata (4). D' altra parte, egli pare più conveniente, che così passar dovesse la cosa; perocchè il Verbo erasi bensì comunicato agli uomini ma non ancora lo Spirito Santo, come espressamente dice S. Giovanni: « Lo spirito non era ancor dato, perocchè Cristo non era ancora glorificato« (1). » Or non essendo dato ancora lo Spirito Santo, nè per conseguente quella che noi abbiamo chiamata grazia triniforme , pare assai probabile secondo noi, che la Trinità non potesse essere nominata e invocata pel conferimento del Battesimo, ma solo il Verbo; ricevendosi con tale Sacramento allora solo la grazia chiamata da noi verbiforme . Si dirà che lo Spirito Santo non era ancor dato subito dopo la Risurrezione, essendo venuto sugli Apostoli il dì di Pentecoste. Rispondo, che, in questo dì venne [lo Spirito Santo] sugli Apostoli con ogni pienezza, secondo le parole degli Atti apostolici « furono tutti ripieni di Spirito Santo (2) » e ancora «« riempì tutta la casa dove stavano a sedere« (3); » ma che però erasi cominciato dare agli Apostoli subito dopo la Risurrezione, come quando soffiò Cristo verso gli Apostoli, e disse: « Ricevete lo Spirito Santo« (4), » e come allora che disse in presente « ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (5), » volendo significare che già glorioso com' era poteva da sè mandarlo, se non che attendeva di salire al Padre, per mandarlo di là pienamente. Ed è degno di osservarsi altresì, che sebbene agli Apostoli fosse, solo dopo la Risurrezione, ordinato di battezzare tutti gli uomini, e da quell' ora ne avessero ogni potestà, fatti veri e ordinarii ministri di questo Sacramento (6); tuttavia era loro ordinato di aspettare la venuta piena e solenne del Santo Spirito prima che ponessero mano a esercitare un tanto ufficio di battezzare il mondo tutto. Il perchè dopo accordatagli una tale facoltà, Cristo soggiunse però ancora: « Voi poi sedete nella città fino a tanto che siate rivestiti dall' alto di fortezza« (7) » venendo così loro a dire: sostenete però a esercitare questo vostro grande ministero fino a che riceviate lo Spirito Santo, e possiate allora comunicare la pienezza degli effetti del Battesimo. Al quale sentimento pare anco alludere il Redentore, quando chiamò la venuta dello Spirito Santo Battesimo , Battesimo suo proprio, e tutt' altro da quel di Giovanni. [...OMISSIS...] E allora battezzati voi pienamente col Battesimo mio, il potrete conferire anco agli altri uomini; essendo già il cielo apertosi e disceso sul mondo il mio Spirito, onde viene al Battesimo dell' acqua ogni sua forza. Sì, dopo la Risurrezione gli Apostoli ricevettero, come dice S. Leone, la forma del Battesimo che poi si usò nella Chiesa; e la potestà di esercitarlo, essendo da quell' ora costituiti ministri ordinarii di questo Sacramento; ma la ricevettero questa potestà e quest' ordine di battezzare il mondo, perchè ne facessero uso solo dopo il dì della Pentecoste (1). Nè questo toglie punto che il Battesimo di Cristo forse instituito già prima, atto a produrre tutti i suoi essenziali effetti; sebbene poscia vi si aggiungessero degli effetti maggiori e nuovi secondo i misteri diversi che si succedevano e adempivano nel Salvatore. Nè in tal caso era bisogno che il battezzato avanti la morte di Cristo, si ribattezzasse dopo di questa, perocchè egli aveva il germe di tutti gli effetti futuri, i quali venivano in lui sviluppandosi più tardi all' occasione che Cristo mutava di stato e rendeva più efficace il carattere e la grazia già ricevuta (2). Or proseguiamo. Fin qui abbiamo parlato dei diversi effetti del Battesimo corrispondenti agli stati diversi del corpo di Cristo quanto all' ordine della grazia nella vita presente: ora tocchiamo la diversità degli effetti del Battesimo quanto alla futura. Il battezzato che fosse morto prima di Cristo, sebbene non potea essere ammesso alla gloria, perchè Cristo era ancora sofferente in terra; tuttavia dovea a differenza de' giusti morti senza Battesimo ritenere l' impressione del carattere e della grazia di Cristo come nobilissima e gloriosa insegna e certa caparra di futura gloria, e per tal marchio dovea avere una mistica comunicazione con Cristo ancora vivente e di essa non poco godere. Dopo la morte di Cristo poi l' anima battezzata e senza peccato era ammessa alla visione di Dio per la visione del Verbo e dell' anima di Cristo già gloriosa. Imperciocchè Cristo avea finito di patire e meritato tutto: sicchè l' anima di Cristo, scevra oggimai di ogni molestia, abbandonavasi volontariamente nelle delizie della unione ipostatica senz' altro affanno, benchè il corpo non fosse ancora surto alla gloria. L' anima del battezzato però sebbene già beata non dimoravasi per questo in cielo, ma là dove era Cristo, a cui stavasi unita; l' essere in cielo è aggiunta di maggior gloria e felicitazione. Nella parola però detta da Cristo al ladrone: « Oggi tu sarai meco in Paradiso« (1), » questa voce di Paradiso pigliasi per la stessa visione beatifica, venendo a significare che Paradiso è ogni luogo per l' anima che vede Dio (2). Dice però meco facendo conoscere che la beata visione quel ladro acquistavala per la unione con Cristo. Dal corpo poi risuscitato del Redentore il Battesimo acquistava virtù di ravvicinare e risuscitare il corpo degli altri uomini; venendo dato all' anima, con esso il Battesimo, quello spirito potente che ha virtù di aggiungere vita alla materia inanimata, e di cui parla S. Paolo, ove dice: [...OMISSIS...] il quale spirito secondo l' Apostolo rivela, cioè mostra con esteriori segni di gloria quali siano i figliuoli di Dio (4). E qui non sarà utile aggiungere parola del Battesimo considerato come segno. Definizione di S. Agostino è questa: « Sacramento è segno di cosa sacra« (5). » Ma che è poi questa cosa sacra significata ne' Sacramenti? Il Catechismo del Concilio di Trento risponde: [...OMISSIS...] . Si potrebbe anco aggiungere che per la cosa sacra significata ne' Sacramenti si comprende non meno la grazia che il carattere, potendosi anche questo contenere sotto il significato generale di grazia, essendo anche il carattere una grazia o dono gratuito di Dio, e il fonte, come detto è, dell' acqua viva della grazia. Or a significare la grazia non era altra via che rappresentare la causa prossima della grazia e i suoi effetti ; perocchè essa grazia propriamente non può essere effigiata, come quella che niente ha che fare colle sensibili cose. Però l' Eucarestia, a ragion d' esempio, significa ad un tempo il corpo ed il sangue di Cristo commestibile, che è la causa prossima e il fonte di quella grazia che nell' augustissimo de' Sacramenti si contiene, e per esso corpo, sotto la specie di pane e di vino, la grazia nel suo effetto della nutrizione e incorporazione spirituale (2). Applicando la stessa dottrina al Battesimo apparrà chiaramente, perchè egli significhi ad un tempo la morte , la sepoltura e la risurrezione di Cristo; essendo Cristo morto, seppellito e risorto la cagione prossima de' diversi gradi di grazia, che nel Battesimo vengono conferiti: e nello stesso tempo rappresentano la grazia medesima per mezzo degli effetti che in noi produce, configurandoci al nostro esemplare Gesù Cristo. Così appariscono connessi insieme e ridotti ad unità tutti i diversi significati da' Padri e Scrittori ecclesiastici al Battesimo attribuiti (3). Diciamo grazia sacramentale a quella che è proprio e peculiare effetto di un Sacramento. Non è più difficile definire qual sia la grazia sacramentale del Battesimo, dopo tutto ciò che abbiamo ragionato intorno a questo Sacramento. La grazia sacramentale del Battesimo consiste nella comunicazione della vita soprannaturale di Gesù Cristo. Gesù Cristo possiede la pienezza della vita soprannaturale in proprio e per primordiale costituzione a cagione dell' unione ipostatica in lui avverata fra la natura umana e divina. Perocchè la vita soprannaturale consiste nell' unione reale fra l' uomo e Dio (1). Cristo ottenne dal Padre di comunicare della propria vita agli altri col merito della sua passione: l' ottenne per giustizia, e non per grazia. In conseguenza di che nacque ciò che disse S. Giovanni: [...OMISSIS...] . La comunicazione della vita di Cristo agli altri uomini si fa in un modo simile a quello della comunicazione della vita naturale alle particelle inanimate del cibo. Queste particelle non hanno la vita prima d' essere accostate strettamente alle parti vive del corpo, come accade nella nutrizione: accostate nel modo debito alle parti vive, ricevono la vita divenendo carne e sangue vivo. Così abbiamo detto che il corpo di Cristo comunica la vita spirituale a questi uomini che unisce a sè, e la comunica non solo per l' immediato contatto, ma ben anco con dei mezzi, il primo dei quali è l' acqua. Convien riflettere a quello che fu già detto altrove, cioè che quando l' uomo acquista la vita soprannaturale, o visione incipiente di Dio, non nasce già alcuna mutazione in Se stesso, che è immutabile, onnipresente e conoscibile per sè stesso; ma nasce solo una mutazione nell' uomo che acquista la virtù visiva a quel modo come se si desse vita ed occhi ad una pianta in sul pieno meriggio; la qual pianta comincerebbe pur allora a vedere il sole senza che fosse nata alcuna mutazione nel sole. E volendo parlare ancora più accuratamente, dovrebbesi dire, che l' uomo rigenerato soprannaturalmente, riceve non tanto la virtù visiva quanto la stessa visione. L' uomo dunque pel Battesimo s' incorpora a Cristo, secondo la frase consacrata dalla Chiesa, e così partecipa , in Cristo, della visione di Dio che ha Cristo. Che questa incorporazione poi dell' uomo colla umanità sacratissima di Cristo, la quale si opera ineffabilmente nel Battesimo, sia un' unione sostanziale comunicante la stessa vita, e non una unione puramente accidentale, apparisce da quelle diverse similitudini usate da Cristo a significare l' unione di sè coi discepoli suoi. Perocchè ora rappresenta sè come una vite, e i discepoli come tralci che escono dalla vite, onde ricevono la nutrizione e tutta la vegetazione (1); talora egli è il capo di un corpo del quale i discepoli suoi formano le membra (2); altra volta egli è il seme marcito sotterra dalla sostanza del quale sbuccia l' albero rappresentante la Chiesa (3): e non di rado Egli è il cibo che si converte nelle carni e nel Sangue dei suoi diletti; tutte similitudini tolte da unioni sostanziali che avvengono nella natura. Dice ancora Cristo di sè stesso, che egli è la vita (4): di che apparisce, che gli uomini non possono avere la vita se non hanno Cristo, cioè se a lui non sono congiunti in una cosa sola, sicchè una stessa vita sia quella che a tutti si comunica, come una sola vita è quella di un solo corpo, una sola vita è quella che ricevono le particelle del cibo cangiato in carne e in sangue in un uomo vivo. Questa sostanziale e vitale unione adunque degli altri uomini con Cristo si opera nel Battesimo; e innanzi al Battesimo, la vita non è immanente nell' uomo. Abbiamo distinto l' effetto della santificazione dell' uomo, dall' unione sostanziale con Cristo, e abbiamo detto che in questa unione consiste il carattere. Acciocchè questa unione produca la vita compiuta dell' uomo è necessario che influisca a bene sulla volontà dell' uomo, inclinandola e convertendola a Dio. Questo avviene ove la volontà stessa non resista e ponga ostacolo col vigore suo proprio che si chiama libertà. In questo caso, nel quale la volontà ricalcitra (ciò che non può avvenire che nell' adulto) havvi nell' uomo la potenza, il principio, il germe della vita (l' unione sostanziale): ma non la vita nel compiuto suo atto, che solo nella volontà del bene si spiega. Dato adunque il carattere o unione con Cristo, primo effetto del Battesimo, potendo questo produr fuori le sue conseguenze, avviene: 1. La remissione del debito dell' uomo con Dio, quello del peccato originale, e quello del peccato attuale commesso avanti il Battesimo. Questo è ciò che si chiama nelle Scritture la morte dell' uomo vecchio (1). 2. La inclinazione buona della volontà proveniente da una luce nell' intelletto, nel che consiste propriamente la grazia positiva santificante. Questo è ciò che nelle Scritture suol dirsi la risurrezione dell' uomo nuovo (2), e che da' Padri è attribuita allo Spirito Santo. Questa prima grazia santificante, abituale, immanente nell' uomo è adunque la grazia sacramentale del Battesimo. Questa grazia del Battesimo differisce dalle grazie attuali e transeunti principalmente per la sua immanenza nell' uomo; perocchè essendo stabilmente dato all' uomo il fonte della grazia (il carattere), anche la grazia che da quello rigurgita è continua, ove ostacoli non vi si frappongano. Questa grazia battesimale è triniforme per le ragioni dette: i vestigi della Trinità che mette nell' anima sono: 1. un sentimento di Dio in Cristo (forza infinita), 2. una luce intellettiva, e 3. un amore al bene: tre elementi contemporanei dello stato di santità in cui l' uomo viene costituito. E qui ci sia permesso aggiungere a conclusione di quanto esponemmo sul Battesimo la dichiarazione di quel celebre passo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Quanto ne pare a me, questo passo risguarda il Battesimo. S. Giovanni parla di quelli che sono nati da Dio, e dice: « Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo« (3). » Ora secondo la dottrina cattolica, l' uomo nasce da Dio pel Battesimo. Il nascimento dell' uomo pel Battesimo poi si fa mediante la fede che viene infusa nel Battesimo (4); cioè mediante quel lume datoci nel Battesimo, per lo quale noi cominciamo a percepire Iddio, e veggiamo che è degno di fede, e a lui crediamo e aderiamo colla nostra volontà. Quindi soggiunge S. Giovanni: « E questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede« (1). » Ma qual è l' oggetto immediato della nostra fede? Abbiamo veduto che nel Battesimo l' uomo viene congiunto immediatamente a Cristo, e per Cristo a Dio. Per ciò S. Giovanni proseguendo a dichiarare la nostra fede che vince il mondo ne fissa l' oggetto appunto in Cristo, dicendo immediatamente: [...OMISSIS...] . Ma resta a cercare: come è poi che Cristo si congiunge con noi, si fa sentire a noi, e così diviene l' oggetto immediato della nostra fede? Egli è qui che S. Giovanni tocca i mezzi adoperati da Cristo per congiungersi a noi, e dice che furono tre; cioè: 1. il suo sangue, pel quale si acquistò dall' eterno Padre il diritto e la piena libertà di poter comunicare agli uomini la percezione di Dio che era in lui piena e compita; 2. l' acqua che egli scelse perchè fosse il veicolo onde passasse negli uomini la vita soprannaturale; e finalmente 3 lo Spirito Santo che al tempo stesso che l' acqua monda il corpo viene infuso nell' anima di chi è battezzato. Descrive adunque S. Giovanni il modo onde Cristo produsse negli uomini la fede in lui: [...OMISSIS...] . Queste ultime parole spiegano la connessione del discorso di S. Giovanni. Lo Spirito testifica che Cristo è verità: è quanto dire, che Cristo è degno a cui si creda. Perocchè se noi veggiamo la verità, noi non possiamo a meno di crederle; sicchè per infondersi in noi la fede verso Cristo Gesù, basta che infonda in noi quel lume pel quale veniamo a conoscere che egli è la verità. Dice poi: Non nell' acqua sola; perocchè l' acqua sola non basta a salvarci; ma dovea ricevere la sua virtù dal sangue di Cristo, altrimenti sarebbe stata come l' acqua di S. Giovanni Battista o de' Battesimi dell' antica legge: conciossiachè Cristo solo coll' aver patito e sparso il suo sangue, come detto è, si acquistò dal Padre la signoria del genere umano. Ma il Battesimo non c' infonde solamente la grazia verbi7forme, cioè quella che ci fa conoscer Cristo; ma sì bene la grazia triniforme, come abbiamo veduto; conciossiachè in Cristo conosciamo il Padre che è principio di lui, e da Cristo riceviamo lo Spirito Santo, che procede dal Padre pel Figlio. Così la nostra mente è irraggiata da un trino raggio, il quale vieppiù ci attacca a Cristo, dal quale a noi venne. S. Giovanni adunque distingue quelli che non sono ancora rigenerati da quelli che già hanno avuto la soprannaturale generazione. Quelli che già sono generati e nati di Dio, avendo in sè la grazia triniforme, sono confermati da essa nella loro fede e unione con Cristo; ma quelli che non sono ancora rigenerati col Battesimo non possono esser condotti alla fede e all' unione di Cristo se non dall' acqua del Battesimo, che per la virtù del sangue del Redentore comunica loro lo Spirito. Per indicare i primi, usa S. Giovanni, secondo lo stile delle Scritture, la parola cielo , e per indicare i secondi usa S. Giovanni la parola terra e dice così: « Poichè tre sono quelli che danno testimonio (a Cristo) in cielo » (cioè nelle anime rigenerate dal Battesimo), «il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre sono una cosa. E tre sono quelli che dànno testimonio (a Cristo) in terra » (cioè agli uomini non ancora rigenerati dal Battesimo), «lo spirito e l' acqua e il sangue, e questi tre sono una cosa«, » o come dice il greco, sono volti a un solo fine (1). E chi ha meditato sulla lingua enigmatica delle Scritture, non troverà difficoltà alcuna sull' interpretazione de' vocaboli cielo e terra , il primo de' quali è spiegato da Cristo, come abbiamo detto altrove, quando disse che è il trono di Dio, e nissun trono ha Dio migliore delle anime sante; e così pure la voce terra , quando disse che è lo sgabello de' suoi piedi, similitudine tolta da' re d' Oriente, che facevano servire di loro sgabello il dorso de' principi captivati in battaglia e fatti schiavi, a cui ben si assomigliano gli uomini non rigenerati che servono colla loro soggezione alla maestà di Dio. Si consideri che sarebbe assurdo, se non erro, interpretare la parola cielo per lo stato de' beati, quasichè nella vita presente la Santissima Trinità non desse nessuna testimonianza a Cristo, quando anzi Cristo stesso adduce, parlando agli Ebrei, la testimonianza che gli rende il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo (1), e adduce contro essi il testo della legge, che « nella bocca di due o tre testimonii sta ogni parola« (2). » Conchiude poi S. Giovanni, che « chi crede nel Figliuolo di Dio » (cioè che è unito a lui nel Battesimo) «ha il testimonio di Dio in sè« » (cioè ha il testimonio in sè della Santissima Trinità) (3). E spiegando vieppiù la natura di questa testimonianza interiore, dice che per tale testimonianza si sente che Iddio ci ha dato la vita eterna (la quale comincia nel Battesimo), e che questa vita è nel suo Figliuolo, il quale disse di esser la vita; sicchè la vita nostra soprannaturale non è che una partecipazione della vita divina di Cristo. [...OMISSIS...] Quanto poi a' Battesimi di sangue e di desiderio essi non sono Sacramenti. E sebbene convengano col Sacramento del Battesimo nell' effetto che apportano all' uomo di salvarlo, tuttavia essi differiscono principalmente nel modo onde lo salvano. Conciossiachè il martirio e il voto del Battesimo non hanno loro effetto fino a tanto che l' uomo vive; giacchè fino che vive egli non è ancora martire, nè ancora è impossibile ch' egli venga battezzato. Perciò questi due mezzi di salute non possono imprimere nella vita presente il carattere indelebile che imprime il Battesimo, e non incorporano l' uomo ancor vivente abitualmente e stabilmente con Cristo; sebbene quest' uomo possa ricevere da Dio delle grazie attuali anche prima d' avere consumato il martirio, o comechessia prima di essere passato all' altra vita. Tutto ciò che abbiamo detto dimostra, il Battesimo produrre due effetti nell' uomo, l' uno negativo, cioè la remissione del debito del peccato, e l' altro positivo, cioè l' incorporazione con Cristo, e la partecipazione della sua grazia. E sebbene questo secondo sia il proprio ed immediato effetto del Battesimo, e sia il primo una conseguenza di questo che incontanente avviene; tuttavia niente ci proibisce di considerare l' effetto negativo e poscia il positivo, giacchè relativamente all' uomo che viene perfezionato e all' ordine di idee, prima viene il toglimento del peccato, e poscia il dono della grazia. Così anche l' Apostolo prima pone per effetto del Battesimo la morte dell' uomo vecchio, e appresso la risurrezione del nuovo. Or però l' efficacia del Sacramento del Battesimo ha quel limite che gli ha voluto p“r Cristo nella sua instituzione: limite che è determinato dallo stesso suo fine. Il fine di lui è l' incorporazione dell' uomo con Cristo, come detto è. Or convien distinguere l' incorporazione, o l' unione dell' uomo con Cristo, e le conseguenze che procedono a bene dell' uomo da tale unione; come si dee distinguere il seme dalla pianta che esce da quello, e la generazione del corpicciuolo d' un bambino, dall' incremento che succede dopo la generazione. V' ha adunque un effetto essenziale nel Battesimo, e v' hanno molti effetti che procedono da quel primo. A spiegar meglio la cosa conviene considerare la costituzione dell' uomo. Questo è un essere semplice, ma delle molte sue parti che formano la sua natura, una sola è quella che costituisce la base della sua personalità (1). L' effetto essenziale del Battesimo risguarda la personalità dell' uomo, come abbiam detto, cioè unisce la parte più nobile dell' uomo con Dio, e crea in tal modo un uomo nuovo: gli altri effetti che sortono da questo primo, sono quelli che santificano le altri parti dell' uomo stesso costituenti la sua natura. Mediante questi effetti successivi, che escono tutti come da loro radice dall' effetto primo ed essenziale del Battesimo, la formazione di questo si completa nell' uomo, e l' uomo acquista diverse virtù ed attitudini. Or in che maniera ciò accade? In due maniere, cioè o per operazione dell' uomo o per operazione di Dio. E veramente quando Iddio è unito coll' uomo mediante il Battesimo, l' uomo possiede in sè stesso un tesoro di cui può più o meno usare e cavar profitto secondo il libero arbitrio che possiede. Imperocchè l' unione stessa con Dio lo fa atto agli atti soprannaturali e a meritar soprannaturalmente. E prima ancora di ricevere il Battesimo, l' uomo può avere la volontà più o meno disposta a cavarne profitto, o sia che s' intenda di grazia attuale che talora Iddio concede straordinariamente anche ai non Battezzati, o sia che s' intenda d' una disposizione negativa, cioè alienazione dal peccato. Però i Teologi insegnano, che i Sacramenti conferiscono ex opere operato una grazia ineguale a quelli che sono inegualmente disposti: della qual tesi Onorato Tournely dà questa ragione: [...OMISSIS...] . Si accresce dunque la santificazione che all' uomo nasce dal Battesimo per la cooperazione dell' uomo stesso. Ma dicemmo ch' ella s' accresce ancora per l' opera di Dio, mediante la quale Iddio s' unisce all' uomo e agisce in lui più intensamente, avvolgendo in tale operazione e avvalorando le altre potenze dell' uomo. E questo avviene negli altri Sacramenti, i quali lavorano sul fondamento postosi nel Battesimo, e compiscono l' edifizio spirituale: di che s' intende, perchè si dica che il Battesimo è la porta degli altri Sacramenti, e perchè gli altri Sacramenti non producono verun effetto in chi non è battezzato: conciossiachè il lor fine è solo di perfezionare ciò che il Battesimo comincia, e di dedurre in più copia acque salutari di grazia da quella prima sorgente che secondo le profezie doveva innondare e mondare tutta la terra (2). Or come due dicemmo essere gli effetti del Battesimo, negativo l' uno, cioè la remissione del debito, e positivo l' altro, cioè la percezione di Dio; così da prima veggiamo essere istituiti due Sacramenti volti a condurre a perfezione questi due effetti. Questi due Sacramenti sono l' estrema Unzione, che rimuove dall' uomo le reliquie de' peccati, e la Confermazione che aumenta la grazia ricevuta nel Battesimo, e rende per così dire adulto l' uomo nuovo uscito bambino dal battesimale lavacro. Tutti e due questi Sacramenti si effettuano con una unzione, quasi medicina all' umana infermità. Tutti e due ne' loro effetti influiscono anche sul corpo, o certo sulle potenze inferiori della natura umana; il primo alleggerisce fin anco il fisico morbo che aggrava l' infermo: il secondo infonde all' uomo coraggio, il quale dipende in gran parte dalla fisica disposizione, conciossiachè il timore è anche passione animale. E veramente il Battesimo non è istituito, come fu per noi detto, se non a fine di santificare la punta dell' anima, la facoltà suprema, producendo nell' uomo una nuova personalità: egli però non rigenera il corpo, nè le potenze inferiori. Queste dunque aveano bisogno di essere confortate e munite colla grazia di altri Sacramenti: e assai acconciamente questi doveano poter conferirsi in forma medicinale, quasi per sanare una infermità. E l' olio era idoneo a rappresentare una medicina. Or parleremo a suo luogo dell' estrema unzione, cominciando qui a dir qualche cosa della Cresima. Della quale dimostreremo in primo luogo com' ella renda adulto l' uomo uscito bambino dal Battesimo, che cosa sia quell' infanzia spirituale, che cosa questa età perfetta; al che tosto poniam mano. Abbiamo mostrato, che in due modi si comunica la grazia del Redentore: l' uno per l' immediata comunicazione del Verbo: l' altra per l' immediata comunicazione dello Spirito Santo. Il Verbo si percepisce quando esso si comunica con un' azione diretta all' anima. Lo Spirito Santo è quello che muove la riflessione ed opera mediante operazione riflessa dell' anima medesima. Questo noi l' abbiamo osservato là dove dichiarammo quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Parlò dunque primo il Verbo; lo Spirito Santo suggerì di nuovo le cose dette dal Verbo; e suggerendo le cose che altri ebbe già udite, questo non è che un muovere vivacemente la riflessione sopra le cose udite. Lo Spirito Santo adunque a cui Cristo attribuisce di suggerire le cose da lui insegnate, opera mediante la riflessione dell' anima, dando però a questa riflessione una vista soprannaturale. Ora il Verbo aveva impresso sè stesso nell' anime de' suoi discepoli col suo aspetto sensibile, che avea virtù, come dicemmo, d' illuminar soprannaturalmente l' anima, e colle sue parole, e così avea dato a' suoi quella grazia che chiamasi Verbiforme, colla quale l' anima percepisce immediatamente il Verbo. Tutti due questi mezzi dell' aspetto di Cristo e delle sue parole sono indicati da Cristo stesso nel colloquio ch' egli tenne con Filippo. Alla chiara intelligenza del qual colloquio non è bisogno che d' una sola avvertenza, e tutto si rende chiaro; e questa è che la persona del Verbo non si conosce se non conoscasi la relazione di generato e di generante che ha col Padre: perocchè questa relazione è quella che costituisce la distinzione di una persona dall' altra. Or si odano le parole di Cristo. Dimandato da Filippo che gli volesse mostrare il Padre, risponde: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre« (2). » Nelle quali parole tocca il primo mezzo, cioè il suo aspetto visibile che avea virtù di far conoscere il Verbo, e però il Padre, giacchè l' una persona senza l' altra non si conosce. Tocca poi il secondo mezzo, che era la virtù delle sue parole, dicendo: « Non credete che io sia nel Padre, e il Padre in me?« » che viene a dire: Non conoscete il Verbo e conseguentemente il Padre? [...OMISSIS...] E alle parole aggiunge un terzo mezzo, che erano le sue opere, dicendo: « Se non altro credete per le stesse opere« (4); » una delle quali opere erano i Sacramenti. In questi modi adunque il Verbo imprime sè stesso nell' anime, dando loro a vedere la propria luce divina rifulgente nel suo aspetto, nelle sue parole e nelle sue opere. Ma tutto ciò ancora prima che lo Spirito Santo fosse dato personalmente. Che cosa rimaneva dunque a fare allo Spirito Santo? La luce del Verbo era la luce prima che riceveva l' anima. Su questa luce doveva riflettersi, e con un occhio al tutto spirituale vagheggiandola, innamorarsene, e sempre più penetrarne l' intima forza e bellezza, e in tal modo ridurla all' uso pratico. Ella è questa l' opera dello Spirito Santo nell' anime (1), di cui parla sì lungamente Gesù Cristo nei capitoli XIV e XV di S. Giovanni. Dopo aver parlato Cristo della cognizione di sè e del Padre egli aggiunge, che questa dee essere operativa, che dee consistere nell' amore e nell' osservanza de' suoi precetti: [...OMISSIS...] . Ma in qual modo chi crede in Cristo potrà far le opere fatte da lui? « Perchè, dice, io vado al Padre«, » a mandar lo Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, e darà a voi un altro consolatore che rimanga con voi in eterno« ». Questo consolatore 1 farà conoscere il Verbo più vivamente; 2 renderà operativa questa cognizione. « In quel giorno (nel quale riceverete lo Spirito Santo) voi conoscerete che io sono nel Padre«: » ecco la cognizione del Verbo per l' impressione fattale dallo Spirito Santo: « e voi in me, ed io in voi«: » ecco la riflessione che lo Spirito Santo ci fa fare sopra noi stessi, e ci fa intendere come noi siamo nel Verbo, e il Verbo in noi: « Chi ha i miei comandamenti e gli osserva, quegli è che mi ama«: » ecco la pratica osservanza de' comandamenti procedente dallo Spirito Santo. « E chi mi ama, è amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò a lui me stesso«. » Dice manifesterò a lui me stesso, perocchè è egli che manda lo Spirito Santo che lo manifesta, lo manda in maggiore copia quanto è più l' amore. E dice che sarà amato dal Padre suo, perocchè anche il Padre suo manda lo Spirito Santo colla medesima spirazione, sicchè dice anche di poi, che « lo Spirito della verità, che dal Padre procede, darà testimonianza di lui« (2). » Sicchè lo Spirito Santo rende luminosa, esplicita, possente e operativa nell' uomo la vista del Verbo, appunto a quel modo come nell' ordine della natura la meditazione e la riflessione aggiunge luce, distinzione, consapevolezza maggiore, e potenza di muover l' uomo ad operare il pensiero spontaneo e diretto. Di tutte queste cose abbiamo già altrove più a lungo ragionato. Or venendo al proposito nostro sarà facile diffinire in che consista propriamente quell' infanzia spirituale che viene attribuita all' uomo appena uscito dall' acque del Battesimo, e per la quale il progresso della vita spirituale ne' Sacramenti viene paragonato al progresso della vita naturale (3). L' uomo è nell' infanzia spirituale, quando sebbene abbia ricevuto il Verbo nella parte suprema dell' anima; tuttavia gli manca ancora lo Spirito Santo, che quella luce del Verbo maggiormente discopra ed imprima nell' anima stessa, e la faccia operare in tutte l' altre potenze, rendendo l' uomo per essa robusto e valoroso a poter anche resistere agli assalti degl' inimici. Or il Battesimo ha di proprio, come abbiam detto, di congiungere l' uomo a Cristo invisibilmente, e di fargli percepire il Verbo; all' incontro è proprio ed essenziale effetto della Confermazione il dare lo Spirito Santo. Perciò egli è proprio del Battesimo far nascere l' uomo spiritualmente, ma egli è ancora nell' infanzia; è proprio della Confermazione il renderlo adulto « alla misura dell' età della pienezza di Cristo« (1). » E che cosa è la pienezza di Cristo se non la pienezza dello Spirito Santo? Il principio adunque dell' operazione battesimale è Cristo o il Verbo; il principio all' incontro dell' operazione del Sacramento della Cresima è lo Spirito Santo: il termine sì dell' una che nell' altra operazione è sempre il Verbo. Confrontiamo con questa dottrina i passi delle Scritture e della tradizione, e troveremo quanto sieno coerenti tra di sè e consentanei alla medesima. Primieramente la teologia cattolica insegna che nel Battesimo l' uomo spirituale nasce, ma è ancora bambino (2), il quale, cresce e si fa adulto nella Confermazione (3). Spiegando poi la natura di quest' ultimo Sacramento essa dice che è quello che conferisce all' uomo lo Spirito Santo. Si deve dunque conchiudere che il ricevimento dello Spirito Santo, che s' ha mediante il Sacramento della Cresima, è ciò per cui l' uomo spirituale diviene da pargoletto grande e perfetto. Proviamo prima che alla Confermazione si attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale. Al che in vece di molti testimonii ci valga colui che si può chiamare il Teologo per eccellenza, e l' abbreviatore della cristiana tradizione. Egli attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale alla Confermazione, come il nascimento al Battesimo in questo modo: [...OMISSIS...] . Proviamo di poi che alla Confermazione si attribuisce il conferimento dello Spirito Santo ad esclusione del Battesimo; il che dimostra che nel Battesimo propriamente vengono conferiti de' doni del Santo Spirito, anzichè il Santo Spirito medesimo. S. Paolo chiama i confirmati « quelli che hanno gustato il dono celeste, e che sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo« » a differenza de' battezzati che li chiama solo « illuminati« (2). » Negli Atti degli Apostoli si distingue fra l' essere battezzati, e l' aver ricevuto lo Spirito Santo, anzi si dice espressamente, che ne' battezzati lo Spirito non era ancor venuto, e che fu mestieri confermarli acciocchè venisse in essi (3). Quando adunque si parla dello Spirito Santo in questo modo, per esclusione del modo onde viene col Battesimo, convien dire che nella Cresima sola lo Spirito Santo venga personalmente , mentre nel Battesimo viene con alcuni doni ed effetti e non colla persona (1). Altramente non reggerebbe la proposizione che « ne' battezzati lo Spirito Santo non era venuto«. » Ben è vero però, come fu detto, che se lo Spirito Santo vien dato nella Confermazione, ciò nasce in conseguenza del Battesimo, che ha resa questa venuta possibile, e ne ha messo il principio. S. Cornelio parimente (2) in una lettera a Fabio Antiocheno, parlando di Novato che in una infermità avuta avea ricevuto il Battesimo ma non la Confermazione, dice: « In che maniera potè ricevere lo Spirito Santo, se non ebbe questo signacolo (3) della Confermazione?« » colle quali parole viene a negare che lo Spirito Santo (cioè la persona) nel Battesimo si conferisca. Finalmente questo è parlare di tutta la tradizione, che amministrare il Sacramento della Cresima venga detto un darsi lo Spirito Santo (4). Se adunque d' una parte il Sacramento della Confermazione è quello che conferisce lo Spirito Santo ad esclusione del Battesimo, cioè in un modo pieno e personale, e se d' altro lato questo Sacramento è quello che rende adulto l' uomo spirituale, convien dire per giusta illazione, che l' età adulta, nel linguaggio cristiano, significa la partecipazione del Santo Spirito, e l' infanzia significa quello stato dell' uomo in cui è ben nato per l' unione del Verbo, ma non ha ricevuto ancora la grazia spiriti7forme. Ma a provar maggiormente la verità di questa dottrina, rechiamo in terzo luogo quei passi de' venerabili scrittori antichi, ne' quali non si dice già solo l' una di queste due cose staccata dall' altra, cioè o che la Confermazione renda l' uomo adulto e perfetto, o che la conferisca il Santo Spirito; ma ambedue si affermano nel tempo stesso, attribuendosi appunto allo Spirito Santo il perfezionamento dell' uomo rigenerato. Ho già detto che il Santo Spirito da' Padri greci massimamente si chiama « virtù o forza perfezionatrice« (1), » appunto perchè a lui appartiene di perfezionar l' uomo spiritualmente. S. Clemente Papa I dice, che niuno può essere « perfetto cristiano« » se oltre il Battesimo non abbia ricevuto nella Confermazione la settiforme grazia dello Spirito (2), attribuendosi così al ricevimento del Santo Spirito la perfezione del cristiano. S. Cirillo di Gerusalemme deduce dal Crisma il nome del cristiano, e dice, che non si può in certo modo nè pur dire che alcuno sia cristiano se non ha ricevuto lo Spirito Santo coll' unzione della Cresima (3). S. Urbano nella sua lettera decretale dice espressamente, che ciò che ci rende pieni cristiani è lo Spirito Santo che noi riceviamo dopo il Battesimo per l' impostazione delle mani dei Vescovi (4). Nell' antichissimo Concilio Eliberitano dicesi, che è necessaria al battezzato l' imposizione della mano del Vescovo, acciocchè egli si possa perfezionare (5). [...OMISSIS...] Egli è poi questa dottrina medesima, che allo Spirito Santo attribuisce la perfezione dell' uomo cristiano, con istile sublime esposta in più luoghi del celebre e antico libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Vi si legge, a ragion d' esempio, chiamata « perfezionatrice« » quella unzione che si usa nel Sacramento della Cresima (2), la si dice quella che congiunge al divino Spirito le cose che debbono esser perfette (3), e così « compisce la divina rigenerazione (4). » Vi si legge pure che «« il segnacolo di quell' unguento fa partecipe della comunione sacratissima« (5), » la qual comunione sacratissima è quella del Santo Spirito. [...OMISSIS...] ; le quali ultime parole si osservi che non sarebbero state necessarie ove non si parlasse della comunicazione della persona stessa del Santo Spirito; ma trattandosi della comunicazione dello Spirito, era convenevol cosa notarsi, come fa questo acuto scrittore, che lo Spirito Santo comunicandosi a noi, non sofferiva però alcuna mutazione nella sua divina natura. Finalmente addurrò ancora S. Cipriano, il quale alla Cresima ad un tempo attribuisce e il conferimento dello Spirito Santo, e l' essere il cristiano consumato e perfezionato col signacolo del Signore (.). Da tutti i quali luoghi apparisce, come la perfezione, e però l' età adulta, del cristiano consiste nel ricevimento del Santo Spirito, e che il Sacramento della Cresima fa crescer l' uomo spirituale all' età adulta che infonde lo Spirito Santo. E perchè è cosa molto notevole a ben intendere le Scritture e le Tradizioni quella distinzione fra il ricevere lo Spirito Santo in qualche suo dono particolare, ciò che avviene nel Battesimo, e il riceverlo nella stessa persona, io mostrerò ancora con qualche passo degli ecclesiastici scrittori che nella Confermazione si riceve personalmente, e non solo ne' doni suoi. E da prima ho già osservato, che provano questa dottrina tutti que' luoghi de' Padri ne' quali si dice che lo Spirito Santo si riceve nella Cresima ad esclusione del Battesimo. Il dirsi semplicemente di alcuna persona che viene o va in un luogo, non può intendersi che vi va co' suoi doni, ma sì che vi va ella stessa, altrimenti non sarebbe esatta e chiara quella maniera di dire. Tanto più che essendo certo, che nel Battesimo lo Spirito Santo viene co' suoi doni, l' affermar poi ch' egli nel Battesimo non ci viene non può avere altro significato che quello di voler dire che non ci viene colla persona. E pel contrario affermando che viene nella Cresima, pure in quella che si esclude dal Battesimo, si dee intendere che nella Cresima viene appunto in quel modo nel quale dal Battesimo si esclude, cioè personalmente. Di poi non possono indicare se non una unione della persona coll' anima quelle maniere che usa l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, quando dice del Sacramento della Confermazione che ci fa partecipi della sacratissima comunione, la quale è quella dello Spirito Santo, che ci congiunge al divino Spirito, che ci fa percepire nell' anima la santa e deifica società del medesimo Spirito divino e che consuma in noi la venuta del Santo Spirito. Come può esser consumata e perfezionata la venuta del Santo Spirito meglio che comunicandosi egli a noi personalmente? La comunicazione personale ha in sè stessa necessariamente i doni tutti del Santo Spirito implicitamente cioè in causa, perchè ha l' autore stesso dei doni; nè si può dare la pienezza dei doni se non colla persona, perchè questi separatamente presi sono infiniti. Però quando i Padri vogliono significare il conferimento personale dello Spirito all' anima, il chiamano la pienezza dello Spirito, e descrivono i sette doni come rappresentanti di questa pienezza che chiamano anche grazia settiforme (2). S. Ambrogio non si contenta di attribuire al Sacramento della Confermazione i sette doni, ma dice che questi non sono che i principali. [...OMISSIS...] Ma io non ho sott' occhio nissun passo di antichi scrittori i quali parlando del Sacramento della Confermazione, parlino più esplicitamente della comunicazione personale dello Spirito Santo, e la distinguano più chiaramente dalla comunicazione de' suoi doni, di quello che faccia in un luogo il celebre Rabano Mauro nell' opera dell' istituzione del clero. Egli distingue due unzioni che si fanno col santo Crisma, l' una dal sacerdote subito dopo il Battesimo, e l' altra dal Vescovo nella Confermazione; colla prima, dice, non si fa che preparare e consecrare la casa, ma nella seconda si riceve lo stesso ospite divino: il che è quanto dire che nella prima non si ricevono che alcuni doni del Santo Spirito; ma nella seconda lo stesso Spirito Santo colla pienezza de' suoi doni. Gioverà che qui io rechi le proprie parole di questo scrittore: [...OMISSIS...] . Qui chiaramente è distinta la preparazione dell' uomo a ricever lo Spirito, dalla discesa dello Spirito stesso; la venuta parziale dalla venuta intera di esso Spirito; nè può darsi intiera comunicazione senza comunicazion personale, o comunicazion personale senza ch' ella sia intera e piena, di maniera che può stabilirsi questo canone nell' interpretazione delle Scritture e de' Padri, che ogni qual volta si parla di venuta totale o pienezza dello Spirito Santo, il discorso si volge intorno alla venuta personale, e dove non è espressa la pienezza o la totalità del Santo Spirito o de' suoi doni, non si parla della venuta personale. Il perchè solo nella Confermazione si completa la grazia triniforme del cristiano; e però possiamo conchiudere colle parole di uno scrittore ecclesiastico del secolo X: [...OMISSIS...] . E quanto abbiamo detto dà chiarezza a molti altri insegnamenti de' Padri, i quali insegnamenti formano alla lor volta una riprova di quanto fu detto. A ragion d' esempio S. Giovanni Grisostomo in una delle sue omelie viene cercando in che consista l' infanzia spirituale, e in che la perfezione; e conchiude che l' infanzia consiste nella fede, e la perfezione nelle opere della vita santa (2). Ora la fede appartiene all' intelletto, e al cuore la carità. La fede viene a noi impressa colla luce del Verbo, e la carità viene in noi diffusa dallo Spirito Santo. Ancora, viene attribuito al Battesimo il darci la luce e la fede, ed alla Confermazione il diffondere in noi la carità. Per conseguente egli è questo un dire, che il Battesimo ci genera infatti e la Cresima ci fa adulti e perfetti. Quindi è che« illuminazione« (1) si chiamò il Battesimo fino dai tempi apostolici, e« illuminati« nel linguaggio di S. Paolo equivale a battezzati (2). All' incontro della Confermazione l' Apostolo dice: [...OMISSIS...] . Consuona all' Apostolo S. Agostino che attribuisce propriamente la carità alla Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Egli è parimente un detto comune de' Padri quello che attribuisce al Battesimo la purgazione de' peccati, che è il primo grado della vita spirituale, e alla Confermazione all' incontro la grazia, la pienezza dei doni lo Spirito Santo (5) che ne è il compimento. Nè tutto ciò detrae punto al Battesimo, la grazia del quale è piena anch' essa. Ma si dee spiegare in che modo dicasi pienezza di grazia quella del Battesimo, e in che modo dicasi pienezza di grazia quella della Confermazione: come l' infanzia spirituale possa stare con quella prima pienezza e non punto colla seconda. L' ufficio dello Spirito Santo nelle anime nostre di sopra da noi dichiarato, dà piena luce a questa materia. Tale ufficio noi vedemmo significato da Cristo in quelle parole: « Egli insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà tutte le cose che io avrò dette a voi« (1). » Nelle quali parole appar chiaro, che tanto il Verbo come lo Spirito insegnano tutte le cose, ma lo Spirito Santo ha ufficio di suggerire all' animo le cose già insegnate dal Verbo e di ricalcarle nella mente e renderle operative: primo dunque è il Verbo a operare, secondo viene lo Spirito Santo: il Verbo dà la cognizione diretta delle cose divine, ma lo Spirito Santo muove ed accende la riflessione. Però s' intende come l' uno e l' altro operi in noi con pienezza, giacchè l' uno e l' altro ci comunica tutte le cose. Il Verbo dice: « Io vi ho fatto note tutte le cose che ho udite dal Padre mio (2). » Dello Spirito pure è detto: «« quando verrà quello Spirito di verità insegnerà a voi ogni verità« (3). » E la ragione di ciò si è « perocchè non parlerà da sè stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà« (4) » cioè che udirà dal Verbo. Quindi s' intende come la grazia del Battesimo sia piena, e sia piena pure quella della Confermazione (5). Nel Battesimo si riceve il Verbo, e in lui la notizia di tutte cose divine: nella Confermazione si riceve lo Spirito Santo, e in esso la viva riflessione delle cose medesime. Quindi è che S. Giovanni attribuisce all' unzione, cioè alla Cresima, quello che Cristo attribuisce allo Spirito Santo, cioè di far conoscere tutte le cose: « Ma voi, dice, avete l' unzione dal Santo » (cioè dal Verbo pel quale è la spirazione dello Spirito Santo) «e conoscete tutte le cose« (6). » [...OMISSIS...] Quindi acconciamente Clemente Alessandrino, riferendo l' istoria di un giovane affidato da S. Giovanni alla cura di un Vescovo novello, parla de' due Sacramenti del Battesimo e della Confermazione in questo modo: [...OMISSIS...] . Or il sigillo che si mette sopra un tesoro vale a custodire tutto il tesoro intiero; e così la grazia della Confermazione è piena, perchè custodisce tutto ciò che si ha ricevuto nel Battesimo. Simile a questa idea è quella di alcuni Padri che rassomigliano lo Spirito che ricevesi nella Confermazione a un tutore e difensore della grazia battesimale. Tra i luoghi che potremmo addurre preferiremo uno del celebre Abate Ruperto, sebben non sia de' più antichi (2), il quale dice così: [...OMISSIS...] : similitudine acconcissima; perchè il tutore assai acconciamente rappresenta l' occhio della riflessione, che vigila e contempla la grazia prima ricevuta, e sente il pregio di essa, e così s' infiamma a difenderla. Dal medesimo principio, che lo Spirito Santo ricalca nell' anima la notizia del Verbo, ravviva la fede, vi deduce la carità che fassi operativa, scendono quai naturali conseguenze gli effetti speciali che si sogliono attribuisce alla Confermazione, cioè la fortezza dell' animo cristiano, il coraggio di confessar Cristo e di combatter qual valoroso milite per la fede da lui ricevuta. Dalle quali cose apparisce, che la Confermazione non dà già all' uomo qualche cosa del tutto nuova, ma, come dice il Catechismo Romano, conferma ciò che il Battesimo ha cominciato ad operare (1). Ora il Battesimo dà la grazia ed imprime il carattere; e queste due cose perfeziona la Confermazione. Di che si vede che il carattere della Confermazione essenzialmente considerato, non è che un aumento del carattere del Battesimo; ed è da questo principio che S. Tommaso toglie a provare come il carattere della Confermazione presuppone quello del Battesimo. [...OMISSIS...] E veramente, noi abbiamo veduto il carattere consistere in una impressione stabile del Verbo nella parte intellettiva dell' anima; questa è la definizione generica del carattere, nella quale uopo è che convengano i tre caratteri del Battesimo, della Cresima e dell' Ordine, i quali sono radicalmente uno; perocchè sono sempre una comunicazione del Verbo all' intelletto. Ma da questa comunicazione nascono all' uomo diverse potenze ; cioè nel Battesimo la potenza passiva di ricevere gli altri Sacramenti, come pure la grazia prima o potenza di operare soprannaturalmente; nella Confermazione la potenza attiva di resistere alle tentazioni nell' operare il bene, confessando Cristo assai coraggiosamente; e nell' Ordine la potenza di esercitare pienamente il sacerdozio di Cristo. Per questo si è, che i Padri dicono costantemente, tanto parlando del Battesimo, quanto parlando della Confermazione, che il carattere è il segno di Cristo, e che l' ufficio dello Spirito Santo è quello di imprimere nelle anime il Verbo. Così S. Ambrogio parlando di chi fu confermato, dice: [...OMISSIS...] . Per questo l' unguento si chiama Crisma di Cristo (1). E S. Cirillo d' Alessandria dice: [...OMISSIS...] . Lo stesso apparisce da un' altra maniera di parlare de' Padri specialmente de' più antichi, i quali ragionando ad un tempo del Battesimo e della Confermazione come di due Sacramenti che si amministravano nel tempo stesso l' un dopo l' altro, non distinguono però due caratteri, ma sempre favellano di un carattere o di un segnacolo solo; e par che l' attribuiscano più alla Confermazione come quella che il compisce ed integra. A ragione d' esempio Teodoreto dice così: [...OMISSIS...] . Al qual passo risponde a capello ciò che dice un greco scrittore del secolo XVI, che può servire di commentario e schiarimento a quel di Teodoreto; perocchè in questo greco scrittore non riman punto dubbio che si parli della Confermazione, come potrebbe nascere in quello del Vescovo Cirense. [...OMISSIS...] Qui parlasi chiaramente del carattere, che ci segna col segno del Cristo e ci mette nel dominio di Cristo. Più ancora si rende manifesto che si parla del carattere, e di quello della Confermazione, da ciò che segue: « Il sacerdote che unge il battezzato dice: Segnacolo del dono dello Spirito Santo, Amen«. » (Questa è la forma della Confermazione presso i Greci). [...OMISSIS...] L' unione stessa usata antichissimamente, e tuttavia presso i Greci, del Battesimo e della Confermazione, mostra l' unità del carattere che imprime: e l' attribuirsi il carattere al secondo Sacramento, anzi chè al primo, che fanno i Padri antichi, non toglie già la verità cattolica che anche nel Battesimo il carattere s' imprima, ma mostra bensì, che solo colla Cresima venìa consumato e non eran due ma uno. Quindi il sangue dell' agnello, di cui tinsero gli Ebrei le imposte delle loro case, serve ai Padri di figura tanto del carattere del Battesimo come di quello della Confermazione, che considerano come uno, a quel modo che è una la figura. [...OMISSIS...] : parole che il Santo dice in una sua orazione sul Battesimo, dal quale trapassa a parlare della Confermazione come a lui congiunta, e del carattere che questa imprime senza menzionare il carattere del Battesimo, perchè già in quello contenuto. Il Sacramento della Confermazione negli antichi scrittori ecclesiastici viene denominato solitamente in quattro maniere, o egli si chiama orazione, invocazione, o imposizione delle mani, o segnacolo, o unzione. Queste quattro denominazioni nascono dalle quattro parti di cui il Sacramento della Confermazione si compone; e si spiegano l' una coll' altra. Per esempio S. Agostino dice: « Che cosa è l' imposizione delle mani se non l' orazione che si fa sull' uomo?« (2). » Quasi voglia dire l' imposizione delle mani è quel Sacramento che si chiama anche orazione che si fa sull' uomo. Sebbene adunque nella denominazione di « imposizione delle mani« non si contenga espressa alcuna invocazione od orazione, tuttavia con tal denominazione s' intende espressa e significata anche l' orazione che si fa contemporaneamente all' imporsi delle mani, e che è un' altra parte dell' amministrazione del Sacramento. Talora poi le due parti indicate sono espresse distintamente nel parlare de' Padri e non l' una nell' altra sottintesa. Così dice S. Cipriano: [...OMISSIS...] . Medesimamente Innocenzo III spiega la parola« unzione o crismazione« con quell' altra di« imposizione delle mani« scrivendo, che « per la crismazione della fronte vien significata l' imposizione della mano degli Apostoli« (2). » Questo è quanto dire che le due appellazioni di« crismazione o unzione« e di« imposizione delle mani« si usurpano ad indicare lo stesso Sacramento, che si denomina ugualmente dall' una o dall' altra di quelle due parti principali. Talora però negli scrittori ecclesiastici si esprimono tutte e due queste parti. Così Amalario scrive: [...OMISSIS...] . Non di rado anco tacendosi l' unzione si esprimono l' imposizione delle mani e l' orazione, ciò che si fa negli stessi Atti degli Apostoli, dove si legge [...OMISSIS...] . E come l' esprimersi una sola cosa non esclude l' altra, ma è una maniera che si usa per brevità; così non è a credersi che esprimendosi« l' unzione e la imposizione delle mani« s' intendano escluse le parole che accompagnano queste azioni, e che« orazione o invocazione« furon dette. Chè anzi talora tutte e tre queste parti vennero dagli scrittori ecclesiastici espresse, come si esprimono a ragione d' esempio da Aimone ove dice: [...OMISSIS...] . Clemente Alessandrino chiama finalmente la Confermazione « il beato segnacolo (3) » o anco «« il sigillo del Signore« (4), » perchè lo Spirito Santo imprime Cristo nell' anima, come abbiamo veduto. Ciò si rappresenta anche col segno esteriore, giacchè si unge la fronte del fedele che si conferma col segno della croce. Di che Dionigio Areopagita, o chicchessia l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, porge quest' altra buona ragione, che dandosi lo Spirito Santo nel Sacramento della Confermazione, e questo procedendo dal Verbo, e venendoci dato dal Verbo pel merito della sua passione, assai ben convenìa che nell' atto che si riceveva questo Spirito venisse segnata in sulla nostra fronte la croce (5). Ma se il Sacramento di cui parliamo è bene spesso chiamato « il segnacolo« o« il sigillo di Cristo« non dee intendersi questa appellazione così strettamente che si vogliano escludere da essa le altre tre cose, che formano il tutto di questo Sacramento. Ciò si rende manifesto osservando che talora l' espressione di segnacolo si congiunge con alcuna delle altre tre. Con quella di unzione o di crisma è congiunta per sè, conciossiachè il segno di croce non in altro modo s' intende descritto in fronte se non ungendo in qualche modo la fronte stessa (6): di che parmi potersi trarre nuovo argomento da credere che gli Apostoli usavano del sacro crisma, appunto perciò che si parla come di cosa apostolica segnare in fronte i fedeli per esprimere la Confermazione (1). S. Clemente papa discepolo di S. Pietro dice, che [...OMISSIS...] . Nel libro delle Costituzioni apostoliche non si fa menzione solamente del segno, ma anco dell' unguento col quale si fa il segno. « Prima, vi si dice, ungerai coll' olio santo » (questa è l' unzione preparatoria al Battesimo) «poscia battezzerai coll' acqua, finalmente SEGNERAI coll' UNGUENTO del crisma » (questo è il Sacramento della Confermazione)« (1). S. Ambrogio unisce insieme le due parti dell' invocazione del Santo Spirito e del segnacolo in queste parole: [...OMISSIS...] . San Leone in quella vece fa espressa menzione del segnare e dell' imporre le mani, come in quel luogo ove dice: [...OMISSIS...] . Vedesi adunque, che se talora chiamasi la Confermazione semplicemente « segnacolo« ciò non si fa per escludere l' altre parti di cui questo Sacramento si compone, ma per la comodità di avere alle mani una breve e semplice appellazione di questo Sacramento. Conciossiachè in altri luoghi de' Padri si esprimono anche l' altre parti sott' intese, e indifferentemente si congiunge la cerimonia del« segnare« la fronte con quella dell' ungere, o con quella dell' invocare lo Spirito Santo, o con quella dell' imporre le mani. Che se si vorrà più diligentemente cercare le maniere ecclesiastiche di favellare, sarà facile altresì rinvenire de' testi autorevoli, ne' quali il segnare sia espresso non pure con una sola delle altre parti, ma con due qualsivogliano di esse. E veramente si brama un luogo in cui si faccia menzione ad un tempo del segno, dell' unzione, e dell' imposizione delle mani? Odasi Tertulliano: [...OMISSIS...] . Ecco espresse tre parti della Confermazione. Bramasi invece un luogo nel quale oltre il segnacolo sieno esplicitamente accennate le due parti dell' imposizione delle mani e dell' orazione o invocazione del Santo Spirito? Aprasi S. Cipriano, e si legga: [...OMISSIS...] . Vuolsi ancora un altro luogo dove al signacolo siano in quella vece congiunte le due parti dell' unzione e dell' invocazione? Considerisi l' invocazione od orazione che sta nell' Ordine Romano, dove si veggono espresse le tre parti di cui parliamo. Ella è la seguente: [...OMISSIS...] . Ecco l' orazione, l' unzione ed il segnacolo. Che se finalmente si vogliano ancora vedere espresse tutte e quattro le parti da noi toccate potremo trovarle nell' Ordine Romano ora citato o nel sacramentario di Gregorio il grande, o nel rituale che tuttavia è in uso presso di noi. Solo dopo avere io scritto questo articolo mi accorsi essermi sfuggito nel Bellarmino quel lungo tratto, nel quale il venerabile uomo dice altrettanto e più di quanto io dissi. Tuttavia non volli cancellare l' articolo, ma sì bene colla somma autorità del Bellarmino, che qui in nota riferisco, confermarlo. Egli risponde all' eretico Kemnizio, che per escludere l' unzione del crisma reca i luoghi degli Atti degli Apostoli (VIII, 17; XIX, 6), dove è fatta bensì menzione dell' imposizione delle mani ma non del crisma, e dice così: [...OMISSIS...] . Poscia il Bellarmino si propone l' obbiezione delle parole d' Innocenzo III, e di Eugenio IV nel Concilio di Firenze, le quali sembran dire, che il crisma ora tenga il luogo dell' imposizione delle mani usata dagli Apostoli e risponde: [...OMISSIS...] . Fissata così la maniera di parlare della tradizione, cadono tutte le obbiezioni contro il Sacramento della Confermazione, e apparisce assai chiaro che questo rito si compone di quattro parti, 1. le parole, 2. l' imposizione della mano, 3. l' unzione, 4. il segno di croce. Fermata questa verità è sciolta da sè la questione: « Qual sia l' imposizione della mano necessaria in questo Sacramento«; » ella è quella che si fa nell' atto stesso dell' unzione e indivisibilmente da quest' atto: perocchè i Greci non ne hanno altra; e tuttavia la Chiesa riconosce per valido il loro rito della Confermazione. Dunque o la Chiesa erra, o l' imposizione delle mani non è necessaria. Ma l' una e l' altra cosa è falsa. Dunque è il contrario, cioè che l' imposizione delle mani necessaria alla Confermazione è quella che fa il Vescovo elevando la mano sulla fronte per ungerla e non altra. Può riuscire di conferma a ciò l' osservarsi, che questa cerimonia si chiama spessissimo dagli scrittori antichi imposizione della mano e non delle mani, e che si dice farsi a' singoli e non a tutti ( « quod nunc in confirmandis neophytis, manus impositio tribuit singulis », dice la celebre Omilia in die Pentec. attribuita da alcuni ad Eucherio di Lione): come pure l' obbiezione che fa Benedetto XIV (2), contro la prima imposizione delle mani: [...OMISSIS...] . Se dunque il P. Iacopo Sirmondo trova degna di riso una tal dottrina, egli è da attribuirsi un tal riso all' intemperanza della critica, che rende presontuosi ben sovente i dotti, e che insegna loro a sorridere delle opinioni più rispettabili. Io mi accosto poi al P. Merlin (1) in quanto le sue osservazioni provano che l' imposizione delle mani è indivisa dall' unzione del crisma; non convengo però nella sua opinione che gli Apostoli conferissero il Sacramento colla sola imposizione delle mani senza Crisma. Tale mi sembra l' intimo e vero sentimento di tutta la cristiana antichità. Può essere ancora che qualche autore greco, sentendo tanto nominata nella Scrittura l' imposizione delle mani e non osservando che nel segnare la fronte la mano necessariamente s' impone, si persuadesse che il crisma sia stato sostituito all' imposizione delle mani apostoliche, ma ciò dee attribuirsi a mancanza di riflessione di uno o d' altro autore; fra questi parmi di poter citare Simone di Tessalonica, che nel secolo XII scrive: [...OMISSIS...] . Quanto poi all' opinione di coloro che sostengono negli antichi tempi l' imposizion delle mani essere stata distinta dall' unzione, ma poscia forse nel secolo VII essersi unita e fatta una cosa con essa, parmi almeno frivola e inetta. Perocchè se riconoscono che alla validità del Sacramento nei secoli posteriori al VII, e massime presso i Greci, non si richiedesse imposizion delle mani distinta dalla stessa unzione, perchè mai ne' primi secoli sarà stata essenziale al Sacramento un' altra imposizione distinta da quella che il Vescovo fa necessariamente ungendo la fronte? Non è piuttosto assai naturale il dire, che se oltre l' unzione della fronte si faceva allora una distinta imposizione delle mani, questa non era cerimonia essenziale, come non è essenziale quella distinta imposizion delle mani, che si usa ancora nella Chiesa latina e che la greca ommette senza rendere perciò invalido il Sacramento? La parte indicata anticamente colla denominazione di« orazione« o« d' invocazione« è la forma del Sacramento; il Crisma è la materia remota, l' imposizione delle mani e il segno di croce determina il modo onde la materia rimota viene applicata e si fa materia prossima. Delle quali affermazioni potrebbe incontrare qualche difficoltà la prima, che la parte del Sacramento indicato colla parola« invocazione«, od« orazione«, significasse la forma, come quella che dee essere fatta di parole consecratorie e non impetratorie. Ma sebbene ciò sia vero, niente vieta che unitamente alle parole consecratorie si proferissero delle invocazioni e delle orazioni, dalle quali si denominasse il Sacramento più tosto che dalle stesse parole consecratorie, tenute sempre nascoste gelosamente dall' antica disciplina della Chiesa (1). In fatti così fu: avanti e dopo la unzione s' invocava lo Spirito Santo, e nell' antichissimo Ordine Romano la stessa forma della Confermazione comincia con una particella impetratoria la quale è questa: « Signa eos, Domine, signo crucis « » seguitando però in stile consecratorio nell' atto dell' ugnere: « Ego te confirmo in nomine Patris, etc.« » La parola« invocazione« può essere oltracciò dichiarata con altri passi analoghi. In ragione d' esempio il passo di S. Clemente Papa o sia delle Costituzioni Apostoliche da noi citato di sopra « l' invocazione è la VIRTU` (2) dell' imposizione della mano « (3) » viene chiarito quando si riscontra a quest' altro, che si trova in un Commentario degli Atti Apostolici attribuito a S. Ambrogio « la imposizione della mano sono le parole mistiche« (4), » le quali parole mistiche voglion significare indubitatamente quelle della forma. Il P. Merlin nel suo trattato sulle forme de' Sacramenti non dubita punto di ciò che S. Clemente chiama« invocazione« non sieno che « le parole della forma« (5). Finalmente molti Teologi e di gran vaglia sostengono, che la forma adeguata e totale del Sacramento della Confermazione è ad un tempo l' orazione e le parole che seguono a quella, e il provano con assai validi documenti; de' quali Teologi nominerò due, cioè Onorato Tournely, e Natale Alessandro, a' quali valentuomini rimetto il lettore (1). Quanto poi alle altre tre parti del Sacramento della Confermazione, cioè l' unzione, il segno della croce e l' imposizione delle mani, esse simboleggiano, secondo la Scrittura e i Padri, i tre effetti di questo Sacramento. S. Paolo nel primo capitolo della seconda lettera a' Corinti parla manifestamente, a mio avviso, del Sacramento della Confermazione, ed accenna queste tre parti di lui. Egli dice a que' di Corinto, che veniva ad essi affinchè avessero« la seconda grazia« la quale vien data dal Sacramento della Confermazione, essendo il Battesimo quello che conferisce la prima (2). Dice che Dio era quegli che li confermava in Cristo (3). E poi soggiunge che Dio pure li ungeva e li segnava e dava lor il pegno dello Spirito ne' cuori (4). Ecco l' unzione, il segnacolo, e il pegno dello Spirito, che s' attribuisce da' Padri all' imposizione delle mani. Tertulliano commenta questo passo di S. Paolo accennando i tre effetti del Sacramento della Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è manifesto, che questo Padre del secondo secolo della Chiesa non intese mica quell' unzione che nomina S. Paolo, di un' unzione metaforica e puramente spirituale, ma l' intese dell' unzione esterna della carne; e lo stesso dicasi del segno di croce, che nomina l' Apostolo; il che dee aver gran forza contro quelli che abbandonano il senso letterale di questo e d' altri passi simili, e che non li vogliono intesi se non in un senso spirituale. E alla stessa guisa di Tertulliano spiega il passo dell' Apostolo S. Ambrogio, il quale attribuisce l' effetto dell' unzione al Padre, l' effetto del segno di croce al Figliuolo, e l' effetto dell' imposizione delle mani allo Spirito Santo; di maniera che, secondo questo santo Padre, i tre elementi costituenti la materia del Sacramento della Confermazione si riferiscono alle tre persone della Santissima Trinità che operano in questo Sacramento, il quale conferisce, come abbiamo detto, all' anima la grazia triniforme. [...OMISSIS...] Anche in alcuni luoghi delle Scritture l' unzione è attribuita al Padre. Negli Atti degli Apostoli si legge che Cristo fu unto dal Padre (2), e S. Paolo spiega di Cristo il Salmo che dice: « perciò te unse Iddio, il Dio tuo coll' olio dell' esultanza« (3). » Il segno poi è stato attribuito a Cristo avendo forma di croce, ed essendo effetto suo la fortezza, appartiene a Cristo altresì, perchè la croce è l' arma che vince il diavolo, e perchè Cristo è la virtù e la forza e il braccio del Padre. Però la parola confermare viene propriamente da questo effetto dell' armare e fortificare colla croce di Cristo: sicchè S. Ambrogio in altro luogo invece di dire ti segnò Cristo, dice: « Cristo ti confirmò« (4). » Il pegno poi dello Spirito è la carità e il gaudio spirituale, caparra dell' eterna eredità attribuita allo Spirito Santo, che per ciò si chiama Spirito di promissione, e l' effetto suo« pegno dell' eredità nostra« (5). Questi tre effetti poi sono la santità, la fortezza e il gaudio. Il secondo vien dal primo, e l' ultimo dai due precedenti, sebbene la fortezza per quanto dipende dall' uso delle potenze diverse dalla volontà non sia necessariamente connessa colla santità di sua natura; come pure il gaudio per quanto egli scaturisce dalle potenze minori non va di sua natura congiunto a que' due primi effetti; e però giustamente questi tre effetti si distinguono, giacchè la nozione dell' uno non è quella dell' altro e la lor natura permetterebbe che stessero fra di sè separati. Ma tutti uniti dànno perfezione all' uomo, e di perfezionar l' uomo è appunto ciò che intende il Sacramento della Confermazione. L' angelico Dottore cercando in che maniera sia stato istituito il Sacramento della Confermazione, dice che [...OMISSIS...] ; e rende ragione del non essersi potuto conferire questo Sacramento prima della Risurrezione di Cristo, soggiungendo così: [...OMISSIS...] . Cercando poi lo stesso santo Dottore, se gli Apostoli abbiano ricevuto questo Sacramento risponde di no, e ne dà la ragione seguente: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa questione, seguìta da tutto il meglio de' Teologi, trae qui a pensare all' altra del Battesimo degli Apostoli. Comunemente or si tiene da' Teologi, che sieno stati battezzati da Cristo, ma ella è però cosa incerta e controversa (4), e non ispregevoli mi sembrano quelle ragioni, che si possono addurre per l' opinione contraria. Perocchè se poteron essi ricevere lo Spirito Santo senza Sacramento mandandol loro Cristo dal cielo, come non poterono ricevere la grazia del Verbo, che si dà nel Battesimo conversando essi col Verbo in terra? In tal modo ne verrebbe meglio chiarito il passo di S. Paolo, che « ricevettero le primizie dello Spirito«, » e gli Apostoli, immediati discepoli di Cristo e riceventi dalla sua bocca le parole della vita, avrebbero ricevuto immediatamente nell' anima loro il Verbo e lo Spirito; e gli altri fedeli avrebbero ricevute queste grazie mediante i Sacramenti conferiti dagli Apostoli e lor successori. Ho già dimostrato, che Cristo non avea bisogno d' alcun mezzo per comunicare le sue grazie, e che se Cristo fosse potuto essere al contatto di tutti gli uomini non ci avea bisogno alcuno di Sacramenti; i quali sono istituiti come anelli, o canali intermedi fra Cristo e quegli uomini, che non possono con lui immediatamente conversare (1). Egli è vero, che Cristo dice positivamente: « non può entrare nel regno di Dio niuno, che non sia rinato di acqua e di Spirito Santo« (2), » ma certa cosa è, che questa sentenza ammette una ragionevole interpretazione in quanto all' acqua materiale, il bisogno della quale non è assoluto per tutti gli uomini. Tanto è vero che ne sono eccettuati per comune consenso tutti quelli che morirono prima del dì della Pentecoste; e da quel dì tutti quelli che si salvarono col Battesimo di penitenza o di sangue. Or Cristo dava immediatamente quell' acqua viva di cui egli parla alla Samaritana « saliente in vita eterna« (3), » la quale non era già un' acqua materiale, sebbene l' acqua materiale sia stata istituita a simbolo dell' acqua spirituale. S. Giovanni Battista fu ripieno di Spirito Santo col solo avvicinarsegli Gesù nell' utero di Maria; non ebbe questi il Battesimo prima di nascere? Gesù diceva a Filippo: « Io sono tanto tempo con voi e non mi conoscete? Filippo chi vede me, vede me e il Padre mio« (4), » indicando con ciò, che la sola vista di Cristo dava la grazia e la percezione di Dio. La Scrittura dice che l' uomo vive di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio (5); e le parole di Cristo avranno forse avuto minor efficacia del Battesimo quando anche al Battesimo non proviene la forza sua se non dalla parola del Verbo? (6) non sono chiamate parole di vita quelle di Cristo? (7) non ha detto Cristo agli Apostoli, ch' erano mondi per cagione del sermone che avevano udito da lui? (1) E al presentarsi che facevano a Cristo gl' infermi non diceva loro tostochè vedeva in essi la fede e la contrizione: « i tuoi peccati ti sono rimessi«, » senza far loro parola di Battesimo? (2) e se i peccati loro eran rimessi avevano già ottenuto l' effetto del Battesimo senza più. Non disse a Zaccheo che « la salute di quella casa era in quel giorno avvenuta« (3) » appunto perchè l' avea santificato coll' aspetto suo e colla sua visita? E se appresso tutti i Teologi si conviene, che la necessità del Battesimo non cominciò se non dopo la Pentecoste, questa necessità non ci fu mai per gli Apostoli, perocchè dopo aver ricevuto lo Spirito Santo non poteano aver bisogno del Battesimo, e prima necessità non ce ne aveva per alcuno. Ora noi dobbiam favellare del più compiuto e del più ineffabile de' Sacramenti, voglio dire dell' Eucaristia. Il verremo prima considerando in sè stesso, trattando della confezione del corpo e del sangue di Cristo; poscia rispetto ai battezzati di cui egli è soprasostanziale nutrimento; e finalmente rispetto all' ordine stesso della santificazione umana. Il divino Autore di tanto mistero illustri a noi la mente e ci conduca la penna, acciocchè collo scrivere nostro fedele possiamo conseguire quello che solo è bene, desiderando noi di non mescolare in queste pagine nulla di nostro a quanto da lui medesimo e dalla sua chiesa noi abbiamo imparato. E prima mi si conceda di sporre il modo del trasmutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di nostro Signor Gesù Cristo, a quel modo che io il concepisco contenersi nel deposito delle verità della fede, nelle Scritture e nella Tradizione. Dico in prima, che questa trasmutazione si fa in un modo assai somigliante (1) a quello onde in noi si converte il cibo, mediante la nutrizione, nel corpo nostro e nel nostro sangue. Conviene attentamente osservare ciò che avviene nel fenomeno della nutrizione. Delle particelle inanimate vengono ricevute nel nostro stomaco, e indi distribuite pe' meati del corpo e ravvicinate sì fattamente, assimilate, inserite, contemperate, fuse nella nostra carne viva e nel nostro sangue vivo, che anch' esse in un modo ammirando ricevon la vita e si fanno animate, sensitive; in una parola diventano vera nostra carne e vero nostro sangue. Ora in un modo somigliante, come dicevo, io intendo che Gesù Cristo comunichi la vita propria alle particelle del pane e del vino, e in tal guisa le renda suo vero corpo e suo vero sangue. E ove in tal modo si concepisca la transustanziazione del pane e del vino si rendono assai chiare alcune parole di Cristo che altramente possono parere oscure ed inesplicabili. Così leggiamo in S. Luca, che dopo aver detto il divino Redentore giacente co' suoi discepoli nel cenacolo: [...OMISSIS...] . Dove quella maniera« dico io a voi« dico enim vobis , annunzia che egli vuole comunicar loro qualche gran cosa. Il regno di Dio poi consiste propriamente nella glorificazione di Cristo; perocchè Cristo glorioso a pieno regna « m' è stata data ogni potestà in cielo ed in terra«, » e Dio regna in Cristo. Volea dunque dire, che non mangerà più la pasqua prima della sua Risurrezione, nella quale Risurrezione la pasqua sarà pienamente adempita: perocchè l' agnello pasquale rappresentava il vero agnello ucciso, e fatto salute e cibo vitale de' veri israeliti, cioè Cristo ucciso e fatto glorioso, potente perciò a comunicare vita e pienezza di vita, a cui se ne ciba vivendo. E nello stesso significato soggiunse del calice del suo sangue: « prendete e dividete fra voi: imperocchè vi dico, che non berrò della generazione della vite, fino che non venga il regno di Dio« (3), » cioè la mia Risurrezione. Nè si può muover dubbio per cagione della particella« fino che« donec , la quale nella maniera d' usarla che fa la Scrittura indica sovente ciò che non fu fatto fino a quel momento, non ciò che far si deva in appresso. Benchè ciò sia vero, e valga per intendere altri luoghi delle Scritture; pure qui il testo di S. Matteo e di S. Marco non ci permettono tale interpretazione, leggendosi espressamente, che Cristo non solo non berrà più vino fino alla Risurrezione, ma che « berrà un vino nuovo nel suo regno«, «cioè fatto glorioso. [...OMISSIS...] Le quali parole sono chiarissime, nè ammettono una facile interpretazione altrimenti che coll' intenderle dell' Eucarestia che dovevano i suoi Apostoli celebrare, lui già risorto. Perocchè dicendo Cristo « di questo figliuolo della vite« » esclude ogni spiegazione spirituale, che dar si volesse a quelle parole; giacchè quel vino a cui alludeva era cosa reale e non puramente allegorico e figurato, e dove s' intendesse che un vino figurato sarà quello che berrà dopo la sua Resurrezione dovrebbe necessariamente intendersi che un vino figurato beveva allora, il che sarebbe contrario alla fede; perocchè l' identità di natura fra il vino che allora beveva e quello che dice di dover bere nuovo dopo la Risurrezione è chiaramente espressa in quelle parole: « io non berrò più di questo figliuolo della vite«. » Dice adunque, che nel regno del Padre suo, cioè dopo risorto, berrà del vino, ma non d' ogni vino, ma di quello appunto che tenea allora in mano, ed era il vino consacrato; e di più dice, che lo berrà con essi « lo berrò nuovo con esso voi«. » Aggiunge poi che sarà « un vino nuovo« » per indicare che il vino consecrato dopo la Risurrezione non era più un sangue passibile e che si potesse veramente spargere; ma un sangue impassibile, e immortale, e meglio che un vino nuovo, di recente e inestinguibile vita potente. Tutte queste circostanze mirabilmente si avverano nell' Eucarestia, se a quel modo si spieghi che abbiam toccato. Conciossiachè in tal caso veramente avverrebbe, che Cristo glorioso, banchettasse continuamente, per così dire, avvivando della sua vita divina il pane ed il vino, e convertendolo tutto nelle divine carni e nel divino suo sangue. Che se attentamente si considerano le parole di Cristo non si troveranno capaci di alcun' altra interpretazione. Perocchè Cristo stesso lo espone dell' Eucaristia. « Di gran desiderio ho desiderato, dice, di mangiare con voi questa pasqua innanzi che io patisca«. » Che vuol dire questo « innanzi che io patisca?« » non sembrano parole superflue? non bastava dire:« di gran desiderio ho desiderato di mangiare questa pasqua?« no, perocchè Cristo poteva mangiare quella pasqua avanti patire e dopo aver patito, cioè già risorto. Però egli mostra l' immenso desiderio che avea di mangiare quella pasqua, prima che patisse, quella pasqua nella quale sarebbe morto. Or se quelle parole « innanzi che io patisca«, » alludono assai convenientemente ad una pasqua ch' egli mangiar poteva dopo aver patito, non è egli assai chiaro, che quel pane e quel vino, che dice poi che avrebbe mangiato nuovo nel suo regno, è appunto questa pasqua, di cui così favella fino a principio del suo discorso? e che però per quel pane e per quel vino nuovo non può intendersi convenientemente se non l' Eucarestia che sarebbe stata rinnovata, lui già risorto? Or in tal modo intese seguire la transustanziazione del pane e del vino S. Gregorio Vescovo di Nissa, uno de' Padri del secolo d' oro della Chiesa, e de' più acuti e di tanta fede e venerazione, che in sua vecchiezza chiamavasi il Padre de' Padri (1). Questi nella sua celebre Catechesi si fa a cercare diligentemente, come il corpo di Cristo nella Santissima Eucarestia possa alimentare tanti fedeli, rimanendosi egli intero e in sè perfetto (2). [...OMISSIS...] Così questo grand' uomo trovava opportuno di chiamare la ragione in ossequio e in servigio della fede, non dissociando quello che Iddio ha congiunto. Viene adunque a stabilire 1 che il corpo nostro nello stato presente si mantiene coll' alimento a lui adattato (1), 2 che questo alimento precisamente è il pane ed il vino che si convertono nel corpo (2), 3 che però chi vede del pane e del vino il corpo umano in potenza, cioè tali cose che sono atte a farsi corpo (3). Premessi questi principii egli viene applicandoli all' Eucarestia (4). Ed osserva 1 che il Verbo divino prese un vero corpo umano (5), 2 che anche questo corpo umano preso dal Verbo non si sottrasse mentre era in terra alla legge degli altri corpi, di nutrirsi cioè di pane e di vino (6), 3 che il pane e il vino di cui Cristo si nutriva diventava una cosa stessa col corpo di Cristo, perocchè trapassava alla natura del corpo sebben corpo divino (7), 4 [...OMISSIS...] . Si fa poi l' obbiezione tratta dalla maraviglia che v' ha in una trasmutazione sì maravigliosa per la quale un pezzo di pane ed un calice di vino si trasmuta in un essere divino; e risponde, che se ciò avveniva indubitatamente quando Cristo vivea, niuna maraviglia che avvenga anco di presente; perocchè l' onnipotenza del Verbo, che faceva quella trasmutazione vivendo in terra è la medesima anche ora. [...OMISSIS...] Le quali parole del Nisseno non si possono già considerare, come contenenti una cotal vaga similitudine fra la nutrizione e la consecrazione; ma bensì come una spiegazione ch' egli manifestamente prende a dare di questa mediante di quella. Il secondo testimonio che noi addurremo sarà S. Cirillo Alessandrino, il quale senza nominare la parola nutrizione, dice però il medesimo affermando, che Iddio converte il pane nel proprio corpo, comunicandogli la virtù vitale del proprio corpo; che è appunto quel modo in che noi crediamo avvenire la transustanziazione. Le parole del gran Vescovo sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Può dirsi più propriamente e più espressamente quello che noi diciamo, cioè che la consecrazione consiste in una diffusione e comunicazione della vita divina del corpo di Cristo? E un testimonio maggiore ancora a prova della proposta sentenza possiam forse cavare dal libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Quando anco l' autore di quest' opera si dovesse collocare nel secolo V, fra il Concilio Efesino e il Calcedonese, come vogliono taluni, e però fosse posteriore a Gregorio e a Cirillo, tuttavia l' autorità di quel libro parmi vincer non poco quella de' due grandi Vescovi allegati, non foss' altro perchè vi si descrive la liturgia della Chiesa, che venìa dagli Apostoli. Ora i fedeli che comunicano sono appellati in questo libro« connutrizi « di Cristo: appellazione, come a me sembra, tenerissima ed efficacissima, la qual suppone che nella stessa Eucarestia trovar debbasi un cibo in pari tempo per Cristo e per noi. E veramente se il pane e il vino si converte nelle carni e nel sangue di Cristo per una operazione simigliante, sebben più sublime, di ciò che avviene nella ordinaria nutrizione; veramente i fedeli cibano quel cibo che ha cibato prima Cristo, e sono veri suoi connutrizii. Ella s' avvera in questo caso alla lettera la similitudine usata dagli scrittori ecclesiastici, i quali raffigurano Cristo nell' Eucarestia in una madre che nutrisce i suoi bambolini, del proprio suo cibo convertito in suo latte, convertito in propria sostanza. Dice adunque l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia che « la divinissima partecipazione comune e pacifica di un medesimo pane e di un medesimo calice prescrive a' partecipanti, siccome A CONNUTRIZII (1) una divina conformità di costumi - e che lo stesso autore de' simboli, a meritissimo diritto esclude (dal banchetto) colui che SECO avea frequentata la sacra cena, nè santamente, nè con animo concorde« (2), » cioè Giuda tipo di quelli che indegnamente comunicano. E se l' interpretazione di questo luogo può esser dubbiosa ad alcuni, niuno dubiterà però che con noi non la senta Giovanni di Damasco. Nel IV libro della fede ortodossa (3) egli scrive così: [...OMISSIS...] . Il qual passo è certamente chiarissimo: e conviene osservare, come il Damasceno riconosca come il cibo convertito naturalmente in carne ed in sangue vivo non formi già un corpo diverso, ma l' identico corpo che v' aveva prima: e come la similitudine che usa la crede atta appunto a dimostrare l' unicità e l' identità del corpo di Cristo, sebbene Cristo assuma e transustanzii nelle sue carni e nel suo sangue la sostanza del pane e del vino. Non può adunque dirsi che la similitudine usata dal Damasceno sia in questa parte deficiente: egli almeno la tien per attissima al suo intendimento. Nel secolo seguente Teofilatto, commentando il capo VI di S. Giovanni, così scriveva: [...OMISSIS...] . Le quali parole dice Teofilatto a intendimento di rendere più credibile sì grande mistero a quelli che s' atterivano pensando, che annunziasse cosa impossibile. Ora le sue parole niente varrebbero a tale intendimento quando non v' avesse una vera similitudine fra la nutrizione naturale e la consecrazione, che si può dire una cotale soprannaturale ineffabile e divina nutrizione di Cristo glorioso. E questa conversione in tal modo concepita viene espressa appunto allo stesso modo, ma senza l' uso di alcuna similitudine, da Elia Arcivescovo di Creta scrittore dell' ottavo secolo, a quel modo stesso come vedemmo espressa da Cirillo Alessandrino, dicendo egli, che « Iddio abbassandosi all' infermità nostra immette nelle cose proposte (in su l' altare) una virtù vivificatrice e le trasferisce all' operazione della sua carne« (2) » cioè dà loro l' atto o la natura della propria carne: il che è appunto quello che avviene nelle particelle del cibo, le quali avvolte quasi direi nel vortice della vita vengono anch' esse avvivate e acquistan natura ed atto di verissima carne. Al quale greco scrittore s' accorda un altro che fiorì nello stesso secolo nella Chiesa latina, voglio dire Alcuino, il quale così scrive dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] . Dove si vede manifesto come questo scrittore intendeva che il pane passasse nel corpo di Cristo, e così con lui si mescolasse e immedesimasse. Or sebbene, come dirò appresso, il Durando abusasse del concetto della nutrizione male intendendolo; tuttavia egli si scontra anche ne' teologi cattolici che scrissero dopo di lui, come in Simonate di Gaza, in Giovanni Bromiardo, nel Gersone, nel Sabundio. De' quali non sarà inutile l' addurre i luoghi. Scriveva adunque Simonate Gazeo nel XIII secolo: [...OMISSIS...] , il qual passo veramente non si può storcere a indicare altro che quello che noi vogliamo. Scrive pure il Bromiardo: [...OMISSIS...] : argomentazione che non istringerebbe, quando non si trattasse nella consecrazione di una trasformazione somigliante a quella che avviene veramente nella natural nutrizione. Giovanni Gersone simigliantemente: [...OMISSIS...] . Finalmente udiamo Raimondo Sabundio: [...OMISSIS...] . Il perchè l' errore di Durando non consiste nell' avere paragonato la consecrazione alla nutrizione; ma nell' aver detto che il pane non si converte già tutto nel corpo di Cristo, ma la materia del pane rimanere partendosene la forma sostanziale (3). Sembra che Durando sia caduto in tale errore per non essersi formato un' idea giusta della nutrizione; ed egli pare che credesse rimanere la materia del pane informata dall' anima di Cristo, il che sarebbe una vera impanazione (1). I teologi stessi, e fra questi un sommo, il Bellarmino, se non erro, hanno confuse insieme queste due cose. E veramente basta attentamente considerare con quali decisioni della Chiesa il Bellarmino combatta il Durando, per accorgersi, che l' errore che vien combattuto, non istà propriamente nel considerare la consecrazione come una cotal nutrizione di Cristo glorioso (detratto tutto ciò che nel concetto di nutrizione si trovi d' imperfetto e di difettoso); ma bensì nel supporre che la materia del pane rimanga immutata. Due sono i solenni decreti della Chiesa che il Bellarmino contrappone al Durando: 1. Il capitolo IV e il canone II della Sessione XIII del Concilio di Trento, dove si dichiara mutarsi « tutta la sostanza del pane nel corpo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue«. » Or a questo canone si oppone certamente la dottrina che insegna rimanere la materia del pane, ma non quella che dice tutta la materia del pane si trasmuta nelle carni del Signore; e questo avviene appunto supponendo avvenire nella consecrazione una conversione simile (sebben più sublime) a quella della nutrizione. Imperocchè supponendo la nutrizione perfetta avverrà, che nel pane Eucaristico non vi sia nè pure una particella, nè pure un elemento il più tenue che non sia vera carne di Cristo; nè del vino rimanga un atomo che non sia verissimo sangue; ciò che risponde a capello alla fede cattolica (2). 2. La Sessione VIII del Concilio di Costanza, nella quale si condanna l' errore di Vicleffo, il quale era che « gli accidenti non rimangono senza soggetto«. » Ora se la materia del pane rimane, certo che questa materia è il soggetto proprio degli accidenti, e però gli accidenti non sarebbero senza il loro soggetto, contro a quello che definì il Concilio di Costanza. Ma all' opposto se si afferma, che la materia del pane, soggetto degli accidenti, mediante la soprannaturale nutrizione di cui parliamo siasi cangiata nella vera e viva carne di Cristo, egli è cosa manifesta, che il soggetto degli accidenti non rimane più; e che non restano se non gli accidenti del pane e del vino, senza il pane ed il vino, senza la sostanza loro. Conciossiachè il corpo di Cristo ha ben degli altri accidenti, ma che tiene a noi occulti nell' Eucaristia, celandosi quasi direbbesi sotto gli accidenti altrui, che a noi appariscono. La dottrina nostra adunque è sommamente consentanea alle decisioni del Concilio di Trento e di quello di Basilea. Non v' ha dunque alcuna decisione della Chiesa, che c' impedisca la nostra sentenza, la quale anzi è mirabilmente consentanea ai Concilii di Costanza e di Trento. Non è però, ch' ella non trovi alcune difficoltà non leggiere nell' apparenza, ma che non mi sembrano tali nella sostanza. Oltre di che a portare un retto giudizio conviene raffrontare le difficoltà che porge la sentenza nostra, con quelle che trae seco la sua contraria, le quali a me sembrano oltremodo più gravi. Il perchè io verrò sponendo e ponendo a fronte le une colle altre, e così potrà ciascuno savio con piena cognizione di causa scegliere l' opinione che gli parrà meno involta di nodi e più consentanea alla rivelazione ed alla tradizione. La prima difficoltà dunque, che ci si affaccia, si è quella di non saper comporre la nutrizione collo stato di Cristo glorioso. E certamente, che se noi parlassimo di quella stessa maniera di nutrizione che in noi succede, ella non si potrebbe in modo alcuno avvenire in un corpo glorioso. Ma egli è necessario osservare, che tutto ciò che è conforme alla natura di un uomo (1) può trovare un modo di essere anche nello stato di un uomo comprensore, sebbene noi non sappiamo in qual modo ciò avvenga, perchè non abbiamo esperienza dello stato de' corpi gloriosi, salvo ciò che ce ne dà la rivelazione. E veramente la natura umana col farsi gloriosa non muta l' esser suo, ma ella si nobilita e acquista delle nuove qualità. Il perchè non è da credere, che rimanendo il corpo nostro formato come è al presente e delle stesse membra composto, egli non debba avere altresì un uso delle sue membra, sebbene quest' uso soverchi di presente il nostro pensiero. Quello solo che mi sembra di poter dire si è, che la maniera di nutrizione che può cadere ne' corpi gloriosi deve esser scevra da tutte le imperfezioni che involge la nutrizione nostra. Per esempio, la nutrizione in noi supplisce alle particelle che continuamente si separano dal corpo nostro, e col riparare a queste perdite e co' movimenti annessi all' opera della nutrizione mantiene l' attività, il calore, la vita. Tutto questo appartiene all' imperfezione nostra; la nutrizione considerata come producente tali effetti, necessari al mantenimento del nostro vivere, non può cadere in modo veruno in corpi impassibili immortali. Ma tutto ciò non forma ancora l' essenza della nutrizione, al modo come noi intendiamo questa parola. L' essenza della nutrizione noi la facciamo consistere unicamente, 1. nell' assimilare al corpo vivo della materia non viva, 2. e nel comunicare la vita a questa materia nell' atto stesso che si assimila e inorganizza nel corpo, sicchè con esso diviene un solo e identico corpo. Ora a me sembra, che niente ripugni che questo concetto della nutrizione si applichi anche ad un corpo immortale; io non veggo cosa che a ciò si opponga nella parola di Dio o scritta o tramandata; molte all' incontro che me lo persuadono. E veramente, se il corpo nostro imperfetto com' è ha pur tanto di vita in sè stesso da poterla comunicare a delle particelle di materia inanimata; e come di una tale virtù sarà privo un corpo perfettissimo, che di vita è pienissimo a segno, che non può morire? Convien considerare, che il comunicare la propria vita a materia straniera è cosa che appartiene all' eccellenza di una natura e non a un difetto; che è opera potente, nobilissima. Si richiede solamente svestire quest' alta funzione da quegli accessori, co' quali noi la veggiamo continuamente accompagnata, ma che non le sono necessarii, e che accidentalmente le avvengono per l' imperfezione nostra, cioè per l' imperfezione del soggetto, in ch' ella si forma. Di che avviene, che mutato il soggetto e reso questo al tutto perfetto, anche l' operazione di cui parliamo non delle sue imperfezioni parteciperebbe, ma più tosto de' suoi pregi e delle sue eccelse prerogative. Acciocchè dunque un corpo comunichi ad un altro corpo della propria vita non è necessario 1. ch' egli perda qualche parte della sostanza di cui si compone, come avviene ora in noi, 2. nè che egli abbia bisogno della vita distesa e accomunata ad altri corpi per viver egli, come pure avviene nel corpo mortale, 3. nè ch' egli sofferisca tutte quelle permutazioni successive, colle quali si forma in noi la nutrizione. Tutto questo viene escluso dal corpo glorioso (1). Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .
