Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Per la difesa nazionale. Un Comizio a Roveré della Luna

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

[De Gasperi] Accennò al comizio che contemporaneamente si teneva a Bolzano contro la tassa sul vino. In tale comizio italiani e tedeschi si mettono d’accordo. Lo stesso è accaduto nell’ultima sessione dietale, nella quale italiani e tedeschi si misero d’accordo per votate leggi che promuovono il progresso delle due popolazioni. Gli italiani cercano dunque l’accordo coi tedeschi, e nemmeno il comizio d’oggi si rivolge contro i tedeschi ma piuttosto contro certi aizzatori che non rappresentano affatto il pensiero ed il volere della maggioranza dei tedeschi. L’oratore descrive qui rapidissimamente la miseria delle lotte nazionali austriache, le quali intralciano l’attività parlamentare ed ostacolano i progressi economici e si ferma in particolare sui conflitti di razza in Boemia. Conclude che le cagioni prossime dei conflitti sono due: il continuo spostamento dei confini nazionali e l’agitazione portata dalla Germania dai pangermanisti d’accordo con la «Lega Evangelica». Quando una nazione penetra ed invade la casa degli altri, allora nasce un conflitto insanabile che si riflette sulla situazione politica, specialmente se si aggiunge l’agitazione artificiale degli aizzatori. L’Imperatore ripetutamente, ed anche nel suo discorso del Trono, fece appello al buon volere di tutti perché si rispettassero vicendevolmente i propri diritti e si ristabilisse la pace. Non coloro che gridano ogni cinque minuti viva l'Imperatore, per coonestare la prepotenza, hanno diritto di dirsi patrioti ed accusare noi d’irredentismo. Ma per l’Imperatore lavorano invece coloro che ne seguono le intenzioni, combattono i soverchiatori ed i nemici della giustizia e della pace nazionale. Codesti Meyer e Rohmeder vogliono fare anche della nostra provincia una Babele nazionale com’è la Boemia, vogliono entrare in casa nostra per portarci la guerra. Se il Governo assiste impassibile a tali agitazioni ne pagherà più tardi il fio, quando si troverà di fronte alla questione del Volksbund, assurta a questione politica di primo ordine, la quale distruggerà la breve tregua conchiusa fra le nazioni per l’amministrazione della provincia. Passando al caso specifico di Roverè della Luna, descrive, fra l’ilarità generale, che cosa può diventare un disgraziato bambino del paese che frequentasse l’asilo tedesco, la scuola italiana, forse ancora qualche classe tedesca, poi la famiglia e la chiesa italiana. Dimostra del resto l’impossibilità che i ragazzi imparino il tedesco in tal modo e legge in proposito la testimonianza delle Stimmen in cui si dice chiaro che il Volksbund butta via i denari. Ma agli aizzatori poco importa il vero interesse del paese: essi vogliono la guerra fino allo sterminio degli italiani, come hanno fatto dire al Tait nella serata di Innsbruck. A questo punto ripassa il corteo con la bandiera. L’oratore fa notare all’assemblea che a forza di gridare sono cresciuti da sei a cinque! Costoro, dice, fanno come si legge di san Pietro nel Passio odierno: egli negò ostinatamente d’esser discepolo di Cristo, finché un presente gli osservò che bastava sentirlo parlare per capire dal linguaggio ch’era galileo. Ma Pietro negava senza tregua ancora. Così fanno coloro che urlano in italiano di non essere italiani. Speriamo che il Signore rivolga loro un’occhiata di misericordia. L’oratore descrive ancora come sia organizzato il Volksbund, come gli ispiratori vi sorprendano la fede dei buoni, usando dei denari raccolti a corrompere la nostra gente ed a fabbricare nei nostri paesi palazzotti di prevaricatori e prepotenti. Cita giornali tedeschi che hanno messo in dubbio il patriottismo austriaco dei germanizzatori e finisce con una calda perorazione invitando ad opporsi alla germanizzazione in nome della pace e del progresso, in nome dei sentimenti religiosi (ricorda qui il caso di Sant’Egidio nella Carinzia), forti d’aver dato a Cesare quel che è di Cesare ed in nome dei più sacri diritti della natura. Rammenta che la furia nazionale, una volta discatenata, non risparmia nemmeno i luoghi più sacri, come avvenne a Dux, dove s’impegnò una feroce lotta tra slavi e tedeschi, per le scritte funebri, persino sulle tombe dei propri morti. Anche dal vostro cimitero, dai tumuli dei vostri cari parte oggi una parola ammonitrice. Chiude invitando ad esprimere il consenso generale alle idee da lui propugnate col gridare: Viva Roverè nazionale nella pace e nella concordia. Un’evviva generale si sprigionò da tutti i petti.

Il discorso dell'on. Degasperi a Milano

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

L’oratore accenna in argomento alle note direttive del partito e ricorda come sotto il ministero Bonomi in una seduta della Camera l’insistenza colla quale i popolari richiedevano che, a proposito del progetto di riforma burocratica, il ministero elaborasse anche delle proposte per il decentramento istituzionale degli enti locali incontrasse il disinteresse o la diffidenza anche dei partiti di maggioranza. Non c’è bisogno di dire come le direttive di governo si siano svolte poi in un senso antitetico. La riforma amministrativa Acerbo reca un decentramento amministrativo entro gli organi dello Stato ma nega ogni maggiore autonomia alle provincie e non conosce le regioni. Avviene così nelle nuove provincie che, mentre col nuovo ordinamento si va approssimandosi all’organizzazione statale propria allo Stato austriaco (sotto—prefetture eguali a capitanati distrettuali), vi si demoliscono quelle autonomie locali che di tale organismo burocratico erano l’indispensabile contrappeso, fornito dalle forze elettive. L'oratore accenna ancora all’insuccesso ottenuto nella lotta per la rappresentanza proporzionale e finisce: «A giudicare dagli effetti immediati noi dovremmo concludere come quell’imperatore romano che, accorso dall’estremo lembo dell’Asia, per difendere l’ultima frontiera della Gran Bretagna, essendovi sorpreso dalla morte, diceva sconsolato al suo centurione: Omnia fuit; nihil expedit».

Concentrazione per il partito o per l'amministrazione cittadina? La rappresentanza proporzionale degli interessi - appello al buon senso

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Alcide de Gasperi 5 occorrenze

Gentili sia sovraoccupato in altri incarichi ben più importanti, affidati a lui dal partito e dagli elettori, e che del resto la sua volontà in riguardo sia così decisa, da non permetterci di presentare questa volta la sua candidatura per il terzo corpo. La faremmo con entusiasmo per dimostrare anche a L’Alto Adige che dopo l’attività spiegata dal dr. Gentfli alla Dieta e al Parlamento, dopo che a lui in buona parte si deve se il prestigio nazionale degli italiani specialmente ad Innsbruck si è risollevato, vorremmo vedere se a Trento non si trovasse una grande maggioranza che desse ragione a quest’uomo, il quale già in quel tempo aveva tanto lavorato per la vita pubblica! (fortissimi applausi e acclamazioni al d.r Gentili).

Osservate che lungo giro vizioso hanno compiuto i liberali di Rovereto: sono andati a cercare i liberali di Mori, di Arco e di Riva e poi giù fino ai confini, ad Ala. Così si è salvato questo collegio per il partito liberale. Si è poi circondato di un muro ideale anche Trento e dissero: A Trento diamo un mandato, quantunque a Trento, badate, secondo l’ultimo censimento, vi fossero la metà abitanti di quelli che formavano un collegio di campagna, cosicché si può dire che per far riuscire un candidato agli anticlericali di Trento, hanno dovuto prendere un cittadino e farlo pesare sulla bilancia più che il doppio di due candidati di Pergine o Vezzano! Con tali metodi artificiosi hanno salvato agli anticlericali la rappresentanza e create delle eccezioni al principio maggioritario. Orbene, noi non pretendiamo che a Trento ci facciate valere per due liberali, ma vogliamo che diate in proporzione, secondo quello che pesiamo. Non parliamo poi della Dieta! Alla Dieta i nostri avversari godono privilegi! A Trento, per esempio con circa 500 voti eleggono due deputati. Abbiamo insomma tutto il diritto di chiedere: Non dateci i privilegi che avete voi, ma domandiamo giustizia non per noi soli, ma per tutti i partiti e tutti gli interessi. (Applausi vivissimi).

A questo punto il dr. Degasperi si chiede quale fosse il contegno della maggioranza di fronte all’esplicito voto del terzo corpo per la rappresentanza proporzionale e viene a discorrere dello scioglimento e della concentrazione, in quanto questa è conversione verso destra, possiamo rallegrarcene; perché è una prova che il buon senso trentino si ribella agli esperimenti di giacobinismo. D’altra parte conviene rilevare che quei moderati i quali rientrano a braccetto dei radicali in Consiglio assumono la corresponsabilità dell’amministrazione e l’eredità democratica senza beneficio dell’inventario. Bertolini nell’adunanza della Palestra ha appunto parlato di dare alla amministrazione cittadina una base più larga (e non diversa) entro il proprio partito. Esaminiamo un po’ quest’eredità. L’oratore rievoca il programma dei socialisti e dei democratici fra il 1902 ed il 1904. Innanzi alla cittadinanza si fa- ceva passare la lente delle illusioni. Ridurremo le tasse — scrisse il Popolo — e specialmente la tassa sul pane. E nel novembre 1902, quando si ebbe in Consiglio il' voto per la Centrale sul Sarca, Il Popolo stampò un ditirambo sull’avvenire e sul progresso di Trento.

A chi ci troveremo di fronte? Dove passeremo all’offesa o su qual lato dovremo difenderci? Forse cogli ultimi avanzi della Lega democratica, oppure con coloro che li attaccarono, coi loro critici ed avversari che ora, dopo averli combattuti aspramente, siedono accanto o marciano a braccetto contro di noi? Ce la prenderemo forse col dr. Bertolini, capo di quella Lega democratica che secondo la frase dell’Alto Adige, non molti anni fa fece prender cappello alla moderateria trentina, oppure al conte Manci, rappresentante della stessa moderateria, che, andatosene allora, ritorna oggi e fa la concentrazione contro di noi? Ce la prenderemo forse coi radico-socialisti, coi socialistoidi come li abbiamo chiamati a suo tempo nel periodo del loro fiore, che all’inizio dell’era democratica nel 1904 s’auguravano dalle colonne del Popolo che: a Trento invece di guglie di chiese e di campanili si vedessero fumaioli e camini di fabbriche, che poi, assieme coi rossi, inaugurarono la rude campagna anticlericale, promettendo di purgare le vie di Trento dai nomi dei santi, o ce la prenderemo invece con quelli altri che allora stavano fuori e con un programma contrario si unirono coi cattolici combattendo con loro nelle elezioni del 1907? Con chi dobbiamo discutere, con chi dobbiamo lottare? L’oratore rileva altre contraddizioni di principio fra i candidati della concentrazione e continua: Forse queste persone però sono in tali contraddizioni fra loro, e su d’un campo lontano dalle discussioni che nascevano in Municipio, lontano dalla amministrazione cittadina, forse hanno un programma chiaro, stabilito, coerente con tutta la loro condotta in quanto riguarda l’amministrazione; e basterebbe?