Nè contento d' essere abbassato di sotto a tutti col patibolo della croce, scese nel sepolcro, e fino a' luoghi inferiori; di dove ne cavò l' anime giuste dell' Antico Testamento dentro a quel luogo prigioniere. In questa maniera, dice Davide, secondo la lettera ebraica, « ricevette doni per gli uomini ». Da chi li ricevette? Certo da quello, che è Dio e padre di tutti, e di lui primieramente è Dio come Uomo, e Padre come Dio. Ma Paolo invece di riportare la lettera ebraica tradusse « ha dati doni agli uomini », come hanno varie versioni. E conveniva però meglio all' Apostolo così riferire quel passo notissimo; chè il senso non viene cangiato, ma spiegato all' uopo; mostrando in un solo tratto e la profezia e lo avveramento di quella. Chè di fatti al tempo di Paolo avea già il Verbo distribuiti questi doni ricevuti per gli uomini. Ma come mai bisogno aveva il Verbo di ricevere doni? Avea bisogno: non per sè, che come Dio aveva tutto dal Padre per necessità di natura, e come uomo per necessità di merito o sia di perfezione di volontà mediante l' unione; se pure fra questi doni non si conti l' unione medesima. La necessità di ricevere doni o grazie era per gli uomini, che niente meritavano; e ciò vuol dire di ricevere facoltà di distribuire i doni. Ma come non aveva egli tale facoltà? Egli sarebbe stato contro la giustizia divina il felicitare quell' uomo, che meritava infelicità sempiterna. Era l' uomo inimico di Dio, schiavo del demonio; come dunque regalarlo? Che fece pertanto il Verbo? « Ascese in alto », risponde il Profeta, « menò schiava la schiavitù ». Ci narra il suo trionfo, a detta di Paolo, per farci intendere la sua battaglia. Perciocchè l' Apostolo così argomentò: « Che è quell' ascese, se non che prima discese nelle parti più infime della terra? » Coll' umiliazione adunque Cristo guadagnò il trionfo per se stesso, cioè l' ascensione sopra tutti i cieli, e menò seco schiava la captività. Dove notate, che non dice i captivi , ma la captività; indicando in questo modo, che ancor più fece di quello che abbisognava, e più conquistò di che fosse necessario conquistare in terra. Chè aver menata seco la captività captiva viene a dire, che non solo non vi ha oggimai più alcuno prigione che non possa liberarsi, ma che nè pure vi potrebbe essere. Così quella parola captività indica un valore ed una conquista infinita; poichè per quanti fossero peccati e delitti, poniamo numero infinito, ancora nessun uomo potrebbe di necessità esser prigione, mentre fino la possibilità d' una necessaria prigionia, la prigionia stessa condusse via dal mondo. Ma considerate insieme altra conseguenza che qui se n' esce, cioè che se anche gli uomini tutti si dannassero, ancora Cristo avrebbe menata schiava la captività , vale a dire, avrebbe fatta quell' opera infinita. Poichè dice la captività , non i captivi . Cattività vale lo stesso che esser gli uomini nelle mani del demonio, in modo che non solo alcuno non uscisse, ma nè pure uscirne potesse. Per il che in quello stato di cose non potea Cristo distribuir doni. Cristo poi fece, che tutti si potessero salvare. L' opera dunque di Cristo è infinita, e la salvazione degli uomini particolari è altra opera, che non tocca la infinità di quella prima, e rispetto a quella è come un accidente. Condotta dunque schiava la schiavitù , cioè data all' uomo coll' amicizia dalla parte d' Iddio la possibilità di salvarsi; possiede Cristo la facoltà di distribuire i doni suoi, cioè la salute stessa, in varia abbondanza. Francato dunque da questa schiavitù infernale, da questa necessaria dannazione, per un tratto d' infinito amor gratuito di Cristo, e pel trionfo di lui sopra l' inferno venuto in sua mano il cuore dell' uomo; nel solo arbitrio di Cristo ora è riposto di eleggere uomini a salvamento. Può Cristo distribuire tali doni a sua volontà, avendo fatto per avere questa facoltà quello che fece. E` però certo che egli ne distribuisce in copia secondo il pietoso eterno decreto di suo Padre. Anzi l' Apostolo dice francamente: « Diede doni agli uomini ». O Efesini, voi stessi il vedete continuamente; là dove Davidde nel tempo primo non volle dire di più se non che « ha ricevuto dei doni per gli uomini », o sia il potere di compartirne. Ne compartisce adunque, e ne compartisce secondo la grandezza del suo amor per gli uomini, secondo la bontà e tenerezza del suo cuore. Onde chi potrà diffidare di lui, se ama salvarsi? Peraltro considerate che questi sempre sono doni , cioè non cose dovute; e in primo luogo questi doni sono appunto i meriti. Per questa maniera « empiuto ha egli tutte le cose ». Dagli altissimi cieli fino alle parti più infime della terra ha riempiuto tutto della sua gloria; e ciò quanto al suo trionfo. Quanto poi alla salute umana, si può dire a ragione, che « la terra era inane e vota » (1), ed egli la illuminò, ordinò, abbellì, riempì di se stesso. Trionfò in somma conducendosi seco schiava la schiavitù; e salvò gli uomini distribuendo loro i suoi doni. Questi doni tutti sostanzialmente consistono nell' unica grazia, di cui parla Paolo. Chi n' ha più, chi n' ha meno secondo la misura della donazione di Cristo . Ma oltre distinguersi nella Chiesa cotesti gradi di grazia, che più tosto sono a Dio conosciuti che agli uomini, si distinguono ancora varii uffizi e dignità, a cui questi gradi sono ordinati. Doppiamente poi si ordina la grazia all' uffizio e dignità esteriore, che ciascuno tiene nella Chiesa, vale a dire, o dando ad ogni cristiano la possibilità di occupare acconciamente il suo posto, o largheggiando a lui non solo la possibilità di ciò fare, ma il fare stesso. Quella prima maniera di grazia, che sufficiente si può appellare, Cristo a tutti la dona; perciocchè, come l' Apostolo in altro luogo afferma, « Iddio dà colla tentazione il profitto a poterla sostenere » (2). Ma il fatto stesso dell' opera è tal grazia, che non a tutti è conceduta. Perciò Paolo a' Corinti (3) accenna « diversità di doni, diversità di ministeri, e diversità di operazioni ». Pei doni s' intendono le abilità a trattare bene il proprio ministero; per ministeri gl' incarichi a ciascuno affidati; e per operazioni il buon uso di quei doni, ordinato, mercè l' amore d' Iddio, al giusto eseguimento dei ministeri. Sola quest' ultima grazia, che diremo efficace , giova a santificar se medesimi; l' altre più tosto sono date all' altrui santificazione, e all' adornamento della Chiesa. Come poi per queste diverse misure di efficace grazia l' uomo fassi più o meno grato a Dio, viene composta in tal modo una mirabile ma invisibile gerarchia nella Chiesa, che nella sua miglior parte sta in cielo: così per quelle diverse abilità ed uffizi, che rendono rispettabile l' uomo agli uomini, si crea una gerarchia bellissima e visibile quaggiù in terra. Ora di cotesta visibile gerarchia, Paolo tocca i principali gradi dicendo: « Ed egli stesso altri diede apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori ». A cui li diede? Agli uomini diede questi doni; e così parlando, mostra quello che testè osservavamo, essere tali ministeri non doni a chi li possiede, ma doni agli altri: vantaggiosi a coloro che da questi traggono la salute. Ora di tai ministeri andando sull' orma dell' Apostolo, si conviene considerare nella Chiesa in terra due ordini di dignità, una passeggiera e l' altra permanente. Quanto all' ordine passeggiero, novera S. Paolo i tre gradi di Apostoli, Profeti e Evangelisti. Tolte queste parole secondo le origini significano mandati, nunziatori del futuro, e nunziatori di buona novella . Ma parlando di una dignità della Chiesa s' intendono i mandati di Dio. [...OMISSIS...] Nella parola mandato poi non si dichiara nè limita autorità: quindi s' intendono sovente con questa voce i mandati per eccellenza, quelli che hanno ricevuta autorità maggiore: fra questi il primo è Cristo. Egli è chiamato nella Scrittura: « colui che dee esser mandato » (1). Nell' Antico Testamento fur mandati a dar la legge gli Angeli, Mosè ed Aronne. Paolo nella sublime lettera agli Ebrei dimostra peculiarmente che Cristo è superiore a que' tre ministri dell' Antico Testamento. Quanto a Mosè ed Aronne (poichè gli angeli non appartengono alla Chiesa che milita in terra), tutti e due erano mandati: « E mandai Mosè ed Aronne » (2). Ma come erano quelli mandati? Questa grande missione od apostolato racchiude tre uffici o dignità, cioè la dignità sacerdotale, la legislativa e la pastorale. Erano sacerdoti, onde nel Salmo XCVIII si dice: « Mosè ed Aronne suoi sacerdoti » (3). E quando Paolo scrivendo agli Ebrei, chiama Cristo « Apostolo e Pontefice della nostra confessione » (4), paragona bensì col titolo di Apostolo Cristo a Mosè, e col titolo di Pontefice ad Aronne, ma ciò è fatto prendendo il nome di Apostolo non in quel senso comune nel quale si dice tale anche Aronne, come vedemmo, ma in un senso di maggior dignità ed eccellenza. Poichè certo è che nel titolo di Apostolo dato a Mosè si comprendeva anche quello di Pontefice: distingue poi a chiarezza maggiore, e per torre ogni dubbio in sulla trascendente dignità di Cristo. Perciocchè recati in mezzo i tre ministri dell' antica legge, cioè gli Angeli, poi Mosè Apostolo, finalmente Aronne Pontefice: primo lo dimostra superiore senza confronto agli Angeli; e sebbene gli Angeli sieno superiori a Mosè, tuttavia lo vuole anche mostrare a Mosè superiore. Segue per ugual ragione a mostrarlo in ultimo anche superiore ad Aronne, sebbene Aronne sia minore di Mosè. Di fatti dice di Mosè, che « era servo fedele in tutta la casa di Dio », dipingendolo il maggiordomo o il fattore in tutta la casa con quel testimonio grandissimo tratto da' « Numeri » (1). In quest' aspetto generale considera adunque Mosè. Laonde quando appresso paragona Cristo ad Aronne, non fa altro che considerare Cristo superiore a lui nel peculiar incarico di Pontefice. Quello poi che Paolo aggiunge « della nostra confessione », a detta di S. Tommaso d' Aquino (2), si può intendere per quel primo sacrifizio spirituale , di cui sopra parlammo. Di fatti Cristo offerse non cose fuori di sè, ma se stesso. Essendo poi solo egli di interminato valore, solo era sacrifizio degno di Dio; là dove non così quello di qualunque altro uomo. Quindi egli abolì il sacerdozio di Aronne: egli sacerdote veramente unico, e sacerdote « in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » (3). Mosè oltre di ciò aveva nelle sua missione e apostolato l' uffizio di Profeta o interprete rispetto a Dio, e di legislatore o luogotenente di Dio rispetto agli uomini, là dove Aronne era solo profeta rispetto a Mosè, e luogotenente di Mosè rispetto agli uomini. Però Iddio, così dice a Mosè nell' « Esodo » (4): [...OMISSIS...] . Ma di Mosè propriamente era la portentosa verga, colla quale fra' miracoli guidava il popolo, altro suo gregge. Ell' era quella stessa verga, di cui qual pastore di vere pecore soleva far uso, e Aronne l' adoperava come ministro suo: mentre a lui solo aveva Iddio comandato di pigliarla in mano (7) per adempire gli ordini suoi. E s' ella dicesi verga d' Iddio sovente nelle « Scritture », è perchè sì Mosè che Aronne altro non erano finalmente che garzoni d' altro pastor maggiore padron della greggia, al quale Davide rivolgeva il discorso dicendo: « Guidasti il tuo popolo come un branco di pecore per le mani di Mosè e di Aronne » (1). E questo egli è pur Cristo che di sè disse: « Io sono il buon Pastore » (2): pastore veramente buono, che fra' pericoli di questa vita ci conduce nella promessa terra del cielo colla verga della grazia, che solo per la sua potenza è detta di ferro ne' « Salmi » (3). Nell' apostolato di Mosè adunque v' avevan i tre uffizi di Sacerdote dei Sacerdoti , di Legislatore e di Pastore . Lo stesso è in Cristo, ma in grado eminente, e in fonte, da cui tali doni agli uomini si derivano. Come Pontefice fu predetto da Mosè colla storia misteriosa di Melchisedecco spiegata divinamente da Paolo nel cap. VII della « Lettera agli Ebrei ». Come Legislatore nel cap. XVII del « Deuteronomio », [...OMISSIS...] . Come Pastore finalmente nei « Numeri » (4): [...OMISSIS...] . Preghiera, che Iddio esaudì per allora col dare Giosuè a capo del popolo, sì nel nome che nell' uffizio bella figura di Cristo. Così ancora quando il Signore mandò Mosè, questi non si acquetava, sebbene udisse: « Io sarò nella tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire » (5). Poichè ardendo di desiderio dell' altro Apostolo maggiore di lui, verso il quale egli si conosceva un nulla, importunò Iddio, e disse ancora: « Ti scongiuro: Signore, manda colui che sei per mandare ». Nel qual titolo di mandato , o Apostolo per eccellenza, racchiuse qui Mosè tutti i pregi e gli uffizi di Cristo. Ecco dunque quale è e come eccellente l' Apostolato di Cristo. Ora Cristo, trascelti dodici de' suoi discepoli, comunicò loro sì grande titolo di Apostolo. Dopo risorto poi disse: « Come mandò me il padre, anch' io mando voi » (6). L' Apostolato adunque dei dodici Apostoli è tutto simile a quello di Cristo, è partecipazione di esso, e partecipazione a cui Cristo non pose limiti. Oltre poi a questa generale missione, per cui gli Apostoli divennero luogotenenti di Cristo presso gli uomini, diede loro in particolare i tre uffizi o dignità di sopra annoverate. Primieramente li fece Sacerdoti, cioè partecipi dell' unico suo sacerdozio, conferendo loro la potestà di consecrare il pane ed il vino, obblazione monda, accettevole, degna d' Iddio, infinita: e glielo comandò nell' ultima cena (1): quando avendo per la virtù di sue parole nel proprio corpo e sangue convertito il pane ed il vino, e fra loro diviso, disse quelle memorabili parole: « Fate questo in mia commemorazione ». E poichè non era tale obblazione meramente legale e priva di un suo vigore, ma anzi d' infinita efficacia; per questo a' mandati suoi aggiunse l' altra facoltà divina ignota agli Apostoli dell' antico tempo, [...OMISSIS...] . Ma singolarmente a Pietro commendò tutto il gregge. Poichè a questo, iterata tre volte quella tenera inchiesta: « Se egli lo amava », anche tre volte quasi a premio della sua sincera risposta dissegli, che pascesse il suo gregge: le due prime colle parole: « Pasci i miei agnelli », e la terza (imperciocchè Pietro la terza volta gli si dimostrò ancora più caldo amatore) con quelle: « Pasci le mie pecore »; indicando con ciò che non solo pascer dovea gli agnelli figli alle pecore, cioè la plebe fedele, ma gli altri pastori altresì, che rispetto a Cristo e qui a Pietro ben s' appellano pecore. Dalle quali cose tutte s' intende come Cristo desse agli Apostoli del Nuovo Testamento la maggiore dignità possibile e senza limiti: imperciocchè Cristo non ne pose alcuno, e come nel ministerio così nella gloria simiglianti li descrisse a se medesimo (7). Bensì gli Apostoli stessi, i quali aveano da Cristo la facoltà di mandare, come Cristo l' aveva dal padre suo, perchè spediti al modo di Cristo, posero limiti a' loro successori. I successori degli Apostoli non furono già messi amministratori in tutta la casa di Dio quale fu Cristo come figliuolo, Mosè come servo nell' Antico Testamento, e gli Apostoli nel Nuovo come amici, anzi tenenti le veci e rappresentanti la persona del Figliuolo. Ebbero i successori degli Apostoli una limitazione, avendo essi il solo carico di reggere e ampliare la Chiesa sull' apostolico fondamento, non quello di fondarla, che Cristo avea dato agli Apostoli (1). Or quegli, a cui è commessa totalmente la fabbrica d' una casa, ne forma il disegno come a lui ne sembra, ed è posta nell' arbitrio suo tutta la disposizione dell' edifizio; all' incontro gli altri cooperatori debbono lavorare sul disegno fatto a principio dall' architetto, e debbono accomodarsi tutti alle incombenze particolari loro imposte. Agli Apostoli commesso era di fabbricare tutta la casa della Chiesa novella, avute a ciò le istruzioni da Cristo: in loro perciò era piena l' autorità, e secondo la sapienza che li reggeva disposero fino a principio tutto il disegno; a' successori all' incontro convenne di lavorare in sulle traccie lasciate dagli Apostoli, ed esercitare ciascuno quel peculiare incarico a loro sortito, a cui di muratori, a cui di manovali, a cui d' altro. Vero è che l' unico sapiente architetto fu Cristo (2). Ma come Mosè fece ogni cosa secondo l' esemplare veduto sul monte (3), così gli Apostoli, come dicevamo, facevano tutto secondo quello che avevano veduto in Cristo, e che lo spirito di lui veniva loro suggerendo; nè operavano a capriccio, ma seguendo Cristo fino a morte, come a Pietro era stato prenunziato (4). Gli Apostoli adunque erano limitati, se così dir si potesse, da sola quella sapienza, che in essi albergava. Ma non è questo accurato parlare. Poichè la sapienza che non ha limiti non limita, là dove l' ignoranza che per sè è nulla, ristringe e impicciolisce l' umana volontà. Somma è dunque l' apostolica dignità. L' Apostolo per eccellenza è Cristo, e i dodici per la partecipazione dell' apostolato di Cristo; Mosè e gli altri messi dell' Antico Testamento più tosto rappresentavano questo apostolato, che non sia ne partecipassero, come l' esterna Chiesa loro affidata era, più che la Chiesa stessa, figura della gran Chiesa, benchè lo spirito interno e l' essenza fosse una medesima. Quanto alla dignità di Profeta dicemmo già secondo la greca origine significare predicitore , là dove Evangelista annunziatore di buona novella. Apparisce in ciò, che come quell' uffizio conveniva all' Antico Testamento, quando ancora il mondo non avea la salute, così questo al Nuovo si avviene, in cui è predicato il sanatore dell' umana infermezza, e l' inventore della perduta felicità. E quando nell' Antico Testamento d' un Profeta si legge che evangelizza, si scorga la similitudine cogli Evangelisti del Nuovo. Prima della venuta di Cristo era diviso il mondo fra i Gentili e gli Ebrei. Nelle tenebre, in cui giacevano le genti inquiete, angosciose, infelici, senza Dio in questo mondo , andavano esse in cerca nell' avvenire di un qualche conforto: chè alcuno nel presente non ne vedevano. Così l' uomo, che non può co' beni presenti appagarsi, è sospinto dal desiderio alla speranza e alla espettazion del futuro. Qual maraviglia, considerando questo fatto, se si veggono i gentili così proclivi a dare orecchio agl' indovini di mille maniere, agli oracoli, e a tutta la loro superstizione, che chi ben a dentro la mira, su questa speranza in gran parte si erigeva? Era per tal modo il Messia l' espettazione non solo di que' Santi, che sparsi per le nazioni e istruiti da Dio con peculiar cura sapevano di lui; non solo di quei sapienti, che meditando sopra se stessi ritraevano per ultimo frutto di loro speculazioni la ignoranza umana, e la miseria, e la necessità palmare d' un inviato dal cielo; ma ben anco l' espettazione era delle nazioni in generale, che sordamente angosciate dall' infinito bisogno che l' umana natura v“ta di beni sentiva, senza conoscerlo il desideravano, l' aspettavano. Questa io credo principale origine de' falsi profeti presso agli uomini fuori d' Israello, i quali prima di Cristo sempre avidissimi e frenetici di scoprire il futuro si dimostrarono. Ma presso gli Ebrei la profezía non fu finzione, ma verità, e d' origine divina. Colla segregazione di questo popolo dall' altre nazioni idolatre Iddio radunò la sua Chiesa in un corpo visibile, mentre avanti ell' era dispersa e disgregata pel mondo, e forma non aveva ad occhi umani di peculiar società. Dalla chiamata di questo popolo doppio vantaggio ne scaturì. Si provvide alla dignità del Messia, e alle prove della sua verità, col sequestrare dall' altre quella generazione di cui voleva discendere. Appresso si provvide alla salute del mondo, stabilendo e apparecchiando con divina sapienza un popolo, che dovesse ricevere questo Messia, e con tutto rigore e scrupolo conservar le prove della verità sua, e mostrarle al mondo tutto. In qual maniera adunque preparossi Iddio questo popolo? « Tutte queste cose », dice Paolo, « avvenivano a lui in figura » (1). Aveva anche questo popolo, perchè porzione egli pure di massa corrotta, e quindi del presente scontentissimo, quella curiosità somma delle future cose, per cui alle pagane superstizioni ognora inchinava. Era tale propensione e amor del futuro d' una parte a lui nocevole, perchè facile il rendeva a venire ingannato. Per l' altra gli fu vantaggiosa: poichè vegliando Iddio alla sua custodia, sempre lo sceverò da' Gentili; e quantunque volte peccasse, con acri gastighi ammonendolo, il facea risentire dell' inganno in cui si trovava. La divina sapienza oltre ciò gli mandò dei veri profeti; e così a bene rivolse quella inclinazione medesima, che da lei era non senza sì grande fine predisposta. Oltre di ciò salvandosi ogni uomo per Cristo, il solo nome in terra, sotto cui si fosse posta una speranza di salvamento; qualunque cosa Iddio facesse manifestare a vantaggio dell' uomo, dovea riguardare il Cristo, dovea essere Profezìa. Per questo Paolo: « Tutte le cose a questo popolo accadevano in figura ». E qualunque uomo ottenesse grazia di qualche divina illustrazione ad insegnamento del popolo fu chiamato presso gli Ebrei ora veggente, ed ora profeta (2). Ma fra gli uomini inspirati dell' Antico Testamento, o vero fra i profeti, si possono discernere quelli che danno una dottrina, e quelli che fanno profezie, o spiegano la dottrina, ma non la danno. La dottrina, o sia la Legge nell' antico patto fu data dal solo Mosè come profeta e bocca del Verbo. Nel nuovo, dal Verbo stesso incarnato come Profeta e Sapienza d' Iddio. Mosè avea comandato di non aggiungere nè torre nulla alla legge sua (3). Il perchè nel « Deuteronomio » dà agli Ebrei per indizio di riconoscere il falso profeta del secondo genere: se egli detrarrà alla legge, e così li rimoverà dal loro Iddio (1). Ma quando nel capo XVIII di questo libro stesso prenunzia il grande Profeta simile a lui, e dice espresso: « Lui ascolterai »; allora non dà più agli Ebrei per indizio di riconoscere l' ingannatore il rimuoverli dalle cerimonie legali, l' aggiungere o il detrarre dalla sua legge, il torgli da Dio; ma solo la verificazione delle profezie, di cui egli stesso è autore (2). Cristo era adunque il gran Profeta e Legislatore simile a Mosè, ma da Mosè tanto distinto quanto Dio è dall' uomo. In questo Profeta riposavano e terminavano tutti i doni del Santo Spirito, al dire d' Isaia (3), come i fiumi s' allettano e riposano nel mare onde escono. Cristo dunque sommo de' profeti, Profeta per eccellenza, quegli da cui gli altri profeti furono ispirati; scopo e termine fisso alle loro predizioni; Cristo solo forma la prova della loro verità, perchè in Cristo si videro verificate. Per opposito essi formano la prova della verità di Cristo, non solo perchè ciò che è detto da profeta, cui l' avvenimento confermi le sue profezie, vuole esser vero; ma ancora perchè avendo Cristo profetato pel loro ministerio, la verificazione delle loro profezie prova lucidamente la dote di vero e sommo Profeta in Cristo. Che poi Cristo abbia per mezzo de' profeti parlato, da tutto ciò si argomenta, da cui si fa chiara la sua divinità. Ma veggiamo qual differenza v' abbia tra le dignità di Profeta e di Apostolo. Se Mosè si può dire, secondo il concetto di S. Paolo, l' Apostolo dell' antico patto, ecco come Dio lo distingueva dagli altri profeti (4): « Se saravvi tra voi un profeta del Signore » (sono parole rivolte ad Aronne e Maria, che si ergevano per invidia contro a Mosè), « io gli apparirò in visione, o gli apparirò in sogno. Ma non così al mio servo Mosè, il quale in tutta la mia casa è fedelissimo. Perciocchè io a lui parlo bocca a bocca ». Questa espressione, che sembra significare: con tutta chiarezza, mostra assai acconciamente la viva somiglianza resa da Mosè cogli Apostoli del Testamento nuovo, che dalla propria bocca di Gesù udirono le dottrine. « Ed egli chiaramente e non sotto enimmi o figure vede il Signore ». E nel « Deuteronomio » (5) si rende a Mosè simile encomio. Sembra dunque che l' Apostolato di cui parliamo in questo consista, nell' avere dalla stessa bocca di Dio l' istruzione e l' inviamento. Consonano a ciò le parole, che Cristo ai dodici rivolgeva: « A voi è dato d' intendere il mistero del regno d' Iddio: ma per quelli che sono fuori, tutto si fa per via di parabole » (1). Paolo nella « Epistola a' Galati » volendo dimostrar se stesso Apostolo egualmente ai dodici (2), comincia dicendo, non essere egli « stato eletto » a tal dignità « dagli uomini nè per mezzo d' uomo, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre, che risuscitò Gesù Cristo da morte ». E appresso segue: « Or vi fo sapere, o fratelli, come il Vangelo che è stato evangelizzato da me non è cosa umana. Perciocchè non hollo io ricevuto, nè l' ho imparato da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo »: e ancora conferma il medesimo mostrando, che appena chiamato quale Apostolo delle genti non andossi già egli in Gerusalemme dagli Apostoli a impararlo; ma tostamente in Arabia, indi si tornò a Damasco, e solo trascorsi tre anni fu a Gerusalemme dagli Apostoli a visitar Pietro, col quale rimase quindici giorni, e, fuori di Giacomo, nessuno altro degli Apostoli avea veduto, oltre a Pietro. Di poi si condusse ne' paesi della Siria e della Cilicia, e, quattordici anni passati, fu di nuovo a Gerusalemme per rivelazione a confrontare col collegio apostolico il Vangelo fra le nazioni predicato, non già al fine di verificarlo, ma di autorizzarlo presso gli uditori suoi pel mirabile consenso con quello degli altri (3). Or poi sebbene la profezia, come è detto, propria cosa fosse dell' Antico Testamento; non di meno tal dono apparve anche nel Nuovo. Ciò avviene a edificazione; e non è più però alla Chiesa così sustanziale come era prima di Cristo. Il perchè appresso S. Matteo si legge: « Tutti i profeti e la legge profetarono sino a Giovanni » (4). Onde quando Cristo disse: « Ecco, che io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (5), s' intende esser detto alla maniera degli Ebrei, i quali per profeti toglievano qualunque veggente, e per la natura dell' antico patto aveano ragione. Ora Cristo mandò loro gli Apostoli, che erano profeti per eminenza, come Mosè tra' profeti del Testamento Antico; ed occupavano però il posto degli antichi profeti con assai vantaggio. Il perchè Cristo mandò loro non solo profeti, ma più che profeti. Questi ancora della futura gloria e dell' avvenire della Chiesa profetavano, come avevano udito da Cristo, e come lo spirito loro suggeriva. Venne ancora nel Nuovo Testamento un nuovo genere di profezie, cioè lo spirito d' interpretare i profeti antichi. [...OMISSIS...] Quello Spirito Santo adunque che nel patto antico facea predire le cose del Messia, nel nuovo le fa interpretare; e tanto quegli uomini antichi, del cui mezzo si servì, come questi, di cui si serve, non malamente mi pajono chiamati profeti, perchè sì gli uni sì gli altri colle profezie confermano Cristo; i primi proferendole, e dilucidandole i secondi. Ma l' incarico maggiore di questi profeti mandati da Cristo è d' annunziare al mondo quella buona novella, che una volta solo si profetava. Come adunque gli Apostoli occupano, ma con dignità maggiore, il luogo di Mosè; così gli Evangelisti tengono il luogo de' profeti, e profeti si possono chiamare, non differendo nell' oggetto di cui favellano, ma solo nel tempo: mentre annunziano questi venuto colui, che quelli futuro prenunziavano. Sostanzialmente sono persone dallo stesso spirito inviate a ben degli uomini. Che poi non sia delle predizioni sustanzial bisogno nella Chiesa, da questo s' intende, che essendo Cristo il fonte della verità, e la pietra di paragone, a cui di ogni vero si fa il saggio; già non dobbiamo, a provare gl' insegnamenti che dati ci vengono, al futuro ricorrere, ma solo all' esemplare passato appareggiarli. [...OMISSIS...] E per la ragione medesima noi veggiamo in Isaia (3) Iddio argomentare co' Gentili, mostrando loro, come gli Dei non sanno rispondere a loro inchieste, non possono coi predicimenti aprire le grandi mire della provvidenza ne' successi delle nazioni, e profetando un Cristo, a cui que' successi si riferiscono, giustificarla; nè avendo essi Gentili nè i loro Dei cosa alcuna ad opporre con verità in questa disputa, così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dice adunque, senza profeti esser le genti, e però vivere tristi senza speranza del futuro, senza Dio in questo mondo. Alla fine promette, che non da' loro Iddii avranno questi profeti sì bisognevoli all' uomo nella condizione di quel tempo, ma che egli sarà il primo , il quale colla possanza sua faralle partecipi di Sionne. Pur non dice loro di dare oggimai un Profeta , bensì un Evangelista: che veniva a dire non dovere esser le genti chiamate a lui nel tempo del predicimento, ma dell' annunzio della buona novella. Dice bensì che tale Evangelista darallo a Gerusalemme; ma prima dice che a Gerusalemme si rivolteranno le genti, anzi si ridurranno intorno tutte a Sionne, monte sopra il quale è « costituito Re Gesù Cristo », come è scritto ne' Salmi, « a predicare il precetto di Dio » (1). Tengono adunque nel nuovo patto gli Evangelisti quel luogo, che i Profeti nell' antico; ma hanno uffizio e più lieto e più splendido. Quest' Evangelista poi, di cui per eccellenza Isaia parla, egli è il Cristo, che insieme è buona novella, e apportatore di lei. Egli è quegli, in bocca di cui disse appresso lo stesso Profeta: « Il Signore mi ha mandato ad evangelizzare a' poveri » (2), passo, cui leggendo Cristo nella Sinagoga di Nazarette, adattò a se medesimo (3). Egli è quegli, di cui in un capitolo antecedente avea detto lo stesso Profeta: [...OMISSIS...] . Dall' altezza dunque di Sion Cristo evangelizza Sionne e Gerusalemme, e mostrando se stesso alle città di Giuda, dice altamente: « Ecco il Dio vostro », nel che la grande e fortunata novella consiste. E l' annunzia con alta e sonante voce, acciocchè possa essere anco lontano inteso, cioè da' Gentili, detti « lontani » da Paolo (5), che nelle città di Giuda sembrano raffigurati, le quali, benchè fuori della città santa, pur l' adito hanno e la vicinanza ad essa per l' unità dello stipite suo che le rende tutte una tribù. Non solo poi fa bisogno che forte e sonante tragga la voce, ma la tragga « nella sua fortezza », cioè da grazia accompagnata; fortezza a' profeti non data mai, perchè non avevano essi schiava condotta la schiavitù degli uomini, e ricevuti dei doni da compartire; ma propria di Cristo, e da lui mandata dietro alla voce di quelli, a cui partecipò l' incarico di evangelizzare. Questa voce simigliante alle trombe che annunziano dopo di sè il venir d' un esercito numeroso, si dice in un Salmo sublime: « Il Signore darà la parola e il comando: evangelizzeranno un esercito numeroso » (1). Evangelisti ancora si chiamano in senso più stretto quei quattro santi uomini destinati a scrivere l' Evangelo, e alcuni altri che in sul principio della Chiesa avevano grande spirito e dono di miracoli, ed erano dagli Apostoli eletti ad evangelizzare con ampia podestà secondo che lo spirito suggeriva; a ragion d' esempio il diacono Filippo, che negli « Atti apostolici » è pure chiamato col nome di Evangelista (2). La ragione, per cui S. Paolo a' Corinti (3) mette gli Apostoli ed i Profeti, e lascia d' annoverare gli Evangelisti, può essere perchè, come dicemmo, gli Evangelisti non erano altro che un supplemento agli Apostoli, che non poteano esser per tutto; a cui provvedere furono eletti anche i diaconi, e però dicendo Apostoli hassi a intendere, co' loro compagni , come sarebbero stati Silla e Barnaba compagni a Paolo. Di fatti proprio era de' Profeti, come spiega Paolo, edificare la Chiesa già credente; là dove era proprio degli Apostoli ed Evangelisti chiamare alla fede, e fondare così la Chiesa (4). Quando Cristo adunque dice agli Ebrei che loro manderà dei Profeti, invece di dire che manderà degli Evangelisti, a loro parla assai dolcemente sì come a suo popolo, e mostra che egli non vuole fondare fra essi Chiesa nuova, nè introdurre nuova religione; ma solo compiere e perfezionare l' antica. Spiegati questi ampi e generali uffizi della Chiesa nascente; ora è a dire di quelli, che essendo istituiti a conservarla e fregiarla vie più di pio decoro, permangono sino alla fine. Questi non sono da Paolo specificati, ma solo tocchi colle parole di pastori e dottori , che esprimono in genere tutto l' ecclesiastico durevole ministero. Per dirne alcun poco è a sapere, come anco l' antico Israele ebbe due tempi o quasi epoche come ebbe il nuovo. Conciossiachè lasciando età più rimota e cominciando da Mosè, d' onde il popolo ebraico ritrae forma di regolata e compiuta società; troviamo, che da quel legislatore e profeta principale fino ad Esdra, cioè pel corso d' anni mille, mandò Iddio i profeti suoi, i quali con istraordinaria missione, colle profezie, e coll' inculcamento della legge reggessero l' Ebraica Chiesa; trapassato il qual tempo, furono solo reggitori ordinari e permanenti. Così nella Chiesa a principio v' ebbero gli Apostoli , i Profeti , e gli Evangelisti; e appresso, cessate queste dignità, rimasero i pastori e dottori . La ragione perchè nell' antica Chiesa fu sì lungo il tempo della missione straordinaria, e sì breve nella nuova, è molteplice. Primieramente essendo oggetto unico dell' istruzione del mondo in tutti i tempi Cristo, questo oggetto allora era futuro, come ora è passato. Non poteva essere dunque senza straordinario dono, che nell' antico tempo di questo oggetto si favellasse, fino che da straordinari mandati non fosse stato predetto tutto ciò, che esser predetto dovea. Ma queste cose a predirsi del Messia ed erano molte, e voleva la dignità di lui che da lunga serie di uomini ispirati fosse descritto; come anche ciò richiedeva la necessità che Cristo avesse prove di molte guise, replicate, evidenti; ciò che dimandava anche il bisogno dell' umana imbecillità, essendo a questa acconcia l' istruzione gradata, e lenta, e quasi a sorsi, sì come di oggetto arduo e spirituale. All' incontro nel Nuovo Testamento Cristo non più si profetizza, ma si narra: e se v' ebbe bisogno a principio di straordinari commissari per fondare la Chiesa tutta spirituale, com' ella è, di GESU` fra uomini che avevano lo spirito affisso alla carne, e quasi da essa assorbito, di straordinario potere appresso non fu bisogno per reggerla. L' essere stata poi fondata con sì rapido e maraviglioso eseguimento, sì come piacque alla virtù divina, per una parte domandò uomini fuori dell' usato sì per autorità e potere, che per doni di spirito, dall' altra abbreviò il tempo di sì fatto bisogno. Ed a quel modo che la lunga missione de' Profeti confirmava meglio la religione, così la religione e la potenza del capo suo meglio appariva quant' era più breve la mission degli Apostoli. Ma aggiugnete ragione di maggior peso. Nell' antico Israello si può dire messo straordinario qualunque uomo, a cui avesse Iddio data podestà soprannaturale; non così nel nuovo. Poichè nel nuovo anche l' ordinaria dignità di soprannatural potere è fornita. Sono ordinari ministri quelli che o con ordine stabilito e continuo si succedono e permangono sinchè dura la Chiesa, o sieno questi messi da Dio, o dalla Chiesa stessa istituiti. De' primi nell' antico Israello erano i Sacerdoti, de' secondi i sapienti e gli scribi che da Esdra cominciarono. Ma nè i sapienti, nè gli scribi faceano nulla sopra natura, nè i Sacerdoti atto facevano, a cui effetto soprannaturale conseguitasse: il perchè i Sacerdoti nostri sopra quelli sommamente s' innalzano per la consecrazione del pane e del vino, e per gli effetti di questo divino sacrifizio, che vengono disponendo a' fedeli con divino potere. Questione è degli eruditi diffinire il tempo a cui si debbano richiamare i Sapienti e gli Scribi . Quanto agli Scribi (non de' profani , ma di quelli che sacri o ecclesiastici si nomano), forse derivano da Mosè stesso nella prima loro origine, come vogliono alcuni (1), e da Esdra furono solo ristorati: e forse diffinirne il tempo dipende dall' idea più o meno larga, che di essi altri si forma. Noi di quelli parliamo, che nella sacra Storia dopo Esdra compariscono. Certo questo uomo illustre dagli Ebrei è detto « Principe dei Dottori della legge », e affermano i Rabbini ch' egli stabilisse in Gerusalemme scuola d' interpreti, acciocchè la legge giammai non dovesse per falsa intelligenza essere contraffatta. Tornano tali Scribi a un medesimo coi Legisperiti, e forse un po' differiscono non nella qualità dell' uffizio, ma nel grado di dignità. I Sapienti riuscivano una cosa medesima co' Farisei ambiziosi di tali titoli, che loro dava il vulgo, benchè appresso vollero piuttosto essere chiamati con più coperto titolo « discepoli de' Sapienti ». Questi molto insistevano sulle tradizioni loro, che premettevano di pregio alla Legge; là dove gli Scribi più tosto attendevano all' interpretazione di essa legge. A questo proposito veggiamo nel capo XI di S. Matteo, che i Farisei apponevano a Cristo il mangiare e 'l conversare co' pubblicani e co' peccatori: cosa disdicevole alle loro consuetudini; là dove gli Scribi gl' imputavano la bestemmia, peccato contro la legge. Erano bensì nel tempo di Cristo e gli uni e gli altri della stessa pece macchiati; rigidi con altrui, larghi con se medesimi; imponitori di importevoli pesi, mentre, come dice il Vangelo, non sollevavano essi di terra una paglia (2). L' uffizio però d' ambidue era buono. Tanto le legittime tradizioni e costumanze, come la scritta dottrina si doveano curare; dicendo Cristo, che questa conveniva serbare, e quelle non trasandare. Paolo poi nella prima a' Corinti (1) nomina una terza maniera di dottori, che sottili indagatori erano dagli Ebrei appellati, e interpretavano la Scrittura con istudiate allegorie, e sottigliezze fredde: e questo modo d' esporla è dannato da Paolo in quella a Timoteo (2) come generatore di quistioni e altercazioni infinite. Per questo Cristo non fe' parola di costoro quando disse: « Ecco io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (3). Ma a chi poi Cristo dicea così? Appunto a' Farisei e a' Legisperiti, a que' sapienti e scribi. Ben da ciò si vede quanto questi Savi di Cristo avanzino quelli. Poichè come quegli erano mandati al popolo, e in risguardo ad esso popolo sapienti e scribi s' appellavano; così que' di Cristo fur mandati anche a' sapienti e scribi, e a rispetto di loro altresì si voleano appellare in tal modo. Il vocabolo di dottori poi fu anche appresso gli Ebrei di significato generale; con cui si nomavano tanto i sapienti, che i legisperiti o gli scribi. Quindi Paolo nella prima a' Corinti (4) accenna col solo nome di dottori l' uffizio, che nel luogo che abbiam fra mano dell' « Epistola agli Efesini » indica con due, di pastori e dottori . Con queste due parole adunque esprime ogni governamento della Chiesa: e di più ce ne mostra la natura. Poichè il reggimento ecclesiastico istituito da GESU` è così dolce, come di pastore che corregge il gregge. E` di nulla ha più cura se non ch' ei cresca e prosperi: mai non l' offende, nol castiga mai troppo aspramente: e se travia qualche pecora, e' va con gran destrezza a raggiungerla, pigliarla senza nuocerle, se la reca in ispalla, e torna così al branco. Tutt' altro è questo reggimento che quel de' re della terra, che dominano su' soggetti (5), e che governando civilmente e non spiritualmente, usano ancora la forza meccanica, non quella solo di persuasione e di amore. All' incontro l' unica arma in mano al pastore evangelico, l' unica verga è la voce: con questa apre la verità, con questa svela il falso, con questa lega e condanna. In somma i reggitori ecclesiastici non sono monarchi; sono pastori; non sono re , ma sono maestri degli uomini . Cristo poi, dice il Dottor nostro, li ha spediti « per lo perfezionamento de' Santi ». Ecco il fine di tutte le cose, la santificazion degli uomini. Qual bontà non è ella questa di Dio di avere il tutto fatto pe' suoi eletti? [...OMISSIS...] Ma se tutto ha fatto perchè gli eletti fossero santificati, a qual fine poi quest' opera stessa? Ogni santità degli eletti è di Cristo; da esso la ricevono si può dire a prestito, non a proprio. Tutto adunque tornar debbe a Cristo stesso, perchè tutto è di Cristo: e quando Paolo dice, che avemmo in dono tutte le cose, aggiunge però in Cristo; perchè nessuna cosa può darla così a noi che la tolga a sè, ma se stesso dà a noi, e così ci dà tutto, perchè tutto in sè possede. Cristo veramente è lo stesso « splendore della gloria e la figura della divina sostanza (2): è la virtù e la magnificenza di Dio » (3). Dio adunque è l' ultimo fine di tutte le cose, e tutte cose ha fatto per sè (4). [...OMISSIS...] Cristo adunque è quegli, nel quale Dio vuole essere per noi glorificato. La santità nostra dee fruttare gloria a Cristo qual capo dei fedeli, e la gloria di questo capo gloria a Dio. A Cristo poi si riferiscono quaggiù tutte le cose in due modi, come in due modi è con noi: nel suo corpo reale, cioè nella Eucarestia, e nel suo corpo mistico, cioè ne' fedeli che fanno la Chiesa. Quindi è rivolta tutta la Chiesa col reggimento suo a questi due scopi: a Cristo nel pane e nel vino, e a Cristo in se stessa. Ell' ha perciò due potestà, l' una deputata al primo di questi corpi, l' altra al secondo, la prima costituisce l' Ordine sacro , l' altra la ecclesiastica Giurisdizione . Quanto alla prima dice Paolo: « in opus ministerii », per « l' opera del mistero »; quanto al secondo, « in aedificationem corporis Christi », per « l' edificazione del corpo di Cristo ». L' una di queste potestà Cristo la conferì alla Chiesa quando pochi momenti innanzi la passione sua consecrò, e distribuì il pane, e appresso fatto il simigliante del calice aggiunse: « Fate questo in mia commemorazione » (1). L' altra podestà da Cristo fu promessa prima di sua morte (2), ma conferita agli Apostoli poscia che fu risorto, [...OMISSIS...] . E con grande ragione disse queste parole solo dopo risorto. Poichè a Cristo si debbe conformare in tutto la Chiesa. Cristo ha le primizie in tutto, in tutto la precede; il primo egli de' risorgenti: nella sua risurrezione soltanto risurse la Chiesa a eterna vita. Ei la trasse con sè del sepolcro, risurgendo, e perciò con quest' atto acquistò sopra lei ogni potere. Quindi allora solo convenìa che partecipasse agli Apostoli tal podestà sopra il suo mistico corpo, là dove la podestà sul suo corpo reale andava bene che gliela conferisse quando non era ancor morto, ma morire poteva: non essendo altra cosa la sacra cena che una immolazione del divino agnello. E poichè alla podestà del governar la Chiesa è necessario che sia congiunto divino lume, nell' atto di darla agli Apostoli soggiunse ancora: « Ricevete lo Spirito Santo » (4), e: « Io sono con voi sino alla consumazione del mondo », non muojo più, non m' è tolta più mai quella podestà, che come uomo mi ho guadagnata morendo, perciò nè pure mancherammi giammai la sposa mia, la mia Chiesa, voi miei ministri non avrete a temere nulla in governarla, perchè io v' ho dato questo potere mio indeficiente, questa mia divina autorità e virtù. Per tanto la prima di queste due podestà, che ha l' incarico del ministero , costituisce la natura del Sacerdozio. Sacerdote è quegli, « che offerisce a Dio doni e ostie » (5), e chi avesse la sola facoltà di consecrare sarebbe sacerdote perfetto. Essendo poi l' unico dono, e l' unica ostia accettevole GESU` Cristo, l' unico sacerdozio vero è il suo, tutti gli altri sacerdoti non possono essere mezzani fra Dio e gli uomini. L' altra podestà dell' edificazione del corpo mistico di Cristo è quella, che forma propriamente i Vescovi, questi fur posti « a reggere la Chiesa di Dio » (1), questi sono i pastori e i dottori , questi gli sposi della Chiesa, i compiuti esemplari di GESU` Cristo. Per questo non si può dare Vescovo senza Chiesa, come non si dà sposo senza sposa; poichè Vescovo vuol dire appunto quegli che ha Chiesa, come sposo vuol dire quegli che ha sposa. Ma se il Vescovo presiede al mistico corpo di Cristo, se il capo di questo corpo non è altri che Cristo stesso, se perciò Cristo come uomo è anch' egli membro di questo corpo, quel membro nobilissimo, che agli altri membri dà l' unione in un corpo e la vita: chiaramente apparisce come la Podestà vescovile suppone la sacerdotale, la podestà sul corpo suppone quella sul capo: poichè senza il capo più corpo non vi ha: non si comanda al corpo altro che pel suo capo: a quello solo ubbidisce: non si santifica il corpo altro che col sacrifizio del capo: quello solo è la nobil vittima di salute: non discende nè podestà alcuna nè grazia alle membra se non per la via del capo: da lui hanno tutto, in guisa che in lui spirano, in lui vivono per mirabile modo e nascosto. Onde conviene che solamente il Sacerdote, che ha podestà di sacrificare Cristo, e placare in tal modo Iddio, e che può così agli uomini dar salute, e quasi guadagnarli a somiglianza di Cristo col gran sacrifizio; possa sopra di loro esercitare autorità. Per questo i pastori hanno sempre obbligo di pregare e sacrificare per le pecore. Or questa podestà sopra il corpo reale di Gesù, fonte e radice della episcopale, contiene tutti gli uffizi necessari per sì fatto sacramento. [...OMISSIS...] Tutti questi uffizi sono bisognevoli al sacramento eucaristico, e tutti uniti negli Apostoli gl' istituì Cristo, quando loro diede podestà sopra il suo corpo reale. Perchè poi i fedeli formano il compimento e la pienezza del corpo di Cristo, come le membra quella del capo, o come il vestimento quella del corpo (2): per questo il Vescovo è denominato compimento del Sacerdozio . Ben è vero, che Gesù Cristo è così perfetto in se stesso, che dalle membra nessuna perfezione ritrae, ma loro solo comunica: a differenza della testa nel corpo umano, che senza l' altre membra non vive. Tuttavia avendo voluto congiungere a sè degli altri uomini, in questi estende e dilata la propria santità, loro comunicandola: è sempre quella santità stessa, ma in molti trasfusa in molti risplende. Dai Santi adunque riceve Cristo il compimento da lui voluto e preordinato, non perchè egli perfettissimo non sia, ma per l' opera della sua bontà, per la quale volle patire a redenzione di molti. E come i fedeli da Cristo ogni perfezione ricevano, nulla Cristo dai fedeli, mostrasi nel Vangelo stesso: là dove la Chiesa viene rappresentata, secondo i Padri, nella veste di Cristo, che ricevette in sul Taborre dal corpo, cui vestiva, candidezza di neve (1). Per questa parte adunque Cristo è veramente un corpo in tutte sue parti perfetto, nè la veste aggiunge al corpo veruna cosa, se non un certo fornimento esteriore, che parte alcuna non forma della sustanza del corpo stesso. Ma per tornare alla similitudine delle membra e del capo, in che dunque consiste questa pienezza di podestà vescovile? a che è rivolta questa autorità in sulle membra di Gesù Cristo? Coll' autorità in sul capo, cioè col sacrifizio, unisce e riconcilia l' umanità alla divinità: o almeno pone il fonte e la possibilità di questa riconciliazione. Del resto prosegue Paolo spiegando quel vescovile potere così: [...OMISSIS...] . Adunque lo scopo di quella podestà, che il corpo mistico risguarda di Gesù, si è quello, di fare che le membra non pure sieno unite al capo, ma sieno della proporzione stessa del capo. Molte parti ha un corpo (2). Queste diverse parti sono nella Chiesa di Dio i diversi doni e' diversi ministeri (3): ognuna necessaria, ognuna vantaggiosa all' altre, ognuna nobile perchè cooperante a formare l' armonia del tutto (4). Ma nel corpo non solo ci vogliono membra che lo compongano, ma è conveniente che tengano proporzione al capo: sicchè essendo il capo da adulto, non sieno le gambe o le braccia da fanciullo. Il corpo della Chiesa è perfetto: il suo capo è Cristo compito in tutte le cose. Egli giunse anche coll' età sua al mondo alla compita misura di uomo, perchè nel suo corpo reale avesse esempio il mistico. Poichè adunque questo nostro capo è della grandezza perfetta, così debbono ancor le membra venir crescendo sino che membra si formino di uomo adulto e compito. Questo avviene colla carità, cioè col perfetto eseguimento dei precetti divini, come insegna Paolo nella prima a' Corinti. Poichè nel capo XII descrive le membra di questo corpo, i doni, e i ministeri; e nel seguente parlando delle operazioni, o sia « de' doni spirituali (1), della via più eccellente », della carità, mostra, che doni e ministeri nulla sono senza questa che gli avviva: essi soli formano i membri morti. Ma chi al mondo arriverà a crescere colla carità sino a perfezione? Quella perfezione che fa le membra proporzionate al capo consiste nella mancanza di ogni colpa, quantunque diversi sieno i gradi del merito come diversa è la qualità ed il vigor delle membra. Chi però morisse imperfetto (ma senza colpa grave), chi morisse cioè bensì membro vivo, ma non cresciuto ancor pienamente, non reso pura carità di Dio: e' si purgherebbe nel fuoco fino a che cresciuto al giusto segno cogli altri Santi si unisse alla gloria. Pur troppo solo in cielo il corpo di Cristo è adulto! quaggiù siamo sempre attorniati d' alcuna imperfezione, che sembra quasi necessaria alla fragile umana natura: quaggiù ancora siamo come in quel tempo della gioventù destinato al crescimento di nostra statura. Questo tempo cessa, uscendo noi della Chiesa militante colla morte: que' mancamenti e difetti non gravi in quell' altra vita si purgano col fuoco. [...OMISSIS...] Quando adunque sarà da noi lavata ogni colpa ed imperfezione, e quando cesserà il nostro tempo di crescimento, allora saremo quei membri di giusta misura, quali Iddio ci aveva destinati ab eterno, che bene s' avvengono al capo, non più fanciulli ma interamente formati. Acciocchè ci rendiamo tali, Cristo pose i governatori della Chiesa. Ecco il fine della podestà di giurisdizione: essere fatti membri acconci pel Cielo. Per lo che a quella foggia che il corpo reale di Cristo in questa vita (1) venne crescendo, cresce in questa terra il suo mistico corpo. Qui si rende adulto, quanto può essere uomo perfetto, per la fermezza della medesima fede: in Cielo poi per la cognizione del Verbo , non più per ispecchio o enimma, ma faccia a faccia. Questa fede è quella che ne giova acciocchè « « non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina pei raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l' errore; ma seguendo la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in lui, che è il capo, cioè Cristo » ». Ecco adunque come crescono le membra: crescono per la fedel carità che ci incorpora in Cristo, e ci fa partecipe del suo già compito accrescimento. Quanto non è a dire di questa carità fondata nella fede, che schermisce il credente dall' errore, il rende adulto, e dopo morte gli mostra svelato lo stesso Dio? « Dal quale capo , prosegue Paolo, tutto il corpo compaginato e commesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro prende l' aumento proprio del corpo per sua perfezione mediante la carità ». Nel che nuovamente si mostra come ogni ingrandimento e nutrimento di questo corpo viene dal capo, cioè Cristo. Le giunture poi, per cui è somministrato quel nutrimento, sono i Sacramenti della Chiesa, veicoli di grazia, li quali mediante la carità comunicano proporzionatamente l' aumento loro alle membra. Dice mediante la carità , perchè senza questa nulla valgono i Sacramenti. Questo è il sommo precetto, il germe degli altri. Chi non ama Gesù è anatema (2): non v' ha per lui giuntura che l' attenga al corpo, dacchè essere non può. Dice proporzionata , non meno cioè alla quantità dell' amore, che alla qualità del membro, poichè ognuno ha d' uopo della grazia per lo stato suo, e questa tanto gli è donata, quanto egli ama. Non è questo il luogo ov' io mi trattenga di più sui Sacramenti: basta qui avere imparato da Paolo come essi sieno le giunture dei membri al capo, i canali di grazia, di vita, e di perfezione. Soggetta a' Vescovi è l' amministrazione de' Sacramenti, perchè ha per fine l' edificazione del corpo mistico di Gesù Cristo: per questo stesso il Vescovo deve necessariamente essere Sacerdote, conciossiachè fra questi Sacramenti v' è quello del corpo e del sangue di Gesù Cristo, opera sacerdotale. Rimane a dire in quest' ultima parte della pratica della virtù. Ella s' esercita verso Dio, verso se medesimi, e verso gli altri. Primamente parleremo de' due primi risguardi, e appresso del terzo. Ogni atto di virtù verso Dio si può agevolmente raccogliere sotto questo solo titolo di Divozione; giacchè tutto si contiene nella dedicazione che si fa di sè a Dio, la quale viene espressa nella origine della parola. Non deve essere parte nell' uomo, che a Dio non sia devota, o dedicata: non tempo, in cui dalla unione con Dio ci possiamo dividere. Questo è il precetto dell' amor divino, questo il fine ed il voto dell' umana natura, che anela alla felicità, all' unione con Dio. Ma questa unione non si può avere compiutamente altrove che in Cielo. Quaggiù l' infermità di nostra natura non ci permette di stare attuati mai sempre in pura contemplazione. La congiunzione dell' anima con questa mole crassa ed inferma di corpo rende quella incapace di perfettissimo contemplare: la carne ne patisce (1), e gli obbietti esterni e corporei la strappano d' ogni parte da tale raccoglimento e meditazione sublime. Gesù però recando la perfezione della Legge e della Vita insegnò, che noi dobbiamo, malgrado di questo, tenere il vivere de' celesti per imagine del viver nostro, se nol possiamo conseguire compiutamente, dobbiamo tuttavia affaticarci per conseguirlo nella parte maggiore che per noi è possibile. « Vegliate », dic' egli con grande animo, « in ogni tempo, orando » (1). « Vegliate ed orate » (2). « Senza intermissione pregate » (3); le quali cose, a dir vero, sono all' uso de' beati del Cielo. Questo precetto della vigilanza cristiana, della continua preghiera, con quello si aduna del camminare alla presenza divina, col quale insegnò Dio ad Abramo a conseguire la perfezione. [...OMISSIS...] In vero colui che riflette Iddio essere in ogni luogo, e astante ad ogni suo atto, questi consapevole ogn' ora di qual compagno egli s' abbia, e di che dignità sia fornito, di che autorità, di che giustizia, di che bontà; non saprebbe peccare giammai. Ed in questa innocenza alla fine ritorna ogni cosa; e in essa si raccoglie veramente la abituale divozione. « Mi basta », diceva il buon S. Filippo a' giovanetti, « che voi non facciate peccati »; avvegnachè chi ha la coscienza monda, tiene altresì un animo sereno, una mente tranquilla, la pace, e Dio con sè. Esigete dunque, e commendate sopra ogni particolare ancorachè virtuosissima pratica questa astinenza da' peccati. Con questa, avendo il cuore puro da strani affetti, e privo dell' inquietudine de' rimorsi, si può volgere anche attualmente con grande soavità sè stessi a Dio, esser frequenti nell' attuale preghiera e continui nell' abituale, cioè nello spirito di preghiera. Chi nello spirito di orazione rimane, rimane in Dio, “ra sempre. A conseguire poi l' abito d' avere sempre il Signore innanzi alla mente, molte meditazioni conducono, e qui ne toccherò alcune. Chi pensa, che tutte cose da lui dipendono, che egli empie il cielo e la terra (5), che si trova tanto dall' empio come dal giusto, così nei sommi come negli infimi luoghi (6), che in somma il tutto ha creato di nulla (7): questi colle cose esteriori avrà ancora presente l' onnipotenza: Dio primo essere, Dio verità e fortezza, umiliatore degli enti tutti, anguste creature sue di sotto alla sua grandezza. Chi medita la sua provvidenza, la quale leggiadramente « scherza nell' orbe dell' universo (.), la quale tocca da una estremità all' altra, e soavemente tutte le cose dispone », sebbene con disegni rimoti dall' umano vedere (1); questi avrà ognor in sugli occhi la sapienza infinita e la bontà: Dio conservatore, e consolatore de' buoni. Chi ravvisa sparsi nelle creature de' pregi, ma imperfetti o limitati, e unisce questi e li perfeziona colla sua mente fino a illimitabile perfezione: costui in tutte le cose visibili trova una scala, che lo solleva al perfettissimo esemplare di tutto, a cui la ragionevol natura aspira e tende (2). Chi non conversa con persona al mondo senza contemplare in essa la divinità, che in quella o colla giustizia o colla misericordia sarà un giorno glorificata: senza compatir per conseguenza i suoi difetti, che Dio permette, senza congratulare a' suoi pregi, che Dio colla sua grazia produce: questi non sarà dalle persone distratto dal suo Signore, ma tratto anzi a star sempre con lui. In tutte le cose dell' universo si può sentire la voce del nostro maestro Gesù. [...OMISSIS...] Quando nella primavera si abbellisce la natura pomposamente, la terra si ricopre di erbe, gli alberi di foglie, scorrono limpide le acque, cantano canori gli uccelli: noi di ragione forniti intendiamo, che anche l' uomo viene invitato dal suo Signore a rinnovellarsi, e unire la più bella sua voce di lode nel concento che fanno al Creatore le inanimate e irragionevoli cose. Quando la state fa biancheggiar le sue messi, e il sole colla nuova sua forza va conducendo tutti i frutti alla loro maturità, e a' corpi stessi degli animali dà uno sviluppo maggiore; pensiamo di maturarci ancor noi per quel tempo in cui l' agricoltore celeste ci spiccherà per riporci nella sua dispensa. E allorchè già viene l' autunno, il tempo delle frutta e della ricolta; veniamo in noi eccitando i santi desiderŒ del nostro fine, e i sospiri verso quel celeste ripostiglio, dove saremo serbati eternamente senza ritrarre giammai macula o corruzione. Finalmente nell' invernale stagione qual meditazione più ovvia che quella della caducità di tutte le cose umane, della instabilità di tutte le umane apparenze, del fine di coloro, i quali a queste s' affidano, e del proporre ed effettuare l' intero distaccamento da tutti i beni momentanei e ingannevoli? Così da per tutto ci parla la sapienza nel succedere delle stesse visibili cose ed esteriori, quando noi l' ascoltiamo, e sappiamo intendere le sue gravi parole. E quanto poi non c' istruisce coll' aspetto del mondo morale, delle passioni, e de' traviamenti degli uomini, colle avventure e cogli accidenti della vita, co' beni, co' mali, cogli avvenimenti a seconda ed a ritroso del cieco nostro ed avventato volere! Quest' è un campo, ove fare voi stessa, e far fare altrui innumerevoli considerazioni, che tutte come tante strade mettono in Dio. Camminerà parimente presente al Signore, chi forma sì fatta consuetudine, per cui ad ogni suo atto consulti ed interroghi l' eterna Verità, e ami di fare il meglio in tutte le cose; non però perdendo il tempo a questionar con se stesso sopra minuzie, quale sia migliore; perchè tal modo molti avviluppa, facendo il peggio, mentre ne indugiano a trovar che cosa sia il meglio. A chi non fa cosa, che prima colla divina legge non l' abbia affrontata , sta Dio presente; e ciò è dovere, non v' ha dubbio, dell' uomo cristiano: costume però tanto difficile da formare quanto è bello e perfetto. Ancora se noi fisseremo il pensiero in quello che dice Giovanni, che tutto nel mondo « è concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne, e superbia della vita » (1); e se persuasi saremo della guerra perpetua che fa il mondo a Cristo, e come queste due parti giammai non si fanno fra sè, nè s' intendono in modo alcuno: terremo allora continuamente vita e contegno di soldati viventi in campo e in guardia dell' inimico. [...OMISSIS...] Gl' inimici nostri sono da fuori, e da dentro. Quelli consistono nella lusinga delle cose fuori di noi, questi siamo noi stessi: quelli si vincono colla mortificazione esteriore, questi colla interiore. Non è forse tanto faticoso vincer quelli; ma superar sè medesimo è la cosa più ardua di tutte: in questa è la sequela di Cristo: « Chi vuol venire dopo di me anneghi sè medesimo, tolga la sua croce e mi segua » (3). Questo annegamento di sè stessi, questa mortificazione interiore, che ne riduce alla bella perfetta conformità del nostro volere col divino senza mai prevenirlo, ma susseguendolo quasi come ombra segue il suo corpo, e come raggio il suo astro: quest' arte sincera della cristiana vita è ciò, in cui si vuole con tutte forze occuparsi. La mortificazione esterna è sola una sussidiaria, una serva di questa. In ciò avete a scorta il gran santo Francesco Salesio. Con ciò conseguite, che se sempre avrete nemici, abbiate altresì sempre vittorie; e se c' insegue dovunque con mille artifizj l' avversario, dovunque ci stia sempre presente con mille ajuti il comune difensore GESU`. Aveano i Cristiani de' primi secoli le recenti imagini di Gesù Cristo ancora vive in sugli occhi. La misteriosa sua vita, il suo divino conversare, la dolorosa morte, la gloriosa risurrezione, le istruzioni de' quaranta giorni erano rimaste vivamente segnate ne' loro animi, e rendevano loro Gesù ognor presente, ognor sui labbri: faceano ch' ei fosse l' oggetto di loro intrattenimenti, la consolazione di loro angustie, il caro argomento de' lor canti, e di tutti i loro trastulli lo scopo ed il condimento. Lo stato miserabile del mondo a que' tempi ingolfato in cieche sozzure di paganesimo faceva risplendere più la bellezza, la luce, la perfezione del nuovo istruttore celeste: le persecuzioni rendeano necessaria una unione più continua e più stretta con quel primo martire compagno ed esempio a' loro dolori, e fonte di loro robustezza: gli Apostoli vicini, che predicavano quel Gesù che veduto avevano e toccato colle loro mani, da cui tanti atti d' amore, tanti saggi della più dolce amicizia aveano divinamente ricevuto, imprimevano altamente in que' bei tempi la presenza del loro Signore in tutte le cose. Erano di Cristo piene le loro prediche, di Cristo piene le loro lettere, di Cristo piene le loro vite. « Innanzi a' cui occhi », scrivea Paolo ai Galati, « fu dipinto Gesù Cristo tra voi crocifisso (1), dipinto » colla mia predicazione, « tra voi crocifisso » nella persecuzione che sofferiste, anzi egli con voi. Oh famigliarità che aveano col nostro Signore! Oh santissima dimestichezza, vera fratellanza con questo amabile Dio, in cui il maestro, il padre, l' amico, tutto trovavano; e fuori di cui cosa alcuna non volevano ritrovare! Adesso Gesù Cristo al più de' Cristiani è lontano: e anche a molti de' buoni si rappresenta più come Dio che come uomo: e sembra che si tema, per dire così, di accostarsegli. Non si discorre di lui con quella frequenza, non con quell' ardore nelle unioni nostre: si ha quasi ribrezzo ad aprirci con ingenuità vicendevolmente, e dire i sensi amorosi, che pur da molti si nutrono di dentro per lui: l' unirsi a caso fuori della chiesa o delle ore stabilite, proporre d' intuonare qualche cantico al nostro Signore, proporre di fare a lui orazioni, e così occupare quel tempo del conversare; parrebbe cosa fuori del costume, e se ne avrebbe ripugnanza, o anche superata e proposta la cosa, verrebbe accettata con freddezza e con titubanza; se pure taluno non si trovasse che ne ridesse. Comunemente i Cristiani nostri hanno, è vero, divozioni particolari, pratiche a' Santi, formole in onore di qualche particolare oggetto religioso. Commendabili sono queste, se dalla Chiesa approvate; ma chi può negare che non per difetto di esse, ma talvolta per imperfezione di chi le usa, molti non sieno trattenuti in queste pie usanze, e quasi tenuti indietro e indugiati dall' adito alla fonte della divozione, alla cognizione e al vagheggiamento immediato di Gesù, al cui onore quelle pratiche pure si riferiscono? Quanto è bello, quant' è utile pensare sempre a Gesù! e sulle vestigie apostoliche lui fissare in tutte le cose! e non solo rammentar che è Dio, il che più tosto ci sbalordisce e ci perde; ma averlo presente qual uomo, qual uno di noi, uno vestito dello stesso corpo: uomo suggetto veramente alle umane infermità, fuor del peccato, che con noi gusta e patisce, ci compassiona, ci conforta, ci allegra, c' incoraggia, ci ajuta, ci riprende, ci minaccia; e in tutto fedele, in tutto amico, presente in tutto, compagno, partecipe. Ah sì! illanguidita è presso a molti la divozione di Gesù! Io vorrei che ogni cosa si facesse per ristorarla e raccenderla dai Cristiani. Alle vostre ragazzine parlate spesso di questo dolce maestro, abbiano nell' orecchio il nome di Gesù, l' abbiano nelle loro occupazioni presente, intervenga egli a tutti i loro divertimenti. Se voi potete far loro prendere quest' abito d' imaginarsi Gesù a loro compagno indivisibile in tutti i luoghi, i momenti, le opere della vita; elle hanno già conseguito egregiamente l' uso della presenza divina, della cristiana vigilanza, della incessante preghiera, del dolce e abituale raccoglimento: questo è il più bel modo di tutti. Giova ancora per rimanere in ispirito d' orazione, come ci è comandato, l' uso ben disposto d' ogni parte di tempo, e la frequenza di brevi orazioni, e di tratti momentanei d' affetto a Dio. Se qualche ritagliuzzo di tempo avanza fra l' una e l' altra delle opere esteriori; non l' ozio, ma la preghiera lo occupi. Le brevi preci, di cui ho toccato anche sopra, tanto usate dagli antichi solitari d' Egitto, come santo Agostino riferisce, sono anche da questo santo Dottore commendate, perchè eccitano viva e spessa attenzione, e non lasciano raffreddare l' affetto, come avviene frequente in orazioni prolungate. Per le quali cose, questa innocenza della vita, questo vegliare sopra se stessi, e camminare in presenza di Dio con annegamento del proprio volere, e conformità al divino; è, non v' ha dubbio, l' apparecchio più eccellente e più bello all' attuale adorazione. Quel Cristiano, che in ispirito d' adorazione si tiene, apre sempre la bocca sua in modo gradito al Signore. Questo insegnava Gesù alla Samaritana quando diceva: « I veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità » (1). Sono qui delineate le proprietà tutte del vero adoratore: lo spirito riguarda l' interno affetto, la verità l' esterior forma della preghiera. Se nel discorso, che in suo cuore tiene, l' adoratore di Dio pone cosa, che o disconvenga alla maestà sua, o proporzione non serbi coll' umana bassezza, che non si faccia bene all' infinita misericordia, e alla viva nostra confidenza, ovvero che offenda la giustizia e la fede, o che supponga una credenza vana, e non degna di Dio, la verità vien meno, manca un principal distintivo di vera adorazione. Ma colui che prega Iddio in ispirito , cioè col cuore bene per ogni parte disposto, questi prega in Dio che è spirito, e però anche la forma di sua orazione ne uscirà acconcia e vera. Questo è quello spirito, di cui Cristo disse: « Lo spirito è ciò che vivifica, la carne non giova nulla » (2). Suppone tale spirito intera rinunzia a quello che spirito non è, a quello che non è Dio, perchè ciò nulla giova; ciò è carne, ciò è mondo, ciò è peccato. Di queste cose parlava Paolo a' Romani quando scrivea (3): « « Io vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che presentiate i vostri corpi ostia viva, santa, a Dio gradevole » ». L' ostia ed il sacrifizio suppone cosa, che si strugga in onore della divinità. Avanti Cristo s' immolavano corpi di buoi, di pecore, e d' altre bestie. E or l' uomo che cosa sacrifica? Sè stesso. Dovrà dunque struggere quanto in sè v' ha di buono? No: ma quanto v' ha di cattivo, quanto dalla carità viene escluso, il corporeo, il carnale. Le fiamme di questa carità incenerir debbono appunto tutte le altre cose, esse sole ardere. Così l' uomo si purifica, e si rende spirito, e in ispirito prega, e tanto meglio prega, quanto in tal modo è meglio purificato. Tale sacrifizio più vivamente splendeva ne' martiri, che, secondo il letterale incoraggiamento apostolico, offerivano i propri corpi, e con essi ogni mondano possesso. Ma la virtù, l' interiore mortificazione, con cui si rinunzia alle cose nostre, e a noi stessi; e finalmente quell' apparecchio alla morte, per cui in essa non altro veggiamo che lo scioglimento del nostro corpo quale vittima alla giustizia, e tale volonterosamente s' incontri: questo fa, che pur noi, sacrificate le vane cose che ci aderiscono, siamo resi puri, resi spirito, emulatori de' martiri. Non basta dunque il moto de' labbri nella preghiera, e 'l componimento del corpo; non la scelta del luogo, o l' esterno apparato: l' affetto dell' animo si richiede: affetto tanto più puro, quanto è la vita; se pur in sull' atto della preghiera la grazia divina non operi alcuno de' suoi mirabili effetti in chi prega. Iddio non ci ha lasciati però senza guida, anche rispetto alla forma della preghiera: acciocchè come lo spirito ottimo suol produrre ottime forme di preghiera, così da buone forme di preghiera sia eccitato ed aiutato lo spirito, s' egli al tutto non è perfetto. Guida a noi data è la Chiesa; ella c' insegna a pregare con ogni verità . Nella Chiesa ogni Cristiano ha pascolo sì abbondevole, che s' egli a quello si nutre, altro non brama. Perchè dunque o ricercare nuove pratiche divote, o anteporre le private alle pubbliche, se in quelle della Chiesa abbiamo qualunque cosa che a Dio convenga, qualunque che alla propria santificazione confaccia? Non niego libertà al vostro cuore di sfogarsi con quelle orazioni spontanee, che egli vi suggerisce; queste assai volte sono frutti dello spirito di Dio; e però allo spirito, e alla Verità conformi: ma parlo di molte pratiche esteriori particolari. Le quali, se anche rette fossero e vere; saranno sempre false, ove verranno anteposte alle pubbliche, o per quelle queste posposte; essendo sconvolto l' ordine che d' anteporre comanda ciò che ha più pregio. Poichè, lasciate le altre cose, tanto queste più giovano quanto più giova la preghiera di molti sopra quella d' un solo (1). Santa poi oltracciò essendo la Chiesa, chi a questa si unisce nell' orare, santifica la propria orazione: e a' difetti propri riparando colla comune virtù, e col fervore de' molti, fortifica fuormisura l' efficacia della preghiera. Parliamo adunque al Signore colla bocca della Chiesa, e pregheremo secondo la VERITA` . Ma è però vero, che nulla varrebbe usare a pubbliche funzioni, e recitare preci ecclesiastiche, quando la favella del cuore non s' aggiungesse. Poichè si direbbero cose vere e giuste, ma non in modo al tutto giovevole. Si adorerebbe Iddio in verità, ma non in ispirito; si peccherebbe come coloro, a cui fu detto: Questo popolo mi onora colle labbra; ma il loro cuore è lontano da me (1). Riprova molte invenzioni di pietà lo stesso Agostino, [...OMISSIS...] . E chi non sa quanto il moltiplicare fra noi di certe pratiche religiose porse occasione alla malizia o alla grossezza degli eretici di enfiare le gote sclamando, accusando, e calunniando la Chiesa? Per serrare la bocca a' quali, quanto è possibile, comandava Paolo, che « non solo dal male s' astenessero » i fedeli, « ma anche dall' apparenza del male » (3). Nè da ciò s' inferisca, che meriti alcuna disapprovazione la Chiesa o il Sommo Pontefice, il quale, secondo il precetto dell' Apostolo: « Provate tutte le cose, tenete quello che è buono » (4), non rigetta veruna di quelle pratiche inventate dalla cristiana pietà, che dopo esame maturo buone rinvenga, anzi coll' autorità apostolica le commenda quali aiuti ed amminicoli novelli, che il Santo Spirito aggiunge alla pietà illanguidita, e alla carità, pel succedere de' mali tempi infermata. Qui si ragiona soltanto de' trovati dello spirito particolare, e che la Chiesa o tollera se li conosce, o ancora li condannerebbe se li conoscesse; ma veruna approvazione non ebbero. Quelle prime sono venerabili, e se le calunnia l' eretico, è a suo gran danno: queste seconde, sebbene lo spirito spiri ove vuole (1), tuttavia restano incerte al comune de' fedeli, alle altre senza dubbio alcuno da posporsi; e se il buon cristiano le esamina avanti di praticarle, quest' è a sua lode, e a salute. Anzi anche quando la Sede Apostolica approva nuove forme di preghiere, lascia però sempre al retto spirito de' fedeli farne il discreto e ragionevole uso che si conviene, lascia loro di pregiar più quelle, che per antichità, solidità, dignità e istituzione hanno eccellenza maggiore: e tanto è saggia, che mentre ella ama ed impone ad ogni fedele che alle grandi sorgenti s' accosti, non chiude però a nessuno le picciole vene e gli spruzzi d' acque, quando sieno puri e salutari. Non però sono queste necessarie giammai, come il rigagno non è necessario a chi ha il fiume; e pur giovano principalmente a chi non sa, per propria imperfezione, all' abbondanza delle maggiori pienamente abbeverarsi. La Chiesa, come dice Agostino, non è aggravata da importevoli pesi servili, come la Sinagoga da sue cerimonie. Ella è libera: ella signora: pochissimi, manifestissimi sono i suoi sagramenti, cioè le sue funzioni essenziali. Ma che immenso frutto trae quel Cristiano, che pone lo studio suo nello intendere quelle semplici voci della Chiesa, gravi di sensi, e le cerimonie e gli emblemi e le espressioni che variamente li vestono! L' Orazione dominicale, l' angelica Salutazione, il Credo, la Salveregina: ecco pochissime , e manifestissime formole. Che semplicità, che facilità, e brevità! E pure, chi dentro vi penetra, oh in che ampiezza di cose interna la mente e il cuore! Il Sacrifizio della Messa, gli Uffizi pubblici, e i Sacramenti: ecco pochissime, manifestissime e uberrime istituzioni! In queste non che esser vi possa anima tanto arida, che satollar non si debba; ma non ve n' ha alcuna nè pure sì affettuosa e fervente, che sappia tutta abbracciare e pascere la pinguezza degli affetti divini in esse contenuti, e de' modi d' avvicinarsi ed intimarsi per Cristo con Dio. Ma sulle bellissime e semplicissime forme di preghiera, che mette in bocca la Chiesa a' Fedeli, non farò io discorso: solo un cenno farò della orazione del Signore, come eccellentissima di tutte. E questo picciolo cenno torrò da antica e pubblica spiegazione. Essa è conservata nel Sacramentario di Gelasio Papa, pubblicato dall' egregio uomo Cardinal Tommasi nel 16.0, e riprodotto dal Muratori nell' « Antica Liturgia Romana ». Si costumava di leggere tale spiegazione a' Catecumeni sotto la Messa qual Prefazione della dominicale preghiera. Raccomandata è dall' antichità sua, dal libro da cui è tratta, e da' bei sensi di cui è piena. [...OMISSIS...] Parleremo ora de' soli esercizŒ principali della cristiana pietà, cioè, come fu indicato innanzi, del Sacrosanto Sacrifizio; poi degli UffizŒ di Chiesa, e all' ultimo alcun poco de' Sacramenti. [...OMISSIS...] Se si riguarda però alla eccellenza e sublimità di questo divino Sacrifizio, ell' è tale, che nè pure in cielo non si dà alcuno atto di culto più augusto: gareggia per questo la terrestre Gerusalemme colla celeste, nè a' cori degli angeli può increscere di scendere dall' empireo, e assistere in terra al Sacerdote ne' divini misteri occupato, adorando intorno all' ara un' ostia, che l' uomo tratta colle mani sue, e colla sua bocca si mangia e si bee. Ecco fonte copiosa di vive acque! Qui ogni pietà si può dissetare. Ecco pane angelico! Di lui si può nutrire a piena abbondanza qualunque sopraumana divozione. Che manca qui di grande, che manca di santo, di dolce, di benefico, misericordioso, e commovente? che cosa fuori di questo si può cercare o trovare di religioso, di pio, ed utile, e buono, e bello, e ricco ed eccelso, che già in questo eminentemente non sia, dove la sorgente è di ogni santità, grazia, amore, bellezza ed altezza? [...OMISSIS...] Deh come potrà andare in cerca con molto studio e quasi lambiccandosi il cervello di nuove divozioni, di strane forme di culto, colui, il quale sappia d' averne già in questo solo atto, da Gesù instituito, sì abbondevole pascolo, che non solo pel suo povero e angusto cuore, ma per quello di tutti gli angeli del Cielo ne sia trabocchevolmente d' avanzo? Quale adunque sia l' ubertà e la ricchezza delle pochissime e manifestissime pratiche da Gesù Cristo instituite, e per mano de' santi Vescovi della Chiesa successivamente tramandateci, non punto s' intende: ovvero, per meglio dire, essendo queste purissime, divotissime, celesti, in cui s' esercita la Fede, la Speranza si pruova, e lo spirituale Amore, l' amor sceverato da strani affetti, si fa necessario: non vengono penetrate dagli uomini grossi e imperfetti, ed eglino non trovano in esse, come dice il Gersen, o da appagare la curiosità, o da pascere la leggerezza, o da satollare i sensi crassi ed oscuri, che solo cose visibili e corporee appetiscono, e oltre queste niente trovano, niente veggono. Per sì grande infermità, postergate o poco curate o non istimate almeno a giustizia le sante istituzioni di Cristo, si studiò spesso di comporre più materiali invenzioni, in cui essendo alcuna cosa o un nome di santità, credesi d' esercitare il culto divino, e si nutrica invece sua la propria carnalità. Vorrei per tanto richiamare lo spirito di costoro alla santissima e sapientissima intenzione della madre comune, della cattolica Chiesa. La quale sebben condiscenda di richiamare gl' imperfetti cristiani cogli esteriori aiuti alla spiritual divozione: tuttavia e ripruova le divozioni false o indegne della divina Maestà; e regola quelle, le quali, non essendo principali e tali che contengano il fine della divozione, a quelle precipue, che il fine racchiudono di ogni culto, si ordinano e riferiscono. Onde ne' Santi adora essa l' autore della santità; e nelle imagini venera il santo oggetto, che per esse è figurato o dipinto; e nelle reliquie onora quella spoglia, che, sebben di carne, fu già il tempio di Dio, e un giorno, ricomposta a vita, verrà riedificata novellamente in una casa, ove la divina gloria abiterà eterna; ed in tutte le sante cose e le pie memorie esalta e glorifica il Signor de' Signori, il Dominatore de' Dominanti: al quale è dovuto l' onore e la gloria, e da cui non è lecito nè rimuovere una scintilla di amore, nè qualunque particella di culto senza ingiustizia e senza punizione. Chi ama dunque d' essere nella divozione perfetto pensi d' udire bene la Messa, e di gustare degnamente questo divin Sacrifizio. Ogni dì, s' egli se ne dia cura, parragli nuovo; perchè imparerà nuove cose, in frequentandolo, nuovi affetti sentirà; gli parrà ogni dì più dolce, ogni dì conoscerà qual v' abbia distanza fra questa e le altre divozioni serve di questa: compiangerà coloro, che assistono alla Messa indivoti, che l' hanno per cosa triviale; perchè resa frequente dalla profusa generosità del Signore: insomma ogni dì formerà bei desiderŒ di poter penetrar meglio in quest' atto di culto, meglio incorporarsi alla vittima che s' immola, meglio unirsi alla comunion de' Santi, che per mano del Sacerdote fa all' Infinito un dono, niente minore di quello, che a lui conviene: finalmente imparerà sempre più quella verità, che la divozion grata a Dio non è posta in moltitudine o varietà di pratiche, ma nella VERITA` e nello SPIRITO . Nè si deve credere, che colui, che assiste alla Messa non abbia parte nell' atto del Sacerdote. Poichè è così: che Cristo offerto nella Messa offerisce, e sacrificato sacrifica: in persona poi di Cristo il Sacerdote; ma unita in Cristo al Sacerdote la Chiesa tutta, ed ogni fedele, e segnatamente colui che è presente. Per la qual cosa chi ascolta la Messa deve pensare all' atto che fa egli stesso, e non credersi solo testimonio, ma ministro nell' offerire insieme col Sacerdote, e colla Chiesa, e con Cristo; e in questo pensiero udirà ottimamente la Messa: ottimamente, in questo spirito tenendosi, l' udirà anche colui, che non sa accompagnare il Sacerdote nelle diverse orazioni, e viene facendo altre sue preci: come fanno gl' idioti. Sono adunque due cose principali nella Messa, cioè l' Offerimento dell' ostia, che si fa a Dio qual supremo Signore di tutte cose; e la Consecrazione, ovvero immolazione della medesima ostia. Questa è proprio atto del Sacerdote in persona di Cristo; quella di ogni cristiano presente alla Messa. Il che si ricava dalle stesse parole del Sacerdote. Poichè proferendo le parole della consecrazione in singolare come se Cristo solo parlasse, all' incontro offerisce in plurale come si vede nel canone. [...OMISSIS...] Ricorda poi questa offerta fatta in numero plurale quel tempo, nel quale il Diacono distribuiva al popolo il sangue, dopo che il Sacerdote avea dato il corpo. E dicevano quelle parole il Sacerdote ed il diacono insieme (come ancora nella Messa cantata è in uso), affinchè quello che il Sacerdote avea ministro e compagno nella distribuzione, avesse compagno anche nell' offerta. Che se innanzi in offerendo il pane disse in numero singolare, fece egli solo per gli astanti, ed offerì veramente prima per li suoi peccati, e poi per quelli del popolo (1). Queste parole perciò, o questo sentimento almeno, dovrebbe essere proferito ed espresso dagli astanti insieme col Sacerdote. Plurali poi sono altresì le parole che succedono: « « In ispirito d' umiltà ed animo contrito veniamo da te accolti, o Signore, e il Sacrifizio oggi si faccia al cospetto tuo per modo che a te sia gradevole, Signore Iddio » ». Le quali non solo insieme col Diacono, ma con tutti i presenti certamente s' intendono dette. E queste significano, che dopo essere già offerto il pane ed il vino pel sacrifizio, si esibisce e presenta sè medesimi a Dio quai vittime insieme con Cristo. Poichè solo unito a Cristo l' uomo può fare di sè grato dono e grata ostia a Dio. E che ciò sia il senso dell' orazione si ricava dal libro di Daniello; donde sono tratte le parole e il concetto. In esso i tre forti giovani Ebrei salvati in Babilonia da ardente fornace, fra le fiamme, dove di sè facevano offerta, cantavano appunto così: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] E per doppia ragione il Sacerdote chiama quel Sagrifizio suo, e dei presenti. Prima, perchè tutti l' offeriscono; dipoi, perchè si porge in Sagrifizio insieme con Cristo, e il Sacerdote, e gli astanti. L' una e l' altra di queste cose indicate nelle dette orazioni, sono più chiaramente espresse nel Canone, la parte più antica ed augusta della Messa, compilato da parole di Cristo, da tradizioni Apostoliche, e da pie istituzioni di santi Pontefici. Poichè in esso, tolta fuori la consecrazione, tutte le orazioni d' offerta sono plurali. [...OMISSIS...] Nella quale orazione tutti gli astanti offeriscono; e « SagrifizŒ illibati » si dicono non solo il pane e il vino, ma i cuori offerti al Signore. Si dicono illibati ed immacolati , spiega Innocenzio III, perchè ciascuno si deve offerire senza macchia nè di cuor nè di corpo: che il cuore abbisogna purgato da iniquità, ed il corpo da immondezza (1). Onde quest' aggiunto è principalmente posto pel sacrifizio interiore dell' animo. Appresso poi preghiamo il Signore perchè si rammenti dei circostanti tutti, pe' quali offeriamo il Sacrifizio di lode e propiziazione, e nuovamente di quelli, che lo offeriscono. E, fatto ricordo della comunione co' Santi del Cielo, uniti a' quali preghiamo e adoriamo Iddio, stende il Sacerdote le mani sue sopra il calice e sopra il pane, a quella guisa che nell' Antico Testamento esso Sacerdote ponea le mani sulla vittima: volendo con tale rito indicare, come egli stesso ad essa si congiungeva e con essa a Dio dedicavasi ed offerivasi (1). [...OMISSIS...] Ben è pertanto a meditare e pregiare per noi un sì bello offerimento della servitù nostra, e di tutta la cattolica famiglia: essendo questo il Sacrifizio che dà la salvezza: mentre niente ci varrebbe la stessa morte di Cristo, fuori che a condanna, se di quella non partecipassimo bevendo lo stesso calice, tenendo i suoi vestigi, e colla croce in ispalla porgendoci pronti e di dare il sangue per la legge sua e di sacrificare la concupiscenza nostra all' onore della sua legge. Ora anche dopo la consecrazione, favellando del pane e del vino sacrato, pregasi, che con propizio e sereno volto risguardi Iddio su quelle cose divine, e le riceva quasi doni d' Abele, sacrifizŒ d' Abramo, e di Melchisedecco; in quanto che nè pure il sacrifizio di Cristo, non che quegli antichi, ci potrebbe giovare cosa alcuna, se non unissimo il sacrifizio di noi stessi come que' Santi fecero, mercè un cuore spirituale, e conformato in ogni cosa a Cristo. Di questa grazia per la stessa ragione se ne prega già avanti Iddio, là dove dopo nominata l' offerta di nostra servitù, segue così: « La quale obblazione, o Dio, ti preghiamo, che tu ti degni di farla benedetta » (noi stessi così veniam benedetti in essa), « ascritta » (al numero delle cose aggradite: noi veniam con ciò ascritti in Cielo), « rata » (cioè valida ad ottenerci gloria: veniamo con ciò numerati tra i legittimi fratelli di Cristo, per cui patì, fra i molti per cui effuse il sangue), « ragionevole » (vengono in tal modo in noi ordinate le facoltà inferiori sotto all' imperio di ragione), e « accettevole » (per sì fatto modo che non solo qui su l' altare venga il corpo e il sangue di Cristo, ma venga questo) « a noi » (a vantaggio nostro, sicchè a noi incorporato, in noi più non vegga il Padre celeste quanto ha di spiacevole, e di schifoso, ma vegga Cristo, vegga gratissima cosa e accettevolissima) (2). Questi offerimenti di noi, e rinunzie alla vita, e a quanto è nella vita per Cristo, sono ciò che rendono verissimo Sacerdote qualunque cristiano cattolico; come dice Tertulliano (1) in consonanza cogli apostolici insegnamenti. Poichè sacerdote è chi sacrifica a Dio. E sebbene Cristo solo per sua eccellenza sia il Sacerdote eterno giusta l' ordine di Melchisedecco, e solamente immolando sè stesso abbia reso all' Altissimo gradevole Sacrifizio: tuttavia ed ogni Sacerdote, qual ministro di Cristo, in persona sua rinnovella detto sacrifizio della croce; e di più ogni Cristiano con Cristo incorporato pel battesimo, partecipa del sacerdozio suo, in quanto può offerire ed immolar sè stesso colla contrizione, col distaccamento di sè e coll' umiltà. Questa distanza però v' ha fra Cristo, il Sacerdote, e 'l Laico fedele, che Cristo è Sacerdote per sè in eterno; gli altri partecipano del Sacerdozio suo: che il Sacerdote poi ne partecipa sì altamente, che può offerire ed immolare, non che sè stesso, lo stesso Cristo; il Laico all' incontro solamente in tal modo, che non immolare, cioè consacrare, ma può offerire Gesù Cristo, e immolare o sacrificare sè medesimo, struggendo in sè quanto non sia puro amore di Gesù Cristo. Dalla quale unione, come dicea, di noi colla vittima sacrosanta, è il massimo frutto della Messa. [...OMISSIS...] Laonde offerisce il discepolo di Cristo sè stesso in tutto a lui conformato « osservando i precetti suoi, tenendosi nella sua carità » (1): e in questa unione di sacrifizio pregando il Padre, non può non ottenere quanto egli brami, nè altro e' brama se non le cose del suo Signore. Or poi cotesta unione nasce non solo per mezzo del Sacrifizio, con cui noi ci diamo a Dio; ma ben anco per mezzo del sacramento, con cui Dio e Cristo in sue carni ed in suo sangue si dà a noi da mangiare. [...OMISSIS...] E tale comunione di Cristo a noi forma la terza parte principale della Messa. Ell' è così quasi una vicenda di divino amore ineffabile, che dopo avere offerto noi a Dio in sacrifizio Cristo, e con Cristo noi stessi (cose per altro tutte sue), esso Iddio tutte ce le restituisce, e sè stesso a noi si dona in tutto nostro potere e in nostra natura: unendosi con noi sotto specie di cibo, e con noi immedesimandosi: per cui questo convito chiamossi con vera ragione: « Principio in noi della divina sostanza » (3). Oh amore immenso! Oh carità smisurata di Dio! Contraccambio, vicenda, gara di divina benevolenza! nella quale l' uomo, che niente ha, prima si fa comparire ricco d' altrui ricchezza a poter presentare Iddio di tesoro degno di Dio, e poi si ritorna questo tesoro: quasi non perchè Dio benefichi; ma giocando, come a dire, di liberalità, paia regalato e beneficato, e poi ridonando e ribeneficando vinca non per l' eccellenza del dono, ma per l' eccellenza del contraccambio! Il che dee mettere nell' uomo quella confusione, che s' esprime dal Sacerdote, quando, ricevuto il pane, e perduto, e smarrito nella grandezza del divin dono, dimanda al Signore: « « Che ti darò, Signore, per tutte cose che tu m' hai regalate? » » e non sapendo che, soggiunge: « « Riceverò il calice del salutare, e il nome invocherò del Signore » ». Cioè, non darò: che non ho cosa a dare; ma seguirò a ricevere i benefizŒ tuoi; ed essere, come da nuove onde di divina misericordia, nuovamente coperto ed inabissato. Ad un così benedetto convito pertanto, ad una sì divina mensa imbanditaci dal Signore colle sue carni « incontro a quei che ci tribolano », tutti ne invita e ne chiama l' amorosissimo convitatore. [...OMISSIS...] Gli ardentissimi desiderŒ poi di Gesù, che cioè si nudriscano a questa cena e si satollino seco i discepoli suoi, nella santa Chiesa passarono, la quale mai sempre di cotesto angelico cibo mostrossi, a così dire, famelica ed insaziabile. Nominollo spesso le delizie sue, la sua vita, la sua fortezza, il suo tesoro, il misterio della sua pace, il suo regale indumento, la porpora sua nel sangue tinta del suo Signore, il sommo suo bene, l' altissima sua bellezza, le care reliquie di Cristo, di Cristo l' ombra sotto a cui siedono i desiderosi di lui, il principio della sostanza divina nell' uomo, l' ostia della salute del mondo, le divine ricchezze, il singolar sollievo dell' amata nell' assenza dello sposo, il presagio carissimo della divina misericordia e dell' eterna rimunerazione. Basta accostarsi alle memorie de' Santi d' ogni tempo per ammirare e l' avidità incredibile che a questo pane celeste avevano, e le dolcezze che ne