A Trento, signori, tutti dobbiamo dipendere da questa bottega perché la luce elettrica non possiamo andare a prenderla dal Dalle Case e l’acqua bisogna comprarla lì. Noi diciamo: di questo negozio facciamo una cooperativa: a tutti coloro che vanno e devono comperare bisogna dare la propria quota, e questa è la scheda elettorale, la quale serve ad eleggere il Consiglio di amministrazione, che stabilisce la tariffa della luce, dell’acqua, del gas. Non solo tutti devono poter amministrare o influire sulla amministrazione del Comune, ma anche tutti in proporzione secondo gli interessi e in ciò sta la questione della rappresentanza proporzionale. Finora ha governato la minoranza non solo perché il voto era restrittivo, ma anche perché domina il principio che uno più la metà degli elettori mandassero in Comune tutti i consiglieri. Cioè secondo il principio di maggioranza un consigliere veniva eletto quando riceveva un voto più della metà dei voti, e un altro non veniva eletto se ne aveva uno meno della metà. Per questo un partito vinceva per pochi voti, l’altro per pochi voti era battuto. Tale principio si potrà discutere quando si trattasse di soli indirizzi politici, ma quando si tratta degli interessi nostri, non deve valere. Non è una maggioranza di partito, che ci occorre, ma una proporzionale rappresentanza degli interessati.

Il dovere dei popolari nell'ora presente

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

In verità chi sta a Roma e non sente la voce della provincia ed è portato a giudicare dell’attuale governo sulla scorta delle decisioni del Consiglio dei ministri è tentato di accusarci di esagerazione; ma non lo farete certo voi, esclama l‘oratore — che pure appartenete ad una «provincia tranquilla». Anche le «provincie tranquille», quelle cioè funestate da un numero minore di conflitti offrono questo quadro: leggi impudentemente e impunemente violate, crimini non perseguiti dalla giustizia, contadini ed operai che devo— no abbandonare la terra dei loro padri per farsi emigrati politici, impiegati costretti a tutte le abdicazioni per non perdere un tozzo di pane, lavoratori privati di ogni libertà di associazione e sottoposti al monopolio sindacale più imperativo, cittadini illegalmente spogliati dei loro diritti amministrativi, spesso abusi di funzionari e talvolta corruzione di capi. Ma che cosa è tutto questo al paragone di quanto avviene nelle provincie più agitate? E c’è chi suppone che un partito il quale ha quotidianamente sotto gli occhi un simile panorama e sente giungere a lui innumeri voci di angoscia, di sdegno, di protesta, possa attenuare la sua opposizione, inaugurata quando un orrendo delitto politico non aveva ancora proteso sul regime la sua tragica ombra ed i fiancheggiatori non avevano ancora proclamato fallito il loro esperimento? Se noi, — dice l’oratore —, dopo averla spiegata, lasciassimo cadere la bandiera di combattimento, altra schiera più ardimentosa verrebbe a risollevarla; tanto insostenibile ormai, tanto insopportabile appare il presente stato di cose.

Un discorso dell'on. Degasperi. I caratteri e l'azione del Partito popolare nell'attuale situazione politica

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Degasperi dice a questo punto di non ignorare i rischi di questa lotta, alla quale i popolari non possono che parzialmente presiedere coi loro criteri di legalità e di moderazione: doversi quindi tener conto dei suggerimenti della prudenza. Ma qui d’altro canto conviene ricordare una grande parola di Montalembert: «Pour moi, ma conviction est que le plus grand des maux dans une société politique, c’est la peur...». L’adagiarsi spiritualmente e materialmente nel presente stato di cose equivale a divenirne complici. Un partito che rinunzia alla sua funzione politica è condannato alla morte. E bisogna considerare gli effetti della nostra azione su tutti i fronti. L’oratore ricorda quanto scrisse un autorevole giornale della destra socialista, tre giorni fa («Lavoro» di Genova, 31 marzo) in polemica con un giornalista cattolico che voi avete riferito l’altro ieri: «Noi non dobbiamo né possiamo commisurare la nostra attività su quella di organismi sociali non politici. Il partito ha una sfera d’azione particolare e dei doveri speciali. Sarebbe assurdo esigere da uomini che presiedono all’industria, all’economia, alla scuola o al culto quell’attivismo che è invece per il partito un inesorabile dovere civile». Recentemente un giornale fascista, non sappiamo se nei suoi termini esatti, riferiva un giudizio d’un alto prelato dell’America Latina sul partito popolare. Il giudizio non era lusinghiero e sovratutto non corrispondeva ad equità. Nessuna meraviglia in fondo, perché chi sa quali spropositi toccherebbe di dire a noi, se ci mettessimo a parlare del Brasile. Ma l’errore sta nel metodo, e per questo ne facciamo cenno. Che cosa si direbbe se, giudicando con [simili] criteri dell’atteggiamento degli uomini di Chiesa, ci mettessimo a classificarli l’uno come cardinal Federigo, l’altro come don Abbondio, il terzo come fra Cristoforo alla stregua dei loro atteggiamento in confronto di… don Rodrigo? Ma anche noi in fondo abbiamo diritto di venir giudicati come partito politico, in ordine alle nostre funzioni politiche; e il giudizio per essere equo deve considerare non il nostro atteggiamento di fronte ad un dato progetto governativo, ma la nostra posizione contro tutto un sistema e per tutto un programma. L’oratore ha finito eccitando a rimanere fedeli al programma del partito popolare, che è partito d’ordine, di legalità e di pacifico e democratico progresso.

La voce di Fiemme

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Lugano) anche l’intiera vallata di Cembra, la seconda, a vista d’occhio, soddisfa agli interessi non di tutti i paesi fiemmesi e tiene conto piuttosto dei passeggeri e dei forestieri che dell’esportazione dei prodotti. Queste difficoltà economiche diventano maggiori quando vengono naturalmente in nesso colla politica. Il deputato di Moena e anche deputato di Moline e Capriana; oltre a ciò per ottenere i contributi deve naturalmente cercare l’appoggio dei deputati delle altre valli o almeno riuscire ad impedire che qualche altro rappresentante di altri interessi metta il suo voto ad una data soluzione della questione tramviaria. Poichè è certo che di fronte al governo basterebbe l’energica opposizione di uno o più deputati dello stesso gruppo per offrirgli il pretesto di non far fuori un soldo. Per Fiemme poi s’aggiunge anche la questione nazionale, la quale, volere o no, sorge da sé, perché da una parte lo sbocco è in terra italiana, dall’altra in terra prevalentemente tedesca. Io non esagero il valore del capolinea. Credo anzi — dice a questo punto l’oratore — che la razza fiemmese s’imporrà al miscuglio italotedesco dei paesi dell’Alto Adige e che del resto un capolinea di confluenza, non troppo vicino ad un grande centro di attrazione non risenta molto dell’ambiente rurale che lo circonda. Quello che va assolutamente evitato nell’interesse stesso di Fiemme e del suo carattere è che la ferrovia diventi uno strumento politico-economico in mano di certi circoli bolzanini. Su questo punto capitale, dice l’oratore, spero che saranno tutti d’accordo. Se la maggioranza della valle per l’impossibile potesse pensare diversamente, egli si dimetterebbe. Il D.r Degasperi si rifà quindi alla conclusione del compromesso, il quale ha avuto lo scopo di eliminare la competizione di Trento e Bolzano, e di fissare il centro di gravità della questione in Fiemme stessa presso la Comunità generale. Le dichiarazioni del governo per il compromesso erano molto serie e, siccome in Austria di simili soluzioni se ne sono attuate parecchie in varie provincie, c’era ragione di sperar bene. Certo queste ragioni erano prevalentemente di carattere politico. Esse vennero meno quando la situazione politica si cambiò, in seguito alle ultime elezioni, in nostro sfavore. Qui l’oratore rifece la storia delle trattative viennesi e di quelle dietali notando che i fiemmesi devono essere grati alla deputazione trentina che per l’interesse della valle mantenne la solidarietà fino all’ostruzione, a costo di gravi sacrifizi per i rispettivi collegi. Il compromesso naufragò per l’agitazione svoltasi nel Tirolo in seguito al comizio di Egna dei 3 gennaio e per la posizione del nuovo governo Stürgkh, il quale rinnegando gli impegni del gabinetto Bienert sotto l’influsso della nuova maggioranza tedesco-nazionale, lasciò in asso la maggioranza italo-cristiano-sociale alla Dieta. L’agitazione della minoranza conservativa tirolese arrivò alla conclusione: prima la Venosta e le sue congiunzioni colla Svizzera, poi la Egna-Moena o Egna—Predazzo. Sulla stazione finale i tedeschi sono ancora in dubbio, ma dalle trattative viennesi e da altre dichiarazioni è risultato che per motivi finanziari vorrebbero che la linea terminasse a Predazzo. Il governo invece si limitò a non rispondere né si né no, ma una tale risposta minatoria equivalse nei suoi effetti ad una negativa. Il governo mantenne il diniego anche di fronte a proposte ridotte. Esso negò il suo contributo per il momento tanto a tutte e due le linee, come a due tronchi di esse, come ad una sola e ad un piccolo tronco per l’altra linea. Gli italiani ammisero già nel compromesso la linea Egna-Moena, e durante le trattative dietali a questa congiunzione avevano concessa la preferenza, i tedeschi dell’opposizione invece non solo non ammisero per ora la linea avisiana, ma addirittura la vollero esclusa per sempre con una prepotenza semplicemente sbalorditiva. La linea migliore è quella che soddisfa due vallate; ma, in ogni caso, nessuna delle due può arrogarsi il diritto di escludere la congiunzione dell’altra. L’oratore illustra qui la posa del borgomastro di Innsbruck che vuole imporre ai fiemmesi non solo il corso della tramvia, non solo la privazione di un’altra congiunzione, ma anche il modo di finanziarla e di amministrarla. Tutte queste trattative del resto diventarono accademiche di fronte al postulato della precedenza della Venosta e delle sue congiunzioni. Dopo quest’esposizione ch’io riassumo molto scarsamente, un giovanotto di qui tentò qualche considerazione, uscendo con certi luoghi comuni, che oramai non hanno proprio ragione di essere. Il D.r Degasperi ribattè felicemente ed invitò i presenti a dichiararsi in forma precisa sulla sua relazione e sull’attività dei deputati trentini alla dieta. Il presidente, dopo alcune parole di ringraziamento all’on. Degasperi, per le sue prestazioni personali, propose di mandare un ringraziamento ed un plauso ai rappresentanti della valle ed a tutti i deputati per l’energia dimostrata in favore di Fiemme, invitandoli a continuare ad insistere perché la tramvia arrivi fino a Moena. Messa ai voti, tutti, meno l’oppositore, alzarono la mano. Il nostro deputato ci parlò poi dell’attività parlamentare e venne infine calorosamente applaudito. Il pubblico l’avrebbe ascoltato volentieri ancora a lungo, se egli non avesse dovuto partire ancora la stessa sera per Tesero.