sentivano, e le grazie che ne cavavano. Basta ancora leggere le orazioni della Messa pertenenti al comunicare, perchè si comprenda, essere desiderio grandissimo della Chiesa, che gli uditori tutti, se potesse essere, della Messa ogni dì partecipassero col Sacerdote alla sacra mensa, sì come avveniva ne' tempi primitivi a ragione beatissimi: in cui tanto era il fervor de' Cristiani, che potean dire con verità, il corpo ed il sangue di Cristo essere loro cibo cotidiano: e tanta venerazione s' aveva all' ineffabile Sacrifizio, che non si teneva degno di starvi presente chi degno ancora non fosse di comunicare del divino nudrimento. Nel canone IX degli Apostolici si comanda, che tutti i fedeli, i quali, udite le Scritture, non persistono all' orazione, e alla comunione, vengano divisi: e lo stesso si trova in altri documenti dell' antica disciplina. Allo spirito della quale, poichè non possiamo alla lettera, noi ci dobbiamo conformare. Assistere cioè alla Messa così mondi, raccolti, ferventi, da essere degni di comunicare ogni dì; e tanto spesso comunicare, quanto spesso amiamo di ricevere cosa di tutte desiderabilissima, giovevolissima. Intorno alla quale frequenza di comunione cercando S. Bonaventura come ella giovi, assai acconciamente disse, [...OMISSIS...] . In somma tanto è giovevole comunicare, quanto bene noi siamo disposti: come cibo, il quale, ancorachè eccellentissimo, nulla giova; anzi può dar morte a chi ne sopracarichi uno stomaco indisposto e ammalato. E tanto è a dolere in questo fatto dei nostri dì, che manifestando il Concilio di Trento quel voto della Chiesa, che tutti comunicassero coloro che assistono al sacrificio, il santo Sinodo non dice desidera , ma desidererebbe , quasi non osando di formare in tai tempi tal desiderio, di cui pure una volta, vergogna nostra! non si formava nè un desiderio, nè una speranza; ma un precetto, o per lo meno un universale costume. Essendo adunque « le cose sante pe' santi, le cose monde pei mondi » (2); tremenda verità dice Paolo, allorchè risguardo agli indegni parla così: [...OMISSIS...] . Cioè a dire: Ricevendo il corpo santissimo si testifica il sacrifizio. Perchè sebbene sia Cristo intiero sotto ciascuna specie, non potendo oggimai esser diviso quegli che risorto da morte non muore più, ma regna eterno in Cielo a destra del Padre: tuttavia nel pane si considera il solo corpo, nel vino il solo sangue, acciocchè rappresentandosi corpo e sangue divisi, imitino la violenta morte del Signore. Dunque ogni volta che alcuno presume di ricevere il pane eucaristico, riceve Cristo sacrificato, e in suo aiuto invoca ed usa la morte di Cristo. Così la testimonia ed annunzia: ed esprime, che e' la vuole a quel modo, che la volle Cristo in salute propria e del mondo; poichè fa quell' atto che pose Cristo perchè l' uomo se n' applichi il merito. Chi adunque tiene in quest' atto un animo reo ed indegno, simile a Giuda tradisce il Maestro, e più neramente che d' un bacio: il vende agli appetiti suoi, e non per altra ragione il vuol morto: non vuole il sacrifizio che salva, ma il sangue del giusto, che al Cielo grida vendetta. E` reo dunque del corpo e del sangue del Salvatore, abusando di sua morte: e in questo sacrilegio si può dire del Salvatore come i figliuoli di Giacobbe dissero del fratello: « Una pessima fiera lo ha divorato ». Perciò un tal cristiano, non pensando quello che fa, e disconoscendo il cibo che prende, si beve e mangia la sua condanna (2). Non è questo partecipare alla cena divina: conciossiachè (come dicea Paolo di chi mangiava le cose immolate agli idoli) non si può partecipare in un tempo alla mensa del Signore e a quella dei demoni (3). Doppia maniera dunque è di mangiare il corpo di Cristo: altra colla bocca, e altra collo spirito. Può alcuno mangiare il divino corpo colla bocca senza che collo spirito se ne pasca. Non è proprio dire che questi si nutre di Cristo, bensì che trangugia la sua condanna. Non si dice propriamente che partecipa a mensa divina, ma ad una mensa umana, e, rispetto al frutto ch' egli ne porta, diabolica. Ecco l' orazione, con cui nella Messa il Sacerdote, e quelli che con esso comunicano, ringraziano il Signore: [...OMISSIS...] . Col corpo vedemmo e toccammo le specie di Cristo, che è dono temporale: Cristo stesso coll' animo si riceve, e colla mente pura e divota. [...OMISSIS...] Adunque chi crede in lui, e crede, che questo pane sia Cristo a salute nostra sagrificato, e non lo tiene quale altro cibo; chi ne mangia non col corpo ma collo spirito, questi ha vita eterna. Nudrire l' anima nostra di Cristo è essenziale a salute: con questo Cristo tutto promette, senza questo dichiara che non possiamo avere la vita in noi. E questo spiritual nudrimento è pur quello stesso, che nell' altra vita si gusterà; e di cui Cristo disse nell' ultima cena: [...OMISSIS...] Altrove ancora paragona la beatitudine del Cielo ad una cena e ad un convito nuziale (2). Nè il regno di Dio è egli cibo o bevanda corporea, ma spirituale, cioè giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo (3). E` adunque il cibo eucaristico rinovazione, figura e saggio: e segna passate cose, presenti e future. Rammenta e rinnova la passione di Gesù; figura la grazia, e l' autor suo a noi dato a pascere; e presagisce la rimunerazione futura, l' eterna vita. E` poi il cibo vero, e ne ha tutti gli effetti. Mantiene la vita in virtù del sangue di Cristo, accresce e rinforza in virtù della grazia, che in noi aumenta; e soavemente diletta sì per imagine de' celesti diletti come per una parte di quelli che in lui si pregustano. [...OMISSIS...] Al mangiare pertanto che il nostro corpo fa le specie sacramentate, l' anima bene disposta riceve dentro a sè Cristo, e a Cristo s' incorpora. Sebbene niente valga quella corporale nutrizione senza questa spirituale; tuttavia a quella questa è connessa: essendo stato conforme alla sapienza del divino inventore di questo banchetto, che come nell' uomo quanto v' è di essenziale e pregevole è la natura intelligente, ma questa però non è sfornita di veste corporea; così il cibo, che all' anima si presta, di corporea forma sia circondato. Allora però, che s' assiste alla Messa, e non si partecipa del Sacrifizio insieme col Sacerdote, si possono eccitare ciò nulla ostante in noi de' pii desiderŒ ed affetti a quel divino alimento, e alla comunione del Sacerdote unirsi col cuore: il che chiamasi comunicare spiritualmente . E sebbene questo non sia sacramento: può però dare abbondevol frutto di grazia, secondo il merito di quell' atto. Ma perchè impariamo come degnamente ci dobbiamo accostare alla divina mensa; dicendo Paolo, che « ogni uomo provi prima sè stesso » (1); dopo avere osservata quella fervorosa frequenza dell' antica Chiesa al santo Altare, è anche da vedere la riverenza sua, e la severa cura, affinchè nissuno indegno ad esso non si avvicinasse. E` certissimo, a chi ricerca l' antica disciplina, essere stato sempre fermo giudizio della Chiesa, che l' angelico pane non si debba ricevere da quelli, che o conservata non hanno la innocenza del battesimo, o avendola con mortale peccato perduta, non l' abbiano con virtù e col Sacramento di penitenza racquistata. E questo è detto ancora e dichiarato nel Concilio di Trento (2). Ma se osserviamo al modo della penitenza antica; di cui, se mutata è la lettera, non fu nè sarà mai abrogato lo spirito; noi possiamo in quell' augusta severità de' Canoni di penitenza ravvisare assai bene, quanto sia enorme fallo di chi mangia indegno il pane santo, e che mondezza e riverenza da noi esiga l' Altare. Poichè i peccati pubblici, e tal fiata ancora gli occulti, si vedeano espiati con pubblici atti di pentimento, prima che si ammettessero a comunione i peccanti: e molti anni, e talora l' intera vita si separavano dal consorzio de' divini misteri. La quale penitenza andava per certi gradi, secondochè proprio è dell' uomo, che tutto ad un tratto non si converta. Primo era il grado de' piangenti , i quali sulla porta della chiesa, non potendo entrarvi, si buttavano a' piedi del popolo fedele che entrava al Sacrifizio per dimandare co' pianti caritatevole aiuto di sue orazioni. Divenivano poscia ascoltanti: così detti perchè negli ultimi luoghi della chiesa stavano udendo la spiegazione delle sante dottrine. Elli poi se n' uscivano di conserva co' catecumeni. Così stimavasi che avessero poco compreso i doveri contratti nel battesimo quelli che gli aveano infranti, e perciò avessero bisogno di nuova istruzione intorno al vivere de' battezzati. Passavano dopo alcun tempo al grado dei prostrati , i quali entrando in chiesa quando li chiamava il Diacono, si prostravano innanzi al Vescovo, ed ei pregava su loro insieme con tutta l' adunanza fedele; ma prima che cominciassero le preci del Sacrifizio erano licenziati. In ultimo ascendevano al grado de' consistenti , chiamati così perchè a loro era conceduto finalmente assistere a' misteri, ma non ancora però parteciparne. Chi crederebbe oggidì, che a questa esteriore e pubblica penitenza, venuta di tradizione apostolica, si vedessero in quel felice tempo sommessi gli stessi personaggi più illustri, più ricchi e potenti? Fra gli altri ricordo il notissimo fatto dell' imperador Teodosio, non meno cristianissimo che potentissimo; a cui S. Ambrogio in Milano pubblicamente ricusò la comunione, solo pel castigo inconsiderato e troppo universale dato a Tessalonica città ingrata e colpevole di gravi insulti alla imperiale podestà. Il pio imperadore più grande nella umiliazione di sè stesso, che nelle vittorie con cui avea pur allora raffrenati i nemici dell' Impero, fu visto piangere fra i pubblici penitenti. [...OMISSIS...] Molti altri esempŒ simiglianti non mancano di personaggi chiarissimi. E` però a vedere, come questa disciplina nella Chiesa mutasse senza che sofferisse cangiamento il suo spirito. Quello spirito di penitenza è fondato nell' opera stessa di nostra redenzione: nè può mutare. Ei venne da Cristo, che S. Girolamo chiamò il « principe della penitenza, e 'l capo di coloro, che per la penitenza si salvano » (1). Laonde volle mai sempre la Chiesa penitenti, e sempre vi furono. Ma quanta sapienza non si vede nel modo, con cui il Signore provvide la Chiesa sua in ogni tempo di pubblici penitenti? Vi fece comparire ne' secoli primi la penitenza de' Martiri; cessati i Martiri, ecco la Penitenza de' SolitarŒ, i quali ne' deserti d' Asia e di Africa fecero, in mezzo alla pace della Chiesa, fiorire un novello modo di Martiri per austerità e mortificazioni incredibili. In quel tempo di pace ebbero luogo anche nella Chiesa tutti i Canoni di Penitenza, i quali non vennero meno, fino che i barbari, scompigliando ogni cosa, nuove e gravissime tribolazioni alla Chiesa apportarono, e di tribolazione ai Santi. Ma non furono dimenticati o dismessi i Canoni penitenziali senza che il Signore provvedesse a risarcirne la Giustizia sua. Che ne' secoli XII e XIII, cresciuta la durezza del cuor de' laici, e l' ignoranza de' cherici; suscitò degli uomini maravigliosi, un Francesco, un Domenico, un Brunone, un Bernardo, uno Stefano di Grammont, un Norberto, un Alberto, ed altri tai Santi; i quali apersero pubbliche case di penitenza, e trassero un numero grande di uomini a vita mortificata, e a pubblica professione di patimenti e di asprezze. Così in quel freddo tempo riparò la misericordia alla giustizia, facendo istituire innumerevoli monasteri, e fondare severissimi ordini religiosi. E ancora questi durano: e Dio li muta, li riforma, li accresce secondo i bisogni. Quanto alla disciplina poi della comune penitenza, se la Chiesa ne mitigò il rigore, fece con quel senno medesimo con cui un tempo il pose; nè cangiò lo spirito. E non raccomanda essa ancora a' suoi ministri lo studio degli antichi canoni per regolarsi nell' amministrazione della penitenza collo spirito stesso? E vorrebbe pure, che tutti i fedeli ne prendessero notizia, per conoscere l' enormità de' peccati, e la purezza desiderata in comunicando. Sicchè alli buoni nulla è tolto da quella mutazione di disciplina, perchè tengono lo stesso spirito; ma per li cattivi oggidì è rimosso uno scandalo, o pietra d' inciampo, perchè verrebbero da loro trasandate quelle severe ordinazioni per lo poco fervore, e produrrebbero nuove colpe. Perciò, dalla frequenza del comunicare in antico, nessuno pretenda di persuadere il comunicare frequente agli indisposti, e nessuno da quel rigore si creda di potere impaurire e rimovere i disposti. Ciascuno pensi, che non ci è comandata tale frequenza prima che la rettitudine della vita. Vivi in modo di potere comunicare ogni dì; ma in ragione sempre di tuo ben vivere comunica. Dottrina è di S. Francesco di Sales, che a comunicare ogni ottavo giorno convenga non cadere in peccati gravi, nè avere affetto a' leggeri, e sopra ciò grande desiderio del comunicare; ma per comunicare ogni dì bisogni di più avere superata la maggior parte delle cattive inclinazioni, e farlo a consiglio del direttore (1). [...OMISSIS...] Il desiderio poi e la fame di questo divino cibo è altresì requisito necessario di chi se ne pasce. Nulla più abborre che la sazietà. Con queste cose sentirete tutti i Santi a incoraggiarvi allo spesso comunicare. San Filippo col rinfiammare in Roma l' amore alla frequente comunione, e secondo l' esempio suo altri piissimi uomini migliorarono in molte parti i costumi; e per cooperare a detta frequenza, Buonsignore Cacciaguerra, compagno di S. Filippo, scrisse in quel tempo il suo divoto libro della Comunione. [...OMISSIS...] Mi sono allungato parlandovi del Sacramento della Comunione qui, dove il discorso fu della Messa, perchè elle sono cose congiunte. Il comunicare poi alla Messa si fa all' intenzione della Chiesa, che, come fu detto, ordina in plurale le orazioni del Sacerdote, supponendo, che con esso comunichi il popolo: si fa alla natura del Sacrifizio, che dal Sacerdote per sè e pel popolo s' offerisce; onde è ragione che egli e 'l popolo ne partecipino: si fa in fine al vantaggio di chi si comunica, poichè in comunicando alla Messa gode i frutti del Sacramento, e insieme del Sacrifizio, offerendo a Dio la gran vittima di espiazione e di lode, e da Dio avendo un cambio così ineffabile e prezioso. Cantare a Dio lodi, non solo singolarmente, ma in unione di molti, e con vicenda di cori; celebrare con più o meno solennità, ed ancora con musiche, ornamenti, cerimonie le divine perfezioni, e i divini benefizŒ: è cosa conforme non che al dovere, ma ben anco alla inclinazione, ed alla retta natura degli uomini. Per questo l' antichità tutta e tutto il mondo fu sempre pieno di religiosi costumi: sebbene solo nella famiglia de' giusti, special cura del Signore, si trovi il culto puro da superstizione ed empietà, e gradito all' Eterno. Negli uffizŒ della Chiesa alcune cose, come il canto degl' inni, i giorni festivi, le sacre pompe, le orazioni, i sacrifizŒ, non sono nuovi per intero: avvegnachè tutte le genti antiche usavano, sebbene impuramente, tai cose. Si conosce però di qui, come in sostanza queste pratiche si fondano nella ragione delle cose; mentre anche quelli, che abbandonarono il vero Dio e confusero le verità tutte di religione, ebbero però, chiariti da un po' di lume di natura e di ragione che loro rimase, riti somiglianti. Ma quantunque il culto esterno si fondi in natura ed in ragione; tuttavia la Rivelazione sola cel purga, cel nobilita e perfeziona, e cel dichiara rato ed accetto al Signore. Una somiglianza più vicina, nè solo nell' esterno ma nello spirito stesso, hanno i nostri uffizŒ con quei dell' Antico Testamento. Ivi la partizione del dì e della notte all' uso delle preghiere (1). Ivi il salmeggiare, che tutto avemmo da que' Santi antichi (2). Ivi i cantici, e gl' inni (3); ivi le lezioni delle Scritture; ivi le acque lustrali, il balsamo, l' olio, e gli stromenti di musica, e i lumi accesi, e gl' incensieri, e le are, e l' ordine de' Sacerdoti; e assaissime altre cerimonie conformi alle nostre. Le Mosaiche però erano molte pel numero, gravi per rigore, e mere figure di quell' esemplare veduto da Mosè in sul monte; e però, quanto alla lettera loro, convenivano solo a quella Gerusalemme, che è serva, e madre di servi; non alla celeste madre nostra, che è libera (4). E non di meno chi si fa dentro nel loro spirito, come hanno fatto i Santi in tutti i tempi, si udirà agevolmente in que' riti una voce sola, e un solo costume con noi. Perchè sempre uno fu lo spirito di quella adunanza di giusti, che cominciata in Adamo penitente, terminerà col mondo. Fu adunque quando Cristo fondò il nuovo Israello, che dall' antico scelse alcune cose convenienti, e ne fece passare l' uso agli Apostoli: sebbene anche queste le lasciò loro come cose sue, non come cose altrui. Del cantare inni e salmi, dice Agostino (1), abbiamo del Signore stesso o degli Apostoli i documenti, gli esempŒ, i precetti. Sentiamo in fatti, che dopo l' ultima cena, « detto l' Inno, uscirono sul monte Oliveto » (2). E Paolo esorta que' di Efeso ad essere nelle loro adunanze pieni di Spirito Santo. [...OMISSIS...] Questo ancora raccomanda a que' di Colosse (4), e vuole che escano sì fatte lodi del cuore, ed essi sieno portati a quelle da interiore esultanza di santo spirito, da pienezza di pace di Cristo, da abbondanza di sua parola, che schiumi per dire così, e travasi dal petto ricolmo. Ecco in poco quando l' orare e 'l salmeggiare è ben fatto. Scrive ancora a' Corinti (5): « « Qualunque volta vi adunate insieme, ciascuno di voi ha il salmo, la dottrina, la rivelazione, la lingua, l' interpretazione: tutto giovi ad edificare » ». L' egregio Baronio ravvisa in queste parole effigiata la forma dei nostri uffizŒ (6). Poichè ecco quanto abbiamo negli uffizŒ: i salmi; di poi le lezioni , che rispondono alla dottrina; i responsorŒ , che tengono luogo della rivelazione , perchè con questi ci desidera la Chiesa il possesso dei beni celesti, operando ciò, che udimmo prescritto nelle lezioni, od almeno questo è il loro uso solito (7). Invece poi della lingua abbiamo l' Evangelio, per la manifestazione del quale ne' tempi primi era dato il dono delle lingue; e per l' interpretazione del medesimo, che allora si facea da que' fratelli che più sentiano interiore illustrazione e fervore a parlare, or noi abbiamo le Omelie de' Padri, nelle quali l' Evangelio si dichiara. E poichè molti in que' primi tempi di amore infiammati ardevano di manifestare nell' adunanza quanti intorno all' Evangelio sentivano pii sentimenti: per questo Paolo tempera e regola quel fervore, insegnando che lo spirito de' profeti è soggetto a' profeti (1). Non si vede di questo traccia nel Mattutino, ove chi legge le Lezioni dimanda prima benedizione al Superiore, indicando con ciò, che ogni zelo, ed ogni esultanza di spirito se è da Dio, è pure tranquillo, ragionevole, mantenitore dell' ordine, sommesso a' maggiori? Tengono dunque ancora i nostri uffizŒ que' primi delineamenti messi dagli Apostoli; e sopra quelli di mano in mano furono regolate e compite le preci secondo i bisogni: e con leggi e rubriche fu reso costante e uniforme il numero, l' ordine, il modo di esse: e tutto recato a stabilità ed esattezza. Ogni Cristiano venuto nel Tempio alla pubblica orazione forma parte di quella adunanza di Sacerdoti e di popolo fedele che prega ivi raccolta. E` dunque necessario o conveniente, che tal Cristiano sappia che cosa e' preghi cogli altri, e che cosa dica quell' adunanza di cui è membro. La Chiesa oltre di questo è madre al Cristiano: e quante belle cose a lui non dice, quanti bei sensi a lui non esprime ne' sacri templi? Non sono segni di idee solamente le parole: anche gli atteggiamenti della persona indicano gl' interiori sensi. E ancora per mezzo delle cose esterne l' uomo rappresenta e parla: formando di quelle simboli ed imagini di quanto ha nell' animo. Non lascia pertanto la Chiesa di favellare in tutti tre questi modi: e non meno a Dio, supplicandolo, che a' suoi figliuoli insegnandoli e innamorandoli delle cristiane verità. Poichè in essa come in perfetta persona tutto è armonioso e decente, le parole, le cerimonie, gli adornamenti. Con tutto parla. Quanto dicono le parole sue agli orecchi, tanto pongono i suoi riti sotto gli occhi. E sì come grave matrona al decoroso discorso fa convenire decoroso atteggiamento, nè alle gravi parole, e a' nobili cenni discorda l' abito ricco e maestoso, sicchè da tutto quello che è in lei nasca il concetto medesimo di gran donna a chi la sente e vede, e dal parlare, e dall' accennare, e dal vestire: così parimenti è nella Chiesa del Signore, dove le orazioni, i riti, e l' esteriore apparato armoniosamente consuonano, e danno a divedere di che qualità donna ella sia o che risguardiamo il contegno suo in trattando con Dio, o in trattando con noi. Ignominioso è dunque al Cristiano non intendere, quanto può, il linguaggio della madre sua, sì piena di sapienza e di tenerezza: al quale linguaggio ella studia di avvezzare i balbettanti suoi figli, e cui eglino debbono apprendere se vogliono esser di sua famiglia. Impariamo adunque il linguaggio della madre, studiamo di ben penetrare i sensi della pubblica preghiera. Che questa è a Dio carissima: a questa ci giova conformare la privata, che allora è fatta rettamente quando somiglia a quella. Sugli esteriori oggetti adunque della Chiesa, sulle cerimonie, e sulle sue vocali preghiere alcuna cosa dirò: perchè qui non manchi qualche nozione sopra quella triplice lingua, nella quale la Chiesa esprime i suoi alti concetti. Al cominciamento della Cristiana Società ne' tempi Apostolici e' pare, che le chiese fossero le case de' fedeli. Così dalla lettera di Paolo a Filemone veggiamo, che la Chiesa avea luogo nella casa di questo fedele: ivi tenevansi le sacre adunanze. Surte poi le persecuzioni, spesso non poteano avere luoghi costanti, nè agiati. S' adunavano que' pii nelle arenarie, nelle caverne, usavano singolarmente raccogliersi a' sepolcri de' Martiri. Ivi facevano loro Stazioni, ivi ricevevano i Sacramenti. La perfezione poi di que' primi padri nostri li rendeva in vero meno bisognosi di chiese pel culto divino. Essi stessi erano i tempŒ di Dio. E il martire Giustino dimandato dal Prefetto di Roma in che luogo i Cristiani s' adunassero, rispondea: che dovunque pareva meglio erano soliti di congregarsi, perchè l' ineffabile Dio de' Cristiani non è circoscritto, nè ristretto da luogo, ma invisibile essendo riempie il Cielo e la Terra; e dappertutto è adorato dai fedeli (1). Tali congregazioni di tali adoratori formavano le chiese vere, costrutte di vive pietre, opere artifiziose del fabbro divino, e sacrate dall' eterno pontefice: delle quali chiese le materiali non danno che un emblema: ed è per questo, che il Vescovo consacra i templi murati con alcune bellissime e simboliche cerimonie, che alludono ai templi vivi. I luoghi però usati da que' Cristiani per le sacre unioni, o fossero nelle case private, o ne' sotterranei e nelle catacombe, o talora in luoghi spartati ed eretti appositamente; essi veniano disposti in forma di cappelle, o chiesuole semplicissime, di solito rozze, ma piene di decoro e santità. Ivi l' altare, ivi le reliquie de' martiri, ivi delineate e scolpite con rozza opera in sulle pareti e 'n sulle sepulture imagini di sacre verità, storie, simboli, ed iscrizioni, come più suntuosamente si fa nelle nostre. E fu allora quando a Dio piacque di convertire Costantino Imperadore, e dare così pace alla Chiesa per trecento e più anni vessata e sbattuta da' feroci Signori del mondo, che si videro alzarsi al vero Dio templi maestosi; ed i sacri vasi formati di legno divenire d' oro e d' argento: e d' oro risplendere il tetto, le muraglie, i sacri addobbi, le vesti de' Sacerdoti: e statue insigni, e pitture preziose ornar la casa del Signore. Del quale spettacolo niente si potea dare di più commovente e consolante pe' buoni. Poichè dopo tempi tristi e d' ingiustizia verso l' Eterno, apparivano giorni pii, ne' quali in onore al Signore dell' universo si dedicavano le cose da lui create e dagli uomini tenute in pregio, che prima s' usurpavano a fomentar o la umana superbia, o la diabolica superstizione. Di questo tempo per la Chiesa felice in tutto il mondo s' onorò Iddio con gran templi e ricchi; come veggiamo per grazia divina anche a' dì nostri. Osservarono alcuni, come nelle chiese semplicità a decente mondezza unita più eccita divozione sincera: mostrando essa al cuore come il nostro Dio non ama grandezze umane, nè fasto: ma ama interiore affetto, purezza e sincerità di tutto e non maschera; e fino povertà di mondane cose; come povera vita fu quella di Cristo. In questo avvi ad osservare, che l' ornamento della chiesa si considera, o rispetto a Dio, o rispetto all' uomo. Rispetto alla maestà divina nessuno onore è troppo, e sarebbe ragione che tutte le ricchezze del mondo giovassero ad onorarlo. La dignità del tempio viene sostenuta con ciò, che gli uomini reputano dignitoso: quelle ricchezze dunque si mettono in chiesa non già per dare a queste il prezzo che non hanno, ma anzi per farle a quello servire, che di ogni pregio è fornito: apparendo anche in ciò la bontà di quegli uomini pii, che da sè togliendo tali vanità, al Signore ne hanno fatto sacrifizio. Sono perciò le ricchezze delle chiese trofei, che Gesù ha portato sovra il mondo. Così nell' antico patto le egiziane dovizie servirono, per comando del Signore, alla vera religione degli Ebrei. Rispetto all' uomo: quanto egli è più infermo e più soggetto a' sensi, tanto ha maggior bisogno d' essere tratto a Dio per mezzo di esteriori oggetti, quasi per gradi che a Dio l' innalzino. Quindi la pompa della chiesa, la soavità della sacra musica, e delle altre esteriorità ecclesiastiche a quello stato della chiesa più abbisogna e più conviene, nel quale gli uomini sono più raffreddati e aderenti alle mondane cose; come inverso de' primi tempi è a dire de' nostri. Quanto l' uomo è più perfetto più ama la solitudine degli oggetti esteriori, perchè lo tolgono da' penetrali di sua mente, ove si tiene in gioconda pace nascosto: ma se è dissipato, alcuni oggetti esteriori possono dare a lui motivo di raccogliersi. Quindi regola di S. Agostino è questa, che « « allora è buono l' uso delle cose umane, quando negli inferiori oggetti non veniamo intoppati, ma solo dilettati de' superiori » ». Per la quale non meno la semplicità antica si commenda, che la pompa presente si giustifica. Per altro, molto si lagnano i Padri del veder le chiese riccamente apparate di cose umane: nude e sfornite di cose divine, dello spirito e delle virtù de' Cristiani. Quegli ornamenti sono buoni, ma questi migliori; nè quelli sono cari a Dio senza questi. Quando dunque venite in alcun tempio ampio e dovizioso, godete allora della gloria divina fra gli uomini; godete, che il Signore abbia tratte a sè quelle ricchezze del mondo, e fatte servire al culto suo; godete, perchè gli uomini infermi che stimano quelle cose, da quelle vengono bel bello stimando Dio, a cui quelle cose tributano onore. Se poi vi fate dentro alle chiese semplici e povere, come quelle dei Cappuccini, vi tornino a mente i bei tempi primi: e godete in esse il vostro Dio immediatamente senza ingombro o senso di cosa mondana; e tenete egualmente venerabile e ricco quel luogo, dove abita la vera ricchezza, il Signore. Con quegli ornamenti adunque Madre Chiesa v' insegni a levarvi alla divina Maestà: con questa semplice povertà v' insegni a sprezzare la mondana vanità. Sono nelle chiese, oltre agli ornamenti, delle altre cose; e farò qui un piccolo cenno delle principali, notandovi di che cosa possano essere figure o segni. L' altare è la mensa su cui si fa il Sacrifizio. Rappresenta il desco, a cui cenò Cristo quando consecrò prima il pane e il vino. E come quello effigiava la croce, così l' altare nostro è imagine anche della croce, su cui patì. Per questo a' tempi apostolici gli altari erano costrutti di legno. Ancora più propriamente per l' altare si esprime Cristo stesso; avvegnachè, essendo il merito di suo sacrifizio opera del suo spirito, Cristo fu veramente e altare e vittima e sacrificatore. Onde Giovanni dice, che l' altare è Cristo (1). E perchè Cristo nelle antiche carte detto è pietra angolare, fianco dell' edifizio, che unisce le due muraglie del tempio, cioè gli Ebrei e i Gentili (2), e ancora pietra perchè percossa co' patimenti sgorgò acque di salute (3), e pietra perchè ad essa s' infrangono e spezzano quelli che in lei cozzano; già per antica legge gli altari si fanno di marmo, e si sacrano coll' olio, perchè Cristo è l' Unto, di cui era imagine il sasso, su cui Giacobbe sparse l' olio ed eresse a monumento, sopra del quale dormendo, come Cristo in sulla croce, avea veduto la scala degli Angeli, che congiungeva insieme la terra ed il cielo (4). Nell' altare s' inseriscono reliquie di Santi, specialmente martiri, pel consorzio che hanno con Cristo fatti una cosa con lui nel Sacrifizio; e le tre tovaglie benedette dell' altare rappresentano pure le vestimenta di Cristo, che sono i Santi suoi. I candelieri accesi, e il Crocifisso nel mezzo, mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile, a quello che elevato in alto trasse a sè ogni cosa. A pie' dell' altare stanno de' gradini, che sono le virtù, per cui si va a Cristo. Prima di ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione de' peccati, e recita a vicenda col ministro, e un tempo già con tutto il popolo, l' opportuno Salmo « Giudicatemi Signore » (5), col quale prega, che, abbattuti gli avversarŒ, mandi a lui la sua luce e la sua verità, per essere da queste condotto nel santo suo monte, ne' diletti suoi tabernacoli. [...OMISSIS...] L' uso delle cose necessarie nella Messa e nelle altre funzioni facilmente apparisce. Laonde dirò delle loro mistiche significazioni, essendo queste atte a nudrire divozione, conforme all' intenzione della Chiesa, desiderosa che tutto e in tutti i modi spiri edificazione e pietà. Dunque nel Calice s' imagini di vedere il sepolcro nuovo del Signore; nella Patena la pietra rivoltata sopra la bocca del monumento: il corporale sia la sindone monda, ove Giuseppe d' Arimatea involse il corpo del Signore. Le vesti poi del Sacerdote tutte alludono a vestimenta spirituali. La bianca cotta indica l' innocenza di una vita sacerdotale. L' ammitto è l' elmo della salute, che guarda il capo dall' avversario, e protegge il collo o sia gli organi della voce, onde facile è il peccare. Il camice mostra il vestito tutto mondo della santità; il cingolo in particolare la virtù della purità; il manipolo, drappo con cui una volta s' asciugavano le lagrime, significa la penitenza, che, seminando in pianto, coglie frutti di letizia. La stola, che pendente dal collo s' incrocicchia in sul petto, segna la fortezza, o la veste d' immortalità acquistata per la croce di Cristo, e la pianeta finalmente raffigura il giogo della soave sua legge, cioè la carità, che dal Vescovo nella ordinazione s' appella abito sacerdotale, e nel Vangelo veste nuziale soprapposta alle altre, perchè a tutte dà compimento e perfezione. Nella tonicella poi del Soddiacono è l' imagine delle interiori virtù, come nella dalmatica del Diacono delle esteriori: poichè si spetta a' Diaconi la cura de' poveri, e debbono essere assistiti da' Sottodiaconi, cioè da ministri incorrotti pieni d' interior santità. Il piviale finalmente dimostra la grave e santa conversazione de' superiori ecclesiastici, che abbraccia la carità di Dio e del prossimo. Ora i colori diversi de' sacri indumenti si conformano alle feste, che con essi si celebrano. Il bianco indica letizia, gloria, gaudio; il rosso segna il sangue de' Martiri, e il fuoco del Santo Spirito; il violaceo significa mestizia e passione; il nero morte: il verde poi è un colore medio, che s' usa in alcune Domeniche meno solenni forse qual indice della nostra speranza. Le conche poi dell' acqua benedetta, che anticamente erano certe urne con una fontana posta in mezzo all' atrio delle chiese, ove si lavavano le mani e la faccia i fedeli avanti entrare in chiesa, figurano la lavanda interiore, e lavano da veniali peccati chi n' ha dolore, in virtù di benedizione fatta su quelle acque dal Sacerdote. D' alcune altre cose, che sono in chiesa, cade di toccare nel capo seguente. Dalla meditazione de' riti e delle cerimonie dalla Chiesa usate quali cose e quante non impara il Cristiano! Raccoglie da quelle gli alti sensi di essa Chiesa verso a Dio, ed eccita in sè stesso que' sincerissimi e perfetti atti di culto. Vede ancora in quelle, il che non è a dire quanto sia giovevole, una cotal forma bellissima di cristiano conversare in questo mondo, gastigato alle regole di perfetta vita; mentre, dovunque e' si trovi il Cristiano è nel tempio del Dio suo, e quasi ministro, per dire così, insieme cogli altri fratelli suoi, e con tutte le creature dell' universo, esercita atti di religione. Tuttavia non vengono per avventura sotto questo aspetto bastevolmente considerate le ecclesiastiche cerimonie. E pure verissimo è, che nella Chiesa si ha quel trattare vicendevole, che a Cristiani perfetti conviene: e così perfette essa l' ha poste, perchè convenienza avessero con sè, col carattere de' suoi ministri, e coll' altezza delle cose divine. Or facciamoci addentro alcun poco nel loro spirito. Che diversità fra queste e le cerimonie del mondo! Alcuni distintivi delle cerimonie della Chiesa paragonati a' corrispondenti delle cerimonie del mondo ne mostreranno, quanto le une dalle altre si dispaiano. Il primo carattere delle cerimonie di Chiesa è la SINCERITA`. Essendo santa essa Chiesa, sinceri sono quegli atti con cui la santità appalesa. Oltracciò sono fatti a Dio, col quale non si scherza, poichè vede nell' interiore del cuore. E se nel mondo l' interesse sospinge gli uomini a finzione esterna, qui gli spinge ad esterna sincerità, come la sola che ottenga favore. Perciò le ecclesiastiche cerimonie sono ancora semplici e naturali . Per esempio: levarsi in piedi al Vangelo dopo essere stati seduti all' Epistola, per dimostrare prontezza di sostenerlo e difenderlo quali prodi soldati di Gesù: stare in piedi nella Domenica al recitare delle antifone di Maria, in memoria del Signore risorto; e usare positura ritta ogni qual volta vogliamo significare solennità ed esultanza: genuflettere, a indizio di mestizia e lutto, quasi col lasciare cadere il corpo, dimostrando di confessare la caduta dell' anima, o l' umana abbiezione dinanzi alla Divinità: piegare il capo in segno di riverenza, battersi il petto in atto di pentimento, variare la voce come si fa nella Messa, adoperandola talora alta, talora sommessa, alcuna volta al tutto segreta secondo i misterŒ proferiti, i quali si vogliano fare intendere od a' ministri soltanto, od a tutto il popolo, o vero dall' unico Sacerdote si trattano con Dio in alto raccoglimento, conforme alle intime cose, sacrosante, e misteriose che esprimono (1), ed altrettali atteggiamenti, riti, e cerimonie, i quali, nati, per così dire, insieme colla cosa ch' esprimono, non hanno sforzo veruno nè affettazione, e mostrano in sè medesimi la propria sincerità e verità . Sieno adunque anche gli atti di noi Cristiani, in trattandoci nella vita civile, così semplici, facili, sinceri, acconci, e proprŒ alle opere che trattiamo, e in un tempo così espressivi e decorosi. Tutto altro è il trattare del mondo, simulato, artifizioso, ed insulso. Altro carattere di questo trattare esteriore nella Chiesa è il BELL' ORDINE, la quiete, la placidezza , con cui tutto si move. Ogni cosa è bene disposta e regolata. Sono prescritti a' Sacerdoti i movimenti e gli atti più minuti, perchè ogni picciola sconcezza si fa grave in quel luogo. La distribuzione de' ministri, cominciando dal Pontefice insino a' turiferarŒ, agli ostiarŒ, a' lettori; le incumbenze assegnate a ciascuno, accordo insieme e varietà, ed un succedere di nuovi oggetti bene fra sè congiunti, rende ciò che è santo anche dilettoso e ammirabile a' sensi. Così queste sacre funzioni esprimono il fervore dell' uomo cristiano, che nasce da serena mente, quieta, e tutta pace: edificano colla pietà, non agitano colla passione. Che distanza dal tumulto, dal fracasso, e confuso agitamento delle mondane feste, le quali mescolano o sconvolgono tutto l' esteriore e l' interiore dell' uomo! E se noi mireremo alla gravità ed alla MAESTA` del sacerdotale apparato, principalmente in festa solenne, facilmente diremo, che quel così augusto spettacolo, e quel grave portamento, quegli ampli addobbi de' Sacerdoti e del Tempio ci parlano di Dio; e che mentre glorificano Dio insegnano al Cristiano chi sia lui stesso, che Signore serva, e che servigio sia il suo. Insegnano, che a lui sommamente disconviene in ogni tempo piegarsi alle scurrilità del mondo; ma sempre al grave contegno attenersi e dignitoso. E perchè i mondani uomini sono avvezzi nelle loro smorfie, e in certi loro attucci, colle idee picciolissime che queste cose presentano non sogliono capire le gravi e somme verità, nè prezzare le ecclesiastiche cerimonie: non potendo dilatare il pensare ed il cuore a quelle grandi cose, nè reputarle perciò belle o dilettevoli; ma sì tenerle, come le altre cose di Dio, austere, penose e secche. E loro avviene questo come a colui, che ode dignitosissimo personaggio favellare, ma non intende la lingua in cui favella. Noi all' incontro, che intendiamo e gustiamo questi riti maestosi, veggiamo nel Sacerdote, che ascende l' altare, l' umanità ascendere al « Sancta Sanctorum », a Cristo; quando lo bacia intendiamo ch' ei bacia Cristo, saluto usato anticamente a' re; quando incensa le obblazioni, le reliquie, l' altare, sappiamo che adora con quest' atto in tutte quelle cose Iddio, veggiamo i vortici del profumo odoroso ascendere in alto, e in quelli ci vengono a mente i nostri preghi che ascendono a Dio per Cristo; e per Cristo, giusta la frase scritturale, si odorano dal Padre, essendo Cristo il solo odore in cielo gradito. E così nella pompa de' doppieri e de' torchi accesi e de' candelabri, ove splende il fuoco che Cristo venne a mettere in terra, e nel trono del Pontefice, e nelle schiere de' ministri, e nell' ordine de' Sacerdoti, e nella turba de' cantori, e ne' suoni degli organi, e in tutto il lento e variato procedere della cerimonia ci troviamo agevolmente colla mente in Cielo, nella corte di Dio, nel tempio del sommo Pontefice; d' intorno al quale gli Angeli con divini riti celebrano eterno giorno festivo. Il quarto carattere delle cerimonie ecclesiastiche è quello di RIVERENZA, di cui sono piene verso tutti i membri della Chiesa, cioè i fedeli che a quelle assistono, e di quelle sono gran parte. Ciò pure insegna come dobbiamo portarci a vicenda. San Paolo esortava a prevenirsi scambievolmente in rendersi onore (1). Ora, poichè i ministri sacri in chiesa non trattano solo con Dio, ma ben anco tra sè, e talora col popolo; così come con Dio la maestà e la dignità è richiesta, i Cristiani trattando fra sè hanno legge di scambievole riverenza. Rispetto e riverenza può essere dato tanto dagli inferiori a' superiori, come dai superiori agl' inferiori, e ancora da uguali ad uguali. Questo rispetto di tutti fra tutti nella chiesa apparisce in tanti inchini, che si fanno i sacerdoti e cherici. Verso il superiore il mostrano le benedizioni dimandate prima di leggere, i baci della mano fatti dal ministro, l' essere tutto il coro regolato a suo esempio: poichè nessuno siede prima di lui, nè si alza prima che egli alzato non sia, e in altri simili segni di onore: i preti stessi si stanno in coro regolati secondo la dignità o l' età. Ma se il Cristiano venera nel maggiore l' autorità divina; il maggiore altri non trova nell' inferiore che un fratello suo compartecipe della stessa cristiana adozione. Onde quale umiltà e dolcezza non dimostra il Pontefice stesso in tutta sua pompa in onor degli astanti? Viene alla celebrazione della Messa, e si pone prima di tutto a' piè dell' altare; fa una accusa pubblica de' suoi peccati, e sente rispondere in bocca del popolo: Iddio ti faccia misericordia . Dopo offerito il pane ed il vino e' si volge agli astanti, li chiama fratelli, li prega di orazioni, perchè il Sacrifizio comune sia accettato dal Signore. Dimanda anch' egli ad un Sacerdote la benedizione prima di leggere le lezioni nel Mattutino. E per tutto s' umilia di sotto agli altri, quando prende aspetto d' uomo; benchè in figura di Dio venga nella funzione stessa altamente onorato. Quella cerimonia però, che più al vivo mostra l' onore, di cui fa la Chiesa degni tutti i Cristiani, si è l' incensamento, il quale non pure al celebrante e al clero, ma al popolo stesso viene dato, perchè si tengono tutti pieni di Dio, templi vivi, come essere dovrebbono, del Santo Spirito. Cessiamo forse d' esser tali fuori di chiesa? No. Ecco adunque l' onore, in che reciprocamente, se cristiani siamo, ci dobbiamo tenere. Quanto civile, umano, riverente non è dunque il tratto dell' uom cristiano? quanto lontani ci conviene essere ne' nostri modi dallo sprezzo, dalla non curanza, dalla freddezza verso a nessuno, non che io dica dalla presunzione, dall' alterigia, e dall' insulto, che sono pur le belle costumanze di questo mondo? Ma il carattere precipuo, più soave e più bello delle cerimonie ecclesiastiche si è il quinto, cioè l' essere piene di amore , LA CARITA`. Oh bellissima unità di cuori, che spirano le funzioni di chiesa! che concordia e carità non adorna i sacri riti? Nella Chiesa, tolte di mezzo tutte distinzioni e separazioni mondane, forma un corpo solo nell' unione al comune capo Gesù, il re col suddito più abietto. A vicenda colà si prega e canta. E perchè i due cori in nulla cosa sembrino salmeggiando divisi, nell' antifona, alla fine del salmo, s' uniscono concordi ad esprimere perfetta consensione di anime. Nella Messa poi quai soavi parole non usa il Sacerdote ciascuna volta che parla agli astanti? Quando li saluta si volta ad essi allargando le mani sue in atteggiamento di abbracciare, e loro dice: Sia con voi il Signore. Essi rispondono all' incontro: Sia pure collo spirito tuo. E tale saluto forma preparazione alla preghiera, poichè la preghiera accetta è quando il Signore è con quelli che pregano, ed essi nel Signore sono uniti, per cui al Dominus vobiscum segue l' Oremus , cioè l' invito a pregare insieme. Altra volta esortali ad innalzare gli animi al Cielo, essendo oggimai vicino il Sacrifizio, a rendere grazie, e cantare in una con lui e cogli Angeli: « Santo, Santo, Santo il Signor degli Eserciti », e benedire colui, che già in nome del Signore sen viene. Questo pio consorzio di affetti si va poi accrescendo in perfezionando il Sacrifizio. E quando il Sacerdote divide l' Ostia in due parti, e un frammento ne stacca, e con tre segni di croce lo ripone nel calice, dice allora a tutti: « La Pace del Signore sia sempre con voi ». E già messo nel calice il pezzetto, aggiunge: « Questa meschianza e questa consecrazione del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo torni a noi, che siamo per riceverlo, a vita eterna; così sia ». Colla quale cerimonia rappresentando il ricongiungimento del corpo col sangue di Cristo, cioè la nuova ed eterna vita da lui per la risurrezione racquistata; si prega, che noi, membra sue, parimente partecipiamo di questa immortale vita del glorificato nostro Capo. Nel quale istante il Sacerdote, dimentico quasi che pur siamo in terra, ov' è solo principio d' eterna vita, quasi trasportato in Cielo a quel tempo, in cui l' opera di nostra salute sarà perfetta e compita, prega alla Chiesa di Dio Pace; e pace a tutti i fedeli desidera dal Signore: e bacia l' altare per riceverla da Cristo, che l' altare rappresenta, e abbraccia il Diacono, e a lui la comunica: il Diacono poi al Clero la reca, che tutto pure a vicenda si viene abbracciando, da cui l' abbracciamento un tempo passava anche al popolo: rito pieno di affabilità, e santissima amicizia, dopo il quale non più dovrebbe rimanere alcuno rancore negli animi, non più avvenire una rissa in sulla terra fra' battezzati, e solo Amore regnare, Concordia, Pace di Cristo. Il perchè, se le sacre cerimonie si guardano rispetto all' animo della Chiesa, si trovano pure e sincere , in sè stesse sono belle e ordinate , verso Dio sono gravi e maestose , verso i fedeli sono piene di rispetto e d' amore . Che se, in trattando fra noi nella vita, queste cose serbassimo, noi toccheremmo ogni perfezione di un conversare cristianissimo e amabilissimo. Chi mira all' ordine delle preghiere, che la Chiesa usa, può acconciamente dire colla Cantica, che il Signore ha ordinato in lei la carità (1). Veggiamolo brevemente. La Chiesa, come abbiamo toccato di sopra, regolò fino da tempo antichissimo le sue preghiere nelle diverse ore del giorno e della notte. Partito il dì, e così pure la notte in dodici ore, ad ogni terza ora era l' orazione. Le ore più solenni però del giorno furono Terza, contandosi dallo spuntare del sole, Sesta, Nona, e Vespro o duodecima. Introdotto poi il costume di orare anche al principio del dì e della notte, ne vennero Prima e Compieta . Queste ore sono santificate anche da' fatti della Passione di Cristo. A Prima fu condotto da Pilato: a Terza crocifisso colle lingue de' Giudei, flagellato, coronato di spine: a Sesta inchiodato in croce: spirò a Nona e scese agl' Inferi: a Vespero si depose di croce: e a Compieta fu collocato nel monumento. Col sovvenirsi de' quali fatti può assai agevolmente santificare queste ore anche chi non dice i salmi delle Ore canoniche. Gli OffizŒ divini, come sono al presente, si possono ancora dividere in tre parti: nel Mattutino, col quale principiamo il giorno; nelle Ore diurne, con cui fra il giorno si prega; e nella Compieta, che chiude la giornata. Ognuna di queste parti ha il suo cominciamento opportuno. [...OMISSIS...] Quando cominciamo il giorno, non ancora distratti da occupazioni terrene, nè sbattuti da tentazioni del dì, apriamo più degnamente i labbri a lodare Iddio. Nel giorno, fra tante cure e pericoli, ci bisogna un peculiare sostegno divino ad ogni passo, e questo si chiede colla seconda preghiera. Alla sera, dopo avere passato il giorno tutto negli affari di questa vita, dove è molto difficile non esser qualche volta caduti, che cosa evvi di meglio che a Dio tornare in quella notturna quiete, e pregarlo, come si fa col principio di Compieta, che e' ci voglia ricondurre ad esso e ritenere il suo sdegno. I padri nostri hanno diviso il Salterio di Davidde ne' sette giorni della settimana per modo, che dentro a ciascuna si svolgeva cantando tutto quel libro. Poichè, lasciando essi le voci gentilesche de' giorni, li chiamarono tutti ferie , ossia vacanze: intendendo di mostrare con questo vocabolo, come i Cristiani dovevano vacare sempre dalle terrene cose, e riposarsi in contemplare le divine, e cantarle. Come poi gli Ebrei dal loro Sabbato numeravano i giorni, così i Cristiani dalla Domenica presero a numerare le loro ferie. E come il Venerdì presso gli Ebrei veniva chiamato anche Parasceve, ovvero preparazione al Sabbato, così i Cristiani ritennero all' ultima feria il nome ebraico di Sabbato: volendo mostrare con questo, che la festa degli Ebrei altro non era che uno apparecchio alla cristiana. E sì come alla Domenica, che significa giorno del Signore, celebravano e celebrano il risorgimento, col quale un Cielo nuovo e una Terra nuova apparì, e cantavano in questo giorno il più solenne cantico, quello de' tre fanciulli di Babilonia; così nel Sabbato rammentavano e rammentano la fine del mondo vecchio, e dicevano il Cantico, che Mosè disse moriente. La Feria sesta serbò sempre la grande memoria del sangue del Signore in quel giorno sparso, ed in essa s' intonò il Cantico di Abacucco, dove è accennata la croce. Della quinta è propria prerogativa l' istituzione in essa fatta della Cena eucaristica, e in quella si può ricordare ancora l' istituzione degli altri Sacramenti, dove s' onora il più grande. In fatti, il Cantico Mosaico, composto dopo il passaggio del mare Rosso, che a questo giorno è stabilito, conviene, come diremo più sotto, al battesimo. Negli altri giorni altri argomenti si ricordano e onorano, come la creazione, e il gran decreto della redenzione, l' umana impossibilità a risorgere dal primo peccato, e la morte sua pena; la consolazione del Santo Spirito, e di sua grazia; pe' quali giorni si leggono i Cantici d' Isaia, d' Ezechia, e di Anna. In tali argomenti può pascere santamente il suo spirito, chiunque ne sia informato, ne' diversi giorni della settimana con pia meditazione, e così unirsi alla Chiesa orante, sebbene non reciti il Breviario, e non sappia punto di latino. Gli Ebrei nel primo giorno di ciascun mese celebravano certa festa solenne, chiamata da loro Neomenia , ossia luna nuova . In luogo di questa noi abbiamo fra l' anno sparse le feste della Madonna, rassomigliata dalla Chiesa per la sua spirituale bellezza alla luna. Ogni mese poi, nel primo giorno non impedito da festa maggiore, noi suffraghiamo i defunti. Occorrono oltracciò in ciascun mese alcune feste, delle quali brevemente diremo appresso. Nel tempo, in cui la Chiesa nostra era in sul primo svolgersi, pochi erano ancora i Santi del Nuovo Testamento, e perciò poche le nostre feste. Fra settimana si recitava, come è detto, il Salterio, cioè gli OffizŒ feriali , che sono uffizŒ di penitenza e di apparecchio alla Domenica, grande giorno del Signore. Ma venne di mano in mano la Chiesa arricchendo sempre più di glorie e di eroi, da prima in ispecial modo co' Martiri, e appresso coi Confessorì: e da questi nuovi acquisti ebbe sempre nuove ragioni di allegrezza. Il perchè, festa a festa aggiungendo, e solennità a solennità, è pervenuta Chiesa santa in uno esaltare continuo ogni giorno nuovi trionfi, ogni giorno nuove azioni di grazie, nuove memorie de' suoi prodi. Il quale perenne succedere di fasti gloriosi quale gaudio non dee produrre ne' fedeli, ammirando le inesauribili ricchezze divine ne' Santi suoi, e la inesprimibile varietà e preziosità di abbellimenti, con cui la sposa di Gesù in ciascun giorno quasi a foggie novelle si ammanta! Ogni giorno dunque Chiesa santa esulta; e questo suo esultare crescerà insino alla fine de' secoli. Non dà egli un tanto rallegrare qui in terra imagine del Cielo? In fatti la numerosità delle feste, dice S. Bernardo, spetta ai cittadini e non agli esuli (1). Il perchè v' ebbero de' santi uomini, che, desiderosi più del pianto, proprio di questo pellegrinaggio, che della letizia propria del Cielo, hanno mostrato desiderio, se essere potesse, che minorato fosse il gran numero degli uffizŒ de' Santi, e avessero luogo que' delle ferie. Noi poi e nelle feste de' Santi la magnificenza ammiriamo del regno di Cristo, che ci dà quaggiù un cotale saggio di celeste gloria, ed amiamo lo spirito di que' virtuosi, i quali preferiscono alla consolazione lo squallore ed il pianto, come più proprio a noi, Chiesa che milita in fra cotanti avversarŒ. E` però di grandissimo vantaggio quell' avere ogni giorno sott' occhio novelli esemplari di virtù maravigliose. Che se noi venissimo in tutto il corso dell' anno seguendo dietro le orme sue la Chiesa, oh di quante alte cose meditazione faremmo! Di tutte le verità, le istorie, i motivi, le strade che ne scorgono a Dio. Vi dirò in poco che argomento tolga la santa Chiesa a meditare o celebrare ne' varŒ tempi dell' anno. Apre l' anno Chiesa santa colle quattro Domeniche d' Avvento, colle quali, sì come ne' quattro mill' anni precorsi a Cristo si apparecchiò il mondo a ricevere il grande ospite suo, così la Chiesa noi apparecchia al natale del Signore. Quindi questo divino Sole, che appresso sorge, regola l' anno ecclesiastico, per così esprimermi, come il sole materiale regola l' anno terreno. Qual migliore tempo di questo da meditare la caduta dell' uomo primo, l' impotenza della natura e della legge a rilevarlo, le profezie e promesse di Riparatore, e sopra tutto l' opera della divina incarnazione? Così preparati, ci nasce il Salvatore, viene circonciso, datogli il nome di Gesù, e a' pastori, e a' Magi si palesa: intanto freme la Sinagoga, e la parte delle tenebre si sbrama nel sangue degl' innocenti, mentre se ne fugge in Egitto il cercato Infante. Tali cose nella festa del Natale, della Circoncisione, dell' Epifania e degl' Innocenti si ricordano. Qual pascolo non abbiamo noi nella considerazione dell' umile presepio del Signore, dell' adempimento della Mosaica Legge, della forza del nome di Gesù, dell' annunzio di sua venuta fatto agli Ebrei, della chiamata de' gentili, del malo ricevimento e della riprovazione della nazione santa, colla quale però ci rimane la dolce speranza di riunirci nella fede in fine del mondo, e finalmente della guerra eterna che le tenebre hanno colla luce, il mondo con Gesù Cristo? Nella festa di S. Giuseppe abbiamo sotto gli occhi i doveri di pudico sposo, di vigile padre, e tutta la vita privata del Signore. Nelle sei Domeniche, che seguono dopo l' Epifania, la cecità de' Giudei, e i misteri di predestinazione, e di Grazia. Considerato fino a qui quanto spetta a Cristo e a' doni suoi, succede la considerazione di noi stessi, i danni del peccato d' origine, la moltiplice corruzione del corpo e dell' animo umano, la lotta fra lo spirito e la carne, l' ignoranza, e la necessità della penitenza; le quali cose tutte come apparecchio alla Quaresima cadono nella Settuagesima, Sessagesima, e Quinquagesima, che precedono la Quadragesima. In questa la morte; la natura e i rimedŒ delle tentazioni, il laborioso battesimo, che purga le macchie contratte dell' anima, cioè il Sacramento accompagnato alla virtù della Penitenza: la detestazione della passata vita, la scelta del confessore, la soddisfazione dovuta a Dio, i veri propositi, e i mezzi di non tornare al vomito, sono i frutti di questo sacro tempo. Alla Domenica di Passione incomincia il ricordo delle ultime memorande geste del Salvatore. Che esempio del sommo penitente! l' ubbidienza sua sino alla morte di croce, e tutto lo spettacolo del suo patire cade nella seguente settimana. Poi risorge Cristo dai morti, primizie dei dormienti. Quale mutazione di scena! che frutti consolanti ci promettono le nostre pene offerite al Signore! Abbiamo fatta nel battesimo una prima risurrezione dell' anima morta, nella penitenza una seconda; l' ultima, in cui risorge il corpo, simile a quella di Cristo, compirà la vita nostra in Cielo. Dopo Pasqua ecco il lavacro battesimale, dove s' imbiancano i Catecumeni, ed è la porta degli altri Sacramenti. Il nostro spirito quindi appresso si può nutrire colle verità intorno la Chiesa che milita, purga, e trionfa, facendocene luogo le settimane che seguono alla Pasqua fino all' Ascensione, prima della quale conversò Cristo in terra co' discepoli suoi. La festa di Pentecoste annunzia i doni del Santo Spirito, sublime oggetto a cristiani desiderŒ, pe' quali il Vangelo in tutto il mondo fu scritto in sui cuori degli uomini. Dopo tale solennità adunque il tempo è di pensare all' incremento maraviglioso del Regno di Cristo in terra, al sangue de' martiri, agli scritti dei dottori, alla vita de' confessori suoi, da cui fu fecondato, illuminato, santificato. La Domenica della santissima Trinità, il giorno solenne del Corpusdomini danno grandi cose alla mente. Quest' ultimo ci chiama ancora a riflettere in sulla dignità sacerdotale, e sulla Gerarchia ecclesiastica. Il rimanente dell' anno, che viene dopo la Pentecoste, è acconciamente occupato ne' mezzi, co' quali lo Spirito Santo ci si dona, e nelle opere sue fatte in tutti i tempi. Le Scritture ispirate, le virtù infuse nell' anima della fede, speranza e carità, la preghiera ardente, e in particolare coll' occasione delle feste della Croce, di Maria, degli Angeli e de' Santi abbiamo onde istruirci intorno a' varŒ culti di nostra divozione. Nel giorno, in cui si commemorano li morti nella pace di Dio, occupi il cuore nostro e la nostra mente quella Chiesa purgante. Nelle letture poi de' libri di Giobbe, di Tobia, di Giuditta, di Ester, de' Maccabei, de' Profeti, che fa susseguentemente la Chiesa, impariamo tutte le morali virtù, la pazienza, il savio governo della famiglia, l' eroico e santo coraggio, la prudenza, la fedeltà alla legge santa con iscapito perfin della vita, la provvidenza, con cui il Signore regge la Chiesa sua vigile sopra di lei fino al dì del giudizio, del quale i pubblici uffizŒ trattano nell' ultima Domenica dell' anno ecclesiastico. Non v' ha dunque più bella cosa, che tenere dietro alla Chiesa. Con lei si percorrono nell' anno tutti i dogmi suoi, tutto il sistema di sua fede, tutto il corredo di sue virtù, tutti i mezzi di praticarle, e tutti i frutti ed i premŒ promessi dal Signore. La nostra vita spirituale tiene alcuna similitudine alla corporea, e ci bisogna in quella altrettanto, dirò così, che ci bisogna in questa. Anche in quella dobbiamo primieramente nascere, e a questo Cristo ci ha fornito il Battesimo; dobbiamo crescere, a cui istituì la Confermazione; perchè ci nutriamo, pose l' Eucaristia; ammalandoci dello spirito, ci fornì la Penitenza e l' Estrema Unzione, ordinata la prima a torre il morbo, e la seconda a torre le reliquie del morbo, o la debilezza della convalescenza. E avendo l' uomo nella corporea vita una società, egli la si trova avere anche nella spirituale, e quest' è la Chiesa. Ma perchè alcuno si congiunga a tale società, ha bisogno prima della vita corporea, e poi della spirituale. A questi due fini perciò sono indiritti i Sacramenti del Matrimonio e dell' Ordine. Non è mia intenzione di esporvi qui le dottrine de' Sacramenti, che trovate con ogni facilità in ottimi libri. Farò tuttavia quasi una scorsa in sul Battesimo, col quale in noi s' incomincia la vita eterna, per darvi esempio del modo, con cui giova studiare in questa materia: e a tal fine mi basterà di porgervi quasi un indice di materie, o poco più, per non ingrossare maggiormente il volume senza bisogno. Sarà dunque bello ed utile studio se voi entrerete a conoscere quasi la storia stessa de' Sacramenti, e qui del Battesimo; e cercherete di osservare le figure, e le predizioni sparse nell' Antico Testamento. E` necessario di poi che veggiate ben chiaro la differenza di tutti gli altri battesimi, e di quello stesso di Giovanni da quello di Cristo. Finalmente fermandovi in questo lavacro vivificatore delle anime consiste ogni migliore studio in penetrarne lo spirito, conoscerne gli effetti, e bene intendere quali gravità di promesse in esso per noi si fanno. Queste promesse, da S. Agostino chiamate non pure voto ma il « massimo voto nostro » (1), a' primi Cristiani erano sacri ritegni da peccare, e l' infrangerle si avea, come è, per sommo infortunio (2); riputando dopo il Battesimo più alta la caduta, più difficile il risorgimento, più dura la debita penitenza. Per questo era prolungato il catecumenato: si dava luogo con ciò a' nuovi cristiani di rafforzarsi nella virtù, prima di promettere a Dio vita solennemente cristiana. Dal Battesimo poi scaturisce il sistema tutto di nostra salvezza, il cumulo de' nostri doveri: conosciuto lui, conosciamo lo stato nostro, la nostra nativa infermezza, l' acquisita nostra dignità, alla quale dignità tutte cose sono sommesse e dell' inferno e del mondo. Ma quanto alle promesse, che fanno i Cristiani nel Battesimo, uso antichissimo è, che di tempo in tempo si rinnovino (3). I tempi più accomodati a questo sono: al toccare il libero uso di ragione; e se i giovanetti nol fanno, è peccato degli educatori: il giorno anniversario del battesimo nostro, la festa della dedicazione della Chiesa; essendo quella festa nostra, poichè noi col Battesimo siamo stati fatti le pietre vive del divino tempio (4); e le vigilie della Pasqua e della Pentecoste, nelle quali la Chiesa battezza i catecumeni. Ora a questo proposito parrebbemi assai convenevole e utile una cosa, che qui non voglio preterire. La Chiesa, per ricordare i fatti illustri della bontà divina, che a lei diedero o fondamento o splendore, stabilisce pubbliche feste. Ogni Cristiano ha per simile modo de' fatti privati della divina bontà, i quali all' anima sua peculiarmente apportarono o salute o aumento di grazia. Imiterebbe adunque la Chiesa utilmente il Cristiano, se come la Chiesa celebra i fatti pubblici con pubbliche solennità, così celebrasse egli i privati con solennità private. La principale di tutte essere dovrebbe l' anniversario del suo battesimo. Quanto vantaggioso e bello non sarebbe, come a me ne pare, se i genitori o gl' istruttori facessero celebrare a' loro giovinetti in questo anniversario un domestico giorno festivo da santificare coi santi propositi, colle rinnovate promesse, colla penitenza e col cibo eucaristico, quasi tempo da cui norma prendesse ed esempio l' anno intero, e s' innovasse la vita, aggiungendo anche esteriori segni di letizia, e qualche insolita ma pia ricreazione? Quanto al modo di formare cotesta famigliare solennità, potendo essere vario secondo varietà di circostanze, purchè tutto spiri pietà, compostezza, e santa letizia, non mi fermerò io a descriverlo. Dirò solo, che utile sarebbe ricordarsi in tal giorno i riti, con cui ne venne conferito il Battesimo. Quante belle cose non contengono quelle cerimonie! L' essere lavati nell' acqua in nome della Trinità augustissima dimostra l' effetto primo del Battesimo, lavare il peccato. Ma or che sono queste acque, che hanno tale potestà? che toccano il corpo, e mondano l' anima? [...OMISSIS...] Quelle acque dunque traggono loro potere dal sangue di Gesù. Quando Cristo morì e scese nel sepolcro, morì allora l' uomo vecchio e fu seppellito. Così Paolo. L' uomo vecchio fu insieme con Cristo crocifisso, perchè il corpo del peccato si distrugga, e al peccato non serviamo più mai (2). E questo primo effetto del Battesimo, era specialmente rappresentato dal Battesimo conferito per immersione, mostrando in quello, per così dire, come il figliuolo dell' uom peccatore si sommerga e si seppellisca. L' essere poi tratti da quell' acqua indica la nascita dell' uomo nuovo. [...OMISSIS...] Per questo Cristo dopo risorto comandò agli Apostoli di andare pel mondo battezzando l' uman genere. Prima non era ancora questo uscito con lui dal sepolcro. Poichè insieme con Cristo otteniamo le grazie, e nessuno il previene: essendo egli le primizie in tutto. E poichè nel Battesimo il Santo Spirito dandosi a noi ci applica i meriti di Cristo, gli Apostoli attesero di ricevere lo Spirito stesso prima d' andare battezzando nell' acqua e nello Spirito Santo. Se la Chiesa adunque battezza nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste, insegna con ciò, come il Battesimo ha sua virtù dalla morte e risurrezione di Cristo, e come dal Santo Spirito viene questa virtù a nostra santificazione usata. Ma veggiamo qual sia l' uomo nuovo che surge, morendo il vecchio. Come il vecchio è l' uomo partecipe della malizia, ed erede del peccato d' Adamo; così il nuovo è il consorte della virtù, e dell' eredità di Cristo. Gesù Cristo, assunto sacerdote, fece sè stesso vittima. Frutto del suo sacrifizio fu la corona di re sopra tutte le podestà nemiche. Ogni Cristiano ora è chiamato a parte di suo sacerdozio e di suo regno. Per questo la Chiesa unge in sulla fronte colui che battezza, secondo l' antichissimo uso di ugnere i Re e i Sacerdoti. Avanti il Battesimo poi l' ugne in sul petto e fra le spalle in figura di croce, come s' ungevano gli antichi atleti, in segno di quella pugna, che coll' arma della croce e' vincerà, e per cui sarà coronato: gli dà il lume acceso, additandogli come debba risplendere nel fuoco di carità quale continuo olocausto al Dio suo. La veste bianca, di che il copre, simboleggia risurrezione e gloria, la bellezza e la purità di questo sacerdozio e di questo reame. Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi questo carattere indelebile di essere persone destinate a servire alla divina gloria eternamente: questo reame ci fornisce di sua grazia, con cui superiamo gli avversarŒ santificando e ricevendo gloria noi stessi. Quella destinazione, o carattere, che al culto di Dio ci consacra, nol possiamo perdere più mai: possiamo però perdere la grazia, che ci mette a parte della gloria e della corona. Ogni Cristiano sarà sempre sacerdote, perchè una volta per sempre al culto divino è sacro: ma perderà la corona di re ricevuta nel Battesimo se strenuamente non combatte. Checchè però abbiamo, l' abbiamo in Cristo, cioè come porzione di suo corpo, perchè unico è il sacerdozio, e unico il regno da lui posseduto, di che ci chiama a parte nel possesso. Ciò s' esprime dalla Chiesa con quella cerimonia del mettere che fa il Sacerdote il lembo della stola sua sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. Stando in questo regio e sacerdotale ammanto la dignità possibile d' uomo, cui non scemano gli esteriori mali, il Signore nel Battesimo non si curò di torci le umane miserie, mentre nulla con ciò ci avrebbe aggiunto o di grandezza o di nobiltà. Considerati i riti sacri, de' quali la Chiesa accompagna il Battesimo, desiderereste voi forse avere a mano qualche cantico od inno, con cui ringraziare nel giorno anniversario del Battesimo nostro il Signore, e lodare le sue misericordie. Questo ce lo indica Paolo. Egli mostra, scrivendo a' Corinti, che tutte cose avvenivano agli Ebrei in figura delle nostre (1). Ora egli vuole, che noi veggiamo viva rappresentazione del Battesimo nel passaggio dell' Eritreo. Nel Battesimo veniamo battezzati in Gesù Cristo; e per li meriti suoi, mentre l' acqua ci lava il corpo, lo Spirito Santo ci lava l' anima. Cristo adunque era in quel passaggio rappresentato da Mosè, l' acqua dal mare, lo Spirito dalla nube. [...OMISSIS...] E quanto acconcio non è il titolo di mare Rosso a quelle acque battesimali, che la fede vede rosseggiare del sangue di Cristo? e che come gran mare recano salute a tutto il popolo eletto in ogni parte della terra? Per quelle acque, in cui si sommerse l' orgoglioso Faraone, trovò scampo il pellegrino Israello, fuggente la schiavitù d' Egitto verso la terra promessa, come uscimmo noi vivi di quelle acque, nelle quali il demonio e il peccato abbiam seppellito. Perciò quale cantico più accomodato da intonare al giorno anniversario del Battesimo nostro di quel Mosaico, che tutto Israello cantò salvato da' nemici e dalle onde in sulla opposta sponda dell' Eritreo, dopo di sè lasciando tanti orgogliosi nemici affogati? Sì, sì; nello anniversario del nostro Battesimo diciamo anche noi uniti collo spirito a tutti i battezzati della terra: [...OMISSIS...] . E a questo luogo in che tenero tratto profetico non entra il vate ispirato, accennando il deserto che loro rimaneva ancora a percorrere, dopo scampati alle acque, prima di toccare la terra santa? Quanto acconcio è a noi, che scampata nel Battesimo la morte, pure militiamo ancora fra mille rischi, e traendoci per lo deserto di questo mondo dobbiamo arrivare alla patria? Ma dopo ciò a Dio si rivolge nuovamente e prosegue: [...OMISSIS...] . Così Mosè dallo scampo di quel primo pericolo vola a chiedere aiuto all' ultimo passo, che metta in terra sicura e felice: così noi pel Battesimo scampati a principio dalle zanne avversarie, prendiamo occasione di quella prima misericordia a chieder l' estrema, per la quale ha suo prezzo la prima. Or se sì alta canzone degnamente canteremo al mondo, potremo cantarla altresì in Cielo, a grato ricordo delle ottenute grazie divine (1). Dopo avere trattata un po' largamente la virtù, che s' esercita verso Dio, origine e fondamento di tutte virtù cristiane, mi resta a fare alcun cenno delle virtù, che si praticano con sè e cogli altri: delle prime toccherò in questo capo, delle seconde nel capo seguente. Ora le virtù rispetto a se stessi mi parve di raccorle sotto il titolo posto qui sopra del Contegno delle vergini , poichè la bella Verginità, precipua di tutte, dietro a se stessa ne conduce quelle altre, quasi sua bella accompagnatura e corteggio. La verginal purezza, dice s. Agostino (2), per questo dalle Scritture è commendata come pregio altissimo, perchè è divota a Dio; dallo spirito ella debbe nascere; da amore dell' amico e sposo suo: e così, quantunque virtù de' corpi, ella s' eleva a grado di virtù spirituale. Il cuore della Vergine vuole essere sgombro da ogni affetto di terra, odiatore di peccato, e a tutte cose indifferente, fuori che a Dio, che tiene in sè stessa. Non parlo solo di quella Verginità consacrata per voto, ma di quella consacrata per affetto, che a tutte le cristiane donzelle vuole essere comune. Si tenga questa origine della verginal ricchezza, e s' intenderanno i bei costumi della vergine cristiana. Sono pertanto consuetudini e virtù di questo stato illustre e nella Chiesa di Dio onorato la modestia negli atti, e la verecondia così cauta e così dignitosa, che non pure in presenza altrui, ma in sua propria sa arrossire e vergognare; la custodia degli occhi, della lingua, delle orecchie, delle mani, di tutti i sensi, suggellati colla croce di Gesù ad ogni impurità. Bell' esempio è la sposa de' Cantici; le mani di cui stillano mirra, liquore che preserva da corruzione; le labbra sono fasciate con nastro vermiglio, segnacolo di verecondia ne' detti; dimostrano mondezza gli occhi suoi di colomba; negli orecchi i pendenti d' oro son contrassegno di purità; e paragonasi il suo naso a' cedri del Libano, legno incorruttibile (3). Ogni licenza appanna la lucidezza di simile gemma, oscura la bellezza di candore vergineo, e fra gli scherzi umani, dove anche non si perda, difficile è, dice il Salesio, che di questo fregio della castità non ne vada l' ineffabile freschezza ed il fiore. Adunque la Vergine ama il ritiro, e pratica la fuga della umana conversazione: ella teme e trepida ad ogni sentore di pericolo, e questo vergineo trepidare produce la Vigilanza . Stassi la vergine, secondo la similitudine del Vangelo, desta, accinta le reni, e in mano tenente la lampada in aspettando lo sposo. Quel cingolo de' lombi indica la Temperanza, che scema al corpo il fomento della concupiscenza; quell' ardente lucerna dimostra la Carità, che accresce allo spirito forze contro alle lusinghe delle sensibili cose. Quanto il Digiuno non gode di stare colla castità quasi padre o nutricatore! Quanto la Mortificazione non le sta assiduamente da presso come sorella prestatrice di sostegno! Non ama la Vergine nè di vedere nè d' esser veduta, non prende piacere di nessuna cosa di terra: l' abbigliamento delle vesti è netto, ma tutto semplice, dimesso, conformato a sincerità, a gravità, a modestia: non conosce amicizie esclusive, e non conosce o le dolci lettere, o i regaluzzi e le smorfie: da tutto staccata, e in tutto grave, ella pienamente adempie l' apostolico precetto « d' usare così del mondo come se non ne usasse » (1). Di piaceri però non è privata; ma essi traggono da più alta fonte; le discendono dal celeste amico. Spesso si troverà in sua stanza occupata nella orazione, spesso in pie letture, spesso nell' altezza del meditare. Imitatrice degli Angeli in terra vivrà col corpo, e in Cielo collo spirito. Guardiana però e quasi sentinella di questo tesoro verginale, perchè o non si perda egli o non invanisca, si è Umiltà che suole sempre essere a lato della cristiana Verginità. [...OMISSIS...] La vergine del Signore sente la propria infermità; sa che quanto possiede è dono: e come quegli, che riceve doni, ha più a piegarsi e confondersi davanti a lui, che li dona, quanto i doni sono più rari; così del dono stesso della purità ha la vergine donde abbassarsi davanti al Dio suo. Ella sa l' esempio di Maria, in cui la Verginità e l' Umiltà così bella gara faceano, che dubbia restava la prova; sa l' esempio del vergine per eccellenza, di Cristo, che chiama tutti a sè perchè tutti da sè imparino la Mansuetudine e l' Umiltà (3). O anima piamente pudica, non se' mandata ad imparare l' umiltà dal peccatore pubblicano: se' mandata a chi è più innocente di te: se' mandata a chi è più santo, a quello, per cui tu se' santa. Ecco il Vergine esempio de' vergini, cui umile rese non l' ingiustizia ma la carità: quella carità, che « non emula, nè si gonfia, nè cerca le cose proprie » (1). Non può aver ribrezzo d' andarsene la santa vergine ad apprendere da questo l' abbassarsi: è scuola conforme alla dignità sua: qui troverà umiliato l' autore della purità, non pel fascio del peccato, ma per lo peso della carità: davanti a lui vedrà sè stessa spoglia di tutto, se a lui renda quanto da lui ebbe, posseditrice solo di un germe doloroso di corruzione; e da lui imparerà a vestire le stesse immondezze de' fratelli suoi, imparerà ad amare ancora la confusione, il vilipendio, l' affliggimento di quella carne, che allora comincia ad esser buona quando comincia ad essere mortificata per la carità o per la fede: perchè allora luce in lei quella Fortezza, che rende la vergine di Cristo inespugnabile a' nemici, e in tutti i combattimenti invitta. Questa verginità illustre, che fiorisce sulla somiglianza di Cristo, consociata alla Umiltà, è quella di cui, al dire de' Padri, si formavano i martiri, e per cui un' Agnese ed altre tali eroine prima, per dir così, d' esser della vita in possesso, attesa la tenera età, ne' tormenti la prodigarono (2). E` dunque la santa verginità da virtù circondata. Ha la temperanza seco, ha l' orazione, ha seco il santo timore, il pio ritiro, l' incorrotto digiuno, ha la nausea delle cose terrene, il gusto delle celesti, è protetta principalmente dall' umiltà, guernita dalla fortezza, esercitata dalla carità. Non si parla di stretta giustizia a chi crederebbe indegno di sè mancare alla misericordia. Ma di questo amore a' prossimi, che si può dire l' arte stessa o la professione della Vergine di Cristo, qui alcun poco è a parlare, soffermandoci principalmente a considerare di questa carità la PRUDENZA: perchè non sia fatua, ma savia quella vergine, che la esercita. Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono e frequenti i trattati. Ognun sa, che il precetto è questo, che Cristo disse il suo (1); ognun sa la sentenza apostolica, che portare i pesi uno dell' altro è adempiere a tutta la legge cristiana (2). Ci sono dati intorno a questo primo comandamento di Cristo gli esempi, i precetti, le promesse. Di lui ridondano le sacre carte, e ad esse principalmente vi mando. Beete pure a quel fonte della carità, empitevi, inebriatevi. Avete Giovanni a maestro, avete Paolo. Il loro stesso modo di scrivere è eccitamento di amore. Io vi farò considerare pertanto sola una cosa, cioè quello di Paolo stesso: che la carità « si fa tutta a tutti »: ch' ella non si spande solo in eroiche azioni e grand' atti; ma ella si gode e s' intertiene ancora in cose più minute e triviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove meno apparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella è sinceramente generosa, e non cerca nè i suoi capricci, nè i suoi piaceri. Voi vedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quello stesso stanzino, dove nel capo anteriore condotta v' avea all' orazione, e vi faccio uscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana ama il ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità. Carità non è solo pascere gli affamati, o vestire i nudi: carità è ancora non dispiacere senza bisogno a nessuno. Non permette la Prudenza della carità che alcuno infranga le relazioni dello stato in cui si trova. E` la fanciulla cristiana in numerosa famiglia? Carità è non vivere a capriccio per seguire una perfezione imaginata: la perfezione è nel vivere a seconda degli altri, nel dispiacere a veruno, piacere a tutti. Carità è accomodarsi di buon volere agli usi innocenti, alle costumanze di quelli fra cui si vive, e fino a' loro gusti, se un dovere nol vieta, e prevenirli ancora con amorevole ingegno. Ma s' io meno vita comune mi conviene omettere molta orazione e molta mortificazione. - Orazione più bella e più grata a Dio è, per non dispiacere altrui, diminuir l' orazione. Mortificazione più meritoria è quella della volontà, che nel vivere comune si fa da colei, che amando più la stanza, sceglie prima l' onesta conversazione. Non dico la cerca, ma la sceglie quando a fare questa scelta attenzione di non ispiacere altrui la conduce, e di non ledere dovere di stato in cui è posta, e di non provocare dicerie. Se questi riguardi della civil carità non vi sono, segua la vita amata dal proprio fervore. - Ma nella vita comune mi dissipo lo spirito, trovo scandali ed occasioni di cadute, nè posso giugnere ad emendarmi. - Conosca adunque tale giovane, che questo non è amore di vita più perfetta, il quale l' attrae dall' esercizio d' una virtù più forte, più virile, più meritoria quale è quella della vita comune, ove la carità de' prossimi è in uso continuo, per non esserne capace, ad una vita più parziale e sequestrata. Non è dunque la perfezione che cerca, mentre la impaurisce una virtù più salda e perfetta. Vuol la vita che ha più nome di perfezione, e lascia la pratica della più perfetta virtù. Di poi, se onesta e pia è la casa della cristiana fanciulla, questa fragilità di solito è colpa, che nella solitudine porterà seco; conviene sradicarla, non metterla sana e salva a dormire, perchè ella ben presto si desta. Se poi la famiglia è un po' mondana, o anche libera, allora il riserbo è un dovere. Ma in ogni caso si fortifichi la cristiana donzella: la disposizione dell' animo, non tanto le occasioni al di fuori, nuoce alla vita. Pure, se in questa fortezza tardi procede, che altra regola le si può dare di suo contegno nell' umano consorzio fuor di quella di Cristo: « Se il tuo occhio ti scandalezza cavalti, e gettal via »? (1). Sì bene; le fanciulle si privino di quanto è loro pericolo d' inciampo. Pur se nel viver comune ed onesto la carità le regge, il Signore non le abbandona; mentre anzi ha loro posti i vincoli che altrui le lega, perchè abbiano esse dei doveri da esercitare, dei meriti da ottenere. - Ma io mi sento chiamata a stato religioso. - E bene: se la vocazione è provata, la ascolti e l' abbracci la pia donzella. Non poniamo a lei ostacolo di scegliere uno stato prima che l' altro; ma vogliamo che dello stato, in cui vive, serbi le leggi. La scelta stessa però di stato migliore non può esser da Dio, se in quella o si preterisce qualche dovere della società, o altri debbe patirne. Non trattenga però la pia giovane un terreno e falso dolore, che vegga in altrui, della sua felice elezione; ma bensì un danno vero e grave, che cagionasse il suo divisamento a quelli, co' quali è per naturali legami congiunta. Ma s' ella non è chiamata al chiostro, dimostri al mondo qual sia la conversazione dell' illibato Cristiano. In questo studi come in bel ramo numerosissimo di fronde, le quali colla spessezza emulano la grandezza degli atti della carità più magnifica. Con questo studio della religione sono nobilitate e rese sante le relazioni ed i mutui offizŒ del viver civile. E qui appunto, giacchè spesso da altri si trapassa, a me sarà caro un poco di fermarmi. Veggiamo dunque le regole colle quali la cristiana legge santifica i costumi, e le maniere sociali, e tutto il conversare degli uomini fra di loro. Dico, che gli uffizŒ del vivere civile, suggeriti agli uomini da natura, possono avere due fonti, cioè il piacer proprio, o l' altrui. Piacevole in vero ci è naturalmente la compagnia; essendo noi alla compagnia degli altri formati da natura; piacevoli ancora nell' uso ci si rendono que' bei tratti, e que' gentili portamenti, e tutte quelle leggiadrie, che usate vengono nelle nobili brigate al mondo. Non parlo, come vedete, di nulla che sia peccato in sè medesimo; intendo sempre qui favellare degli atti indifferenti del vivere, e per sè stessi innocenti. Ora conceduto, che questo trattar compagnevole nella pura teoria potesse al Cristiano piacere riferendone a Dio l' uso, asserisco però a tutta fiducia, che quando il civile convivere si tiene mossi da piacere proprio che se ne senta, allora ne debbe essere per lo meno sospetto. Dobbiamo vedere dentro di noi da che ci venga questo piacere; poichè egli può nascere o da certa sensibile amicizia che si eccita in mezzo a questi affabili modi, o da amore proprio lusingato dell' altrui compitezza e buon garbo, o finalmente da quella ambizioncella, per cui si desidera altrui piacere con doti esteriori o di avvenenza di corpo, o di eleganza di vesti, o di vivacità di parlare. Tutte coteste fonti di diletto sono guaste, o poco nette, e per lo meno non eccedono le propensioni naturali. Sì, ve lo concedo: nulla di questo muova il Cristiano a civiltà, egli sia pure morto al mondo, non ami avere piacere, non che di peccato, ma nè pur di quello che superiore a natura non sia, cioè di Dio. Per quanto si possano fare sottili scuse a simili compiacenze, e porre de' limiti, resterà sempre vero, che il cuore di chi le accoglie non è ancora crocifisso bastevolmente con Cristo, morto a se stesso: ei spera ancora qualche cosa dagli uomini: egli in somma è soffermato quaggiù da amore poco puro, non ha cangiate in sè stesso le inclinazioni naturali con quelle di Cristo. Che se io guardo alle conseguenze di questo umano piacere, ond' uomo è tratto ad affabil contegno, al tutto le veggo disopportabili e ree. Voglio adunque che il pio Cristiano non sia mosso a piacevolezza di vivere cogli altri da gusto umano, e suo proprio, da cui sono mossi gli altri; anzi che egli ogni sensibile amore tolga di sè, ogni vezzo dell' amor proprio, ogni gherminella dell' ambizione. Tutto quello che è nel mondo, dice Giovanni (1), è concupiscenza di occhi, concupiscenza di carne, e superbia di vita. Nulla dunque di questo sia fine al Cristiano, nulla ami di quanto è al mondo, e viva nel mondo senza partecipare del mondo. Così in sulla distruzione d' ogni sensibile umano affetto, in sul distacco da quanto è in terra s' innesti appunto in esso la legittima carità. La « carità », il dirò di bel nuovo, « non cerca quello che è suo » (2). E bene: non conversi con altrui il Cristiano per cagione di proprio piacere; conversi per rendere bello ed onesto piacere agli altri. Or quando onesto è questo piacere, quando legittimo? Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere; ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ci insegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: « Splenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padre celeste » (3). La virtù ha veramente una così amabile vista, che tutti, purchè la veggano, non possono se non amarla grandemente e ammirarla. Egli è questo quel bello « Amore figliuolo di Sapienza », di cui parlano le « Scritture », più grazioso assai e leggiadro di quello del mondo (4). E tale è l' ornamento, con cui il Cristiano piace al Cristiano. Lo insegnava alle cristiane donne Pietro, loro l' insegnava Paolo. [...OMISSIS...] Dirà taluno per avventura, che questa bellezza interiore dell' anima raccorrà lode e premio da Dio che la vede, giusto e per noi troppo sufficiente estimatore: ma non dagli uomini. Pure e l' animo tutto pudibondo, e che in tutto ama Dio, ben si dimostra al di fuori. Di qui anzi nasca la virtù della cristiana conversazione. E quale amabilissima e santissima virtù? Una virtù, io dico, che tutti, anche i tristi, saranno costretti di commendare: virtù solida, virtù sincera, virtù consentanea a sè medesima, che di sè non fa mostra, ma in sua propria modestia con più dolce lume risplende, virtù che niente esagera, che niente sprezza, che non giudica, che sopporta, che sa rendere ragione di sè, che studia di non uscire in nulla o meno che può dall' umano vivere pel compatimento dei deboli, che s' occupa in favore d' altrui, e negligenta sè stessa con dignità per soddisfare agli altrui desiderŒ, che fa dei servigi a tutti, sobria, grave, parca nelle parole, niente curiosa, ilare, e non rotta al riso, di nulla sollecita fuorchè di fare sempre contenti quelli co' quali vive anche ne' piccioli comodi della vita; virtù umana, dolce, compassionevole, che evita di prestare altrui occasione di scandalo e di dicerie per loro bene e non perchè ella le tema, che porta le altrui debolezze senza stento e con piacere; virtù in somma, che, essendo tutta in Dio fissa e a Dio raggiunta, con divina saviezza vive cogli uomini in sull' esempio dell' amabile conversazione di Gesù, e, mentre è bastevole ad ogni atto di eroica carità, sa raccorre, come ape ingegnosa, anche dalle più minute e giornaliere circostanze della vita, dolci succhi di carità, e formarne mele soavissimo ad altrui e a sè stessa. Oh quanto non torna amica e cara la santità di quel Cristiano, che, con sè stesso rigido, pensa con ogni dolcezza e benignità degli altri! che ignora per fino i difetti loro, di loro virtù si consola ed edifica, da tutti pronto ad apprendere, tutti ascolta, non ammette prevenzione, vede con facilità il vero ovunque ei sia, e pare che nella bocca degli altri con maggior piacere il trovi che nella propria, sagace in prevedere gli altrui incomodi, destro in toglierli, agli infelici s' unisce compiangendo, a' felici congratulando, sostiene talora senza un segno di noia i più noiosi racconti, e le altrui debolezze, gli altrui torti non saprebbero mutare nel suo volto il cortese, usato sorriso! Tutto semplice, grave, sincero, pieno di un franco e nobile tratto, alle leggi attemprato altrove per noi descritte (1); ei rende, un sì vero Cristiano, amabile agli uomini la nostra virtù. E quale atto maggiore di carità? quale più bell' oggetto della Prudenza, della Carità? (2). Onde quest' è ch' io dico: colla propria virtù dovere il Cristiano piacere altrui; non già cogli ornamenti o colle arti del mondo. Poichè allora veracemente giova piacendo. Insisterà alcuno, che se all' interna ornatura non si aggiungerà un poco degli umani vezzi ed ornamento di vestito, non sarà la cristiana donzella piacevole al mondo. Due cose aggiungerò a risposta: la prima, ch' ella non debbe desiderare, come dicea, d' essere piacevole se non per la virtù, e pe' modi di sua carità; e che colei, la quale in tal modo piace a Dio, piace anche a quelli che sono di Dio. A coloro, cui altro non diletta che il puzzo di carne, debbe abborrire ella di piacere. Allora quanto piace a' tristi, tanto spiace a' buoni. Non s' esercita con quelli carità piacendo, ma loro spiacendo; purchè si spiaccia non per altro che per la virtù, cioè pel monile più ricco e più bello di femmina santa. Avvi però nelle maniere sopra descritte della cristiana conversazione assai cose, a dir vero, che anche i mondani debbono amare e lodare, non solo per quello insuperabile segreto testimonio, che forza d' eterna giustizia astringe le anime umane di dare a virtù; ma perchè quella soave carità è anche tutta umana, e appaga molti naturali affetti e desiderŒ, studiando di renderli contenti in tutto quello che può, e stende una sedula ed amorosa cura fino nelle cose più minute, purchè non contrarie a virtù. Tuttavia essendovi tre modi, pe' quali si può dar piacere agli altri uomini, cioè colla virtù, colle cose per sè indifferenti come sono i fregi del vestire, ed ancora co' peccati, co' peccati si piace a' tristi, colla virtù aDio ed a' buoni, colle cose indifferenti poi alle persone naturali o spirituali mezzanamente. Co' peccati grave male è piacere, colle virtù gran bene: nell' uso delle cose indifferenti poi ha luogo una particolare saviezza per la quale nè si usino perchè si amino, nè si usino di più di quello che giovassero ad edificare, quasi funicelle per le quali attenendosi i deboli salgano mano mano a gustare cose migliori. Ma perchè non si erri in sì difficile affare, questa regola è fermamente a tenere, che in queste tali cose che vanamente piacciono si eviti la sconcezza, non si cerchi la raffinatezza . Questa regola tennero i Santi: e piace leggere come quella santa Edwige duchessa di Polonia, che anche a noi appartiene (1), usando veste troppo logora per amore di povertà, e udendo come a una sorella del monastero ove s' era ritirata quella spiacea, incontanente rispose: Se quest' abito vi spiace, son presta a correggermi del mio fallo , e lo mutò volentieri in un migliore. Carità è in vero evitare quello, che agli occhi non solo de' tristi, ma degli uomini naturali è difforme, per non dar luogo senza bisogno a noia, od occasione di mali parlari; come carità è ancora sfuggire quel ricercato e affettato ornamento che i vani vanamente diletta, perchè e col primo modo si toglie un disgusto come suole la carità, e col secondo si toglie un gusto vano come carità ancor più eccellente costuma. In somma in tai cose non si dia occasione nè di spiacere, nè di piacere a veruno: mentre e l' uno e l' altro è un male. Così la Prudenza della carità ricongiunge quanto puote il più insieme gli uomini, e amandoli tutti a tutto ha riguardo, anche alle loro debolezze, cercando nè di offenderle, nè di fomentarle: ad opportuna occasione poi anzi di toglierle.
Ma non appena il becchino, abbassato il coper- chio, girò la chiave della serratura, scoppiai in urli, in pianto: ""Giulietta! Giulietta!" "Diventato furioso, strappavo i vestiti delle persone, davo calci e pugni, volevo mordere tutti: ""Giulietta! Giulietta! ..." "E caddi in convulsione." "Basta, non ti commuovere troppo!" disse Eugenia con durezza gelosa nella voce, levandosi da sedere. Patrizio le prese una mano. "Ora Giulietta sei tu!" "No, io sono Eugenia" ella rispose, ritirando la mano vivamente. Patrizio stava per slanciarsi ed abbracciarla, ma l'arrestò l'apparizione della signora Geltrude, che veniva avanti sen- za far rumore pel viale, simile a un fantasma, con la ruga della fronte più severa che mai. "C'è il sindaco" disse. E prese il braccio di suo figlio, senza neppur guardare la nuora. Pareva volesse portarglielo via. Eugenia li seguiva, canticchiando per dissimulare il dispetto.