L'attività dei cattolici fra gli emigranti (nostra corrispondenza particolare)

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

A breve intervallo di tempo dalla conferenza sociale dello studente Susat, ecco la conferenza dello studente Ruatti già noto ai lettori del Trentino per le sue note solarine. Una conferenza storica e patriottica: Un triste anniversario. È stato — il 14 marzo — il II anniversario della esecuzione della pena capitale di quattro giudicariesi, rei di aver partecipato, come capi, alla tumultuosa distruzione del dazio di Tempesta a Riva il 19 agosto 1768. Il conferenziere, forte di storia patria, ci fece rivivere quei giorni calamitosi del nostro Trentino; fece passare un brivido nell’anima colla narrazione delle soperchierie dei conti del Tirolo e dei soldati di Maria Teresa e di Giuseppe II nei paesi che venivano tolti, coi fatti prima che coi colpi di legge, al Principe Vescovo, impotente a proteggere i nostri avi dalla ragion della forza degli usurpatori. La decapitazione del 14 marzo 1772 fu l’episodio, non unico né ultimo, saliente della repressione crudele del malcontento incomposto, se si vuole, ma giustificato di fronte alla dannosa imposizione di dazi da parte del governo. Ricollegò quei fatti così eloquenti di allora colla iniqua lotta dei pangermanisti e in generale del Volksbund in particolare, contro il Vescovo di Trento e invitò con forti parole gli ascoltanti a stringersi intorno al pastore, con la coscienza attiva di italiani e cattolici serbando fede alla religione e agli ideali dei nostri padri. Fu applauditissimo. E gli applausi raddoppiarono insistenti quando il presidente invitò a parlare l’on. Degasperi. Come si sa il d.r Degasperi parla agli operai, al nostro popolo: semplice, affettuoso, forte. Ricordò, ricordò le prime conferenze fatte da lui, iniziate da lui e dai pochi colleghi di allora agli emigrati trentini a Vienna; ricordò l’entusiasmo di allora, c’era un accento di amore nostalgico nelle sue parole. E poi parlò della vera cultura spirituale che consiste, non, o non principalmente, nel seguire e nel partecipare ai comodi materiali del progresso materiale; finché è incatenata alla materia l’anima è fredda, insoddisfatta, se la materia, cioè tutto il complesso dei progressi materiali, non vengono guardati con l’occhio dello spirito, che ha bisogni e finalità che il tempo non può soddisfare. La vita morale, la vita religiosa, sentite, vissute, armonizzate, fanno progredire l’uomo e danno un significato al lavoro quotidiano; il resto, scompagnato da quelle due vite, o da quei due palpiti di una sola vita, sono poco più che un miraggio. Lontani dal Trentino o vicini al paese che li ha educati alla religione, i nostri fratelli devono crescere, sviluppare quella prima educazione, sviluppare e alimentare le loro opere, l’amore alla chiesa del paese natale e al Trentino, che lotta per la tutela della religione e per la difesa della nazionalità. L’on. Degasperi, richiamandosi ai fatti recenti, aggiunse che l’odio anticlericale vive ancora nel nostro paese; che vi sia chi lo attizzi è prova recente la tentata propaganda dell’on. Podrecca. Io sono d’avviso che di fronte a siffatta propaganda i cattolici devono intensificare la propria. Tutto il male non viene per nuocere ed è preferibile che qualche corifeo del socialismo parli nel Trentino un Podrecca piuttosto che un propagandista all’acqua di rose. Le intemperanze anticlericali risvegliano le coscienze indifferenti e disingannano gli illusi. È da codesto cozzo oramai inevitabile delle idee e delle tendenze che i cattolici devono saper trarre una conoscenza realistica delle nostre condizioni morali e intellettuali: evitarlo oggi o riuscire a soffocarne l’urto domani è forse cullarsi in un sogno che non è più realtà. Interrotto spesso da applausi e da «bene, bravo» alla fine l’oratore fu fatto segno a una ovazione scrosciante. A una parola del presidente tutti si alzarono in piedi a segno di ringraziamento al simpatico deputato. Anche il 17 marzo fu così, un giorno di utile contatto fra studenti e operai, un altro passo in avanti verso l’unione, in una sola forza sociale, del lavoro e della scienza.

L'adunanza decisiva del Consesso della Comunità generale

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

La risoluzione che il comitato tramviario sottopone alla vostra deliberazione si compone di tre parti: nella prima si chiede la promulgazione e la concessione della linea fino a Moena, nella seconda si stabiliscono i contributi della Comunità di fronte alla proposta concreta di finanziazione del Ministero delle ferrovie, nella terza si enumerano le condizioni alle quali il comitato aderisce alla proposta organizzativa. Circa le prime due tocca a voi, essenzialmente, quali amministratori della Comunità e come rappresentanti economici della valle dare il vostro voto ed assumere la responsabilità di accettare o respingere la proposta finanziazione. La terza parte tocca la questione dal punto di vista generale in relazione cogli interessati di Trento e della valle di Cembra; e quale rappresentante politico della valle, raccomando vivamente al consesso di accettare le proposte del comitato, poiché esse non solo esprimono solidarietà a Trento ed alla valle di Cembra, che ora raggiungono solo parte del postulato comune, ma sono un impegno che nell’avvenire tutti gli interessati lavoreranno in comune per ottenere l’intiera avisiana che servirà anche ai paesi della bassa valle di Fiemme. Questa parte contiene anche le condizioni di carattere nazionale. Sono questi raccomandabili non solo dal punto di vita dell’indipendenza della valle, di cui codesta Magnifica Comunità fu sempre gelosa, ma anche dal punto di vista politico. Della proposta finanziazione dovrà infatti occuparsi a suo tempo ed al più tardi nella prossima tornata la deputazione dietale, perché si dovrà proporre il contributo della provincia. Ora è noto, anche perché allora ne ho data ampia relazione ai comuni, insieme al collega Trettel, che l’ultima proposta della deputazione dietale italiana era appunto che si finanziassero contemporaneamente da una parte la linea di San Lugano, dall’altra la Lavis-Cembra. Condizione imprescindibile però era che la linea di San Lugano si finanziasse coi contributi dello Stato, della Provincia e della Comunità, escludendo altri fattori. La Comunità, stabilendo anche per conto suo tale condizione, può quindi avere tutte le prospettive che la deputazione italiana voti il contributo della Provincia. Signori! Il momento è grave per la valle di Fiemme. Vi trovate per la prima volta di fronte a una proposta concreta del Ministero per cominciare la soluzione del vostro complicato problema ferroviario. Voi dovete decidere dal punto di vista della Comunità se volete nella misura e nel modo domandatovi. Decidete in modo affermativo, allora vi raccomando di accogliere anche le condizioni proposte dal vostro Comitato. Qualunque sia la deliberazione del consesso, io mi riservo di spiegare a tempo opportuno queste trattative ed il mio contegno dinanzi ai miei elettori di fronte ai quali sono responsabile. In ogni caso però dichiaro fin d’ora che se il consesso deliberasse di trattare coi circoli di Bolzano o di associarsi ad essi, combatterei a spada tratta tale deliberato, preferendo anche rinunziare alla rappresentanza politica di Fiemme, piuttosto che mostrarmi connivente al suo tradimento.

I risultati del congresso

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Degasperi che nel comizio di domenica mattina ebbe il compito di ricapitolare in forma comprensibile a tutti i lavori e le conclusioni del congresso. Quindici giorni fa, disse il Degasperi, le persone che dovevano preparare il congresso erano così assorbite da altre attività, così stanche in una sovroccupazione la quale durava da mesi, che si fu a un pelo dal rimandare il congresso ad un altr’anno. L’enorme concorso odierno, l’entusiasmo col quale si rispose all’appello, ci dicono però che il congresso era invocato dal popolo e che rimandarlo sarebbe stato un errore gravissimo. L’accorrere in folla incominciò già per la seduta inaugurale, in cui il nostro P. Vescovo lesse l’autografo di Pio X. Quale ovazione raccolse, quale scoppio d’entusiasmo. Qualche avversario e qualche malevolo avevano insinuato che al nostro lavoro mancasse l’approvazione del Pontefice. Ora è venuta una smentita solenne (Grida di viva il Papa!). Eloquentissima fu anche l’accoglienza che il congresso fece al nostro P. Vescovo, e se c’è qualcuno che si lagna di non trovare la stessa corrispondenza, venga qui tra noi ed impari che l’amore del popolo si guadagna non con sfoggio di potenza, ma predicando la verità e difendendo la giustizia (grandi applausi). Pari all’entusiasmo fu l’impegno, la serietà dimostrata nelle discussioni. Gli amici di Verona avevano ragione di notare nei popolari intervenuti una particolare maturità per la discussione anche di oggetti tecnici e relativamente difficili. Non era lavoro semplice il ripassare le ruote di quello che Mons. Inama definì l’orologeria del movimento, raggiustare gli ingranaggi, rinnovare le molle, rinsaldare i perni. Si comunicò col perno principale, cioè il comitato diocesano. Venne stabilito nessun centralismo, ampia autonomia all’azione locale ma rigida disciplina di tutte le associazioni sotto la direzione del Comitato diocesano per quanto riguarda le supreme ragioni di principio e di unità e salva la competenza delle altre società centrali. Si affermò anche come norma imprescindibile che il Comitato diocesano debba servire quale supremo tribunale arbitrale in caso di differenze d’ordine sociale e morale fra le società centrali. A questo compito non facile speriamo di soddisfare sotto la guida di quel luminare dell’azione cattolica che è il Dr Gentili (ovazione). Il Comitato diocesano nella prossima seduta generale voterà un nuovo regolamento, stabilirà i fiduciari in ogni distretto decanale. Il congresso ha fatto un dovere a tutti di sostenere ed appoggiare quest’azione riorganizzatrice. Il relatore sull’azione locale ha però anche proposto ed il congresso ha votato doversi fondare in ogni più piccolo luogo almeno una società di cultura, almeno un circolo. Per un circolo bastano tre persone di buona volontà. Non ci sono quindi scuse ragionevoli per non farlo. Nel prossimo congresso — in 5 anni segneremo sul libro nero quei paesi dove non si sono raccolte per l’azione cattolica nemmeno tre persone (applausi). Se l’organizzazione di cultura rappresenta la rete fine e delicata dei nervi, l’organizzazione cooperativa costituisce l’ossatura del nostro corpo sociale. Il congresso ha stabilito diversi presidi per il buon andamento delle associazioni di credito. Inoltre il nostro presidente federale ha detto che le casse rurali sono ancora troppo poche. Ne mancano ancora 100. In 5 anni le 100 casse — se pur non mancano le necessarie premesse — debbono essere costruite. Ma — ha aggiunto il relatore — è necessario grande rigore nell’assunzione dei soci. Base imperitura dev’essere la religiosità e moralità. Il congresso ha confermato solennemente la necessità che le nostre istituzioni s’ispirino ai principi sociali cristiani. Guai a chi manca a tale dovere (applausi). Il congresso ha poi raccomandato di appoggiare la Banca Cattolica, di rafforzarla sottoscrivendo nuove azioni. Se saremo uniti, anche sul terreno economico, non ci sarà arte o malignità che valga a scuotere la nostra compagine. Nella cooperazione di consumo il relatore D.r Lanzerotti ha fatto appello ad un maggior senso di solidarietà per il Sindacato e un maggior rigore nella scelta dei soci. «Meglio pochi, ma situazione chiara!» ha esclamato accennando a qualche famiglia cooperativa, ed il congresso ha applaudito. Siamo fedeli alle nostre istituzioni e riconoscenti a coloro che specie sul principio hanno diffuso l’idea ed avviato così i congressi del popolo. Non si dice dei cattolici trentini che sono degli ingrati che dimenticano il bene ricevuto (applausi). Nella cooperazione di smercio abbiamo approvata una forma che non è nuova, ma si presenta oggidì con maggior insistenza: la lega dei contadini (cooperativa di smercio, eventualmente di produzione agricola). Si è però raccomandato di procedere con prudenza sia in linea economica che morale. Si è stabilito che nel fondare associazioni nuove si debba tener conto delle esistenti, di farle aderire tutte al Comitato diocesano e soprattutto di assicurare e coltivare con opportuni provvedimenti il carattere cristiano e lo scopo di educazione. Associazioni nuove evitino vecchi errori: nessuna società economica sia fatta in modo che si esaurisca — per statuto o per la pratica — nell’affare e nella speculazione. In altro dibattito ci siamo occupati dell’organizzazione professionale. Nel campo degli operai industriali urge riguadagnare il terreno perduto. È un terreno difficilissimo, della cui asperità non hanno idea coloro che stanno in mezzo ai contadini. Ben lo sanno gli amici di Merano, qui presenti, i quali difendono la loro bandiera con strenua costanza tenendola alta in mezzo al turbine socialista. Lode a voi, milites confinarii della democrazia cristiana trentina, noi riconosciamo le vostre fatiche e vi ammiriamo (grandi applausi. Viva i forti di Merano!). Se anche altrove il loro esempio sarà seguito, arriveremo alla sospirata unione professionale trentina. Migliaia di non organizzati ancora ci attendono. Al lavoro! Altro esempio luminoso di organizzazione professionale è quello scelto dalle alleanze di Vallagarina e del Vezzanese. È qui piantata in mezzo ad una folla la bandiera dei Lagarini colla vanga dorata. Salve, o vanga del novale cristiano! Va giù fonda nel tuo simbolico campo, affinché la classe dei contadini rimanga quella su cui la Chiesa possa contare in ogni tempo. Laggiù abbiamo avuto un momento di trepidazione, ma poi i bravi si sono ridestati, hanno preso il sopravvento ed hanno trascinato col loro entusiasmo gli avversari. Qui sono amici vecchi, e accanto a loro i convertiti. (Ovazioni dell’Alleanza). Il congresso ha pensato anche ai fratelli emigranti nelle provincie vicine, dovendo purtroppo rimandare ad altra occasione la trattazione del problema transoceanico. Dobbiamo far voti che col concorso dei parroci nei luoghi d’emigrazione, del Comitato diocesano, dell’ordinariato e della benemerita Bonomelliana si riesca a creare i segretariati che il congresso desidera. Un dotto relatore ha riferito sulla necessità di un’intesa fra gli studiosi cattolici per promuovere un movimento scientifico e letterario”. I popolani hanno ascoltato volentieri anche tali discussioni perché sanno che nei gabinetti degli studiosi si elaborano, come la rivoluzione francese, tutti i grandi movimenti sociali. Generale interesse ha destato la proposta che si dia finalmente una storia dei nostri padri che valga a rafforzare le buone tradizioni del paese. Infine su due altri argomenti importantissimi venne richiamata l’attenzione dei congressisti: l’organizzazione e la stampa. Per la prima più che un piano concreto dovremo limitarci a dare le grandi linee, per il secondo argomento abbiamo ancora negli orecchi il grido d’allarme del D.r Grandi, che con grande eloquenza ha spronato al lavoro. La riconoscenza espressa ai giornalisti fa Onore alla modernità dei cattolici trentini (applausi). Un fatto va notato come caratteristico per tutte le discussioni. Non una parola né un cenno che avesse potuto recare la più lontana offesa per gli avversari. I cattolici sanno la loro forza, conoscono la loro via e camminano innanzi, senza occuparsi degli avversari. Eppure ve n’ha fra essi di accanitissimi e provocanti. In occasione del congresso stesso un giornale ci schernisce quotidianamente, ed ebbe a scrivere che i cattolici migliori non compariranno qui. Ora noi gli rispondiamo che certo, perché noi ci diciamo cattolici, non vogliamo con ciò affermare d’esserlo soli o d’essere i migliori tra loro. La Chiesa c’insegna a recitare il Domine non sumus dignus ed a pregare che il Signore crei in noi un cuore puro e ci rinnovi lo spirito e lo facciamo con atto di doverosa umiltà, innanzi a Dio ed agli uomini. Ma sappiamo anche che i nostri principi sono buoni e che a preferenza di altri ci stringiamo intorno al papa e al vescovo, lavorando per il bene del popolo cristiano, certi che Cristo, il quale premia un bicchier d’acqua dato all’assetato, ci userà misericordia anche per questa nostra azione cattolica sociale che dedichiamo alle classi lavoratrici (applausi). E nient’altra pretesa abbiamo dai nostri avversari se non che rispettino questo nostro buon volere e questa nostra concezione ideale della vita (grandi applausi). L’oratore accenna a questo punto alla fraterna e sapiente collaborazione data al congresso dagli amici di Verona, Milano, Torino. I trentini sanno in quali condizioni estremamente difficili si combatte laggiù e tanto più vivo quindi è l’augurio che riesca ai loro sforzi di rifare l’Italia tutta cristiana (applausi). Dicano laggiù i nostri amici, dicano laggiù nei comizi e nei congressi che noi trentini posti quassù fra le Alpi a difendere le grandi tradizioni della civiltà cristiana e latina ed a battagliare giornalmente per le nostre stesse condizioni d’esistenza, abbiamo compreso il grande dovere impostoci dalla Provvidenza e dalla Storia e facciamo ogni sforzo per adempierlo (grandi applausi). Ed altri amici che ritornano verso il Nord dicano pure anche lassù che chi vede in noi un pugno di sciovinisti imbevuti di fanatismo di razza, mal ci conosce. Dicano esser nostro vivo desiderio che fra i cattolici dell’una e dell’altra nazione sia tregue e che nessuno cerchi il predominio sull’altro, ma che la democrazia cristiana di tutte le nazioni marci verso quel giorno in cui — sovra tutti — regni ed imperi Cristo sovrano (uragano di applausi).

Il contegno dell'on. Degasperi e dei liberali nell'ultima fase

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Alcide de Gasperi 3 occorrenze

A Cavalese il comitato tramviario formulò la nota proposta. Espressamente io dichiarai di non voler farne che la redazione. Il comitato nella sua maggioranza liberale—nazionale combinò la proposta da presentarsi al consesso. Tre giorni dopo questo venne convocato. Che cosa avvenne in questo periodo non so dire. Io me ne stetti inerte a Tesero, mentre il Battisti girava la valle, trattando perfino col capocomune di Trodena, mentre si spargevano ad arte menzogne sul mio conto, accusato di agire contro gli altri colleghi di deputazione, sicché dovetti telegrafare all’on. Gentili perché smentisse la cosa, e sovratutto si è sollevata fra i singoli comuni la questione del quartiere, cioè del peso che, virtualmente avrebbe gravato su ogni singolo comune, se avesse dato voto favorevole la Comunità. Ma l’evoluzione più rapida e più fenomenale venne compiuta dalla delegazione di Cavalese con a capo il D.r Deleonardi, il quale votò contro la sua proposta!

Frattanto io avevo ricevuto dalla Comunità una comunicazione in cui mi si avvertiva che «la popolazione fiemmese e la comunità generale vogliono quanto prima una congiunzione tramviaria né pensano a rinunziarvi sino al momento, in cui lo Stato e la Provincia appoggeranno la costruzione della linea avisiana. L’attuale Presidenza e l’attuale Comitato agiranno certo in tali sensi convinti che la protrazione della vertenza tramviaria non sia più assolutamente compatibile cogli interessi di Fiemme». Fu perciò che in Municipio, quando di quei giorni si voleva limitarsi ad affermazioni generiche proposi che si entrasse subito in trattative concrete colla comunità generale. Sorpassiamo le trattative coll’ing. Münz ch’ebbero luogo ai primi di giugno. Io lo mandai al Podestà ed a questa circostanza accenno per ricordare come anche allora ponevo mente a tutti i possibili miglioramenti della base governativa, giacché il Münz proponeva di fare nuovi studi e progetti, edificando sulla base Lavis-Cembra ed Egna-Predazzo che supponeva potessimo raggiungere. E veniamo alla conferenza dei 7 giugno in Municipio, presenti i delegati di Fiemme D.r Deleonardi, Fr. Giacomelli, podestà di Predazzo e Pettena capocomune di Moena.

Segue l’invito a sollecitare la conclusione. Accenno a questo, perché più tardi qualche membro del consesso fingerà di non saper nulla di nulla e mi accuserà d’aver mantenuto una corrispondenza segreta colla Presidenza. Intanto Trento portava il suo contributo per l’avisiana o per il compromesso e rispondeva alla Comunità di non voler provocare da sola una dichiarazione di massima del Governo, ma di voler prima accordarsi in Fiemme sui contributi della Comunità generale e poi presentarsi assieme al Ministero. Alle trattative in Cavalese non partecipai perché trattenuto a Vienna, ma il mio atteggiamento d’allora fu molto chiaro e molto logico. Ripetutamente in lettere e telegrammi lunghissimi eccitai la Comunità a votare per l’avisiana e per il compromesso, pur descrivendo il vero stato delle cose e lasciando capire che avevo ben poca speranza sul raggiungimento dell’una e di tutto l’altro. Tuttavia, l’affermazione per l’avisiana, scrissi, è un doveroso atto di solidarietà trentina, il sostenere il compromesso una buona tattica per migliorare più che fosse possibile la posizione di chi trattava col governo. Le mie lettere e i miei telegrammi giacciono nell’archivio della Comunità, ognuno può consultarli e dedurne l’onestà e la sincerità della mia condotta.

Dalla prima settimana religioso-sociale (Impressioni)

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Agostino a S. Tommaso al Victoria e al Suarez, tenne sempre l’aurea via di mezzo tra la concezione ultra conservatrice del De Maistre che, accostandosi ai moderni imperialisti e guerrafondai vedeva nella guerra un che di divino e fatale e la concezione anarchica del Tolstoi, che vedeva nel Vangelo la condanna di ogni guerra, anche la più giusta e la più santa, e che riallacciandosi, potremmo dire, ai montanisti, formulava il suo principio anarchico e nichilistico. La Chiesa certo non invoca la guerra e nelle litanie prega a peste, fame et bello libera nos domine. E i cattolici, con la moderna scuola francese, che fa capo a Vanderpol (alla quale dobbiamo ormai alcune pubblicazioni e l’idea d’una scuola superiore per lo studio del diritto internazionale dal punto di vista cristiano), tenendosi lontani così dal pacifismo esagerato (1l pacifismo per il pacifismo) come, e più, dal militarismo guerrafondaio, si propongono di penetrare del loro spirito e della loro nobilissima tradizione (che va dall’istruzione dei fratelli pacieri, alla tregua di Dio, al terz’ordine francescano, all'arbitrato dei Papi ecc.) tutto il movimento pacifista contemporaneo avviando l’umanità se non all’eliminazione totale della guerra e degli armamenti (forse utopie) alla loro limitazione progressiva a quelle guerre soltanto che possono trovare la propria giustificazione nella tutela del diritto e delle ragioni morali, applicando pure a queste guerre, nella misura più larga possibile, i principi della carità e della giustizia. Non è a dimenticarsi come i deliberati sul diritto della guerra della conferenza dell’Aia per la pace si ispirino alla dottrina cattolica quale la troviamo formulata già nell’opera dei teologi del principio dell’Evo Moderno, quali il De Victoria e il Suarez.