Il suo tono vivo, argentino si era alquanto abbassato, e aveva preso un che indefinibile di piú melodioso e di mesto che un giorno, mi sembrava, non ci era affatto. Ma riflettendo meglio, credetti di scorgere un'uguale mestizia nei suoi occhi, anzi un po' piú apertamente manifesta che non fosse nella voce. Che cosa le era accaduto? E, innanzi tutto, come si trovava ella in Catania? Le cento interrogazioni che mi rivolgevo affollatamente rimasero per quel gi orno tutte senza risposta. La mia memoria ha di rado un vivo ricordo dei luoghi e delle fisonomie; è un difetto che non son riuscito a correggere per quanto me ne fossi impegnato. Il giorno appresso però i luoghi mi vennero in mente con notevole precisione. Ricordavo benissimo di aver veduto quella donna in Firenze quattro o cinque volte, non piú, sui Lungarni, alle Cascine, a San Miniato al Monte, in casa di una persona a me carissima, la quale amareggiò da indi a poco la mia vita con un'indegna azione. Ricordavo di averle anche ind irizzato una o due volte la parola; a che proposito e in quali circostanze mi era completamente sfuggito. Non sapevo però capacitarmi per quale ragione l'impressione ora ricevuta fosse cosí potente da commuovermi, ed agitarmi come se io avessi riveduto in lei qualcosa di piú che una semplice conoscenza. Le sensazioni di cinque anni fa si erano rinnovate, rese piú appariscenti. Avevo tutto l'agio di osservarle, di studiarle; e piú le fissavo piú si facevano intense e fresche, tanto da produrmi l'illusione di una realtà lí presente. Gli atteggiamenti, i vestiti, la voce, il sorriso mi ritornavano alla memoria net ti, precisi, benché avessi la certezza che allora ci avevo badato assai poco; e questo fenomeno cosí strano o molto fuor del comune contribuiva in gran parte ad accrescere la mia curiosità. Ritornai due giorni di seguito alla Villa Bellini, gironzolai per le principali vie della città senza lasciar passare inosservato un sol viso di donna; ma nulla di nulla. Corsi al Grande Albergo. Chiesi ad un cameriere se vi fosse alloggiata una signora piccola, delicata, bionda; una lombarda dall'abito color perla, con un cappellino di velluto nero a fiori turchini, un manicotto di vera martora e un mantello color marrone a frange della stessa stoffa (indicazioni troppo vaghe e confuse, ma non potevo darne delle altre). Il cameriere rispose di no. Gli sembrava però di aver veduto, giorni fa, entrare nell'albergo una persona che quasi corrispondeva a quelle indicazioni; ma, dopo aver mangiato alla tavola rotonda, era ita via. - Sola? - chiesi ansiosamente - Sola, mi pare -. Quel "mi pare" intorbidò un pochino il piacere che avevo provato alla prima parola. Corsi allo stesso modo per altri due o tre dei principali alberghi della città e con ugual resultato Cominciavo ad arrabbiarmi. E piú che colla cattiva sorte, me la prendevo con me stesso. Perché non me gli ero avvicinato quando la incontrai sullo spianato della Villa? Ella mi aveva guardato a lungo, aveva quasi fatto le viste di riconoscermi; perché avevo esitato? Passò una settimana. Quella donna mi aveva intanto messo il cuore sossopra. Già da due notti non chiudevo occhio. Ero, al mio solito, caduto in preda di una di quelle subitanee, irragionevoli passioni che mi han reso cosí infelice, e dal principio venivo condotto a non presagire nulla di bono per la mia salute e la mia pace. Avessi almeno potuto rivederla! Il decimo giorno, un giovedí, mi recai alla Villetta della Marina, e stavo da un'ora appoggiato ad uno dei piloni del ponte della ferrovia, senza sentir nulla della musica e senza intender verbo di un lungo discorso del mio amico Michele che mi parlava di positivismo e di filosofia, un discorso opportuno! Divoravo cogli occhi tutte le signore che mi passavano davanti, provando spesso un sussulto, un fremito a un color di veste, ad un agitarsi di cappellino che scambiavo per la veste e pel cappellino di lei; e soffrivo una vera tortura in quel vano attendere, in quel frequente ingannarmi, in quel persistente sperare. Finalmente, quando la folla era piú densa, quando il passeggio era piú lieto e piú svariato, mentre la banda militare suonava il magnifico valzer del Fausto di Gounod, ecco affacciarsi al cancello della Villetta chi? Lei, proprio lei! E sola! Fui sul punto di venir meno, tanto il sangue mi rifluí violentissimo al cuore. Passò davanti a me, a pochi passi di distanza; ma non potè vedermi, impacciata come pareva del rivolgersi degli occhi di tutti curiosamente su lei: sincero e tacito elogio della sua grazia, della sua bellezza e della sua eleganza. Un giovane uffiziale la salutò. Ella rispose con un piccolo cenno del capo ed un sorriso. Io ne avevo un gran dispetto. Un vivo sentimento di gelosia si era già destato a poco a poco dal fondo del cuore, e potevo a stento frenarmi di non impertinenzare tutti coloro che osavano met terle gli occhi addosso e far chiose e comenti. Non volli avvicinarmele nemmen questa volta. Ero troppo commosso. Mi sarei imbrogliato. Tant'occhi si sarebbero fissati sopra di noi due! Ella girò pei viali, fermossi un istante sul ponticello di legno che cavalca il piccolo canale dove nuotano i cigni e uscí fuori della Villa. Lasciai Michele con un pretesto, deciso di seguirla con cuore tremante fino all'uscio di casa. Le andai dietro un gran pezzo lungo la via Etnea, tenendomi sempre a distanza, ma non tanto che l'occhio potesse facilmente smarrirla. Evidentemente essa ritornava al solito posto della Villa Bellini. Avrei amato meglio che fosse andata a casa. Chi sa? Nella Villa Bellini mi sarebbe forse di bel nuovo mancato il coraggio di farmele innanzi. Il mio turbamento infatti era straordinario davvero; ne stupivo io medesimo. Perché quella donna mi trascinava dietro a sé come legato da una catena invisibile, ma possente? Che sarebbe accaduto tra me e quella donna dopo che mi sarei fatto riconoscere? Speravo e temevo. La testa era confusa, il cuore palpitava rapidissimo. Riflettevo però come tutte le volte che mi era accaduto di amare avessi sempre amato a quel modo, con improvvisa violenza. In due, tre giorni l'amore era celeramente montato per tutti i gradini della passione, saltandone forse qualcuno; e prima che avessi avuto tempo di riflettere era giunto alla cima; forza era stato subirlo in santa pace, rassegnarsi a godere e a soffrire. Quello che in questo caso mi dava piú pensiero era un intuito confuso, inesprimibile di un passato che la memoria non riusciva ad afferrare; un sentimento egualmente confuso ed inesprimibile di gioie amare, di dolori profondi che l'avvicinamento di quella donna mi avrebbe fatto patire. Eppure la seguivo, e con acre vol uttà avevo a poco a poco fatto sparire la distanza; talché, passato appena il cancello della Villa Bellini, mi ero trovato a pari passo con lei. Si volse, ci guardammo un momento, io aspettando che fosse lei la prima a farmi un accenno, ella quasi tacitamente richiedendo ch'io fossi il primo a rompere quel diaccio importuno. Ci risolvemmo tutti e due nello stesso punto, tutti e due pronunziammo con vera soddisfazione un unisono "Oh! Lei!" e ci stringemmo la mano. Cominciò una conversazione disordinata, arruffata. Eravamo impacciati allo stesso modo. Si taceva, ci facevamo delle domande, si tornava a tacere. Io godevo ch'ella potesse notare la mia confusione. - La donna - pensavo - è cosí acuta! Ne indovinerà subito il motivo. Qual donna non ha avuto la certezza di essere amata almeno due mesi avanti di sentirselo dire? Ci fermammo innanzi alla gabbia delle tortorelle e dei fagiani. Io dissi una delle solite trivialità sull'amore pacifico delle tortorelle. Ella notò invece il fagiano dal mantello bianco brizzolato, dalla cresta rossa, vellutata, che passeggiava altiero attorno alla modesta sua femina e di tanto in tanto la beccava. - Creda - ella disse - non son le tortorelle l'ideale del la donna. Ecco una grulleria data ad intendere dai poeti! Se tutte le donne avesser agio di vedere questa scena dei fagiani, le direbbero di una voce che voglion essere amate a quella guisa. Il ragionare si metteva su di una buona via. Ma io tacqui, assorto com'ero in ciò che udivo; beato di vedere le sue labbra piccole, rosee, sottili muoversi e dare il varco ad una voce flautina, la quale pareva uscire proprio dal profondo del petto. Sedemmo sur uno dei sedili dello spianato, a mano destra della cattiva statua di Androne. Non c'era anima viva. La giornata non pareva di gennaio. Il cielo limpidissimo. Il sole caldo come nel maggio. Le campagne attorno coperte di verde come nel meglio della primavera. L'aria tiepida, profumata, voluttuosissima. - E non l'ha piú riveduta? - fece ella, riattaccando improvvisamente il discorso (Accennava alla persona un dí a me cara che aveva poi, come dissi sul principio, avvelenata la mia vita con una indegna azione.) Risposi col capo di no. Guardavo ora il suo irrequieto piedino imprigionato in un elegantissimo stivaletto, ora le sue manine rivestite di guanti color perla, pari all'abito (lo stesso abito di quando l'avevo incontrata l'altra volta), ed ero come trasognato. - Sono stata troppo importuna - soggiunse subito quasi mortificata - richiamandole alla niente dei dolorosi ricordi. Gliene chiedo perdono. La piaga non ha forse ancora fatto il margine, ed io ... - Ella s'inganna - mi affrettai a rispondere - non vi è nemmen cicatrice. Quella persona, quei fatti son già per me divenuti assai meno che un ricordo, quasi meno che un sogno. Sa? Io ho un'abitudine poco comune (forse dovrei dire: un singolare organismo); dei casi della vita ricordo i lieti soltanto. Mi pare che i dolori si succedano cosí frequenti nei pochi giorni della nostra esistenza da non dover poi tenerli, come si suol fare, in gran conto. Chi ne avrà mai difetto? Ma le gioie! Ecco: io ho segnato co n delle gioie, piccole o grandi importa poco, i piú notevoli punti della mia vita ... Dio volesse potessi aggiungervene presto un'altra che oso appena sperare! - Ah! - esclamò ella con un tono tra la sorpresa e il disinganno. Ed abbassò il capo e chiuse gli occhi come per raccogliersi meglio e pensare. A me pareva di aver detto, colle ultime parole, una gran cosa. Se ella fosse stata curiosa di domandarmi qual'era quella gioia che osavo appena sperare, la risposta era pronta sulle mie labbra; non l'avrei fatta mica attendere. Ma quell'"ah!" pronunziato a quel modo! Restammo silenziosi un buon pezzo. Io avrei voluto rimaner lí, al suo fianco, per tutta l'eternità. Ero, oso dire, inebriato dal dolce profumo della sua persona, e godevo in vedere il fascino che mi aveva soggiogato, accrescersi a dismisura, invadermi e penetrarmi tutto con sensazione ineffabile. Quei popoli che chiamano il fiore e la donna collo stesso nome, hanno indovinato un mistero. Vi son dei momenti però nella vita della donna nei quali il suo profumo si spande piú soave e piú ricco intorno a lei. Che un uomo capace di gustarlo e di apprezzarlo le passi allora di accanto, foss'anche alla sfuggita; sarà vinto, ammaliato, non potrà non amarla. Or io in quel punto non respiravo altro che questi divini profumi. Ad ogni boccata d'aria me gli sentivo confondere col sangue, immedesimar proprio colla pura essenza dell'organismo. Già i minuti, segnati dal battito accelerato del mio cuore, contavano piú assai degli anni nella vita di quell'affetto nato da poco oltre una settimana. Piú stavo lí, al fianco di lei, e piú un'intima, rapida trasformazione mi faceva perdere il senso della realtà e delle convenienze sociali Mi pareva naturale ch'ella dovesse aver coscienza di ciò che il suo potere aveva operato dentro l'anima mia; mi pareva ancora piú naturale ch'ella sentisse nel suo cuore quel profondo rimescolarsi della vita che io prova vo nel mio. Sicché il tagliar corto a tutti i preamboli, il fare a meno delle delicate transizioni, il lasciar da banda le riguardose reticenze mi sembrava una cosa non solo opportuna, ma urgente. Come la vita interiore, che batteva il suo ritmo sublime in noi due, non aveva niente di comune coll'andare ordinario del mondo, cosí non era sciocchezza l'assoggettarla nella sua rivelazione alle stupide leggi del mondo? Io pensavo questo e ben altro durante quei momenti di silenzio, mentre gli occhi si deliziavano nella contemplazione di quella bellezza gentile. Ed ella intanto a che mai pensava? Sembrava assai trista. I suoi occhi stavano, è vero, fissati sull'Etna che si elevava orrido e maestoso lí rimpetto, ma pareva guardassero senza vedere. Da certi quasi impercettibili movimenti della pupilla, da certo sorriso leggiero e sfumatamente ironico che appariva ad intervalli sulle sue labbra, io capivo benissimo che quell' anima era anch'essa agitata; che un mondo forse di ricordi, forse di sogni e di speranze si muoveva confuso innanzi alla sua mente e la rapiva e teneva assorta. Ma, entrava il mio povero fantasma in un breve cantuccio di quel mondo? O era ella tanto lontana da me col cuore quanto io le ero vicino? Scosse e levò in alto, sospirando, la bionda testina, come per cacciar via i tristi pensieri che le si affollavano innanzi, e si volse a me cogli occhi e colle labbra sfavillanti di una luce e di un sorriso inattesi. Io, che non avevo perduto il piú piccolo dei suoi movimenti, le avevo letto nell'anima. Mi era parso di vederla fortemente lottare, esitare a lungo, poi decidersi a un tratto con risoluzione improvvisa. Aspettavo quindi ansioso che da quelle sue labbra cosí fresche e cosí belle uscisser parole da spiegarmi il mistero. Giacché io non avevo siffattamente perduto il senso della realtà da non piú comprendere che quanto accadeva tra me e quella donna non fosse una cosa ordinaria; ma, circostanza ben strana, non ne provavo meraviglia. Vi sono certe situazioni dello spirito cosí complicate e sorprendenti, che un breve minuto può talvolta formare il tormento e la consolazione di tutta la vita. In quel punto (lo sentivo senza intenderlo) mi trovavo in una di esse. - Chi l'avrebbe mai creduto - diss'ella cavandosi un guanto - che un giorno ci saremmo riveduti qui, in faccia al suo Etna e con questo magnifico sole che quasi sembra ci festeggi? Eppure, ora che ci siamo, mi par la cosa piú naturale del mondo - Le cose piú naturali - risposi - non sono punto quelle che piú facilmente comprendiamo. Potrà ella, per esempio, spiegarmi perché non ebbi il coraggio di avvicinarmele la prima volta? Perché la memoria non mi diè subito i ricordi che la mia curiosità le chiedeva? Perché questi ricordi mi si destarono in mente a poco a poco, provocando nel cuore un lavorio, un turbamento, una smania che non si sono ancora acchetati? Intanto, che cosa di piú naturale? - Davvero? - E questa parola fu da lei pronunziata con un accento cosí dolce e cosí nuovo che voleva significare mille sentimenti ad una volta, cioè una sorpresa ingenua, una gioia pudica, una soddisfazione, un rimpianto, qualcosa di appassionato e di triste, d'infantile e di materno che mi colmarono di stupore e mi fecero perdere il cervello. Senza che io me ne accorgessi, senza alcuna sua resistenza presi tra le mie mani una delle sue manine e accarezzandogliela (non osavo ancora stringerla) tutto di un fiato le dissi: - Sí, Delfina, nulla di piú naturale, quantunque nulla di piú arcano. A certi istanti, lo confesso schietto, ho avuto fin paura, osservando lo sconvolgimento di tutto l'esser mio che la sua persona ha operato. Ero lieto, tranquillo, spensieratissimo. La vita mi correva come un limpido ruscello tra le aiuole di un giardino. Provavo anzi un immenso piacere nel ricordare il passato cosí buio, cosí tristo e confrontarlo col presente. Non temevo, non speravo nulla dall'avvenire. Vivevo come un fanciullo ... Mi riposavo della vita ... Ed ecco, Delfina, veggo lei ... e tutta questa pace incantevole, tutta questa felicità semplice, ma benefica, sparisce ad un tratto! Non mi sento però infelice. L'arcano è qui! È un nuovo mondo che sta per aprirsi all'anima mia. Lo sento ... ne son certo; e la chiave è tra le sue mani. Sarà, mi pare, una felicità diversa ma non meno bella; agitata, ma non meno benefica ... Fosse anche un dolore! Non monta nulla! Ho un presentimento vago, indeterminato, che cotesto dolore mi dovrà esser caro piú di molte e molte gioie ... Ben venga dunque! Oh! Creda! Io, io pel primo, son cosí sorpreso di quanto le sto dicendo e di quel che le dovrò dire! Ma c'è dentro di me una forza superiore alla mia volontà che mi costringe mio malgrado. Una voce insistente mi susurra all'orecchio: "o ora, o non mai!" ed io parlo e parlo senza nulla curarmi di ciò ch'ella può pensare! La mi perdoni, Delfina! ... Vorrei meglio dire: perdonami, Delfina! ... Tornerebbe lo stesso ... E oramai! ... Mi son messo fuor della legge, e mi piace di starci. Che avverrà di me? Non mi curo di saperlo. Quello che io so di certo è che non ho mai provato nulla di simile, e che tutto è mistero. Quello che io so di piú certo è che vi sono al mondo due sole parole per rivelare le mille sensazioni che in questo momento mi opprimono, e sono: t'amo! Qui, come se queste due sillabe pronunciate basso e all'infretta mi avessero scottato le labbra, baciai commosso la sua mano quasi per attutire il bruciore con qualcosa di fresco, e mi alzai atterrito del mio insolito ardire. Se qualcuno ci avesse già visti! Girai gli sguardi da ogni lato. Fortunatamente nei viali piú lontani non appariva persona. Mi voltai allora trepidante verso di lei. Che avrebbe ella risposto? Ella mi guardava sorridente, quasi tranquilla, cogli occhi che nuotavano nelle lagrime a stento rattenute. Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrav a piú dessa. Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo. Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte: - Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! - Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi. - Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi? ... Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore ... ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io pre sto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti ... Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente , quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero! - Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile? - È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama? ... E intanto! E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa. "Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!" "È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco" "Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!" pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava! Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere ... Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia ... Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma d ignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno! L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile ... Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte ... Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita. Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto ... Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla. Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse: "Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!" Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra ... Mi sentivo mancare "Poverino! - esclamavo; - poverino!" E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle: "Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!" Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: "Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!" E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: "Passerà!" Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei ... e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore. Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai pati to abbastanza! Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai! Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto : non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto. Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, s empre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita! Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina! Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! "Non mi ha riconosciuta!" dissi all'amica che avevo allato. Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso! ... Come sono ora felice! Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo! Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà! Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra - Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro. - Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela? - Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto. - Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? - Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello. - T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!
L'aveva incontrata sull'uscio del salotto, piú bella del solito, col viso acceso, stretta nel semplicissimo vestito di faglia nera che ne modellava il corpo come una tunica di statua greca; col seno rigonfio, e le pupille scintillanti sotto il velo abbassato fino a metà della faccia. Al vederla cosí, contrariata dalla di lui presenza e pur risoluta di andar fuor i, Giovanni s'era sentito mordere il cuore. - Non andare! - le aveva detto con voce tremante. Ella fece una spallata e si fermò davanti allo specchio per aggiustarsi il cappellino. - Non andare! - Perché? - rispose, voltando appena la testa. - Perché ... voglio cosí! - A quel voglio che gli costava un grandissimo sforzo, ella era scoppiata in un risolino ironico, sdegnoso, e aveva preso in mano l'ombrellino. - Virginia!!! - Sei impazzito? - rispose, sentendogli alzare la voce. - Sí, si sentiva diventar pazzo al vederla andar via tranquillamente, quasi fosse stato nulla; e balzò a sbarrarle l'uscita col corpo che gli fremeva tutto, e gli occhi che non ci vedevano piú. Virginia si fermò, interdetta, e lo guardò fisso; poi, indietreggiando di un passo: - Levati di lí! - gli disse con voce repressa: - levati di lí! - Giovanni restava piantato lí, supplicando con lo sguardo, senza dir motto. - Levati di lí! - ella ripeté. Brandiva l'ombrellino, mordendosi il labbro inferiore, spirante minaccia. E Giovanni s'era fatto da parte e l'aveva lasciata passare, intimidito come un fanciullo, dando in uno scoppio di pianto, peggio d'un fanciullo, avvilito dalla coscienza della propria fiacchezza e pentito di quella resistenza servita soltanto a irritare sua moglie di piú. Oh, ella sapeva di poter tutto su quell'uomo! Quando con arti da sirena gli buttava l'elemosina d'una parola dolce, o gli permetteva di prendersi qualche bacio su le labbra ancora calde d'altri baci, Giovanni dimenticava subito ogni cosa e le perdonava, ammaliato dai bagliori azzurri di quegli occhi, dalle carezze di quelle mani bianche e delicate che, senza tremare, gli passavano le dita tra i capelli, quasi mani di sposa immacolata. - È un'infamia! La trista donna l'ha stregato! - diceva la mamma di lui. E i suoi pregiudizi da provinciale l'avevano fin spinta a fargli benedire di nascosto i vestiti dal parroco, per distruggere la malia: e neppur l'acqua santa era giovata! La povera donna malediva l'ora e il momento che ella e il suo vecchio s'erano risoluti a venire in Milano per agevolare la carriera del loro unico figlio. Soprattutto, non riusciva a darsi pace di aver favorito quel matrimonio, mentre suo marito non voleva saperne aff atto d'una nuora cosí bella, cosí superba e che non gli pareva punto adatta al mite carattere del suo Giovanni. Per ciò, ora, ella se ne stava zitta quando suo marito buttava in faccia al figlio tutte le infamie della nuora; e si era sentita morire quella volta che il vecchio gli aveva detto: - Ammazzati! - ritto sulla persona, coi bianchi capelli che gli si sollevavano irti sul capo, tremendo come un giudice che pronunzi una sentenza. Da quel giorno, quel misero figliuolo era tornato in casa dei genitori d ue o tre volte soltanto, quando poteva essere sicurissimo di non trovarvi il padre. La voce compassionevole della povera vecchia gli addolciva il cuore. Ella gli dava un po' di ragione, non gli diceva: - Ammazzati! - non aveva parole dure per la disgraziata che, infine, portava il nome di lui. - Credi, mamma, è una malattia come un'altra - le ripeteva sinceramente. - Un giorno dovrà guarire; guarirà! - E al vederlo cosí calmo, cosí rassegnato nel suo infinito dolore, ella non osava palesargli che giorno e notte pregava Iddio perché togliesse da questo mondo quella malefica donna che lo rendeva tanto infelice. Era sempre il suo bimbo quell'uomo di trentacinque anni, quel raro ingegno di architetto, cosí ben voluto da tutti per la squisita bontà del carattere. E nei momenti piú tristi, ella si stri ngeva fortemente al seno la cara testa un po' brizzolata e l'andava accarezzando, come faceva - anni addietro! - ogni volta che il babbo lo sgridava per qualche scapataggine da scolare. Anzi ora la sua tenerezza materna era maggiore. Oh! Non ne dubitava piú: la megera glielo aveva stregato. Quella sciagurata sguazzava intanto nel fango a testa alta, sorridente, senza curarsi di nulla. Dalla fiacchezza del marito si sentiva dispensata fin dall'obbligo di mentire. I suoi amanti non si contavano piú; non sceglieva, accettava quanti gliene capitavano tra' piedi. Tormentata da voglie e da capricci stranissimi, quando si sentiva o stanca o sazia, tornava, per contrasto, al marito. E allora erano settimane d'idillio, che lo rendevano felice, pover'uomo! - Non l'avevo detto che sarebbe guarita? - E faceva progetti di viaggi, di villeggiature, liete fantasie da innamorato, per sottrarla all'aria cittadina che doveva averle prodotto quello sconquassamento di nervi. - Andremo a Nizza. - No, in un posto solitario, su la riviera ligure - ella rispondeva con voce strascicante. - Su la riviera ligure; sarà meglio -. Giovanni non tentava spiegarsi quell'improvviso cambiamento - Misteri dell'organismo! - E le andava dietro, da una stanza all'altra, zitto, dimesso, aiutandola a riporre questo o quello oggetto, come il giorno che eran partiti per il viaggio di nozze. Con la veste da camera di cascimirra celeste ricamata in bianco, e i capelli che le cascavano in pioggia d'oro dietro le spalle, Virginia aveva qualcosa di verginale nell'aspetto, qualcosa d'immensamente dolce, allorché i suoi occhi si velavano di una sfumatura di tristezza. Giovanni se ne sentiva turbare fino al midollo delle ossa. Ah, quella gola e quel collo, staccantisi con toni lievemente dorati tra il biondo dei capelli e la candida spuma delle trine che guarnivano la scollatura della veste - gola, e collo da regina! Egli non si saziava di baciarli; li avrebbe anche morsi, se non avesse temuto di farle male e di romper cosí l'incanto del sogno da cui non voleva svegliarsi. Queste tranquille giornate di preparativi, passate in casa dalla mattina alla sera, con lunghi riposi su per le soffici poltrone del salottino o alle finestre dell'appartamento che davano sulla via Principe Umberto, gli rimanevano impresse nella memoria proprio come un sogno quando l'incanto si rompeva, pur troppo!, come gli aveva prognosticato suo padre. Il vecchio non sapeva darsi pace. In che modo un uomo cosí intelligente, vero artista nella sua professione, lasciava calcarsi, senza lamento, dai fangosi stivaletti di una miserabile che la nostalgia della mota trascinava pei rigagnoli, frenata appena appena dalle ipocrisie sociali? - Che posso farci? Ella si è impossessata assolutamente di me. Me la sento nel sangue, nelle fibre, nell'anima! Che posso farci? E quando apprese che anche lei, finalmente, trovato un padrone, si era fermata nella sua corsa vertiginosa, e che il nuovo amante la dominava, alla sua volta, da tiranno, e la faceva piegare alla propria volontà quasi pezzetto di cera da modellarsi col calor delle dita, Giovanni si rallegrò dell'avvenimento come di beneficio immenso. Ed era grato a quel mostriciattolo scarno, nero, nano, dal naso spropositato, dalla testa pelata piú di una zucca e che non giungeva a mascherare la bruttezza con la raffinata eleganza dei vestiti, gli era grato della sosta prodotta nella vita sfrenata di Virginia. Fino a questo era arrivato! Ella era felice di sentirsi interamente assorbita da quel mostriciattolo che già la trattava con pochi riguardi, troppo sicuro del fatto proprio. E quando la minacciava di piantarla, senza tante cerimonie, se ella resisteva un po' a qualche dispotico capriccio di lui, Virginia rompeva in pianto come non aveva mai fatto. Le avesse ordinato di leccargli le scarpe, e lei si sarebbe buttata carponi, a leccargli le scarpe, come una bestia domata; e sarebbe stata orgogliosa di quella viltà, tanto sentivasi ardere , la prima volta, da passione vera, di quelle che scoppiano come mine nelle profondità dell'organismo. Per lui, per quel mostriciattolo, una mattina Giovanni se la vide comparire dinanzi bella e sfacciata come una cortigiana, con tutte le tenerezze ch'ella sapeva mettere nella voce, e tutte le seduzioni che le vibravano dalla persona, da quegli occhi azzurri, limpidissimi, da quelle labbra porporine che gli imprimevano un bollo infocato su le carni le poche volte che le toccavano. Da parecchi giorni, gli si mostrava insolitamente gentile e premurosa. Due o tre volte era andata a trovarlo nello studio, fra qu ei larghi tavolini ingombri di disegni, di matite, di regoli, di compassi, di pennelli, di vasetti d'inchiostro di China. S'era anche fermata a guardare il proprio ritratto incastrato nella magnifica cornice dorata, ritratto che era stato la disperazione del Cremona quando lo aveva dipinto, ed era riuscito un capolavoro, con la bionda figura che veniva innanzi sul fondo grigio e il sottile tralcio - poche foglie verdi e pochi fiori cerulei - che le si rizzava a lato elegantissimamente. Tutte e due volte era entrata con qualche esitanza, senza saper dire perché, quand'egli le aveva domandato se le bisognava qualcosa; e, dopo d'essersi aggirata con aria indolente fra quei tavolini, buttando stanche occhiate su i disegni, domandando rare spiegazioni, era andata via. - Vuoi qualche cosa? - aveva insistito Giovanni, facendosele accosto, accompagnandola fino all'uscio. - No - rispose. - Volevo ... volevo soltanto vedere se eri solo -. Gli avea lasciato però nella stanza il forte profumo femminile che lo inebbriava, che gli faceva girare la testa e non gli permetteva piú di lavorare. Poi, tre giorni dopo, era entrata risolutamente, sul punto che Giovanni usciva di casa per un affare importante. - Senti! - gli disse, tenendolo per le mani, guardandolo negli occhi con sguardo da maga ... - Non mi dirai di no! .... Giovanni si sentí rammollire le ossa e dové sedersi su la prima seggiola che gli capitò sotto mano; accennò di sí col capo e aspettò che parlasse. Allora ella gli si sedé sulle ginocchia. - Senti! - riprese a dire ... - Farai di me quel che vorrai ... Non ti darò piú il minimo dispiacere ... Sono stata una pazza ... Perdonami: sei tanto buono! ... Ma ... ho bisogno di tremila franchi, oggi stesso, fra due ore ... Non mi dirai di no! ... La sarta ... i fornitori ... certe cambiali, capisci ... - Non le diceva di no, certo. La guardava, muto, sbalordito di quella richiesta alla quale sapeva di non poter soddisfare interamente cosí presto com'ella voleva. Ah! Se si lasciava sfuggire quell'occasione che gliela rigettava tra le braccia, non l'avrebbe mai piú riafferrata. Questa idea lo atterriva. Ella era rimasta seduta su la poltrona osservandolo di traverso, trattenendo il respiro, mentre Giovanni rovistava in fondo alla cassetta di un mobile, nell'angolo piú scuro della stanza. E allorché lo vide ritornare contando i biglietti di banca gialli e rossi che teneva fra le mani, gli corse incontro e lo baciò in fronte. Giovanni voleva parlare, ma ella gli turò la bocca, carezzevolmente: - Non scusarti se non mi dai di piú! - E calcò i biglietti nella tasca del vestito, con gli occhi nuotanti in un'onda di soddisfazione straordinaria, le mani che le sbalzavano dall'agitazione, le gote fiammeggianti sotto i riflessi d'oro dei capelli, le labbra increspate dal convulso della vittoria. Lungo la strada, Giovanni cacciava via, con un gesto vago, la importuna mosca della riflessione che veniva a ronzargli dentro il cervello per quelle tremila lire ... - È la prima volta che mi chiede denaro. E lo ha chiesto in un certo modo! ... Chi sa? ... Non è cattiva, no; non è cattiva. Forse, se avessi saputo ben guidarla ...! Questa volta però i sintomi della guarigione sono proprio evidenti -. E alzava la testa e apriva i polmoni, per respirar meglio l'aria ossigenata dei giardini pubblici che gli sorridevano d'attorno con le magnolie, i cedri del Libano, e le aiuole tutte fiorite. - Come sarei stato felice, se avessi potuto prendere, lí per lí, le tremila lire e mettergliele in mano! - Ma sapeva benissimo dove andare a trovare il resto; per ciò era tranquillo. Quegli azzurri occhi sereni, quelle tiepide labbra porporine, quel tesoro di capelli biondi gli facevano risplendere in cuore un sole assai piú bello di quello che stendeva i suoi strati d'oro sul verde dei prati e su la polvere bigia dei viali. Qualcosa gli cantava dentro, assai piú dolcemente dei calenzuoli e dei cardellini che cinguettavano tra le fronde degli ippocastani, tremolanti in quel brulichio di luce. Aveva fretta, e intanto indugiava. - Aspettino! Voglio godermela intera questa festa che mi folleggia dentro improvvisamente, quando meno me l'attendevo -. E lungo il corso Venezia si fermava davanti le vetrine, guardava le stampe in mostra, i pesciolini dorati dell'acquarietto di un salumaio, e il via vai della gente, delle carrozze, degli omnibus, tutta la ressa della vita cittadina che non riusciva a reprimergli l'intimo tumulto. Aveva salito con passo affrettato le scale di casa, tenendo stretto nel pugno l'involtino delle altre mille e cinquecento lire ch'era andato premurosamente a farsi prestare da un amico. Sentendo una voce d'uomo nel salottino, s'era fermato; poi, in punta di piedi, era andato ad appostarsi dietro l'uscio dell'altra stanza, da dove poteva ascoltare e vedere senz'essere scoperto. Il cuore gli sbalzava con ispasimo, mentre osservava dal buco della serratura, il mostriciattolo dell'amante raggirarsi pel salottin o su e giú, con le mani in tasca e il naso enorme all'aria, intanto che Virginia gli parlava da una poltrona, seguendolo con gli occhi, beata; e quegli, per risposta, scrollava le spalle, faceva smorfie, non voleva crederle; e mandava fuori grugniti, sprezzante, da padrone che non si degna di rivolger la parola a una schiava. Gli occhi gli si annuvolarono, gli orecchi gli zufolarono ... In quel momento non pensò piú alla propria onta, no, ma all'avvilimento di lei in faccia a quel rospo ch'ella avrebbe dovuto schiacciare col tacco degli stivalini! E quando vide che colui, strappatigli di mano i biglietti di banca e contatili, glieli schiaffava in viso e alzava la mano per picchiarla, si sentí colpito lui sul volto, a traverso l'uscio. Dentro, una molla gli scattò. Il mostriciattolo non aveva avuto tempo di scappare all'urtone che aveva quasi fracassato i battenti. Con le mani fra' capelli, senza un grido, immobile, Virginia guardava atterrita i corpi, aggrovigliati come due serpenti, che si divincolavano sul tappeto in lotta feroce Il nano guaiva fra la morsa di quelle braccia di acciaio, sotto quei pugni che gli piombavano addosso come colpi di maglio e gl'illividivano e gl'insanguinavano la faccia. - No, Giovanni! No, Giovanni! - balbettava Virginia con voce strozzata. - No, Giovanni! Giovanni però non le dié retta finché non sentí quella carogna quasi sgonfiarsi come un otre e restare immobile sul pavimento. Piú morta che viva, ella si lasciò prender per mano dal marito. Giovanni, diventato calmo a un tratto, vergognoso d'essersi lasciato trascinare a un atto insolito, già pareva un altro, con quelli sguardi concentrati, tutto sudicio, tutt'arruffato. - Bada! - le disse, spingendola bruscamente in camera. - Se ricominci, ti tiro addosso come a una cagnaccia arrabbiata! Parola d'onore, ti tiro addosso come a una cagnaccia arrabbiata! - Ah, questa volta egli diceva davvero! Cosí avvenne in lei una trasformazione incredibile. Nei primi giorni si sentiva stordita; e guardava, indignata e diffidente, l'uomo da cui vedevasi soggiogata con tanta violenza e in un modo che ella non giungeva a spiegarsi. Dunque suo marito non era l'essere fiacco da lei creduto fin allora? E lo fissava, attratta da crescente ammirazione di donna che non sapeva piú rivoltarsi, con avidità nuova, con curiosità strana, alla quale si mescolava, di giorno in giorno, un sentimento indefinito ... - Di grat itudine? Di affetto? - Non lo capiva bene; ma certamente qualcosa che la meravigliava e la deliziava, qualcosa che la faceva rimanere come tra sonno e veglia, con la dolcezza del sogno e la paurosa coscienza ch'esso dovesse subito finire ... Giovanni, invece, come piú si andava accorgendo del mutamento di lei, provava forte nausea, repugnanza invincibile per la creatura cosí perdutamente adorata quando prodigava il bel corpo agli innumerevoli amanti. La guardava appena, le rispondeva con soli monosillabi, lasciando ben scorgere dal suono della voce, dalla glaciale cortesia dei modi, la sorda irritazione prodottagli da quell'umile pentimento, infame profanazione dell'amore, com'egli lo qualificava ripensandoci su giorno e notte. Perché ora, sí, lo amava lei, colpita profondamente da quell'atto di forza brutale che aveva lasciato mezzo morto sul tappeto del salottino il vigliacco che stava per picchiarla! Si desolava, lei, del freddo contegno di suo marito, che pure le usava la carità di non farle scorgere intera la forte nausea, la insormontabile repugnanza! Sí, gli si aggirava lei attorno, muta, con sguardi smarriti, dimessa come una serva, senza implorare pietà, mentre sentivasi rifiorir nel cuore qualcosa di nuovo, e tutto il passato le si anda va dileguando via via dal corpo con le invisibili scaglie della pelle, che si rinnovava e diventava piú fina, piú trasparente, senza riflessi, d'un candore di marmo! Quando si trovavano da solo a solo nel salotto - egli a sedere, coi gomiti appoggiati su le ginocchia, la testa fra le mani, la fronte corrugata, guardandola di sottecchi di tanto in tanto; ella, in piedi, discosta, presso la finestra o accanto a un mobile, bella sempre, ma a testa bassa e col cuore in tumulto - Virginia provava una contentezza ineffabile nel vedersi là, dinanzi al marito, in quell'attitudine di donna spregiata che la riscattava ai propri occhi da tutte le colpe passate; timida e pur speran zosa sempre di vederlo alzare un bel giorno da la seggiola per avvicinarsele e dirle, aprendole le braccia: - Ti ho perdonato! - Giovanni però non si muoveva, non le diceva nulla. Una volta, avendo ella osato accostarglisi e posargli una mano su la spalla, era balzato con uno scatto. - No, no! - le aveva detto. - È impossibile! - E quella voce dura, e quella faccia buia, l'avevano trafitta peggio d'un pugnale. S'era sentita agonizzare. Non era giusto che fosse cosí? Si meritava peggiore gastigo! Su tutta la casa si era aggravato un silenzio penoso. Ella non metteva piú un dito sul pianoforte. La gabbia dei canarini pendeva ancora nel vano d'una finestra, ma un ragno v'aveva tessuto dentro la sua tela che dava un aspetto desolato alla gentile prigione di fil di ferro. I fiori, le piante da salotto erano morte; le foglie cascavano per terra al minimo alito. Non riceveva piú nessuno, non metteva un piede fuori delle stanze addette alla famiglia; contenta di quella tetra pace succeduta al gran chiasso precedente; inebbriata di sacrifizio per meritarsi una parola benevola, un'occhiata pietosa. All'inverso, Giovanni sentiva rivoltarsi ogni giorno piú dal lezzo del passato che si sprigionava da quel corpo di donna maculato di baci e di carezze altrui. Gli pareva che esso già si disfacesse dalla cancrena di tutti i turpi abbracciamenti ai quali s'era abbandonato. Soltanto il ritratto del Cremona, quella divina figura immortalata dall'arte, gli faceva battere il cuore come una volta. Era stato fatto nei primi mesi del loro matrimonio quando lo splendido fiore della bellezza di lei non era stato ancora inquinato; e tutta la pudica innocenza della vergine diventata appena donna s'era rifugiata su la meravigliosa tela dove il pittore aveva diffuso piú largamente la magica fosforescenza del suo pennello. Giovanni rimaneva ore ed ore in faccia a quel ritratto, che talvolt a gli si muoveva sotto gli occhi quasi agitato da soffio vitale; e se, dopo, incontrava per le stanze lei che lo guardava con gli occhi ingranditi nel volto pallido, ella gli sembrava un'ombra, un fantasma dei giorni tristi; e le voltava le spalle. Poi non piú nausea o repugnanza, fu odio a dirittura. Perché quella donna restava lí? Perché aspettava d'esser scacciata via a colpi di granata, quasi immondezza? Perché non voleva morire, ma gli si teneva fitta alle costole simile a un cattivo destino? Dio! Dio! ... Chi lo tratteneva dallo schiacciarla come un vile insetto, cosí? E una volta, avendola sorpresa piangente, diventò furibondo, cominciò a urlare: - Ah! ... Tu osi piangere? Ah! ... Tu osi rimproverarmi, a questo modo, la mia immensa bontà? Gli s'era inginocchiata ai piedi, credendo d'intenerirlo, e s'era sentita afferrare pel collo da due granfie di belva che tentavano strozzarla. - Perché non me l'hai lasciata finire? - egli disse a suo padre sopraggiunto per caso. - Perché non me l'hai lasciata finire? - Suo padre lo guardò stupito. - Oh, mi sentivo piú felice ... allora! - esclamò Giovanni. E scoppiò in singhiozzi. Mineo, 24@ 24 luglio 1881@. 1881.
- E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.
Ma perché s'era egli abbassato fino alla menzogna? Ah, vergogna, vergogna! Gli pareva di aver calunniato Margherita, tanto si credeva ignobile e lontano da lei: e che lo stesso spirito di vanità e il desiderio dell'inverosimile, che una volta gli avevano fatto dire a Zuanne l'incontro dei banditi sulla montagna, in un lontano tramonto, l'avessero ora spinto a rivelargli quest'amore impossibile. Attaccò le mani fredde alle guancie ardenti, con gli occhi rivolti al viso melanconico della luna, e rabbrividì. Ricordava un freddo e luminoso plenilunio d'inverno, la vergogna e la rivelazione del furto delle cento lire, la figura di Margherita che spandeva luce nell'ombra, come la luna nella notte. Ah, forse il suo amore datava da quella sera; ma soltanto adesso, dopo anni ed anni, scaturiva irrefrenabile come una sorgente che non vuole più scorrere sotterra. Questi paragoni, - dell'ombra e della sorgente improvvisa, - venivano fatti da lui; ed egli si compiaceva delle sue immagini poetiche, ma non cancellava con esse la vergogna ed il rimorso che lo tormentavano. «Come sono vile», pensava, «vile fino alla menzogna. Io potrò studiare e diventare avvocato, ma anche moralmente resterò sempre il figlio d'una donna perduta ... » Rimase lungo tempo alla finestra: un canto triste passò e dileguò, lontano, ridestando nell'anima dell'adolescente i ricordi della patria selvaggia, i tramonti sanguigni, le memorie d'infanzia. E sogni melanconici e luminosi come la luna gli sorsero nell'anima. S'immaginò di trovarsi ancora a Fonni; non aveva studiato, non aveva mai sentito la vergogna della sua condizione sociale; lavorava, faceva il mandriano, era anche lui un po' semplice come Zuanne. Ed ecco che si trovava sull'orlo della strada, in un rosso crepuscolo d'estate e vedeva Margherita passare, - povera anch'essa ed esiliata sull'alto paesello - coi fianchi stretti dalla gonna d'orbace, l'anfora sul capo, simile alle donne bibliche come lo sono ancora tutte le Barbaricine. Egli la chiamava ed essa volgeva il viso illuminato dal bagliore del crepuscolo, e gli sorrideva voluttuosamente. «Dove vai, bella?», egli chiedeva. «Vado alla fontana.» «Posso venire con te?» «Vieni pure, Nanìa.» Egli andava: e scendevano assieme alla fontana, camminando sull'orlo della strada, sull'alto delle immense valli, nella cui profondità la sera già si stendeva, mentre il cielo porpureo si scoloriva e veli d'ombra cadevano su tutte le cose. Margherita deponeva l'anfora sotto il filo argenteo della fontana gorgogliante, e il mormorio dell'acqua cambiava di tono, e di monotono pareva diventasse allegro, come se il cader dentro la brocca interrompesse la sua eterna noia. I due giovanetti allora si sedevano su una pietra, davanti alla fontana, e parlavano d'amore. L'anfora si riempiva, l'acqua traboccava e per qualche istante taceva, quasi ascoltando ciò che i due innamorati dicevano. Ed ecco che il cielo si scoloriva e i veli dell'ombra si stendevano anche sulle falde più alte della montagna, come il desiderio di Anania invocava. Egli allora cingeva con un braccio la vita della fanciulla; Margherita posava il capo sulla spalla di lui; egli la baciava ... In quel tempo Anania, poco più che diciassettenne, non aveva amici, e coi compagni di scuola andava poco d'accordo perché era diffidente e scontroso. Temeva continuamente che qualcuno gli rinfacciasse la sua origine, e un giorno, avendo sorpreso un brano di dialogo fra due studenti: «tu cosa faresti?» «nelle sue condizioni io non resterei col padre» credette accennassero a lui. Non salutò più i ricchi compagni che avevano pronunziato quelle parole, ma nel profondo del cuore diede loro ragione. «Sì», pensava, «perché rimango presso quest'uomo sucido che ha ingannato mia madre e l'ha gettata nella via del male? Io non lo amo e non lo odio, ma non lo disprezzo come dovrei. Egli non è cattivo e neppure completamente triviale come tutti i nostri vicini: coi suoi sogni bambineschi di tesori e di cose meravigliose, col suo affetto rispettoso verso la vecchia moglie, con la sua fedeltà costante per la famiglia del padrone, egli mi riesce talvolta simpatico, e questo mi dispiace, perché io dovrei e vorrei disprezzarlo. Che cosa è per me lui? Gli ho chiesto io di farmi nascere? Io dovrei abbandonarlo, ora che sono cosciente ... » Ma un po' d'affetto e molta confidenza lo univano a zia Tatàna. Essa non era riuscita a far di lui quello che aveva sognato, cioè un ragazzo religioso e obbediente, ma anche così come egli era, indifferente a Dio, maldicente dei preti e del re, protervo e spregiudicato, lo amava egualmente, convinta che egli, nonostante i suoi difetti, sarebbe diventato un grande uomo. Egli rideva e scherzava con lei, la faceva ballare, le raccontava tutti gli avvenimenti del paese. Ogni mattina ella gli portava a letto una tazza di caffè, e gli annunziava se la giornata era bella o brutta; tutte le domeniche, poi, gli prometteva denari se egli andava a messa. «No, ho sonno», egli rispondeva; «ho studiato tanto ieri notte.» «Allora andrai più tardi», ella insisteva. Egli non prometteva, ma zia Tatàna gli dava egualmente i denari. E sempre intorno a lui svolgevasi la stessa scena, con gli stessi personaggi: ancora il sambuco profumava l'aria e gettava foglie nella cameretta silenziosa; il vento portava dalle valli il soffio della selvaggia primavera nuorese; le api ronzavano nell'aria tiepida, e ancora, a intervalli, vibrava il lamento di Rebecca. Anania frequentava tutte le case del vicinato, e specialmente la domenica s'indugiava qua e là, portando nei miseri ambienti neri l'eleganza del suo vestito bleu, della cravatta rossa e del colletto alto, sotto il quale celavasi il cordoncino dell'amuleto di Olì. L'indomani del sogno idilliaco fatto al chiaro di luna sul davanzale della sua finestruola, appena Zuanne ritornò dal Tribunale egli lo condusse fuori, con la buona intenzione di fargli bere un calice di anisetta nella bettola del vicinato. «Chissà quando ci rivedremo!», disse il mandriano, «quando dunque verrai a trovarci? Vieni per la festa dei Martiri.» «Non posso. Ho tanto da studiare: quest'anno devo prendere la licenza ginnasiale.» «E poi dove andrai? In continente?» «Sì!», rispose Anania con impeto. «Andrò a Roma.» «Ci sono tanti conventi a Roma, e più di cento chiese, non è vero?» «Oh! più di cento, certamente.» «Ieri notte tuo padre raccontava che quando era soldato ... » «Dovrai fare il servizio militare, tu?», interruppe Anania, che non badava all'espressione del volto di Zuanne. «Lo farà mio fratello. Io ... » Tacque. Entrarono nella bettola. Un nugolo di mosche ronzava attorno ad una fanciulla bruna e bella, ma spettinata e sucida, seduta al banco. «Buon giorno, Agata; come hai passato la notte?» Ella si alzò e si rivolse ad Anania con triviale famigliarità. «Che vuoi, bello?» «Che vuoi?», ripeté egli a Zuanne. «Quello che vuoi tu», disse impacciato il pastorello. La fanciulla si mise a rifare la voce e l'atteggiamento di Zuanne. «Quello che vuoi tu ... E tu cosa vuoi, agnellino mio?» Guardò sfacciatamente Anania, ed anche Anania la guardò. Dopo tutto egli non era un santo; ma si avvide che Zuanne arrossiva e chinava gli occhi, e quando uscirono si sentì chiedere timidamente: «Anche quella è tua innamorata?». «Perché?», egli domandò un po' irritato, un po' allegro. «Perché mi guardava? Oh, bella, a che servono gli occhi? Ti farai frate, tu?» «Sì», rispose l'altro semplicemente. «E va a farti frate!», esclamò Anania, ridendo. «E adesso andiamo a vedere il Camposanto: così staremo allegri.» «Eppure dobbiamo andarci tutti!», disse gravemente l'altro. Mentre ritornavano verso casa, incontrarono un compagno di scuola di Anania, un brutto ragazzo che s'era già fatto crescere i baffi e la barba a forza di strofinarsi e radersi il volto. «Atonzu, vengo da te. Ti vuole il direttore. Tu dunque farai da donna», egli disse, fermando Anania. «Io? Macché donna d'Egitto! Non farò niente, io!», rispose Anania con molto sussiego. «Come si fa, allora? Sei l'unico tipo adatto! Non è vero che rassomiglia a una donna? Guarda!», esclamò lo studente brutto rivolgendosi a Zuanne. «Sei bello ... », disse timidamente il giovinetto. Anania si inchinò, levandosi il cappello. «Grazie, altrettanto!» «Sì, dunque, non fare il modesto: sei bello!» ripeté lo studente brutto: «vieni dunque dal direttore». «Più tardi, ma io non farò da donna, parola d'onore, no!» «Perché deve far da donna?», domandò con meraviglia Zuanne. «In una commedia, capisci: ed è per beneficenza ... per gli studenti poveri ... » «Io sono povero, fatela dunque voi in mio favore, la commedia!», disse Anania. «Povero! Sentilo! Il diavolo ti porti, tu sei più ricco di noi!» «Che cosa vuoi dire?», chiese Anania minaccioso, rabbuiandosi al pensiero che il compagno accennasse alla protezione del signor Carboni. «Tu sei bello, sei il primo, tu diventerai giudice istruttore e tutte le fanciulle ti vorranno raccogliere come un confetto ... » Questa espressione, che Nanna ripeteva dappertutto, fece ridere e calmò Anania; ma egli tenne la parola e non prese parte alla commedia. E non se ne pentì, perché la sera della rappresentazione egli poté assistervi seduto in seconda fila, subito dietro la sedia del padrino (in quel tempo sindaco di Nuoro) al cui fianco Margherita, in abito rosso e cappello bianco, risplendeva come una fiamma. Il capitano dei carabinieri, il segretario della Sottoprefettura, l'assessore anziano ed il direttore del Ginnasio sedevano in prima fila, accanto al sindaco ed alla sua splendida signorina; Margherita, però, non sembrava soddisfatta di tanta compagnia, perché si voltava indietro guardando con dignità gli studenti e gli ufficiali. In fondo alla sala adorna di ghirlande d'edera e di vitalba, il sipario di percalle qua e là rattoppato ondulava e lasciava scorgere coppie di studenti che ballavano allegramente. Alla fine il tendone fu tirato su con grande stento e la commedia cominciò. La scena risaliva al tempo delle Crociate, e si svolgeva in un castello molto turrito e vetusto all'esterno, per quanto all'interno fosse arredato con un solo tavolino rotondo e mezza dozzina di sedie di Vienna. La fida Ermenegilda, uno studentino dal viso tinto con carta rossa, indossava un largo vestito da camera della signora Carboni; seduta presso il balcone, con le gambe accavalcate indecentemente, ricamava una sciarpa per il non meno fido Goffredo, guerriero lontano. «Ora si punge le dita», mormorò Anania, chinandosi verso Margherita. Ella si chinò a sua volta, portando il fazzoletto alla bocca per soffocare una risata. Il capitano dei carabinieri, seduto accanto a lei, volse lentamente il capo, dando un bieco sguardo allo studente. Ma Anania si sentiva tanto felice, aveva una pazza voglia di ridere e voleva comunicare a Margherita tutta la gioia che la vicinanza di lei gli destava. Nel secondo atto il conte Manfredo, padre di Ermenegilda, voleva costringere la fanciulla ad obliare Goffredo e sposare un ricco barone di Castelfiorito. «Padre mio!», diceva la donzella, aprendo le gambe in modo sguaiato. «A che mi vuoi tu costringere? Mentre il prode Goffredo langue forse in una prigione orrenda, tormentato dalla fame, dalla sete e da ... » « ... dagli insetti», mormorò Anania, chinandosi nuovamente verso Margherita. Il capitano si volse di botto e disse con disprezzo: «La finisca, dunque!». Anania sussultò, si ritrasse, gli parve d'essere umile e pauroso come la chiocciola che appena disturbata si ritira nel guscio; e per qualche minuto non vide e non udì più nulla. «La finisca, dunque!» Sì, egli non poteva scherzare, non poteva parlare: sì, egli aveva capito benissimo; non poteva sollevare neppure gli occhi: egli era povero, era figlio della colpa ... «La finisca, dunque!» Che faceva, lui, fra tutti quei signori, fra tutti quei giovani ricchi ed onorati? Come gli avevano permesso di entrare? Come aveva potuto chinarsi all'orecchio di Margherita Carboni e sussurrarle frasi volgari? Perché ora sentiva tutta la volgarità delle osservazioni fatte. Ma non poteva parlare altrimenti il figlio d'un mugnaio e di una donna ... «La finisca, dunque!» Ma a poco a poco riprese animo, e guardò con odio la nuca rossa e la testa calva del capitano. Non udendolo più ridere né parlare, Margherita si volse alquanto e lo guardò: i loro occhi si incontrarono ed ella s'offuscò vedendolo triste, ed egli se ne accorse e le sorrise. Immediatamente tornarono allegri tutti e due; ella rivolse il viso al palcoscenico, ma sentì che gli occhi lunghi e socchiusi di Anania non cessavano di guardarla e di sorriderle. Una sottile ebbrezza li avvolse entrambi. Verso mezzanotte Anania accompagnò i Carboni fino alla loro casa: l'assessore anziano, un vecchio medico chiacchierone, camminava a fianco del sindaco: Anania e Margherita andavano avanti, ridendo e inciampando sui ciottoli della strada buia e diruta. Gruppi di persone passavano, ridendo e chiacchierando. La notte era scura, ma tiepida, vellutata: di tanto in tanto arrivava un soffio di levante, profumato da un odore di bosco umido. Stelle e pianeti, infiniti come le lagrime umane, oscillavano sul cielo profondo; sopra l'Orthobene Giove brillava vivissimo. Chi non ricorda nella sua prima giovinezza una notte, un'ora così? Stelle oscillanti nell'oscurità d'una notte più luminosa d'un tramonto, stelle pronte a cadere sovra la nostra fronte, come un diadema regale; l'Orsa brillante, a guisa d'un carro d'oro che ci attenda per condurci in un lontano paese di sogni; una strada buia, la Felicità vicina, così vicina da poterla afferrare e non lasciarla mai più. Due o tre volte Anania sentì la mano di Margherita sfiorare la sua; ma il solo pensiero di poterla prendere e stringere gli parve un delitto. Egli parlava e gli pareva di tacere e di pensare a cose ben lontane da quelle che diceva; camminava e inciampava e gli sembrava di non sfiorare la terra; rideva e si sentiva triste fino alle lagrime: vedeva Margherita così vicina da poterle stringere la mano, e gli pareva lontana e inafferrabile come il soffio del vento che veniva e passava. Ella rideva e scherzava, ed egli aveva ben veduto negli occhi di lei il riflesso della sua sdegnosa tristezza; ma gli sembrava che ella non potesse badare a lui che come ad un cane fedele. «Se ella», pensava, «potesse immaginare che io mi struggo dal desiderio di stringerle la mano, griderebbe d'orrore come al morso di un cane arrabbiato.» Ad un certo punto la voce alta e nasale dell'assessore tacque; Margherita ed Anania si fermarono, salutarono, ripresero la via, ma lo studente parve destarsi da un sogno; tornò a sentirsi solo, triste, timido, barcollante nel vuoto della strada scura. «Bravo, bravo!», disse il sindaco che si era messo fra i due ragazzi; «ti è piaciuta la commedia?» «È una stupidaggine», sentenziò Anania con tono sicuro. «Braaavo!», ripeté meravigliato il padrino. «Sei un critico acerbo, tu!» «Ma son cose da farsi quelle? Già, il direttore è un fossile; non poteva scegliere altro. La vita, la vita non è quella, non è stata mai quella!» «Potevano dare una commedia moderna: una cosa commovente: queste stupide contesse han fatto il loro tempo!», disse Margherita, prendendo il tono e l'accento d'Anania. «Brava! Anche tu! Sì, davvero, dovevano dare una cosa più commovente: per esempio la commedia di quegli indiani che quando la moglie partorisce si mettono a letto e si fanno trattare da puerpere anche loro ... avete sentito l'assessore?» Margherita rise: rise anche Anania, ma il suo riso si spense subito, come troncato da un improvviso pensiero triste. Camminarono in silenzio. «Ebbene, questi lampioni; bisognerà provvedere», disse piano, parlando a se stesso, il signor Carboni; poi a voce alta: «Cosa hai detto per il direttore?». «Che è un fossile.» «Bravo! E se vado a dirglielo?» «Che mi fa? Tanto l'anno venturo me ne vado.» «Ah, te ne vai? E dove?» Anania arrossì, ricordandosi che non poteva andar via senza l'aiuto del signor Carboni. Che significava ora la sua domanda? Non ricordava più? O si burlava di lui? O voleva fargli pesare già la sua protezione? «Non lo so», disse a bassa voce. «Ah!», riprese il sindaco, «tu vuoi andar via? Non vedi l'ora di andar via? Andrai, andrai: tu vuoi volare già, tu scuoti già le ali, uccellino! Ebbene, ssssst, vola!» Fece atto di lanciare in aria un uccello, poi batté la mano sulle spalle del figlioccio. Ed Anania sospirò, e si sentì leggero, lieto e commosso come se veramente avesse spiccato il volo. Margherita rideva: e nel silenzio della notte, il riso vibrante di lei pareva ad Anania, fattosi uccello, il fremito arcano d'un ramo fiorito sul quale egli poteva posarsi e cantare.
Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.
Abbassato il capo e chiusi gli occhi, ella si raccolse un istante; e la sua faccia, non più illuminata dall’ardore degli sguardi, apparve qual era realmente: consunta dal tempo, rôsa dalle passioni, simile ad una maschera vecchia sulla quale tutti coloro che la portarono abbiano lasciato un’impronta. Quanti uomini avevano logorato a furia di baci quelle guance appassite, quelle labbra sbiancate, quelle rugose palpebre? Quante febbri avevano macerata quella carne flaccida e gialla? Quali spasimi avevano contorto gli angoli di quella bocca amara? Quali pensieri molesti, quali assidue cure avevano scavato i solchi di quella fronte? In quali notti di veglia s’erano brizzolati quei rari capelli che ella adesso stirava con una mano bianca e smagrita?… Bella non era mai stata, neppure ai giorni tanto lontani della prima giovinezza; ma qualcosa del fascino strano e irresistibile che aveva fatto di lei una creatura di turbamento rifulse ancora sul quel tragico volto quand’ella si scosse, guardò fiso lontano e riprese a parlare. – Chi di voi ha dunque affermato che il primo amore è l’amor vero? Non aveva ancora vissuto, costui; non sapeva i giuochi imprevisti dell’esistenza, l’avvicendarsi delle fortune, le rivoluzioni che s’operano da un giorno all’altro nel mondo e nell’anima! Dicono impossibile un secondo amore perché con la morte del primo la fede nella forza e nella durata della passione andò necessariamente dispersa; ma non si ricomincia piuttosto ad amare appunto perché questa fede è immortale e perché si riconobbe d’averla riposta in chi la tradì?… Sì, l’amor vero può essere il primo, ma può anche essere l’ultimo – se per amor vero intendete quello che altri vi porta come voi lo portate, quello che vi promisero i sogni e che mai vi consolate d’avere perduto. Poiché molte volte potete amare con tutte le forze dell’anima, molte volte essere amati sopra ogni cosa; ma non c’è amore integro se non nell’incontro, nell’accordo, nello scambio delle due passioni; e ciò è tanto raro che la turba infinita dei diseredati lo nega… Orbene ascoltate. Per un uomo io abbandonai la mia casa, distrussi la mia famiglia, avvelenai la vita di chi mi mise al mondo – feci, delle creature che misi al mondo io stessa, altrettanti orfani. Dovevo amarlo per far queste cose, è vero?… A giudizio del mondo egli mi costava sacrifizii non lievi – dite, è vero?… Ma se io li giudicavo insufficienti! Se non credevo d’avergli dimostrato abbastanza che mi teneva luogo di tutto, che era tutto il mio bene sulla terra, l’unico giudice del quale temessi le condanne! Che cosa non avrei fatto per dargli questa dimostrazione? Come lo scongiuravo, in ginocchio, con le mani giunte, di dirmi che cosa voleva da me per credere all’amor mio! Come sarei stata felice se fossi morta di sua mano! Egli m’uccise – altrimenti. Egli non credeva all’amor mio perché non credeva a nulla. Vi sono di questi esseri fatali su cui sembra pesare la maledizione divina: belli come l’arcangelo caduto, come lui aridi e falsi. Un sorriso che sembra beato ed è schernitore illumina i loro occhi, parole che voi credete mistiche e sono bugiarde escono dalle loro labbra. Se per vostra sciagura v’imbattete in qualcuno di essi, siete dannati. Alla loro seduzione non si resiste. Secondati dalle ingannatrici apparenze, voi non metterete più un freno alle vostre aspettazioni, educherete le più folli lusinghe e precipiterete tanto più in basso quanto più ardito sarà stato lo slancio. Voi crederete di trovare nella loro anima le rigogliose fioriture della vostra; crederete di fare un sol cuore e una sola vita; e quando v’accorgete che ciò non è, accuserete voi stessi! Come sospettare la loro colpa se tutto ciò che in essi è parvenza brilla ed incanta? E vi torturate, vi rimproverate torti imaginari, procurate di riscattare i difetti dei quali vi sentite pieni, sognate di conquistare tutte le virtù che vi mancano. E tutto ciò è invano; e voi pensate ancora: "La colpa è mia! Io non l’amo abbastanza, non so fargli vedere il suo pensiero all’origine d’ogni pensiero mio proprio, non riesco ad ottenere da lui la stessa fede ardente che io gli porto…". Infatti egli vi sfugge, e questa fede altri avrà forse saputo ispirargliela! Allora non vi rimproverate più nell’intimo della vostra coscienza, ma v’umiliate apertamente dinanzi a lui, lo scongiurate d’avere almeno pietà: almeno questo sentimento allignerà nel suo cuore! Improvvisamente, un atto, una parola, ve ne dimostra l’orribile vuoto: allora un crollo tremendo avviene dentro di voi; ma siete guarita – radicalmente –. Ella fece col braccio disteso, con le dita adunche, il gesto di svellere qualcosa. Tacque un poco battendo rapidamente le ciglia, poi continuò: – Questo fu il mio primo amore. Mi costava tutto, quell’uomo; ma io gli avrei tutto perdonato se non m’avesse tolto ciò che mi rimaneva di unicamente caro: il conforto d’esser stata compresa, almeno un giorno, almeno un’ora; la fiducia di non essermi perduta per niente – per niente! Gli avevo perdonato tante vergogne, tanti abbandoni, tanti tradimenti! Ero stata sorda agli stessi dileggi, agli stessi sospetti, agli stessi affronti! Credevo sempre in lui, suo malgrado. Volevo trovare qualcosa di buono in fondo al suo cuore; stimavo sempre che ne avesse. Mi accorgevo che l’amore boccheggiava in lui, che era già morto; ma pensavo almeno che fosse stato vivo, una volta! Con una parola infame egli mi tolse quest’ultima lusinga, calpestò la stessa illusione; quando volli ricordargli questo amore, le parole che m’avevano esaltata, i giuramenti che m’avevano ubbriacata, egli mi disse: "E tu li hai creduti?…". E con la stessa bocca che li aveva proferiti disse ancora: "Ma sono la moneta con la quale si pagano quelle che non son da comprare!…". Allora, vedete, l’unico mio scopo, l’unico mio bisogno, ardente, imperioso, vorace, fu di diventar come queste… – La sua voce, che s’era fatta rauca tanto da costringerla a tossire replicatamente, si schiarì ad un tratto. – Non lo accuso più. Compresi, tardi, che la colpa non era stata neppur sua, che egli non poteva esercitare virtù che non aveva. Non crede chi vuole. Forse, chi sa, affinch’egli soffrì –. Ed alzò le spalle e scosse un poco la testa con l’espressione indulgente di chi ha visto molte miserie. – Comprendete bene dunque – riprese – la condizione mia all’apparire dell’Altro. Intatta, insaziata, esasperata, io portavo con me la mia fede – e non ero più degna d’esser creduta. L’Altro mi credette. Per lui era il primo amore. Nessuna donna aveva ancora sospettato il tesoro di sentimenti che egli portava in cuore; e questo tesoro tanto grande che non v’era purezza capace di pagarlo, io, l’ultima delle creature, l’ebbi, tutto. No, il povero linguaggio umano non potrà mai dir che cosa fu questo amore, l’esultanza divina di due esuli ciascuno dei quali ritrova nell’altro tutta la terra, tutto il cielo della patria lontana. Il linguaggio umano può dire soltanto le umane miserie, i dubbii, gl’inganni, i tormenti – e chi sa la vita comprenderà quelli che fatalmente ci aspettavano. Per un uomo che m’aveva avvilita, profanata, perduta, io avevo dato tanto, che nulla più mi restava da dare a quest’altro – per cui avrei voluto versare il mio sangue fino all’ultima stilla. Io avevo imparato a costo della salute dell’anima che non basta sentirsi giurare un affetto, che bisogna anche ottenerne la prova. Ed io non potevo dargli altro che le mie parole, e sapevo che le parole possono mentire, e sentivo che in bocca mia la menzogna doveva esser giudicata facile e pronta. Allora il dubbio che egli non mi credesse più cominciò a insinuarsi in me. Era dubbio e divenne certezza. Se quell’uomo avesse potuto leggere nel mio cuore come vi legge Dio sarebbe stato sicuro che tutti i palpiti del mio cuore erano suoi. Ma questo potere egli non lo aveva. Egli doveva paragonare, invece, sé stesso al mio primo amante, il bene infinito che mi faceva al male spaventevole che il primo m’aveva inflitto; ed avvertire che mentre il male era stato da me ricompensato con il massimo dei beni, a lui non potevo dare più nulla. E badate: non era già l’orgoglio suo che lo persuadeva a stimarsi di tanto superiore al suo predecessore, a pretendere che io facessi per lui molto di più che per costui: io stessa glie lo dicevo, glie lo ripetevo, glie l’attestavo. Ma come più gli parlavo dell’influsso maligno esercitato da costui sulla mia vita – per esecrarlo – più egli pensava ad esso – per temerlo. Egli non sapeva le sciagurate contraddizioni del nostro cuore, temeva che fossi ancora attaccata a quell’uomo in ragione degli stessi dolori che mi costava. Come dunque, come provargli il suo inganno, la dispersione assoluta di ogni memoria di quel passato, la fine della stessa esecrazione – poiché tutto l’orrore nel quale ero affondata non m’impediva la nuova felicità? E vedete di quali reazioni continue è fatto il nostro pensiero: mentre il conseguimento di questa felicità attutiva il sentimento dell’indegnità mia, questo sentimento si ridestava da un’altra parte, più acuto, più torturante – poiché la mia indegnità mi toglieva di dare a quest’uomo la luminosa dimostrazione che egli era in diritto di esigere! Allora qualcosa di più strano – di più umano – accadde in me. Quando io avevo portato nell’amore un cuor nuovo, un’anima vergine, tutto ciò che questa vita può dare di meno indegno, io m’ero accusata di non meritare abbastanza il ricambio dell’amore mio; ora che non me lo meritavo davvero, sentivo la ribellione prepararsi sordamente dentro di me. Dinanzi all’ideale Giustizia io era nel torto per avere criminosamente sperperato quei beni che andavano invece serbati con cura gelosa in attesa di offerirli a chi solo avrebbero dovuto appartenere; dinanzi a quest’uomo io ero in debito – e noi siamo così fatti da non tollerare il rimprovero dei nostri torti… E se ancora quest’uomo m’avesse apertamente rimproverato la mia miseria, se m’avesse buttato in faccia la mia abiezione, se m’avesse torturata ogni giorno, forse sarei stata meglio difesa contro le folli aberrazioni dell’egoismo; ma egli non fece questo, mai! Una tristezza senza fine velava talvolta i suoi sguardi, ma il suo linguaggio era sempre quello della dolcezza, della devozione, dell’umiltà. Allora io pensavo che egli parlasse così per compassione, che intendesse farmi un’elemosina, che non contento ancora dei suoi tanti vantaggi, volesse finire di schiacciarmi con la sua generosità – e la sorda ribellione diveniva più minacciosa. Avrei dovuto stargli in ginocchio dinanzi, e mi sentivo distaccare a poco a poco da lui … Il nostro cuore è così miserabile che non sopporta la gioia assoluta: una dose d’amore è necessaria al suo nutrimento. Quell’uomo aveva una gran colpa, non mi faceva soffrire. E come io lo disconoscevo, anch’egli disconosceva me. Perché la vita m’aveva contaminata, pensava che non fossi più capace d’apprezzarlo, che altre avrebbero saputo amarlo meglio di me. Presumeva ch’io dovessi portargli una gratitudine eterna per avermi sollevato fino a lui, che il pensiero di cercare altrove un altro amore – il pensiero che egli stesso accarezzava! – non dovesse neppure affacciarsi alla mente mia. E troppo sicuro d’essere amato, rispondeva meno all’amor mio, non pensando che questo fosse un torto, o pensando che fosse un torto minore e più tollerabile di quelli che altri m’aveva fatti. Ma le azioni umane non hanno tutte un valore relativo a chi le commette, alle circostanze nelle quali sono commesse, allo stato di colui che le apprende? E la freddezza d’un uomo come lui m’era più grave, dopo ciò che avevo patito, di tutti i tradimenti dell’altro amante… Così, giorno per giorno, il dissidio cresceva. L’ingrato destino ci era stato largo d’un bene incredibile; noi ce lo lasciammo sfuggire. L’amor nostro fu il vero, il grande, il solo amore; non sapemmo riconoscerlo. Come potevo riconoscerlo, io? Non m’ero ingannata altre volte? Non dovevo inevitabilmente sospettare di ingannarmi anche ora? A quel segno poteva riconoscerlo, egli che non aveva termini di confronto? Così il nostro inganno procedeva da opposte ragioni. Mancava ad entrambi la prova. L’avemmo –. Ella ripeté: – Fu questa –. E passatasi una mano sulla fronte, lentamente, da una tempia all’altra, disse, come in sogno: – Io lo tradii –. Dopo una pausa riprese: Imaginate voi che cosa dev’essere un pazzo che abbia perduto, insieme con l’intelletto, la vista? Soltanto un pazzo cieco avrebbe potuto fare quel ch’io feci – ragionatamente, deliberatamente. Pensai che egli non mi amava più, che non m’aveva amata mai. Credetti alle parole d’un altro, di quelli che ci troviamo attorno nelle agonie del sentimento, corvi che hanno fiutato il cadavere. No, non lo credetti! Non credevo più nulla. Ma questo scetticismo, la certezza che non c’era più nulla, la persuasione d’esser discesa tanto in basso da non poter cadere più giù mi buttò incontro ad un altro. Egli s’era accorto di quest’altro e non aveva trovata una sola parola per salvarmi. Io pensai: "Vuol dunque gettarmi via come una cosa inutile e vile!". E volli io stessa lasciarlo. Quando glie lo dissi …– Ella s’interruppe, esitante; e ad occhi chiusi, rovesciando un poco la testa, irrigidita come per catalessi, con voce lenta e gelata soggiunse: – Dopo che sarò morta, dopo che m’avranno chiusa dentro una bara, dopo che la terra mi avrà ricoperta, io udrò ancora quell’urlo –. Rimase quasi assorta qualche momento, poi ricominciò: – Saremmo stati ancora a tempo. Ma la benda non era ancora tutta caduta dagli occhi nostri. Io credevo d’averlo ferito nell’orgoglio soltanto, trionfavo provandogli che valevo ancora per gli altri, ottenevo la rivincita! Egli vide confermato il suo giudizio sulla mia infamia. Un intimo senso di sollievo, quella calma ingannatrice che precede lo scatenamento delle tempeste, ci pervase entrambi. Egli scomparve ed io ricaddi. Allora, allora soltanto, quando un altro prese il suo posto, quando io mi sentii nelle braccia d’un altro, quando questa carne miserabile fu preda d’un altro, un gemito sordo e lungo, il gemito d’una disperazione mortale uscì dal mio petto –. E un sorriso indefinibile, d’ironia, di pietà, di sprezzo, rischiarò quel viso. – Io sapevo, per averla tanta provata, la nausea del risvegliarsi accanto a qualcuno che fino alla vigilia è stato un estraneo e che dopo l’ultima intimità sarà più estraneo di prima. Io avevo curata questa nausea col procurarmene un’altra maggiore, e poi un’altra ancora maggiore. Ora non ne provavo alcuna. L’insensato stupore, il tremendo e senza fine sterile rimorso m’agghiacciavano troppo. No, io non credevo alla realtà; mi sentivo come sotto l’impero d’uno di quei sogni mostruosi durante i quali sappiamo però di sognare. Ed un pianto sconsolato, inesauribile, grondava dai miei occhi; uno di quei pianti che sembrano stemperare l’anima stessa, che nei sogni ci destano. Ma il mio risveglio era più tetro del sogno. E come in sogno io pensavo che qualche misteriosa potenza aveva certamente cambiato le fattezze, gli sguardi, la voce dell’uomo che fino a qualche giorno innanzi era stato mio, e come in sogno io cercavo di rivederlo attraverso quest’altro. Io figgevo il mio sguardo nel suo, lungamente, intensamente, fino ad abbacinarmi, per discoprire nel suo sguardo i lampi del Perduto; poi chiudevo gli occhi ostinatamente, inflessibilmente, imponendogli di tacere, per illudermi, per credermi ancora insieme col Perduto. Ed accadde questo: che i miei avidi tentativi, i miei funebri ardori, la mia lunga pazzia accesero l’animo non del tutto volgare del mio nuovo amante; egli credé ch’io facessi tutto ciò per lui – per lui! – e al soffio della grande passione quel fuoco divampò alto e gagliardo, ed egli trovò inaspettatamente una parola, l’accento dell’Altro… Illusione terribile!… Io m’afferravo a lui, gli prendevo il capo fra le mani, gli dettavo le parole che ancora, che sempre mi risonavano all’orecchio, e gli ingiungevo di ripeterle, ed egli le ripeteva, pensando che l’amore le suggerisse. E per un attimo io Lo ritrovavo! No, la nausea d’un tempo non mi soffocava più; no, io non potevo scacciare quest’uomo quando l’orrore invadeva l’animo mio, giacché per suo mezzo recuperavo in qualche modo colui che avevo disconosciuto; giacché la nausea, l’orrore, il pianto lungo e cocente mi rivelavano ciò ch’io avevo negato: la forza d’una passione che era la mia stessa vita! Non potevo scacciarlo; potevo soltanto e dovevo disingannarlo, dirgli a che mi serviva, perché facevo tutte queste cose – e glie lo dissi! Gli dissi che mai, mai avevo avuto un palpito, un solo pensiero per lui; lo costrinsi ad ascoltare la confessione dell’amor mio per un altro, gli dissi che cercavo quest’altro in lui; che invece di farmi obliare egli dava nuova forza alla passione mia; che ora, la prima volta, grazie a lui, grazie al mio tradimento, acquistavo la prova luminosa, sfolgorante, irrecusabile di quell’amore. E nella resurrezione della fede il mio spirito acquistava una sovrannaturale chiaroveggenza, un intuito fatidico: io sentivo che una rivelazione eguale alla mia doveva essersi fatta nell’anima del Perduto; che, lontano da me, attraverso nuove esperienze ed impreviste vicende, egli doveva piangere com’io piangevo perché sapeva che lo piangevo… Un giorno lo rividi. Corsi da lui –. Ella quasi gridò: – Chi avrebbe potuto arrestarmi? – Riprese con voce più sorda: – Gli dissi: "Sputami in viso, ma ascolta. Tu non mi credesti quando ti giuravo d’amarti. Dell’amor mio non seppi, non potei darti nessuna prova perché io stessa ne dubitai. Questa prova ora la posseggo. Pensai dimenticarti, e la tua memoria mi ha schiacciata. Ti abbandonai, e t’ho ritrovato da per tutto. Ti porto con me. Nessuno ti strappa più da questo cuore. Metti i tuoi piedi sulla mia faccia, ma lasciati dire, ora, che t’amo…". Egli… egli…– Giunse le mani, girò intorno lo sguardo come smarrita, e a poco a poco l’espressione dell’estasi si dipinse sulla sua faccia smorta. – Egli mi si fece vicino, mi guardava tacitamente. Tremava. Mi disse, così piano ch’io compresi piuttosto dal moto delle pallide labbra: "Sei tu?". Io potevo ancora parlare. Gli domandai: "Non m’aborrisci?". Ei rispose: "Ti piango…". Vedete voi queste mani? Qui caddero le sue lacrime, ed erano calde come gocce di sangue. Io non piangevo, sentivo il cuore battermi in gola. Tra le lacrime egli diceva: "Sei dunque tu? Non ho dunque sognato?… Quando io ti sospiravo, l’anima tua se ne veniva incontro a me?… Tu sai ora veramente quanto mi amavi? Nessuno di noi lo seppe, mai!… Povere creature umane, quali inganni sono i nostri!… Come fummo ciechi e sordi e ostinati nell’errore!… Ora la luce s’è fatta…". A quelle parole, alla certezza che egli mi dava, il cuore avrebbe dovuto allargarmisi dalla gioia, la fascia che mi cingeva la fronte cadere, tutto l’essere mio esultare… e invece un’ambascia muta, un terrore infinito mi piegavano, un gran freddo mi faceva rabbrividire… Egli diceva ancora: "Bisogna che l’aria ci manchi, per riconoscere che ne viviamo!… Neanch’io potei darti la prova d’un amore nel quale non avevo fede… Che stolto!… No, non accusarti: io fui colpevole al pari di te. Come te, ora soltanto sono sicuro e posso dire di amarti. Non pensar mai con rimpianto a tutto ciò ch’io ti dissi e che feci per te nei primi giorni della nostra fortuna; non rimpianger mai i giuramenti che l’ebbrezza dettava: nessuna prova d’amore vale questa che ogni giorno ti do…". E il mio terrore cresceva, lo sguardo mi s’appannava, le vene mi si vuotavano: perché se egli avesse detto che tutto era finito tra noi, io non avrei avuto di questa fine una certezza tanto disperata come udendo quelle parole. Nondimeno, dissi: "Allora, se tu mi ami ancora…". Un sorriso più triste di tutte le sue lacrime, il sorriso di chi muore mentre sente promettersi la salute e i beni della vita, passò nel suo sguardo. Egli prese le mie mani e rispose: "Noi non ci vedremo più". Mai la sua voce fu così dolce. Egli baciò queste mani e questa fronte – soltanto!…– E due lacrime, grosse e roventi come quelle da lei versate quel giorno, solcarono lentamente le sue guance. Quando la sua ambascia si calmò, ella ripeté: – Fu questa la prova dell’amor nostro, ed è questa la grande prova dell’amore operante e attuale. Ma come una legge spaventevole vuole che tutto si sconti, anch’essa s’acquista quando l’amore è perduto –.
Il commendatore alto, la fronte indietrata, ben mirando, con il braccio destro rigidamente abbassato, sparò la pistola. Si sentì un colpo tale da spaccare una testa.
Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.
Velleda aveva abbassato gli occhi e non era più lieta A Castelvetrano Roberto li lasciò. Voleva andare dal giudice istruttore a sapere a che punto era l'istruttoria. Velleda salí dal Moltedo, insieme con Franco e Maria. Il passo dei cavalli vivaci era stato riconosciuto da don Achille e da donna Giovannina e tutti e due erano andati in cima alla scala a ricevere i cari ospiti di Selinunte. Prima che Velleda potesse presentar Franco, don Achille gli aberrava la mano e gridavagli : Benvenuto, caro duca, è tanto tempo che vi aspettavo! Maria alzò la testa sentendo dare allo zio quel titolo e appena furono seduti nella stanza quasi oscura, attorno alla poltrona di don Achille; ella domandò a Franco : Dimmi, zio, sei duca tu? Sì, piccina, sono duca d'Astura. - E il babbo non è duca? 0157 - No; io, come maggiore, ho diritto a quei titolo, ma lui se volesse sarebbe marchese di Cevoli, conte di Pelerà. La bambina tacque, ma dopo un momento chiese sottovoce: Perché il babbo non ti chiama duca e non si fa dare quei titoli? Perché è democratico, e i democratici ambiscono a illustrare da sé il loro nome e sdegnano i titoli trasmessi dagli antenati. Anch'io dunque sarei marchesa e contessa? Franco capì che in quella bambina destavasi a un ti atto la vanità di casta e per recar pena a Roberto, che la voleva serbare semplice di modi e modesta, le disse : Mia cara nipotina, tu hai tutti questi titoli, ma un giorno ne avrai uno anche più bello. Io non prenderò mai moglie e il dì delle tue nozze regalerò a te e a tuo marito il mio titolo, tu sarai la sola duchessa d'Astura. Maria rimase pensosa e sbalordita dall' annunzio di quel dono ed evocando il ricordo delle novelle udite raccontare da Velleda, si figurò che le duchesse si vestissero diversamente dalle altre signore e portassero sempre la corona in testa. Dopo una lunga pausa, ella tirò per la manica lo zio e gli domandò : Com'é fatta la corona ducale? Franco cavò di tasca un portasigarette di cuoio bianco con una corona formata da piccoli brillantini in un angolo, e gliela fece vedere. Benché Velleda si accorgesse del dialogo fra Maria e Franco non potè afferrare le parole che si scambiavano. I Moltedo avevano fatto servire dei rinfreschi agli ospiti e Franco nell'offrire una granita alla piccina le disse con fare manierato : 0158 Questa è per te, duchessina! Maria sorrise lungamente a Franco, lusingata da quel titolo che le dava. Don Achille, col suo fare amichevole, narrava a Franco tanti piccoli incidenti sulla sua famiglia e notava la grande somiglianza fra la madre e lui. Siete un vero siciliano! - gli diceva con molta compiacenza. - Dovete venire spesso da noi; vi farò conoscere molta gente; a Selinunte siete troppo isolato ; voi non avete cola le occupazioni di vostro fratello, voi dovete annoiarvi. Non credo, - disse Velleda rispondendo per lui. Il signor Franco ha saputo adattarsi alla nuova esistenza e lavora anch'egli. Ora siamo nella stagione più triste, ma nel settembre la caccia e la vendemmia gli offriranno distrazioni. Il duca non capiva il sentimento delicato che spingeva Velleda a farlo apparire contento della suo sorte e la fissò senza aggiungere parola a quelle che ella aveva dette. L'arrivo di Roberto rianimò la conversazione, che languiva nel salotto quasi buio, attorno alla poltrona del vecchio infermo. Maria era andata a vedere una cova di canarini e Roberto potè parlare. Nulla di nuovo si è scoperto, - diss' egli. - Fra pochi giorni si farà il processo ai malandrini che hanno attaccato lo stabilimento; per quello di Alessio si aspetta di scoprire qualcos'altro. Egli è guarito e lo hanno trasportato alle carceri, in una cella segreta e non ha rivelato nulla, nulla; sempre più mi convinco che quell'uomo è innocente della intenzione che gli si attribuisce. Velleda non era del parere di Roberto e lo disse francamente. A mezzanotte non si entra armati in un giardino per divertimento. Quella corda, quella scala, perché cosa 0159 erano lì? Certo nessuno voleva rapire Costanza o rapir me! Alessio non parlerà, perché è sicuro che i suoi compiici non sono stati scoperti, ma se la convinzione mia, io potessi infonderla nei giudici, sarebbe condannato. Meno male che qui nessuno può udirvi, signora, disse don Achille, - ma in altro luogo vi consiglio a non esser tanto franca; voi non conoscete la Sicilia e potreste scontare dolorosamente il vostro zelo nel far condannare Alessio. Io non ho paura, e i colpevoli debbono essere puniti, - rispose la signora guardando Roberto e cercando negli occhi di lui l'approvazione, ma quella volto Roberto evitò lo sguardo della sua cara e un velo di tristezza gli oscurò la fronte. L'accanimento di Velleda gli dispiaceva. Roberto volle far visitare la città a suo fratello e chiamata Maria, disse addio ai Moltedo e uscì. La bambina aveva preso la mano del babbo e Velleda si trovò accanto a Franco, il quale le offrì il braccio. Camminavano per le vie deserte in quell'ora e ogni tanto Velleda si soffermava per riportare l'attenzione del duca sopra i cortiletti interni delle case, fioriti di oleandri, e sulle donne belle, sedute e intente al lavoro. Vede, sono greche, greche addirittura per le forme eleganti della persona e per la linea della fronte e del naso. Nessuna siciliana ha come queste un colorito più bello. Guardi come sono bianche e rosee, - diceva soffermandosi per accennargli ora una figura che passava con un'anfora posata sui capelli; ora un'altra con la testa curva sul lavoro. Franco non rispondeva e guardava indifferente. A un certo punto, vedendo che Roberto era avanti e non poteva udirlo, si fermò e fissando Velleda negli occhi, le disse: Mia cara signora, io non ho nessuna tendenza 0160 classica, e queste donne possono parere statue greche viventi. ma non fanno per me. Eppure son tanto belle! - esclamò Velleda con accento d'ammirazione. La sua natura d'artista era cosi possente, che dimenticando la sua qualità di donna, guardava le donne belle con una insistenza e con un compiacimento tutt'altro che femminile. La bellezza sola non mi basta: io sono un decadente, come hanno battezzato in Francia gli uomini della mia risma e del mio conio. La bellezza basta agli uomini semplici, ai caratteri che sentono l'entusiasmo. Per me ci vuole di più, e forse di meno. Più che la bellezza mi attrae l'eleganza, quel certo non so che delle donne che hanno veduto molto, che hanno amato, che capiscono tutte le depravazioni tutti i pervertimenti del gusto. Velleda ritrasse il braccio che appoggiava su quello di Franco e arrossì, ma egli, sfiorandola col suo soffio, aggiunse : Per me ci vuoi lei, Velleda. La piccola signora rabbrividì. Le faccio orrore, - disse il duca a denti stretti, senza smettere il sorriso un po' stupido. - Ma non è colpa mia se non c'intendiamo; lei ci mette così poca buona volontà! Del resto, quando il nostro orecchio è attratto da una voce prediletta, tutte le altre non si odono che come un ronzìo noioso. L'allusione non poteva sfuggire a Velleda, ma ella finse di non capirla. Non voleva mettersi in urto col duca per non affliggere Roberto, per evitare che egli le chiedesse spiegazioni. Tacque dunque, ma in cuor suo soffrì uno stazio atroce. Roberto s'era fermato con un signore del paese che ella non conosceva e dovette per questo restare accanto a Franco, il quale riprese a dire: Non vede quale vita insulsa io faccio? Io non ho 0161 a Selinunte i conforti che vi trova mio fratello. Dal viso stesso si vede la mia noia, la mancanza di ogni sollievo, di ogni consolazione, anche fugace. Ingrasso, imbolsisco, divento uno stupido, e tutto per colpa sua, Velleda. La signora fremeva; quelle offese le arrivavano dritte al cuore e in un impeto di ribellione esclamò: Senta: se non cessa di perseguitarmi, io vincerò ogni ritegno e dirò tutto a suo fratello. Mi pare di non aver fatto nulla per meritare i suoi insulti. Insulti li chiama? - rispose Franco. - Io non ho altro desiderio che quello di entrare nelle sue buone grazie, e sarei felice se volesse farsi la consolatrice della mia esistenza. Le ripeto che dirò tutto a suo fratello. Non lo farà mai. Io non sono profondo osservatore, ma scommetterei qualunque cosa che dalla sua bocca non uscirà mai una parola; non vuoi turbare la quiete di Roberto; gli vuoi troppo bene per dargli un dispiacere. Vile! - esclamò Velleda. - Doppiamente vile se crede quello che dice. Ne sono convinto, - rispose il duca con calma. Ma allora, quali consolazioni vorrebbe da me? Tutte quelle che io sono capace di sognare; se adora mio fratello, che me ne importa? L'amore, come lo intendo io, non ha nulla che vedere con i sentimenti. È l'appagamento di un desiderio, è l'unione di due corpi attratti da una irresistibile simpatia. L'odore che emana dalla sua pelle, le movenze del suo corpo, la sua bocca fresca, la sua voce, le sue mani, mi mettono la febbre addosso: io la desidero, io la voglio! Il duca non s'era esaltato punto nel parlare a Velleda. Ella invece era in preda a un parossismo di rabbia e alzando gli occhi su Franco, due occhi che avevano una guardatura sinistra e ai quali lo strabismo leggero dava una espressione minacciosa, disse : 0162 Basta; glielo impongo! - e senza curarsi di quello che avrebbe potuto pensare Roberto entrò in una botteguccia, di mercerie e rimase ritta, rigida dinanzi al banco, senza saper quello che chiedere. Roberto, quando ebbe lasciato l'amico, si volse per cercare Velleda. Dov'è? - domando a Franco. Sono forse il guardiano della signora? - rispose egli con dispero. - Mi ha lasciato da molto tempo. Roberto camminava ansioso per la via deserta spingendo l'occhio in ogni cortiletto e in ogni bottega. Quando la scorse con uno slancio di affetto le corse incontro, domandandole: Che cosa fa? Perché è sparita? Non vede? Compro nastri per Costanza: me ne ha chiesti. Franco; dalla porta della bottega seguiva la piccola scena e ripeteva fra sé: Non gli dirà nulla mai, ne sono sicuro! Quando uscirono tatti insieme per continuare la visita alla citta, Velleda aveva preso per la mano Maria. Le oro afose, le ore morte erano passate e la gente usciva dalle case. Ogni uomo si toglieva rispettosamente il cappello vedendo Roberto; ogni donna gli sorrideva, e quei saluti e quei sorrisi erano una consolazione per Velleda, la quale diceva a Maria: Vedi come tutti vogliono bene e rispettano tuo padre; tu puoi essere altera di lui; non v'è nulla di più bello che ispirare stima. Maria non rispondeva ed era straordinariamente distratta. Ella pensava alla promessa dello zio di farla duchessa e già parevate di veder d'intorno a sé, in atto umile, una corte di signori e di dame che le prestassero omaggio. A che pensi, Maria? - domandò Velleda. - Penso che è una bella cosa portare una corona ducale. 0163 Ma come mai ti vengono in testa certi pensieri? Non sono forse l' erede dello zio Franco, duca d'Astura? Ah! è un'infamia! - susurrò Velleda fra i denti. E in quel momento, forse per la prima volta, ebbe la visione precisa, delle sinistre intenzioni del suo persecutore.