I comizi di Fiemme per la ferrovia. L'adunanza di Carano

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Con un’esposizione serrata e convincente dimostrò poi che la proposta, sostenuta oggi dai deputati popolari, è la conseguenza necessaria derivata dai tre fattori chiamati a decidere le sorti della ferrovia, cioè del volere e dei bisogni di Fiemme, della posizione assunta dallo stato che deve dare in maggior parte i danari e della condizione creatasi col concorso di tutta la deputazione trentina alla Dieta. Circa ilprimo fattore, ricorda l’azione del comitato tramviario di Fiemme, nel quale era rappresentato anche Cavalese, l’opera del consesso della comunità, le manifestazioni pubbliche della popolazione, le deliberazioni della Comunità e della maggioranza dei comuni ed il costituirsi in Fiemme di una grande maggioranza pro ferrovia, nella quale si sono fusi diversi paesi e diverse tendenze politiche, compresa quella del partito liberale-nazionale. Circa la posizione dello stato accenna alle trattative fatte dal dicembre 1911 per una graduale attuazione del compromesso di Bolzano, alle insistenze per l’avisiana o almeno per la Lavis-Grumes, fino alle recise dichiarazioni ministeriali per l’attuale proposta Egna-Predazzo (Moena) e Lavis-Cembra. Enumera in fine le trattative dietali e l’ultima proposta Pinalli per la Lavis-Cembra, concludendo che da questi tre fattori nessuno sforzo valse a ricavare una proposta che s’avvicinasse di più della presente all’ideale ch’era il compromesso del 1909. Accennò poi rapidamente agli improvvisi voltafaccia, sopravvenuti nell’ultima fase ed al radicalismo che dopo le fallite trattative per la Lavis-Grumes riprese vigore sfogandosi in attacchi violenti, in accuse di tradimento ed in ingiurie contro i deputati popolari. L’oratore rileva qui che, quantunque avesse potuto come tanti altri lavarsi le mani della vertenza, approfittando della confusione creata ad arte in Fiemme e salvarsi così da tutte le ire sollevatesi contro di lui, ha preferito attenersi logicamente e serenamente alla voce della sua coscienza, all’imperioso dovere di rappresentare gli interessi che gli elettori gli avevano affidato. La tattica stessa del resto dei dissenzienti e degli avversari che, malgrado le proclamazioni, si addimostrò semplicemente negativa, conferma la bontà della sua condotta. L’osservazione sempre più attenta della vita di Fiemme gli conferma sempre più che la ferrovia di Egna non porta al carattere nazionale della valle alcun pericolo, ch’essa rappresenterà anzi un progresso sulle condizioni presenti, convinzione questa condivisa anche da molti liberali nazionali della valle e fuori. Riguardo alla parte finanziaria ricorda ch’egli già nella seduta del consesso nel luglio 1912 ha dichiarato di non essere compito dei rappresentanti politici di assumere responsabilità di sorta. Il preventivo venne fatto e riveduto dai rappresentanti del ministero e ad essi spetta ogni responsabilità. Certo ch’esso sarà più attendibile di quello delle altre ferrovie trentine costruite, poiché dell’esperienze fatte in queste si è approfittato nel calcolare il costo della ferrovia di Fiemme e di Cembra. Quello che va assolutamente escluso è che la Comunità sia tenuta a contribuire al pagamento di eventuali sorpassi. Anche riguardo al contributo della Comunità ed al conguaglio dei singoli comuni per questo contributo, il deputato si è tenuto estraneo, favorendo solamente, com’era suo dovere, il piano di venire a trattative che tendevano ad un accordo fra i comuni, le quali però vennero condotte senza la sua collaborazione. Termina il suo discorso, ascoltato con grande attenzione, dichiarando che fino a tanto che i suoi elettori gli continueranno il mandato, lo eserciterà, seguendo i criteri che lo hanno inspirato fino ad oggi. A questo punto l’avv. Rizzoli domanda se, quantunque di Cavalese, possa avere la parola. L’on. Degasperi gliela concede, pregandolo però d’essere breve, perché alle 4.30 ha indetto un comizio a Moena e sono già le 3.15. L’avv. Rizzoli si rivolge ai presenti dicendo che l’oratore ha svolto i suoi criteri politico-nazionali, ma che è sorvolato su quello che più importa a noi fiemmazzi, cioè alla questione finanziaria. Il contributo domandato alla valle di Fiemme è troppo forte. Perché nella valle di Cembra i comuni pagano solo 120.000 corone su 4 milioni di spesa preventivata, mentre Fiemme deve pagare quasi 2 milioni su 9 milioni e 300.000? Vedano i deputati di far usare una misura più equa di giustizia. Riguardo ai sorpassi, il deputato se ne è lavato le mani, ma intanto la Comunità una volta ingaggiatasi con un dato percento nell’impresa ferroviaria, dovrà pagare anche i sorpassi eventuali in concorrenza e così forse il contributo dei fiemmazzi potrà arrivare a 4 o 5 milioni. Come si farà a caricarsi di tali debiti, quando il bilancio della Comunità non è punto florido? E tutti questi sacrifici si dovranno fare per alcuni osti e per il comodo dei turisti che passano attraverso la valle per recarsi agli alberghi di montagna! Calcola che cosa dovrà venire a pagare il comune di Carano, dice che Cavalese, se la cosa andrà come vuole la maggioranza dei comuni, verrà a pagare circa 330.000 cor. In quanto al conguaglio degli altri comuni è vero che Predazzo promette delle rifusioni a destra e a sinistra, ma Predazzo, che è il comune più in miseria della valle, in realtà se ne rifà aumentando le addizionali che andranno a cadere sui censiti di tutta Fiemme. L’avv. Rizzoli dichiara quindi di non poter approvare il contegno del deputato e d’invitarlo invece a studiare un’altra proposta, che sia meno gravosa per Fiemme. L’on. Degasperi risponde assai felicemente, interrotto spesso da applausi. Altamente si meraviglia che l’avv. Rizzoli chiami in confronto il piccolo contributo richiesto ai poveri comuni di Cembra. Se lo facesse un censito di Moena e pretendesse che i danari destinati alla Lavis-Cembra venissero invece dedicati alla Predazzo-Moena, nessuna meraviglia! Ma che faccia tali confronti un antesignano del partito liberale nazionale, un parteggiante per la ferrovia di Cembra, muovendo quasi un rimprovero ai deputati di avere strappato al governo 4 milioni per un tronco dell’avisiana, questo gli sembra inconcepibile. È dunque vero che certi avversari per combatterci ricorrono ad argomenti contraddittori secondo gli uditori che li ascoltano: che a Trento gli amici dell’avv. Rizzoli ci chiamino traditori perché non abbiamo saputo ottenere l’avisiana fino a Grumes, cioè un tronco dell’avisiana per 6 milioni, che in Fiemme invece ci accusano d’aver favorito Cembra con 4 milioni, a spalle dei fiammazzi. Che dire poi del concetto che mostra oggi avere l’avv. Rizzoli d’una congiunzione ferroviaria? È strano che un rappresentante della coltura e del progresso dipinga ai contadini una ferrovia, come se si trattasse precipuamente di quattro osti e dei turisti. I forestieri passano anche oggi in automobile, ma la ferrovia deve servire anzitutto ai fiammazzi, alla loro importazione ed alla loro esportazione. Ma non fu proprio il D.r Rizzoli che parlò sempre del necessario progresso d’una ferrovia, e che eccitò la comunità a votare un milione e mezzo in azioni di fondazione per la ferrovia del compromesso? Forse che allora si poteva sperare in una rendibilità! In quanto ai possibili sorpassi, non è vero che la Comunità sarà chiamata a pagarli in concorrenza. La Comunità dà alla ferrovia non un percento della spesa, ma l’importo fisso di un milione in azioni di fondazione e 800.000 di priorità. Ma com’è del resto che tutto codesto pessimismo pervadeva l’avv. Rizzoli proprio in questo caso negli archivi della Comunità stanno parecchi progetti di finanziazione ma più pericolosi, o almeno altrettanto gravosi al suo patrimonio, incominciando dal conchiuso di finanziare e costruire da soli la Molina-Moena o la S. Lugano-Moena e terminando alle proposte del 1909. La proporzione dei pesi che vengono a gravare sui singoli quartieri e sui singoli comuni è cosa che riguarda i rappresentanti amministrativi e comunali di Fiemme, non il deputato politico della valle. Se Cavalese dovrà, come dice il D.r Rizzoli pagare troppo e non in proporzione, saranno responsabili quei rappresentanti di Cavalese che non hanno voluto sapercene di trattare con gli altri comuni, e nessun altro. Come poteva il deputato al Parlamento sapere che in Fiemme sorgerebbe a proposito del contributo ferroviario la questione della ripartizione di esso fra i comuni che sono rappresentati nel consesso. Nessuno, ch’egli sappia, ne parlò mai quando si trattò di altre finanziazioni ferroviarie, né quando si votò il milione e mezzo per il compromesso e nessuno gliene scrisse fino alla votazione dell’anno scorso. La questione scoppiò dopo, come altra volta scoppiò la questione vicinale, come sempre perché si ricorra a complicare col problema della comunità la questione tramviaria. Ma è ora una volta che anche in Fiemme le questioni pubbliche si trattino con maggiore sincerità e le si affrontino a visiera alzata ed alla luce del sole. L’oratore termina fra grandi applausi, scusandosi di dover chiudere, per recarsi a Moena. Il maestro dirigente Ciresa propone alla votazione un ordine del giorno nel quale Si proclama il volere di Fiemme di avere... prima attuata la ferrovia, si plaude ai rappresentanti del consesso… comuni che hanno votato in favore, si fa appello alla deputazione, perché promuova la definizione della vertenza, si fa un caldo ringraziamento all’on. Degasperi ed ai deputati della valle e fuori che lavorarono per la ferrovia di Fiemme e si riconferma loro la più ampia fiducia. La risoluzione è votata fra segni di approvazione e la gente esce commentando vivamente. L’impressione nel paese, non avvezzo ai contraddittori, è grande e del tutto favorevole al nostro deputato.

Il congresso degli studenti cattolici a Lavis

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

C’è però una seconda schiera di giovani, più numerosa, più comune ed è quella di coloro, i quali esauriscono le loro energie giovanili in una continua verbale e verbosa reazione alle nostre condizioni politiche, che si gettano a capofitto nella politica del giorno, giudicando e sentenziando subito secondo le norme fisse di un dommatismo radicale, esaltando o crocifiggendo e classificando dal solo punto di vista d’un preconcetto fisso. Nemmeno a questa schiera, o studenti cattolici, dovete appartenere, affinché anche non v’accada poi, nella pratica della vita, quello ch’avviene spesso a quelli, di finire cioè in un opportunismo tanto più avvilente, quanto è maggiore il contrasto col verbalismo degli anni giovanili. No, il vostro compito è più grande, più faticoso, come il geologo che prepara la risurrezione della miniera. Anzi tutto studiare! Lasciate che la dica forte questa parola che da tanti convegni studenteschi fu pure bandita. Studiare! Senza una soda preparazione scientifica voi presumerete invano di fare qualche cosa di grande per voi e per il vostro paese. Il Trentino non diventerà un paese migliore, non farà un progresso notevole, fino a tanto che non avremo alcuni uomini superiori, fino che non ci saranno dei legali, dei filosofi, degli ingegneri, dei finanzieri che s’eleveranno sopra la media, di cui le tristi condizioni della nostra vita intellettuale ed un’indolenza colpevole ci hanno abituato a chiamarci soddisfatti. (Applausi) Bisogna che ciascuno di voi tenti questo sforzo, si proponga questa meta! E poi a tale vostro studio particolare aggiungetene uno più generale. Studiate il vostro paese, come studiereste una carta geologica, studiatelo nei suoi strati sociali, nella sua conformazione storica, nella sua costituzione interiore. A questo punto è giunto il momento in cui conviene mettere mano all’opera e fare quello che per la miniera compie la perforatrice. Nel fondo del nostro popolo giacciono tesori antichi di unità di fede, di santità di tradizioni, di bontà di costumi, di tenacia, di lavoro. Questi tesori conviene mettere in valore. Bisogna penetrare sotto la corteccia della manifestazione quotidiana, allontanare le sovrapposizioni accidentali e giungere ai tesori d’energia potenziale e viva che giacciono in fondo al cuore del popolo trenino. Discopertili, lavoriamoci attorno con gli strumenti della tecnica moderna, con i sussidi della scienza progredita, fino che avremo quel popolo che sta in cima ai nostri ideali, quel popolo ravvivato della sua fede, rinsaldato nella sua coscienza nazionale, socialmente riorganizzato, ritto in piedi innanzi agli irrisori ed ai potenti come noi lo abbiamo nella mente, quando auspichiamo alla democrazia cristiana trentina (grandi applausi). Io vi veggo, o giovani, - conclude l’oratore - circondati oggi da tanto assenso di popolo che nessun miglior augurio posso farvi di quello che nella vostra vita sia sempre come oggi e che, combattendo e lavorando, possiate vedere sempre la vostra opera accompagnata da tanto plauso e da così cordiale partecipazione. Ma non illudetevi, non sarà sempre così. Vi sono nella vita sociale dei momenti in cui pare - e forse non è – di essere soli. Soli in mezzo alla bufera avversaria, soli in mezzo ad incertezze affaticanti, e sembra di non aver accanto nessun braccio che sorregga, di non sentire alcuna parola che conforti e consigli. In questi momenti vi trovate soli innanzi a Dio ed alla vostra coscienza. È per questi momenti decisivi che l’associazione cattolica v’eccita a preparare fin d’oggi le vostre riserve di energia religiosa. Se per quei momenti vi sarete armati da lunga mano della fortezza di un cristiano carattere o della rettitudine d’una coscienza intemerata, allora procedete pure tranquilli per la vostra via, per quanto deserta vi possa sembrare la solitudine che vi circonda e per quanto accanita l’opposizione che vi sta innanzi. Anche a voi allora il poeta, il nostro Gazzoletti vi dice:

Ha la parola l'on. Degasperi

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Alcide de Gasperi 2 occorrenze

I deputati hanno fatto il possibile per diminuire il contributo e sono arrivati a 1 milione di azioni di fondazione e 800.000 di priorità. Di più non hanno potuto fare. Ma è ingiusto che si faccia loro un rimprovero, perché si è dovuto tener conto di Cembra. La Comunità fu in altri tempi disposta a spendere ben più. Ai 2 dicembre 1902 deliberò di assumere un prestito per costruire la Molina-Moena preventivata in Cor. 2.450.000 e chi sa quanto sarebbe costata di più! Nel ottobre 1904 si fecero a Trento proposte ancora più onerose per Fiemme, come ha ricordato il signor Valentino Morandini, nel 1905 il prof. Ossanna consigliava Fiemme ad assumere 1 milione di fondazione e 2 milioni e mezzo di priorità. Nel 1909 la Comunità votava 1½ milione in azioni di fondazione per la linea del compromesso. Ov’erano allora gli economi d’oggi? (Applausi). Un’altra frottola che si va sussurrando negli orecchi degli ingenui è questa: la linea di S. Lugano è voluta dai tedeschi e dal governo. Il governo se la farà quindi a spese sue, senza che ci mettiamo niente. Baie, nessuna ferrovia locale viene costruita senza il contributo degli enti locali. (Voce dal gruppetto: Basta, basta! Degasperi: Vi brucia che certe menzogne vengano smascherate? Applausi). Ma si dice ancora: i fiammazzi possono aspettare. Ad aspettare alcuni anni non si perde niente. Intanto verrà forse qualche cosa di meglio (Ilarità). L’aspettare non costa niente? Dite, p.e. ai nonesi, che lascino ferma la Trento-Malè per 10 anni, che tornino agli omnibus del Moggio ed ai carradori, e poi che dopo 10 anni facciano le somme. Allora si vedrà la differenza, e che cosa vuol dire aspettare per 10 anni.

Ma vi hanno provocato, hanno detto che la vostra opinione è coartata da arti subdole del mio partito, e quindi è naturale che oggi vi siate convocati qui a dire il vostro pensiero. Voi siete qui a protestare contro la contraffazione del vostro pensiero (applausi). Si è creata dagli altri anche la questione di partito, e dopo che si è cercato d’aizzarvi un paese contro l’altro, una fazione contro l’altra, ora nell’imminenza di questo comizio si è scritto che esso è convocato per rompere la concordia (ilarità). Non noi abbiamo sparso in Fiemme la zizzania, ma i nostri avversari incorsero a tutte le arti, fino alle denigrazioni personali, perché avevano paura d’affrontare la questione nei suoi veri termini. Per noi nella questione di Fiemme non ci furono né popolari né liberali, né socialisti, ma solo fiammazzi ed oggi qui sotto le libere bandiere dei vostri comuni non vedo che fiammazzi (applausi). Una volta la concordia c’era, ma chi l’ha rotta?