Franco non parlava; aveva abbassato lo sguardo sul letto e pareva in preda a un accesso di stizza, che avrebbe volentieri sfogato sul fratello. Perché vuoi mettere ostacoli alla mia risoluzione? gli disse freddamente. - A quali calcoli ubbidisci? Roberto impallidì sotto quell'offesa. Rammentava che la madre loro, ingiusta con lui, leggiera e spensierata come Franco, soleva accusarlo sempre di calcolo con le stesse parole usate ora dal fratello; e l'udirle ripetere da lui, in quel momento, lo turbava come il ricordo di una ingiustizia lungamente tollerata. Non rispose all'offesa del fratello, per non perdere la calma apparente, che era la sua forza dinanzi a quel debole, cui sentivasi legato da un profondo affetto, e disse soltanto: Franco, io ti voglio bene e non permetto che tu macchi la tua vita con una fine insulsa, indegna di un gentiluomo. Nessuno si è mai ucciso in casa nostra e tu non devi essere il primo che commetta questa viltà. Ma io son rovinato, capisci! - rispose l'altro a denti stretti, balzando dal letto e fissandolo coi suoi occhi freddi. Ebbene, se sei rovinato, a che cosa rimedi morendo? Paghi forse i tuoi creditori? Salvi forse il tuo nome dall'onta? No, Franco, quando si è avuto il coraggio di sciupare, bisogna aver quello di sopportare la vita tal quale ce la siamo fatta. Capisco che si uccida chi non ha da levarsi la fame, da ripararsi dal freddo, chi non trova lavoro e chi è consunto da una malattia mortale. Ma la mia casa ti è aperta, dalla vendita dei tuoi beni si potrà sempre salvar qualcosa, tu puoi lavorare, tu sei sano e devi vivere. Lavorare! - ripetè Franco. - E a che sono mai adatto io? A tutto si riesce quando si è giovani e si ha voglia. Ammetto che l'esilio volontario in America ti abbia spaventato. Che avresti fatto tu, là, preso nell'ingranaggio della lotta disperata per la vita? Nulla, nulla. Ma io ti offro un lavoro certo, ti offro l'esistenza onorata e il mio affetto. Vieni meco in Sicilia. Io svilupperò ancor più il mio commercio vinicolo e t'inizierò ai segreti del mestiere. Viaggerai nell'isola, e anche all'estero, e io intanto, con la pratica acquistata negli affari, cercherò di salvare in parte il tuo patrimonio. Non ti offro cosa che ti possa offendere. Rammentati che il nucleo di quella azienda è costituito dai beni dotali di nostra madre, ai quali tu rinunziasti quando lo zio ti istituì suo erede. Accetta questa soluzione onorifica per te; tu sarai in casa tua e la mia Maria ti allieterà l'esistenza. È una cara bambina la mia Maria. Franco sorrise. Rammentava di essere stato una volta con sua madre a Castelvetrano, nella piccola città quasi orientale, situata in mezzo a una solitudine ridente e solenne, e rivedeva le donne accorrere al rumore d'una carrozza, sulla porta delle case; da cui si scorgevano i cortili fioriti di gelsomini e di oleandri all'uso arabo. Che avrebbe fatto mai in quella solitudine? Senti, - continuò il fratello che leggevagli nell'animo le esitazioni, ma che incominciava a sperare, io non abito la città, come sai. A pochi passi dalle imponenti rovine di Selinunte ho costruito una villa; lo stabilimento è in riva allo splendido mare africano; vapori vanno e vengono, ho buoni cavalli, le campagne sono bellissime, l'attività non cessa mai nei magazzini e sul molo, e si può vivere piacevolmente e utilmente in quella solitudine, visitata da persone colte e intelligenti. Un uomo che ami i cavalli e il mare, non si può mai annoiare nel mio deserto. E vedi, - aggiunse in tono affettuoso, - io farò di tutto per renderti più lieta la esistenza. Inviterò amici di Palermo e di Trapani, ti farò prendere amore al lavoro, che da tante soddisfazioni, e forse un giorno ti sentirai più felice in quell'asilo che ti offro, che qui dove forse non hai un amico. Ma ho delle amiche, - disse Franco con una certa fatuità, - e tu mi rammenti che ne attendo stamani una appunto; una bella e buona creatura che mi ama con passione. Perché l'avevi invitata stamani appunto? Perché coprisse il mio cadavere di rose e piangesse accanto al mio letto di morte" Roberto aggrottò le sopracciglia, urtato da tanta fatuità e disse: Tu non ami quella signora; se tu l'amassi avresti avuto pietà del suo dolore e per un capriccio non l'avresti spinta a compromettersi irreparabilmente. - Di fatto, non l'ho mai amata e non l'ho neppur desiderata, - rispose Franco. - Se avessi voluto, Paola mi avrebbe seguito in capo al mondo, ma io non le ho chiesto nulla ... mai nulla. Ma allora tu commettevi una vera infamia facendola venir qui, in mezzo ai curiosi e agli indiscreti che sarebbero penetrati in camera tua per assistere alla tua agonia o per vederti morto. Non hai pensato che quella signora sarebbe stata screditata per sempre, che non avrebbe più potuto porre il piede nella casa del marito? No; ho pensato soltanto che mi avrebbe portato dei fiori e avrebbe pianto. Scrivile subito, - disse Roberto in tono fermo. Trova il pretesto che io sono qui e pregala di non venire. Non sciupare la vita di una creatura che ti vuoi bene. Non la precipitare nella rovina. Franco si alzò, e dominato dallo sguardo imperioso del fratello scrisse a Paola poche righe e suonò perché fossero recapitate. Quando i due fratelli furono di nuovo soli, Roberto, con molta serietà, disse al duca: La morte, come ti ho dimostrato, non rimedia a nulla. Occorre che tu viva, ma la tua esistenza bisogna che cambi. Se accetti la proposta che ti ho fatto, io ti risparmierò tutte le noie di una liquidazione. Io sarò il tuo mandatario, tratterò con i creditori, venderò quello che potrò, ma intanto che io mi occupo a salvarti abbastanza da vivere, tu devi prepararti al lavoro, alla nuova esistenza che t'impone la tua situazione. Ti senti la forza di rinunziare al lusso, di sparire per alcuni anni, di rompere tutti i rapporti con la gente che conosci, di divenire un altr'uomo? Tenterò, - rispose l'altro a occhi bassi, - e se questo sforzo sarà troppo duro per me ... . Che farai allora? Ricorrerò a quel rimedio infallibile, che tu non hai voluto che usassi stamane. Oh! non vi ricorrerai più! - esclamò Roberto in tono di sicurezza. - Io so che potenza di attrattiva ha il lavoro. Discaccia ogni pensiero che a lui non sia rivolto, e gli afflitti gli devono quelle pause al loro dolore che hanno sull'anima lo stesso effetto benefico che il sonno produce sui corpi stanchi. Ma per ottenere dal lavoro questo sollievo, bisogna amarlo profondamente, bisogna ricorrere a lui come all'amico più fido. Il lavoro mi salvò allorché dopo un anno di felicità assoluta io vidi morire la mia bella Maria nel mettere al mondo la nostra bambina. Se non volevo compromettere gli affari, bisognava lavorar subito e non concedermi il lusso di piangere. Al ritorno del camposanto mi mescolai di nuovo agli operai, sorvegliando i carichi, entrai nei magazzini e vedendo che ovunque v'era bisogno del mio consiglio e del mio ordine, perché la grande macchina camminasse, potei distrarmi, riprendere le consuetudini interrotte per pochi giorni, e il dolore mi diede ore di tregua e così potei vincerlo. Vedi, il lavoro tiene, nella vita di noi uomini moderni, il posto che avevano la religione e la fede in quella degli antichi: è il nostro conforto, la nostra àncora di salvezza, il nostro rifugio. Essi si rinchiudevano in un convento per meditare e pregare, preparandosi a una vita migliore, a una vita felice; noi, che poco speriamo, che non abbiamo la pazienza di attendere una consolazione lontana, ci gettiamo nel lavoro che ci distrae la mente e ci affatica il corpo. Stanchi, dormiamo, e così di ora in ora, di giorno in giorno il dolore viene ricacciato in fondo al cuore, dove rimane in una specie di letargo, finché un nuovo dolore non lo desta; ma almeno in quel periodo di sonno ci lascia tregua, ci da agio di prepararci alla nuova lotta, come certi rimedi che somministrano i medici, non perché abbiano virtù curativa, ma solo perché infondono all'organismo la forza necessaria per vincere la malattia. La fatica della mente e del corpo, la tensione dei nervi e dei muscoli, è la vera consolatrix afflictorum degli uomini d' oggigiorno ; fa che sia anche la tua. Ebbene lavorerò! - disse il duca d'Astura, - ma tu dovrai avere con me una pazienza da santo, perché non solo sono disadatto a qualsiasi occupazione, ma non ho neppure nel lavoro quella bella fede che ti anima, nè per il lavoro quell'amore che è la condizione prima per riuscire. Vieni dal mio avvocato subito; voglio farti una procura generale, e quello che salverai dal mio patrimonio, sarà tutto trovato. Nel mio studio troverai tutte le carte, il maestro di casa ti metterà al correlile degli affari. Credo che sia un ladro. - aggiunse Franco con un ironico sorriso, - perché mi hanno scritto molte lettere anonime in cui lo accusano di giocale alla Borsa, di mantenere una bellissima donna e di far vita dispendiosa col mio. Io non l' ho mandato via per tante ragioni, ma soprattutto perché mi trovava sempre le somme di cui avevo bisogno. Questa volta, però, mi ha detto che non poteva far nulla. Dunque è divenuto inutile e tu gli puoi chiedere i conti da oggi a domani, - aggiunge sorridendo. Il cinismo e l'indifferenza assoluta di Franco urtavano Roberto, ma egli voleva esser buono col fratello e soprattutto indulgente, voleva non accorgersi dei suoi difetti, che credeva frutto di una educazione sbagliata, e sperava, sorvegliandolo, guidandolo, di rigenerarlo. Come tutti i caratteri generosi, Roberto non si sgomentava degli ostacoli che offriva l'opera cui voleva dedicarsi; il fine lo seduceva anzi e sperava di vincerli, come aveva vinto il suo carattere violento, e come ora vinceva l'amore che voleva tiranneggiarlo. I due giovani stabilirono che Franco sarebbe partito la mattina dopo per Napoli e, giunto là, si sarebbe imbarcato poche ore più tardi per Palermo, Roberto rimaneva per licenziare la servitù, trattare con i creditori e sorvegliare l'avvocato, che aveva in mano tutte le fila intricatissime di quell' arruffata matassa. Poi avrebbe raggiunto il fratello a Selinunte. Dopo uno colazione che essi fecero in comune, andarono dall'avvocato per la procura generale, pranzarono insieme e durante tutto il giorno non fecero altro che parlare d'affari; e a mano a mano che Franco esponeva i ripieghi usati per aver denari, che enumerava le ipoteche messe da più creditori sullo stesso possesso, che diceva quali terreni aveva comprati, quante case erano in costruzione, quante sfittate, Roberto si faceva più serio, ma nessuna parola di biasimo gli usciva dalla bocca. Fidati a me, - gli disse la sera lasciandolo, - e sta pur sicuro che se vi sarà qualcosa da salvare, la salverò. Poi aprendo il portafoglio mise in mano al fratello un biglietto da mille lire per le spese del viaggio e promettendogli di andare la mattina seguente alla stazione, ritornò all'albergo. Non gli pareva vero di essere in camera sua, solo, e di poter scrivere all'assente, alla donna, cui viveva castamente vicino, amandola con passione, per prepararla all'arrivo del duca; ma tutte le commozioni di quella interminabile giornata lo avevano affranto e fece uno sforzo per prendere in mano la penna. Roberto Frangipani a Velleda Bianchi. Castelvetrano per Selinunte. Mia buona signora signoraLe mandai un telegramma appena sbarcato a Napoli e uno la sera del mio arrivo a Roma e ho avuto da lei due risposte brevi, ma esse sono state la mia sola consolazione da che sono qui. Maria dunque sta bene e domanda che io torni presto a lei, spera che la mia assenza sia breve. Come fanno bene queste parole affettuose a un cuore straziato come il mio! Le nascosi lo scopo del mio viaggio a Roma, perché speravo che le notizie che me lo avevano fatto imprendere tanto a malincuore fossero false; ma ora mancherei con lei di franchezza se non le dicessi tutto. In codesta solitudine; in mezzo al mio assiduo lavoro, mi pervenne la nuova della rovina di mio fratello, duca d'Astura. Le avevo parlato poco di questo fratello col quale non ho passato altro che la prima infanzia e non ho avuto nulla di comune nella giovinezza, e poi parlandogliene avrei dovuto rivelarle un dolore che mi ha sempre angustiato atrocemente. Ora che Franco sta per giungere costà e si rassegna a incominciare una nuova vita, conviene peraltro che io glielo faccia conoscere per impedire anche che egli possa avere una influenza perniciosa sul carattere di Maria. Mio padre era il fratello minore del duca d'Astura e lo stesso divario che corre fra Franco e me, sussisteva fra quei due fratelli. Lo zio Giovanni era un uomo che si drappeggiava con compiacenza nelle glorie passate della famiglia Frangipani, - era guelfo nell'anima e si vantava che l'ultimo degli Hohenstaufen fosse stato congegnato da essi a tradimento agli Angioini, - e credevasi un gran personaggio perché occupava diverse cariche alla Corte pontificia. Del suo valore personale non gl'importava nulla e parevagli cosa superflua, dal momento che all'annunzio del suo nome, accompagnato dal titolo, vedeva spalancare dinanzi a sé tutte le porte. Mio padre, invece, fino da giovane aveva dimostrato un grande amore allo studio, un desiderio vivo di essere il creatore di se stesso. Educato semplicemente, perché non era il primogenito e non poteva sperare in un vistoso patrimonio, seguì i corsi universitarj, s'addottorò in legge e non potendo esercitare a Roma, dove la sua famiglia era fra le prime, viaggiò molto creandosi numerosi amici ovunque. In uno di questi viaggi conobbe mia madre a Palermo. Ella era una Monteleone, di un ramo cadetto, e possedeva alcune terre fra Castelvetrano e il mare, che però non costituivano una ricchezza. Era molto bella, abbastanza colta, elegante, e mio padre se ne invaghì e la sposò. Non credo peraltro che la loro unione fosse felice, perché se rievoco la mia infanzia, vedo mio padre sempre solo nel suo studio, in mezzo ai libri, e la mamma circondata da molte signore e da molti amici, fra i quali non mancava mai il duca d'Astura, nè la moglie. Essi non avevano figli e Franco viveva più in casa loro che in casa nostra. Anzi, ricordo diverse dispute fra mio padre e mia madre per questo fatto, dispute che ella troncava dicendo che Franco era l'erede naturale delle ricchezze e dei titoli del duca e occorreva lasciarlo allo zio, dal momento che desiderava di vederselo crescere accanto. Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "
A due, a quattro, ne uscivano i lavoranti col cappuccio abbassato sulla fronte, e percorsa la larga via che metteva alla strada maestra, i più per questa proseguivano diretti a Castelvetrano; molti prendevano una viottola a sinistra, che traversava campi di fichi d'India; dalle rigide pale metalliche, per andare a Campobello; alcuni invece s'internavano a destra fra le sabbie per giungere ai Pilieri o a Porto Palo. Gli occhi della donna che tenevasi sempre celata, erravano incerti da un gruppo ali' altro come se ella volesse riconoscere fra quegli operai, tutti egualmente vestiti; colui che attendeva. Ma vedendoli procedere per la loro via, senza fermarsi, ella riportava lo sgaardo sulla porta dello stabilimento. Non solo gli occhi di quella donna bruna e snella rivelavano la passione; ma anche i lineamenti contratti, e la bocca, una bocca, che si protendeva ansiosa, quasi in cerca di baci. Era il vero tipo della greca siciliana, con la pelle giallognola arsa dal sole, con la fronte bassa, ombreggiata da capelli neri e grossi, con le labbra pallide, il naso breve e dritto; di quel tipo che si ritrova intatto a Piana de' Greci, centro delle colonie albanesi di Sicilia. La composta e classica bellezza di quella donna era posta in rilievo dal costume smagliante. La donna non si moveva, non batteva palpebra, ma ogni tanto dalle labbra protese le usciva una invocazione ardente ed ella susurrava: 0111 Maria, bedda matri matriA un tratto gli occhi mandarono lampi di fuoco vedendo uscire un operaio solo, l'ultimo, dallo stabilimento, e la donna fece un movimento per allargare le rame scure della carubba; che a guisa di manto regale, strascinavano sopra un tappeto di margherite gialle. Ma invece di uscir subito dal nascondiglio, ella lasciò che l'operaio si ingolfasse per una viottola, che passava a poca distanza, e lo lasciò scomparire in un quadrato di terreno, coperto di alte piante d'arancio e colà, dopo qualche tempo, lo raggiunse; guardando da una parte e dall' altra, per tema che la sua ampia sottana rossa fosse scorta da qualcuno. Costanza! - disse una voce d'uomo. Eccomi Giovanni, - rispose la donna avanzandosi, e appena fu accanto all'operaio, con voce ansiosa, gli domandò : Come sta Alessio; l'avete veduto? Sí - rispose Giovanni; sono stato all'ospedale; ma aveva una guardia accanto al letto e non ho potuto parlargli. Come sta, parlate; non vedete la mia ansia? Pazienza, Costanza mia, Alessio mi parve poco aggravato, perché mi riconobbe nella corsia e mi fissò con certi occhi da uomo vivo che cova un pensiero di vendetta. Madonna mia! - esclamò Costanza. - Se guarisce, se posso rivederlo, vi darò i coralli, gli orecchini di perle, tutto quello che ho. Che strazio di non poterlo assistere, che strazio! Buona sera. Costanza, - disse brevemente Giovanni. Lunedì tornate qui a quest'ora; vi dirò qualcosa. Tenete; - fece la donna ponendogli in mano una moneta di cinque lire. L'operaio la ripose nel taschino della sottoveste e sparì. 0112 Costanza rimaneva ancora per qualche tempo celata nell'aranceto e poi a testa bassa tornava alla villa, avendo cura di prendere la via della spiaggia, e di mettere in evidenza la sottana rossa. Di dove venite; Costanza? - le domandò Velleda dalla sala da pranzo, vedendola avanzare nel viale dei palmizj. Sono stata a preparare la capanna del bagno, - rispose la donna senza alzar gli occhi. Costanza, conducimi in giardino, - disse Maria prendendola per mano. - Lo zio Franco non è ancora giunto e io non ho passeggiato oggi. No, - disse Velleda che non aveva pace se la bambina si allontanava un istante, - tu starai qui, Maria; lo zio merita che tu gli usi dei riguardi. Signora. - disse Costanza, - per tanti anni ho badato io sola alla signorina; se ora non avete più fiducia in me, lasciatemi tornare al mio paese. Sapete Costanza che io mi uniformo in tutto e per tutto alle istruzioni che vengono da Roma. Il signor Roberto mi ha scritto di non lasciar uscire di casa Maria con nessun altri che con me, ed io mi attengo a quest'ordine. La donna si morse le labbra e dette a Velleda una guardata bieca. Maria; per consolarla del rifiuto sofferto, le disse sottovoce : Quando il babbo sarà tornato, allora tutto cambierà e io uscirò di nuovo con te. Anche lo zio Franco ha ordinato che io non esca di casa senza Leda e altri. È tutta colpa dei malandrini, che metton paura alla gente. A Maria era stato detto che il paese era malsicuro che i malandrini s'eran mostrati in diversi punti, affinchè non si sgomentasse della presenza dei carabinieri alla villa e anche perché fosse cauta. Costanza erasi fatta livida e balbettava; 0113 Darei la vita per difender la mia Maria; nessuno le vuoi più bene di me! Lo so, Costanza, ma perché esporre Maria inutilmente? Nel giardino può nascondersi qualcuno e farle paura. Noi tutti, che le vogliamo bene, dobbiamo risparmiarle ogni spavento. Velleda parlava in tono basso, ma fermo, e intanto fissava la nutrice per farle capire che la sua insistenza era intempestiva. Costanza stava per replicare; Velleda se ne accorse e accennando il duca che giungeva in compagnia del Varvaro, le disse: Andate a preparare le camera nostra e dite al cuoco che mandi in tavola. Costanza uscì a testa bassa, umiliata; ma appena fu nell'anticamera rialzò fieramente il capo e fece con la mano un gesto di minaccia all'indirizzo di Velleda. Me le pagherà tutte, quella prepotente, tutte! disse accompagnando le parole con uno sguardo feroce. - Io piango lagrime di sangue, e mi struggo come un cero ma lei, lei piangerà gli occhi. Che possa dannarmi, se non mi vendico! Questa minaccia era pronunziata a due passi dalla stanza da pranzo, dove Velleda con volto sereno accoglieva Franco e il Varvaro. Per un accordo preso fra loro non si parlava mai in presenza di Maria degli avvenimenti che potevano turbare la mente della bambina. Così il pranzo fu lieto in apparenza. Franco in quel giorno aveva fatto col " Selino " una gita fino a Porto Empedocle, conducendo seco i due architetti tedeschi, e narrava le piccole avventure della giornata. Maria si divertiva a sentir lo zio che imitava i due tedeschi quando volevano parlar italiano e rivolta continuamente a lui, lo interrogava per farlo ancora parlare. Il Varvaro approfittò di quel momento per dire a Velleda: 0114 Signora, oggi è stato da me il giudice istruttore, le cose si complicano. Velleda impallidi. - Come mai? - domandò. - - Uno dei malandrini arrestati ha fatto delle rivelazioni. Egli ha indicato esattamente come era stato ideato l'attacco allo stabilimento. Alessio non aveva nulla che vedere con quel fatto. L' affare della villa è cosa separata. - E Alessio, Alessio non parla? No, finge di non potere. Velleda avrebbe voluto sapere di più, ma aveva paura di destare l'attenzione di Maria e non rivolse altre domande al direttore. Era ansiosa di riprendere la conversazione e non vedeva il momento che il pranzo terminasse per esser più libera di parlare. Invece Franco aveva riportato dalla sua gita un grande appetito e si faceva riservire le pietanze. Tutto gli pareva squisito : il pesce, la caccia e specialmente un'insalata che riprese tre volte. Finalmente le frutta furono messe in tavola e Velleda ordinò a Saverio di portare il caffè sulla terrazza. Nel salire le scale, ella trovò maniera di dire al duca: Mi faccia il piacere, occupi Maria un momento in sala; io ho bisogno di parlare col Varvaro; dopo le dirò tutto. Franco seppe attrarre la bambina verso una tavola centrale, sulla quale erano posate molte opere illustrate. Apertane una sull'Egitto, egli prese a descriverle Alessandria, il Cairo, le moschee, e Maria non si mosse più dal suo fianco. Intanto Velleda domandava al Varvaro: Mi dica il resto, mi dica tutto! Ho poco più da narrarle, - rispondeva l' altro. Pare che il caso abbia fatto sì che il tentativo 0115 di ratto coincidesse con l'attacco allo stabilimento. Addosso a uno degli arrestati si sono trovate lime e grimaldelli. Quel ladro, messo alle strette, ha confessato tutto. I malandrini, sapendo che il signor Roberto era a Roma, e che io avevo fatto delle riscossioni importanti, si suppone avessero stabilito di penetrare nello stabilimento nel cuor della notte, d'impossessarsi dei guardiani e di svaligiare l'amministrazione. Essi erano già nello stabilimento, rimpiattati in un magazzino, quando hanno udito le fucilate alla villa e il suono della campana. Vedendo uscire i guardiani, hanno creduto di poter meglio compire il furto, mentre lo stabilimento era quasi abbandonato. Ecco quello che ha confessato il malandrino e a questa rivelazione lo ha spinto il timore di esser complicato in un affare più grave: quello del rapimento della signorina. Inoltre, pare provato che i malandrini non avessero nessun rapporto con Alessio, il quale la sera del fatto fu visto fino alle nove in un osteria a Castelvetrano, mentre gli altri erano già a quell' ora nei dintorni dello stabilimento e non si sa che sieno mai stati in città negli ultimi tempi. Ma Alessio allora? Probabilmente avrà altri compiici; ma il giudice istruttore è sicuro che il movente dell'attacco allo stabilimento era il furto, mentre qui era invece la vendetta. Ma come è possibile che tanta gente congiuri contro di noi! - esclamò Velleda presa dallo sgomento. I carabinieri, mentr'ella parlava, si mostrarono nel viale, tornando da una perlustrazione. Oh! se si potesse vivere in pace come prima! disse la signora. - Tutti questi timori che ci agitano di continuo, questo malvolere che ci circonda, queste cupidigie insensate che si manifestano con tentativi di rapine e con uccisioni, disgustano della vita e del 0116 soggiorno in questo luogo. Povero signor Roberto! Egli si studia con ogni mezzo di fare il bene e raccoglie invece dolori! E per il primo maggio, a proposito? Ha ricevuto istruzioni? Sì, doman l'altro gli operai lavoreranno fino a mezzogiorno soltanto. Questo è l'ordine. In quel giorno però scemeranno una parte delle sue responsabilità, aggiunse il Varvaro. Come mai? - domandò Velleda. La sera giungerà il signor Roberto: domattina egli parte da Roma. E non me lo diceva! - esclamò Velleda. Avevo ordine di non rivelare a nessuno l'arrivo di lui. Egli non vuole neppure la carrozza alla stazione. Andrà a dormire dai Moltedo; nella sera parlerà con il giudice istruttore e forse con Alessio, che domani sarà tolto dalla corsia comune dell'ospedale, perché nessuno assista alle interrogazioni che vuol rivolgergli il signor Roberto. Da Roma egli ha disposto tutto. Oh! creda, se fosse stato qui, nessuno avrebbe osato turbare la nostra quiete. Egli incute timore e rispetto; egli sa far rispettare la sua persona e i suoi averi. Maria corse sulla terrazza per chiedere un pezzo di zucchero e Velleda si alzò per darglielo. Avrebbe voluto interrogare ancora il Varvaro, sentirlo ancora parlare di Roberto con affetto e ammirazione, ma parevate di aver lasciato troppo tempo solo il duca e rientrò in sala. Ella prese un ricamo: una portiera di raso sulla quale trapuntava grandi fiori in seta, e curva su quella rimase a parlare con Franco. La felicità la rendeva eloquente, e senza dire che Roberto sarebbe tornato tra due giorni gli dipingeva con vivaci colori l'esistenza lieta che avrebbero menato allorché suo fratello fosse stato in mezzo a loro. - Tutto langue ora in questo luogo, - ella diceva, 0117 perché l'anima manca; ma vedrà come ogni piccolo avvenimento si cambia in festa, come ogni cosa risorge. Mentre parlava pareva a Franco che dietro la pelle alabastrina del volto di Velleda si accendesse una face, illuminandola dall'interno. Quella face è l'amore, - pensava Franco fissandola con sorda gelosia. - Basta che senta parlar di lui, che ne parli, perché ella si trasformi. Le spariscono dal volto le tracce delle sofferenze, le svaniscono dalla mente i timori e le ansie; ella rivive, palpita e ogni sguardo contiene un inno di adorazione, ogni parola è una carezza per l'assente. Oh! che adorabile, che unica amante deve essere quella donnina, che si concede tutta col pensiero, che non ha finzioni, non ha reticenze! E la guardava sempre più avidamente, fingendo di seguire con l'occhio i fiori delicati che pareva sbocciassero sotto le sue manine bianche, senza anelli, trasparenti come il volto; quelle manine di cui Franco sognava le carezze blande sulla faccia e nei capelli. A un certo momento il Varvaro si alzò per ritornare alla sua casa e il duca dovette seguirne l'esempio. Tutti e due, ogni sera prima di andarsene, facevano una ispezione al giardino dalla parte interna e poi da quella esterna, insieme coi carabinieri e affidavano a Saverio, che ora dormiva alla villa, la cura di chiudere le porte. Soltanto dopo essersi assicurati che non vi era nulla da temere, andavano allo stabilimento. Essi non permettevano che Velleda si esponesse più, e la signora, per non lasciare sola Maria in camera, vi si rinchiudeva insieme con lei e mentre la bambina dormiva, ella scriveva o leggeva. Costanza dormiva, come si è visto, nella camera accanto, e Saverio, sul ripiano della scala, sopra una materassa che poneva attraverso all'uscio della camera in cui Velleda vegliava. 0118 La felicità quella notte impedì alla signora di sentir la stanchezza. Ella rimase lungamente seduta a una scrivania, rileggendo la lettera memorabile di Roberto, quella cui ella non aveva potuto rispondere subito. Gli aveva scritto però il giorno dopo, senza reticenze, senza false vergogne, col cuore. Non s' era mostrata sorpresa della confessione dell'affetto di Roberto, ne della sicurezza che egli dimostrava di esser corrisposto. Accettava i voleri di lui perché non aveva più volontà propria, ne vita propria; perché soltanto accanto a lui poteva vivere. Dal momento che questo grande affetto mi ha soggiogata, - avevagli scritto, - io ho sentito che nel mondo sussisto la felicità, che la vita ha le sue gioie; come il deserto ha i suoi fiori, e che sui ruderi di una esistenza barbaramente angosciata; può costruirsene una nuova. E la felicità che provo io non la vedo limitata al presente, ali' età delle illusioni, alla breve gioventù che ci riinane; ma io la vedo estesa ai tardi anni della vecchiaia, la vedo raggiare dai nostri volti rugosi, estrinsecarsi in una grandiosa opera d'amore in cui i nostri cuori si rinnoveranno sempre, sempre giovani fino alla pausa suprema, alla quiete della tomba. In questi giorni stessi di angosce continue, io sento la carezza del suo affetto, sento la forza che m'infonde, la lucidità che presta al mio cervello; sento il legame che stabilisce fra noi, a tanta distanza, e che mi sostiene e mi sprona a proteggere tutto ciò che le è caro. L' assicurazione che ella mi da, che senza un ostacolo vivente mi avrebbe fatto il dono del suo nome, mentre mi strappa lacrime di tenerezza, non desta in me nessuna meraviglia. La stima di cui mi circonda; il dominio assoluto che mi ha dato sulla sua casa, la fiducia che ha in me, grande, completa, mi dicono ben chiaro che, liberi entrambi, ella mi avrebbe affidato il suo nome che io avrei accettato umilmente, sentendo tutta la grandezza 0119 del dono e tutta la felicità di riceverlo. Perché io non mi sento umiliata del mio passato. Se sono stata vittima delle colpe altrui, non ho fatto nulla che la coscienza mi rimproveri. E in mezzo alle tentazioni di una esistenza agitata credo mi abbia salvato il presentimento che un giorno avrei incontrato un uomo buono, onesto, dinanzi al quale dovevo poter alzare serenamente gli occhi, cui volevo poter offrire un cuore degno del suo. E questo giorno è venuto e io ho ora un premio insperato che mi compensa della vita solitària, dolorosa; che mi compenserebbe di mille martirj più atroci di quello sofferto. Io sono, mio buon signore in atteggiamento umile dinanzi a lei, come Maria all'annunzio dell'angelo, perché mi piace ringraziarla di tutti i doni che sparge sul mio capo, perché sono commossa; ma non chino la fronte contrita come la Maddalena dinanzi al Signore, il rossore non mi copre le guance; io sono degna di lei. Questo aveva scritto Velleda al suo buon signore, come ella lo chiamava qualche volta soltanto, ma le pareva di non aver saputo esprimere tutta la gioia che provava il suo cuore, di non aver saputo sciogliere l'inno di riconoscenza, che, come melodia divina, sentiva fluttuare nell'anima, e ripensando a quella lettera, guardava la penna posata accanto al calamaio, considerandola come strumento insufficiente a esprimere con parole un sentimento più grande delle cose che si prestano alla descrizione. E intanto che ella affrettava col pensiero il ritorno di Roberto e pregustava la gioia di rivederlo senza rammentare che le ore trascorrevano mentr' ella meditava, un'altra creatura vegliava, a pochi passi da lei; vegliava agitata, rosa dall'amore e dall'odio, due sentimenti che s'erano imposessati del suo cuore. Quella vegliante era Costanza. Da otto anni, cioè dal tempo della nascita di Marla 0120 ella era in casa di Roberto Frangipani. Egli l'aveva fatta venire dalla Piana de' Greci, il paese che dà le più belle nutrici alle famiglie signorili della Sicilia. Costanza aveva perduto il suo bambino un mese prima di partire da casa, e il buon posto che aveva trovato parve a lei e al marito una fortuna. La balia aveva allora diciotto anni ed era un fiore. La morte della signora, il grande affetto che Roberto aveva per la sua piccina, crearono a Costanza una situazione invidiata e comoda alla villa. Ella abitava al primo piano, era servita, pranzava sola e il padrone le faceva continui regali. Ebbe la fortuna che Maria crescesse bella e forte, e di questo si faceva un merito alla nutrice. Chiese un aumento di salario e l'ottenne; era vana ed ebbe vesti sfarzose, ricamate d'oro alla foggia del suo paese, e gioielli come ne portano le paesane della Piana dei Greci. Il benessere, la vita comoda, la speranza di non lavorare più la fecero affezionare alla casa e alla bambina; anzi l'amore per Maria si fece dispotico ed esclusivo; non voleva altre donne in casa, e al marito, che la richiamava supplichevolmente in famiglia, rispondeva inviando denaro perché comprasse terre, ma non movevasi di dov'era. Nell'esser sempre vicina al giovane signore, Costanza vagheggiò il pensiero di farsene amare, di essere la distrazione, se non la consolazione della vita vedovile di lui, ma dovette convincersi che Roberto non la guardava neppure e se non l'allontanava era soltanto perché credeva che nessuna donna avrebbe potuto voler bene alla bambina quanto lei, che avevale dato il suo latte. Di questo disprezzo della sua bellezza, Costanza sentì sempre una ferita alla sua vanità muliebre, ma la speranza di sanarla un giorno e il tornaconto che trovava nel rimanere in quella casa, la indussero a celarla con cura. Durante tutta l'infanzia di Maria, ella dominò alla villa. Il padrone, per non staccarla dalla bambina, la conduceva 0121 seco nelle gite in mare, in carrozza e se andava a Palermo, a Napoli o altrove, Costanza lo accompagnava sempre. Il marito di lei, vedendo aumentare ogni anno i loro possessi, aveva finito per consolarsi della lontananza della moglie e non la richiamava più. Spesso, fino dal tempo in cui Maria aveva cinque anni, Robetto aveva voluto a fianco una signora, ma Costanza aveva tanto pianto, si era tanto disperata, che il padrone commosso avevale lasciato la cura esclusiva di Maria. Ma quando la bambina ebbe circa sette anni Roberto chiamò un giorno Co' stanza e le disse: La signorina deve essere educata ed istruita. Se volete continuare a starle vicina, dovete assuefarvi al pensiero che in casa venga una istitutrice. Se vi opponete, se istigate la bambina contro di lei, vi rimanderò alla Piana de' Greci. Questa volontà ferma fu significata con un tono calmo; che non ametteva replica e Costanza chinò il capo e non dette in ismanie. Fu allora che Roberto scrisse a Firenze per avere una istitutrice. Per più mesi non si parlò più dell'arrivo di quella, ma in quel tempo sopravvenne un cambiamento notevole nei sentimenti di Costanza. Alla villa era stato chiamato a lavorare il più abili: falegname dello stabilimento: Alessio, al quale il padrone voleva molto bene. A lui, per dargli un salario maggiore e anche per poterlo meglio sorvegliare; aveva affidato un lavoro importante, che consisteva nel rivestire di scaffali il suo stadio per collocarvi la biblioteca, che. cresceva continuamente, poiché Roberto riceveva invidi libri quasi ogni giorno. Quelli che si riferivano alla vinicoltura, alla chimica erano tutti allo stabilimento ma i libri di arte, di letteratura, di storia di archeologia stavano alla villa, perché il giovane studioso aveva diviso in due parti la sua vita: una dedicandola al lavoro 0124 - Addio, e tu come ti chiami? - domandò Alessio. Costanza Arcanica. Costanza la strega, ti chiamerò io. Perché? Non lo so; a te, mi pare, debban somigliare le streghe. Tu sarai orribile da vecchia, Costanza. E tu sarai sempre bello, Alessio. La voce di Maria si fece udire dalla sala, e Costanza uscì in fretta dalla stanza. La mattina dopo- l'operaio s'era appena rimesso al lavoro che la donna comparve. Buon giorno, Alessio, - disse. Buon giorno, strega. Ti ho stregato forse? Oh! no, - ribattè il giovane con fare sprezzante, Ci vogliono altre donne che te per un pari mio. Costanza abbassò il capo umiliata. Nessuno mi ha detto mai che fossi brutta. Bella non sei, - disse l'operaio avvolgendola in uno sguardo freddo sotto il quale Costanza tremò da capo a piede e non ebbe più coraggio di restare in quella stanza. A mezzogiorno trovò il mezzo di andargli a portar la colazione nel tinello e lo serviva attentamente. Alessio la lasciava fare e ogni tanto le gettava una parola dura, sprezzante per vederla fremere da capo a piede, per fissarla negli occhi lampeggianti. Perché non te ne vai, come dianzi? - le domandò a un certo punto. Perché preferisco il tuo sprezzo alla tua lontananza ; perché mi hai messo il fuoco addosso. E come lo vuoi spegnere quel fuoco? Con le carezze, - rispose ella, - e con un gesto rapido del braccio destro, gli cinse il collo e lo baciò sugli occhi. Poi fuggì ansante in giardino premendosi il cuore, allargandosi il colletto dalla camicia, come se si sentisse soffocare. 0125 In tutto il giorno non ritornò nella stanza in cui lavorava Alessio, ma la sera era ad attenderlo sul viale della villa, mentre Maria giocava alla palla a poca distanza. Addio strega! - le disse l'operaio quando le fu vicino, - L'hai spento il fuoco? No, ardo più che mai da che ho posato la bocca sul tuo volto, Alessio. Egli fece una mossa indifferente con la spalla e si mosse per andarsene. Ella lo trattenne e gli disse: Alessio, abbi compassione di me; sarò la tua schiava, amami. Ti farò felice. Ho in serbo tesori di tenerezza e li spargerò tutti sul tuo petto. Alessio, amami! Ne riparleremo, - rispose lui e avvolgendosi nel mantello breve, si mise a camminare cantarellando. Costanza rimase a guardarlo per un pezzo, mentre si allontanava fra le piante d'appio e le palmette, ferma e rigida come una statua; poi umiliata, a testa bassa tornò accanto a Maria. Nella notte seguente non dormì mai. Stendeva le braccia in cerca di lui, protendeva le labbra e lo vedeva nelle tenebre sempre dinanzi, con quel ghigno di sprezzo sulle labbra, quegli occhi affascinanti e quei muscoli di uomo forte. Se le veniva fatto di figurarsi che la stringesse fra le braccia poderose, sentiva un brivido correrle per la schiena e intravedeva mille voluttà ignorate nella breve vita coniugale. Oh! se mi amasse! - diceva mordendosi le mani, e le parole sprezzanti di lui tornandole alla memoria acuivano i suoi spasimi amorosi. Era "una febbre violenta che l'aveva assalita, uno di quei ribollimenti improvvisi del sangue che si verificano nelle nature ardenti, condannate a una lunga castità. Così smaniò tutta la notte e all'alba girava per la casa silenziosa iu attesa di Alessio, da cui non osava sperare 0126 conforto, spinta da un desiderio prepotente a rivederlo a implorare da lui la felicità. Nella mattina non potè mai parlargli, perché il padrone era insieme con Alessio, sorvegliandone e dirigendone il lavoro, e in quell'attesa la smania di Costanza si convertì in spasimo. Appena ella vide il padrone uscir fuori della villa, entrò di corsa nella stanza ov' era Alessio, e, senza parlargli, gli buttò le braccia al collo, baciandolo furiosamente sulla bocca. Strega, vattene! - le diceva Alessio senza però respingerla, lusingato da quell' ardente passione che aveva destato nella donna e infiammato dai baci di lei. Costanza non gli dava retta e continuava a coprirlo di carezze. Ora lo baciava sul collo, su quella linea scura che lo circondava come un nastro e diceva fra i baci : Come sei bello! Amore! Vita mia! Da quel momento die ella non si vide più respinta, correva di continuo da Alessio a baciarlo. Ma quei baci non smorzavano il fuoco che la consumava; erano a quella fiamma nuovo alimento. Un giorno Alessio le disse fissandola: Dimmi, strega, quando si fanno le nozze? Ella credè impazzire, benché fosse preparata a quella domanda. Stasera, durante il pranzo del padrone; aspettami nella grotta dopo la capanna del bagno; non ti far vedere da nessuno, sii prudente. Egli fece un gesto come per dire che lasciasse fare a lui: non era un novizio, e con la testa le indicò la porta. Al tramonto s'incontrarono nella grotta, ove l'acqua del mare penetrava nei giorni di burrasca, lasciandovi un letto d'alghe. E su quel letto umido, odoroso e cosparso di conchiglie e di frammenti marmorei, quelle due creature quasi selvagge si unirono senza pronunziare 0127 una parola. Costanza tenne tutte le sue promesse, e quando si lasciarono ebri ancora, egli le disse brevemente : - A domani sera, strega. Ah! dunque tu mi desideri ancora! - ella esclamò trionfante. Alessio non rispose e si allontanò sollecitamente per raggiungere la distesa delle alte piante di fichi d'India, fra le quali era più facile camminare senza esser veduto. Costanza lentamente tornò a casa pallida, con gli occhi ardenti; e salita in camera sua si gettò in ginocchio a pregar la Madonna che proteggesse il suo amore e le serbasse Alessio. Ella non aveva neppure il sospetto di commettere un sacrilegio, tanto la sua religione era impastata di reminiscenze pagane penetrate nella sua coscenza col sangue e di superstizione alimentata giornalmente dalla ignoranza. Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!
Il ponte levatoio fu subito abbassato, e il cavaliere e la sua scorta penetrarono sotto le vôlte di pietra della feudale dimora. Il Conte non riconobbe a prima vista nel bel cavaliere, vestito di maglia, il giovinetto partito poco prima da Porciano in cerca di gloria; ma allorché Leone alzò la visiera dell'elmo, egli gli buttò le braccia al collo, chiamandolo: - Figlio, figlio mio! Allora il cavaliere chiese che fosse avvertita la sua sposa, e inginocchiatosi dinanzi a lei disse: - Per te ho combattuto e vinto, diletta del mio cuore. Partendo di qui, mi sono unito ai cavalieri di Carlo d'Angiò, che movevano alla conquista del reame di Sicilia. Ho combattuto a Tagliacozzo, nelle prime file, sempre col nome tuo sulle labbra; ho fatto strage di nemici, e il re, per ricompensarmi, mi ha creato cavaliere e mi ha investito di un feudo, cui ha dato il nome di Forte. Oretta, sono degno di te; supplica tuo padre che egli esaudisca i nostri voti. Oretta non ebbe bisogno di parlare; il Conte, alzatosi, aveva presa la mano di lei e l'aveva posta in quella del prode cavaliero. Alcuni giorni dopo furon celebrate le nozze; il romito non vi assisté. Egli era sparito senza lasciar traccia di sé, sparito per sempre. Leone raccolse la croce di legno, costruita da quelle sante mani, e volle che essa fosse collocata nella cappella in memoria di colui che era stato il suo protettore. Il Conte, ormai guarito, aveva ripreso la sua vita attiva di cacce e di scorrerie, e visse lunghi, lunghissimi anni vedendo Oretta felice con lo sposo di sua scelta, e con i suoi numerosi figli. La sorgente scoperta dal romito s'era esaurita, ma il Conte morì di vecchiaia e non ebbe più bisogno di ricorrere a nessun'acqua curativa. Leone, dopo la sua morte, amministrò saggiamente il feudo della moglie, e l'affetto unì quei due cuori in modo indissolubile per tutta la vita. Il professor Luigi, quando la Regina ebbe terminato di narrare, le fece al solito i complimenti, e quindi volle sapere dove si trovava Porciano. Cecco si offrì di accompagnarvelo il primo giorno di festa. Dopo questo, il discorso fu riportato sul grande avvenimento della settimana, che occupava grandi e piccini: sul matrimonio dell'Annina. - Che farà ora? - domandò Vezzosa. - Ve lo dirò io. L'Annina, in questo momento, è a tavola, - disse il professor Luigi. - Ma se la signora Durini pranza allo scoccar di mezzogiorno! - Non vi ho mica detto che pranzava alla villa. Oggi i proprietarî dell'albergo, che sono a Camaldoli, festeggiano la sposa futura con un pranzo sull'erba, verso l'eremo. Io non sono profeta; ma un uccellino, che mi onora delle sue confidenze, me lo è venuto a dire mentre leggevo in giardino. - Ed io aggiungerò, - disse Beppe, che era stato ad accompagnare i forestieri e tornava in quel momento, - che il signor professore sbaglia. Il pranzo c'è stato, ma a quest'ora gli invitati lo hanno quasi digerito e, se non sbaglio, si divertono a lanciar razzi e dar la via a palloni. Dirò di più, e questo il signor professore non lo sa: l'Annina ha trovato sotto il tovagliolo un orologio e una catena d'oro. La Carola, che aveva ascoltato in silenzio, incominciò a singhiozzare. - Ohè, ci sono i lucciconi? - domandò Maso. La Carola non rispose, e i bimbi rimasero a bocca aperta. In famiglia non vi era nessuno che avesse l'orologio d'oro. Il capoccia e i fratelli avevan certi cipolloni d'argento, buoni per cuocerci le uova, ma che formavano l'ammirazione dei ragazzi. Gigino stette un momento pensieroso e poi disse: - L'Annina mi vuol tanto bene: se glielo chiedo, me lo darà. - Aspettalo! - gli risposero. - Vedrete! Tutti risero alla scappata del bimbo e la veglia si sciolse.
Fu abbassato il ponte levatoio e un drappello di assediati, pallidi e macilenti, si avanzò verso i valletti del signore di Poppi, i quali consegnarono ai fronzolesi la bionda fanciulla. Il ponte levatoio fu rialzato, e Chiara venne condotta nella sala d'armi, dove passeggiava inquieto e turbato il conte di Fronzola. - Che vieni a far qui? - le domandò il signore. - Vengo a portarvi la salvezza, se la rôcca può resistere ancora. - Non far nascere nel mio cuore vane speranze, - disse il Conte. - La fame c'incalza e fra breve non avremo più forza di resistere. - Questa forza, signore, ve la saprò procurare io con l'aiuto della Vergine Santissima. Destinatemi un luogo ove io possa esser al coperto dalla curiosità, e ad ogni ora venite a prendere quanto può occorrervi di vettovaglie. Il conte di Fronzola aveva poca fiducia in Chiara e credeva che ella macchinasse un tranello per vendicarsi di essere stata espulsa dal castello; ma, ridotto a quei ferri, credé obbligo suo di non respingere l'aiuto che ella gli offriva. Tuttavia, a fine d'impedirle di nuocere agli assediati, la rinchiuse in una stanza attigua alla sala, che prendeva luce dalla vôlta, e si allontanò. Dopo un'ora il Conte andò ad aprire e fu molto meravigliato di vedere la stanza, che prima era vuota, essere ora piena di mucchi di farina, di cacciagione e di agnelli scannati. - Con quali arti ti sei procurata tutto questo ben di Dio? - domandò. - Con l'aiuto della Vergine Santissima, come mi procuravo tutto quello che dispensavo ai poveri del contado. Il signore riprese coraggio e ordinò subito che fosse fatto il pane e arrostita tutta la carne, che dispensò ai difensori. Intanto la stanza ove stava Chiara si riempiva sempre, ora di vino, ora di carbone, ora di sassi per lanciare sugli assedianti, e la rôcca resisteva validamente agli attacchi del conte Guido, il quale, dopo lunghi mesi d'assedio, stanco alla fine di tanta resistenza, tornò a Poppi insieme con i suoi, e Fronzola riprese a fronzolore con grande molestia di lui. Figuriamoci se, dopo quel fatto, Chiara si ebbe ringraziamenti dal conte e dalla contessa Tarlati! La chiamarono col nome di "liberatrice", e se fosse stata figlia loro, non avrebbero potuto amarla di più. Anzi, per non separarsi mai più da lei, le offrirono di sposare il loro Guglielmo. Le nozze furono celebrate con molta pompa, e quel giorno, quando Chiara cinse il grembiule, la Madonna glielo fece trovar pieno di pietre preziose, degne di una regina di corona. Così non entrò povera nella famiglia dei conti Tarlati, di cui fu la benedizione, poiché col grembiule miracoloso non solo sollevò tutti i miseri del contado, ma assicurò ai conti di Fronzola la ricchezza. Disgraziatamente, quando ella era già vecchia, un incendio distrusse le stanze di madonna Chiara e anche le vesti di lei, nonché il grembiule miracoloso, che era stato la salvezza del castello. Questo, dopo la morte di madonna Chiara, cadde in potere del conte Simone di Poppi, che lo prese con l'aiuto de' fiorentini. Il Conte ne rese grandi grazie al comune di Firenze, e andando egli in quella città vi mandò la campana di Fronzola in segno di ricordanza. - Oh, se l'avessi io pure un grembiule come quello! - esclamò l'Annina. - Che ne faresti? - domandò la nonna. - Vorrei farvi stare bene tutti e empir la casa di tanta roba che non si potesse finire per anni e anni. Me lo rammento, sapete, quando càpitano gli anni cattivi, quando le raccolte vanno male, quando il babbo si arrabbia e soffre e voi vi affliggete. - Bambina mia, tutto non è sempre sereno nella vita, e i giorni tristi sono più frequenti di quelli lieti; ma quando si lavora e si cerca, nell'adempimento del proprio dovere, il coraggio per resistere alle avversità, si finisce per vincere l'avversa fortuna. Il grembiule miracoloso sarebbe una bella cosa, ma noi dobbiamo invece affidarci al lavoro, nient'altro che al lavoro. La terra è il nostro grembiule miracoloso; le affidiamo un chicco di grano e ci rende una spiga granita. - Le vostre parole sono d'oro, mamma! - esclamò Cecco facendosele accosto, - e se i vostri nipoti le ricorderanno, sapranno certamente trionfare sempre in ogni avversità. - Per quest'anno, - disse Maso che era un po' superstizioso come molti contadini, e non sentiva parlar volentieri di disgrazie, - se Dio vuole, la raccolta promette bene. Già siamo alla porta co' sassi, e se non si scatena qualche diavolo contro di noi, potremo contarlo fra gli anni migliori. - Ma anche se fosse cattivo, - ribatté la vecchia, - voi trovereste la forza di lottare contro l'avversità. Avete fortuna di volervi bene, di star d'accordo, e l'unione nella famiglia è già una forza. Le famiglie disunite sono quelle che vanno in perdizione. Vi rammentate dei Ducci? Avevano un podere che era una fattoria, braccia robuste per lavorarlo; ebbene! Non andavan d'accordo, ognuno tirava l'acqua al suo mulino, e ora son tanti pezzenti. - A proposito, nonna, - disse l'Annina, - m'ero scordata di dirvi che oggi, su a Camaldoli, abbiamo visto il capoccia dei Ducci, il cieco, guidato dal nipotino. - L'avete incontrato lassù? E che faceva? - domandò la Regina. - È venuto dall'ispettore Carli a chiedere l'elemosina. Aveva il bussolotto di stagno in mano, proprio come gli accattoni di professione. - E i figliuoli lo lasciano andare a chieder la carità? - domandò commossa la Regina. - I figliuoli sono ora tutti sparsi per il mondo; - rispose Maso, - i nipoti si sono allogati per garzoni nei poderi, e se il capoccia mangia, è in grazia della gente caritatevole, se no sarebbe morto di fame, lui e quel piccinuccio che gli hanno lasciato. - Se lo aveste conosciuto, quel capoccia, una trentina d'anni fa, - riprese a dire la vecchia, - sareste anche più meravigliati di vederlo elemosinare. Pareva il padrone di questi posti. Non c'era fiera, non c'era mercato, non c'era festa dove non si recasse, guidando un cavallo che andava come il vento; e spadroneggiava, dava consigli, s'intrometteva nelle contese fra contadini, insomma era per tutto, sapeva tutto, pagava da bere e da fumare a quanti gli si accostavano. Intanto i figliuoli, seguendo le sue orme, trascuravano il podere, e la povera massaia se ne stava a casa a piangere e a disperarsi. È morta di dolore, quella infelice; poi, sparita lei, che lavorava, tutti sono andati in rovina, e quel che è peggio, hanno preso a odiarsi scambievolmente. I figli accusavano il padre, questi accusava loro, e adesso tutti soffrono. Brutta fine hanno fatto, ma il loro esempio è stato giovevole a molti, e ora, quando si vede fratello questionar con fratello o padre con figli, si dice: "Faranno come i Ducci". I bimbi avevano ascoltato con il solito religioso silenzio le parole della nonna, e Gigino, per mostrarle che ne aveva capito il significato, tirò per la manica l'Annina, che gli era seduta accanto, e le disse: - Io ti voglio tanto bene! Quella scappata del Rossino fece rider tutti, e l'ilarità dileguò nell'animo dei bimbi il ricordo delle meritate sventure della famiglia Ducci.
La partita al bigliardo si era interrotta; il bell'Ernesto, colla stecca fra le gambe e un mozzicone di sigaro spento in un angolo della bocca si era abbassato al livello della attenzione di quei provinciali; la padrona del negozio si asciugava il sudore ... Il signor Intendente gongolava, gongolava ....
Le serve avevano abbassato il lucignolo in modo che la luce fosse debolissima. Surama dormiva profondamente. Solo la sua respirazione era un po' affannosa come se qualche cosa le gravitasse sul cuore. Il fakiro contemplò per alcuni istanti il viso bellissimo e roseo della giovane indiana, poi fece un gesto di dispetto. - Maledetto sia il giorno che io ho disseccato il mio braccio - disse. - Vile mestiere è quello del fakiro! ... Ah! - Tornò rapidamente nel salotto, assicurò la fune ad un gancio delle imposte e mandò due sibili. Un istante dopo un uomo scavalcava il davanzale, tenendo stretto fra le labbra uno di quei terribili coltelli indiani chiamati tarwar. - Che cosa vuoi gussain? - gli chiese, balzando agilmente nella stanza. - Che mi aiuti - rispose il fakiro. - Io non posso usare che un solo braccio. - Vuoi che uccida? - No: il padrone non vuole. Nessun delitto per ora. Aiutami a portare via la fanciulla. - Guidami. - Il fakiro rientrò nella stanza di Surama e gliela indicò dicendogli: - Fa' presto: i fiori della carma-joga addormentano. - L'indiano strappò dal letto la coperta di seta bianca, levò con un gesto brusco le lenzuola, avvolse Surama che pareva colpita da una specie di catalessi e lasciò subito la stanza borbottando: - Maledetti fiori! Un momento ancora e m'addormentavo anch'io! ... - Afferrò Surama fra le braccia secche nervose, scavalcò il davanzale, s'aggrappò con una mano sola alla fune e si lasciò scivolare giù. Il fakiro quantunque avesse la destra anchilosata e stringesse sempre nella destra il ramoscello di mirto sacro, l'aveva subito seguìto. Dieci uomini armati di lunghe carabine e di scimitarre li aspettavano in mezzo alla via. - È fatto il colpo? - chiese uno. - Sì. - In marcia allora. - Ed io? - chiese il fakiro. - Seguici. - Un palanchino sorretto da quattro hamali era pronto. Surama sempre avvolta nella coperta di seta bianca vi fu adagiata, le cortine furono abbassate, poi il drappello si mise rapidamente in marcia preceduto da due mussalchi che portavano delle torce accese. Nel palazzo nessuno si era accorto di quell'audace rapimento compiuto nel colmo della notte e nel più profondo silenzio. I rapitori percorsero diverse vie oscure e deserte, poi si arrestarono dinanzi a un vasto caseggiato che rassomigliava nella costruzione a quei comodi e graziosi bengalow che si fabbricano gli inglesi che si stabiliscono nell'India. La porta era aperta e la gradinata illuminata da una grossa lampada. Un chitmudgar, accompagnato da quattro servi, aspettava il drappello. - Fatto? - chiese. - Sì, - rispose il fakiro. - Il tuo padrone sarà contento. - Il chitmudgar sollevò una tenda del palanchino e gettò su Surama, sempre addormentata, un rapido sguardo. - Sì, - disse poi. - È la principessa misteriosa. - Fece un segno ai servi. Questi presero il palanchino, l'alzarono e salirono frettolosamente la scala. - Potete andare, - disse allora il maggiordomo rivolgendosi alla scorta, - e anche tu gussain. È meglio che non ti si veda in questa casa. Eccovi cento rupie che il mio padrone vi regala. Buona notte. - Chiuse la porta e raggiunse i servi i quali avevano deposto il palanchino in una bellissima e ampia stanza, il cui centro era occupato da un letto incrostato di laminelle d'argento e di madreperla con ricchissima coperta di seta azzurra a ricami gialli. Il chitmudgar prese fra le robuste braccia la bella indiana che pareva morta, svolse la coperta di seta bianca e la mise a letto, coprendola per bene. - Portate via il palanchino ora - disse ai servi. Erano appena usciti quando un uomo entrò: era uno dei ministri del rajah. - Eccola signore - disse il maggiordomo, inchinandosi profondamente. - Le guardie del favorito hanno agito rapidamente e senza allarmare gli abitanti del palazzo. - Il ministro sollevò la coperta e guardò Surama. - È bellissima, - disse. - Il grande cacciatore è di buon gusto. - Devo svegliarla signore? - Che cosa ha adoperato il fakiro per addormentarla? - Gli ho dato tre fiorellini di carma-joga. - Ah! - fece il ministro. - Ne coltivo molti nel giardino. - Come potremo farla parlare? - Ho previsto tutto, signore. - Colla youma? - Ho qualche cosa di meglio - rispose il maggiordomo con un' sottile sorriso. - Fino da ieri ho preparato una infusione di bâng (10)
La giovane assamese aveva abbassato il lucignolo della lampada per far credere che dormiva e si era gettata sulla testa una larga fascia di seta, che la nascondeva quasi tutta. - Eccomi, signore - disse a Sandokan. - Sono pronta a scendere. - Le tue serve? - Dormono profondamente. - Hanno bevuto il narcotico? - Da più di un'ora. - Prima di domani sera non si sveglieranno, - disse Sandokan. - Siamo quindi sicuri di non essere disturbati da parte loro. - Aprì una finestra e passò sulla varanga accostandosi silenziosamente al parapetto. Quantunque l'oscurità fosse fitta, scorse subito alcune ombre umane sfilare silenziosamente dinanzi al palazzo del favorito. - Devono essere Tremal-Naik, Kammamuri e i miei malesi, - mormorò. - Speriamo che tutto vada bene. - Svolse la corda, legò un capo ad una colonna di legno della varanga e gettò l'altro nel vuoto, mandando nel medesimo tempo un leggero sibilo che imitava perfettamente quello del terribilissimo cobra-capello. Un segnale identico rispose poco dopo. - È lui - disse Sandokan. - All'opera! - Tornò verso la finestra, prese fra le sue braccia Surama e s'avviò verso la fune dicendo al sudra: - Scendi pel primo tu. - Sì, padrone. - E fa' presto. - Il giovanotto varcò il parapetto e scomparve. - Tu incrocia le tue mani attorno al mio collo, - disse poscia Sandokan alla bella assamese, - e dammi la tua fascia di seta, onde ti leghi a me. - Non sarebbe necessario, - rispose la principessa. - Le mie braccia sono robuste. - Non si sa mai quello che può accadere. - Prese la sciarpa, strinse Surama contro il proprio dorso, poi a sua volta montò sul parapetto, non senza essersi prima cacciato fra i denti il kriss malese. - Stringi forte, - disse. - Non mi strangolerai colle tue piccole mani. - Afferrò la corda e si mise a scendere. Vecchio marinaio, non si trovava certo imbarazzato a compiere quella manovra, tanto più che possedeva una muscolatura da sfidare l'acciaio. In pochi istanti raggiunse la veranda inferiore. Disgraziatamente urtò coi piedi contro l'orlo della leggera tettoia che la copriva, facendo cadere un pezzo di grondaia. Una sola imprecazione gli sfuggì suo malgrado. Quel pezzo di latta o di zinco che fosse, nel precipitare sulle pietre della piazza, produsse molto rumore. Sandokan puntò i piedi contro il riparo e si lasciò scivolare verticalmente, senza badare se si scorticava o no le mani. Non distava dal suolo che pochi metri quando dalla varanga udì una voce a urlare: - All'armi! La prigioniera fugge! - Poi rintronò un colpo di pistola. La palla fortunatamente non aveva colpito né Sandokan, né Surama. Uomini, servi e guardie, si erano precipitati sulla varanga urlando a squarciagola: - Ferma! Ferma! - Due, avendo trovata la fune stesa dinanzi alla galleria, vi si aggrapparono lasciandosi scorrere fino a terra, ma già Sandokan che reggeva sempre Surama, si trovava al sicuro fra i suoi fedeli malesi. Tremal-Naik vedendo poi quei due venire avanti con dei tarwar in mano, armò rapidamente le due pistole che aveva nella fascia e scaricò uno dietro l'altro, senza troppa fretta, quattro colpi che li fece cadere l'uno sull'altro. - Via! - gridò Sandokan dopo aver sciolto il piccolo sari che legava Surama, e d'aver presa questa fra le braccia. - Al palazzo!- La porta del bengalow del favorito, si era aperta e dieci o dodici uomini muniti d'armi da fuoco e da taglio e ancora semi-nudi, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi, urlando senza posa: - All'armi! All'armi! - Sandokan correva come un cervo, fiancheggiato da Tremal-Naik e da Kammamuri e protetto alle spalle dai malesi. La caccia era cominciata furiosa, implacabile; ma quantunque gli indù godano generalmente la fama di essere corridori instancabili, avevano trovato nei loro avversari dei campioni degni dei loro garretti. Di quando in quando qualche colpo di fuoco echeggiava, facendo accorrere alle finestre gli abitanti delle vicine case. Ora veniva sparato dagli inseguitori ed ora dai fuggiaschi, senza gravi perdite né da una parte né dall'altra non potendo, in quella corsa disordinata, prendere la mira. Nondimeno una viva inquietudine cominciava a tormentare Sandokan. Quelle grida e quegli spari facevano accorrere ad ogni istante altre persone ed il drappello dei servi del greco s'ingrossava rapidamente. Sarebbero riusciti a salvarsi nel palazzo senza essere stati scorti? Lo stesso pensiero doveva essere sorto anche nel cervello di Tremal-Naik, poiché senza cessare di correre, chiese a Sandokan: - Non verremo noi assediati? - Prima di voltare l'angolo dell'ultima via, faremo una scarica. È assolutamente necessario che non ci vedano entrare nel palazzo. Forza alle gambe! Cerchiamo di distanziarli. - Avevano percorso sette od otto vie, senza incontrare fortunatamente nessuna guardia notturna. Con uno sforzo supremo raggiunsero l'angolo del palazzo vantaggiando a un tempo di duecento e più passi. - Fate fronte! - gridò Sandokan ai malesi. - Caricate! Fuoco di bordata prima! - Le terribili tigri di Mompracem, niente spaventate di trovarsi di fronte a cinquanta o sessanta avversari, puntarono le carabine facendo una scarica, poi estratte le scimitarre caricarono furiosamente con urla selvagge. Vedendo cadere parecchi dei loro, gl'indù volsero le spalle senza aspettare l'attacco impetuoso, irresistibile, dei malesi. - Kammamuri, fa' aprire la porta del palazzo prima che quei furfanti ritornino! - È già aperta, signore! - gridò Bindar. - A me, malesi! - I pirati che si erano slanciati dietro ai fuggiaschi ululando come bestie feroci, si ripiegarono di corsa e si gettarono dentro l'ampio peristilio del palazzo di Surama, chiudendo e barricando precipitosamente la porta. - Spero che nessuno ci abbia veduti, - disse Sandokan deponendo a terra Surama e aspirando poscia una lunga sorsata d'aria. - Grazie, Sandokan, - disse la giovane. - A te ed al sahib bianco devo ormai troppe volte la mia vita. - Lascia queste cose e andiamo a vedere che cosa succede. Intanto fa' armare tutta la tua gente. Temo che vi sarà battaglia questa notte. - Salì la gradinata insieme con Tremal-Naik e con Kammamuri e si affacciò ad una finestra del secondo piano. - Saccaroa! - esclamò. - Ci hanno ritrovati! Qui corriamo il pericolo di venire presi! Ah! Per Maometto, preparerò loro un bel tiro, prima che giungano i soldati del rajah! - Che cosa vuoi fare? - chiese Tremal-Naik. - Surama! - gridò invece Sandokan. La giovane assamese saliva in quel momento la scala. - Che cosa desideri signore? - chiese avvicinandosi rapidamente. - La tua casa è isolata mi pare. - Sì. - Che cosa vi è di dietro? - Una piccola pagoda. - Isolata anche quella? - No, si appoggia ad un gruppo di palazzi e di bengalow. - È larga la via che divide la tua casa dalla pagoda? - Una diecina di metri. - Fa' portare subito delle funi, tutte quelle che puoi trovare. Ci raggiungerai sul tetto. Bindar! - L'indiano che era sulla varanga vicina fu pronto ad accorrere. - Eccomi, padrone - disse. - Da' ordine ai miei malesi ed ai servi di tenere in iscacco gli assalitori per alcuni minuti. Che non facciano economia di polvere né di palle. Va' e comanda il fuoco. E ora, Tremal-Naik, vieni con me e con Kammamuri. - Salirono una seconda gradinata raggiungendo l'ultimo piano e trovato un abbaino, passarono sul tetto che era quasi piatto, non avendo che due leggere inclinazioni. - Non mi aspettavo tanta fortuna, - mormorò Sandokan. - Andiamo a vedere quella via e quella pagoda. - Mentre s'avanzavano carponi, dinanzi al palazzo echeggiavano clamori assordanti. Gli assedianti dovevano essere cresciuti di numero a giudicarlo dal fracasso che facevano. Il fuoco però non era ancora cominciato né da una parte né dall'altra. Bindar non aveva forse giudicato prudente cominciare pel primo le ostilità, per non irritare maggiormente gli avversari. Sandokan ed i suoi due compagni in pochi momenti attraversarono il tetto, raggiungendo il margine opposto. Una via larga, nove o dieci metri, separava il palazzo da una vecchia pagoda di modeste proporzioni, la quale era sormontata da una specie di terrazzo, irto di antenne di ferro che sorreggevano dei piccoli elefanti dorati che funzionavano forse da mostraventi. - È alta quanto questa casa, - disse Sandokan. - Che cosa vuoi tentare? - chiese Tremal-Naik. - Di passare su quel terrazzo, - rispose la Tigre della Malesia. Il bengalese lo guardò con spavento. - Chi potrà saltare attraverso questa via? - Tutti. - Ma come? - Tu sai ancora adoperare il laccio? Un vecchio thug non dimentica facilmente il suo mestiere. - Non ti capisco. - Non si tratta che di gettare una buona corda al di sopra d'una di quelle antenne e di formare poi un ponte volante con un paio di gomene. - Ah! Padrone, lascia fare a me allora, - disse Kammamuri. - Sono stato un anno prigioniero dei thugs di Rajmangal e ho appreso a servirmi del laccio a meraviglia. Non sarà che un semplice giuoco. - E poi dove scapperemo noi? - chiese Tremal-Naik. - Vi sono delle case dietro la pagoda che attraverseremo facilmente, passando sui tetti. In qualche luogo scenderemo. - E non ci daranno la caccia? - Io eleverò fra noi e gli assedianti una tale barriera da togliere loro ogni idea d'inseguirci. - Tu sei un uomo meraviglioso, Sandokan. - Non sono stato forse un pirata? - rispose la Tigre della Malesia. - Nella mia lunga carriera ne ho provate delle avventure e ne ho ... - Una scarica di carabine gli tagliò la frase. I malesi ed i servi del palazzo avevano aperto il fuoco, per impedire agli assedianti di abbattere la porta e d'invadere le stanze del pianterreno. - Se la resistenza dura dieci minuti noi siamo salvi, - disse Sandokan. Si volse udendo delle tegole a muoversi, Surama s'avanzava con precauzione andando carponi sul tetto, accompagnata da due servi e da un malese, che portavano corde di seta, strappate probabilmente dai tendaggi, e grosse corde di canape tolte dalle varanghe. - Chi è che ha aperto il fuoco? - chiese Sandokan aiutando la brava ragazza ad alzarsi. - I tuoi uomini. - Vi sono dei seikki fra gli assalitori? - Una dozzina e avevano subito attaccata la porta. - Kammamuri scegliti la corda e bada che sia solida perché tu dovrai passare su quella. - Lascia fare a me, padrone; - rispose il maharatto. Si gettò sulle funi che erano state deposte dinanzi a lui e prese un cordone di seta, lungo una quindicina di metri e grosso come un dito, osservandolo attentamente in tutta la sua lunghezza. - Ecco quello che fa per me, - disse poi. - Può sorreggere anche due uomini. - Fece rapidamente un nodo scorsoio, si spinse verso il margine del tetto, lo fece volteggiare tre o quattro volte intorno alla propria testa come fanno i gauchos della pampa argentina e lo lanciò. La corda ben aperta alla sua estremità, in causa di quel rapido movimento rotatorio, cadde su una delle aste di ferro e vi scivolò dentro. - Ecco fatto, - disse Kammamuri volgendosi verso Sandokan. - Tenete forte il cordone. - Guarda prima se vi è gente nella via. - Non mi pare, padrone. D'altronde l'oscurità è fitta e nessuno ci vedrà. - Sandokan e Tremal-Naik si gettarono sulle tegole afferrando strettamente il cordone, subito imitati dai due servi e dal malese. - Coraggio amico, - disse il pirata. - Ne ho da vendere, - rispose il maharatto sorridendo. - E poi non soffro le vertigini. - Si appese al cordone, incrociandovi sopra, per maggior precauzione, le gambe e s'avanzò audacemente al di sopra della via, senza nemmeno pensare che poteva da un istante all'altro cadere da un'altezza di diciotto o venti metri e sfracellarsi sul lastricato. Sandokan e Tremal-Naik seguivano con viva emozione e non senza rabbrividire quella traversata, dal cui buon esito dipendeva la salvezza di tutti. Vi fu un momento terribile, quando il coraggioso maharatto giunse a metà della distanza che divideva il palazzo dalla pagoda. Il cordone quantunque tirato a tutta forza dai cinque uomini, aveva descritto un arco accentuatissimo, crepitando sinistramente sotto il peso non indifferente di Kammamuri. - Fermati un istante! - gridò precipitosamente Sandokan. Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito. Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi. - Vuoi provare? - chiese finalmente Sandokan. - Aspettavo il tuo ordine, - rispose Kammamuri con voce perfettamente calma. - Va', amico, - disse Tremal-Naik. Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione. - Le funi, padrone! - gridò subito. Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l'una sopra l'altra, all'altezza d'un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli. - Tremal-Naik, - disse Sandokan; - occupati di far passare le persone. Surama hai paura? - No, signore. - Passa per la prima. - E tu? - chiese Tremal-Naik. - Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. - Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti. La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti. I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti. La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori. Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando: - Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. - Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l'appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati. - Ci diano la caccia ora, - disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. - Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. - Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno. Indiani e malesi, dopo d'aver fatta un'ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri. - Questo palazzo brucerà come un pezzo d'esca, - mormorò Sandokan. - È tempo di metterci in salvo. - Raggiunse l'abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole. Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar. Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d'un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti. - Ora un esercizio da buon marinaio, - mormorò Sandokan. Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla. - Entrate e dateci la caccia, - mormorò il pirata con un sorriso ironico. Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull'orlo del tetto e senz'altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo. Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l'agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe. Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d'acciaio, non provò che un po' di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo. Stette un momento fermo per rimettersi un po', quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo. Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri. Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse. - Finalmente! - esclamò il bengalese, - cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire. - Io ho l'abitudine di giungere sempre, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed il mio palazzo? - chiese Surama. - Brucia allegramente. - È un patrimonio che se ne va in fumo. - E che la Tigre della Malesia pagherà - rispose Sandokan alzando le spalle. - Ci inseguono? - chiese Tremal-Naik. - Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace. Io già non ti seguirei di certo. - Ma dove finiremo noi? - Aspetta che troviamo una via che c'impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik. Ho già fatto il mio piano. - E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, - aggiunse Kammamuri. - Può darsi, - rispose Sandokan. - Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. - La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all'altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate. Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini. Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime: - Al fuoco! Al fuoco! - I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s'alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l'allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava. - Presto! presto! - diceva. Ad un tratto gli uomini che si trovavano all'avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato. - Che cosa c'è? - chiese Sandokan. - Non si può più andare innanzi, - disse Bindar che guidava quel drappello. - Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare. - Vedi nessun abbaino? - Ce ne sono due sotto il terrazzo. - Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa' sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. -
Il fuso non si era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri. - Ci raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff. - I mongoli? - Sì. - Guadagnano già. - Ed il vento è debole - aggiunse Fedoro. - Signori, si tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o superate quelle colline. - Rokoff - disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra. - Ed a me quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli. Puntarono le armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi d'intervallo. Questa volta non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una superba volata in avanti. I mongoli, vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora giungere fino allo "Sparviero". La paura cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a continuare l'inseguimento. Conoscendo ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli. - La nostra scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano. - È stata una vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff. - Volete continuare capitano? - È inutile sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare. D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco lontane. - Non potranno superarle? - chiese Fedoro. - Non credo. Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. - Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti. - Nondimeno teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli. I mongoli invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia. Che cosa attendevano? Che lo "Sparviero" si decidesse a scendere o che, esausto capitombolasse? Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?
Il treno aereo avendo trovato un vallone profondo che pareva tagliasse in due la catena, si era abbassato fino a quattrocento metri, radendo talvolta, coll'estremità inferiore del fuso le punte degli abeti e dei pini. Il capitano aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e agilissimi animali non si lasciavano accostare. Appena scorta l'ombra proiettata dallo "Sparviero" s'affrettavano a cacciarsi nei boschi, rendendo così impossibile l'inseguimento. Verso le tre pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l'accampamento dei calmucchi, il treno aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e d'Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di costruzioni in legno e di tende. - Turfan - disse il capitano. - È ora di svegliare il monaco - disse Rokoff. - Anche per nostra salvaguardia - aggiunse Fedoro. - È incaricato di proteggerci. - Aprirà poi gli occhi? - chiese il cosacco. - Sarà ancora ubriaco. - Gli somministreremo un po' d'ammoniaca in un bicchier d'acqua - disse il capitano. - Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi. Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo sonoramente parecchie volte. - Questo non è koumis! - esclamò. - Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote? Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell'errore e vedendo sopra di sé agitarsi le immense ali dello "Sparviero", impallidì e si portò le mani alla fronte. - Dove sono? - si chiese, con accento smarrito. - Sopra Turfan - rispose il capitano, ridendo. - Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung. - Turfan! - esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi. D'un tratto mandò un grido: - I figli della luna! - Pare che l'ubriachezza gli sia finalmente passata - disse Rokoff. - E che sia molto spaventato - aggiunse Fedoro. - Non c'è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio. - Gliene faremo ingollare dell'altro. Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all'abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo. - Ho paura! - esclamò. - Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki. - Che cosa vi salta pel capo, ora? - chiese il capitano. - Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato. - E non ci ammazzeremo tutti? - chiese il monaco, che sudava freddo. - Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto. - E questa bestia non mangerà nessuno? - Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza. Il mandiki, un po' rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani. - Cadiamo! - gemette. - Animo - disse il capitano. - pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano. Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni. - Fatevi vedere - disse il capitano al monaco. - Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi. - Ho paura! Ho paura! - balbettava il mandiki. - Se non obbedite vi getto giù! A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole. Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore. Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati. Lo "Sparviero" intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un'aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha. Grida d'ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell'enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell'uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo: - Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l'ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha. - Ah! Il volpone! - esclamò Rokoff. - Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l'ignoranza di questi poveri calmucchi. Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll'aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l'onore di baciargli l'orlo della veste. I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza. - Ci lascia? - chiese Rokoff. - Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d'inviarci i promessi montoni. Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po' l'entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s'avvicinò allo "Sparviero", dicendo al capitano: - Signore, degnatevi d'accettare l'ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha. - Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello? - Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi. - Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore - disse il capitano. - E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere. Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza. - Sarà giovane o vecchia questa principessa? - chiese Rokoff al capitano. - Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla - rispose il comandante, ridendo. - Non rimarrà insensibile agli omaggi d'un figlio di Buddha. - Non mi comprenderà. - Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese. - Ditemi, capitano, comandano le donne qui? - Sarà la vedova di qualche capo. - Allora sarà vecchia. - Aspettate a giudicarla. All'estremità della piazza s'alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un'apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini. Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa. Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori. - Che lusso! - esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei. - Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan. - Ha invaso mezza Asia? - Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili? - Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli. - Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre. - Ecco la principessa - disse Fedoro. I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda, che l'enorme monaco teneva alzata. - Ah! La brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega! La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso. Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più. Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera. Le dita ossute erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante. Il monaco, che pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa. Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso. - Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff. Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!
Il tenente, che aveva rapidamente puntato il fucile contro di loro pronto a far fuoco, dopo le parole del capo lo aveva abbassato tenendosi però in guardia, non fidandosi interamente di quegli indiani che ordinariamente vedono di cattivo occhio i bianchi stabiliti sulle loro terre. - Se vieni come amico, nulla hai da temere! - disse poi, rivolgendosi al capo che aspettava una risposta. - Mio fratello è russo? - chiese questi. - No, appartengo ad una tribù che è molto lontana da qui, verso il sole che tramonta. - Allora sei mio amico! - rispose il capo. Gettò a terra il vecchio fucile che teneva in mano, s'avvicinò al tenente e accostando il proprio naso a quello di lui glielo strofinò energicamente. Dopo questo segno di amicizia riprese: - Se mio fratello non teme l'ospitalità dei Tanana, mi segua: avrà una tenda, della carne e del fuoco. - Ti seguo. La banda gettò le armi sulle spalle e si addentrò nella grande macchia seguita dai due naufraghi. - Possiamo fidarci? - chiese Koninson. - Sì, ma fino ad un certo punto! - rispose il tenente. - Ad ogni modo abbiamo anche noi delle armi. Dopo dieci minuti di cammino, giungevano in una vasta radura in mezzo alla quale si rizzavano sei grandi tende di pelle di renna, di forma conica, sostenute da pertiche e sormontate da strani emblemi rappresentanti teste di orsi e teste di lupi. Alcune donne ancor più brutte degli uomini, più orribilmente dipinte, infagottate in pelli di orso e di foca e adorne, specialmente al naso, di conchiglie di "ki-a-qua" (dentalium), mossero incontro ai nuovi venuti: ma ad un gesto dei guerrieri si affrettarono a ritirarsi. Il capo condusse gli ospiti dinanzi ad una piccola tenda mezzo sdruscita e che pareva si reggesse per un miracolo di equilibrio e li invitò ad entrare, promettendo di raggiungerli fra pochi istanti. Koninson per il primo vi mise dentro la testa, ma la ritirò subito sternutando sonoramente. - Ma questo è un porcile - disse. - Sfido chiunque a sopportare l'orribile puzza che regna lì dentro. - Bah! Non bisogna essere schizzinosi, ragazzo mio! - rispose il tenente. - Credevi forse di trovare un palazzo? Animo, entriamo. Facendo uno sforzo, si cacciarono sotto la tenda dove si arrestarono mezzo asfissiati da un insopportabile odore di carne corrotta. Nel mezzo ardeva una strana lampada scavata in una pietra ollare, la quale spandeva all'intorno un luce rossastra e fetente. Negli angoli, ammonticchiate alla rinfusa, si vedevano diverse pelli di animali non ancora completamente seccate, poi interiori che finivano di marcire, pesci corrotti, dei sacchetti che parevano contenere carne secca e infine un gran numero di fiocine di ogni forma e dimensione, nonchè certi coltellacci d'una forma particolare montati in corno di narvalo o in un dente di morsa. - Questo deve essere il magazzino della tribù e anche l'arsenale - disse il tenente. - Che pulizia, signor Hostrup! Noi morremo asfissiati se non ci affrettiamo a uscire. - Se vivono i Tanana in queste brutte tende, possiamo viverci anche noi. - Ma forse le altre sono migliori. - Probabilmente saranno peggiori. - E l'orso? Tò, me lo ero scordato. - Quando verrà il capo sapremo qualche cosa. Ah! Eccolo che ritorna! Infatti il Tanana si avvicinava accompagnato da un guerriero il quale portava un grosso pesce, che pareva fosse stato allora allora levato dai carboni. - Mio fratello accetti il regalo che gli offre il capo - disse il Tanana entrando. - Sii il benvenuto, - rispose il tenente - e ricevi i nostri ringraziamenti. Il guerriero depose su di una pelle il pesce, poi uscì mentre il capo si sedeva per terra colle gambe incrociate. I due naufraghi non si fecero pregare a far onore al pasto e lavorarono così bene di denti che ben presto del pesce non rimasero che le pinne. Il Tanana, quando vide che avevano terminato, estrasse dal suo sacchetto che portava appeso alla cintura la pipa, la caricò flemmaticamente, l'accese, aspirò due boccate, poi la passò agli ospiti che fecero altrettanto. Terminata quella funzione che presso tutti gli Indiani dell'America settentrionale è della più alta importanza, poichè viene considerata come una dichiarazione di amicizia, il Tanana, che fino allora non aveva pronunciato sillaba, disse: - Mio fratello il viso pallido è contento dei suoi fratelli dal viso rosso? - Sì e ti ringrazio della cortese ospitalità accordatami. - Allora mi dirà perchè viaggia in queste terre che non sono le sue. - Siamo qui perchè la tempesta ci ha gettati, malgrado tutta la nostra buona volontà per non approdarvi. - Ah! I miei fratelli sono stati disgraziati adunque? Montavano forse una di quelle grandi barche che vengono così da lontano? - L'hai detto. - Ed ora dove vanno? - Cerchiamo di raggiungere un qualche forte o della Compagnia inglese o di quella russa. - Ma i forti sono molto lontani. - Ma le nostre gambe sono buone. - E non possedete un attiraglio? - Una slitta, ma senza cani per trascinarla. - E dov'è questa slitta? - chiese il Tanana, i cui occhi mandarono un lampo. - L'abbiamo lasciata a due ore di cammino di qui, sulla riva del Porcupine. - Mio fratello possederà dell'"acqua di fuoco"? - Dell'acquavite, vuoi dire? No, l'abbiamo consumata tutta. - Possederà della polvere da sparo. - Sì, ma non molta. - Doveva portarne un pò a suo fratello Tanana. - Basta appena per noi due. Il capo non dissimulò un gesto di dispetto che al tenente non sfuggì. - Ma perchè ha lasciato la sua slitta? - chiese il Tanana. - Per inseguire un orso bianco che ci aveva rubato un fucile. È tuo quell'orso? - No. - Sarà di qualche tuo guerriero. Io so che è entrato nel tuo campo e io conto sulla tua generosità per riavere l'arma. Il Tanana lo guardò per qualche istante senza rispondere, poi disse: - Tu l'avrai, ma ad un patto. - Parla. - Che tu venga quest'oggi con me nella foresta a cacciare l'alce. I volti pallidi sono tutti bravi cacciatori e tu e il tuo compagno mi sarete di grande aiuto. - Accetto. II capo si alzò, uscì dalla tenda e poco dopo ritornava portando il fucile che Koninson s'affrettò a prendere, mandando una esclamazione di gioia. - Ora mettiamoci in cammino! - disse il Tanana. - Le alci sono state già scoperte dai miei uomini e forse a quest'ora sono strette da ogni parte. Affrettiamoci, poichè conto di partire questa notte con tutta la mia tribù. - E per dove? - chiese il tenente. - Verso il sole che si leva, nel paese dei Malemuti - rispose il Tanana con un enigmatico sorriso. - Odi le grida dei cacciatori? In lontananza si erano improvvisamente udite delle alte grida seguite dall'abbaiare di numerosissimi cani. - Andiamo! - disse il tenente. Il Tanana uscì seguito dai due marinai, disse qualche parola ad alcuni guerrieri che lo attendevano fuori della tenda, poi si addentrò nel bosco. - Che vi pare di questo selvaggio? - chiese Koninson al tenente. - Mi ha un certo viso che non mi rassicura completamente. - Hai ragione, mio degno fiociniere, ma staremo in guardia e ci guarderemo ben bene alle spalle. Le grida e gli abbaiamenti si avvicinavano rapidamente e ben presto attraverso gli alberi si videro correre parecchi cacciatori preceduti da grossi cani, poco dissimili per altezza e per forme dai lupi. - Dove sono queste alci? - chiese Hostrup al capo. - Dinanzi a noi - rispose il Tanana. - Sono molti i cacciatori? - Una quarantina sparsi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra. Camminarono per altri venti minuti sempre più inoltrandosi nella foresta e sempre preceduti dai cacciatori che continuavano a mandare urla selvagge, poi il Tanana si arrestò. Dinanzi a loro, a tre o quattrocento metri, stavano riunite venti o venticinque alci, superbi animali, grandi quanto un cavallo giovane, colle teste adorne di corna robustissime. Correvano or qua or là in preda ad un vivo spavento, cercando di fuggire fra gli spazi lasciati dai cacciatori, ma senza arrischiarsi, poichè subito ritornavano galoppando disordinatamente II tenente e il fiociniere puntarono le armi mirando ognuno un'alce, ma il Tanana con un gesto li trattenne. - Siamo a buon tiro - disse Hostrup. - Non è ancor giunto il momento - rispose il capo. - Aspetta che entrino nel recinto e poi farai fuoco a volontà. - In quale recinto? - Guarda laggiù. Il tenente guardò nella direzione indicata e non senza sorpresa vide, attraverso gli alberi, un grandioso recinto fabbricato con rami assicurati ai tronchi mediante strisce di pelle, il quale si restringeva a mò di collo di bottiglia. - È così che noi cacciamo - disse il Tanana. - Le alci hanno paura ad entrare, ma noi le costringeremo. - E non spezzeranno il recinto? - È semplice, ma molto solido. Attenzione e guardatevi dalle corna, poichè talvolta le alci, rese furiose, si gettano sui cacciatori a testa bassa. I suoi uomini si erano a poco a poco riuniti formando un semicerchio assai vasto il quale si univa colle due estremità del recinto. Ad un cenno del capo impugnarono le fiocine e si spinsero coraggiosamente innanzi raddoppiando le grida e aizzando i cani. Le alci si misero a caracollare confusamente mostrando delle intenzioni tutt'altro che pacifiche, ma quando si videro assalite dai cani e minacciate assai da vicino dai cacciatori, non esitarono più a fuggire e non trovando dinanzi che l'apertura del recinto vi si spinsero dentro. II capo, i due naufraghi e tutti gli altri le seguirono e si appostarono dietro a certi mucchi di neve muniti di una feritoia, che erano stati precedentemente costruiti. - Fuoco a volontà! - comandò il capo. Tosto da ogni parte partirono detonazioni ed alcuni alci, colpite mortalmente, caddero dibattendosi disperatamente. Le altre fecero di gran galoppo il giro del recinto cercando una uscita che ormai non esisteva più, essendo stata subito chiusa quella che poc'anzi c'era, poi si scagliarono contro i rami d'albero tentando di spezzarli a colpi di corna, ma invano poichè, come aveva detto il capo, erano solidissimi e ben legati. Vista l'inutilità dei loro sforzi, si rivolsero contro i cacciatori, ma una nuova scarica, che ne gettò a terra altre quattro o cinque, le costrinse a riprendere la fuga. Riunitesi in fondo al recinto, le povere bestie parvero consigliarsi, poi ritornarono verso i cacciatori a testa bassa mostrando minacciosamente le loro robuste corna. Alcune colpite dalle palle caddero, ma le altre passarono come un uragano fra cumulo e cumulo, si gettarono furiosamente contro il recinto che in quel luogo presentava una solidità molto dubbia, ne rovesciarono un tratto e fuggirono nel bosco allontanandosi verso est con tale rapidità, da par perdere ogni speranza di raggiungerle. Il tenente e il fiociniere fecero atto di inseguirle, ma il capo Tanana li arrestò. - È inutile - disse. - Abbiamo carne quanta ci basta per vivere un bel pezzo. Ed infatti aveva ragione. Nove alci giacevano a terra immobili e due altre si dibattevano negli ultimi aneliti. Mentre alcuni cacciatori uscivano traendosi dietro i cani per condurre colà le slitte, gli altri s'affrettarono a finire le ferite; poi, dato mano ai coltelli, si misero a scuoiare e a tagliare con tanta abilità e prestezza che due ore dopo la non facile operazione era finita. Al tramonto, quell'ammasso di carne ancor palpitante veniva caricato sulle slitte e portato all'accampamento dove erano stati accesi dei grandi fuochi. Il capo offrì ai due marinai una lauta ed abbondante cena, poi li ricondusse nella loro tenda che in quel frattempo era stata completamente vuotata. - Quando parti? - gli chiese il tenente, prima di coricarsi. - Domani all'alba - rispose il Tanana con un sottile sorriso. - Dormi in pace sotto la buona guardia dei miei guerrieri e all'alba riceverai i miei saluti e una provvista di carne da bastarti per un mese. - A domani, adunque! - risposero i due naufraghi. E si sdraiarono con accanto le armi.