La questione dell'università italiana

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Incaricato dalla Presidenza dell’Associazione a fungere in questa assemblea da relatore sulla questione universitaria, mi limiterò anzitutto ad una breve cronaca di quegli avvenimenti i quali fecero sì che una questione ristretta prima ad interesse ed importanza locale, allargasse mano mano la propria cerchia, tanto da diventare tutto d’un tratto in questi ultimi tempi una questione austriaca, nel senso più largo della parola. La prima tappa era stata segnata ancora nel 1863, quando il deputato on. Consolati presentava alla Dieta di Innsbruck la proposta che all’Università di Innsbruck almeno le materie più difficili della facoltà legale e medica venissero spiegate contemporaneamente in tedesco e in italiano. In seguito a questa proposta fu istituita già all'ora una cattedra giuridica italiana, la quale cessò assai presto. Undici anni fa però parve che il governo ritirasse il disegno primitivo, e furono istituite le prime cattedre parallele della facoltà giuridica. Nel 1899 il governo fece un passo in avanti e col voto dell’intera facoltà giuridica venne stabilita l’erezione di due nuove cattedre, l’una per la procedura civile, l’altra per l’economia politica, e vennero invitati a prepararsi alla libera docenza il dr. Francesco Menestrina e il dr. Giovanni Lorenzoni. Nel primo semestre infatti del 1900 il primo di questi giovani studiosi si presentava coi suoi titoli a conquistare la cattedra di procedura civile. Ma allora incominciò l’agitazione dei tedeschi. Ai 14 marzo del medesimo anno il deputato Erler presentava alla Dieta un’interpellanza in cui chiedeva quali provvedimenti intendesse prendere il Governo di fronte all’invasione degli italiani per salvare il carattere tedesco dell’Università di Innsbruck. L’interpellanza però rimase senza risposta e il dr. Menestrina dopo aver conquistato passo passo il terreno, sembrava ormai fosse giunto alla meta. Ma gli studenti tedeschi radicali incominciavano l’agitazione, e minacciavano d’impedire con la violenza la solenne prolusione in italiano del nuovo libero docente dr. Menestrina. Contemporaneamente, nella seduta del 6 luglio 1901 della Dieta provinciale, il dr. Pajr presentava un’interpellanza diretta contro la utraquizzazione dell’Università di Innsbruck. All’interpellante si associava il dr. Mjrbach, allora Rettore dell’Università, e per gli italiani il barone Malfatti. Giacché fin d’allora e deputati e studenti italiani, mentre accettavano quel riconoscimento di fatto dei nostri diritti, l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck, protestavano però contro di essa come una mezza misura, né degna degli italiani, né sufficiente, né come i fatti ebbero di recente a dimostrare possibile fra il radicalismo nazionale dell’Università innsbrucchese. Intanto a scongiurare una lotta sul terreno accademico, la facoltà giuridica aveva deciso che la prolusione del prof. Menestrina si facesse in forma privata, il che anche avvenne. Gli studenti tedeschi radicali, per allora corbellati, andarono alle vacanze con un arrivederci a quest’autunno che voleva dire: Quod differtur, non aufertur. Gli studenti trentini poi tornarono ad Innsbruck con la certezza che la lotta sarebbe scoppiata alla prima lezione del prof. Menestrina. Tutti sanno che la previsione si avverò; ed ora siamo proprio al momento epico della lotta. Il giorno 27 ottobre, il nuovo docente privato saliva la cattedra tra gli applausi degli italiani e i fischi dei tedeschi; la lotta intorno a quella cattedra si ripeté tre volte; gli italiani, forti dell’appoggio di tutto il paese che applaudiva da lontano e da vicino; i tedeschi forti del diritto dei più: eppure, cosa strana! tutti, e chi applaudiva e chi fischiava, combattevano contro la medesima cosa; contro l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck; gli italiani, perché volevano, sulle conseguenze logiche degli avversari, conquistare un’università nazionale; i tedeschi perché volevano mantenere all’università innsbrucchese il carattere tedesco. Intanto, come contraccolpo ai fatti di Innsbruck, successero le dimostrazioni di Vienna e di Graz e le grida di: «Vogliamo l’università italiana!» echeggiarono fin sotto l’atrio del Parlamento. D’allora in poi la questione dell’università italiana diventò una questione austriaca. Un’ora dopo la dimostrazione, i giornali della capitale parlavano a lungo della questione, ne rifacevano la storia e la maggior parte simpatizzavano in certa maniera, naturalmente senza smentire i loro connazionali, per le domande degli italiani. Solo l’organo dei pantedeschi, l’Ostdeutsche Rundschau, si faceva scrivere dal teatro della lotta un articolo, in cui osservava che gli studenti tedeschi nel loro fervore giovanile avevano sbagliato tattica e che essi avevano ripetuto in tale maniera quegli atti di generosità dei tedeschi, per i quali essi aiutavano i propri avversari. Parallela all’azione universitaria, si svolgeva l’azione parlamentare. I deputati italiani, appena avuto sentore dei fatti di Innsbruck, presentavano alla camera un’interpellanza, dove chiedevano al Governo l’erezione di una completa università italiana a Trieste, ora che risultava evidentemente vano il tentativo di una mezza misura a Innsbruck. Qui intanto gli avvenimenti erano precipitati. Il senato accademico, cedendo alle violenze degli studenti tedeschi radicali, ordinava l’interruzione delle lezioni al prof. Menestrina. Questo passava ogni limite ed esasperò a ragione all’estremo gli italiani. La parola d’ordine degli studenti era: ad Innsbruck! e chi poté, lasciò Vienna e Graz e compari sul teatro della lotta. Eravamo al giorno 7 novembre, e tutti aspettavano con ansia la rispo- sta del ministro Hartel. Il prof. Pacchioni telegrafava da Vienna di sperare bene. Al Parlamento, sulle gallerie, gli studenti italiani pendevano dalle labbra del ministro: ad Innsbruck si aspettava al telegrafo. E la risposta venne: tutti lo sanno: fu la risposta di un ministro che non vuole dire chiaramente né si né no. L’Hartel diceva pressapoco: finora il Governo credette bene di venire incontro ai desideri degli italiani con le cattedre parallele ad Innsbruck; se la cosa, per le lotte nazionali, non sarà possibile, come pare, il Governo dovrà pensare a provvedere altrimenti a che gli italiani possano godersi un’istruzione superiore. I deputati ed in genere gli studenti in Vienna videro in queste ultime parole una promessa abbastanza chiara per l’Università a Trieste. A Innsbruck, invece nel grande comizio del 7 novembre in cui erano rappresentati tutti gli studenti, vari municipi e la stampa, gli studenti votarono un ordine del giorno radicale su tutta la linea. Io non voglio qui decidere, se esso fosse giustificato o ingiustificato, opportuno o meno opportuno: su tale cosa deciderà il futuro e questo futuro speriamo non sia ancora giunto. Certo è che la stampa tedesca e slava interpretò la risposta in genere più favorevolmente che noi: tanto è vero che la parola d’ordine per tutte le nazioni non equiparate fu questa: se ricevono l’università gli italiani, perché non ce ne danno una anche a noi? E d’improvviso ci trovammo a lato nuovi e più forti competitori — gli sloveni, i croati, i ruteni, gli czechi, i tedeschi: la questione era precipitata al plurale. La stampa tedesca ne approfittò per trarre la cosa in ridicolo, e si parlò d’università ladina e d’una per gli zingari. In seguito a questo ed alle condizioni di moribondo in cui si trovava il Parlamento, qui non fece passi in avanti la nostra causa, benché i nostri deputati non perdessero alcuna occasione sia nel plenum della Camera, sia nelle commissioni o per via di interpellanza. Ad Innsbruck successe una sommossa verso destra. Gli studenti tedeschi radicali capirono che le loro violenze facevano il nostro comodo ed ubbidendo alla Ostdeutsche Rundschau, riprovarono per vile interesse il passato e promisero di essere per l’avvenire gli uomini dell’ordine. Altrettanto chiedeva il Rettore agli italiani, ma questi non s’impegnarono. L’università venne tuttavia riaperta e le lezioni del prof. Menestrina ripigliarono il loro corso tranquillamente, però tra le dichiarazioni dei giornali tedeschi che dicevano: l’ultima concessione che vi facciamo. E la questione rimase insoluta. È chiaro che ora essa si trova in un periodo di tregua, non concessa da noi ma portata dalla necessità delle cose: quando ne uscirà? non è facile il dirlo: probabilmente la lotta scoppierà di nuovo quando si inaugurerà la seconda delle due cattedre stabilite, quella del dr. Lorenzoni. Questo è certo, che il Governo si troverà sempre più stretto nel dilemma o di mantenere e completare le cattedre parallele in Innsbruck e scontentare tanto italiani che tedeschi, o di concederci un’università propria su terra italiana, accontentarci almeno noi. Il Governo avrebbe pure escogitata una via di mezzo, quella cioè di completare le cattedre in Innsbruck, poi dichiararle indipendenti, istituendo un’accademia per sé e gli italiani in Innsbruck. Ma questo progetto, oltreché con ogni probabilità non incontrerebbe le simpatie dei tedeschi, non potrebbe essere accettato dagli italiani. Che cosa vorrebbe dire un’accademia italiana o una semi—universita‘ incompleta in terra tedesca, come vi si adatterebbe la nostra dignità e quella dei docenti? Del resto noi non avremmo conquistato che una scuola professionale mai un centro di cultura nazionale. Poiché, o signori, quale è la ragione prima della nostra domanda? Certo vi hanno parte anche motivi professionali: che il medico, il professore, l’avvocato possano studiare in quella lingua nella quale insegnano e non debba accadere, come avviene a taluno, di rifare poi per la pratica i suoi studi in italiano. Ma non è questa, o signori, la ragione principale. Noi vogliamo università italiana su suolo italiano per stabilirvi la nostra palestra di cultura e i nostri laboratori della scienza, ove agli studenti italiani austriaci sia possibile di coltivarsi anche oltre quello che tende l’esaminatore, ove la gioventù prenda amore alla scienza alle lettere, sì da crescere degna della nostra grande cultura nazionale! Le università, o signori, sono state sempre non solo i laboratori del pensiero scientifico, ma anche le fucine ove si idearono e produssero i grandi rivolgimenti intellettuali dei popoli. Ebbene, o signori, noi vogliamo un’università italiana la quale ci metta in grado di gareggiare con le altre nazioni dell’Austria, noi vogliamo un’università ove si formi una generazione che trovi il vanto non nello sprezzare i tedeschi e la loro cultura, richiamandosi ai nostri grandi Padri, ma nel far sempre meglio dei tedeschi nel superare la loro cultura, vogliamo in poche parole una università italiana la quale sviluppi il nazionalismo positivo dei doveri e non solo dei diritti, in maniera che si possa dire agli italiani in Austria non che gli italiani sono semplicemente gli avversari nazionali degli slavi o dei tedeschi, ma che sono un popolo, che è più colto e più sviluppato degli slavi e dei tedeschi. E questa nostra domanda, o signori, ci è garantita dalla costituzione nel paragrafo 19 delle leggi fondamentali. La legge c’è, ma chi vi pon mano? I tedeschi ci sogliono rinfacciare difficoltà pratiche, mancanza di professori e di studenti. Il corpo docente italiano di Innsbruck, con la sua risposta al prof. Waldner, pubblicata dai giornali, si dispensa dal confutare questo poco solido argomento. Ma se anche la nostra debolezza esistesse di fatto, non si entrerebbe nel circolo vizioso di non concederci la cultura, perché non abbiamo la cultura? Una debolezza vera fu forse che per il passato non abbiamo affermato abbastanza forte questo diritto, e a questo c’è ancora tempo di rimediare; marchiamo forte il nostro diritto di un’università italiana. E poiché per ora le circostanze pratiche e la voce comune indicano Trieste come sede dell’Università, affrontiamo tutti la ritrosia del Governo e la pervicacia dei tedeschi radicali con un grido unanime: Viva l’università italiana di Trieste! Ancora una dichiarazione che riguarda specialmente noi, studenti delle Associazioni cattoliche. Lo studente socialista Ferdinando Pasini, fungendo da relatore dell’ottavo congresso della Società degli studenti trentini, finiva la sua relazione con le precise parole che non posso fare a meno di leggere: «Tutta quanta la mia relazione è stata fatta col tacito presupposto, che la nostra campagna sia diretta ad ottenere un vero istituto superiore di studi aperto a tutti i soffi della scienza moderna, senza menoma restrizione allo spirito della libera ricerca e del libero pensiero, non quale anche la loro solita intransigenza ed intolleranza, i clericali già cominciano a pretendere. Gli studenti di quel partito, nel loro congresso del 18 settembre a.c. a Mezzocorona, vollero occuparsi, quest’anno, anche della questione universitaria, ma in seduta segreta, dove, secondo le scarse e riservate notizie della Voce Cattolica si discusse vivamente e a lungo sulla questione, e si decise di invitare i deputati e in modo speciale quelli di parte clericale a occuparsi energicamente della università italiana, provvedendo al sentito bisogno degli studenti accademici italiani. Di occuparsi in che modo ai deputati di parte clericale non è qui veramente detto, e noi ne resteremmo ancora all’oscuro, se non sapessimo fin dal giugno scorso, che nella festa universitaria della fondazione della Società Cattolica in Innsbruck, tra i discorsi e i brindisi delle persone importanti intervenute, ce n’è stato anche uno, e precisamente un deputato “in nero ammanto” che credette bene di augurare alla futura università cattolica italiana! E questo, mi diceva in confidenza uno di quei giovani véliti del clericalismo, questo è il programma e il voto di noi studenti cattolici: vogliamo proprio una università di carattere confessionale, sul tipo di quella che si sta piantando ora in Salisburgo. Non ne abbiamo ancora proclamata e iniziata pubblicamente la lotta, ma, a dire la verità, se due anni fa al congresso di Pergine abbiamo espresso il voto per una Università a Trento, si era perché crediamo che una università cattolica non possa sussistere in Austria fuorché a Trento. Denuncio fin d’ora, o signori, queste perfide intenzioni che non si ha il coraggio di portare alla luce del sole, perché si sappia qual valore dobbiamo accordare alla cooperazione, che costoro vorrebbero fingere alla nostra causa, le denuncio con tutte le forze dell’anima contro un tale programma, destinato a buttare presto o tardi, e probabilmente nel momento più difficile della lotta, il flagello della guerra civile tra gli italiani dell’Austria e magari a distruggere per sempre tanti sforzi ininterrotti ch’essi hanno fatti per migliorare le condizioni intellettuali della loro nazione; le denuncio esortando i nostri deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi; cioè col prescindere affatto dai clericali, anzi con l’ignorarne addirittura l’esistenza poiché essi non offrono per tutte, indistintamente, le varie correnti del pensiero moderno, quelle garanzie di libertà che noi saremmo sempre disposti a garantire anche al loro pensiero; e perché noi piuttosto di mettere capo ad una università, che riuscirebbe un pericolo costante per la civiltà ribadendo i ceppi dell’ingegno umano, preferiamo mille volte e più di rinunciarvi per ora e per sempre». Signori! io non v’ho letto questo sfogo del signor Pasini per avere occasione di un attacco personale. E certo però ch’egli è un ingannato o un ingannatore. Giacché, come fu già dichiarato da un mio collega in una solenne adunanza di studenti ad Innsbruck, è falso che l’Associazione universitaria cattolica tridentina abbia avuta l’idea di un’università italiana cattolica, ovverosia confessionale; e sappia il signor Pasini, che se l’idea l’avessimo avuta, avremmo avuto anche il coraggio di pubblicarla come abbiamo avuto il coraggio di manifestare tant’altre idee di ordine religioso che hanno costato a qualcuno di noi, oltre che ingiurie e isolamento perfetto, anche pugni e schiaffi. Ma di questo, o signori, si è già parlato abbastanza ad Innsbruck. Volevo soltanto «denunciare» anch’io qualche cosa qui davanti al vero popolo trentino, innanzi ai suoi rappresentanti, volevo, ripeto, «denunciare» anch’io qualche cosa. Denuncio fin d’ora, o signori, — dirò anch’io col Pasini, — questo perfido sistema di creare pregiudizi o false opinioni in riguardo agli avversari per poi annientarli, sistema che è tanto più da deplorarsi quando si tratti di una questione che è di tutti gli italiani. Riguardo a noi, i fatti vennero a smentire queste false insinuazioni. Nessuno di noi mancò in quei giorni né al lavoro delle assemblee, né a quello dei comitati. Pareva che la pace fosse fatta e non si dovesse temere «il flagello della guerra civile». Ma poi, passate le burrasche, parvero ritornare i consigli antichi, e da Vienna si tentò ogni mezzo per cacciarci dal comitato, si tirarono in campo le nostre opinioni religiose ed ecclesiastico—politiche, e si tentò in pubblica adunanza di metterle in contraddizione, udite, o signori, con l’università italiana. Era la pratica della teoria, tanto applaudita a Rovereto, di Ferdinando Pasini, il quale non contento di escludere noi studenti e di presentare ordini a nome di tutti gli studenti accademici trentini, esortava «i deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi, cioè di prescindere affatto dai clericali, anzi con l'ignorarne addirittura l’esistenza». Ebbene, o signori, contro tale altezzoso sistema di sorpassarci e di ignorarci, noi protestiamo energicamente e con tutta l’anima e v’assicuro che cercheremo di far sentire in tutte le occasioni la nostra esistenza. Vivaddio! Non è questo nostro paese nella sua gran maggioranza cattolico? Non sta il popolo, il vero popolo, dietro di noi, o i suoi rappresentanti non sono in maggioranza di parte cattolica? Non c’è bisogno di esortazioni, ma se fosse il caso noi vorremmo dire ai nostri deputati: Rispondete a queste esortazioni di parte anticlericale con l’occuparvi con sempre maggiore energia della questione universitaria, e gli studenti e l’immensa maggioranza del Trentino saranno con voi. Ancora una cosa. Il signor Pasini terminava la sua applaudita filippica, motivandola con l’assicurare che i clericali non concederebbero agli avversari la libertà di pensiero e di ricerca. Lasciate che gli risponda con un augurio. No, o studenti anticlericali, andate pure nei laboratori, nei gabinetti, nelle biblioteche, cercate di ricercare, studiate e ristudiate col vostro ingegno libero da tutti i ceppi. Cercate! Novelli Ulissi, ripartite da Itaca, non cacciati dalla noia, come diceva nella sua ultima conferenza sulle funzioni sociali del pessimismo il prof. Pasini, ma attirati dalla sete del vero e del buono. Avventuratevi sul mare tempestoso, passate le colonne d’Ercole, lanciatevi arditamente per l’oceano infinito, vagate e cercate! Se la stella vi sarà propizia, se non farete prima naufragio, troverete il monte della salute. Dopo tante fatiche e tante aberrazioni ritornerete sulle antiche vie degli avi, alla religione delle vostre madri, al Vero davanti al quale chinan la fronte e Dante Alighieri e Michelangelo e Raffaello e il Vico e il Muratori e Alessandro Manzoni e tutte le maggiori glorie italiane.