Avevano abbassato i solidi cranii, mostrando le corna che sembravano assai aguzze e d'una durezza a tutta prova e dimenavano le brevi code con crescente rapidità, indizio certo della grande irritazione che li animava. Le femmine, dal canto loro, si erano affrettate a ritirarsi da una parte, onde lasciare maggior campo ai due campioni. Ad un tratto, i due combattenti mandarono un muggito lungo, sonoro, che si ripercosse stranamente per la stretta valle, e si scagliarono l'un contro l'altro con rabbia estrema e colla testa bassa. L'urto fu terribile: entrambi non ressero all'incontro e caddero l'un sull'altro; ma tosto si rialzarono con un'agilità che non si sarebbe supposta in quei corpi, tornando a caricarsi con maggior furore e avventandosi tremende cornate che laceravano la pelle e producevano profonde ferite dalle quali il sangue sgorgava a rivi. Per un buon quarto d'ora combatterono con varia fortuna mescendo i muggiti ai cupi colpi delle lunghe corna, poi uno, il più piccolo, cadde dibattendosi fra le convulsioni della morte. Dal ventre squarciato per un lungo tratto, assieme ad una vera pioggia di sangue, uscivano gli intestini. Il vincitore però non si arrestò, e quantunque pur lui ridotto a mal partito, colla fronte quasi interamente scoperta dalla quale pendevano brani di pelle sanguinolenta, un occhio levato e il petto sfondato, si scagliò un'ultima volta sul vinto, percuotendolo rabbiosamente cogli zoccoli e colle corna. - Ah brigante! - mormorò Koninson, che non poteva più star fermo. - Ora ti accomodo io. Stava per puntare il fucile, quando la banda tutta d'un tratto fece un rapido voltafaccia slanciandosi attraverso la valle, seguita, dopo una breve esitazione, anche dal vincitore. Il tenente e Koninson balzarono sulla roccia che li aveva fino allora nascosti e fecero fuoco dietro ai fuggiaschi che non si arrestarono, quantunque uno fosse stato veduto fare uno scarto e vacillare. - Inseguiamoli! - gridò il fiociniere. - È inutile, - disse il tenente. - Non vedi come trottano? Ci vorrebbero dei cavalli per raggiungerli. - Ma in qualche luogo si fermeranno. - Sì, ma dove e quando? Sono capaci di attraversare la catena di monti e di slanciarsi verso le pianure del sud. - Quegli animali si arrampicano anche sui monti? - Sì e come le capre. - Ma ditemi, signor Hostrup, perchè si chiamano buoi muschiati? - Perchè la loro carne è impregnata di muschio. - Sicchè noi mangeremo delle bistecche ... - Muschiate e molto muschiate, mio caro fiociniere. - Bah! Purchè sia carne fresca, non domando altro. - Non ne mangerai molta, te l'assicuro. - Ma se gli eschimesi la mangiano ... - Gli eschimesi vi sono abituati e poi, sai bene che hanno dei ventricoli capaci di tollerare qualunque cibo nauseante, come pesci corrotti, olio di foca e di balena, ecc. Orsù, andiamo a tagliare qualche pezzo di carne e poi torniamo alla tenda. Si diressero verso il bue che aveva terminato di agitarsi e a colpi di scure gli aprirono il ventre, staccandogli sei o sette costole. Koninson però non si accontentò e si impadronì anche della lingua che doveva essere eccellente. Raccolte le armi, si misero in cammino e verso le 6 pomeridiane giungevano alla tenda attorno alla quale trovarono numerose traccie di lupi, segno evidente che avevano tentato di entrarvi, ma senza riuscirvi. La lampada fu accesa e la pentola messa a bollire con un bel pezzo di carne che non pesava meno di due chilogrammi; ma i due balenieri per quanto si sforzassero e per quanta voglia avessero di porre sotto i denti un pò di quel manzo, fecero poco onore al pasto. Carne e brodo erano impregnati di muschio in siffatto modo, che un vero affamato avrebbe esitato lunga pezza. - Al diavolo i buoi e il loro muschio! - esclamò Koninson, - Non valeva la pena di fare tanta strada per guadagnarci questo pasto, - Te l'avevo detto - disse il tenente. - Ma ci hanno guadagnato le nostre gambe che avevano bisogno di una bella passeggiata per prepararsi alla gran marcia. - Quando partiremo? - Domani, se il tempo lo permetterà. - Allora buona notte, signor Hostrup. Richiusero la tenda, tirando per maggior precauzione la slitta dinanzi all'entrata e s'avvolsero nelle loro coperte dopo aver però caricato le armi onde essere pronti a qualsiasi assalto. Il mattino del 23 il tenente dava il segnale della partenza. Egli aveva fretta di allontanarsi da quelle spiaggie che non offrivano alcuna risorsa e che, stante la vicinanza della catena di montagne, le cui cime dovevano essere ricche di ghiacciai pronti a spezzarsi ai primi calori, potevano diventare pericolosissime. Piegata la tenda e insaccati i viveri, i due intrepidi balenieri si recarono sulla spiaggia a dare un ultimo sguardo a quel mare gelato nelle cui profondità dormivano i loro disgraziati compagni e che forse non dovevano mai più rivedere. I campi di ghiaccio erano ancora là, colle nevi che il sole non era ancora riuscito a intaccare e colle loro montagne dalle cime bizzarramente frastagliate, ma non presentavano più quella superficie compatta che avrebbe sfidato le mine e lo sperone delle corazzate dei due mondi. Qua e là, immensi crepacci si erano aperti ed in fondo a questi si vedeva il mare alzarsi ed abbassarsi e poi tornare a montare, quasi fosse stanco di quella lunga ed opprimente prigionia. Ogni qual tratto, un "iceberg" mal solido, o scosso dai continui urti di ghiacci minori, capitombolava con un fragore immenso che si ripercuoteva a grandi distanze in quell'atmosfera limpida e secca, o s'apriva improvvisamente, con uno scricchiolìo che si perdeva in lontananza, un largo crepaccio dentro il quale si rovesciavano confusamente colonne, cupole e piramidi che tosto scomparivano sotto lo spumeggiante oceano. Altre volte invece, una vera montagna di ghiaccio, sfondando col proprio peso il banco, scompariva e poi riappariva con un salto immenso lanciando, in mezzo ai ghiacci che l'attorniavano, degli enormi sprazzi di acqua che correvano in tutte le direzioni, formando qua e là dei torrenti e dei laghetti ove calavano subito a bagnarsi, gettando strida gioconde, bande di uccelli marini. - È pur sempre bello questo strano spettacolo che solamente qui si può ammirare - disse il tenente. - Bello sì, ma io vorrei esserne ben lontano - disse Koninson. - Vivessi mille anni mi ricorderò sempre di questa disgraziata campagna. - Non parliamone, amico mio, e partiamo. - Avete ragione, signor Hostrup. È meglio lasciar dormire i tristi ricordi e mettere la prua verso sud. Animo, Koninson, se vuoi salvare la pelle. Il fiociniere e il tenente, dato un ultimo sguardo all'oceano polare, si attaccarono alla slitta a cui avevano legato delle corde e si misero animosamente in marcia cercando di mantenere una via, più che era possibile, retta. La grossa crosta di ghiaccio che ancora copriva la terra, si prestava assai allo scivolamento del veicolo, ma le frequenti screpolature, manifestatesi qua e là, e di cui talune raggiungevano qualche metro di larghezza, i frequenti incontri di strati di neve non ancor ben solidificata o in via di scioglimento, entro i quali i due balenieri sprofondavano fino alle anche, e talvolta anche più, rallentavano e rendevano penoso il cammino. Ma la tenacia del tenente e la robustezza di Koninson la vinsero sugli ostacoli, ed a mezzogiorno la slitta si trovava già nella valle che menava direttamente ai monti. Colà si trovava ancora il bue muschiato ucciso il giorno innanzi, ma ridotto ormai uno scheletro dai denti degli affamati lupi. Fecero una breve fermata onde mangiare un boccone, indi ripresero il faticoso cammino, reso ancor più difficile dal notevole innalzarsi del terreno e dall'incontro di enormi lastre di ghiaccio staccatesi senza dubbio da qualche vicino ghiacciaio e scivolate fin là. La valle era deserta e selvaggia. A destra e a sinistra, bizzarre roccie di natura granitica, come lo sono tutte quelle che si incontrano in quelle gelate regioni, rivestite di neve e di ghiaccio, s'alzavano capricciosamente frastagliate e per lo più coi fianchi così ripidi da rendere impossibile una scalata. Qua e là gran numero di massi enormi coprivano il terreno e disposti in così strana guisa che parevano scagliati da qualche improvviso scoppio di uria poderosa mina ed in mezzo a quelli, piccole piante, magri licheni, mezzi divorati dai buoi muschiati o dalle renne, ranuncoli, sassifraghe e graminacee. Non un animale, non un uccello si scorgevano in quella brutta valle e regnava un silenzio profondo, triste, che faceva una strana impressione. - Che brutto luogo! - disse Koninson. - Si direbbe che stiamo per attraversare un cimitero. Ma dove si sono cacciati i lupi e i buoi muschiati? - Non lo so meglio di te - rispose il tenente. - Ma, se devo dirti il vero, non mi trovo bene in questa valle. - E perchè? Temete qualche cosa? - Forse, Koninson; ma andiamo innanzi. Continuarono ad avanzare, salendo sempre e raddoppiando gli sforzi, senza incontrare nè un lupo, nè una volpe, animali questi che si vedono dappertutto in quelle lontane regioni. Il tenente, man mano che procedeva, diventava più inquieto; l'assenza di quegli animali, anzichè tranquillizzarlo, lo rendeva pensieroso. Erano già giunti a due soli chilometri da un'alta montagna, i cui fianchi, coperti da immensi ghiacci tramandavano, sotto i riflessi del sole, una luce acciecante, quando il tenente si arrestò improvvisamente afferrando le braccia di Koninson. - Ascolta! - disse. Lassù, verso la montagna, si udiva uno strano rumore; pareva che si staccasse o si fendessse del ghiaccio e che poi scivolasse producendo dei lunghi fischi. - Cosa succede? - chiese Koninson. - Non v'è più dubbio, ci troviamo dinanzi ad un grande ghiacciaio - rispose il tenente. - E così? - Questi scricchiolii e queste sorde detonazioni indicano la imminente caduta dei ghiacci. Stiamo in guardia, Koninson. - Volete che pieghiamo verso est? - Credo che sarà meglio per noi. Piegarono a destra e si cacciarono dietro una lunga linea di roccie che potevano ripararli. Era tempo! Tutt'a un tratto, sulla montagna che giganteggiava dinanzi a loro, s'udirono spaventevoli detonazioni seguite da lunghi fischi e dall'alto si videro scivolare con straordinaria rapidità degli immensi blocchi di ghiaccio i quali, rovesciando e polverizzando gli innumerevoli "hummoks" formati dalla neve, si scagliavano attraverso alla valle come altrettanti treni diretti, alcuni filando verso nord in direzione del mare ed altri spaccandosi contro le roccie che nell'urto perdevano tutto il loro rivestimento invernale. A quella prima discesa ne tenne dietro una seconda, poi una terza, una quarta, una quinta ad intervalli di pochi minuti, empiendo l'aria di mille fragori e la valle di massi di ghiaccio. I due balenieri, riparati dalle roccie che si dirigevano verso est senza interruzioni, camminavano rapidamente per tema che altri ghiacci, passando sopra ai caduti, non finissero col sorpassare la linea che li proteggeva e che non era molto alta. Di quando in quando, dei massi di ghiaccio, rimbalzando a grande altezza, cadevano al di là delle roccie ed uno per poco non sfracellò la testa a Koninson. - Presto, presto, - ripeteva il tenente, facendo sforzi sovrumani, - o prima di domani nessuno di noi sarà vivo. - Dannata regione! - borbottava Koninson, che malgrado il freddo cominciava a sudare. - In mare i ghiacci stritolano le navi e in terra mirano le costole degli uomini! Spronati dal continuo capitombolare dei massi e dalle detonazioni che crescevano d'intensità annunciando altre e più pericolose cadute, verso le otto della sera, affranti, affamati, giungevano dinanzi ad una seconda montagna più bassa, meno irta e i cui fianchi non offrivano alla vista alcun ghiacciaio. - Alt! - disse il tenente. - Accampiamoci qui. - Saremo sicuri? - Lo credo, Koninson; però dormiremo con un solo occhio.
La paura aveva finito per vincere tutti gli altri suoi sentimenti: stretta sulla sedia, col capo abbassato sul petto, con l'occhio senza sguardo, attendeva questo pericolo sconosciuto e i minuti che trascorrevano ancora, avevano finito per sembrarle mortali. Alle sue spalle, una voce bassa la chiamò: "Donna Chiarina!". "Che volete?" chiese ella, come trasognata, a Carminella. "La madre vostra vi desidera al salone". Chiarina guardò la pinzochera. Aveva la faccia più verdastra del solito e le sottilissime labbra avevano l'aridità dell'ira. La fanciulla non rispose e non si mosse. "Donna Chiarina, la madre vostra vi vuole al salone". "Sta sola?" chiese la ragazza. "Nossignora: sta in compagnia" rispose malignamente la pinzochera, "e vi vuole ". "Va bene: ditele che vengo". Macchinalmente Chiarina toccò il rosario, baciò una piccola, pallida fotografia di sua madre, che teneva sopra un tavolino, si guardò nello specchio senza vedersi e si avviò al salone. Donna Gabriella, vestita di una vestaglia bianca, carica di merletti che aveva comperato dalla cameriera della duchessa di Episcopio, stava seduta sul grande divano di broccato giallo del salone: quella vestaglia bianca la faceva sembrare enorme, e accendeva anche di più il colorito rosso mattone delle grosse guance. Donna Gabriella portava agli orecchi due magnifici solitari e sulle grosse braccia nude quasi fino al gomito, sulle dita grosse, rosse, quasi gonfie, era tutto un scintillio di braccialetti e di anelli gemmati. Una grossa catena d'oro si mescolava ai merletti della vestaglia, sul petto: e il ventaglio, metodicamente agitato, non arrivava a mitigare quella viva tinta della grossa faccia. Gli occhi di donna Gabriella erano luccicanti. Seduto sopra una poltroncina gialla, modestamente vestito, ma con una naturale eleganza, coi bei capelli biondi arricciati, pallido, ma sereno, stava Giovannino Affaitati. Ambedue parevano tranquilli e soddisfatti, guardando Chiarina che si avanzava incerta, senza guardarli, sentendosi palpitare il cuore sotto la gola. "Vieni qua, Chiarina mia" disse donna Gabriella con insolita dolcezza. Di nuovo, senza una ragione al mondo, Chiarina fu presa dal terrore e si mise a tremare. Pure, guardandola e sorridendo, Giovannino la invitava ad accostarsi. "Vieni qua, Chiarina" ripeté la matrigna, nuovamente, con una tenerezza nella voce. La fanciulla si accostò, in silenzio: la piccola mano bianca e sottile che aveva il tremore della fèbbre fu presa nelle grosse mani rosse, quasi gonfie della matrigna. "Ti ho voluto far contenta" pronunziò lentamente donna Gabriella, "Poiché pare che ci stia la volontà di Dio, e don Giovannino, qua, mi sembra un buon giovane. Ti voglio trattare meglio che lo farebbe una mamma. Con l'aiuto del Signore, a suo tempo vi sposerete. Dammi un bacio". Sulla delicata guancia della fanciulla si posarono, schioccando, le grosse labbra della matrigna; anche Chiarina fece l'atto di baciare. Ma le sue labbra non si mossero, e calde lagrime silenziose le scesero sul volto, sul collo, sul busto del vestito. Giovannino, sereno, beato, guardava la sua fidanzata. "Chiamami mamma" disse Gabriella intenerita, alla fanciulla. Costei non rispose, taciturnamente continuando a piangere. "Chiamami mamma" ripetette, quasi piangendo, umilmente. "Mamma, mamma" scoppiò a gridare, singultando disperatamente, la fanciulla. Quando Carminella la pinzochera, con quelle sue labbra sottili e violette che si stiravano nel discorrere, con quelle occhiate oblique e false, lo andò raccontando a tutti, nel palazzo Santobuono, nella piazzetta dei Ss. Apostoli, nel vicolo delle Gradelle, malgrado il tono fischiante e sarcastico della serva, malgrado le sue perfide e vaghe reticenze, vi fu un generale movimento di soddisfazione. Lo spettacolo continuo di quel costante, invincibile amore infelice aveva intenerito il cuore di tutti i vicini, li aveva disposti a una grandissima pietà. "Donna Gabriella ha preso una santa decisione" disse quella benevola grassona di donna Peppina Ranaudo, mentre contrattava, sul pianerottolo, un canestro di pesche per quella conserva che a Napoli si chiama percocata. "Nessuno è santo innanzi a Dio" ribatté la pinzochera, facendosi il segno della croce e andandosene. Ma dovunque, dovunque, malgrado le sue insinuazioni, malgrado lo stridìo della sua voce inacetita, trovò che la gente sorrideva di questa buona ventura, di questo matrimonio in prospettiva. "Sentite, Carminè " rispose donn'Orsolina, che oramai non ne poteva più per il fastidio che le dava la sua gravidanza nella estate, senza denari e senza forza per lavorare, "sentite, devo dirvi che mi fa piacere, come se quella fosse mia figlia. Il matrimonio è una schiavitù, sissignore, ma tutte la dobbiamo avere..." "Non tutte, non tutte " ribatté acremente la serva pinzochera. "È una combinazione" mormorò bonariamente donna Orsolina, che aveva bisogno di stare bene con tutti, "ogni tanto... succede così...". Finanche le vecchie zitelle del terzo piano, le sorelle del professore, espressero la loro soddisfazione, dietro i cristalli dei loro balconi, salutando Chiarina con aria festevole. Ella chinava il capo e arrossiva: tutti quelli che incontrava, oramai, nelle scale, nel cortile, nella strada, partecipavano alla sua gioia, salutandola vivacemente, dandole dei misteriosi buoni auguri, stringendole le mani, abbracciandola, chiedendole quando si sarebbero mangiati questi confetti. Don Vincenzo e donna Elia Manetta, un giorno, sotto l'arco del portone, mentre la matrigna era andata innanzi, la trattennero raccontandole come era andato il loro matrimonio, un matrimonio di vecchi, che essi narravano come un idillio, togliendosi la parola mutuamente, per dirsi degli antichi motti dolci. Finanche il cocchiere della principessa di Santobuono, un giorno, salutandola con la frusta, con una certa aria di galanteria cavalleresca, con un frasario pieno di complimenti, si offrì, lui e la sua carrozza, per accompagnare alla chiesa e al municipio lo sposalizio di Chiarina e di Giovannino; finanche il furbo sacrestano della parrocchia dei Ss. Apostoli, una domenica, sulla soglia della chiesa, disse a Chiarina che aveva fatto fare un triduo, a sua insaputa, perché ella fosse felice con la volontà della matrigna mettendosi in grazia di Dio; finanche la stiratrice del vicolo delle Gratelle, una mattina che vide comparire al balconcino Chiarina, dette un gran colpo di ferro, sopra un petto di camicia fumicante, gridando allegramente: "Amore! Amore!". Chiarina sentiva intorno a sé quest'onda di tenerezza e chinava il capo commossa, ma non volendo parere. Aveva in sé una gran confusione di felicità, amareggiata sempre, però, da un invincibile senso di diffidenza. Pure, tutto dovea essere dolcezza, ormai, per lei. Giovannino Affaitati, ritenuto come fidanzato ufficiale, potea scriverle quando voleva e averne sempre risposta; veniva in casa la sera del giovedì e la sera della domenica, restandoci tre o quattro ore; se la ragazza usciva, egli ne era avvertito e si faceva trovare nella strada, come per combinazione, si univa alle due donne senza che donna Gabriella facesse alcuna osservazione e le accompagnava dovunque andavano; se le due signore andavano a teatro egli era il loro cavaliere di obbligo, portando la busta con l'occhialino, togliendo loro gli scialli e i mantelli, restando modestamente in fondo al palco. In verità, a tutti i colloqui dei due innamorati, donna Gabriella era sempre presente, non si allontanava un momento: ma questo è anche nel costume del paese, né i due pensavano a lagnarsene. Che importava s'ella era presente! Stavano seduti nella stanza da pranzo, intorno a una tavola ovale: nel mezzo vi era una lampada coperta da un gran paralume. Chiarina lavorava alacremente all'uncinetto, anche per dare una forma al tremito nervoso che le agitava le mani: donna Gabriella, ora in vestaglia rosa, ora in vestaglia azzurra, carica di oro, carica di grosse gemme, agitava un grande ventaglio nero, scintillante di puntini di argento: Giovannino faceva delle sigarette che poi fumava lentamente, taciturnamente. Erano, in vero, serate piene di dolcezza. In esse Chiarina sentiva svanire quel senso di amara diffidenza che le guastava tutta la sua gioia: lo sguardo di Giovannino la circondava in un ambiente carico di tenerezza, la voce di Giovannino, che ogni tanto rompeva il silenzio, la carezzava come un soffio amato: e quando egli parlava con quel suo tono basso, seduttore, ella involontariamente si fermava dal lavorare, le mani restavano immobili, mentre il sangue le saliva a riscaldarle le guance. La matrigna, dal primo giorno in cui aveva dato il gran consenso, continuava a mostrarsi insolitamente cortese. Pareva che, a un tratto, magicamente, Giovannino Affaitati avesse fatto cessare quell'odio profondo, quel profondo rancore che le aveva armate l'una contro l'altra, e che un fascino uguale avesse vinto la durezza del cuore dell'una, la fierezza del cuore dell'altra. Nelle sere in cui Giovannino Affaitati non aveva il permesso di venir su, le due donne passavano la sera insieme: ma Chiarina era sempre un po' nervosa e donna Gabriella sbadigliava, dimenticandosi di agitare il suo ventaglio, per far brillare le sue gemme. A un certo punto della serata un fischio dolce e sottile si faceva udire dalla piazzetta Ss. Apostoli. Chiarina trasaliva. "Eccolo" mormorava come a se stessa, la fanciulla. "Eccolo" diceva, a voce alta, donna Gabriella. Era Giovannino che passava a quell'ora, per andare a passare un po' del suo tempo al caffè di porta San Gennaro, dove era fama un tempo che si facessero i migliori gelati napoletani, e dove accorreva una folla di borghesi, impiegati e piccoli possidenti, preti e cabalisti del lotto. Giovannino fischiava, per farsi udire: e il fischio amorosamente significava: "Sono qui, ti amo, non ti scordare!". Chiarina restava con l'animo sospeso. "Dove andrà, ora? " chiedeva dopo un certo tempo, la matrigna. "Al caffè" rispondeva la fanciulla, quietamente. "A spender denari" borbottava donna Gabriella. Chiarina la guardava in faccia, ma senza dirle nulla. Alla fanciulla restava intiera tutta la sua antica fierezza: e non le diceva che Giovannino non sarebbe andato a spendere denari al caffè, se essa, la matrigna, avesse permesso che venisse su più spesso, la sera; non glielo diceva, perché sarebbe parso un pregarla di qualche cosa, la matrigna, ed ella, proprio, non voleva pregarla di niente. Certo la gran riconoscenza delle ore felici che passavano sul suo giovane capo aveva domato nel cuore di Chiarina la collera fervidamente giovanile che ella avea contro la matrigna: ma il ricordo delle pene di suo padre, il ricordo delle sue pene, ancora non si cancellava. Non voleva domandarle nulla, ecco. Se ella aveva mal giudicato la sua matrigna, se ella era stata ingiusta verso questa donna, la ragazza voleva ricredersi, sì; chiedere una grazia, un favore, giammai. Se ne stava chiusa nel suo carattere sensibile, eccessivo, ostinato, pronto all'emozione, ma non facile a dimenticare. Donna Gabriella, annoiata, picchiava col suo ventaglio sul bracciale della poltrona. Alla fine, seccata da quel volto taciturno di Chiarina, che non si moveva di una linea, chiamava Carminella. La serva sonnecchiava, pregando, in cucina. "Diciamoci questo santo rosario" mormorava donna Gabriella, senza muoversi dalla sua poltrona, dove stava sprofondata. Allora la serva prendeva una sedia, s'inginocchiava sulla nuda terra, posava i gomiti sulla paglia della sedia e il viso sulle mani: poi cominciava a dire il Mistero. Donna Gabriella ascoltava, attentamente, movendo un po' le labbra come se anch'essa dicesse le parole. Chiarina smetteva di lavorare, posando l'uncinetto e il filo sul marmo della tavola, mettendosi una mano innanzi gli occhi, come se si concentrasse nella preghiera. "...fructus ventris tui, Jesu " finiva di dire la pinzochera, con tono uniforme. "Sancta Maria" continuavano a dire, finendo l'Ave, le due donne, donna Gabriella a voce alta. Chiarina sottovoce. Quando arrivavano alle bellissime litanie della Vergine, Chiarina s'inginocchiava anche lei, appoggiandosi alla sedia come la serva Carminella. Solo donna Gabriella restava seduta. potendo difficilmente inginocchiarsi per la sua grassezza: ma si curvava un poco, come per rispetto. Talvolta mentre le litanie proseguivano, il fischio si udiva un'altra volta da piazza Ss. Apostoli, dolce e sottile. Era Giovannino Affaitati che ritornava dal caffè, e prima di rientrare a casa salutava la sua innamorata: "Sono qui, ti amo, non ti scordare! ". Solo le spalle di Chiarina, curvata a pregare, si vedevano trasalire. Donna Gabriella si fermava dal dire le litanie, distratta. E la serva Carminella, che intendeva tutto questo, alzava la voce più forte, come ammonendo, irritata, pregando come se dicesse delle ingiurie, e andandosene via alla fine del rosario, tutta incollerita, ricominciando a dirlo da sé, sola, in cucina, perché quel primo, con tutte quelle tentazioni, non le valeva, secondo lei, né per l'anima, né per il corpo. Fu così che Giovannino Affaitati cominciò a venire in casa di Chiarina tre volte alla settimana, invece di due: ci venne così, naturalmente, con grande conforto della ragazza innamorata, e senza che la matrigna se ne lagnasse. Giovannino serbava un contegno corretto: parlava poco, a voce bassa, chiedeva sempre il permesso di fumare, aveva, specialmente con la matrigna, tale una cortesia di modi, che questa feroce donna grassa, bitorzoluta e coperta d'oro, pareva incantata. Ora, ogni tanto, Giovannino si spingeva a parlare del loro avvenire, con Chiarina: costei lo ascoltava, beata, come se la più soave musica le risuonasse all'orecchio. Prima di rispondere, intimidita levava gli occhi sulla sua matrigna: poi rispondeva sottovoce, sempre timidamente. Una sera parlavano di corredo, di tela, di mussola, di quanto ci vuole, per cucire a macchina, una camicia, una sottana. "Per una camicia, ci metto due giorni" calcolava Chiarina, trasportata dal discorso, "per una sottana, un sol giorno". "Ci metti di più. ci metti di più" osservava la matrigna, intervenendo. "Credi pure che ci vuol più tempo, Clara" soggiungeva, sorridendo, Giovannino, scuotendo la cenere bianca della sua sigaretta. Dolci discorsi! L'indomani, Chiarina vide portare in casa da un facchino, che faceva i grossi servizi, due pezze grosse, una di finissima tela di Olanda, una di buona mussola. La fanciulla, tutta felice, palpava la tela per sentirne la finezza, stropicciava la mussola per farne cader l'amido, quando impallidì, accorgendosi di una cosa. Le pezze di tela e di mussola portavano un timbro, un timbro curioso: ella capì subito che era dell'agenzia di pegni e spegni di sua matrigna. Impallidì, tremò: quella roba apparteneva a della gente infelice, che l'aveva impegnata per miseria, che non aveva mai potuto spegnarla. Una tela, una mussola di lagrime e di sangue, come i mobili del dolore, venuti da un sequestro: come la batteria di casseruole della cucina, roba impegnata e mai spegnata: come i vestiti di donna Gabriella: come le gemme e l'oro che portava addosso donna Gabriella. Lacrime e sangue di povera gente, come tutte le cose. E in questo sopravvenne la matrigna. "Ci basterà?" chiese spiegando la tela, spiegando la mussola per guardarla contro luce. "Credo... credo che ci basterà" mormorò la ragazza, confusa. Poi, con uno sforzo grande, soggiunse: "Grazie!". "Che! dicevo che se non ci bastasse, ne ho dell'altra, tela, mussola, lino, tante pezze, l'agenzia è piena, questi straccioni non fanno che impegnarne. Buona roba, però. Misuriamola, dunque". E si misero a misurare, silenziosamente. Chiarina sentiva una fitta al cuore, inguaribile. La sera, quando venne Giovannino, fu più silenziosa del solito: ma la matrigna, per far ammirare la propria munificenza, fece portare la tela e la mussola, di cui una parte era già tagliata. Giovannino ammirò la qualità, domandò il valore, poi chiese alla sua fidanzata: "Chiarina, hai ringraziato la nostra buona mamma del regalo splendido che ci ha fatto?". "Ho ringraziato" mormorò la ragazza, senza levar gli occhi dal suo lavoro. "E vi ringrazio anch'io, bella mamma nostra" disse Giovannino con la sua voce da seduttore. Donna Gabriella si faceva vento, estasiata. Poi, chiamata, lasciò la stanza. E Chiarina sottovoce, rapidamente, disse a Giovannino: "Lo sai? è roba dell'agenzia". "Be'? e che fa? " chiese lui meravigliato. "Roba impegnata, ti dico" ribatté lei sgomenta. "Capisco. E che fa?" ripetette lui, quietamente. La fanciulla soffrì crudelmente, in quel momento: ma la matrigna rientrava e non osò dire altro. Tutto il palazzo, il giorno seguente, parlava della generosità di donna Gabriella, che faceva fare a Chiarina un corredo degno della figlia di una principessa. Ma la ragazza, disillusa, scorata, non aveva potuto chiudere occhio tutta la notte. Si era addormentata male, al mattino, parendole, nel sogno di aver addosso una fantastica camicia di lagrime, una fantastica sottana di sangue... e che donna Gabriella e Giovannino di ciò ridessero assai, assai. Ci vollero molti giorni a vincere i suoi scrupoli: e la delusione le restò nel cuore, dolorosa. Adesso lavorava alla macchina, anche di sera: il ticchettio dell'ingranaggio la distraeva da certi fastidiosi pensieri. Talvolta era così assorta nel lavoro, che la matrigna e Giovannino discorrevano insieme senza che essa se ne accorgesse nemmeno. Egli parlava alla grossa donna, tutta leziosa nelle sue vestaglie da giovinetta, con un profondo rispetto che la lusingava e aveva certe arie di attenzione, nell'ascoltarla, che lusingavano la grossa donna, rossa e tronfia. Ma come Chiarina levava gli occhi, Giovannino ricominciava a guardare la sua fidanzata con tanta tenerezza, che ella si sentiva morire d'amore, le parlava con tanta dolcezza, che ella smetteva di lavorare, vinta: e la macchina taceva, Ora, discorrevano spesso della loro futura casa: cioè Giovannino faceva il disegno di una bella stanza da letto, con un grande letto di ottone scintillante, appositamente fatto da Angelo Pesce, con un armadio di mogano, tutto scolpito e una grande lastra di cristallo per vedersi: "Ci vuole la toelette di mogano col marmo grigio" suggeriva maternamente donna Gabriella. "Anche la toelette , naturalmente, e una bella poltrona a sdraio, a piedi del letto, perché adesso così usa" aggiungeva Giovannino. Quando udiva questi dolci progetti Chiarina, che amava sempre più Giovannino, si perdeva nei sogni più lieti. Il giorno del matrimonio rappresentava per lei la liberazione, tutto l'oblio naturale del doloroso passato, il principio di una serena vita nuova, accanto al suo amore, loro due, soli soli, tenendosi per mano, nella gioia come nel dolore: ella sarebbe libera libera, accanto a lui, per sempre, divisi materialmente solo dalla morte, ma uniti anche di là, poiché ella credeva. Oh venisse presto questo giorno in cui ella sarebbe uscita dalla casa dove aveva tanto sofferto, per andarsene col suo sposo, nella loro casa, dove sarebbe stata la più felice fra le donne. Questo sognava la pia fanciulla innamorata; ma una sera, mentre Giovannino parlava di una bella immagine della Vergine, la Madonna di Valle di Pompei, da appendere al muro della stanza da letto, Chiarina, smettendo di lavorare, osò domandare: "E il salotto?", "Quale salotto?" intervenne a dire sorpresa la matrigna. "Il salotto per vedere qualcuno" disse, quasi tremando, la ragazza. "E non vi basta il mio? È bello, mi pare, tutto di broccato giallo, pare nuovo, Io, poi, non vedo nessuno, per voi resterà sempre libero". "Ah!" fece la ragazza, senz'altro. Sparito il soave sogno di libertà, di solitudine: sparito per sempre, malignamente. Giovannino, con gli occhi bassi, taceva. La matrigna, quella sera non si mosse un momento dalla sua poltrona. La ragazza lavorava vivacemente, un po' nervosa, spezzando spesso il filo, spezzando l'ago della macchina. Quando Giovannino si levò per andarsene ella si alzò, risolutamente, seguendolo fin fuori la porta. Là fuori lo trattenne. Erano soli. La luna illuminava il pianerottolo, le scale e il cortile. "Hai inteso ciò che ha detto la matrigna?" domandò ella, giuocherellando col lucchetto della porta. "Che ha detto?" fece lui, come infastidito. "Che non abbiamo bisogno di salotto. Abiteremo dunque con lei? ". "Pare". "E perché?". "Perché non abbiamo denari, figliuola mia" disse lui, carezzandole i capelli, lievemente. Ella si schivò: "Dovremo, dunque, vivere con la sua elemosina?". "Che elemosina! È mamma: ha denari e non sa che farsene; ha soltanto te; ha il dovere di darti da vivere". "Tu dovresti lavorare, Giovannino; tu dovresti darmi da vivere. Io voglio mangiare solo pane. ma da te, non da lei, Giovanni". "E lo farò, figliuola mia, lo farò; cercherò di lavorare, di guadagnare. Per ora, capirai... è difficile trovare. M'ingegnerò". "Promettimi che troverai" diss'ella, supplichevole. "Te lo prometto. Ma pel principio, sarà difficile, bisognerà che ci accomodiamo qui... vedrai. ci staremo bene...". "Ma dopo, almeno dopo, promettimi ancora, che dopo ce ne andremo, che non vivremo della sua elemosina " lo scongiurò lei. "Non dire queste parole cattive ed esagerate; sei un po' stravagante, tu. Quando non ci sono denari, bisogna esser ragionevoli. Ti prometto quello che vuoi, sta' tranquilla ". Si lasciarono turbati. Donna Gabriella stava in piedi, nella stanza da pranzo, come se aspettasse con impazienza il ritorno della nipote. "Hai tardato " disse soltanto, con un lieve aggrottare di ciglia. "Scusate, scusate " disse l'altra, scoppiando in lagrime. E quelle lagrime le rimasero in cuore, malgrado lo sfogo materiale. Non si poteva acconciare all'idea di dover vivere in casa della matrigna, mangiando il pane che ella le dava per carità. che tante volte le aveva rinfacciato di darle per carità: non poteva sopportare questa idea, per sé, per Giovannino, per la fierezza della loro nuova famiglia. E intanto, dovunque andava, sentiva dir bene della bontà di donna Gabriella, una santa donna, che dopo aver dato alla figliastra un corredo da principessa, ora le preparava un appartamento bellissimo cedendole nientemeno che il suo salotto di broccato giallo-oro. Sì: ma Chiarina non sapeva consolarsene. Tanto che ogni sera, con una certa ansietà domandava a Giovannino se avesse cercato, se avesse fatto delle pratiche. Egli le rispondeva, vagamente, di un posto nelle ferrovie, ma bisognava avere delle protezioni presso il direttore generale; di un concorso nella illuminazione della città, come impiegato d'ordine, roba municipale, ma bisognava conoscere il sindaco e l'assessore del ramo. Vagamente, ella s'appagava per poco, ma poi intendeva che egli non cercava sul serio, che le diceva delle parole così per consolarla e ingannarla. E insisteva, insisteva, con un certo affanno, fino a che egli si stringeva nelle spalle, come infastidito Invece, ora, egli parlava spesso di affari con la matrigna di Chiarina: dapprima gliene aveva domandato con cautela, come se si trattasse di cose estranee ed essa gli aveva risposto incertamente. Ma poi, a poco a poco, ella aveva cominciato a precisare chiaramente le sue cose e parlargli di quanto ha attinenza con l'oscuro e tetro mondo delle agenzie. Chiarina ascoltava, sorpresa: talvolta guardava Giovannino spaurita, quasi che volesse accertarsi esser proprio lui, non un altro, che discorreva di quelle tetre cose. "L'ufficio" diceva donna Gabriella, quando voleva nominare l'agenzia. "L'ufficio" ripeteva Giovannino, quando voleva nominare l'agenzia, con aria di misteriosa compunzione. Non osavano ancora darle il suo duro nome. Ma ormai ne parlavano ogni sera, a lungo, malgrado l'aria di sofferenza che prendeva il volto di Chiarina, ogni volta che cominciavano questo discorso. Donna Gabriella si lagnava amaramente che quelle streghe di femmine, quelle che portano per conto di un terzo che si vergogna l'oggetto a impegnare, esigevano un diritto troppo alto, una lira sopra ogni dieci lire. "E alla fine, queste brutte scellerate che lavoro fanno?" soggiungeva donna Gabriella quasi arrabbiandosi, "aspettano il povero vergognoso che non ha il coraggio di entrare nell'ufficio, gli levano di mano, con buona maniera, mettiamo l'orologio, e per questa sola fatica si prendono, per esempio, tre lire sopra trenta... ". "Una vera camorra" approvava Giovannino, con la sua voce che aveva cadenze attraenti. "E non ci è rimedio, capite! non ci è rimedio; dire che anche io l'ho fatto, sul principio, questo mestiere di piccola impegnatrice risparmiando la vergogna di entrare nell'ufficio a tanta gente, ma l'ho sempre fatto onestamente, prendendo mezza lira ogni dieci lire; con l'aiuto di Dio, con la protezione della Vergine, facevo tanti affari che valeva lo stesso!...". "Siete stata sempre una gran buona donna" esclamava Giovannino commosso guardandola, con ammirazione. Chiarina fremeva ogni tanto, come se udisse delle cose insopportabili, ma poi la mente le si confondeva e non udiva più, sentendo il rumor vago delle parole sentendo come un dolore senza puntura, un dolor sordo ma continuo. Una sera, per spiegare meglio a Giovannino certe cose, donna Gabriella andò a prendere di là, i registri dell'agenzia. I fidanzati rimasero soli: "Perché fai questo, Giovannino, perché lo fai?" domandò affannosamente la ragazza, tutta smarrita. "Tutto è buono a sapersi" disse lui, quietamente, buttando la sigaretta. Ella non replicò. Egli aveva su di lei un potere assoluto, lo adorava come un Dio, ma come un Dio che la poteva egualmente far piangere e far ridere. Soffriva per lui, ma non replicava, obbediente, domata. Tutta la sera, piegati sui grossi libri sudici, donna Gabriella e Giovannino stettero a studiare il crudele ingranaggio per cui l'impegnatore è sempre perfettamente al sicuro del suo capitale, per cui esige un interesse realmente crudele, e finisce per confiscare un oggetto che ha il triplo del valore del capitale esposto: il crudele ingranaggio per cui è quasi sempre impossibile che colui che ha impegnato un oggetto, lo ricuperi mai. "Ottanta volte sopra cento, a conti fatti, l'oggetto resta a noi" finì trionfalmente donna Gabriella, richiudendo il suo grosso e sudicio libro. "È bellissimo, bellissimo" mormorò Giovannino meditabondo. E malgrado le supplichevoli occhiate della sua fidanzata, egli chiese a donna Gabriella di prestargli quei libri, solo pel giorno seguente, che era domenica e non le servivano: ei voleva farvi sopra uno studio, vedeva delle cose nuove, lui, chissà che non potesse darle qualche miglior consiglio. Quando, uscendo, andò a stringere la mano della sua fidanzata, la trovò gelida. "Che hai, Chiarina?" le chiese sottovoce. "Soffro, mi fai soffrire" rispose ella quasi svenendo. "Non far la sciocca, lasciami fare, vedrai". Ma d'allora in poi, i loro dialoghi d'amore furono brevissimi. Tutta la serata, - Giovannino veniva adesso ogni sera, senza che gli si facesse nessuna osservazione dalla matrigna - era passata nel parlare dell'agenzia dei pegni, dell'interesse, della cartella , dello scatolino, per cui si pagava un altro diritto, insomma di tutto il negro corteo di negre parole che circonda questo strazio della povera gente. Giovannino ne parlava senza ribrezzo, con disinvoltura: aveva capito subito tutto, si faceva esperto, dava dei consigli pratici; donna Gabriella lo guardava con l'occhio intenerito. E, nascostamente, un giorno, Giovannino verso le dieci si recò all'agenzia, dove troneggiava donna Gabriella, e vi restò sino alle dodici. Finì per andarvi ogni giorno, ma di nascosto da quella povera innocente di Chiarina: e diventava, lui, Giovannino dallo sguardo ammaliatore, dalla voce così soave, diventava lui così aspro al guadagno, così sottile e rapace accumulatore di soldi, di mezze lire, di lire, che donna Gabriella era in uno stato di beatitudine. Ora, per andare all'agenzia, la grassa impegnatrice si acconciava coi migliori vestiti, coi cappelli più pomposi: stretta nel busto in modo da soffocare, portando sempre addosso quattro o cinquemila lire di gioie, e aveva comprato del Rossetter, per tingersi. Chiarina la vedeva uscire, ogni mattina, e la seguiva con lo sguardo, presa da un involontario tremito di paura: talvolta nervosa, agitata, senza sapere il perché, l'aspettava alla finestra, alle due del pomerIggio, fremendo d'impazienza. Infatti, un giorno, dal balcone del salotto che aveva sulla piazza, la vide tornare accompagnata da Giovannino. Ella si ritrasse indietro, colpita, ma inconscia ancora. La matrigna salì, sola: "Ho incontrato Giovannino" disse subito, "e mi son fatta accompagnare un poco ". "Ah!" fece l'altra. Ma la sera, il segreto del lavoro di Giovannino all'agenzia fu scoperto: poiché, ridendo, la grossa e grassa impegnatrice disse al fidanzato della sua figliastra: "Vi ricordate, eh, Giovannino, quel tale che voleva impegnare l'orologio di nichelle?". "Se non ci ero io, ve la faceva" rispose Giovannino, senza sgomentarsi ma senza voltarsi verso Chiarina. "È vero, ho visto che siete assai astuto, siete proprio nato per fare l'impegnatore". La ragazza si alzò, improvvisamente, e uscì dalla stanza. I due rimasero un po' in silenzio, guardandosi. Il primo a parlare, con disinvoltura, fu Giovannino; ma ogni tanto come un tremito gli passava nella voce. Chiarina non ricompariva. "Carminella, che fa Chiarina?" chiese donna Gabriella alla serva che aveva chiamata. "Sta dicendo le divozioni " rispose seccamente la pinzochera avvolgendo i due in una sola bieca occhiata: e se ne andò. Pure, poco dopo. Chiarina ricomparve. Si fermò, ritta sulla soglia: "Madre!" disse, con voce assai tramutata, "madre!". "Che è?". "Permettete che io dica due parole a Giovannino?". "Dille pure". "Deve essere in segreto, scusate. Vorrei che venisse di qua". "Non puoi dirle davanti a lei?" disse Giovannino, cercando di schivare il colloquio "Non posso, scusa, Giovannino; scusate, madre, ma debbo parlare in segreto" affermò, un po' commossa nella voce, Chiarina "Andate andate, Giovannino, contentatela" fece donna Gabriella con la sua aria di protezione materna. "Per ubbidirvi" fece lui, con un inchino. Chiarina lo prese per la mano e lo menò fuori il terrazzino, fuori quel terrazzino dal pozzo aperto dove avevano tenuto tanti deliziosi colloqui, quando il loro amore era così contrastato. Era notte oscura, una gran freschezza saliva dal pozzo aperto: eran lì fra quelle funi molli che ingombravano il terreno. Giù, sul terrazzo del primo piano, la serva della bella grassona, donna Peppina Ranaudo, tirava su faticosamente un secchio d'acqua, al lume di una fioca candela, canticchiando. Chiarina stringeva ancora convulsamente la mano del suo fidanzato: "Come hai cuore di far ciò?" chiese affannosamente. "Che cuore di che?". "Come puoi fare, anche tu, anche tu, amor mio, un mestiere così svergognato, così crudele?". "Non esagerare, Chiarina". "Non sai che è un mestiere di lagrime e di sangue? Non sai che tutti ci odiano, per questo: e che queste maledizioni della povera gente ci colpiscono?". "Non esagerare". "Non sai che io ne morrò, per la pena?". "Non si muore per così poco" mormorò lui, sorridendo, nell'ombra. "O amor mio, amor mio" gridò ella, torcendosi le braccia, "come potete voi far questo amandomi?". "Calmati, Clara calmati" fece lui spaventato. E le prese le mani, nell'ombra, gliele carezzò, le disse sottovoce delle parole vaghe, quasi per stordirla nel suo dolore. Ella ascoltava, ancora fremente, chetandosi a poco a poco; egli arrivava, adesso, a dei discorsi più pratici, più positivi. "Figliuola mia, tu stessa mi hai pregato di trovare del lavoro, per non campar di elemosina della matrigna. Ho cercato, hai visto, ho cercato assai, non ho trovato niente: tutto è questione di fortuna, di protezione. D'altronde tant'altra gente in merito, più di me, sta sul lastrico. Io non ho trovato nulla. Allora ho pensato di rendermi utile alla matrigna. Ti credi che non mi sia costato? Ho sofferto, ma ho sopportato, per amor tuo, per non farti vivere di elemosina...". Ella singhiozzò nell'ombra. "Non piangere, Clara, non c'è da piangere. Certo, non è un bel mestiere; ma per te, farei tutto Anche la matrigna. credilo, è una buona donna. Con noi si è condotta benissimo. Di che ti puoi lagnare? E i suoi interessi, capisci, figliuola mia, i suoi interessi sono nostri. Capiscilo una volta, cara, stupida mia, noi dobbiamo ereditare da lei. E d'altronde poi, se vi è della gente che ha bisogno d'impegnare quanto possiede, qualcheduno glielo deve pure impegnare, nevvero? "Non dir così" mormorò lei, esausta. "Non lo dico. Ma quello di badare ai nostri interessi, cuor mio, non me lo puoi rimproverare. Sai qual è la mia sola paura? È che la tua matrigna si rimariti. Allora staremmo freschi!". Ella lo guardò nell'ombra. "Ma non lo farà, credo" soggiunse subito lui, per temperare l'effetto delle sue parole. "È già di età, è una buona donna, bisogna pigliarla per il suo verso. Sei calma, ora?" "Sì". "Mi vuoi bene?". "...Sì". "Credi che io te ne voglio, tanto tanto?" "...Sì ". "Mi dai un bacio?". Era la prima volta che lo chiedeva. Ella fece un passo indietro, appoggiandosi allo sportello del pozzo e disse: "No!". "Sei cattiva: me lo darai un'altra volta" disse lui, ridendo un poco, per celare il suo imbarazzo. Rientrarono, senz'altro. Ma la fanciulla disse che era stanca e che voleva andare a letto. In verità, da quella sera non trovò più sonno: il suo eccitabile temperamento, esaltato dal dolore e dall'amore, non le faceva aver pace. La notte riaccendeva il lume, passeggiava per la stanza, scriveva, poi lacerava le lettere piene di strazio che le uscivano dalla penna, dirette a Giovannino. Metteva la testa nella catinella dell'acqua fredda, per calmarsi: un brivido gelato la colpiva. Talvolta, dietro la porta, sentiva un lieve passo. Era Carminella che dormiva poco discosto e che veniva, a piedi scalzi, a origliare. "Signorina?". "Che?". "Vi sentite male?". "No: ma non posso dormire". "Ditevi le orazioni". "Le ho dette". "Ditele un'altra volta". "Niente ci può, Carminella, niente ci può". "Raccomandatevi alla Madonna". "Si è scordata di me". "Non parlate così". "Buona notte". "Buona notte. Dio vi guardi". Anche il giorno Carminella le era sempre intorno, con certe premure che non le aveva mai fatte. E le erano intorno, quando usciva, tutti gli inquilini del palazzo Santobuono, che la chiamavano la sposa: ella sorrideva, la fanciulla, come una febbricitante che ha i gricciori addosso, a cui domandano notizia della sua febbre. Talvolta, quando era Carminella che l'accompagnava, la serva rispondeva lei, con la famigliarità abituale napoletana: "Con la volontà di Dio, il matrimonio si farà". Ora, Carminella cercava di attrarre spesso in chiesa la ragazza; e costei che non aveva pace, in nessun'ora del giorno, vi andava volentieri. Il gelo della chiesa le calmava l'ardore del cervello e la preghiera rannodava le fila confuse del suo pensiero. Sì, andava spesso in chiesa, alla mattina e alla sera, al vespro specialmente. Carminella si teneva sempre accanto a lei, come se volesse dirle qualche cosa, sempre: ma la fanciulla la guardava con cèra così smarrita, che quella faceva un atto come trangugiasse le parole e taceva. Andavano a vespro ogni sera: l'ora era dolce e i canti delle donne malinconici. Tanto che spesso la fanciulla, intenerita, si metteva a piangere. La sua fibra ormai cedeva, stanca, innanzi alla delusione profonda, innanzi alla profonda amarezza che l'aveva colpita, in pieno amore. Una sera, fra le altre, si sentì così male, che fu sul punto di svenire. Si fece bianca bianca. "Andiamo via" disse a Carminella. "La funzione non è finita" rispose la serva spaurita. "Se resto un altro minuto, vengo meno". A malincuore la pinzochera si levò e lentamente seguiva la padrona, quasi volesse costringerla a rallentare il passo. Ma costei, impaziente, nervosa, tornò indietro: "Hai la chiave?" chiese. "Non so..." "Devi averla, dammela". Macchinalmente la serva gliela dette e la fanciulla si mise a correre, innanzi, ansiosa di essere a casa sua, per buttarsi sul letto, come morta. La serva, come trasognata, non sapeva affrettare il passo per raggiungerla. La fanciulla aprì rapidamente la porta di casa, ma dall'anticamera un rumore di voci la colpì, un rumore di voci che le fecero livido il pallido volto. Ebbe la forza per avanzarsi, di scostare pian piano le tende di broccato giallo, di vedere il suo fidanzato che baciava dolcemente sulle labbra la sua matrigna. Un grido acutissimo, terribile, che nulla aveva di umano, attraversò l'appartamento, fu inteso dappertutto, chiamò i pacifici abitatori del palazzo di Santobuono, un grido che essi non dimenticheranno mai più. Poi fu intesa una corsa furiosa di gente attraverso l'appartamento, uno sbatter di porte, un chiamar supplichevole, disperato, di due voci: la porta del terrazzino, schiusa violentemente, fece cadere un cristallo rotto e nella sera un'ombra apparve sull'orlo del pozzo. Alle grida, tutte le finestre, tutti i pianerottoli s'illuminarono: donna Gabriella urlava dalla terrazzetta urlava: "S'è buttata nel pozzo, s'è buttata nel pozzo! " Il pozzaro arrivò soltanto dopo dieci minuti. Carminella era andata a cercarlo, dormiva ancora, perché lavorava dalla mezzanotte in poi sotto terra. Era un uomo alto e forte, in camicia e calzoni, scalzo, con certi occhi che ammiccavano. Nel cortile i cocchieri e i mozzi gli legarono una grossa corda intorno ai fianchi, ed egli incominciò la discesa. Silenzio grandissimo. Carminella sul pianerottolo del secondo piano, inginocchiata pregava fervidamente e forse tutti gli altri pregavano. La matrigna aveva abbassato la testa sul gelido ferro della ringhiera, mentre Giovannino guardava giù, fissamente. "Mollate" disse dal profondo, una voce fioca ai cocchieri. Il pozzaro era giunto. Dopo tre o quattro minuti diede una stratta forte: e i cocchieri e i mozzi cominciarono a tirare. Pesava. Egli portava il corpo. A un certo punto, donna Peppina Ranaudo che singhiozzava gridò: "Morta o viva?". "Morta!" fece una voce fioca e affannosa. E da tutte le parti, da su fino giù, nella via, nei vicoli fu un gemito, un pianto, un singhiozzo "Morta, morta, morta!"
La folla, oramai, confusa, stordita, fremente di mistica impazienza, non riconosceva più il gruppo degli antichissimi santi del primo tempo di Napoli, sant'Aspreno, san Severo, sant'Eusebio, sant'Agrippino e sant'Attanasio, santi vecchissimi, un po'oscuri, un po'ignoti: rumoreggiò come tuono, quando apparvero le statue dei cinque Franceschi che vegliano intorno a san Gennaro, nel Succorpo: san Francesco di Assisi, di Paola, di Geronimo, Caracciolo, Borgia; urlò nuovamente quando apparve sant'Anna, la madre della Madonna, a cui, dice il popolo, nessuna grazia è negata, mai: nessuno si occupò molto di san Domenico, l'inventore del rosario, poiché nessuno nella confusione di quell'ora pomeridiana, riconobbe il fiero monaco spagnuolo, salvo il fosco impiegato dell'Intendenza, don Domenico Mayer, che era stato respinto contro una muraglia dalla folla, e che teneva il cappello a cilindro abbassato sugli occhi, le braccia conserte in atto fiero e tetro sul soprabitone nero, e una dolorosa smorfia di scetticismo gli piegava le labbra. I santi passavano, passavano, sboccando dalla gran volta nera del Duomo, avviandosi verso Forcella, un po' più presto, adesso, e la folla si agitava a destra e a sinistra, quasi volesse liberarsi dall'incubo di quella attesa. La processione dei santi era lì lì per finire, durando da quasi un ora per la lentezza dell'incesso, finiva con san Gaetano Thiene, con l'angelico san Filippo Neri, con i santi dottori Tommaso e Agostino, finiva con santa Irene, con santa Maria Maddalena de' Pazzi, con la grande santa Teresa, in estasi, tutta ardore, tutta passione, la magnifica santa di Avila, che morì in una combustione di amor divino. Quando i santi cessarono la loro sfilata e i primi canonici della cattedrale comparvero, vi fu un immenso movimento nella gente che aspettava. Tutti tendevano il capo per veder meglio, per non perdere una linea dello spettacolo religioso, e l'attenzione era anche indomabile commozione. Finirono anche i canonici, e finalmente, sotto il grande pallio di broccato gallonato, frangiato di oro, pallido, con il volto raggiante di una espressione profonda di pietà, con le labbra che mormoravano una preghiera, apparve il Pastore della chiesa napoletana. Otto gentiluomini tenevano alti i bastoni del pallio: otto chierichetti, intorno, agitavano i turiboli fumanti d'incenso: e l'arcivescovo, che era un principe della Chiesa, un cardinale, camminava solo sotto il baldacchino, lentamente, con gli occhi fissi sulle proprie mani congiunte: e da tutte le genti che affollavano le vie, i portici, i balconi, le finestre e le terrazze, da tutte le donne che pregavano, da tutti i bambini che balbettavano il nome di san Gennaro, non al pallio, non ai paramenti d'oro, non alla mitria gemmata, si guardava: ma si guardava alle ceree mani congiunte dell'arcivescovo, si guardava teneramente, entusiasticamente, piangendo, gridando, chiedendo grazia, chiedendo pietà, magnetizzando ciò che l'arcivescovo stringeva fra le mani, tremanti di sacro rispetto. Lì, lì, tutti gli sguardi, tutti i sospiri, tutte le invocazioni. Il cardinale arcivescovo di Napoli teneva fra le mani le ampolline, dove era conservato il Prezioso Sangue. Nella grande e bella chiesa di Santa Chiara, tutta bianca di stucco e carica di dorature, simile a un amplissimo salone regale, la folla aspettava il miracolo di san Gennaro. Non era ancora notte, ma migliaia di ceri, sull'altar maggiore, nelle cappelle, e specialmente agli altari della Madonna e dell'Eterno Padre, illuminavano la vasta chiesa, ricca ed elegante. Sull'altar maggiore, sopra la bianca finissima tovaglia, in un piatto d'oro, era esposta la testa di san Gennaro, con la mitria vescovile gemmata, con la faccia rivestita d'oro: e più in mezzo erano le due ampolline del Prezioso Sangue coagulato, esposto alla venerazione dei fedeli. Intorno intorno all'altar maggiore, dentro la balaustra di legno antico scolpito che separa l'altar maggiore e un grande spazio dal resto della chiesa, erano le quarantasei statue di argento, che fanno la guardia di onore alle reliquie di san Gennaro: e innanzi all'altar maggiore il cardinale arcivescovo, insieme coi canonici, officianti il santo patrono di Napoli perché volesse fare il miracolo: dentro la balaustra, accanto all'altar maggiore, un solitario, e favorito, e fortunato gruppo di vecchi e di vecchie, tutti vestiti di nero, con fazzoletti e cravatte bianche al collo, gli uomini a capo scoperto, le donne col velo nero sui capelli, il gruppo osservato, commentato, invidiato da tutti gli altri devoti, il gruppo dei parenti di san Gennaro, il gruppo che solo aveva il diritto di salire sull'altar maggiore, di vedere il miracolo a mezzo metro di distanza. Poi l'immensa folla: nella grande unica navata di Santa Chiara e in tutte le cappelle laterali, fin fuori le due grandi porte, fin sugli scalini, fin nel chiostro di Santa Chiara, donde gli ultimi arrivati si rizzavano sulla punta dei piedi, presi dal bagliore di quelle migliaia di cerei, cercando di vedere qualche cosa, tormentandosi invano per spingersi un passo innanzi, mentre non vi era posto più per nessuno. E tutti agitati, inquieti, dal cardinale arcivescovo che orava, inginocchiato innanzi all'altare, all'ultima, umile femminetta del volgo, tutti attendevano che il divo Gennaro compisse il miracolo. Fervorosamente, col capo abbassato sulla sedia che aveva dinanzi, con la ingenua pietà del suo cuore giovanile, Bianca Maria Cavalcanti pregava, in quell'appressamento del miracoloso istante: pregava san Gennaro nel nome del suo Prezioso Sangue, di dar la pace al cuor di suo padre, di dar la fede al cuore di Antonio Amati: e candidamente, nella grande, saggia, profonda bontà dell'anima sua, nulla chiedeva per sé, bastandole che il cuore turbato, ammalato, straziato di suo padre avesse la tranquillità, bastandole che nel forte e fermo cuore di Antonio Amati, accanto all'amore umano, entrasse la più alta tenerezza dell'amore divino. Ecco, fra poco si sarebbe compito uno dei più grandi miracoli della religione: non poteva san Gennaro fare il miracolo in quei cuori, che essa adorava con tutte le sue forze? Bianca Maria, con le guance insolitamente accese di un sottil foco, di un sottil rossore, pregava con una forza contenuta di mistico entusiasmo, con una passione nova che era entrata a far divampare la sua gelida vita. Sull'altar maggiore, con la faccia volta al cielo, e traspirante una immensa fede, con la voce tremante di una commozione invincibile, il cardinale arcivescovo aveva detto le preghiere latine, dedicate al divo protettore di Napoli: e tutta la folla aveva risposto un lungo e tonante amen; amen vevano risposto le monache patrizie di Santa Chiara, nascoste dietro le inaccessibili graticciate del grande coro e dei coretti. Dopo gli oremus, i furono due o tre minuti di profondo silenzio, e il soffio precursore delle grandi cose parve fosse passato su quel popolo orante. Il gruppo dei parenti di san Gennaro, sull'altar maggiore, intuonò il Credo, n italiano, con grande impeto, e tutta la chiesa continuò il Credo; finito il Credo, ue minuti di aspettativa, molto inquieti, per vedere se cominciava il miracolo. Ma fu ripreso subito un secondo, un terzo Credo, on tale vigorìa d'intonazione, come se tutto il popolo proclamasse di credere, giurasse di credere sulla propria coscienza, dandosi alla fede, nello spirito e nelle fibre, con un grande fragore; inginocchiato, col volto fra le mani, il cardinale arcivescovo orava ancora, in silenzio. Dietro a lui, impetuosamente, a brevissimi intervalli, intuonati dai parenti di san Gennaro, ripetuti da tutta la folla, i Credo ontinuavano, e qua e là, fra il rombo generale, spiccava qualche nota profondamente grave di cuor desolato, spiccava qualche nota acutissima di fibre tormentate… Io credo, ridava la popolazione, con uno schianto di voce in cui parea si rompessero mille speranze, mille voti, mille preghiere. Ah! anche Luisella Fragalà, seduta in un angolo della chiesa, accanto alla malinconica signora Parascandolo, credeva profondamente: tanto che nella piccola convulsione, che cresceva nei suoi nervi di creatura pietosa e religiosa, le lagrime già le scorrevano su le guance, in silenzio: e nella oscura previsione di una sventura che ella sentiva avanzarsi, avanzarsi, senza vederla, senza distinguerla, ma sentendola implacabile nel suo viaggio, ella chiedeva a san Gennaro la forza che egli ebbe nel suo atroce martirio, per sopportare il misterioso cataclisma che le sovrastava. Anche la signora Parascandolo pronunciava il Credo, nsieme col popolo, con voce fioca: ma nelle pause quasi paurose per la trepidazione del miracolo imminente, la povera signora, orfana di tutti i suoi figli, chiedeva a san Gennaro, perché le ottenesse una grazia, perché la togliesse dalla terra d'esilio, donde tutti i suoi figliuoli erano fuggiti, lasciandola sola, brancicante nell'ombra e nel freddo. E la felice madre della rosea e bruna Agnesina come la madre infelicissima, egualmente trafitte, una dal passato, l'altra dall'avvenire, ambedue domandavano, con le lacrime negli occhi, la forza per vincere, la forza per morire. Ma l'ansia del popolo pregante cominciò al quindicesimo Credo; e parole della fede suonavano squillanti, come una sfida gittata alla incredulità, ma portavano il tremore di non so quale ignota paura: la pausa fra un Credo l'altro si prolungava, gittando il popolo in un accasciamento d'attesa, che pareva ne troncasse i nervi: la ripresa era fatta entusiasticamente, quasi il gran sentimento rinascesse formidabile, come tutti i sentimenti delle folle. Le più furiose di passione mistica erano le vecchie dell'altar maggiore: ma dietro di loro, una vampa correva da un cuore all'altro, portando l'incendio divoratore anche nei molli, indolenti temperamenti, anche fra gli scettici che fremevano, quasi una rivelazione ancora oscura li avesse colpiti e si venisse chiarendo ai loro occhi. Al ventunesimo Credo, l silenzio dell'aspettazione ebbe qualche cosa di angoscioso. Tutti gli occhi andavano dalla testa del santo, giacente nel vassoio di oro, alle ampolline di cristallo trasparentissimo, dove si vedeva il grumo nerastro e duro del sangue. La testa scintillava nella sua mitria gemmata, nella sua maschera gialla d'oro, dai riflessi metallici, un po' lividi: il sangue era lì cagliato, una pietra che le preghiere non arrivavano a spezzare, e al ventiduesimo Credo, ntuonato con uno scoppio di collera, qualche grido si udì, di chiamata, di invocazione, disperatamente: - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro… Le febbrili preghiere recitate dal gran popolo orante nella chiesa di Santa Chiara, le preghiere che umilmente, nervosamente, convulsamente, invocavano il miracolo dal santo patrono di Napoli, erano pronunciate con grande fervore da due donne inginocchiate tra la folla, appoggiate coi gomiti alle sedie di paglia, col volto fra le mani, con tutto un abbandono dell'anima e della persona alla grazia che chiedevano. Donna Caterina la tenitrice di lotto clandestino e donna Concetta la strozzina, si erano votate in comune a san Gennaro, per un anello vescovile di oro massiccio, con una grossa pietra di topazio, se faceva loro la grazia di risolvere il loro cruccio: o cambiar il cuore dei due fidanzati, Ciccillo e Alfonso Jannaccone, rendendoli indulgenti alle speculazioni delle due sorelle, o cambiar il cuore delle due sorelle, distaccandolo dall'amor del denaro. Un anello, un anello, un anellone magnifico al miracoloso santo, se faceva quello spirituale miracolo: così pregavano, a bassa voce, ambedue, con lo stesso fervore, col capo abbassato, ripetendo monotonamente la loro offerta, levando ogni tanto i supplici occhi inondati di lacrime, sull'altar maggiore, dove il gran mistero era imminente. Ma il popolo era già dominato dalla paura di quel ritardo: provava il gran terrore che proprio in quell'anno, dopo due secoli e mezzo, il santo, sdegnato forse dei peccati della popolazione, si rifiutasse a fare quel miracolo, che è la pruova della sua benevolenza. E il Credo, ipreso dopo pause più lunghe, più profonde e quindi più emozionanti di silenzio, aveva qualche cosa di pauroso, di collerico quasi, sgorgava come un impulso disperato: ma soprattutto le voci delle vecchie sull'altar maggiore si facevano irose, spaventate, tremanti di dolore e di terrore - e in un silenzio, a un tratto, una di esse disse, con voce dove tremava una familiarità devota, uno scherzo umile e un'impazienza invincibile: - Vecchio dispettoso, ci vuoi far aspettare, eh! - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro! - urlò il popolo, eccitato bizzarramente. Laggiù, verso il fondo della chiesa, presso la muraglia dove dolcifica la vista coi suoi scialbi colori quella smorta e soave Madonna, che dicono sia di Giotto, la figura di don Pasqualino l' assistito ra tutta una preghiera: stava ritto, ma aveva la testa e le spalle piegate, in un atto di profondo ossequio, e quando, ogni tanto, stanco o ispirato, levava la faccia, guardando il cielo dorato e pitturato della chiesa, il bianco dell'occhio pareva stragrande, smisurato, e ogni colore era svanito sulle guance, dove un livido pallore andava crescendo. Attorno a lui, per un magnetico potere di attrazione, tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni, si erano venuti raccogliendo: tutti turbati in volto, tutti in preda a una disperazione repressa che pure scoppiava sulle diverse fisonomie: tutti giunti in fondo a un abisso di dolore, poiché anche quel sabato aveva portato loro una delusione immensa, due ore prima, con l'estrazione dei numeri: tutti curvati sotto un rimorso mordente, sentendosi ognuno colpevole verso gli altri e verso sé stesso: il marchese di Formosa, curva, quasi decrepita la bella e nobile persona, sentendo l'onta della sua vita senza decoro, dove tutto periva, anche sua figlia, in un agonia di infermità e di miseria; Cesare Fragalà, la cui situazione commerciale sempre più si complicava, sentendo egli la freddezza dei suoi amici negozianti, dei suoi corrispondenti, sentendo la malinconia palese di sua moglie e le sue segrete apprensioni, e sperando sempre, e sempre invano, di accomodar tutto, con una grossa vincita; Ninetto Costa, pallido e sorridente, con gli occhi cerchiati dalle veglie e dalle preoccupazioni, pensando, ogni tanto, alla sua catastrofe, scegliendo, ogni tanto, mentalmente, fra la fuga disonorante e il colpo di rivoltella che non assolve, ma che pacifica; il barone Lamarra, grosso, grasso, floscio, maledicente i suoi sogni ambiziosi di pezzente risalito, fremente all'idea di quella cambiale, firmata da lui e da sua moglie; l'avv. Marzano, il cui dolce sorriso pareva quello di un ebete, e che ogni settimana aumentava le sue privazioni per poter giuocare, avendo cessato di fumare, di prender tabacco, di bere vino, avendo impegnato la sua cartella di pensione, essendo malamente complicato in equivoci affari; Colaneri e Trifari, il professore e il dottore, che non trovavano più studenti, e il primo specialmente, sentendo intorno a sé il sospetto, il discredito, temendo ogni mattina, quando entrava in iscuola, di esser cacciato via da un ordine superiore, di essere accoppato dagli studenti: tutti, tutti, in preda a quella desolazione del sabato sera, l'ora negra, l'ora terribile in cui solo la coscienza parlava, alta, dura, inflessibile. Eppure erano in chiesa, e i più indifferenti, i più increduli mormoravano qualche parola di preghiera: eppure erano ancora attorno all' assistito lo guardavano ardentemente a pregare, e si capiva in quell'attrazione che ancora li aveva vinti, in quegli sguardi bruciati, che, passata la dolorosa cogitazione di quel momento, di quell'ora, la passione attendeva per riprenderseli. Ah, ma quell'ora, quell'ora, in quella grande folla che esalava nella preghiera tutta la sua infelicità, era tremenda per essi, colpevoli, come la fatale notte di Getsemani fu tremenda al Grande Innocente. Disperati, tutti, fissavano l'altar maggiore dove ardevano i cerei e si riflettevano sulla metallica faccia del santo. - San Gennaro, san Gennaro, - urlava la gente, a ogni Credo he finiva. E lo sgomento che il miracolo non accadesse soffiava su quelle teste, scoppiava in quelle voci. Le parenti di san Gennaro erano convulse di dolore e di collera; si era giunti al trentacinquesimo Credo, 'ora passava, con una lentezza di minaccia: ed esse, sentendosi nel medesimo tempo offese dal ritardo del loro santo antenato, e disperate della sua collera, lo interpellavano così: - San Gennaro, faccia d'oro, non ci fare aspettare più! - Sei in collera, eh? Che ti abbiamo fatto? - Vecchio rabbioso, fa il miracolo al popolo tuo! Ed era inesprimibile il sentimento d'ira, di tenerezza, di devozione, di agitazione, che spirava in queste ingiurie, in queste pietose invocazioni. Dice la leggenda che san Gennaro ama molto di farsi pregare e non si sdegna delle parole che le sue parenti e il popolo gli dirigono, e l'emozione del popolo era tanta che, al trentottesimo Credo, versetti della preghiera furono detti disperatamente, come se ogni parola fosse strappata da uno strazio supremo e in fondo scoppiarono le grida: - Faccia verde! - Faccia gialluta! - Santo malamente! - Fa il miracolo, fa il miracolo. Il trentottesimo Credo u clamore: lo dicevano tutti, da un capo all'altro della chiesa, il cardinale, i preti, le vecchie parenti, uomini, donne bimbi, tutti, tutti, presi da un grande furore mistico. E a un tratto, nella pausa di immenso silenzio che susseguì alla preghiera, l'arcivescovo si voltò al popolo: la faccia del sacerdote, irradiata di una luce quasi divina, pareva trasfigurata: e la bianca mano, levata in alto mostrava al popolo l'ampollina: il Prezioso Sangue, nel sottilissimo involucro di cristallo, bolliva. Quale urlo! Ne parvero scosse le fondamenta dell'antica chiesa; ebbe echi così forti e lunghi, che sgomentarono i viandanti delle strade circonvicine; e parve che le sonore campane del campanile vibrassero sole; e il gran pianto, il gran singhiozzo di tutto il popolo inginocchiato, buttato a terra, singultante con la bocca sul freddo marmo, levante le braccia, dibattendosi sotto la grande visione del Sangue che bolliva, non ebbe termine. Come morte, giacevano prostrate sull'altar maggiore le vecchie parenti; una sola possente forza aveva piegato tutta la folla; era tutto un lamento, tutto un sussulto tutta una preghiera; ognuno in quel minuto lunghissimo diceva ad alta voce, fra le lacrime calde e il tremor della voce, la sua parola di dolore. Sull'altar maggiore l'arcivescovo e il clero, tutti in piedi, a voce spiegata, superante la gran voce dell'organo, cantavano il Te Deum.
Ella tacque, aveva abbassato il capo e guardava la sua bimba che dormiva placidissimamente; poi, sottovoce, ma con un fremito indomabile, disse al marito: - Tu vuoi impegnare i miei gioielli, per giuocare al lotto. - Non è vero. - gridò lui. - Non dire bugie. Puoi dirlo innanzi a me, innanzi a tua figlia, che non servono per il lotto? - Non parlarmi così, Luisella, - balbettò lui, con le lacrime agli occhi. - Servono per il lotto, abbi il coraggio del tuo vizio, non aggravarti la coscienza di menzogne, - replicò la moglie, con la ferocia della disperazione. - Non è un vizio, Luisa, era a fin di bene che ho giuocato, a fin di bene, per te, per Agnesina… - Un padre di famiglia non giuoca. - Era per aprire il magazzino a San Ferdinando, mi ci volevano settantamila lire, Luisa, e non le avevo, sai che abbiamo tutto il denaro in giro. - Non giuoca, un padre di famiglia. - Per la felicità di noi tutti, Luisa, te lo giuro, credimi, per quanto voglio bene ad Agnesina! - Tu non le vuoi bene: se le volessi bene, non giuocheresti. - Luisella, non mortificarmi, non avvilirmi, sii buona, sai quanto ti ho amata, quanto ti amo. - Non è vero; se mi amassi non giuocheresti, - gridò lei, esasperata. Egli si buttò sopra una sediolina di ferro, appoggiando le braccia e la testa a un tavolinetto di marmo: si nascondeva la faccia fra le mani, non sapendo sopportare la collera di sua moglie e il peso dei suoi rimorsi. Non provava che un dolore grande, che un immenso dolore, sormontato solo da quel bisogno di denaro, acuto, trafiggente. E con quel cruccio, nuovamente, levò la testa e le disse: - Luisella, se hai caro il mio onore, non farmi fare cattiva figura, domani: dammi i tuoi gioielli, te li ridarò lunedì. - Prendi i gioielli, sono tuoi, - diss'ella lentamente, con gli occhi bassi: - Ma non dire che me li restituirai lunedì, poiché non è vero. Tutti i giuocatori mentiscono così. La roba impegnata non ritorna mai a casa. Prendi tutto. Che posso io dirti? Ero una povera ragazza senza dote e tu un ricco negoziante; ti sei degnato sposarmi e mi hai fatto cambiare stato; non debbo io ringraziarti di ciò, per tutta la vita? Prendi tutto, sei il padrone della casa, di me, di tua figlia. Oggi tu prenderai i gioielli e ne giuocherai il valore; domani venderai i mobili di prezzo, il rame della cucina, la biancheria di casa; si fa sempre così. Anche il marchese Cavalcanti, quello che abita sopra a noi, non ha fatto così? Sua figlia non ha più un tozzo di pane da mettere in bocca: e se il dottore Amati non li soccorresse segretamente, morirebbero di fame. Chi ci soccorrerà, noi, quando fra un anno, fra sei mesi, ci troveremo come loro? Chissà! Forse anche io impazzirò, come minaccia d'impazzire, quella povera signorina del terzo piano, lassù. Suo padre le fa apparire gli spiriti, è uno schianto, fra tutti quelli che la conoscono. Ma che farci! I padri, i mariti sono padroni. Prendi i brillanti, impegnali, vendili, gittali nell'abisso dove è caduto e si è perduto il tuo denaro, io non ci tengo più. Erano il mio orgoglio di sposa felice, quando li mettevo alle orecchie e nei capelli; quando aprivo il cassetto per guardarli, io benedicevo il tuo nome, Cesare, poiché fra le altre consolazioni, tu mi avevi dato questa. È finita, è finita, abbiamo chiuso il libro delle consolazioni, l'ultima parola è stata scritta. - Luisella, per carità! - strillò lui, mezzo pazzo, sentendosi abbruciare la carne e l'anima da quelle roventi parole. - La carità! La cercheremo noi, Cesare, fra breve. Oggi i brillanti, domani gli altri oggetti preziosi, poi tutto, tutto quello che possediamo, tutto sparirà, tutto sarà stato un fugace sogno, - replicò lei, guardando innanzi a sé, ostinatamente, come se già vedesse l'orribile spettacolo della decadenza. - Eppure io ne ho bisogno, ne ho bisogno, - gridò lui, con la dolorosa cocciutaggine dell'uomo disperato, che sente solo l'impulso della sua tendenza malsana. - Chi ti nega nulla? Anche Agnesina ha i suoi orecchinetti di perle, uniscili, la somma sarà più forte: la sua culla è ricca di merletti antichi, regalatile dalla signora Parascandolo, hanno un bel valore, prendili, aumenta la somma. - Ascolta Luisella, ascolta, - riprese il marito affannosamente, l'emozione gli mozzava il fiato, - io ti giuro che questi denari non mi servono per giuocare, non avrei osato chiederli a te, che sei una santa donna, che hai mille ragioni di avvilirmi; ma è un debito per il giuoco che ho fatto! È un debito terribile, usurario, pel quale domani mi si minaccia il protesto, la citazione, il sequestro E questo non può essere, no, non può essere! Il negoziante a cui si protesta una cambiale, deve morire. - È vero, - ella disse, piegando il capo. - Forse… - egli soggiunse, dopo una brevissima esitazione, - forse ne avrei presa una piccola parte, di questo denaro, per tentare solo di rifarmi, solo per questo, Luisa… - Ma insomma, - gridò la moglie, esasperata, - tu non puoi astenerti dal giuocare? Egli tremò come un fanciullo colpevole e non rispose. - Non puoi astenerti? - domandò lei, nuovamente, assalita dal più terribile fra gli sgomenti. - Senti, senti, è una passione perfida, non sai che cosa sia, bisogna averla provata per conoscerla, bisogna aver palpitato e sognato, per sapere che è! Cominci a giuocare per ischerzo, per curiosità, per una piccola sfida buttata alla fortuna, e continui, punto sul vivo dalle delusioni, eccitato da un vago desiderio che si va formando: guai se prendi qualche cosa. un ambo, un piccolo terno! Guai, poiché ti appare la possibilità del guadagno, nella sua forma reale, poiché tu diventi certa, capisci, sei certa che guadagnerai una grossa somma, una immensa somma, poiché hai vinto la piccola, e ci rimetti non solo quello che hai guadagnato, ma il doppio, il triplo, nelle settimane che seguono la vincita, è il denaro del diavolo che ritorna all'inferno! Oh che passione, che passione, Luisa! Guai se non guadagni e guai se guadagni! Allora il sogno che per sette giorni ti alimenta l'esistenza e l'ottavo giorno ti dà un'amarissima delusione, finisce per abbruciarti il sangue; e per aumentare la probabilità, per vincere a qualunque costo, le giuocate aumentano strabocchevolmente, fantasticamente, e il desiderio della vincita diventa un furore e l'anima si ammala, si ammala, e non si vede, non si sente più nulla, non vi è famiglia, non vi è posizione, non vi è fortuna che resista a questa passione. - Oh Dio! - diss'ella, pianamente, quasi fosse sui punto di cadere in un abisso. - Hai ragione, Luisella, hai ragione di maltrattarmi, di calpestarmi col tuo disprezzo. Hai ragione tu, sono un cattivo marito, un pessimo padre, ho rovinato la mia famiglia hai ragione, - ripeteva Cesarino convulsamente. - Io era un giovanotto allegro e laborioso, tutti mi volevano bene, i miei affari andavano magnificamente, tu eri la mia gioia e Agnesina era la mia consolazione. Ah qual fascino mi ha vinto, che maledetta idea mi è venuta, di voler guadagnare sessantamila lire al lotto, per mettere bottega a San Ferdinando? Oh una dannata idea che mi ha messo nel sangue le fiamme dell'inferno! Ho voluto arricchirvi col giuoco, capisci, quando i danari si guadagnano solo col lavoro! Ho voluto arricchirvi giuocando, quando mio nonno e mio padre mi hanno insegnato, con l'esempio, che solo contentandosi del poco, solo mettendo un soldo sopra un soldo si giunge alla ricchezza! Che pazzia mi ha preso, che malattia mi ha reso così infelice, che passione, che orribile passione! Pallida, con le labbra stirate da un moto nervoso che ella faceva per reprimere i singulti, addossata alla spalliera del suo seggiolone la povera donna udiva quell'angosciosa confessione, oppressa da un'angoscia senza nome. - Quanto ho giocato? - riprese Cesarino, che oramai parea che parlasse con sé stesso, senza vedere più sua moglie, senza udire più il placido respiro della sua figliuola addormentata. - Non lo so, non mi rammento più, è una gran liquefazione di denaro, come in un crogiuolo, donde fuggisse tutto il metallo. Sulle prime giuocavo moderatamente, cercando di mettervi della temperanza, dell'abilità: come se il giuoco del lotto non fosse l'ironia più beffarda, che fa la fortuna all'uomo! Allora segnavo i denari che giuocavo, sopra un taccuino dove segno le mie spese ordinarie: ma dopo, dopo, è stato tale un aumento di febbre, che io non mi rammento più, Luisella, non mi rammento quante migliaia di lire ho gittate via, così, pazzamente, in un brutto sogno, in un delirio che ogni venerdì ripeteva il suo accesso furioso. Ah Luisella, tu non sai, non sai, ma noi siamo rovinati… - Lo so, - ella disse, pian piano, guardando il roseo volto della piccolina dove il sonno manteneva la bella serenità infantile. - Non sai, non puoi saper tutto! Io ho dato fondo ai denari che mettevo da parte, per i pagamenti semestrali e annuali: io ho giuocato quelle migliaia di lire che avevamo messe sulla cassa di risparmio, intestate ad Agnesina, le ho rubato il denaro che le avevo donato, il suo denaro! Io ho mancato ai miei impegni commerciali e le case corrispondenti hanno perduto la fiducia nel mio credito, non vogliono più saperne di me, non mi mandano la merce; lo vedi, la bottega si va vuotando, io non ho i contanti per riempirla di mercanzia; io non ho più pagato neppure la rata dell'assicurazione, se domani si brucia la bottega, io non prendo un centesimo, sono un cattivo pagatore! Non sai! non sai! Io ho cercato denaro qua e là, disperatamente, mettendomi in mano agli Strozzini, mangiato sino all'osso, massime da don Gennaro Parascandolo… - Dal compare di Agnesina! - esclamò dolorosamente Luisella, nascondendosi il volto fra le mani. - Innanzi al denaro, non vi è parentela o amicizia, il denaro indurisce tutti i cuori. Questi debiti sono la mia vergogna e il mio tormento. Un negoziante che prende il denaro all'otto per cento al mese, tutti lo giudicano rovinato e hanno ragione, l'usura è una cosa indegna per chi la fa e per chi la subisce! Come farò? La stagione è infame, per i poveri e per i ricchi, e fosse anche magnifica, i guadagni non basterebbero a pagare neppure l'interesse dei miei debiti! Pensa che è un miracolo, se Cesare Fragalà, il capo della casa Fragalà, non è stato dichiarato ancora in istato di fallimento, di fallimento doloso, poiché un negoziante non può togliere il denaro ai suoi creditori per giuocarlo al lotto, poiché questo è un furto, capisci, un furto, e i ladri vanno in galera! Dopo aver messo la mia famiglia alla miseria, io toglierò loro, per questa infernale passione, anche l'onore! E non potendo più sostenere il peso della sua infelicità, egli scoppiò in singhiozzi, affogato, piangendo come un bimbo. Ella, tremante di emozione, sentendo nel cuore una immensa pietà per suo marito e un immenso spavento dell'avvenire, aveva levato il capo, energicamente. - Non vi è rimedio, dunque? - ella disse, con la sua voce ferma di donna buona e amorosa. - Non ve n'è, - rispose lui, aprendo le braccia, con un cenno desolato. - Siamo in un precipizio, lo capisco, lo vedo, ma un rimedio vi deve essere, - ribattè lei, ostinata, non volendo cedere. - Prega la Madonna, prega, - mormorò lui, come un fanciullo, più smarrito di un fanciullo. - Troviamo un rimedio insieme, Cesare, - replicò ancora ella, con dolcezza. - Cercalo tu, io non so più niente, io non ho più né volontà, né forza, cerca tu, cerca, poiché io sono perduto e credo che nulla varrà a salvarmi. La desolata parola ebbe come un'eco lugubre, in quel gaio bianco magazzino, tutto smagliante di rasi e di porcellane. Poscia, un silenzio profondo si fece, fra i due sposi. Ella, raccolta in sé, con la fermezza di sguardo interiore delle donne forti, misurava l'estensione di quella sventura. Non provava più sdegno, ogni collera si era dileguata innanzi alla voce straziante di quel giovane uomo che era stato così sereno, così lieto, e che adesso balbettava affannosamente le parole del suo incurabile errore. Quello che ella aveva inteso, nell'angoscia sgorgante dall'imo cuore di suo marito, quello che ella aveva intravveduto, quello spettacolo doloroso e imponente, avevan fatto un'opera di epurazione, e dalla sua anima generosa ogni personale risentimento era sparito. Ella non provava che un infinito desiderio di abnegazione, che l'ardente bisogno di salvare suo marito e la sua casa. Sparite le grettezze che potevano, in qualche ora, restringere il suo spirito femminile, la sua anima si elevava alle altruistiche altezze del sacrificio. Egli restava terra terra, avvinghiato dalla sua passione, non trovando in essa neppure la violenta grandezza del marchese Carlo Cavalcanti: e il suo dolore, il suo lamento avevano la monotonia e il ritmo del pianto di un bimbo. Ella, invece, al contatto della sciagura, si spiritualizzava, lasciando che tutta la parte nobile del proprio carattere signoreggiasse. Si sentiva, dopo quella incomposta confessione, più che la giovane sposa di suo marito, la sua provvida sorella, la sua madre misericordiosa, come una proteggitrice alta e magnanima, dimentica di tutte le pretese naturali della moglie e della donna. Egli piangeva, là, buttato con le braccia e con la testa sopra un tavolino, abbattuto come una misera creatura la cui infelicità è veramente infinita e irrimediabile: mentre ella, raccolta, studiava il gran mezzo della salvazione. Ma, subitamente, col zittìo delle labbra, ella gli impose di tacere. Agnesina, la bambinella, si era svegliata così, dolcemente, come ella soleva, senza piangere e senza gridare; seduta saviamente sulla sua sediolina, guardava sua madre, con gli occhioni spalancati, scintillanti di dolcezza. Luisella si levò dal seggiolone, dove era restata confitta e si chinò a baciare lungamente la sua creatura, quasi che in quel bacio ella ricevesse forza e ricambiasse affetto. La piccina guardava, senza parlare, suo padre che avea il capo abbassato sul marmo del tavolino; poi domandò: - Papà dorme? - No, no, - disse la madre, passando nella retrobottega a prendere la mantellina e il cappello. - Va a dargli un bacio. Va, digli così: papà, non è niente, non è niente. La bimba, obbediente, andò accanto a suo padre e appoggiando gli la testina alle ginocchia gli disse, con la sua bella voce cantante infantile: - Papà, dammi un bacio: non è niente; non è niente. Allora il cuore gonfio del povero giovane si spezzò, e sui neri capelli della sua creaturina, piovvero le lacrime più cocenti che avesse versato nella sua vita. Annodandosi i nastri del cappellino, udendo quei singulti disperati, Luisella fremeva per reprimere le sue lacrime, ma non interveniva, lasciava che quel cuore desolato si sfogasse e si racconsolasse, baciando la piccina: e la piccina, meravigliata, andava ripetendo, sotto quelle lacrime, sotto quei baci: - Papà mio… papà mio.., non è niente. - Andiamo via, - disse Luisella, rientrando nella bottega, mordendosi le labbra, cercando d'impietrarsi il cuore. Ancora commosso, Cesarino tolse in braccio la fanciulletta, come faceva ogni sera, quando ella si addormentava in bottega: le mise il cappuccetto di lana sulla testa, annodandoglielo sotto il mento. Luisella andava mettendo ancora un po' d'ordine nella bottega, levando la chiave dalla cassaforte, sentendo se tutti i cassetti del bancone fossero chiusi, con quell'istinto di ordine che è nelle alacri mani di tutte le donne giovani, sane e buone. Abbassarono il gas, mentre Luisella accendeva un cerino: se ne andarono per la retrobottega e per la piccola porta che metteva nel vicolo dei Bianchi. Pioveva sempre e il caldo vento sciroccale batteva sul volto la pioggia tiepida di estate: ma erano poco lungi dalla casa. Cesarino aprì l'ombrello e la moglie gli si mise sotto il braccio, per ripararsi dalla pioggia: la bambina, raccolta sull'altro braccio, gli appoggiava la testina sulla spalla. E tutti tre andavano chini, sotto la tempesta estiva, senza parlare, stretti stretti, l'uno all'altro, come se solamente l'amore potesse scamparli, nella gran bufera della vita, che li voleva travolgere. Nella notte, sotto l'ira del cielo, pareva che andassero, andassero a un destino di dolore, ma le due creature innocenti che si stringevano affettuosamente al misero colpevole, pareva che chiedessero e portassero salvezza. Niente avevano detto, finché giunsero in casa, su, dove la serva li aspettava con la porta aperta, e stese le braccia a prendere Agnesina, per portarla in camera sua, per spogliarla ed addormentarla. Ma la creaturina, quasi avesse intesa la gravità di quell'ora, volle ancora farsi abbracciare dal padre e dalla madre, dicendo loro, con quel suo dolce linguaggio infantile: - Mammà, beneditemi: papà, beneditemi. Al fine furono di nuovo soli, nella loro stanza, dove la lampadetta di argento ardeva innanzi alla madre di Gesù, la pia, la dolorosa madre. Cesare era accasciato. Ma Luisella schiuse subito la porta a cristallo del suo grande armadio di palissandro, dove chiudeva i suoi oggetti più preziosi, stette un po'a cercare in quella penombra, e ne cavò fuori due o tre astucci di pelle nera. - Ecco, - disse a suo marito, offrendogli i suoi gioielli. - O Luisa, Luisa! - gridò lui, straziato. - Li dò volentieri. Per l'onor nostro. Non oserei tenere queste pietre, queste gioie, inutili, quando siamo in pericolo di mancare all'onestà. Prendi. Ma per tutto quello che è stato di dolce il nostro passato, ma per tutto quello che può essere di terribile il nostro avvenire, per l'amore che mi hai portato, per quello che ti porto, per quella creaturina nostra, sulla cui testa adorata hai pianto, questa sera, Cesare, te ne prego con tutta l'anima, te ne prego come si prega Cristo all'altare, concedimi una promessa… - Luisa, Luisa, tu vuoi farmi morire… - gridò lui, mettendosi le mani nei capelli. - Prometti di lasciare in mia mano tutti gli affari del nostro commercio, debiti e crediti, compera e vendita? - Prometto… - Prometti di dirmi tutto ciò che devi dare, acciò che io possa pensare al rimedio? - Prometto… - Prometti di dare a me tutto il denaro che hai, che puoi avere, e di non cercarne altro, che non sappia io? - Tutto, tutto, Luisa… - Prometti di credere solo a me, di udire solo i miei consigli, di ascoltare solo la mia voce? - Prometto… - Prometti che nessuno varrà più di me, prometti che mi ubbidirai, come a tua madre, quando eri fanciullo? - Come a mia madre, obbedirò. - Giura tutto questo. - Lo giuro innanzi alla Madonna, che ci ascolta. - Preghiamo, adesso. Ambedue, piamente, si inginocchiarono innanzi alla sacra immagine. Ambedue dissero, insieme, sottovoce, il Pater noster, più forte, alla fine, levando gli occhi, ella disse: - Non c'indurre in tentazione… E lui, ripetette, umilissimamente, sconsolatamente: - Non c'indurre in tentazione…
In piazza San Ferdinando le carrozze da nolo, dal soffietto levato, erano tutte lucide di pioggia, stillanti acqua da tutte le parti: bagnati sino alle ossa, grondavano di pioggia i lunghi e magri cavalli dalla testa abbassata: raggricchiati, col cappelluccio sformato sugli occhi, col capo abbassato sul petto, con le mani convulsamente ficcate nelle tasche dello sdrucito cappotto, i cocchieri ricevevano pazientemente l'ondata che cadeva dal cielo; e tutto era triste, intorno, il palazzo reale, la piazza, il porticato e la chiesa di San Francesco di Paola, la Prefettura, il Comando di Piazza e i grandi caffè, tutto triste, malgrado la grandezza e i tanti lumi accesi dietro i cristalli, triste anche la maestosa mole del teatro San Carlo, tutto il notturno paesaggio avvolto nella fragorosa burrasca che non aveva posa, traendo, dalla stanchezza, nuova forza a batter case, strade e uomini. I passanti erano rari; e apparivano come ombre di creature infelici, sotto gli ombrelli sgocciolanti di pioggia, oppure rasentavano le muraglie, non avendo l'ombrello, col bavero alzato, e il cappello molle, fradicio di acqua. Qualche raro viandante scantonava, da Toledo a via Nardones, una via abbastanza larga posta nel miglior centro della città, e intanto conservante un aspetto equivoco, quasi di strada male abitata e mal sicura: una via senza tetraggine, ma spirante la diffidenza delle chiuse finestre, dei balconi scarsamente illuminati, dei portoncini socchiusi, dove lo sguardo si perde in un buio androne. Qualche grande portone, ogni tanto, spezzava questa impressione di sospetto, col chiarore del suo gas e l'ampiezza del suo cortile: ma qualche bottega, dai poco puliti cristalli velati di una stoffa rossastra, ermeticamente chiusa, illuminata fiocamente, dietro cui si disegnavano delle bizzarre ombre piccolissime o gigantesche, gittava di nuovo un vago turbamento nell'animo di coloro che se ne tornavano alle loro case, piegati sotto il peso delle cure e della lunga fatica. A un certo punto, una donna, appena coperta da uno scialle nero, sul vestito di lanetta gialla e sulla camiciuola bianca, scantonò, da Toledo, salendo lentamente la via Nardones, tenendo le due cocche del fazzoletto che le copriva il capo, strette fra i denti e riparandosi dalla pioggia, sotto un ombrello piccolo piccolo. Ella andava con precauzione, levando i passi in modo da bagnare il meno possibile le sue scarpette di pelle lucida e mostrando le calzette rosse di cotone. Quando passò sotto un lampione dalla luce rossiccia, levò il capo e apparve il volto, oramai stanco e triste, sotto il belletto grossolano, di Maddalena, la infelice sorella di Annarella e di Carmela. Ella arrivò innanzi alla equivoca bottega dalle tendine rossastre, e si fermò davanti ai cristalli, come se tentasse di vedere una persona, un fatto che accadesse là dentro, senza osare di aprire. Ma, salvo il movimento di certe ombre nere incappellate, non si distingueva nulla: ed ella, dopo aver esitato un bel pezzo, si decise a metter la mano sulla maniglia e a schiudere uno sportello della bottega: introdusse la testa dallo spiraglio, timidamente, e chiamò: - Raffaele, Raffaele… - Ora vengo, - rispose la voce del giovanotto camorrista, di dentro, con una lieve intonazione di impazienza. Subito, ella rinchiuse: e sotto la pioggia, pazientemente, si mise ad aspettare. Qualche uomo passava e le gittava una strana occhiata, eccitato da quell'incontro, in quella bizzarra temperatura burrascosa in quell'ora della notte che si avanzava, in quella via deserta. Ma ella chinava gli occhi, quasi si vergognasse: e sogguardava l'estremità di via Nardones, per vedere chi ne spuntasse, temendo continuamente di esser sorpresa. A un tratto trasalì: due popolani si avvicinavano, risalendo la via Nardones, senza discorrere fra loro, prendendosi sulle spalle tutta la pioggia: un vecchio sciancato, trascinante la gobba e la gamba più lunga, il lustrino Michele, senza la sua cassetta dove lustrava le scarpe, e un altro, magro, pallido, con certi occhi ardenti nelle occhiaie incavate, Gaetano, il tagliatore di guanti. Nel riconoscere il marito di sua sorella Annarella, suo cognato, Maddalena fu presa da un fremito di paura; si strinse al muro, come se volesse rientrarvi, abbassò l'ombrello e pregò, mentalmente, perché Gaetano non la riconoscesse, con le labbra che non arrivavano a balbettare le parole della preghiera. Fremeva, fremeva…temendo che la bottega si aprisse in quel momento e che Gaetano riconoscesse colui che usciva di là dentro. Ma Gaetano, il tagliatore di guanti, ricevendo sul capo l'ondata della pioggia, non badava a coloro che si trovavano nella strada, fortunatamente per Maddalena: né la porta della bottega si schiuse, quando egli passava. Anzi i due popolani scomparvero, uno dopo l'altro, in un portoncino lontano una quarantina di passi, dove anche qualche altro uomo, prima di loro, era sparito. Ma sotto il suo rossetto, Maddalena si sentiva le guance gelide dalla paura e riaprì la porta della bottega, pregando, invocando, sottovoce: - Raffaele, Raffaele… - Vengo, vengo, - rispose il giovanotto, seccato, senza nemmeno accorgersi che la povera donna aspettava da tempo, sotto la pioggia, nella notte, nella via spazzata dal vento. Ella sospirò, profondamente, e gli occhi che non avevano più bisogno di bistro, tanto li sottolineava un ombra nera di stanchezza e di dolore, si riempirono di lacrime. La pioggia adesso aveva inzuppato l'ombrello di cotone verdastro e scendeva sul capo di Maddalena, le immollava i neri capelli lucidi e le rigava la faccia e il collo, un'acqua tiepida, come se fosse di lagrime. Ma ella non sentiva neppure quello scorrere della pioggia, fatta insensibile, e non vide le altre tre o quattro persone, che sbucando da Toledo, risalendo verso l'altitudine di via Nardones, scomparvero nel portoncino, dove si erano cacciati Michele il lustrino e Gaetano il tagliatore di guanti. Di dentro la bottega, le ombre si agitarono, mentre un fragore di voci che discutevano, si levava, ed ella tese l'orecchio, ansiosamente, sentendo che Raffaele bestemmiava e minacciava. Ah! non potette resistere al tumulto delle voci irose e schiuse nuovamente la porta, gridando, supplicando: - Raffaele, Raffaele! Ancora altre parole colleriche scoppiarono, dall'una parte e dall'altra, fra coloro che bevevano e giuocavano in quel losco caffettuccio. E Raffaele, messosi in capo il cappello con un pugno, uscì dalla bottega, come respinto da chi vi si trovava: trovandosi avanti quella figura umile di Maddalena, tutta bagnata, col rossetto stinto sulle guance, con la faccia stravolta dalla disperazione, egli bestemmiò come un sacrilego, e le diede uno spintone brutale. - Andiamocene, andiamocene, - disse lei, senza badare a quell'atto e a quelle parole di bestemmia. Il camorrista la mandò a farsi uccidere, furiosamente. Ma pioveva e egli non aveva ombrello, il giacchettino corto lo riparava assai male, e si mise sotto l'ombrello, bestemmiando fra i denti, ancora. - Abbi pazienza, abbi pazienza, - diceva lei, allungando il passo sul selciato, per stare sempre vicino a lui, abbassando l'ombrello dalla sua parte, per non farlo troppo bagnare. - Ma non lo sai, che al bigliardo non ci devi venire? - le disse il giovanotto, con una collera repressa. - Io mi secco di far la figura del ragazzo, che lo vengono a prendere, alla scuola. Mi secco! - Abbi pazienza, non ho potuto resistere, - mormorò lei, bevendo le lacrime che le scendevano sulle guance e che non poteva asciugare. - Io ti lascio, quanto è vero il nome di Gesù, ti lascio! Hai il difetto di tua sorella, tu: stracciata che mi faceva schifo, mi veniva a cercare, dovunque, per farmi burlare dai miei amici. L'ho lasciata per questo, capisci? - Povera sorella mia, - mormorò lei, lamentandosi. - Tu non sei stracciata, tu: ma mi fai scorno lo stesso, capisci? - Capisco. - Se no, ti lascio come ho lasciato Carmela: sono un giovanotto d'onore, hai capito? - Ho capito. - E non ci venir più. - Non ci verrò più. Continuavano ancora questo dialogo, egli furioso della perdita al giuoco dello zecchinetto, della rissa coi compagni e della mancanza di denaro, ella, contrita, sentendo che quei maltrattamenti erano la giusta punizione del tradimento fatto a sua sorella: tanto che, mentre egli mordeva, nell'angolo delle labbra, il suo mozzicone spento e seguitava a malmenarla, rinfacciandole la sua infelice esistenza, vilipendendola con ogni ingiuria, ella andava accanto a lui, pallida, poiché tutto il rossetto si era dileguato sotto la pioggia, con la camiciuola intrisa di acqua che le si attaccava alle spalle e i capelli che le s'incollavano sulla fronte, andava, abbassando maternamente l'ombrello dalla sua parte, sopportando l'insulto, ebbra di dolore e di pentimento, ripetendo macchinalmente: - È poco, è poco… Lassù, tutti quelli che erano entrati nel portoncino a mano destra di via Nardones, erano saliti per una scaletta di un piano solo, dirimpetto alla scala principale, un po' più grande: erano entrati in un quartierino di due stanzette che si affittavano per uso di studio, ome diceva il padrone di casa, visto che non vi era cucina. Ma le due stanzette erano così basse di soffitto e così scarsamente illuminate da due finestrelle, erano così freddi i pavimenti dai mattoni rossastri, così sporche le carte da parati e così unta la vernice delle porte e delle finestre, che nessun meschinissimo notaio, o avvocato povero, o medico senza clienti, o commerciante di loschi affari, vi restava più di un mese. Il ciabattino che serviva da portiere e gli abitanti che passavano dalla scala grande, erano dunque abituati a veder salire e scendere continuamente visi nuovi, giovani e vecchi, uscieri e mezzani d'affari, una sfilata di persone dalle facce scialbe e dagli equivoci sguardi. Chi si occupava delle persone colà abitanti? Nessuno, neppure il portiere che non aveva stipendio dagli inquilini del quartierino, e che non si curava, quindi, dei cambiamenti di affittuario. Sulla scala principale abitavano persone affaccendate, affittacamere, maestri di calligrafia, un dentista di terz'ordine, una levatrice e altra gente curiosa, bizzarra, che saliva e scendeva, presa dai suoi interessi, dai suoi affari, dalla sua decente miseria, o dalla sua inutile corruzione: gente che badava poco al vicinato, tanto che lo studio empre in preda a un nuovo inquilino, o deserto di abitanti si potea dire isolato. Il cartello si loca i stava, sul portone, tutto l'anno: tanto non era possibile trovare un affittuario ad anno, e ogni mese si era alle stesse. Quando il quartierino era affittato, allora la chiave, all'imbrunire, la portava via l'inquilino: quando era vacante, il ciabattino la teneva sul suo banchetto, e, assentandosi, la consegnava alla carbonaia dirimpetto. La scaletta del quartierino era qua e là, sbocconcellata: lubrica e pericolosa per chi non avesse buone gambe e buoni occhi. Adesso, in quell'agosto, da un paio di mesi, la casetta era stata presa in affitto da un signore giovane, decentemente vestito, come un provinciale quasi elegante, grasso, grosso, con un collo taurino, e una faccia dove il rosso del pelo si mescolava al rosso della carnagione, dandogli una fisonomia scoppiante di sangue. Così lo studio i iapriva ogni tanto nella settimana, per qualche ora, e due o tre persone vi venivano, talvolta di più. Scomparse nella scaletta, non si udiva più nulla, nulla appariva dietro gli sporchi vetri delle finestre: solo, dopo qualche ora, quelle persone ricomparivano, ad una ad una, alcune rosse in viso come se avessero lungamente gridato, altre pallide come se le divorasse una collera repressa. Sparivano, ognuna per la sua strada, talvolta senza che le vedesse neppure il portinaio. Ma in una sera della settimana, sempre la stessa, convenivano nello studio ette od otto uomini: una lampada a petrolio, sudicia, coperta da un paralume di carta verde, che poteva costare tre soldi, illuminava la stanzetta nuda e sporca: i soli mobili erano un tavolino greggio e otto o dieci sedie scompagnate. In quella sera il conciliabolo durava sino oltre la mezzanotte e spesso, sui vetri, si disegnava bizzarramente qualche ombra gesticolante, che qualche volta si appoggiava agli sportelli, guardando macchinalmente nella tetra oscurità del cortiletto, quasi vi vedesse le apparizioni del proprio spirito agitato; il ciabattino, stanco della sua dura giornata gittava una occhiata indifferente alle finestre del quartierino, le vedeva ancora illuminate e crollando le spalle se ne andava a dormire in uno stambugio, una specie di sottoscala. Il cortiletto restava al buio, il portone era socchiuso: ancora qualcuno andava e veniva, con precauzione, dalla cosidetta scala grande, qualche misterioso cliente notturno del dentista, qualche cliente frettoloso che veniva a chiamare la levatrice: e costoro schiudevano senza far rumore la porta, per andarsene. Era dopo la mezzanotte che gli ospiti del dottor Trifari se ne andavano dall'ammezzato, tutti insieme, silenziosi, accalcandosi uno dopo l'altro, per uscir via più presto. L'ultimo si tirava dietro la porta del quartierino, con un rumore di legno vecchio crocchiante. Le due stanzette, che componevano lo studio, icadevano nella loro solitudine, e per la città si perdevano coloro che avevano colà palpitato, nell'ansietà del loro sogno. Ma in quella triste serata, il povero ciabattino, febbricitante, sentendo nelle ossa il brivido della terzana e l'umidità dell'aria temporalesca, era andato a letto dall'imbrunire, lasciando aperto il portone, ravvolgendosi nella sdrucita coperta e nel cappotto lacero, che portava durante la giornata. Così, nello stordimento della febbre che gli era sopraggiunta e che gli metteva un macigno sul petto, egli intese lo scalpiccìo di coloro che salivano e scendevano, dalla scala grande e da quella dell'ammezzato, e due o tre volte gli parve che delle voci si levassero, dallo studio, ove oveuna delle finestre era aperta, mentre il vento sciroccale che portava la pioggia, ingolfandovisi, faceva vacillare la fiammella della lampada a petrolio. Sul pavimento dissestato del cortiletto, continuava a cadere la pioggia, coprendo qualunque altro rumore: a un certo punto, la finestra fu chiusa e non si udì più nulla. Poi, più tardi furon chiuse anche le imposte e tutto ricadde nell'ombra profonda. Pure, colà dentro erano raccolti degli uomini. E primo a giungere era stato Trifari, il padron di casa del quartierino: aveva acceso il lume ed era penetrato nella seconda stanza, ad accomodare certe cose, andando e venendo, col cappello un po' indietro sulla fronte: malgrado lo scirocco, per la prima volta, sulla faccia rossastra era scomparso il colore: e sulla fronte qualche gocciolina di sudore appariva. Ogni tanto si fermava, quasi si pentisse di quello che andava facendo o che andava pensando: ma si rianimava da quel momento di abbattimento, subito. E quando lo stridulo campanello dello studio innì la prima volta, il dottor Trifari ebbe un sussulto e stette incerto, quasi non osando di aprire. Pure, andò: e schiudendo solo a metà il battente, con precauzione, lasciò passare Colaneri che aveva una faccia assai torbida e tutte le spalle bagnate, poiché il piccolo e gramo ombrello gli riparava solo il capo. Scambiarono la buona sera, a voce bassa. L'ex-prete, dagli sguardi guardinghi dietro gli occhiali, si asciugava con un fazzoletto di dubbia bianchezza le mani bagnate, le mani grasse e floscie e biancastre, che sono speciali ai sacerdoti. Non si parlavano. Una medesima, complessa angoscia li opprimeva, tanto che la consueta verbosità meridionale ne era domata; e tutto l'eccitamento del passato, vinto da una serie di delusioni, pareva si fosse risoluto in un esaurimento di tutte le forze. A un tratto, levando il capo, Colaneri domandò: - Verrà? - Sì, - soffiò fra le labbra, il dottore. - Non ha sospetti? - Nessun sospetto. Una raffica di vento s'ingolfò nella stanza e fu per smorzare il lume, fu allora che Trifari andò a chiudere i vetri. - Tutto quello che facciamo, è necessario, - soggiunse il professor Colaneri, ripetendo ad alta voce la scusa, che andava ripetendo, da qualche giorno, alla sua coscienza. - È impossibile andare più innanzi, - osservò, con voce tetra, il dottore, mentre, per darsi un'aria di disinvoltura che non aveva, accendeva un sigaro, lungamente, lasciando spegnere i fiammiferi. - Il rapporto che hanno fatto contro di me al Ministero è terribile. - disse Colaneri, sottovoce, con gli occhi bassi. - Ho una quantità di nemici, giovanotti che ho riprovato agli esami, capisci. Mi hanno denunziato al preside del liceo, dicendogli che ho venduto il tema dell'esame a dieci studenti: hanno messo anche i nomi… - Come hanno potuto saper questo? - chiese il medico, lentamente. - Chissà! Ho tanti nemici… il preside ha fatto un orribile rapporto, io sono minacciato. - Di destituzione? - Non solo… di processo… - Eh, via! - Tanti nemici, Trifari, tanti! La minaccia è grave: come potrò provare la mia innocenza? - Li hai poi venduti, questi temi?… - borbottò cinicamente il dottore, buttando via il suo sigaro. - La paga è così meschina, Trifari ! E gli esami sono tutta una impostura! - Se ti fanno un processo, è male… - Sono perduto, se mi processano. Bisogna aver la fortuna in mano, questa volta, per forza, capisci? È necessario: se no, sono rovinato. Non mi resta che tirarmi un colpo di rivoltella, se mi processano. Dobbiamo vincere, Trifari! - Vinceremo, - affermò l'altro. - Io ho una quantità di guai, al mio paese e qui. Mio padre ha venduto tutto; mio fratello invece di tornare a casa. dopo aver fatto il soldato, per la miseria, si è arruolato come carabiniere; mia sorella non si marita più, non ha più un soldo, è ridotta a cucire i vestiti delle contadine ricche… Avevamo poco, io ho mangiato tutto… una quantità di debiti, di obbligazioni… Il padre di quello studente che firmò la cambiale a don Gennaro Parascandolo, vuole darmi querela per truffa… dobbiamo vincere, Colaneri, non possiamo più vivere una settimana senza vincere… io sono più rovinato di te… Suonarono pian piano. - È lui, forse! - domandò Colaneri, con un leggiero tremito nella voce. - No, no, - rispose Trifari. - Viene più tardi, quando ci saremo tutti… - Chi lo porta? - Cavalcanti. - Egli non ha sospetti, dunque? - No, niente. - E lo spirito, nulla gli dice? - Pare che lo spirito non si possa opporre alla fatalità, perché nulla gli dice. - Fatalità! fatalità! Suonarono nuovamente. Trifari andò ad aprire. Era l'avvocato Marzano, il vecchietto arzillo, bonario, sorridente. Ma una improvvisa decrepitezza parea che lo avesse assalito: il pallore del volto si era fatto giallastro, i mustacchi pepe e sale erano tutti bianchi e pioventi radi sulle labbra. Il sorriso era scomparso, come se per sempre, e all'approssimarsi della morte, fosse sparito dalla sua anima il criterio buono dell'esistenza. Entrando, sospirò. Era tutto bagnato; il soprabito luccicava di goccioline d'acqua, dovunque, e le scarne mani tremavano. Si sedette, silenzioso: tenne il cappello sul capo, abbassato sulle orecchie, e la bocca solamente conservava l'antica consuetudine di muoversi continuamente, masticando cifre. Adesso aveva appoggiato al bastone il mento aguzzo, dove una barba incolta cresceva, e si assorbiva nei suoi pensieri, senza neppur udire quello che dicevano fra loro Trifari e Colaneri. A un tratto, anche lui, avendo lo stesso pensiero dominante, domandò: - Verrà? - Verrà, sicuramente. - risposero insieme, gli altri due. - Non se lo immagina? - Non s'immagina niente. - Questi assistiti, vedono assai, o non vedono nulla. - Meglio così, - mormorarono gli altri due. Il dottor Trifari, udendo bussare alla porta, andò prima nella seconda stanza a prendere tre o quattro altre sedie e le collocò intorno al grezzo tavolino. Entrarono Ninetto Costa e don Crescenzo, il tenitore di Banco lotto, al vico del Nunzio. L'agente di cambio aveva perduto tutta la sua eleganza. Era vestito alla meglio, con un abito da mattino, su cui un troppo chiaro soprabitino aveva larghe chiazze di acqua: sulla cravatta di raso nera, era confitto uno spillo di strass. con l'eleganza era anche sparito il suo bel sorriso di uomo felice, che gli scopriva i denti bianchi. L'agente di cambio andava, a stento, di liquidazione in liquidazione, senz'arrischiarsi più, non osando più giuocare, avendo perduta tutta la sua audacia; e arrivando solamente a tenere a bada i suoi creditori, che gli avevan ancora fede, così, perché il suo nome era conosciuto in Borsa, perché suo padre era stato un modello d'integrità e perché egli stesso era stato così fortunato, che tutti ancora credevano alla sua fortuna; ma il disgraziato sapeva che era giunta l'ora della crisi, che non avrebbe potuto neppure pagare gli interessi dei suoi debiti, e che il nome di Ninetto Costa sarebbe stato quello di un fallito, fra poco. Oh, aveva smesso tutto, casa sontuosa, equipaggi, amanti di lusso, viaggi, pranzi e vestiti inglesi di Poole, ma tutto questo sacrificio non bastava, non bastava, poiché il cancro che gli rodeva il seno, il cancro che rodeva tutti, non era stato estirpato, poiché egli continuava disperatamente a giuocare al lotto, preso oramai totalmente, anima e corpo, chiudendo gli occhi in quella tempesta, per non veder venir l'onda che lo avrebbe sommerso. Accanto a lui, don Crescenzo, dalla bella faccia serena, dalla barba castana ben pettinata, aveva anche lui le tracce di una decadenza iniziale. A furia di stare a contatto coi febbricitanti, come chi tocca le mani troppo calde, qualche cosa gli si era attaccato: e innanzi alle disperate insistenze dei giuocatori, egli era arrivato a far credito ai giuocatori. In qual modo resistere alle supplichevoli domande di Ninetto Costa, alle pretese che nascondevano una vaga minaccia di Trifari e Colaneri, alle nobili promesse del marchese Cavalcanti, a quelle diverse forme di preghiere? Sul principio faceva loro credito dal venerdì al martedì mattina, giorno in cui preparava il versamento allo Stato, ed essi rinnovando ogni settimana il miracolo, arrivavano a restituirgli quello che gli dovevano, perché egli potesse essere puntuale, il mercoledì; ma alla lunga, esaurite le risorse, qualcuno di costoro cominciò a pagare una parte, o a non pagare niente: egli cominciò a rimetterci del suo, per non farsi sequestrare dallo Stato la cauzione. I giuocatori non osavano ricomparire che quando avevano di nuovo denaro, scontavano una parte del debito e il resto lo giuocavano: uno era addirittura sparito, il barone Lamarra, il figliuolo dello scalpellino, che era divenuto appaltatore e riccone. Gli doveva più di duemila lire, a don Crescenzo, il barone Lamarra, e quando costui lo ebbe aspettato, per due o tre settimane, andò a rincorrerlo a casa. Trovò la moglie, in uno stato di furore; il barone Lamarra aveva falsificato la firma di lei, sopra una quantità di cambiali, e ora le toccava pagare, se non voleva diventare la moglie di un falsario, doveva pagare, purtroppo, ma aveva già fatto domanda di separazione: il barone Lamarra se n'era fuggito a Isernia, donde non dava segno di vita. Don Crescenzo fu cacciato via, in malo modo. Duemila e più lire perdute! Giurò di non far più credito a nessuno: e malgrado che ogni tanto pagassero qualche somma, i suoi debitori, restavano sempre sette od ottomila lire arrischiate, con poca speranza di riaverle: ottomila lire, giusto la somma dei suoi risparmi di vari anni. D'altronde, non li poteva tormentare troppo, i suoi debitori; non avevano, oramai, che certe risorse disperate che saltavano fuori solamente innanzi all'ardente e scellerata volontà di giuocare. Ed era adesso lui che s'interessava vivamente al loro giuoco, che desiderava le loro vincite, per poter rientrare nelle sue economie, per riacquistare quel denaro messo così imprudentemente al servizio di quei viziosi, sorvegliando i giuocatori, perché non andassero a giuocare altrove, inquieto, ammalato, anche lui, oramai, al contatto di tanti infermi. Per questo, il misterioso disegno che si doveva compiere quella sera, gli era noto: non gli si poteva nascondere più nulla, tutti gli dovevano del denaro. E malgrado che una segreta amicizia, diremo quasi una complicità, lo unisse a don Pasqualino, l' assistito egli taceva sul misterioso disegno e il silenzio pareva un'approvazione. Erano già in cinque, nella stanzetta, seduti intorno alla tavola, in pose diverse di raccoglimento, anzi di preoccupazione: non parlavano, alcuni col capo abbassato, segnando ghirigori con le unghie sul greggio piano del tavolino, altri guardando il fumoso soffitto, dove la lampada a petrolio gittava un piccolo cerchio di luce. - A Roma si è pagato settecentomila lire - disse don Crescenzo, per ispezzare quel penoso silenzio. - Beati loro, beati loro! - gridarono due o tre, con un impeto d'invidia ai fortunati vincitori di Roma. - Se ciò che facciamo, riesce, - mormorò tetramente Colaneri, i cui occhiali avevano un triste scintillìo, - il governo paga a Napoli tre o quattro milioni. - Dobbiamo riuscire, - ribattè Ninetto Costa. - L'urna sarà comandata questa volta, - disse misticamente il vecchietto Marzano. Bussarono nuovamente, pian piano, come se una timidezza indebolisse la mano che bussava. Trifari disparve, ad aprire, dopo aver domandato, attraverso la porta, chi era, insospettito subitaneamente. Gli fu risposto amici riconobbe la voce. E i due popolani, Gaetano il tagliatore di guanti, Michele il lustrino, entrarono: si cavarono il berretto, augurando la buonasera: restarono sulla soglia della stanzetta, non osando sedere, innanzi a quei galantuomini. uori, infuriava lo scirocco e la pioggia: e una grondaia carica d'acqua traboccava nel cortiletto, con un forte scroscio. Adesso, sotto le impannate della finestra, dalla fessura, entrava un rivolo di acqua continuamente, bagnava il poggiuolo della finestra e colava a rivoletti sul terreno: gli ombrelli chiusi, ma sgangherati, appoggiati ai muri, negli angoli, colavano acqua sul pavimento impolverato, e, sotto le scarpe bagnate, si formava una poltiglia di fango: gli uomini seduti non si muovevano, in un immobilità grave, in un silenzio lugubre, quasi che stessero lì a vegliare un morto, colti dalla stanchezza, dall'oppressione, dai loro funebri pensieri. I due popolani, in piedi, uno scarno, scialbo, con le spalle curve di chi fa il mestiere di tagliatore, coi capelli già radi alla fronte e alle tempie, l'altro sciancato, gobbo, bistorto come un cavaturaccioli, vecchio e pur vivace nella faccia rugosa e arguta, i due popolani tacevano anche essi, aspettando. Solo Ninetto Costa, per darsi un qualunque aspetto di disinvoltura, aveva cavato un vecchio taccuino, residuo della sua antica eleganza, e vi scriveva delle cifre, con un piccolo lapis, bagnandone in bocca la matita. Ma erano cifre fantastiche: e la mano gli tremava un pochino: gli amici dicevano che erano gli eccessi dell'esistenza, che la facevano tremare. Così passarono una quindicina di minuti, minuti lunghi, lenti, gravi sulle anime di tutti coloro che aspettavano, per mettere a esecuzione il loro segreto progetto. - Che tempaccio! - disse Ninetto Costa, passando una mano sulla fronte. - Si è aperto il cielo - osservò don Crescenzo, sbadigliando nervosamente. - Dottore, che ora fate? - domandò il vecchio avvocato Marzano, con una vocetta tremolante di decrepitezza. - Sono le dieci meno cinque, - disse il dottore, cavando un brutto orologio di nichelio, di quelli che non si potevano impegnare, e che era raccomandato a un sordido laccetto nero. - Per che ora è l'appuntamento? - chiese Colaneri, fingendo l'indifferenza. - Sarebbe alle dieci, ma chi sa! - rispose il medico, abbassando la voce, imprimendo a quello che diceva, tutta la sua incertezza e tutto il suo dubbio. - Chissà! - disse Ninetto Costa, profondamente. E un lungo sospiro gli sollevò il petto, quasi non potesse resistere al peso che l'opprimeva. - Siete ammalato? - gli chiese Colaneri. - Vorrei esser morto, - borbottò l'agente di cambio, desolatamente. Qualcuno crollò il capo, sospirando: qualcuno annuì con l'espressione della faccia, e la dolorosa parola si allargò nella stanzetta umida e sudicia, sotto la lampada che fumicava, fra il rumore scrosciante del temporale. Poi, per un poco, la bufera estiva si venne calmando e si udirono le stille più rade battere sui cristalli della finestra, poi, di nuovo, un gran silenzio. E attraverso il muro, senza sapere donde venisse, come una voce lenta, ammonitrice, un grave orologio suonò le dieci ore, con rintocchi melanconici. I colpi erano spaziati e gittarono un dato di spavento, fra quella gente riunita là, a complottare non so quale truce proponimento. - Lo spirito! - disse don Crescenzo, tentando di scherzare. - Non scherziamo, - ammonì duramente Trifari, - qui si tratta di cose serie! - Nessuno vuole scherzare, - riprese Ninetto Costa, - tutti sappiamo quello che facciamo. - Qui non ci sono Giuda, non è vero? - disse il medico guardando intorno, tutti quanti. Vi fu un mormorìo di protesta; ma debole. No, nessuno di essi era un Giuda, né per loro vi era un Cristo, ma tutti sentivano, vagamente, così, nel fondo della loro febbre, che venivano a commettere un tradimento. - Non è Giuda nessuno, - gridò il medico, impetuoso. - Giuro a Dio che se vi è, farà la mala morte!… - Non giurate, non giurate, - disse il vecchio Marzano. impaurito. Bussarono alla porta. Tutti si guardarono in faccia, improvvisamente fatti pallidi e trepidanti, messi al cospetto della loro colpa. E come se dietro alla porta vi fosse un grave pericolo, nessuno si mosse ad aprire. - Ci sarà? - osò dire Colaneri, senza levar gli occhi. - Forse… - mormorò Costa, che girava convulsamente il taccuino fra le mani. E subito, tutti quanti disperarono che fuori la porta vi fosse l' assistito. a stessa ombra di feroce delusione stravolse i loro visi, che s'indurirono, nella crudeltà del malvagio che vede sfuggire la sua preda. E l'istinto di ferocia che dorme in fondo a tutti i cuori umani, sospinto dalla lunga passione mal soddisfatta, sviluppatosi in quella forma di delirio in cui li metteva il vizio, urgeva in tutti, nei giovani e nei vecchi, nei signori e nei popolani. Le facce erano chiuse e dure, impietrite nella ferocia, e fu con un atto energico che il dottor Trifari si avviò ad aprire. Per rassicurare l'assemblea, di là, che l' assistito ra venuto, lo salutò subito, ad alta voce, lui e il marchese Cavalcanti. - Buona sera, buona sera, marchese, - don Pasqualino, tutti vi aspettavano. E si mise da parte, per lasciarli entrare. Di là, respiravano con una gioia truce: non vi era più pericolo che l' l'assistito oro sfuggisse. E colui che parlava con gli spiriti ogni giorno e ogni notte, colui che aveva comunicazioni speciali di grazia con le anime errabonde, colui che doveva sapere tutte le verità, entrò quietamente nella stanzetta, dove erano i congregati, senza nulla supporre. Gittò, al solito, una obliqua occhiata intorno, ma le facce dei cabalisti non gli dissero niente di nuovo: avevano quel pallore, quello stravolgimento, quel febbrile turbamento consueto del venerdì sera, non altro. Solo il marchese Cavalcanti, accompagnandolo, due o tre volte era stato scosso da un brivido e quasi pareva avesse voluto tornare indietro. Ma il marchese era così nervoso, da tempo! Balbettava, parlando: e la sua nobile figura era oramai degradata dalle ignobili tracce della passione, mal vestito, disordinato, con le scarpe sporche e il solino sfilacciato, con la faccia dalla barba mal rasa, faceva ribrezzo e pietà. Era così nervoso, da che non trovava più denaro, da che la sua figliuola si era fidanzata col dottor Amati! L' assistito on ne poteva avere più denaro e lo fuggiva, vedendolo soltanto nelle riunioni dei venerdì sera, via Nardones: ma in quella settimana le relazioni erano ricominciate, il marchese cercava dovunque l' assistito, nella giornata gli aveva dato cinquanta lire, prendendo convegno, per la sera, alle dieci. Anzi, si era ostinato ansiosamente per questo convegno: e l' assistito 'aveva attribuito all'ardore dei giuocatori delusi per avere i numeri, il contegno del marchese, durante la strada, era stato dubbio: pure, don Pasqualino, abituato alle bizzarrie dei giuocatori, non vi aveva badato. E andò a sedersi al suo posto di ogni settimana, presso la tavola, mettendosi una mano sugli occhi, per ripararsi contro la fiammella della lampada a petrolio. Intorno era il silenzio in cui ogni tanto un sospiro si udiva: e guardando tutte quelle facce pallide, mute, ardenti, l' assistito bbe un primo, vaghissimo sospetto. E cercò di fare il suo solito lavoro fantastico d'ingarbugliamento: - Piove, ma il sole uscirà a mezzanotte. - Chiacchiere - gridò Trifari, scoppiando in una ironica risata. Gli altri, attorno, mormorarono, ghignando. Oramai, non ci credevano più, alle parole misteriose di don Pasqualino. E questa sfiducia risultò così chiaramente, che l' assistito i trasse indietro, come se volesse schermirsi da un attacco. Ma tentò di nuovo, credendo di poter profittare, come sempre, della immaginazione bollente di quei cabalisti, facendo stridere le corde capaci di dar suono: - Piove, il sole uscirà a mezzanotte: ma chi porta lo scapolare della Madonna, non si bagna. - Don Pasqualino, voi scherzate, - disse sarcasticamente il tagliatore di guanti. L' assistito li vibrò una occhiata collerica. - Senza che mi guardiate come se voleste mangiarmi, don Pasqualino: col permesso di questi bravi signori, voi volete burlarvi di noi…e noi non siamo gente da farci burlare. - Marchese, fate tacere questo stupido, - mormorò l' assistito, on un cenno di disprezzo. - Non tanto stupido, don Pasqualino, - disse Cavalcanti, reprimendo a stento la sua commozione. - Che volete dire, marchese? - chiese vivacemente con Pasqualino, levandosi da sedere e facendo per andarsene. Ma Trifari che non si era mai mosso dalle spalle dell' assistito, enza parlare, gli mise una mano sul braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. L' assistito iegò un minuto il capo sul petto, a meditare, e guardò obliquamente la porta. - Restate seduto, don Pasqualino, - disse lentamente Cavalcanti. - qui dobbiamo parlare a lungo. Una lieve espressione di angoscia passò sul volto di colui che evocava gli spiriti: e ancora una volta, guardando gli astanti, egli non vide che fisonomie dure, ansiose, indomabili nel desiderio del guadagno. Capiva, adesso, confusamente. - Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giuocare l'osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati! - Rovinati, rovinati! - gridò un coro di voci straziate. Spesso, il parlatore con gli spiriti, aveva udito queste lamentazioni massime negli ultimi tempi: ma la fiducia era ricomparsa subito, negli animi dei suoi affiliati. Adesso, lo intendeva, non ci credevano più. Pure, nascondendo la sua paura, tentò di discutere. - Non è colpa mia, la fede vi manca. - Frottole! - gridò il vecchio, esasperato, mentre gli altri tumultuavano contro l' assistito, he ripeteva loro l'eterna ragione della delusione. - Frottole! Come, manca la fede a noi, che abbiamo creduto in voi, come si crede in Gesù Cristo? Manca la fede, quando, per premiarvi delle troppe parole che ci avete dette, vi abbiamo pagato profumatamente? Avete incassato migliaia di lire, in questi tre anni, non lo negate! Non abbiamo fede, noi che abbiamo fatto dire tridui, messe, orazioni, rosari, noi che ci siamo inginocchiati, ci siamo battuti il petto, chiedendo al Signore la grazia? Non abbiamo fede, quando la dobbiamo avere per forza, per forza, capite, altrimenti lo sperpero, lo sciupio del denaro, l'infelicità nostra e quella delle nostre famiglie, sarebbero altrettanti delitti?! Non abbiamo fede, quando voi siete stato il nostro dio, per tre anni, e ci avete ingannati, e non vi abbiamo detto niente e abbiamo seguitato a credere in voi, che ci avete tolto tutto, tutto? - Tutto ci avete tolto! - urlò l'assemblea. - Voi mi offendere, basta così, - disse risolutamente l' assistito, evandosi. - Io me ne vado, buona sera. - Voi non uscirete di qui! - urlò il marchese Cavalcanti, giunto al colmo del furore. - È vero che non uscirà di qui? - domandò all'assemblea dei cabalisti. - No, no, no! - urlò ferocemente la congrega di quei pazzi feroci. L' assistito veva compreso. Un mortale lividore gli covrì le guance pallide e scarne: lo sguardo smarrito errò intorno, a una ricerca disperata di fuga. Ma i truci cabalisti si erano levati e gli si erano stretti addosso in un breve cerchio: alcuni di loro erano pallidissimi, quasi reprimessero una forte emozione, altri erano rossi di collera. E negli occhi di tutti, l' assistito esse la medesima, implacabile crudeltà. - Io voglio andarmene, - disse lui, sottovoce, con quel tono roco, che dava tanta misteriosa attrazione alla sua voce. - Nessuno di noi vi vorrebbe trattenere, don Pasqualino, - rispose con ossequiosa ironia il marchese Cavalcanti, se non avessimo bisogno di voi. Se non ci date i numeri, di qua non uscite, - finì gridando, preso da un impeto di furore. - I numeri, i numeri, - fischiò la voce sottile di Colaneri. - Se no, non si esce! - strillò Ninetto Costa. - O i numeri, o qua dentro! - tuonò il dottore Trifari. - Sono finite le burlette, dateci i numeri, - disse, digrignando i denti, Gaetano, il tagliatore di guanti. - Don Pasqualino, persuadetevi che questi signori non vi lasciano andar via, se non date loro i numeri. Persuadetevi!… - osservò saviamente don Crescenzo, che volea fingere di essere disinteressato nella questione. - La settimana ventura… ve li prometto… ora non li ho…ve lo giuro sulla Madonna! - balbettò l' assistito, olgendo gli occhi al cielo, desolatamente. - Che settimana ventura! - urlarono tutti. - Deve esser stasera, o domattina, presto! - Non li ho, non li ho, - balbettò lui, nuovamente, crollando il capo. - Ce li dovete dare, a forza, - ruggì il marchese. - Non ne possiamo più. O vinciamo questa settimana, o siamo perduti, don Pasqualino. Abbastanza abbiamo atteso: vi abbiamo creduto troppo, ci avete trattati indegnamente. Lo spirito ve li dice i numeri veri voi li sapete; li avete saputi sempre; ma ci avete sempre burlati, raccontandoci delle sciocchezze. Non possiamo aspettare la settimana ventura: fino allora possiamo morire, o veder morire qualcuno o andar in galera. Questa sera o domattina: i numeri veri, apite? apite?- I veri, i veri! - fischiò Colaneri. - Non ci dite stupidaggini, non è più tempo! - gridò Ninetto Costa, al massimo della indignazione. Eppure, malgrado che si sentisse vinto e preso, in balia alla irragionevole passione di cui egli stesso aveva acceso le fiamme, l' assistito oleva combattere ancora. - Lo spirito non dà numeri per forza, - dichiarò lentamente. - Lo avete offeso, non mi parlerà più. - Bugie, bugie! - ribattè il marchese. - Centomila volte, ci avete detto che lo spirito vi obbedisce, che voi fate di lui quello che vi pare, che voi ne ottenere tutto: centomila volte, ci avete detto che l'urna dei novanta numeri è comandata. ite la verità, è meglio, ve lo assicuro, è meglio. Siete a un mal passo, don Pasqualino: lo spirito vi deve aiutare. La nostra pazienza è esaurita, sono esauriti i nostri denari e anche quelli degli altri: lo spirito vi deve are arei numeri. Allora egli tacque un poco, come se si concentrasse, e gli occhi gli si stravolsero, mostrando il bianco della cornea. Tutti lo guardavano, ma freddamente, abituati a questi suoi stralunamenti. - Fra breve fioriranno le camelie, - egli disse, a un tratto, tremando tutto. Ma nessuno dei cabalisti si commosse, a questa enunciazione mistica dei numeri. Il dottor Trifari, che portava sempre la chiave dei sogni n tasca, non cavò neppure lo sdrucito libro, per vedere camelie fiorite, che numero corrispondessero. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina, - ripetette, tremando sempre più, l' assistito. essuno si mosse. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina e sulla montagna, - replicò per la terza volta, tremando di ansietà, guardando in faccia i suoi persecutori. Una sghignazzata d'incredulità gli rispose. - Ma che volete da me? - gridò lui, con un singhiozzo di spavento. - I numeri veri, - disse freddamente Cavalcanti, - queste cose che ci dite, non le crediamo: cioè, per uno scrupolo, noi giuocheremo i numeri che rispondono alla montagna, alla Marina e alle camelie fiorite. Ma altri debbono essere i numeri veri: così aspettandoli, noi giuocheremo questi tre, ma vi terremo chiuso qua dentro. - Sino a quando? - chiese lui, precipitosamente. - Sino a quando i vostri numeri saranno usciti, - ribattè il marchese duramente. - Oh Dio!… - disse l' assistito, ian piano, come un soffio. - Capite, don Pasqualino, questi signori vogliono avere una garanzia e vi vogliono tenere in pegno, - spiegò don Crescenzo, il tenitore del Banco del lotto, volendo legittimare il sequestro. - E a voi che fa? Che fatica vi costa dire la verità? Se li avete tenuti in asso, finora, è il tempo di parlare sul serio, don Pasqualino: questi signori hanno ragione, e lo so io, di essere esasperati. Parlate, don Pasqualino, mandateci via contenti. Voi rimarrete qui fino a domani, alle cinque: e appena fatta l'estrazione, vi verremo a prendere, in carrozza, per una scampagnata. Su, su, fate quel che dovete fare. - Non posso - disse l' assistito, prendo le braccia. - Non mentire, voi potete e non volete; gli spiriti vi obbediscono, - disse Colaneri, scattando, in un impeto di furore. - Diteli questa sera, è meglio, è meglio per voi, - mormorò Gaetano, il tagliatore di guanti, con un malvagio tono di voce. - Levatevi questa preoccupazione, - consigliò fraternamente Ninetto Costa. - La verità, la verità, - balbettò il vecchio avvocato Marzano. - Non posso, - disse ancora l' assistito, guardando le finestre e le porte. Allora i cabalisti, a un cenno del marchese Cavalcanti, si riunirono nel vano della finestra: presso l' assistito, estò soltanto Trifari, dalla feroce faccia minacciosa, che gli aveva posta la mano grassa, corta, coperta di pelame rossiccio, sulla spalla. I cabalisti confabularono fra loro, a lungo: discutevano, in cerchio, tutte le teste riunite, parlandosi nel volto. Poi, decisi, ritornarono. - Questi signori dicono che sono fermi nella loro intenzione, anzi nel loro diritto di avere i numeri, dopo i tanti sacrificii che hanno fatti, - parlò, freddamente, il marchese Cavalcanti, - e che quindi don Pasqualino resterà qui, chiuso, sino a che non si sarà deciso di far paghi i nostri giusti desiderii. Di qui non si può andar via: d'altronde, il dottor Trifari, che non ha paura di niente, resterà in compagnia di don Pasqualino. Fare del chiasso sarebbe inutile, tanto i vicini non udrebbero; e se per caso don Pasqualino volesse ricorrere alle autorità per farsi ragione, noi teniamo pronta una querela di truffa, con testimoni e documenti, da mandare in carcere venti assistiti. meglio, dunque, chinare la testa, per questa volta, e cercare di scamparsi, dando i numeri veri. oi siamo fermi. Fino a che non avremo guadagnato, don Pasqualino non esce il dottor Trifari si sacrificherà a tenergli compagnia. In quell'altra stanza, vi è da dormire per due, e da mangiare per vari giorni. Fra questa notte e domani, uno di noi, per turno, verrà, ogni quattro ore, a vedere se don Pasqualino si è deciso. Speriamo che si decida presto. - Voi volete farmi morire, - disse l' assistito, on un'angelica rassegnazione. - Voi potete liberarvi, se volete. Vi auguriamo la buona nottata, - conchiuse, implacabile, il marchese Cavalcanti. E i sette sciagurati cabalisti passarono davanti all' assistito, ugurandogli sardonicamente la buona notte. L' assistito tava in piedi, presso la tavola, con una mano lievemente appoggiata sul piano del legno, con una espressione di stanchezza e di pena sulla faccia, guardando ora questo, ora quello dei cabalisti, come se li interrogasse, se alcun di loro fosse più pietoso. Ma le delusioni dolorose avevano indurito i cuori di quegli uomini: e l'esaltamento del loro spirito impediva loro d'intendere che commettevano una colpa. Passavano innanzi all' all'assistito, alutandolo, dicendogli una frase fredda a mo' di consolazione, senza veder la penosa espressione del suo volto, la supplica dei suoi occhi. - Buona notte, don Pasqualino: Dio v'illumini, - disse il vecchio avvocato Marzano, crollando il capo. - Chiediamo troppo a Dio, - rispose l' assistito, on una grande malinconia nella voce. - Buona notte: dormite tranquillo, - augurò ironicamente il tagliatore di guanti in cui tutto parea fosse diventato tagliente, la parola, la voce, la figura. - Così vi auguro, - rispose enigmaticamente l' assistito, bbassando le palpebre, a smorzare il lampo crudele di vendetta che gli era balenato negli occhi. - Buona notte, buona notte, don Pasqualino - mormorò Ninetto Costa, con un po' di rammarico, tanto la sua frivola natura si opponeva a quel dramma. - A rivederci presto. - E già! - mormorò l'uomo degli spiriti, con un lieve sogghigno. - Buona notte, - osò dire il lustrino Michele, che si era ficcato complice in quella congiura di signori, e che parea nobilitato da tanta compagnia. - buona notte e mantenetevi forte… L' assistito on gli rispose neppure, non si degnò neppure di abbassare lo sguardo sopra lo sciancato, appartenente a quel vile popolo cui anche egli apparteneva, e da cui non arrivava mai a cavar denaro. - Pasqualino, li volete dare, questi numeri certi? - domandò Colaneri, passandogli innanzi, sempre accanito. - Non li posso dare, così, violentato… - Voi scherzate, noi siamo tutti amici vostri, - squittì il professore. - Fate come credete, buona notte. - Buona notte: la Madonna vi accompagni, - mormorò l' assistito, iamente, aumentando l'intensità mistica della sua voce. - Caro don Pasqualino, via, un buon movimento, prima che andiamo via, - disse con una improvvisa bonomia il marchese Cavalcanti, - dateci i numeri certi e la vostra prigionia dura sino a domani, alle cinque. - Non so niente, - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo di odio sul marchese, poiché era stato il nobile signore a condurlo in quel mal passo. Essi si riunirono sotto la porta, per partire, per lasciarlo solo col dottor Trifari che andava e veniva dalla stanza accanto, pacificamente e freddamente, con quella gelida volontà che mettono i malfattori nati, nella esecuzione dei loro misfatti. L' assistito ino allora, salvo qualche ombra che gli era passata sul viso, lasciandovi la sua traccia di fastidio, di dolore, salvo un'umile espressione di preghiera che era nel suo sguardo, aveva dato segno di molto coraggio: ma quando vide che essi partivano, quando comprese che sarebbe rimasto solo, col dottor Trifari, per lunghe ore, per giorni, per settimane, forse, tutta la sua forza d'animo cadde, la viltà dell'uomo imprigionato sorse, ed egli, stendendo le braccia gridò: - Non ve ne andate, non ve ne andate! A quel grido straziato, gli uomini complici di quel carceramento si fermarono: e le loro facce di giustizieri violenti, furono coperte da un improvviso pallore. Fu quello il solo momento di tutta la tetra serata, in cui essi pensarono che dannavano a una pena atroce, una creatura umana, un cristiano, un uomo come loro, fu il solo momento in cui videro tutta l'entità di quello che commettevano, nella sua portata legale e morale. Ma il demone del giuoco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l' assistito, omandandogli ancora i numeri, i numeri certi i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall'emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l'arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l' assistito, igliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Gli altri, interdetti, sconvolti, lo guardavano: ma più forte, più forte era il Demonio, di tutte le loro volontà riunite insieme. L'ora suprema della loro esistenza era giunta, pel vecchio e pel giovane, pel signore e per il plebeo, l'ora tragica in cui niuna cosa arriva a dissuadervi dalla tragedia. Udendo piangere come un bimbo quell'uomo che si asciugava le lagrime con un lurido e lacero fazzoletto, nessuno di loro provò pietà: tutti sentirono più ardente, più acre il desiderio di avere i numeri del lotto, per salvarsi dalle ruine che minacciavano le loro teste. Lo lasciarono che piangeva, vilmente, come uno sciocco pauroso: e a uno a uno, senza far rumore, uscirono lentamente da quella casa, che era diventata una prigione. Egli, pur continuando a singultare, tese l'orecchio: udì richiudere la porta, lugubremente, con quel rumore che si ripercuote nell'anima. Trifari, dietro la porta, andava mettendo catenacci e lucchetti, serrandosi dentro il carcere con il nuovo carcerato, senz'aver paura, né di lui come uomo, né degli spiriti che egli avrebbe potuto evocare. La faccia dal pelame rossastro, quando appariva nel giro luminoso della lampada a petrolio, aveva qualche cosa di animalesco, come crudeltà e come ostinazione nella crudeltà. E rientrando, il dottore aveva respirato di sollievo: si era guardato intorno, quasi che la partenza di tutti quei cabalisti, amici suoi, che lo avevano delegato a far da carceriere, gli fosse piaciuta. Adesso, ancora andava e veniva dalla stanza accanto, portando e riportando non so quali cose; poi rientrò, essendosi cambiato di vestito, avendo indossata una vecchia giacchetta, in cambio del soprabito. L' assistito eguiva con l'occhio tutte le mosse del suo carceriere, come tutti i prigionieri che studiano l'unica loro compagnia, con tutta la profondità dell'osservazione. A un certo punto avevano scambiato una occhiata fredda, dura, da carcerato ad aguzzino. - Volete fumare? - aveva chiesto il dottore, da un cantuccio della stanza. - Non fumo, - aveva risposto, cupo, l' assistito Non sedete? - aveva chiesto all' assistito, ottovoce. ottovoce.- Grazie, - aveva risposto costui, lasciandosi cadere sopra una seggiola. - Volete dormire? - No, grazie. Il dottore sedette allora anche lui, accanto alla tavola, mettendosi una mano sugli occhi, quasi a ripararsi dal lume. Silenzio profondo notturno. Fuori, anche la pioggia era cessata. Dentro, la lunga e tetra veglia cominciava.
Allora, quietamente, essa aveva chiuso il volume sdrucito e lo aveva posato sul cuscino: aveva abbassato la testa fra le mani, e il poco chiarore della lampada che ardeva innanzi alla Madonna Addolorata rischiarava solo il candore delle mani affilate e la nerezza delle grosse trecce brune raccolte e strette sulla nuca. Così stava da tempo, tanto immobile che quella figura vestita di bianco, nell'ombra della piccola cappella, sembrava una di quelle statue oranti, che la pietà del Medio Evo inginocchiava sulle tombe in eterno atto di orazione. Ella parea non sentisse l'ora che passava sul suo capo; non parea sentisse il fine soffio di freddo, che la sera di autunno metteva nella cappella e guardando fra le dita la faccia dolorosa della Madonna, parea che continuasse a meditare, a pregare, come se nulla la potesse strappare a una infinita preghiera. Pure nella sera che era discesa, la piccola cappella si era fatta assai tetra. Di giorno non era che povera e fredda, essendo in sostanza una stretta camera interna, scarsamente illuminata da una finestra, che dava sopra un cortiletto di servizio, nel palazzo Rossi, già Cavalcanti. Una volta un gramo tappeto ne ricopriva il pavimento, ma era così vecchio e polveroso che Bianca Maria aveva ordinato si togliesse: era quindi nudo il pavimento, fatto di mattoni lucidi e glaciali. L'altarino era di legno dipinto, di un azzurro smorto, l'azzurro pallidissimo dei legni chiesastici: e lo copriva, sulla sacra pietra, una tovaglia di tela assai fine, ma dalla tinta gialla di vecchiaia, come giallo di vecchiaia era il largo merletto antico che adornava la tovaglia. Tutto vi era invecchiato e appannato; i candelieri, le preghiere stampate nelle loro cornici metalliche, il messale dalla fodera di cuoio rosso cupo, le meschine frasche i argento poste lì per mistico adornamento, la portellina di legno dorato che chiudeva la pisside. Di giorno anche la statua della Vergine Addolorata, vestita di seta nera a ricami d'oro, col goletto monacale piegolinato di battista bianca, e le sette spade che le trafiggevano il cuore, a raggiera, pareva meschina, poveretta, con le sue mani rosee, di stucco, che stringevano un fazzolettino di battista bianca orlato di merletto: anche il grande torso dell' Ecce Homo, grandezza umana, di legno e stucco, pareva poveretto come tutto l'ambiente. Invano innanzi all'altare erano posti i due inginocchiatoi di legno scolpito, con lo stemma dei Cavalcanti, marchesi di Formosa: e sugli inginocchiatoi vi erano, invano, due cuscini di velluto rosso. La cappelletta conservava, malgrado ciò, la sua aria di gelida miseria, mostrando, nella luce del giorno, lo sbiadimento dei colori, l'appannamento e l'ammaccatura dei metalli, le mille traccie dei tarli nel legno e la consunzione del velluto dei cuscini. Anche le fiammelle delle due lampade accese giorno e notte, innanzi alla Madonna Addolorata e all' Ecce Homo, ella luce parevano due linguette giallastre, crepitanti… Ma nella sera - e quella sera, stranamente, ardeva una sola lampada, innanzi alla Vergine - scompariva la miseria e solo grandi ombre fluttuanti empivano la cappella. Scomparsi i metalli, le tinte dei legni, si distingueva solo il biancore funerario della tovaglia: non una scintilla partiva, e solo all'agitarsi della fiammella, il viso doloroso di Maria dei Dolori assumeva come una espressione straziante: e siccome la fiammella agitata da un soffio di vento invisibile si inchinava a dritta e a sinistra, la faccia, le mani, il petto, il costato di Gesù pareano sanguinare veramente. Immersa nella sua meditazione, Bianca Maria, che aveva la consuetudine di quella cappella, non ne sentiva né il freddo, né la tetraggine. Fu a un certo punto che si riscosse, parendole di aver inteso un forte rumore nell'appartamento: fu allora che si accorse esser spenta la lampada dinanzi al Cristo e che un brivido di freddo e di spavento la colse, parendole che la madre piangesse sul martirio del Figliuolo sanguinante: rapidamente Bianca Maria uscì dalla cappella, portando seco il libro di pietà, segnandosi frettolosamente, come inseguita da qualche maligno terrore. Nell'anticamera, un servitore vecchio, nella livrea azzurro cupo filettata di bianco, di casa Cavalcanti, leggeva un vecchio giornale, alla luce di uno di quegli antichi lumi di ottone, a tre becchi, che si vedono ancora nelle provincie e nelle case molto aristocratiche. Quando intese il passo lieve di Bianca Maria si levò in piedi, guardandola negli occhi. - Giovanni, - ella disse, con la sua voce pura, armoniosa - nella cappella si è smorzata la lampada innanzi all' all'Ecce Homo. 'antico servitore la guardò, esitando un poco, prima di rispondere: - …non l'ho accesa, - mormorò poi, chinando lo sguardo e tormentando con le mani scarne il giornale. - …non avevate olio, forse? - chiese lei, con un lieve tremito nella voce e voltando in là la pensosa faccia. - No, Eccellenza, no, - rispose subito, premurosamente, il servitore. - La dispensa, anzi, è piena di olio. È stato per un ordine di Sua Eccellenza il marchese, che non ho acceso la lampada… - Egli vi ha ordinato questo? - chiese lei, stupita, marcando le ciglia. - Sì, Eccellenza. - E perché? Ma subito dopo si pentì di questa domanda, in cui le parve menomato il profondo rispetto che doveva a suo padre. Pure, la parola era sfuggita. Avrebbe voluto andar via, per non udire la risposta, qualunque essa fosse: ma temette di far peggio e ascoltò, con gli occhi sbarrati, pronta a dominare la sua anima meravigliata e paurosa. - Il marchese è arrabbiato con Gesù Cristo, - disse il servo, con quel tono umile, ma famigliare con cui il popolo napoletano parla spesso della Divinità. - Sabato scorso egli aveva domandato una grande grazia a quell' Ecce Homo osì miracoloso: ma la grazia non è venuta. E allora il signor marchese non ha voluto che si accendesse più la lampada innanzi alla statua. - Vi ha detto il marchese tutto questo? - chiese lei, come fremendo tutta. - Sì, Eccellenza. Ma se Vostra Eccellenza vuole, io vado ad accendere… - Obbedite al marchese - mormorò ella, freddamente, allontanandosi verso il salone. Mentre si aggirava, solitaria, nell'ampio salone illuminato malamente da un lume a petrolio, cercando il panierino del suo lavoro serale, non trovandolo, passandovi venti volte accanto senza vederlo, ella si pentiva ancora, amaramente, di aver interrogato quel servo: poiché attraverso il sempre crescente decadimento della sua famiglia, quello che più l'amareggiava era quando innanzi ai servi, agli estranei, ella era costretta, dalle loro parole, a giudicare suo padre. Invano ella chiudeva gli occhi per non vedere, passava le sue giornate fra la sua stanza, la cappella e il convento delle Sacramentiste, dove aveva una zia: invano ella taceva, cercando di non udire i discorsi altrui, le esclamazioni di Margherita, la cameriera moglie di Giovanni, le domande inquiete della sua stessa zia monaca, le allusioni di alcuni vecchi parenti che ogni tanto capitavano a trovarla e le parlavano con una pietà che le faceva salire le lacrime agli occhi: il giudizio sopra suo padre ella era costretta a farlo, internamente, chinando gli occhi, mentre i suoi interlocutori crollavano il capo, commiserandola. E quello che più la scuoteva, a traverso le difficoltà finanziarie invano dissimulate, attraverso quella decente miseria che si avviava all'ora in cui avrebbe perduto anche la santità del mistero, erano le improvvise, talvolta feroci, talvolta strazianti bizzarrie di suo padre. Ora, quietata un poco, seduta presso un tavolino quadrato, coperto di panno verde, un tavolino da giuoco dove era posato il solo lume a petrolio del salone, lavorava a un suo finissimo merletto, sul tombolo, agitando con un movimento vivace i leggeri bastoncelli del filo, intorno agli spilli del disegno. Forse avrebbe meglio desiderato chiamare a sé Margherita, la cameriera, a lavorare insieme al rammendo della biancheria di casa, su cui la buona vecchia si acciecava, nella sua stanzetta: ma don Carlo Cavalcanti, marchese di Formosa, era fierissimo e non avrebbe tollerato una serva nel salone, né avrebbe sopportato che sua figlia si piegasse a quegli umili uffici. Avrebbe voluto, Bianca Maria, passare la serata nella propria stanza, leggendo o lavorando: ma il padre voleva trovarla nel salone, ogni sera, quando rientrava. Egli lo chiamava pomposamente il salone, enz'avvertirne la gran nudità, poiché i quattro stretti e lunghi divani di broccatello verde, tutto sciupato e scolorito, le dodici sedie secche e dure di broccatello, messe lungo le muraglie, e le due mensole di finto marmo grigio, e i due tavolini da giuoco, e i piccoli tappetini innanzi a ogni divano e a ogni sedia, perduti in quella vastità, ne accrescevano l'aria deserta. Il lume a petrolio, poi, non arrivava che a rischiarare il tavolino presso cui sedeva la silenziosa Bianca Maria e il tombolo di teletta bruna, su cui si agitavano le sue mani, più candide assai del bianco filo. Ogni tanto, come presa da un pensiero dominante, ella si arrestava, le mani si abbandonavano, come stanche. - Felice notte - disse una forte voce, alle sue spalle. Ella si levò subito, posò il tombolo e, appressandosi al padre, la pensosa faccia della giovinetta aveva uno stiramento. Ella si chinò a baciargli la mano. Il marchese di Formosa accettò l'omaggio, e dopo toccò fugacemente la fronte di sua figlia con la mano, fra la carezza e la benedizione. Ella aspettò un momento, in piedi, che egli si sedesse, per sedere anche lei: ma visto che egli cominciava a passeggiare su e giù per il salone, come aveva l'abitudine di fare, lo interrogò con lo sguardo, chiedendogli il permesso di sedere. Egli annuì con un cenno del capo, continuando la sua passeggiata. Seduta presso il tavolino, ella aveva ripreso il suo lavoro di trina, aspettando di essere interrogata per parlare. Il marchese di Formosa, il cui passo ancora elastico e sonoro empiva di rumore gli echi del nudo salone, era un bellissimo uomo, malgrado i sessant'anni, malgrado i capelli bianchi come la neve. Alto, svelto, più asciutto che magro, tanto la persona come la testa conservavano in quell'età avanzata che era già quasi vecchiaia, una nobiltà, un carattere di forza a cui spesso i subiti rossori del volto davano aria di violenza. Gli occhi bigiastri, il naso forte, i folti mustacchi bianchi e sopratutto l'ampiezza della fronte ispiravano ammirazione e rispetto. Giovane, dicevano, il marchese di Formosa aveva fatto peccare più di una donna della corte di Ferdinando Il di Borbone: dicevano che era stato rivale fortunato presso una dama di Sicilia, finanche dello stesso re, e, nella lotta incruenta della galanteria, aveva vinto il più galante dei ministri borbonici, il don Giovanni di quella generazione, il celebre ministro di polizia marchese Del Carretto. Certo, qualche cosa d'imperioso che era venuto aumentando con l'età, induriva la fisonomia del marchese di Formosa e gli dava, talvolta, un aspetto ripugnante. Ma l'antichità della famiglia che si vanta discendente del grande Guido Cavalcanti, e l'altezza della posizione, e una naturale fierezza d'animo, autorizzavano anche quella imperiosità. Ora, il marchese invecchiava: e spesso lo sguardo scintillante si faceva smorto e l'alta persona, maestosa malgrado la magrezza, si curvava. Pure, imponeva un grande rispetto: e quando lo vedeva apparire, sua figlia, Bianca Maria, aveva come un tremito di venerazione e le fuggivano dalla mente tutti i mali giudizii della gente e suoi su suo padre. - Sei stata al monastero, oggi? - chiese il marchese di Formosa, passando accanto alla figliuola. - Sì, papà. - Sta bene, Maria degli Angioli? - Bene, sta: ma vorrebbe vedervi. - Non ho tempo, ora: ho un grande affare, un grande affare… - disse lui, facendo un gesto largo e vago. Ella tacque, lavorando con grande alacrità, astenendosi dall'interrogare. - Si è assai lagnata di me, Maria degli Angioli? - domandò lui, senza mai cessare la sua concitata passeggiata. - No - diss'ella timidamente - vorrebbe vedervi… ve l'ho detto… - Vedermi, vedermi… per raccontarmi dei guai, per sentire il racconto dei miei guai… bel modo di occupare il tempo. Eppure, se ella volesse, Maria degli Angioli, se volesse… i nostri guai sarebbero finiti. Le mani tremanti di Bianca Maria confusero i bastoncelli dove era avvolto il filo, intorno agli spilli del disegno. - Queste sante donne, - soggiunse lentamente il marchese di Formosa, come se parlasse in sogno, - queste sante donne, che pregano sempre, hanno il cuore puro, sono in grazia del Signore e dei suoi santi, godono grazie speciali, vedono cose che noi poveri peccatori non vediamo… suor Maria degli Angioli potrebbe salvarci se volesse… ma non vuole, non vuole, è troppo santa, non sente più nulla delle cose di questa terra, non le importa se noi soffriamo, o non lo capisce…Non mi ha voluto dir niente, mai, mai… Levato il capo, abbandonate le bianche mani sul merletto, Bianca Maria fissava suo padre con certi occhi pieni di una penosa maraviglia. - Tu non le hai mai chiesto nulla, di', Bianca? - disse lui, fermandosi presso sua figlia. - Che cosa? - chiese ella, smarrita. - Maria degli Angioli ti ama, ti sa infelice, a te avrebbe detto tutto, per aiutarti… perché non le hai domandato nulla? - proseguì, con la voce concitata dove già una tempesta di collera si addensava. - Che le dovevo domandare? - ripetè lei, sempre più smarrita. - Ah, tu fingi di non capire? - gridò lui, già furioso - Tutte così queste donne, tutte una mandra di pecore, o pazze o egoiste. Che state a dire, le ore intiere, tu e tua zia, nel parlatorio del convento? Su quali morti piangete? Pensate ai vivi! Non lo vedete che casa Cavalcanti scende alla miseria, al disonore e alla morte? - Che Dio ci scampi! - mormorò la figliuola, a bassa voce, segnandosi pianamente. - Pazze ed egoiste, le donne! - urlò lui esasperato da quella mancanza di resistenza, da quella dolcezza. - Ed io che penso solo a questo dalla mattina alla sera e che m'inginocchio, ogni sera e ogni mattina, innanzi alle sacre immagini, per ottenere la salvazione dei Cavalcanti! E tu che potresti, domandando a tua zia il segreto delle sue visioni, tu che con una parola sua potresti salvare te e me, e il nome, e tutto, tu fingi di non capire? Ingrate e perfide, le donne!… Ella, abbassato il capo, si mordeva le labbra per non scoppiare in singhiozzi. Poi, con voce tremula, rispose: - Un'altra volta, le domanderò… - Domani - ribattè imperiosamente il padre. - Domani. Subito, lo sdegno di lui cadde, improvvisamente calmato. Avvicinatosi a lei, le toccò fugacemente la fronte china, con quell'atto paterno che gli era consueto, che era metà benedizione, metà carezza. Allora, come se non potesse più resistere, sentendosi struggere il cuore, ella cominciò a lagrimare, in silenzio. - Non piangere, Bianca Maria, - disse lui, quietamente, - non piangere. Io ho buone speranze. Siamo così infelici da tanto tempo, che certo la Provvidenza ci deve preparare una grande gioia. Il tempo, naturalmente, non ci è dato di conoscerlo, ma non deve essere lontano. Se non è una settimana, sarà un'altra. Che sono le ore, e i giorni, e i mesi, di fronte alla grossa fortuna che ci si prepara, nell'ombra? Saremo così ricchi, così ricchi, che tutto questo lungo passato di ristrettezza e di oscurità ci sembrerà un breve sogno di spasimo, un'ora di incubo che la luce del sole ha fatto scomparire. Così ricchi, saremo! E chissà di quale istrumento si servirà la Provvidenza… forse di Maria degli Angioli, che è un'anima buona… tu le domanderai, domani, non è vero? Forse di qualche altro buono spirito, fra i miei amici che vedono forse di me, indegnamente, così peccatore come sono stato e come sono… ma io lo sento, ci salverà la Provvidenza, e per quel mezzo, solo con quel mezzo!… Parlando, aveva ripreso le sue passeggiate su e giù per il salone, dirigendo sempre il suo discorso a sé stesso, come se si fosse abituato a pensare ad alta voce. Solo ogni tanto, a traverso la sua esaltazione, intravvedeva la figura di sua figlia e riprendeva da lei il suo ostinato vaneggiamento intorno a una sola idea: - D'altronde, Bianca, che scampo potremmo avere? Il lavoro? Io sono vecchio e tu sei una fanciulla: i Cavalcanti non hanno mai saputo lavorare, né in gioventù, né in vecchiaia. Gli affari? Siam gente, il cui unico affare è stato di spender generosamente il proprio danaro. Solo una grande fortuna, conquistata in un giorno solo… lo vedrai, l'avremo. La tengo per sicura, mille rivelazioni, mille sogni me lo hanno detto… vedrai. Avrai di nuovo, Bianca Maria, cavalli e carrozze, la victoria er le passeggiate alla riviera di Chiaia, dove riprenderai il tuo posto, la elegante vettura chiusa, per la sera, per andare a San Carlo… vedrai, figlia, vedrai. Ti voglio comperare una collana di perle, otto file di perle legate da un solo zaffiro e un diadema di brillanti, come lo hanno avuto tutte le donne di casa Cavalcanti, fino a tua madre… Egli si arrestò a questa frase, come se una improvvisa emozione lo vincesse; ma la contemplazione del suo sogno di lusso, di fulgore lo distrasse subito. - …ogni giorno corte bandita: penseremo ai poverelli, agli affamati, a quanti mancano di soccorso; le elemosine pioveranno, ci sono tanti sofferenti… ho fatto anche un voto, un voto di dotare delle ragazze povere e oneste… tanti altri voti, ho fatto, per ottenere questa grazia. E tacque, come contemplando nella penombra del salone tutto lo splendido miraggio di fortuna, che la sua fantasia eccitata gli faceva palpitare innanzi agli occhi. La figlia lo ascoltava, rifattasi calma, pensosa: e nel cuore quella voce paterna le risuonava, nei consueti discorsi che gli sgorgavano ogni sera dall'animo troppo caldo, le risuonava con echi angosciosi, come un lento tormento. È vero, ella non credeva a quelle visioni, ma esse le facevano paura, ogni sera sgorganti nella frase impetuosa, talora tenera, talora collerica, di suo padre; né si poteva abituare a quegli sfoghi di passione che facevano trasalire e sussultare la sua anima innamorata di pace e di silenzio. - L'avvocato Marzano - annunziò Giovanni. Entrò un vecchietto piccolo, un po' curvo, con un folto mustacchio sale e pepe, e gli occhi fra arguti e dolci: era vestito di panni assai modesti. Passando accanto a Bianca Maria la salutò piano e con un cenno le chiese permesso di tenere il cappello in capo. E tenne anche il bastone grosso di canna d'India. Dopo aver regolato il suo passo su quello del marchese di Formosa, furono in due ad andare su e giù, parlando a voce bassissima. Quando passava accanto al lume, l'avvocato Marzano, si vedeva che gli occhi gli scintillavano di compiacenza e il grosso mustacchio, un po' militaresco, si agitava, come se egli facesse dei calcoli mentalmente. Ogni tanto, Bianca Maria che s'immergeva sempre più nel suo lavoro di trina, esagerando la sua attenzione, per non ascoltare: ogni tanto, involontariamente udiva qualche frase del gergo cabalistico, pronunziata da suo padre o dall'avvocato Marzano. - La cadenza i sette deve trionfare… - Potremmo anche avere il due di ritorno - La giuocata per situazione troppo forte… - Il bigliettone necessario… Parlavano, fra loro, assorbiti, con certi occhi lampeggianti e smarriti in quelle fantasticherie, che hanno il falso aspetto preciso e affascinante della matematica, quando Giovanni entrò di nuovo ad annunziare: - Il dottore Trifari. Entrò un uomo trentenne, tarchiato, grosso, con una grossa testa, dal collo troppo corto, la faccia rossastra resa ancor più vivida da una barba rossa e riccia con le labbra gonfie, come tumefatte, e gli occhi azzurri a fior di testa: occhi sospettosi, diffidenti, che ispiravano diffidenza. Era vestito ruvidamente, con un goletto stretto che gli segava il collo, con un grosso brillante falso sulla cravatta di raso nero, conservando sempre l'aria del provinciale, che né l'Università di Napoli né la laurea eran giunti a fargli perdere. Appena appena se salutò Bianca Maria: e posato il cappello sopra una mensola, si mise all'altro lato del marchese di Formosa. Camminarono su e giù tutti e tre, più piano. Ogni tanto, il dottor Trifari diceva qualche parola, facendo un atto energico, pur parlando sottovoce: e il suo sguardo obliquo interrogava sospettosamente i suoi interlocutori e le ombre intorno come se ne temesse il tradimento. Il marchese di Formosa conservava la sua ciera vivace di vecchio impetuoso, l'avvocato Marzano ostinatamente e bonariamente rideva dagli occhi furbi e dolci, mentre il dottor Trifari si muoveva con precauzione, pur parlando violentemente, come se temesse sempre un tradimento. Quando i due vecchi levavano un po' la voce, egli subito li reprimeva con un gesto, indicando loro le finestre, le porte: arrivò, a un momento, a indicar loro Bianca Maria: il marchese fece un gesto largo d'indulgenza, come a dire che era una creatura innocente; quando, ancora, Giovanni entrò ad annunziare: - Il professor Colaneri. Immediatamente, vedendolo, si indovinava il prete spretato. Sulle guance sempre rase era cresciuta una folta barba nera: ma i capelli tagliati corti sulla fronte e cresciuti male sulla chierica conservavano una piega ecclesiastica; ma la forma della mano in cui il pollice un po' curvo pareva attaccato all'indice; ma il gesto con cui egli si assoggettava meglio gli occhiali sul naso; ma l'altro gesto involontario con cui si passava due dita nel goletto, come se si allargasse il collarino pretino assente; ma il modo di guardare, facendo cadere lo sguardo dall'alto, era tutto un insieme di linee, di moti, di atti così evidentemente clericali, che si capiva subito il suo carattere. Formosa lo ricevette un po' freddamente, come sempre, quell'apostasia procurando un brivido di repulsione al suo misticismo. Il Colaneri anche parlava con cautela: e oramai, non potendo passeggiare più in quattro senza far udire i loro discorsi, si fermarono in gruppo, nel vano scuro di una finestra. Fu là che li venne a raggiungere Ninetto Costa, un bel giovanotto bruno, elegantissimo, che mostrava i denti bianchissimi in un continuo sorriso ed era uno dei più fortunati agenti di cambio della Borsa di Napoli: e infine un uomo che Giovanni aveva annunziato più sottovoce, solo col nome, sbadatamente, don Crescenzo, un tipo fra l'impiegato e il commesso, che scivolò nel salone con una certa timidità, ma che pure quei signori trattarono da paro a paro. Nel vano della finestra, fra i sei uomini la discussione ferveva, ma il tono della voce non si elevava. Bianca Maria continuava a lavorare, macchinalmente, ma era combattuta da un crudele imbarazzo: non osava andarsene senza il permesso di suo padre e capiva di esser superflua in quel salone. Quei parlari misteriosi, in un gergo che non intendeva e che le sembrava un linguaggio di folli, con quell'eccitamento, con quell'accanimento di tutti, quelle occhiate fra stralunate e torve, quegli sguardi dove si leggeva il sorriso di una pazzia cocciuta, quelle faccie che ora impallidivano, ora arrossivano, quei gesti violenti, concitati, tutto ciò cominciava per turbarla e finiva per ispirarle uno spavento invincibile: suo padre, specialmente suo padre, le pareva perduto in mezzo a tutti quegli esaltati, alcuni freddamente esaltati, alcuni furiosi, ma tutti eccessivamente ostinati: ella lo guardava ogni tanto, disperatamente, come se lo vedesse naufragare e non potesse dare un passo, fare un grido per salvarlo. A un certo punto, lentamente, i sei uomini uscirono da quel vano di finestra, e muti, in fila, uno dopo l'altro, andarono a sedersi intorno all'altro tavolino da giuoco, dove non vi era lume; strinsero le sedie intorno al tavolino, per avvicinarsi anche più, appoggiarono i gomiti sul piano di panno verde e si presero la testa fra le mani, identicamente, tutti sei, nella penombra, cominciando a discorrere, sottovoce, l'uno nella faccia dell'altro, soffiandosi le parole nel viso, guardandosi negli occhi, come se facessero un'opera di magia e di fascino. Bianca Maria non vi resistette. Facendo il minor rumore possibile, avvolse il suo tombolo in una striscia di tela nera, si levò senza muovere la sua sedia per non farla scricchiolare e uscì dalla vasta sala rapidamente, come se temesse che la potessero richiamare, sentendo sempre dietro di sé una impressione di paura, come se qualcuno continuasse a inseguirla. Fu rassicurata un poco solo quando entrò nella sua stanza, una semplice stanza da fanciulla buona e pia, nitida, un po' fredda, piena d'immagini sacre, di rosarii, di cerei pasquali. Lì dentro Margherita, la cameriera, che aveva udito il suo passo, la venne a raggiungere e le chiese, con un umile affetto, se voleva coricarsi: - No, no, - disse la fanciulla, - non ho sonno, aspetterò. Non ho salutato mio padre. - Il marchese farà notte tarda, - mormorò la cameriera, - Vostra Eccellenza si stancherà ad aspettare, qui, sola sola. - Leggerò; voglio aspettare. Ubbidiente, la vecchia cameriera sparve. Bianca Maria prese da una piccola scansia un romanzo religioso di Paolina Craven: Le mot de l'énigme, n libro pio e consolante. Ma la sua mente non poteva esser confortata, quella sera, dalle dolci parole della scrittrice francese; ogni tanto Bianca Maria tendeva l'orecchio, per udire se alcun rumore giungeva dal salone, se gli amici di suo padre se ne andavano o se altri ne giungevano. Niente. Nessun rumore. La gran congiura settimanale cabalistica continuava, soffiava di volto in volto, come se fosse un'opera tremenda di stregoneria; e questa impressione cresceva tanto nell'anima di Bianca Maria, che, ora, lo stesso silenzio la sgomentava. Ella ritentò, due o tre volte, di leggere il dolce libro, ma i suoi occhi si arrestavano, immobili, sulle linee nere stampate, senza più vederle, e il senso delle parole lette a forza le sfuggiva, mentre tutto il suo spirito si tendeva a cogliere i rumori del salone. Silenzio, sempre, come se non vi fosse dentro anima viva. Ella chiuse il libro e chiamò la sua cameriera, non sentendosi di sopportare quella solitudine piena di fantasmi. Margherita accorse subito e aspettò, muta, gli ordini della sua giovane padrona: - Diciamo il rosario, - mormorò costei, sottovoce. Ogni tanto, quando più le ore sembravano lunghe alla solitaria nepote dei Cavalcanti, quando l'insonnia le teneva gli occhi aperti, quando troppo lugubri le si aggravavano le fantasie nella mente, ella amava pregare ad alta voce, con la sua domestica, per ingannare il tempo, la veglia e l'agitazione. Temeva la conversazione dei servi, la evitava per una naturale fierezza, ma il pregare insieme non le pareva che un semplice atto di affettuosa umiltà cristiana. - Diciamo il rosario, - ripetette, sedendosi presso il suo bianco letto di fanciulla. Margherita sedette presso la porta, a una distanza rispettosa. Bianca Maria pronunziava le preghiere preliminari, annunziava il mistero diceva metà del Pater noster; 'altra metà la pronunziava Margherita. Così delle avemmarie, a prima metà la diceva Bianca Maria: l'altra metà spettava a Margherita. Pregavano sommesse: ma l'una distinguendo bene la voce dell'altra, riprendendo sempre a tempo il frammento della preghiera. A ogni diecina di avemmarie o posta el rosario, le due donne si segnavano pianamente: al principio di ogni Gloria Pater hinavano la testa, profondamente, per salutare lo Spirito Santo. Così, fra la mistica attenzione della preghiera e la emozione naturale che le suscitavano quelle consuete ma sempre poetiche orazioni, fra il ronzìo della propria voce e quello della voce di Margherita, la fanciulla dimenticava per un poco il grande dramma paterno che si svolgeva di là. Tutto il rosario fu detto così, lentamente, con la pietà delle anime veramente e ingenuamente credenti. Alle litanie della Vergine, prima di cominciarle, Bianca Maria s'inginocchiò innanzi alla sua sedia, appoggiando i gomiti sulla paglia; nel suo cantuccio s'inginocchiò la cameriera: la fanciulla invocava, in latino, la Vergine, sotto tutte le tenere apostrofi che le dedicarono i suoi devoti, e la cameriera rispondeva l' ora pro nobis. a dal principio delle litanie un rumorìo crescente di voci giungeva dal salone; rumorìo che turbava la preghiera di Bianca Maria, la quale cercava di non udirlo, levando sempre più la sua voce. Ma era impossibile oramai sottrarsi a quel chiasso di voci che diventavano alterate, rabbiose. - Che sarà? - diss'ella, arrestandosi nelle invocazioni alla Madonna. - Niente, - rispose Margherita. - Parlano dei numeri. - Litigano, mi pare… - soggiunse Bianca Maria timidamente. - Sabato sera rifaranno la pace… - mormorò Margherita, con la sua filosofia popolana. - E come? - chiese la fanciulla, lasciandosi trascinare al dialogo. - Perché nessuno di loro vincerà niente. - Preghiamo, - rispose Bianca, levando gli occhi al cielo della stanza, come se cercasse il firmamento stellato. Impossibile, adesso, di finire le litanie. La discussione, in salone, era diventata vivace così, che si udiva tutto; le voci, ora si allontanavano, ora si avvicinavano, come se i cabalisti si fossero nuovamente levati dal tavolino dove si soffiavano in volto le loro congiure e passeggiassero, su e giù, presi da quel bisogno di andare, di andare, avanti, indietro, in giro, in giro, che è di tutte le persone esaltate. - Chiudo la porta? - domandò Margherita. - Chiudete, preghiamo, - disse Bianca Maria, con rassegnazione. Le voci giunsero più fioche; le litanie poterono proseguire sino alla fine, senza interruzione, ma l'anima della fanciulla non apparteneva più alle parole che diceva: ella le pronunziava in preda a una profonda distrazione: la Salve Regina inale che riassume tutte le glorie di Maria fu sbrigata presto, come se il tempo le si affannasse alle spalle. - La Madonna benedica Vostra Eccellenza, - disse Margherita, levandosi, dopo essersi segnata. - Grazie, - rispose semplicemente la giovanetta, sedendosi di nuovo accanto al suo letto, dove passava, meditando o leggendo, tante ore della sua giornata. Margherita, allontanandosi, aveva lasciata la porta aperta. Ora le voci scoppiavano, irose. Gli arrabbiati cabalisti contendevano fra loro, furiosamente, ciascuno vantando a grandi grida i propri studii, le proprie visioni, ciascuno cercando di togliere la parola all'altro, interrompendolo, strillando più forte, essendo a sua volta bruscamente interrotto. - Ah non ci credete, voi, non ci credete alla forza di Cifariello, l ciabattino? - gridava l'avvocato Marzano, col furore intenso delle persone molto dolci, molto bonarie. - Forse perché è un ciabattino? Forse perché scrive le sue cabale con la carbonella, sopra uno sporco pezzetto di carta? Eccole qua, eccole qua; vi è il ventisette che è uscito secondo invece di quarto, ma è uscito! E vi è l'ambo, l'ambo del quattordici e settantanove, che ho avuto la disgrazia di abbandonare, a che è uscito tre settimane dopo che l'ho abbandonato. Son fatti questi, signori miei, fatti e non parole! - Sono le sessanta lire che gli date al mese, perché non faccia più il ciabattino e vi faccia la cabala! - interruppe vivamente il dottor Trifari. - Cifariello un'anima ignorante, innocente: egli mi ha dato il quattordici e settantanove, e io l'ho abbandonato! - Anche padre Illuminato mi ha dato quattordici e settantanove, - ribattè il dottor Trifari, - ma nella settimana buona. - E avete preso? Non avete detto niente agli amici? - domandò, concitato assai, il marchese Formosa. - Niente ho preso! Ho diviso i due numeri, in due biglietti diversi. Non ho capito la fortuna che mi dava padre Illuminato; quello solo li sa i numeri, signori miei, e nessun altro, nessun altro, perdio! Quello tiene in mano la nostra fortuna, il nostro avvenire. È una cosa forte: quando gli tasto il polso per vedere se ha la febbre, io mi sento tremare tutto… - Padre Illuminato è un egoista, - fischiò la voce sarcastica, tagliente del professor Colaneri. - Perché vi ha cacciato di casa sua, un giorno, che volevate a forza i numeri! Egli non dà numeri ai sacerdoti che hanno buttato via la tonaca: è un credente, padre Illuminato… - Io li vedo da me, i numeri! - strillò acutamente il Colaneri. - Mi basta non cenare, la sera, quando vado a letto: e meditare per un'ora, per due ore, prima di dormire: e poi li vedo, capite che li vedo? - Ma poi non escono, non escono! - urlò il marchese di Formosa. - Non escono perché ho la mente ottenebrata dagli interessi umani, perché non so staccarmi completamente dal desiderio di vincere, perché ad avere la visione lucida, bisogna avere l'anima pura, purissima, lasciare ogni torbidezza di passione, elevarsi nel dominio della fede. Ah io li vedo, ma spesso, ma quasi sempre uno spirito maligno ottenebra i miei occhi… - Sentite, sentite, - disse forte Ninetto Costa, l'elegante e ricco agente di cambio, - io ho fatto di più, io ho saputo che una giovane modista che abita al vico Baglivo Uries, aveva reputazione di dare i numeri buoni, i numeri veri: essa, non può giuocarli, come sapete, le è proibito sotto pena di non conoscere più i numeri. Ma li dà! Me le sono messo attorno, con la scusa di un amore improvviso, pazzo, le ho fatto dei regali, la vedo ogni sera e ogni mattina, sono giunto finanche a promettere di sposarla. - E vi ha dato niente? - chiese ansiosamente il marchese di Formosa. - Niente ancora! Evita il discorso, quando io gliene parlo, timidamente. Ma li darà, perdio, se li darà! Oh! come Bianca Maria avrebbe voluto che quel rosario recitato così distrattamente, quella sera, continuasse ancora, per non farle udire quei folli discorsi, di cui non perdeva una parola e che le turbinavano nel cervello, dandole la sensazione di un vortice in cui fosse travolta la sua anima. Come non avrebbe voluto udire gli impeti di quelle menti stralunate, assorbite nella idea fissa! Ora parlava il marchese di Formosa, vibratamente: - Sta bene l'ignoranza sapiente del ciabattino Cifariello, ta bene la santità di padre Illuminato, stanno bene le visioni lucide del nostro amico Colaneri, ma dove è il risultato? Che si vede? Che abbiamo ottenuto? Noi qui ci giuochiamo l'osso del collo, ogni settimana, cavando denari dalle pietre, ognuno di noi, e vincendo, ogni cento anni, la miseria di un piccolo ambo, o la più grande miseria di un numero per estratto. Qui ci vogliono mani più potenti! Qui ci vogliono forze più alte! Qui ci vogliono miracoli, signori miei! Si dovrebbe far decidere mia sorella monaca, Maria degli Angioli, a dare i numeri! Mia figlia dovrebbe farla decidere. Qui ci vorrebbe mia figlia stessa, che è un angelo di virtù, di purezza, di bontà, che chiedesse i numeri all'Ente Supremo! Un profondo silenzio seguì queste parole. Suonò il campanello della porta di entrata. Bianca Maria che, tremando tutta, si era trascinata sin dietro la tenda della sua porta, vide passare ed entrare nel salone un uomo miserabilmente vestito, dall'aspetto ignobile, con le guance smunte, livide, striate di rosso e la barbaccia nera di un convalescente che esce dall'ospedale, un'apparizione penosa e paurosa. All'entrata del bizzarro individuo nel salone, era subentrato il silenzio, come se improvvisamente si fossero placati tutti gli animi, come se una grande misteriosa tranquillità fosse apportata dallo sconosciuto. Bianca Maria, appoggiata allo stipite della sua porta, tendeva l'orecchio, ansimando. Forse i cabalisti erano ritornati al loro tavolino, portandosi seco loro quel nuovo arrivato. Durò a lungo il silenzio. Immobile, quasi rigida, essa si aggrappava al legno della porta, per non cadere: quello che aveva udito era troppo crudelmente doloroso, per non sentirsi spezzar l'anima. La teneva un'umiliazione, un'angoscia senza nome, come se tutta la sua sensibilità non fosse oramai che un dolore solo. Soffriva in tutto, nella fierezza natia, nel suo riserbo di fanciulla offesa dal suo nome buttato così, in una disputa di pazzi, da suo padre: soffriva nella sua tenerezza filiale, per sé e per suo padre, come avrebbe sofferto per ambedue, se egli l'avesse schiaffeggiata in pubblico: l'angoscia le saliva al cervello come se volesse abbruciarlo fra le sue strette roventi. Quanto tempo ella stette così, quanto tempo durò il silenzio, nuovamente, nel salone? Ella non lo avvertì. Solo, nel suo affanno, udì passare dietro la tenda della sua porta e uscire chetamente di casa, come tanti cospiratori, uno ad uno, tutti gli amici di suo padre. Allora, macchinalmente, uscì dalla sua stanza per cercare di lui. Ma il salone era scuro: era scura la piccola stanza da studio dove il marchese di Formosa entrava ogni tanto, a consultare qualche vecchio libro di cabala. Bianca Maria cercava suo padre affannosamente. Alla fine, una luce la guidò. Don Carlo Cavalcanti era entrato nella piccola cappella; aveva ravvivato la lampada innanzi alla Vergine Addolorata; aveva acceso la lampada spenta per suo ordine, innanzi all' Ecce Homo aveva acceso le due candele di cera nei candelabri dell'altare e li aveva trasportati innanzi a Gesù Cristo. Non contento di ciò, aveva anche portato nella piccola cappella il lume a petrolio del salone e in quella grande illuminazione si era prostrato, buttato giù, disperatamente, innanzi al Cristo, e trasalendo, sussultando, singhiozzando, pregando ad alta voce, diceva al Redentore: - Ecce Homo io, perdonatemi, sono un ingrato, sono uno sconoscente, sono un misero peccatore. Ecce Homo perdonatemi, perdonatemi, non mi fate scontare i miei peccati. Fatemi la grazia per quella figlia che languisce, per la mia famiglia che muore! Io sono indegno, ma beneditemi per quella creatura! O Vergine dei Dolori, voi che tutto avete sofferto, capitemi voi, soccorretemi voi! Mandatela voi una visione a suora Maria degli Angioli! O anima santa di Beatrice Cavalcanti, moglie mia benedetta, se io ti ho addolorata, perdonami, perdonami se ti ho abbreviata la vita, fallo per tua figlia, salva la tua famiglia, comparisci a tua figlia, che è innocente, digliele a lei le parole che ci debbono salvare…anima santa, anima santa… La fanciulla, che tutto aveva inteso, fu presa da tale invincibile paura che fuggì, tenendosi la testa fra le mani, con gli occhi chiusi; ma giunta nella sua camera, le parve udire come un profondo, triste sospiro dietro a sé, le parve che una lieve mano le si posasse sulla spalla; e folle di terrore, senza che un grido potesse uscire dal petto, crollò per tutta la sua altezza sul pavimento e giacque come morta.
Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.
Non osava guardarsi intorno, aveva il capo abbassato sul petto, chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra; mentre lui, in preda alla ostinazione della sua follia, guardava fiso la sua figliuola, credendo scorgere in lei quel disordine spirituale, che deve fatalmente accompagnare questi grandi miracoli delle anime. - Che hai? - domandò lui, profondamente, intensamente, quasi volesse strappar dall'anima la verità. - State qui, state qui, - disse ella, battendo i denti dal terrore. - Vedi qualche cosa? - chiese lui, suggestivamente, con una intensità di voce e di volontà che dovea piegare quel fragile involucro femminile, tutto sconquassato dall'urto nervoso. - Ho paura di vedere, ho paura, - ella disse, pianissimamente, appoggiando la fronte sui braccio di suo padre. - Non temete, cara, non temere, - le susurrò lui, teneramente, carezzandole con atto paterno i neri capelli. - Tacete, tacete, - diss'ella, con un tremore acuto. E rimase appoggiata alla sua spalla, nascondendo la faccia, raggricchiandosi tutta. Il marchese passò il braccio alla cintura di sua figlia, per sostenerne il debole corpo convulso: e mentre ella più si nascondeva, attaccata a suo padre, come a una tavola di salvezza, egli sentiva ogni tanto sussultare tutto quel povero corpo di creatura inferma nelle fibre, nei nervi e nel sangue. - Che hai? - egli domandava, allora. - No, no, - faceva ella, più col gesto che con la voce. - Guarda, guarda, non aver paura, - suggeriva l'allucinato. - Tacete, - replicava lei, rabbrividendo. Con pazienza, egli la sosteneva, aspettando, con la ostinazione del folle che attenderebbe ore, giorni, mesi e anni, purché la realtà della sua follia potesse avverarsi. - Figlia mia, figlia mia, - mormorava il marchese, ogni tanto, incoraggiandola teneramente. Ella rispondeva, sospirando: un sospiro che pareva un lamento, che pareva un singhiozzo di fanciullo sofferente. Tenendola appoggiata al suo petto, il marchese di Formosa sentiva la rigidità nervosa di quel povero corpo giovanile e malaticcio, percorso da lunghi fremiti. Quando la fanciulla tremava, tutta, suo padre ne sentiva il contraccolpo e parendogli che la rivelazione così invocata fosse imminente, le diceva un'altra volta, ostinato, spietato: - Che hai? Ella faceva un cenno con la mano, di orrore, come se volesse scacciare un pensiero spaventoso o una spaventosa visione. Che importava a lui lo strazio di quel cuore giovanile, lo squilibrio funesto di quei nervi? Egli in quella stanza glaciale e verginale, in quella penombra dove la lampada accesa innanzi alla Madonna gittava un cerchio di luce sul soffitto, con quel corpo convulso di fanciulla fra le braccia, con quell'anima tremante innanzi ai misteri spirituali, egli sentiva di essere in un momento solenne, in cui ogni circostanza di tempo, di età, scompariva, e lui, Formosa, si trovava finalmente in faccia al grande mistero. Dalla bocca innocente di sua figlia lo avrebbe saputo, il segreto della sua vita, del suo avvenire: le fatali cifre che contenevano la sua fortuna, sarebbero state dette a Bianca Maria dallo spirito, da Bianca Maria a lui. - Bianca, Bianca, prega lui he venga, che ti dica se dobbiamo vivere o morire. Pregalo, Bianca, poiché lui, lo spirito, è una emanazione del Divino, di dirti la divina parola...pregalo, se è qui, presso a te, o in te, se è innanzi ai tuoi occhi o alla tua fantasia, pregalo, Bianca, pregalo, ne va la vita nostra, salvaci, Bianca, salvaci, figlia mia, figlia mia... Continuava a parlare, incoerentemente, invocando la presenza dello spirito, dirigendo a lei, dirigendo a lui le preghiere più impetuose e più dolorose. La fanciulla, trasalendo, rabbrividendo, batteva i denti dal terrore; le mani che teneva strette al collo del padre, come un bambino che soffre, si avvinghiavano a guisa di tenaglia. Non parlava più, adesso: ma si capiva che l'ora, l'ambiente e le parole del padre esaltavano la sua convulsione. Un singhiozzo sommesso le sollevava il petto: e quando non singhiozzava, un piccolo lamento fioco fioco, instancabile, di bambino che agonizza, le usciva dalle labbra. Egli le parlava, sempre: ma quando le sue parole diventavano più incalzanti, quasi colleriche nel loro dolore, egli sentiva le braccia della figliuola torcersi per la disperazione. Poi, a poco a poco, un nuovo fenomeno si era manifestato. Sul principio, le mani e la fronte di Bianca Maria erano gelide, come sempre, poiché l'anemia di cui languiva, le toglieva ogni calore vitale. Anzi, in quella convulsione, egli aveva inteso, il vecchio allucinato, che era agghiacciato tutto il corpo della povera creatura. Ma ad un certo punto, in alcuni intervalli in cui il batter dei denti taceva, in cui le braccia si rilasciavano per un accasciamento, egli sentiva un sottile calore correre sotto la pelle delle mani, un sottile calore salire alla fronte della fanciulla. Pareva una fluida corrente di calore che si diffondesse in tutta la persona giovanile di Bianca Maria: un calore che inondava le vene impoverite di caldo sangue e che crescendo, crescendo, ne rendeva scottante la fronte e le mani. Egli udì che il respiro della fanciulla si facea affannoso e ogni tanto, quasi le mancasse l'aria, un lungo sospiro le sollevava il petto oppresso. Due volte egli fece per riporre il capo sui cuscini del letto, ma ella ebbe un fremito di paura. - Non mi lasciar sola, per amor di Dio, - balbettava, quasi infantilmente. - Non ti lascio: dimmi che cosa vedi, - ripeteva lui, indomito, implacabile. - Oh è orribile, è orribile...- balbettava Bianca, tremando ancora, tremando sempre, come se il suo corpo fosse diventato quello di una vecchia settantenne. - Che, è orribile? Parla, Bianca, raccontami tutto, dimmi che cosa hai visto? - Oh! - faceva lei, lamentandosi, disperandosi. Adesso, cessato il batter dei denti, col respiro corto che parea le uscisse a stento dalla gola, ella ardeva tutta, il suo alito breve bruciava il collo del padre, dove la sua testa si appoggiava. A questo fiato ardente si univa il batter rapido, rapido dei polsi pieni, e il battito rapido e pieno delle tempie. Ma il marchese Cavalcanti, preso intieramente dalla sua follia, nella notte gelida, in quella penombra misteriosa, accanto a quella povera anima addormentata in quell'involucro tormentato, aveva smarrito il senso del reale: e la sua ammalata fantasia assaporava acutamente il dramma di quell'ora, senza intenderne la crudeltà. Egli, anzi, vibrava di gioia, poiché credeva giunto il gran momento della rivelazione dello spirito: la fortuna di casa Cavalcanti, ecco, in quel minuto si decideva. Le ansie, i terrori, le convulsioni, le tronche parole di sua figlia si spiegavano: era l'approssimazione della Grazia. Tanto tempo, tanto tempo era passato nella infelicità e nella miseria: e ora tutto si risolveva: l'indomani, lui e sua figlia sarebbero ricchi a milioni. Oppressa, affannata, Bianca Maria era scivolata dal petto di suo padre sui cuscini e si udiva il sibilo del suo respiro, si vedevano i suoi occhi brillare stranamente. Inchiodato dalla morbosa curiosità, il marchese si tenea ritto presso il letto, spiando, al lume della lampada, ogni gesto, ogni atto della sua figliuola, abbattuta su quel letto di dolore. A un tratto, come per una scossa elettrica, le mani della fanciulla brancicarono convulsivamente la coltre: un grido rauco le uscì dalla strozza. - Che è? - gridò il marchese, scosso anche lui. - È lo spirito, lo spirito, - balbettò lei, con la voce cambiata di tono, profonda, cavernosa. - Dove è? - disse il padre, sottovoce. - Sulla soglia, è là, guardatelo, - disse ella, fermamente, energicamente, sbarrando gli occhi verso la porta. - Non vedo niente, niente, sono un povero peccatore! - gridò disperatamente il marchese Cavalcanti. - Lo spirito è là, - sussurrò lei, quasi che nulla avesse inteso. - Come è vestito? Che fa? Che dice? Bianca, Bianca, pregalo! - È vestito di bianco...non si muove... non dice nulla, - mormorò ella, parlando in sogno. - Pregalo, pregalo che ti parli, tu sei innocente, Bianca! - Non parla... non vuol parlare. - Bianca, scongiuralo, per il nostro Dio, per la sua forza, per la sua potenza Tacquero. Tutta l'intensa attenzione del marchese Cavalcanti era su quella porta, dove solo sua figlia vedeva lo spirito, mentre tutto l'animo di lui era una preghiera. Ella giaceva, sempre più affannata, mentre le ardenti mani sottili stringevano convulsivamente, fra le dita, le pieghe del lenzuolo. - Che dice? - Nulla, dice. - Ma perché non vuol parlare? Che è venuto a fare, se non vuol parlare? - Non mi risponde, - replicò lei, sempre con quella voce, che pareva venisse da una profonda lontananza. - Ma che fa? - Mi guarda... mi guarda fisamente... ha gli occhi così tristi, così tristi... mi guarda con pietà; perché mi guarda così, come se fossi morta? Sono forse morta, io? - Ora andrà via, senz'averti detto niente! - urlò il marchese di Formosa. - Domandagli che numeri escono, domani! La figliuola emise un lamento straziante. - Mi pare che pianga, adesso, quasi che io fossi morta, questo mi pare. Gli scendono le lacrime sulle guancie... - Il pianto, sessantacinque, - disse Formosa a se stesso, come se temesse che qualcuno lo udisse. - Leva la mano, per salutarmi... - Guarda quante dita solleva, guarda bene, non ingannarti! - Tre dita: mi saluta, mi saluta, se ne vuole andare.. - Digli che ritorni, pregalo, pregalo... - Accenna col capo di sì, - riprese, dopo una lieve pausa Bianca Maria, - se ne va, se ne è andato, è scomparso... - Lodiamo Iddio, - gridò Cavalcanti, inginocchiandosi ai piedi del letto. - Tre le dita, inque la mano, essantacinque il pianto, isogna sapere che numero fa la fanciulla morta, ingraziamo il Signore!... - Sì, sì, - mormorò la ragazza, con accento bizzarro, - bisogna che vediate quanto fa la fanciulla morta .. ..bisogna saperlo... - Lo sapremo, lo sapremo, - esclamò Formosa, ridendo come un folle. Non pensava più a sua figlia, la cui febbre era arrivata al più alto grado, con la violenza delle effimere he pare vogliano portare via in ventiquattr'ore un'esistenza. Ella affannava, bevendo l'aria dalla bocca schiusa, simile a un uccelletto che muore: il sangue batteva così precipitosamente alle pareti delle vene che sembrava le spezzasse, e tutto quel fragile corpo abbruciava come un ferro rovente. Invece, il marchese di Formosa era in preda a una impazienza giovanile: due volte era andato alla finestra, per vedere se spuntava il giorno; ancora qualche ora da aspettare, per andare a giuocare il biglietto dello spirito. Pensava di non aver più denaro: come avrebbe giuocato? Non una lira, era una cosa feroce, questa continua sete che nulla arriva a soddisfare! Oh, ma li avrebbe trovati i denari per giuocare, avesse dovuto vendere gli ultimi mobili di casa e mettere in pegno la propria persona; li avrebbe trovati, perdio, ora che la rivelazione era stata fatta, ora che lo spirito assistente si era degnato entrare nella sua casa! La sua fortuna era nelle sue mani, ci avrebbe rimesso tutto, per giuocare tutto sul biglietto dello spirito. Oh! Ecce Homo, Ecce Homo i casa Cavalcanti, eravate stato voi a fare quella grazia, per voi ci voleva una cappella apposta e quattro lampade di argento massiccio, sempre accese, in memoria della grazia che avevate fatto. I denari li avrebbe fatti trovar anche lui, l' Ecce Homo, l buono e potente Ecce Homo, rotettore della casa: i denari, i denari per giuocare! E trascinato dal suo fervido, appassionato pensiero, il marchese Cavalcanti parlava ad alta voce, passandosi la mano nei capelli, gesticolando, dandosi a girare nella stanza, come un pazzo. Sottovoce, poiché le mancava il respiro, Bianca Maria continuava a delirare, con dolcezza, parlando a frasi vaghe, nominando adesso Maria degli Angioli o parlando ogni tanto, con una infinita malinconia, di un fresco e ridente paese di campagna, di un paese verde dove avrebbe voluto andare a vivere, laggiù, lontano, lontano. Ma il vecchio, infuocato dall'attesa, non ascoltava più sua figlia e mentre l'alba fredda di marzo sorgeva, in quella stanza si confondevano i due delirii, del padre e della figliuola, tragicamente. Alla livida e glaciale luce dell'alba, pallido e con gli occhi stralunati, il marchese di Formosa girava con passo vacillante pel suo appartamento, cercando nei cassetti vuoti e sui rari mobili, qualche cosa da vendere o da impegnare. Non trovava nulla e con le mani brancolanti tornava ad aprire i cassetti, battendoli forte, macchinalmente, e si guardava attorno con la follia nello sguardo, pensando di voler vendere o impegnare le nude mura di quella casa che era stata sua. Nulla, nulla! A poco a poco, divorati dal giuoco del lotto, erano scomparsi i gioielli di immenso valore, le pesanti argenterie antiche e moderne, i quadri dei grandi pittori, i libri preziosi, le rarità artistiche di bronzo, d'avorio, di legno scolpito: la casa si era denudata, rimanendovi solo i mobili che sarebbe stato vergognoso voler impegnare o vendere. Ahi, che non trovava nulla per far denaro, per giuocare i numeri dello spirito. Egli si torceva le mani dalla disperazione, mentre aveva lasciata Bianca Maria nel sopore affannoso, febbrile, in cui ancora qualche confusa parola le sfuggiva, mentre i due vecchi servi ancora dormivano. Entrò finanche nella cappella, come un pazzo: ma le lampade che vi ardevano, erano di ottone: ma le frasche, ull'altare, egli stesso le aveva comprate, di metallo in imitazione d'argento, quando aveva venduto quelle di argento vero: pensò per un momento a prendere la coroncina di argento dal capo della Madonna Addolorata e di toglierle dal cuore quelle sette spade d'argento, le piccole spade che raffigurano i dolori della Gran Madre straziata, ma lo trattenne un timore mistico. Uscì, senz'aver potuto neppur dire una preghiera, tanto lo tenea, in quell'alba, l'allucinazione della notte, e la fretta febbrile della mattinata di sabato. Pensava, ora, a chi avesse potuto chieder denaro in prestito: ma non trovava la persona e si stringeva le tempie tumultuose fra le mani, per concentrarsi, per arrivare a ottenere lo scopo. Tutti gli amici del suo ceto, i suoi larghi parenti, dopo la morte di sua moglie, si erano allontanati da lui, ma solo dopo che egli li aveva messi a contribuzione, tutti quanti, per giuocare. Gli amici di adesso? Tutti giuocatori: tutti, in quella mattina, faceano dei tentativi disperati per giuocare ancora, e non prestavano, certo, denaro, ognuno pensava a sé, cercava per sé. Amici nuovi? Quella passione non gliene aveva fatti trovare, fuori di quella morbosa cerchia di pazzi, dannosi come lui. E ci voleva molto denaro, molto, poiché lo spirito si era degnato di rivelarsi: bisognava far fortuna in quel giorno, o mai più. A un tratto, un lampo di luce lo colpì: un nome gli si era affacciato alla mente. Costui gli potea dare del denaro; era un galantuomo, ne avea molto, del denaro, non avrebbe rifiutato un piccolo prestito a un Formosa. E mentre, seduto presso la sua scrivania, sopra un foglietto strappato da un taccuino pieno di cifre, egli scriveva al dottor Antonio Amati, pensava che non era vergogna quel prestito chiesto a un estraneo, poiché egli avrebbe restituito quel denaro la sera istessa. uando ebbe scritto, un pensiero lo fece tremare: e se Amati dicesse di no? Era un indifferente, un estraneo, il denaro indurisce tutti i cuori. - Porta questa lettera al dottor Amati e torna qui - egli disse a Giovanni, che si era presentato, mal desto, al suono del campanello. - Dormirà... - Porta! - comandò Formosa. E si mordeva le labbra, adesso, sicuro che Amati avrebbe rifiutato, sentendo il rossore della vergogna salirgli alle guance. Ma doveva aver denaro, ne doveva avere, a qualunque costo! Buttato sulla poltrona, guardando, senza vederle, le cifre scritte sulle carte disperse sulla scrivania, egli si sentiva vincere da quella collera irrefrenabile della passione, alle prese con la realtà. - Quando si sveglia, darà la risposta, - disse Giovanni, rientrando, e aspettando in silenzio gli ordini del suo padrone. - Giovanni, dammi l'altro denaro che hai, - disse sordamente Formosa. - Non ne ho, Eccellenza... - rispose l'altro, assalito da un tremito. - Non dir bugie: hai altre cinquanta lire, dammele subito... - Eccellenza, le ho prese in prestito da un usuraio, debbo restituirle a tanto la settimana, non me le togliete... - Non me ne importa niente, - disse superbamente Carlo Cavalcanti. - Non me le togliete, Eccellenza, se sapeste a che servono... - Non me ne importa niente, - replicò ferocemente il marchese. - Dammi le cinquanta lire... - Servono per far mangiare la marchesina... - Non me ne importa niente! - urlò Formosa. - Quando è così, ubbidisco, - disse disperatamente il servo. E cavò le altre cinquanta lire; il marchese le afferrò con l'atto di un ladro e se le mise in tasca rapidamente. - Tua moglie anche ha denaro, cercaglielo, - riprese Cavalcanti, freddamente. - Chi glielo ha dato, a mia moglie? - Ne ha: fattelo dare e portalo qui. Risparmiami una scena. Se tua moglie nega, potete andarvene dalla mia casa, subito. - Nossignore, nossignore, Eccellenza: vado subito, - disse umilmente il servo. Ma di là, vi fu la scena. Il dialogo fra marito e moglie fu lungo, agitato, la donna non voleva lasciarsi portar via il denaro: gridava piangeva, singhiozzava. Alla fine vi fu un silenzio: e poi come un lamento. Giovanni rientrò, con la vecchia faccia sconvolta, più curvo, quasi colpito da un tremor paralitico. E deponendo altre cinquanta lire sulla scrivania, in silenzio, con gli occhi rossi delle scarse e brucianti lacrime dei vecchi, egli colpì tanto il marchese, che costui, placato a un tratto, disse bonariamente: - Sono trecento lire, fra ieri sera e stamattina: stasera avrete tutto. - E il pranzo di oggi? - Verrò io, alle quattro, disse vagamente il marchese. - La signorina è ammalata, vorrà un po'di brodo, stamane - mormorò il servo. Allora, cercandosi in tasca, con la smorfia dolorosa dell'avaro, il marchese di Formosa diede tre lire al servo, seguendole con lo sguardo avido. Avevano bussato, Formosa trasalì, era la risposta del dottor Amati: non importa, adesso, se diceva no! Ma come ebbe nelle mani la busta, alla divinazione del tatto comprese che i denari chiesti vi erano, e rosso di gioia, si mise la busta in tasca senz'aprirla. Usciva, adesso, usciva alle otto del mattino, come se lo portasse un soffio irresistibile: usciva senza voltarsi indietro, a guardare la figlia inferma, la sua casa nuda, i suoi servi piangenti che gli avevano dato tutto, il suo vicino a cui egli non aveva pagato le visite e a cui aveva osato chieder del denaro in prestito: usciva, portando seco trecentocinquanta lire, che avrebbe messe tutte sul biglietto dello spirito, mentre aveva lasciato digiuni i due poveri vecchi servi, e aveva lesinato sopra un po'di brodo per Bianca Maria. Niuno lo rivide, in casa, sino al pomeriggio. La fanciulla era restata a letto, vinta dalla febbre, ardendo, respirando faticosamente chiedendo ogni tanto da bere, niente altro. Margherita si era seduta accanto al letto, dicendo mentalmente il rosario, due o tre volte, per lasciar passare le ore: e ogni tanto metteva la mano sulla fronte dell'inferma, sgomentandosi del calore. La malata taceva: dormiva, con la respirazione oppressa. A un tratto, aprendo gli occhi, disse nitidamente a Margherita: - Chiamami il dottore... - Ora non sarà in casa. - Quando ritorna... E richiuse gli occhi. Il dottore non venne che alle quattro e mezzo. Si fermò sulla soglia della cameretta, odorando l'aria di febbre. - Potevate chiamarmi prima, - disse ruvidamente a Margherita. - Oh Vostra Eccellenza, se potessi dirvi. Egli le ordinò di tacere. La malata lo guardava coi suoi belli e dolci occhi, sbarrati, e gli tendeva la mano. E il forte uomo, dalla testa poderosa, dalla faccia genialmente brutta, prese, innanzi a quella fragile creatura, quella profonda aria di tenerezza che gli sgorgava spontanea dal cuore. Il medico sentì subito che quella febbre sarebbe finita: già decadeva, con la rapidità delle effimere: ma a lui restava confitta in cuore la spina di quella povera esistenza, traballante fra la vita e la morte, vinta da un morbo di cui egli non trovava le cause. - Ora vi ordino una medicina, - disse lui, dolcemente, alla malata, tenendone la mano fra le sue. - No - disse lei, piano. - Non la volete? - Ascoltate, - disse lei, attirandolo a sé, per farsi udir meglio. - Portatemi via. Tremava, dicendo questo. Antonio, improvvisamente pallido, colpito da una emozione indicibile, non potette neppure risponderle. - Portatemi via, - soggiunse ella, umilmente, come se lo supplicasse. - Sì, cara, cara, - balbettò lui. - Dove voi volete, subito... - In campagna, lontano, - sussurrò la poveretta, - dove non si vedono fantasmi, nella febbre, dove non ci sono ombre, né spettri paurosi... - Che dite? - disse lui, sorpreso. - Niente, portatemi via... in campagna, fra il verde, nella pace, con vostra madre... innanzi a Dio. - Oh cara, cara... - non seppe dire altro, il grande uomo, nel turbamento supremo, nella suprema dolcezza di quell'idillio. - Lontano... - mormorò, ancora ella, guardandolo coi grandi occhi buoni. E soli, dolcissimamente, castamente, senza parlarne, parlavano d'amore.
Luisella Fragalà andava e veniva, da un balcone all'altro, col cappuccio abbassato, cercando invano un posticino per la famiglia Mayer che si era presentata senza essere invitata, e che tutte respingevano silenziosamente, per non lasciar prendere il proprio posto, dicendo fra loro che la madre e la ragazza non avevano il domino e che stonavano, ul balcone. Si posero in terza linea, la madre sempre reumatizzata e imbottita di flanella sino alla punta delle dita, la ragazza co' suoi grossi occhi sempre opacamente malinconici e le tumide labbra che si gonfiavano di una continua, repressa tristezza, il fratello sempre prodigiosamente affamato. - Non avremo neanche una bomboniera, - mormoravano volta a volta, per turno, borbottando nella loro perenne rabbia contro l'umanità. Ma la gran fluttuazione carnevalesca, il cui chiasso aumentava sempre, ravvolse anche questa misantropia; ora il vocìo si faceva immenso fra le carrozze da cui era cominciata la battaglia dei coriandoli, fra i piccoli carri, addobbati alla meglio, adorni di mortella, e pieni di mascherotti femminili e maschili, vestiti di teletta colorata. La casa Parascandolo, all'altro lato del palazzo Rossi, aveva tenuto chiusi i suoi balconi, la signora si considerava in lutto: ma don Gennaro Parascandolo in spolverina di tela russa, in berretto di tela e con la borsa delle bomboniere a tracollo, dopo aver fatto una passeggiata a piedi, per Toledo, chiamato da cento balconi, dove erano i suoi clienti passati, presenti e futuri, era salito al suo circolo, a Santa Brigida e di là, fra un gruppo di giovanotti buontemponi e di buontemponi attempati, faceva la vita, nche lui: si diceva così allora. Attorno a lui, scherzando, gli domandavano per quanti carri aveva prestato denaro e se era vero, che per quel carnevale, la sua collezione di cambiali si era aumentata di preziosi autografi principeschi. Ninetto Costa, l'elegante e fortunato agente di cambio, che aveva delle ragioni per carezzarlo, gli diceva, in forma di adulazione, che non un pugno di coriandoli si gettava in quel giorno, di cui egli non avesse interesse nella provenienza o nella dispersione: e don Gennaro Parascandolo rideva paternamente, non negando, rispondendo a quelli che gli chiedevano quattrini, per burla: - Mi son fatto prestare mille lire, per far carnevale, da un mio amico… Gli altri, intorno, urlavano, fischiavano, ma sempre adulandolo: non si sa mai, gli si poteva capitar nelle mani: e lui emergeva fra tutti, con la sua alta statura e il picciol berretto assai bizzarramente piantato sulla grossa testa, dando forti mestolate di coriandoli contro le carrozze e contro i piccoli carri. Sciatta, col suo vestito nero, la cui tinta era adesso diventata verdastra e lo scialletto la cui frangia si era tutta sfilacciata, Carmela, la sigaraia, si era appostata all'angolo del vicolo D'Afflitto, guardando le carrozzelle e i carri che passavano, coi suoi occhioni bistrati, con una mossa impaziente della bella bocca fresca, l'unico lineamento, ancora giovanilmente fresco nel volto consumato. Dai balconi, dalla via volavano le mestolate, le manate di coriandoli, che spesso la colpivano nella persona o nella faccia, ma ella faceva solo un picciol moto per pararsi, sorrideva al fastidio, e si ripuliva la faccia con un angolo dello scialle. Aspettava, lì, a veder passare il suo eterno fidanzato Raffaele detto Farfariello, he era in carrozza, con quattro altri compagni, con vestiti e cappelli eguali, ché anzi, per aver questo vestito, ella aveva dovuto rivendere certe casseruole di rame, un cassettone e due rami lunghi di fiori artificiali sotto campana, roba tutta che ella conservava per il suo matrimonio. Come le si era straziata l'anima a vendere quella roba, comperata pezzo a pezzo, a furia di stenti! Ma Raffaele le aveva volute, a forza, quaranta lire - sangue di una lumaca! - perché si disperava di far cattiva figura con i compagni ed ella, che impallidiva quando lo udiva bestemmiare, aveva venduto quegli oggetti, all'impazzata, contenta in fondo, quando gli aveva consegnata la somma, poiché egli aveva sorriso e le aveva promesso di portarla al Campo, lei e sua madre, l'ultima domenica di carnevale, in una osteria, se pigliava un ambo asciutto il sabato: ella, tutta gloriosa di questa fantastica promessa, aveva rinchiuso nel core la sua amarezza ed era andata, in quel giorno di festa carnevalesca, sciattata come una poveraccia, col treccione nero che si disfaceva sul collo, senza un soldo in tasca, a veder passare il suo bell'innamorato, altieramente in carrozza, fumando un napoletano, ol vestito e col cappelletto nuovo sull'orecchio, con l'aria di superba indifferenza che è la caratteristica del guappo, dell'aspirante guappo. azientemente ella aspettava, non pensando che a lui, senza curarsi della sua giornata, poiché alla fabbrica del tabacco avevano fatto vacanza: pazientemente ella sopportava tutto l'urto di quel pomeriggio carnevalesco, a cui non prendeva parte, poiché ella era assorta nella buddistica aspettazione dell'amor suo. Ma la gente, a piedi, in carrozza, passava, passava attraverso il gran velo dei coriandoli, delle bomboniere, dei fiori che volavano, attraverso la pioggia di mille cartine colorate, piovute dai terzi e dai quarti piani, che, esclusi dalla battaglia dei coriandoli, si divertivano così, solitariamente: e il vocìo diventato clamore ondeggiava sonoramente, saliva al cielo di quella dolce giornata sciroccale. Carmela, stordita dal rumore e dalla fantasmagoria di quel pomeriggio, in cui l'allegrezza napoletana prendeva proporzioni epiche, aguzzava gli occhi, per non perdere di vista le carrozze a due cavalli, che procedevano al passo, tutte bianche di gesso. Ogni tanto, uno dei grandi carri appariva: era la Sirena Partenopea, na immensa donna rosea, dalla criniera bionda, dalle gigantesche forme di cartone colorato, il cui corpo finiva nelle onde azzurre, una Sirena che si trascinava dietro un carro pieno di uomini travestiti da aragoste, da ostriche, da carpioni, da cefali: era un carro che figurava una gran Tartana ercantile, una nave con la sua attrezzatura e i suoi marinai vestiti di teletta a righe bianche e rosse, a righe azzurre e bianche, col berretto rosso, lungo: era un carro che figurava, intorno a un gran ceppo di fiori, otto o dieci Boîtes-à-surprise donde scattavano dei gentiluomini vestiti di raso; era un carro dove s'eran raccolte tutte le maschere napoletane, il Pulcinella, il Tartaglia, il don Nicola, Columbrina, il buffo Barilotto, il Guappo, la Vecchia, e finanche la più moderna maschera dei giovanotto lezioso e pretenzioso, il don Felice Sciosciammoca. Quando questi carri passavano, lentissimamente, quasi traballando sulle ruote, facendo piover coriandoli, confetti, bomboniere, scoppiavano gli applausi: la Sirena uscitava scherzi e facezie un po' salate, la Tartana areva pittoresca, le Boîtes-à-surprise avevano un successo di lusso e di eleganza, le maschere napoletane suscitavano dei gridi di riconoscimento, dei dialoghi rapidi, volanti, in dialetto, delle esclamazioni da tutti i balconi, a cui quelle maschere rispondevano vivacemente: e da un capo all'altro di Toledo era un movimento solo, di ondeggiamento sui balconi, di fluttuazione nella folla della strada, intorno ai carri e alle carrozze. Carmela guardava, guardava. Vide passare in una carrozza dai cavalli tutti infiorati e scintillanti di ottone nei finimenti, le due sorelle, donna Concetta, quella che imprestava denari con l'interesse e a cui ella stessa doveva trentaquattro lire, da tanto tempo, arrivando ogni tanto a darle un paio di lire, solo per l'interesse, e donna Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, resso cui ella aveva giocati tanti biglietti a un soldo, o a due soldi, quando non aveva denari per giuocare al Lotto del Governo, o quando solo quei due soldi le erano restati. Le due sorelle erano in gran gaia, pettinate con un trofeo di capelli, sul culmine della testa, piene di catene d'oro, di collane pesanti, di orecchini di perle, di grossi anelli, e conservavano il loro aspetto guardingo e severo, con certe occhiate oblique, e l'atto un po' sdegnoso delle labbra chiuse e tumide. Due uomini le accompagnavano, in perfetta tenuta di operai indomenicati, zazzera lucida, cappelletto sull'orecchio, giacchetta nera e sigaro spento all'angolo della bocca: e i quattro personaggi, muti, gravi, si guardavano ogni tanto, con l'aria seriamente compiaciuta di persone soddisfatte, crollando il capo, ogni tanto, per far cadere i coriandoli dai capelli o dalle falde dei cappelli, sorridendo a coloro che li avevano buttati, guardando a destra e a sinistra, con una certa fierezza di popolani arricchiti. Carmela si morsicò le labbra, vedendo passare le due serene e feroci accumulatrici del denaro altrui, ma subito dopo, la sua solita parola le salì dal cuore alle labbra: - Non importa, non importa… Ma un carro assai originale discendeva dall'alto di Toledo, suscitando una gran risata colossale, a destra e a sinistra, giù e su: era un gran letto borghese, con la coltre imbottita di bambagina, e foderata di cotonina rosso-vivocome si usa a Napoli: un letto con un baldacchino aperto, dove, sulla parete, erano attaccate le immaginette della Madonna e i santarelli protettori: nel letto, dalle lenzuola bianche rimboccate, stavano coricate due persone, con due enormi teste di cartone, raffiguranti un vecchione col berretto da notte e una vecchiona con la cuffia, due vecchioni leziosi, smorfiosi, che faceano mille cenni con le grosse teste, che tiravano a sé la coltre con quel moto egoistico e freddoloso dei vecchi, che si offrivano del tabacco, facendosi dei saluti col capo, starnutando, dimenandosi, salutando la gente dei balconi, ringraziando alle fitte mestolate di coriandoli che ricevevano, scuotendo le coltri, restando incogniti sotto il mistero del cartone, mettendo in pubblico quella caricatura familiare, quell'angolo di stanza da letto, senza che nessuno trovasse la cosa troppo arrischiata, tanto l'idea di dormire all'aria aperta è naturale ai meridionali, e tanto la vita intima è vita pubblica, nel caldo e bonario paese. Che! tutti ridevano. Rideva finanche la gente nella bottega di don Crescenzo, dopo la piazza della Carità, all'angolo del vico del Nunzio. La bottega di don Crescenzo era veramente il Banco lotto numero 117: una bottega chiusa ordinariamente dal pomeriggio del sabato sino al martedì, e in cui la ressa cominciava dal giovedì, sino all'una pomeridiana del sabato. Don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto, un bell'uomo con la barba castana, vi lavorava con due giovani uoi, che viceversa erano: un vecchietto settantenne, curvo, mezzo cieco, sempre col naso sul registro delle giuocate, che si faceva ripetere tre volte i numeri, per non sbagliare e li scriveva lentamente, lentamente: e uno scialbo tipo di nessuna età, con una faccia dalle linee indecise, una barba dal colore indefinito, uno di quei bizzarri esseri che si trovano a fare da testimoni agli uscieri, da mezzani al Monte di Pietà, da dispensatori di foglietti volanti e da sensali di stanze mobiliate. Don Crescenzo troneggiava sui due giovani. a in quel giovedì egli aveva trasformato la sua bottega, elevandovi una tribuna, drappeggiandola di panno bianco e cremisi e invitandovi la sua miglior clientela. Sì, erano tutti là, quelli che ogni settimana venivano a deporre il miglior frutto della loro vita, un denaro guadagnato a stento, o strappato alla economia domestica, o trovato a furia di espedienti, prima maliziosi, poi audaci e finalmente vergognosi. Tutti lì, nel Banco lotto, trasformato in tribuna carnevalesca: il marchese di Formosa, don Carlo Cavalcanti, con la sua aria di gran signore: e il dottor Trifari, rosso di capelli, di faccia, di barba, turgido come se scoppiasse e con lo sguardo infido dei suoi occhi di un azzurro falso; e il professore Colaneri che, in quel giorno, più che mai, manifestava l'indelebile carattere del sacerdote che non ha voluto più saperne della chiesa; e Ninetto Costa che aveva lasciato il Circolo, e don Gennaro Parascandolo, attirato da un desiderio prepotente, invincibile, e altri otto o dieci, un giudice del tribunale, un maggiordomo di casa principesca, un pittore di santi, malaticcio, il barbiere Cozzolino, gran cabalista: perfino, in un cantuccio della bottega, per terra, il lustrino Michele, sciancato, zoppo, gobbo, con le mille rughe della fisonomia di vecchio, pieno di una passione irrefrenabile, e, accanto a lui, Gaetano, il tagliatore di guanti, più smunto, più pallido, con gli occhi ardenti e la scontentezza, l'inquietudine che gli traspariva dal volto, a ogni moto. I clienti di don Crescenzo, nella bottega cara alla loro passione, celebravano il carnevale anch'essi ed essendosi quotati per comperare dei sacchi di coriandoli, ne lanciavano anche loro ai carri, alle carrozze e più ai passanti, dove ogni tanto salutavano una conoscenza. Nessuno si meravigliava di veder gente tanto diversa, un marchese, un agente di cambio, un giudice del tribunale, un medico, un professore e finanche un operaio riuniti lì. Carnevale, carnevale! La dolce follìa popolare aveva assalito tutti i cervelli, e la tiepida ora, e gli smaglianti colori, e la fantasia dei cento, dei mille veicoli passanti, e il clamore delle centomila persone avevan domato anche quelli che bruciavano di un'altra febbre, un'altra febbre respinta per quell'ora in un cantuccio dell'anima. Quando passò, a piedi, ridendo e gridando, Cesare Fragalà, in spolverina di tela di Russia, in berretto da viaggio, con due grosse sacche di coriandoli ai fianchi, che vuotava contro i balconi di sua conoscenza e andava riempiendo ad ogni angolo di via, dai venditori ambulanti, scherzando con tutti, grasso, forte, gioviale, con un bisogno di spandere la sua giovialità: quando Cesare passò innanzi alla bottega di don Crescenzo, fu un tumulto di saluti. Già sotto il palazzo Rossi, innanzi ai balconi della sua casa, egli aveva fatto, da basso, mezz'ora di combattimento coriandolesco, con sua moglie e con tutte le amiche di sua moglie: Luisella Fragalà, e Carmela Naddeo, e le Durante, e le Antonacci avevano trovata così originale l'idea di Cesare e così simpatico lui, con quel suo fare, che lo avevano accoppato, a furia di coriandoli: egli aveva dovuto fuggir via, ridendo, abbassando il capo, calcandosi il berretto sulle orecchie. Tumulto di saluti dunque, dalla bottega di don Crescenzo e chiamate, perché andasse là anche lui: non era forse anche un cliente, lui, sempre nella speranza di avere le ottantamila lire, in contanti, per aprire bottega a San Ferdinando? Ma Cesare era troppo contento di andare in giro, solo solo, ridendo e strillando con tutti, schiaffeggiato dai coriandoli, rosso, ansante di salute e di allegrezza. Andava, fra i carri, fra le carrozze, portato dalla folla: andava fra un parossismo, che l'ora rendeva più acuto. Oramai i più tranquilli commettevano delle follie e coloro che stavano sui carri, sulle prime semplicemente allegri, adesso parevano tanti indemoniati. In una carrozza era passato Raffaele, detto Farfariello, 'eterno fidanzato dell'appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore, all'angolo del vico D'Afflitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita, mormorando fra sé, per consolarsi: - Non importa, non importa… Ma ancora restò lì, inchiodata, in quel crescendo di frenesia carnevalesca. Sotto il balcone dove era la bella donnina vestita da giapponese, una folla più fitta si assiepava: e allora costei, eccitata, aveva cominciato a far cadere una pioggia di confetti, a manate, a scatole, quasi ne avesse un deposito in casa, prendendoli dalle mani della cameriera che glieli porgeva. Un urlìo di monelli, di popolani entusiasmati saliva al cielo, mentre ella da sopra, seria, seria, ma con una fiamma rossa sui pomelli, buttava giù, disperatamente, confetti, dolci, piccole bomboniere. Sul suo balcone parato di velluto azzurro con la rete di argento, il figlio dell'altissimo personaggio aveva combinato lo scherzo di attaccare una bottiglia di champagne, un pasticcio di caccia o una grossa bomboniera a una lunga canna e di abbassarli a livello delle mani tese dalla folla, sollevandoli, facendoli danzare, fra gli urli di desiderio della gente di sotto, e le mani alte, e le bocche aperte, fino a che un grande schiamazzo di trionfo, annunziava che un fortunato aveva strappata la bottiglia o la bomboniera o il pasticcio della nova cuccagna: la canna era ritirata e i giovanotti, che prendevano un gusto matto a quello scherzo, vi attaccavano qualche altra cosa da mangiare o da bere, una bottiglia di vino rosso, una forma di cacio ravvolta in una carta d'argento, un sacchetto di confetti, e il giuoco ricominciava, fra un tumulto inaudito, con la circolazione sospesa. Quelli dei carri, oramai, rifornite le provvisioni, mentre la sera si avvicinava, col passo sempre più rallentato, ballavano e cantavano e buttavano roba, dimenandosi come anime dannate. Fu in questo punto acutissimo della giornata che un nuovo carro sbucò da un vicolo di Toledo, fantastico, bizzarro, giunto in ritardo e trascinato dai cavalli a rilento. Rappresentava l'officina chimico-filosofica, dove lo sconfortato vecchio Faust bestemmia malinconicamente e gelidamente su tutte le cose umane: una camera bruna, con due scansie di libracci, con un fornello e una storta da alchimista, con un Alcoranus Mahumedis aperto sopra un leggìo di legno scolpito: sullo strano carro un vecchio curvo, con un zimarra di velluto nero e una lunga barba bianco-giallastra, camminava tremolando e gittando alla folla dei balconi e della strada delle bomboniere a foggia di libri, di storte, di alambicchi, di fornelli, dove qua e là si vedeva l'immagine di Mephisto, ma che erano riempite di buonissimi confetti. Allora una punta di fantastico si mescolò alla frenesia del carnevale e il carro del mago parve un'apparizione più sovrannaturale che reale. Il vecchio che le donne dai balconi, ridendo, chiamavano il diavolo, crollava il capo canuto coperto da una berretta nera e lanciava giù roba, magicamente cavandola dal sottosuolo del carro. E ogni tanto, fra il clamore del popolo, una voce sopracuta dirigendosi al decrepito mago, gridava: - I numeri, i numeri, i numeri! E quando, giunto a San Ferdinando, il carro di Faust voltò per rifare la strada fatta, sin sopra Toledo, fu vista una cosa curiosissima, indescrivibile. Cavandoli da un alambicco di rame, insieme alle bomboniere, il vecchio mago buttava alla folla e ai balconi, dei fogliolini lunghi e stretti, di carta gialla, su cui la gente cominciò a buttarsi furiosamente: e un grido precedeva, accompagnava, seguiva il carro di Faust: - Gli storni, gli storni, gli storni! Per realizzare una generosità nova, fastosa, bizzarra, e cara al popolo, il vecchio buttava dei polizzini di lotto da due e tre numeri, già giuocati, per il prossimo sabato, giuocati a due soldi l'uno: un biglietto che è detto storno di cui egli magnificamente gittava al popolo delle centinaia, ridendo nella sua folta barba bianca, scordandosi che era vecchio, per rizzare il capo con una gaiezza feroce. Oh che lungo grido, dovunque, nella via, per le finestre, per le logge, per i balconi, sino al cielo che si facea bianco nel tramonto: che lunghissimo grido di desiderio e di entusiasmo, di tutta una popolazione, che alzava le mani e le braccia, come se dovesse abbracciare la terra promessa, che si gittava a terra, si calpestava, per strappare furiosamente un polizzino del lotto, dove era una ipotetica promessa di dieci lire o di duecento lire di vincita! Oh che furore giocondo di uomini, di donne, di fanciulli, poveri e ricchi, bisognosi e agiati, che impeto invincibile che rispettava, per una sacra paura, il carro del mago, ma che gli faceva un trionfo, una gloria di acclamazioni, da un capo all'altro della via Toledo, quando egli aveva buttato alla folla diecimila polizzini, quando già egli era scomparso, senza che niuno sapesse dire come e dove. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Amati incontrò per le scale la cameriera Margherita che rientrava anch'essa, un po' stracca. E bruscamente, mentre forse non avrebbe voluto parlarle, le domandò: - Come sta la vostra signora? - Meglio, - disse a bassa voce la vecchia domestica, - perché Vostra Eccellenza non è più venuta a vederla? - Io ho molto da fare, - borbottò il dottore, senza suonare però alla sua porta. - È vero: ma Vostra Eccellenza è così buona. - Poi, non vi era bisogno di me… - soggiunse lui, esitando. - Eh, chi sa! - ribattè anche più sottovoce, e in tono misterioso Margherita. - Perché non entra adesso Vostra Eccellenza? - Verrò, -. disse lui, chinando il capo, come se cedesse a una volontà superiore. Ella introdusse una chiave nella serratura e aprì, precedendo, nel silenzio della casa, sino al salone, il dottore: ed egli, che pure era avvezzo a dominare immediatamente le proprie impressioni, sentì il freddo il silenzio, il vuoto di quel camerone. E si trovò innanzi la fanciulla, vestita di nero, che gli sorrideva vagamente, tendendogli la mano. Una manina lunga e fredda, che egli trattenne un minuto fra le sue, con la confidenza più del medico che dell'amico. - Siete guarita? - parlò lui, a bassa voce, subendo l'intimidazione dell'ambiente. - Non completamente, - diss'ella, con la sua voce pura e stanca. - Ebbi ancora un deliquio, una notte. Ma breve assai: credo, almeno. - Non vi soccorsero? - disse lui, con un rammarico profondo. - No, non se ne accorse nessuno: era notte, in camera mia… Non importa, - soggiunse poi, con un lieve sorriso. - Perché non siete andata in campagna? - Mio padre odia la campagna… - mormorò ella - e io non lo lascerei qui, solo. - Ma perché non siete uscita: oggi è carnevale, perché non siete andata a vedere? Volete morire di malinconia? - Mi avevano invitata, giù, dalla signora Fragalà: ma la conosco appena. Credo che bisognasse mascherarsi: mio padre non ama queste cose, ha ragione… Parlava con la sua bella voce dolce che una stanchezza spezzava, e Amati che era stato tutto il giorno a lavorare, all'ospedale e al letto degli ammalati, mentre tutti godevano il carnevale, riposava nell'armonia di quella voce e nella quiete stanca e languente di quella delicata giovinezza. Erano soli, seduti uno di fronte all'altro, in un gran silenzio, intorno: si guardavano appena, ma si parlavano come due anime che lungamente avessero vissuto insieme, nella gioia e nel dolore. - Dove eravate, poc'anzi? - domandò Antonio Amati, bruscamente. - Nella cappella, - rispose Bianca Maria, senza offendersi della domanda. - Pregate molto? - Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo. - Perché pregate molto? - Bisogna… - Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare. - Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano. E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo. - Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina. - Non credo: e poi, che importa? - Non dite questo, - interruppe lui, subito. - Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire. - Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via. - Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio? - È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato. - Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore. Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l'aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell'anima. - E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po' soffocata. - Vorrei, - diss'ella, semplicemente. - Perché? - Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili. - Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi? - Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera. - Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.
La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.
Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.
La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.
Abbassato il capo sulla sua opera, con le belle mani abili che andavano e venivano, Mimì Maresca tendeva l'orecchio, a udire i passi bizzarri dello sciancatello, che dovea ritornare. Talvolta, costui tardava; e in silenzio attivo, Mimì Maresca già fremeva d'impazienza. Lo storpio rientrava in bottega: e ripeteva la risposta: - La signora si pettinava e non ha potuto scrivere. Oppure: - La signora dormiva. Oppure: - La signora ha detto che ve ne parlerà stasera, quando tornate a casa. Oppure la risposta dura: - La signora era uscita. Durissima notizia! Il marito innamorato e non amato, non amato più, o non amato mai, trasaliva tristemente. E a malgrado che tutto egli volesse nascondere, vergognandosi della sua inquietudine, temendo persino il giudizio del suo fedelissimo Gaetano Ursomando, che nulla aveva mai l'aria di vedere e dì udire, egli soggiungeva, ansioso: - Uscita? Dove è andata? Da quanto è uscita? - Non lo so - era, per lo più, la risposta dello sciancatello. - Ritorna da Mariangela e domandaglielo. Ah che nell'intervallo, Mimì Maresca non potea riprendere il lavoro: gironzava per la bottega, con quei suoi passi incerti e strascinati, brancicando con le mani fra i colorì e i pennelli. rovesciando qualche vasetto di porporina, e gittando degli sguardi spersi sulle piccole Madonne e sulla immensa Addolorata del fondo. E di nuovo, la voce di Nicolino risuonava: - La signora è uscita da un'ora; non ha detto dove andava,: Mariangela suppone che sia andata da qualche parente. Così! Non passava giorno, in cui Anna Dentale non si vestisse in elegante abito e non andasse a trovare suo padre, i suoi zii, le sue zie, le cognate, le cugine, le parenti lontane. Il costume della piccola borghesia napoletana, in una austera riservatezza, non consente che le donne maritate escano, senza essere accompagnate dal loro consorte: molto più le spose. E tante di esse, coi mariti alle botteghe, ai commerci, alle industrie, agli impieghi, si rassegnano facilmente a una vita claustrale, aspettando la domenica per uscire, a messa, e ad una passeggiata, col marito. Non Anna! Senza chieder permesso, senza chieder consiglio, senza chieder parere, dalla prima settimana, ella era uscita sola, in qualunque ora del giorno, con grande mormorazione del quartiere: e a qualche rimostranza affettuosa del marito, fatta solo all'inizio di queste uscite, ella aveva rudemente risposto che non intendeva di deperire in quella brutta e deserta casa di via Donnalbina, che voleva vedere i suoi, sempre, e che li sarebbe andati a trovare ogni giorno. E i Dentale erano numerosissimi: se ne scovrivano ogni giorno di più, lo zio Casimiro, il prozio Stefano, l'arciprete Giovanni, il canonico Ottaviano, la zia Carolina, la cugina Candidella, nomi costantemente nuovi, che si accumulavano coi vecchi. Don Carluccio, chiusa la farmacia sua, rabberciato alla meglio il fallimento, per isfuggire all'accusa di bancarotta fraudolenta, si era assoggettato come giovane, da un suo parente, altro farmacista, in via Costantinopoli: ma vi lavorava poco, malcontento, impaziente, impertinente, e vi guadagnava pochissimo: la figliuola non solo lo soccorreva di danaro, ma lo andava a cercare, spesso, in farmacia, se ne uscivano, via, insieme, parlottando in segreto, complottando, diceva il parente farmacista. Anche Domenico, per affetto, per gentilezza di animo, aiutava di denaro suo suocero, nè costui risparmiava il genero: ma sempre dall'alto, con un fare da gran signore, promettendo sempre di restituire, come se avesse dovuto rifar fortuna, un giorno: e, infine, don Carluccio Dentale si era organizzata una buona vita, con tutto ciò che gli serviva. Di sera, spesso, si presentava in casa Maresca, all'ora del pranzo, e aveva l'aria di elargire un onore grande al padron di casa, discorreva con altiera bonarietà, quasi sempre con sua figlia, conservando un segreto disdegno per Mimì, uomo di popolo, nato da gente di popolo, a cui egli aveva dovuto sacrificare Anna Dentale, una signora! Chiacchierando, con la sua figliuola, ambedue avevano un gergo familiare, dei ricordi a cui Domenico nulla intendeva, dei sorrisi d'intelligenza, dei sensi sottintesi nelle frasi; e citavan nomi, fatti e date che egli ignorava; e si abbandonavano alle memorie, ai progetti, alle speranze, isolandolo, obliandolo, come se egli mai fosse esistito, escludendolo, persino, da ogni discorso di avvenire. Alla sfuggita, ogni tanto, Mimì comprendeva che Anna e il padre si eran veduti, nella giornata, che erano andati insieme, chi sa dove, chi sa in quale ora. Talvolta, sempre al principio, un po' scherzando, un po' sul serio, egli aveva rivolto, a tavola, qualche dimanda suggestiva. Subito, aggrottate le sopracciglia, Don Carluccio aveva assunto un contegno offeso: - No, no, caro Mimì, non scherziamo. Quando mia figlia è con me, voi nulla dovete sapere. Sono il padre e basta. È già molto, avervela data in moglie. Non intendo sopportare altro. Quanti Dentale esistevano, e loro affini, e amici loro, tutti in rapporto con Anna e che costei vedeva sempre, mentre suo marito si affannava a plasmare i visi rosei e ridenti agli angioletti, intorno all'Assunzione di Maria, e dipingeva di un bianco latteo le nuvole che portavano in Cielo la Vergine! Abitava, tutta questa gente, nei quartieri più eccentrici, più lontani fra loro, a santa Teresa di Capodimonte, all'Arenaccia, a Montecalvario, a santa Lucia, a Basso Porto, a Materdei; ve ne era persino una, Francesca Dentale Catalano, oltre la Riviera di Chiaia, alla Torretta! E Mimì si figurava Anna, andando a piedi, alle visite più vicine, in tram verso quelle più accessibili, in carrozza da nolo alle più lontane, se la figurava... dove, dove, posto che egli si confondeva, in tanta parentela, in tante amicizie, con tanti nomi? La sera, egli, malgrado che sapesse di annoiarla. non poteva reprimere la domanda: - Sei uscita? Per lo più, ella non rispondeva alla prima richiesta, in una di quelle sue distrazioni tanto opportune. - Già. - Sei andata... dove? - A fare una visita. Silenzio, ancora. - Dalla tua madrina, donna Giuseppina? -... no. - Da tuo padre? -... no. - Da Francesca Dentale? -... no, no. Sono andata altrove... - Ah!... - esclamava lui, come aspettando. Ella si decideva.. - Sono stata da Maria Garzes. - E chi è, costei? - Non la conosci. Una mia compagna di monastero. - E dove abita? - A Salvator Rosa. - È maritata? - Sì, maritata; agiata. - E chi ha sposato? - Un signore, naturalmente - concludeva lei, per punirlo delle sue investigazioni. Raumiliato, egli cessava d'indagare. E le doveva credere sulla parola: poichè, per metodo, Anna aveva fatto sì, che i suoi parenti, salvo suo padre, non vedessero che raramente, molto raramente, suo marito. Con un'abilità perfetta, dovendo egli stare a bottega, tutto il giorno, non facendosi restituire che pochissime visite, non andando con lui, di domenica, quando egli era libero, che a messa, a passeggiare in Villa e, la sera, in un teatro, ma sempre sola, con lui, evitando gl'incontri, fuggendo ogni gita in compagnia. Anna aveva isolato Mimì Maresca. A qualche tentativo infelice lui, per vedere qualcuno di costoro, almeno i parenti più prossimi, a qualche atto di cortesia, di familiarità che egli aveva voluto compiere, ella aveva opposto un rifiuto secco: e se il pittore dei santi aveva voluto insistere, Anna gli aveva fatto intendere, pur senza dirlo, che i suoi parenti. essendo di un ceto molto più alto del suo, non avevano piacere di trattarlo. Immediatamente, nella sua triste semplicità. egli aveva ceduto. Sempre gli ricadeva sulle spalle, come un peso di pietra, questa differenza di condizione: Anna non gli risparmiava una sola volta questa verità, in ogni particolare quotidiano della vita, in certe lezioni che gli infliggeva, con fare altezzoso e noncurante, in certi segni costanti di disprezzo, che ella esercitava contro di lui. Ogni sua consuetudine semplice, ogni suo costume, ogni tradizione familiare, ogni uso popolare, tutto questo svolgersi dell'esistenza, in una certa maniera, avevan trovato in Anna un giudice rigido, inesorabile: e tutto, lentamente, malvolentieri, egli aveva dovuto mutare, anche quello che più gli era caro, anche quello che era stato caro a suo padre, a suo nonno, anche quello che egli vedeva fare a tutta la gente della sua condizione. Frizzante, sardonica, Anna colpiva, dalla sommità della sua signorilità, tutto ciò che per tanti anni era stato il fondo della vita di Mimì Maresca, fondo grezzo ma onesto, volgare, forse, ma bonario, superstizioso, forse, ma non mancante di tenerezza: e Mimì chinava il capo, rinunziava a mangiare certi cibi, in certi giorni, rinunziava a certe ore di riposo, nella stagione estiva, rinunziava a celebrare certe feste, rinunziava a certi pellegrinaggi, in certi anniversarii. Ella non transigeva. Era una signora: e tale voleva restare, e tentava, inutilmente, diceva lei, di dargli qualche gusto di signore. Ella si era rifiutata, violentemente, a ricambiare nessuna delle visite fattele, con pompa, dai parenti Maresca. Solo negli otto giorni, dopo le nozze, in gran lusso, col suo più bell'abito, coi suoi più ricchi gioielli, ella aveva acconsentito a visitare la moglie del compare di anello, donna Gabriella Scafa, la ricca moglie del Re della Immagine, quel marito e quella moglie che dominavano, con un imperio sovrano, tutta la regione di san Biagio dei Librai, sino a via Tribunali, sino a Forcella, sino al Duomo, dovunque una piccola o grande bottega di figure e di figurelle esponesse le sue immagini, quei possenti Scafa che il trionfo della oleografia sacra, a buon mercato, aveva arricchito. Con costoro, sì, una o due volte l'anno, in cerimonia, accompagnata da Domenico Maresca, trattenendosi un quarto d'ora, scambiando delle frasi convenzionali, senza nessuna cordialità: e ricevendo la visita di ricambio, allo stesso modo, in via Donnalbina. mandando a chiamare Mimì in bottega e portando, Anna, la sua più ricca vestaglia. A nessun altro, una visita: neppure alla zia Gaetanella Improta, quella dell'eredità, quella che non portava cappello, pur avendo molti danari. Quando la Improta era nominata, quando si nominava un parente Maresca, la bella bocca di Anna Maresca si gonfiava di sprezzo e il suo silenzio, ostinato, ingrandiva anche più quella espressione costante. Nessuno di essi aveva osato farle una visita, avendone compreso l'animo nella festa di nozze, e man mano, Domenico Maresca, era stato messo da parte anche da queste antiche parentele, da quelle umili conoscenze, gente che gli voleva bene, prima, ma che, adesso, lo compativa, crollando il capo, prevedendo chi sa quali brutte conseguenze, da questo matrimonio; e se, per caso, egli s'incontrava con uno di costoro, se egli andava loro incontro, con le braccia aperte, con il suo buon sorriso sulle grosse labbra smorte, l'altro assumeva un contegno gentile ma distaccato: se egli nominava sua moglie, l'altro, subito, troncava il discorso. Tutto egli comprendeva, Mimì Maresca, con una sensibilità profonda, affinata, adesso, da un amore che ne eccitava i nervi e le facoltà: sentiva che lo sfuggivano, sentiva che lo compativano, sentiva che essi temevano di Anna, sentiva che essi prevedevano cose molto cattive. E si rinchiudeva, sempre più, nella solitudine della sua passione ardente, oscura, esclusiva e unica: e si aggrappava, per poter vivere, a questa passione di cui Anna non gli permetteva, oramai, più, che pochissima o niuna manifestazione. E non avevano figli! - Ringrazio Iddio, mattina e sera, perchè non mi manda figli - esclamava lei, ogni tanto, guardando suo marito nel viso, perversamente. A questa parola sacrilega, a questa preghiera sacrilega. Domenico Maresca allibiva. In tutte le classi sociali napoletane, è così profondo il desiderio, il bisogno, la necessità di avere dei figliuoli, che un matrimonio senza figli, è considerato con viva compassione per i coniugi e, anche, con una senso di disistima. Scendendo, poi, nella piccola borghesia, nel popolo, le nozze infeconde sembrano una sventura familiare. Più innamorato che marito, più amante che padre, Mimì Maresca provava, sul principio, molto superficialmente la nostalgia di questi figli che non venivano: ma, un anno e mezzo dopo, in lui, fatto più preoccupato, più triste, più segretamente infelice, deluso profondamente dall'amore, crucciato dai sospetti più intimi, non potendo più orientare la sua misera vita sentimentale, cercando un punto sull'orizzonte cui tendere il suo cuore deserto, questa nostalgia si era fatta più acuta: e non poteva comporre, con le sue nobili mani dedicate alla più sacra delle fatiche, con quelle mani che erano la sola bellezza della sua brutta persona, con quelle mani in cui si traduceva la dolcezza della sua anima, non poteva plasmare, o dipingere una testa di angioletto, senza fremere di invincibile malinconia. Egli voleva fare, nel suo ardente desio, una statuetta del bambino Gesù, alla maniera antica, come i pittori di santi antichissimi: una statuetta, alta come un bambino di due anni, un piccolo Gesù roseo e biondo, con le manine aperte e distese, con la boccuccia schiusa. Questo bambino Gesù si veste di un abituccio di raso grigio perla, abituccio orlato al collo, alle maniche e alla gonnelluccia di una trina di oro, e la stoffa è tutta ricamata a zecchini di oro, scintillanti: sul bel capino riccioluto si posa una coroncina chiusa di argento: e al collo, sul petto, sulle braccia tese del piccolino, si appendono fili di oro con medaglioni, vezzi di perle, vezzi di coralli, e tutti gli strani ex voto della fede meridionale. Se Dio gli dava un figlio, una figlia, Mimì Maresca avrebbe offerto al Signore questa sorridente e ricca effigie del suo Divin Figlio, opera di Mimì Maresca, la statuettina dai piedini rosei e nudi sul piedistallo, e tutto fornito da lui, la veste, la coroncina, l'oro, i voti. Nulla sapeva Anna di questo già potente e dolente desiderio del marito, poichè egli non osava parlarne. Solo, qualche volta, indirettamente, gli usciva dal cuore, al derelitto pittore dei santi, innanzi all'altiera creatura del suo inutile amore, una esclamazione d'invidia, se si parlava di una coppia cui era nato un figliuolo: solo, qualche sospiro, gli usciva dal petto, se incontravano, nelle loro passeggiate della domenica, delle famiglie placide. precedute da una piccola schiera di figliuoli, vestiti graziosamente. - Beati loro! - mormorava lui. E, subito, Anna Maresca ribatteva: - Anche tua madre, non ne ha fatto che uno. Egli impallidiva mortalmente. Era una cosa insopportabile, per lui, udir nominare sua madre da Anna: poichè ella lo faceva glacialmente, con una malvagità premeditata, guardando negli occhi suo marito, costringendolo ad abbassarli, costringendolo a tacere e a divorare la sua amarezza. Alle otto di sera, un sabato, di settembre, Mimì Maresca bussò in fretta alla porta di casa sua, in via Donnalbina. Ordinariamente rientrava alle sette, per il pranzo: ma, in quel giorno, il lavoro forte che vi era stato in bottega, il viavai di clienti, degli ordini da dare a Ursomando e allo sciancato Nicolino, per il lunedì, gli avevano portato via più di un'ora. - È tardi, Mariangela, ho fatto tardi - disse lui, alla vecchia domestica che era venuta ad aprirgli, passandole avanti. - Il pranzo sarà pronto? - Sì - rispose costei, con un accento singolare. In un minuto, Mimì, aveva percorso le tre piccole stanze dell'appartamentino. Anna non vi era. Sconvolto, egli corse in cucina, ove la serva si affaccendava attorno ai fornelli. - Mariangela, dove è la signora? - È uscita. - Uscita? Da quando? - Dalle quattro. prima, forse. - E non è tornata? Alle otto? Come è possibile? Una pena viva ispirava le sue esclamazioni. La antica domestica che lo aveva visto nascere, che lo aveva cullato, portato a scuola, amato come un figlio e venerato come un padrone, lo guardava con atto di profonda pietà: - La signora ha mandato una lettera per voi - ella mormorò. - La lettera è in istanza da pranzo, al vostro posto, dove si mettono sempre le lettere. Egli vi corse. Un bigliettino era deposto, sul suo tovagliolo: scritto a lapis, sovra un mezzo foglietto che pareva strappato da un taccuino maschile, e chiuso in una busticina da carta da visita. Diceva, il biglietto: "Caro Mimì, devi pranzare solo. Sono andata a far visita a Francesca Dentale, perchè era l'onomastico di suo marito Gennarino, e mi hanno gentilmente trattenuta a pranzo. Non t'imbarazzare per venirmi a prendere, perchè vi è chi mi accompagna - Anna". In una profonda confusione, egli cadde sovra una sedia, al suo posto, in quella stanza da pranzo, ove erano sempre in due, da un anno e mezzo, e dove, quella sera, gli toccava restar solo, pranzar solo, poichè Anna lo abbandonava, con una libertà di azioni, una disinvoltura e una indifferenza completa. Mai, mai, era restata a pranzo fuori di casa, neppure col padre, nè per un invito formale, nè per una occasione fortuita e, così, a un tratto, per affermare la propria indipendenza, di fronte ai parenti Dentale, ella non rientrava, pranzava altrove, lontana, avvertendone con un biglietto arido, senza una parola di scusa, senza un saluto, senza dire a che ora sarebbe rientrata, togliendogli anche, brutalmente, il diritto di andarla a riprendere, facendogli intendere, chiaramente, che voleva fare il suo comodo e non esser infastidita da lui. - Debbo servire? - domandò timidamente, dalla porta, Mariangela, al suo padrone che, con la testa fra le mani, coi gomiti puntati sulla tavola da pranzo, cercava vincere i suoi nervi tesi dallo spasimo. - Servi pure. Ma della buona zuppa di erbe fumanti, egli non prese che una cucchiaiata: brancicò, col coltello e con la forchetta, un pezzo di carne allesso e lasciò stare tutto. Si passava, macchinalmente, la mano sulla fronte, volendo calmarsi, volendo riprendere un po' di tranquillità, sempre con la paura che qualcuno indovinasse la cura insopportabile che aveva dentro. Anche di Mariangela aveva soggezione, quantunque ne conoscesse la devozione assoluta. E tentò, con uno sforzo, di chiarire, alla sua domestica, quell'assenza così strana, la padrona che lascia la casa e il marito, per andarsene a pranzo, da parenti che egli non vedeva mai, in un rione lontano, per ritornare chi sa a quale ora della sera, forse avanzata. - Me lo imaginavo... - egli mormorò, come fra sè... - Era naturale che donna Francesca Dentale la trattenesse a pranzo... è san Gennaro, oggi... aveva un bell'abito, Anna, oggi? - Sissignore. Quello nero, tutto ricamato di perline. - Oh! E ti ha detto nulla, per me?. - No. Se lo doveva immaginare, però, che sarebbe ritornata di notte, perchè ha portato via la mantellina - soggiunse la domestica, candidamente. - Ah! - esclamò lui, trafitto di nuovo. - E chi ha portato questa lettera? - Un fattorino di piazza. - Da dove veniva? - Da Chiaia, mi ha detto. - Già. E chi gliela aveva consegnata?. - Un giovanotto, mi ha detto. - Ah! - disse lui, senza aver forza di conoscere altro. Col coltello, tagliuzzava minutamente la corteccia dell'arancia, che aveva cercato di mangiucchiare. Si levò di tavola, andò in salotto, vi restò, in piedi, guardandosi intorno con quello sguardo sperso che egli assumeva, nelle ore difficili della sua vita. - Volete del caffè? - chiese la vecchia fedele, dalla porta. - No, no. E per non mostrare anche più la sua miseria morale, aprì un giornale della sera che Anna comperava, con un soldo, quotidianamente, da uno strillone: e che ella leggeva lungamente, per isfuggire, spesso, alla conversazione con suo marito. Mimì scorreva le colonne di parole e di lettere e non intendeva nulla. Due volte, guardò l'orologio: non erano ancora le nove. E pensava, tra sè stesso, che non avrebbe resistito, ad attendere, in casa, Anna. Egli non esciva mai, dopo pranzo: e certo, Mariangela, avrebbe compreso la sua ansia, vedendolo partire: e si vergognava. Ma come resistere? Si sentiva male: correnti di gelo, correnti di fuoco gli attraversavano la persona: ebbe paura di aver la febbre, una febbre improvvisa, che gl'impedisse di andare. Mariangela rientrava, adesso, in salotto e lo guardava coi suoi buoni occhi amorosi e pieni di pietà. Voleva dirgli qualche cosa, si vedeva, mentre egli fremeva di fuggire. - Che vuoi? - chiese lui, rodendo il freno, fingendo una calma perfetta. - Volevo dirvi, don Domenico, che questi sono gli ultimi giorni che resto al vostro servizio ella pronunciò, con uno sforzo per celare la sua emozione. - E perchè? Perchè? - esclamò il padrone, stupito. - Perchè me ne vado - ella soggiunse, rassegnatamente. - Te ne vai? Dove, te ne vai? - Ho una sorella, ad Airola, vicino Benevento; è il paese dove sono nata, Airola. A questa sorella e a me, nostro padre ha lasciato una casetta, una stanza e una cucina sola; niente altro. Vado a morire là, nel mio paese, don Domenico. - E mi vuoi lasciare? Dopo tanti anni! - gridò lui, sinceramente commosso, dimenticando i suoi guai. - Io non vi lascerei - mormorò essa, con dolcezza servile. - È la vita che mi lascia. - Tu puoi campare molti anni ancora, Mariangela! - Ma non posso più servire - ella replicò, sempre con umiltà, a capo basso. - E come vivrai, poveretta? La casa non basta. - Ho qualche soldo, da parte, dopo tanti anni, che servivo qui: io non spendevo nulla, papà vostro e voi, eravate così buoni! Non pensate; avrò sempre un tozzo di pane. - Oh Mariangela, Mariangela, tu te ne vai! - disse lui, dolorosamente. - Te ne vai, così, dopo tanti anni! E Anna lo sa? - Lo sa - disse l'altra, con tono rassegnato. - E che dice? Che ti ha detto? La vecchia domestica non rispose. Mimì ebbe l'animo attraversato da un sospetto. - Non ha detto nulla, per trattenerti? Mariangela levò gli occhi sul volto e, a bassa voce, confessò la verità. - È lei che mi ha licenziata. - Lei? Lei? - Sì, lei. - Licenziata, proprio? - Oggi. Prima di uscire. Per la fine del mese. - E perchè? perchè? - Dice che sono vecchia, che non posso più servire, che non ho mai saputo servire. Sono vecchia, io; ed essa ne vuole una giovane - disse rapidamente, tremando, la poveretta. E per umiltà di animo cristiano, soggiunse: - La padrona ha ragione. Sono vecchia. non mi reggo più in piedi, me ne debbo andare. E, involontarie, sole, due lunghe lacrime discesero sulle guance scarne e rugose, gelide lacrime di vecchia creatura povera e finita, oramai. - Povera Mariangela - disse lui, con un sospiro profondo, ove parve si esalasse tutto il suo rammarico impotente e inutile. Non altro. Il suo tormento lo riprendeva, a morsi atroci, e, senza più aver la forza di reprimersi, afferrò il cappello e uscì di casa, accompagnato dal pio e tenero augurio di Mariangela, un augurio in cui, quella sera, trapelava, anche. la tristezza delle cose che non sono più. - La Madonna vi accompagni, in ogni passo che date. Quando fu fuori di casa, Mimì Maresca, nella molle serata di settembre, attraversata da qualche debole soffio fresco di un autunno che si avanzava, quando i suoi rapidi passi lo ebbero portato, dalla stretta e tetra e deserta via di Donnalbina, ove solo due fanali a gas, fiochi, diradavano le tenebre, in via Monteoliveto, bene illuminata, animata da viandanti, in ogni senso, attraversata continuamente dai trams che venivano da lontano, dai quartieri estremi sul mare, quando egli fu tra la gente, camminando in fretta, si sentì sollevato. un poco. Niuno sapeva dove corresse quell'uomo dallo scialbo e floscio viso, tutto assorto in un pensiero fisso, ed egli stesso andava, andava, verso via Fontana Medina. verso Piazza Municipio, spinto da un istinto di ricerca affannosa, d'inquieta indagine. Come quegli si accostava al centro della città, l'animazione della sera di morente estate, si facea più viva. File di donne passavano, venendo da Santa Lucia, da Chiaia, risalendo verso Toledo, verso i quartieri alti: altre file discendevano, e tante donne erano vestite di chiaro, quasi tutte; e molte erano vestite di bianco; e dei ventaglini si agitavano, nelle mani muliebri, delle risa trillavano, qua e là, una gaiezza circolava nell'aria, nelle cose, nelle persone; e i caffè avevano le loro tavole sui marciapiedi, sulle piazze, e la folla le occupava da pertutto; e delle musiche risuonavano, eseguendo dei pezzi popolari, delle canzoni alla moda, delle arie di ballo. Era giorno di festa, infine, per chi rispettava san Gennaro, il Patrono: e, sovra tutto, era una di quelle splendide sere di settembre, quando la gente si riversa ovunque si possa godere il fresco, sotto il chiarore delle stelle. Colui che scendeva per via Chiaia, sempre a piedi, sempre rapidamente, Mimì Maresca, percepiva superficialmente lo spettacolo così vivido e così simpatico della sera di estate: egli si urtava con le persone, scansandosi macchinalmente, proseguendo la sua via, cieco e sordo a ogni altra cosa, che il suo furioso desiderio non fosse: ritrovare Anna, subito, riprendersela, riportarsela a casa. E, animato da questa monomania, non si fermava a rammentare tutti i particolari bizzarri di quell'avventura disgraziata: la premeditazione, certo, che Anna aveva avuta in quella giornata: la brevità offensiva del biglietto: quel foglietto di provenienza non femminile: e quell'uomo, quel giovanotto che aveva consegnato la lettera al fattorino. No, tutto ciò gli era sfuggito dalla mente; egli correva, soltanto, per ritrovare Anna, non sapeva altro, andava, andava, diritto innanzi a sè. Fu sotto le grandi lampade elettriche di piazza Vittoria, ove i più bei palazzi patrizi mettono le loro facciate, ove il più elegante club di Napoli, il Nazionale , aveva la sua veranda illuminata e, fra le piante, sdraiati nei seggioloni di paglia, i socii sorbivano delle bevande ghiacciate e fumavano delle sigarette, fu solo lì, in piazza Vittoria, fra un andirivieni di persone, fra il rumorio sempre più forte dei trams , che Mimì Maresca si fermò di botto. Dove andava? Dove andava? Non ignorava, egli, forse, l'indirizzo di Francesca Dentale? Dove andava? Egli sapeva soltanto che la bella cugina di Anna, sua moglie, abitava alla Riviera di Chiaia; ma quella via è così lunga, così lunga! Sapeva, ancora, che Francesca Dentale abitava verso la Torretta, alla fine, proprio alla fine della Riviera di Chiaia, ma dove, specialmente, a qual numero, egli lo ignorava, Dove si dirigeva? A chi chiedere? In che posto fermarsi? Con quale indizio trovare questa casa? La sera si inoltrava, la Riviera di Chiaia, fatta di grandi edifizi aristocratici, fiancheggiati da piccole case borghesi, aveva pochissime botteghe, quasi tutte chiuse, o che si andavano chiudendo. Dove andava, dunque, Mimì Maresca, in una regione di Napoli così lontana dalla sua, in vie belle e popolose, ma che egli non frequentava quasi mai, dove andava, a cercare sua moglie, una donna, in una grande strada lunghissima, di cui l'occhio non scorgeva la fine, la cui larghezza impediva di riconoscere qualcuno, da un lato all'altro, con un fluttuamento costante di persone, con un movimento rapidissimo di equipaggi, dove andava egli, dunque, a cercare Anna, in una casa sconosciuta, egli non esperto, non pratico, profondamente scosso e già pentito dell'invincibile impulso che lo aveva spinto colà? E, dove andava, dunque, costui, quando gli si era detto che non lo volevano? Perchè andava, quando niuno lo desiderava, quando, egli ne era certo, sarebbe giunto inaspettato e mal gradito? Dove andava egli mai, quando la volontà di Anna era stata così chiara, così limpida, proibendogli di andarla a prendere, poichè aveva compagnia, e migliore della sua? Dove andava, quando ella lo aveva confitto a casa, in via Donnalbina, con quel biglietto, quando ella non voleva saperne, della sua presenza, divertendosi, ballando, forse, fra gente del suo ceto, ed escludendo lui, escludendolo assolutamente, lui popolano, pittore dei santi, senza finezza, goffo, goffissimo, insopportabile a lei? Dove andava mai, dunque, per farsi ricevere come un cane in chiesa, anche se avesse ritrovata la casa di Francesca Dentale, per farsi scacciare, forse, da sua moglie? E tutto l'ardor di ricerca, dunque, di Mimì Maresca era caduto: la debolezza spirituale, che era il fondo del suo essere, lo assaliva, novellamente, gli spezzava le forze fisiche e le morali. A passi lenti, oramai, si era messo sul marciapiede che rasenta il trottatoio della Villa e si trascinava lungo la ringhiera di ferro che difende i pedoni, alla mattina, dal trotto dei cavalli, su cui gli sportmen vanno e vengono, sotto le ombre dei grandi alberi del giardino pubblico, Di sera, alle nove e mezzo, non vi erano sportmen , ma il marciapiedi era ancora affollato, con la freschezza settembrina, con i profumi che venivano dai giardini di casa Colonna, di casa Alvarez de Toledo, del Vasto, di Monteleone. I suoi pensieri, in piazza Vittoria, avevan distrutto la sua esaltazione momentanea e, con essa, la sua momentanea forza. Camminava, sì, ma come un'ombra folle e vana, rallentando il passo, fermandosi, fissando gli occhi innanzi, ma senza vedere nulla, respinto spesso da chi gli passava accanto, respinto a diritta, a sinistra, sorpreso, costantemente, dal passaggio filante e rumoreggiante dei trams pieni zeppi di donne e di uomini, che tornavano da Posillipo, dalla Torretta, trasalendo a ogni volto femminile che gli appariva, e non osando neppure fissarlo bene, quasi avendo paura, oramai, d'incontrare sua moglie, chiedendo a sè stesso perchè non fosse restato, laggiù, nella solinga casa di via Donnalbina, ad aspettarla, come essa gli aveva ingiunto, perchè non le avesse ubbidito, senza discutere, anche a costo di soffrire le più acute torture, poichè il suo destino, oramai, era di vivere e di morire per lei, vivere di dolore e morire di dolore, ancora chiedendo perchè, perchè mai si trovasse colà, a quell'ora della sera, sgomento di un incontro, di cui sentiva il presentimento fatale nel suo spirito. Sfiaccolato, affranto da una giornata di fatica materiale, passata in piedi, e da una crisi morale che aveva debellato le sue fragili e fugaci energie, tremante di un pericolo morale di cui, con singolare percezione, egli pareva sentisse la imminenza, Mimì Maresca, mise moltissimo tempo per giungere, come uno spettro vagolante, sin quasi alla fine della Riviera di Chiaia, ove, forse, sorgea la casa di Francesca Dentale, ove, forse, stava Anna, sua moglie, e dove egli, adesso, aveva un terrore invincibile di ritrovare questa casa e di ritrovar questa donna. Egli si era arrestato, macchinalmente, in un punto ove l'andare e venire della gente, nella limpida e morbida sera di estate, era più forte e più allegro. Innanzi a Mimì Maresca che stava immobile, sul marciapiede, in un incrocio largo di binarii, vi era la grande fermata dei trams della Torretta: la Riviera di Chiaia vi finiva, biforcandosi in due strade, quella di Mergellina, quella di Piedigrotta, una che andava a Posillipo, verso il mare sonoro e fragrante, una che andava verso la campagna di Fuorigrotta, nell'ombra solinga e odorosa delle vigne e degli orti, Alle sue spalle, una larga, ma breve traversa, frequentatissima, conduceva all'elegante e aristocratico Viale Elena, conduceva tra palazzi maestosi e villini civettuoli, alla magnifica via Caracciolo. E i carrozzoni dei trams , dalla città, dal mare, giungevano carichi, gremiti di persone, alla fermata della Torretta, ove altra gente attendeva, in piedi, per prender posto, ove molti scendevano, molti salivano, fra gli squilli di campanelli, il rumorio delle voci e il fragor sordo e continuo degli equipaggi signorili, delle carrozze da nolo, e i canti lontani e vicini, e tutto un chiasso umano, ora basso ora alto, ora dolce ora stridente. Continuamente Maresca era urtato, spinto, investito, talvolta da gruppi di persone, mentre, alle sue spalle, in via Mergellina e nella larga traversa, il Caffè Stinco aveva collocato i suoi tavolini all'aria aperta, tutti occupati da gente. Ogni tanto, Mimì Maresca indietreggiava, verso la traversa, verso il Viale Elena: una volta, lentamente, trascinando i suoi piedi morti di fatica e la sua anima morta di tristezza, giunse sino alle acacie del Viale Elena. E fu in fondo a questa traversa che una donna, passando, lo sfiorò e si voltò, subito, a guardarlo, fisamente; la donna mosse pochi passi, indecisi, innanzi: poi, a un tratto, si voltò di nuovo, gli venne incontro, gli si piegò, vicina, dicendogli, con voce bassa e roca: - Non mi conosci? Non mi conosci più? Al chiarore che veniva da una bottega illuminata, ove delle stiratrici lavoravano, nel biancore delle tende e della tavola da stiro, egli fissò bene la donna e la riconobbe Gelsomina, che toccava i venti anni, pareva fatta più alta e più magra: il suo vestito di mussolina bianca, tutto adorno di merlettini bianchi, pareva che le andasse largo, un po' cascante sul busto e sui fianchi. Sotto un grandissimo cappello nero, carico di corte piume nere, il suo viso sembrava più smunto, più allungato. Era oltraggiosamente carico di rossetto e di polvere di riso: il colorito naturale di questo viso era sparito, completamente: sottolineati di bistro i suoi occhi, e delineate, anche in bistro, le sovracciglie fini: con atto costante, ella seguitava a mordersi le labbra, per farle diventar rosse. E, strano a dirsi, era leggermente toccato, delineato col rossetto, il segno che ella portava dalla sua nascita, sul mento, la piccola voglia, la piccola fragola. Alle gentili orecchie portava dei pesanti orecchini; delle grosse pietre verdi, quadrate, circondate da pietre bianche, falsi smeraldi con falsi brillanti. Al collo, aveva una grossa spilla, simile: e, sul braccio, uno scialletto di seta rossa, di un colore vivissimo. - Non mi riconosci? Non mi vuoi riconoscere? - ella domandò, ancora, con quella sua voce lamentevolmente rauca. - Sì, sì, - mormorò lui, con una pena immensa - ti riconosco, sei Gelsomina, buona sera! - Non mi chiamo più così! - replicò ella, crollando il capo. - Gelsomina non esiste più. - E come ti chiami? - Fraolella , solamente Fraolella . Tutti così mi chiamano. - Chi, tutti ? - chiese lui, inconsciamente. Ella lo guardò, amara, senza rispondere. Sparita, per sempre, da quegli occhi grigiastri e grandi la espressione maliziosa di dolcezza infantile e l'altra, anche infantile, d'improvviso smarrimento: un avvicendarsi, invece, di una rassegnazione passiva, di una tristezza torbida, di una curiosità dolente, di uno stupore dolente. E quegli occhi ove tutta la sua istoria si poteva leggere, per chi ricordava quelli di un tempo, quegli occhi donde tutta la gioia della innocenza e della gioventù era fuggita, contrastavano malamente con quel viso delicato, tutto imbellettato. - E che fai, qui, a quest'ora…. Fraolella ? - domandò Mimì, per dire qualche cosa, superando la sua pena. - Aspetto... aspetto qualcuno... - ella rispose, girando la testa in là. - Un innamorato? - Già. - Don Franceschino Grimaldi? Un breve riso, impresso di cinismo, uscì dalle labbra dipinte e morsicchiate di Gelsomina. - Le tue notizie sono vecchie! - ella esclamò, ridendo ancora, e fermandosi, subito, per respirare, come un tempo. - Non è più il tuo innamorato? - Ma no! - Lo hai lasciato? - Mi ha lasciata - ella soggiunse, piano, come se parlasse in sogno - Dopo tre mesi, mi ha lasciata. - Così poco? - Così poco, Mimì - disse lei, mentre, nella arrocatura della voce, qualche cosa tremava. Temeva,.. temeva.., qualche guaio... un figlio… - Non vi è stato..?- esitò lui, a domandare. - No..- niente... meglio così, Come avrei fatto, Mimì? Mi sarei dovuta buttare dalla finestra. Essi si guardarono, un momento, ambedue stravolti. Stavano innanzi a quella bottega, ove si lavorava, a grandi colpi di ferro e, vicinissimi, parlavano piano. La gente che passava, o non si accorgeva di loro, andando ai suoi piaceri e ai suoi doveri, o, accorgendosene, aveva un sorriso maligno, vedendo l'interesse di quel colloquio, credendo a discorsi amorosi o, piuttosto, a discorsi sensuali, fra quella giovine il cui aspetto, ahimè, non ingannava nessuno e quell'uomo giovine, smorto, che l'ascoltava attentamente. - Ascolta, Mimì, ascolta, - ella proruppe, ma pianissimo, dopo essersi guardata intorno, e mettendogli una mano sul braccio - due o tre volte, mi son voluta buttare dalla finestra… - E chi ti ha fermato, chi ti ha fermato? - chiese lui, ansiosamente. - La paura. Ho venti anni. Ed ero in peccato mortale! E chi si uccide, è chiaro, muore in peccato mortale! - Ma perchè volevi morire, Gelsomina? - esclamò lui, obliando di chiamarla col suo soprannome, - Faccio una vita disperata, Mimì - rispose lei, chinando il capo sul petto. Tacquero, un poco. Come il senso della fatalità passava sulle loro teste, sulle loro vite, egli, infelice, tentò reagire, e rispose: - Non ti potrei salvare, io, non potrei? - Tu? - disse lei, con accento singolare. - Io, si, io! Dimmi se posso, dimmelo, purchè io non ti sappia… così… purchè io non ti vegga... in questo stato. - Tu non puoi fare niente - ella rispose, con una tetraggine cupa, - Niente. - Ma perchè? - Perchè troppo tardi. - Troppo tardi? - È troppo tardi - ella concluse, aprendo le braccia, con un gesto desolato, non volendo soggiungere altro. Pure, vi era tanta espressione di rammarico inconsolabile, di un lungo rimpianto antico, senza conforto, tanta evocazione di un passato che era stato dolce e che avrebbe potuto essere felice, che egli, ottuso, sordo e cieco, intese il rimprovero, ma senza approfondirne la essenza disperata. Girò lo sguardo intorno, vagamente, come a raccogliere le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi ricordi: ma preso dal suo dolore personale, ancora più veemente, perchè non espresso, non trovò nulla da soggiungere. Ella fece un atto lieve, di disdegno pietoso, con le labbra, innanzi a quella sordità, a quella cecità e riprese, lentamente, parlando in sogno come un tempo: - Solo Dio.. solo la Madonna.. possono fare qualche cosa, per me… - Ma tu li preghi? - Tu preghi, ancora? - chiese lui, con ansia ingenua. - Ancora: indegnamente. Ho portato dei ceri all'Addolorata di Santa Brigida.. ho fatto tanti voti... voglio andare scalza, da Napoli a Valle di Pompei... - Ebbene? - Niente - disse lei, con voce desolata, - Bisogna pregare, sempre: sperare sempre… - Tante altre, come me, tante altre poverette, hanno pregato, hanno fatto voti… e nulla hanno ottenuto... Certe non pregano più... forse così vuole, Dio, per farci fare il Purgatorio in terra ella disse, con quello accento di sogno, di lungo sogno interiore e triste. - Così vuol Dio, forse! - Amen - disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa. Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso: - E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio? - No - egli disse, trasalendo. - Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne? - Mi dispiace - rispose lui, sempre a occhi bassi. - E ad Anna, dispiace? - No. Le fa piacere, non aver figli. - Piacere? Piacere? - gridò lei, stupita. - Le può far piacere, questo ? - Già. - Non ha cuore, dunque? Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell'interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo. - Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene? Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un'altra ambascia lo soffocava: ma in quell'ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall'acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell'ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato. - Anna non ti vuol bene? - chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza. E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sè stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella , portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella , rispose questo: - No, Anna non mi vuol bene. Un silenzio tragico regnò fra loro. - E allora, allora - lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino allora, è stato inutile che tu la sposassi? - È stato inutile. - Sei certo, che non ti vuol bene? - Come della morte, ne sono certo. - Oh Dio! - disse lei, celandosi il viso tra le inani. - Essa mi ha sposato per il danaro - continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. - Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai... - Gesù, Gesù... - ripeteva lei, sommessamente. - Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola. Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo... - Che ingrata... che ingrata... - La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse ... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi ... - Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi? - Gelsomina, Gelsomina, - gridò lui, giunto al colmo del parossismo - da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato... - Non sai dove è? - Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci! Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza: - Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto! - Mai, lo avessi fatto, mai! - gridò lui, disperato. - Era meglio morire che far questo! E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti. - Almeno... - mormorò lei, lentamente - almeno... ti è fedele? - Sì - disse lui, sordamente. - Mi è fedele. - Ne sei sicuro? - Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all'amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto... - Tuo padre, Mimì? Tuo padre? - Nulla - disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. - Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, l'hai un innamorato... - Già! - disse lei, con un riso cinico. - L'hai detto tu! - L'ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto - continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime - che non ha nè arte nè parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita , che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato! - Che orrore! - esclamò lui. - Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho, dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!... - Capisco! Che orrore! - Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?. - Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui? - Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo. Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato, Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina... - E non puoi lasciarlo? - Egli mi ucciderebbe - disse lei, tetramente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ambedue, tacendo, eran ritornati dal Viale Elena, verso la Torretta: e camminavan un po' lontani l'uno dall'altro, oppressi, schiacciati, ognuno, dalla propria sventura, più angosciati, ancora, dell'incontro che avevano fatto, l'uno dell'altro, più esterrefatti, ancora, dagli sfoghi terribili che avevan fatto, ognuno, della propria miseria, senza che, malgrado la compassione, malgrado la tenerezza, l'uno potesse consolare l'altro. La gente era meno folta, perchè l'ora si avanzava: un'aria assai più fresca, soffiava, dal mare. Macchinalmente, Gelsomina si gittò sulle spalle, si strinse al collo, il suo scialletto rosso, di un rosso ardente. Un istante, restarono fermi allo sbocco della traversa, sulla Riviera di Chiaia, rimpetto all'incrocio dei trams della Torretta, che giungevano, partivano, ora, meno colmi di persone, con un tinnìo di campanelli più languido. E a un tratto, quasi involontariamente, dalle labbra della poveretta, escì un grido: - Ecco Anna. Dirimpetto ai due, ma lontana, Anna Dentale aspettava, in piedi: e malgrado la distanza, si riconosceva, al suo viso bellissimo e calmo, ai suoi grandi occhi che vagavano, placidamente, intorno, in attesa quieta di qualche cosa. Ella era vestita riccamente di nero e delle pagliuzze scintillavano, su lei, qua e là, alla luce elettrica delle grandi lampade; una mantellina ricca le stringeva le spalle e una mano guantata di bianco, ne appariva, fra i merletti, tenendo delle rose bianche, un fascetto di rose, mentre l'altra era abbandonata lungo la persona, stringendo un ventaglio. Anna non era sola. Accanto a lei stava un giovanotto alto e snello, dalla ben formata persona, vestito elegantemente di oscuro, con un cappello di paglia, sul capo: un giovanotto dal viso fresco e grazioso, sul cui pallore fine si arcuavano dei sottili baffetti biondi, brillavano gli occhi oscuri e scintillanti, la cui bocca era sfiorata da un sorriso di compiacenza e di sarcasmo. Ogni tanto, questo giovine, che si teneva accanto ad Anna, si chinava verso lei, e le diceva una parola, con un sorriso anche più espressivo, mentre ella gli levava gli occhi, in viso, gli sorrideva, tenuemente, gli rispondeva a fior di labbro. E i due, Anna Maresca e Mariano Dentale, soli, a quell'ora avanzata, a cui la serata di metà settembre, dava una poesia anche più intensa, colpiti vivamente dalla luce elettrica, sul loro lato, non vedevano chi passava loro accanto, non scorgevano chi li guardava, dall'altro lato della via. Al grido di Gelsomina, che indicava Anna, Domenico Maresca, aveva avuto un sussulto, aveva cercato, con gli occhi, dapertutto, esclamando. - Anna... dove... dove...? - Là - indicò l'altra, con un gesto breve, della mano, con un accento bizzarro. Tutto vedeva e scorgeva, adesso, il povero Domenico Maresca, stupefatto, inchiodato al suo posto da quella visione. E nell'inaspettata, mortale rivelazione che chiudeva orribilmente il suo calvario di quella giornata, in quella rivelazione che infrangeva, di un colpo solo, tutta la sua ultima sicurezza, come tutti i deboli, come tutti i fiacchi, una paralisi morale lo abbattè, una paralisi fisica gli legò i piedi, le mani, la voce. Non visti, Gelsomina e Domenico scorsero, dall'altra parte della lunga via, Anna e Mariano scambiare qualche parola, ancora, fra loro, poi avanzarsi, un poco, in linea retta, verso loro: e Gelsomina udì il pittore dei santi, spaventato, dire con voce sorda, come se morisse. - Oh Dio... oh Dio! Ma, fra i quattro personaggi, un trams che veniva da Posillipo si fermò, s'interpose. Nell'istante della fermata, dall'altro lato, Anna e Mariano, leggermente, disinvoltamente, vi salirono, si sedettero, uno accanto all'altro, tranquilli e sorridenti, con l'aria soddisfatta di chi completa bene la propria giornata. E, avanti a Gelsomina e a Domenico, il tram filò, nettamente, fuggendo, sparendo, verso l'alto della Riviera di Chiaia. Solo allora, vincendo il suo profondo stupore, Domenico Maresca, con un ruggito forte, tentò slanciarsi: - Dove vai?, dove vai? - lo trattenne, Gelsomina, afferrandolo pel braccio. - Lasciami!... lasciami!... - smaniò lui. - Sono lontani... - mormorò lei - non li raggiungi più. Erano lì... ora sono lontani. - Dove andranno? Dove vanno? - chiese lui, puerilmente, con un singhiozzo nella voce. Ella ebbe una lieve stretta di spalle, innanzi a quella domanda imbelle. - Eh! chi lo sa! A casa tua... forse... - Credi? Credi che Anna rientri a casa? - balbettò lui. - Credo. - La troverò, tu dici? - Eh! sì, sì, la troverai! - s'impazientì lei, dinanzi ad una viltà così profonda. - E se non vi è? Se non vi è? Gelsomina non rispose. Distratta, occhieggiava a diritta e a sinistra della Riviera di Chiaia, come se dovesse scorgervi qualche cosa di strano, ma di cui fosse in attesa, in agitata attesa. - Se non la trovo, Gelsomina, se non la trovo, che ne sarà, di me? - gemette l'infelicissimo. Ella non l'ascoltava più, vinta, adesso, dalla imminenza di qualche cosa che temeva e che, senz'altro, doveva accadere. E come un fanciullo debole e malato, Domenico Maresca gemette, ancora: - Gelsomina, se non la trovo, io ti vengo a cercare! Dimmi dove stai, io ti vengo a cercare, se non la trovo... - A far che? - disse lei, con una voce ove fischiava l'ironia. - A piangere con te... a piangere... Gelsomina, se non la trovo! Dimmi, dove stai? - No - disse lei, brevemente. - Ma perchè? Perchè? Neppure tu! Neppure tu! - Non posso - ella soggiunse. - E perchè, non puoi? Perchè? Se non la trovo, che ne sarà di me? - Guarda - ella disse, con un cenno. Verso loro due si avanzava un uomo, un giovane. Portava un vestito grigio chiaro, attillatissimo, un cappelletto nero sull'orecchio, le mani in tasca, un bastoncino che usciva da una delle tasche: le sue scarpe scricchiolavano: e tutta la sua persona di una volgare beltà, aveva un'andatura provocante, la sua faccia bella e triviale, un'aria provocante. Di lontano, scorse Gelsomina che parlava con Domenico, si fermò. Egli attese, così, un minuto. Poi un fischio leggiero e lungo gli escì dalle labbra. - Eccomi - disse, come fra sè, Fraolella . - Qui sta il cane. E senza voltarsi, senza guardare, soggiunse, al pittore dei santi: - Addio, Domenico. Il pittore dei santi la vide allontanarsi, rapidamente, fermarsi col giovanotto, parlargli, a lungo. Costui, silenzioso, con un mozzicone spento all'angolo della bocca, l'ascoltava, con le sovracciglia aggrottate, l'occhio torbido. Precipitosamente, con grandi gesti, Fraolella continuava a dare spiegazioni, mentre l'altro, sempre più arcigno, crollava il capo. E si allontanarono, ambedue, nella notte: l'uomo, innanzi, col suo passo elastico, con lo scricchiolìo dei suoi stivalini, con il suo aspetto spavaldo: la donna, più indietro, con passo stanco, con le spalle curve, a capo chino, come un povero cane. Sdraiata in una poltroncina del suo salotto, Anna leggeva un libro, quietamente. Aveva indossata una vestaglia bianca, le sue belle mani escivano dalle maniche larghe. Quando Domenico rientrò in casa, era mezzanotte. E, stravolto, si fermò sulla soglia; un profondo sospiro gli sollevò il petto. Ella appena levò gli occhi, dalla lettura: - Sei qui, Anna, sei qui! - balbettò lui. - Dove dovrei essere? - chiese ella, freddamente. - Ti aspetto da tre quarti d'ora. È tardi. - Ero venuto... ero venuto, a cercarti... - Ti avevo detto di non farlo - replicò lei, con un lieve aggrottamento di sopracciglia. - Io ti ho cercata... laggiù... tutta la serata. - Hai fatto male - ella concluse, rimettendosi a leggere, senza dargli più retta. E Domenico, a un tratto, esplose la sua angoscia, tutta la sua angoscia: - Ti ho incontrata, Anna, ti ho vista! Non eri sola! Ho visto con chi eri! - Ebbene? - chiese lei, glacialmente, posando il libro sulle ginocchia. - Eri con Mariano Dentale, con Mariano! - E poi? - chiese, ancora, Anna, fissando suo marito negli occhi, con tale una collera gelida che egli allibì. - Con Mariano... con Mariano... - gridò Domenico, pianse Domenico, torcendosi le mani. Anna si alzò, chiuse il libro, lo posò sul tavolo, si avviò verso la stanza da letto, piena di un'ira muta, superbissima di sdegno taciturno. - Con Mariano... con Mariano, Anna! - piangeva lui, nella idea fissa. - Se dici un'altra parola, Domenico, - pronunciò lei, nettamente, dalla soglia - prendo il cappello e me ne vado. Ed egli tacque.