Il primo Congresso Cattolico Trentino

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Io vi vengo a parlare ancora di ideali, di programmi, di idee! C’è anche fra i cattolici un gruppo di empirici ai quali tutto questo pare un chiacchierio inutile. Altri invece, buon’anime, lasciano volentieri che i giovani sognino, purché non facciano altro che sognare. Non baderemo né a questi né a quelli, ma nella coscienza dei doveri del presente e dei diritti che aspettiamo dall’avvenire, discutiamo per ora l’oggi, preparandoci un poco la strada per l’indomani. Oggi nel campo studentesco le cose sono a questo: la maggior parte degli studenti, chiusi in una società, di cui l’esistenza sola basta a testimoniare il relativismo della fiacca intelligenza trentina; gli altri pochi raggruppati intorno ad una bandiera issata di recente fra applausi scarsi, ma con intendimenti ben determinati. I primi, quando cessarono di essere tutto e tutti, non trovarono nel loro programma un solo concetto direttivo che positivamente li distinguesse dai nuovi venuti, e per conservare l’armonia degli intenti finirono col dichiarare di non essere qualcosa e si chiamarono i non clericali; i secondi, staccatisi in prima dagli altri per un problema privato, di scienza, maturando le idee e i tempi, vennero successivamente a schierarsi con coloro che si dicono cattolici in senso più stretto, perché non staccano la vita domestica dalla pubblica, ma vogliono che l’uomo intero segua i cenni della Chiesa nella quale crede. Le società cattoliche trovarono però fra la gioventù studiosa due grandi nemici: le tradizioni del passato e le correnti predominanti del presente. Il passato della vita universitaria, il passato recente non conobbe società che facessero calcolo anzitutto delle convinzioni morali-religiosi e, mentre nelle università si combattevano epiche lotte fra i tradizionali principi cattolici e le nuove idee sorte in nome di una scienza che fece poi il fallimento, toccava ai figli di un paese cattolico starsene indifferenti quasi che non si trattasse di cose loro. Era forse riflesso del liberalismo moderno, indiscusso da altri tempi, forse anche nei buoni paura di crear maggior male. Ma intanto si fece strada il pregiudizio che le società dovessero di regola essere neutre, che le confessionali portassero inutili discordie, e le mamme ancor ora, quando congedano il candidato, gli raccomandano a calde lacrime le solite devozioni e continuano: Non impicciarti con società o, alla più, sta là dove ci possono star tutti. E per fortuna le poverette trovano anche qualche buon prete che sa tranquillarle in proposito! Da questa atmosfera infida parve un giorno ci dovessero liberare i socialisti. Erano giovani e si dicevano fautori dell’avvenire; si presentavano in nome di una dottrina e di un movimento ch’era ad un tempo religione e programma d’una vita intera. Parlavano di principii e di idee, riducevano la lotta nei suoi veri termini. «Dove passerete voi, passeremo anche noi» scrissero dopo il congresso di Pergine. Non fu vero! Nessuno s’accorse dopo l’entrata del socialismo, che negli studenti — le eccezioni non contano — siano penetrate nuove idee, abbiano fatto scuola nuovi ideali, e soprattutto che questi ideali siano stati messi a programma d’una società o scritti su di una nuova bandiera. Tutto si ridusse ad un po’ di radicalismo dalle tinte più vivaci; in questo o quel congresso si udirono delle frasi più forti e più arrischiate. Che era stato? I socialisti avevano cambiato al vecchio fonografo liberale il cilindro, ve n’avevano sostituito uno nuovo e si sonava allegramente; erano le medesime frasi, gli stessi motivi, ma più ben intonati, più forti secondo le nuove invenzioni. Di queste frasi parecchie suonavano accusa contro di noi; le più parevano fatte apposta per crearci attorno pregiudizi ancor maggiori e così s’aggiunse al passato il presente. Il nostro programma, le nostre idee giungono quasi sempre indirettamente agli orecchi degli studenti che escono di ginnasio, quasi mai a quelli dei genitori. Gioverà oggi che parliamo in questa Trento, centro intellettuale — almeno per gli studenti — ripetere quello che siamo e quello che vogliamo. L’Associazione universitaria ha scritto sulla propria bandiera: Pro Fide, Scientia et Patria. Permettete, o signori, che oggi sia assolutamente pratico. Lascerò gli astrattismi ed esprimerò i nostri ideali più concretamente: Cattolici italiani, democratici! Ruskin disse una volta: «Noi adoperiamo uomini, che considerino come loro prima conquista saper governare sé stessi, come seconda il saper giovare alla Patria ed alla società». Con la nostra formula noi vogliamo quello che desiderava Ruskin. Cattolici! Siamo al punto fatale della divisione. Non risusciterò, signori, antiche polemiche, né ripiglierò i classici argomenti che svolsero i trentini in quei giorni, in cui si dovette rompere un infausto letargo e riscuotere il paese a quella vita, di cui oggi appunto ci rallegriamo. Ma è strano che di tutti quei rumori non sia arrivata nei circoli universitari tanta eco, da giustificare e motivare il nome che abbiamo dato alle nostre società. Giovani, negli anni nei quali con tutta l’anima si cerca ovunque il vero e l’ideale, venuti alle università, che furono per tutto il secolo XIX le officine di nuovi rivolgimenti intellettuali e sociali ostili al cattolicismo, avrebbero dovuto accorgersi che, alle soglie dell’aula magna, vengono a toccarsi cogli estremi confini due mondi avversi: mondi di idee e di convinzioni, ma che fuori nel turbine sociale corrispondono a due grandi soluzioni pratiche e radicali della vita presente ed avvenire. Questo contrasto, questa lotta suprema essi avrebbero dovuto affrontare e coraggiosamente superare in sé stessi e consacrare gli entusiasmi e le forze giovani all’una causa o all’altra. Si preferirono invece — pochi eccettuati — alle soluzioni radicali le soluzioni intermedie. Le idee «moderne» fecero un vile compromesso con quel po’ di cattolicismo che doveva restare per amor delle tradizioni familiari, ridotto naturalmente ad una somma più o meno grande di messe basse per non disgustare le ferie alla mamma. E quel tanto di cattolicismo che non si adattava al compromesso venne chiamato clericalismo, e a noi, che decisamente avevamo preso le parti di uno dei combattenti e ci eravamo dichiarati per una soluzione radicale, si gridò: fanatici, e turbatori della pace. Signori, anche Cristo un giorno ha detto: Non vengo a portar pace, ma spada. Ma regnava una pace in cui il bene era confuso col male, col vantaggio del peggio. Il Trentino e un paese, negli abitanti dei suoi monti cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano. Mentre la fede dei lavoratori di questa dura terra trentina restò salda malgrado la marea, che ascendeva quasi difesa da baluardi naturali, non ne rimasero illese le nostre città, i nostri borghi. Lo spirito invadente del paganesimo, qualunque nome portasse penetrò in questa società colta, ove coltura divenne più o meno sinonimo di scetticismo. O chiamate voi forse religione cattolica quelle quattro usanze rimaste per forza d’inerzia, come far battezzare i bambini, assistere a qualche funzione di parata e far posare la croce sul feretro, mentre la vita privata e pubblica è informata a principii pagani o a vieti compromessi, mentre i libri,la stampa quotidiana, l’arte, il teatro, le istituzioni sono inspirati ad ideali che sono fuori o contro il cristianesimo? No, o signori, il cattolicismo è qualche cosa di più integrale, non estraneo a niente di bene, avverso a qualunque male, una regola fissa che deve seguire l’uomo dalla culla alla bara, l’anima e il midollo di tutte le cose. I nostri contadini comprendono che fra loro e i signori c’é una grande diversità di convinzioni, benché non sappiano misurare la profondità dell‘abisso; e quando muovono alla chiesa e vedono il dottore o l'avvocato seduti alla porta del pizzicagnolo o dell’oste del paese osservarli con un cert’atto di superiorità e disprezzo, brontolano qualcosa che esprime il voto di un popolo intero più che non avvenga in cento comizi. E se domandate loro dell'origine di questi mali, vi rispondono: Ma, sono stati all’università! Conosco un buon uomo intelligente che aveva posto le più belle speranze su di un nipote che in ginnasio non aveva mai fatto parlar male di sé. A suo tempo, espresse allo zio il proponimento di andare all’università, e lo zio, pur continuandogli la sua benevolenza, incominciò a dargli del lei. E al nipote meravigliato motivava la mancata confidenza così: Mio caro, lei ora va all’università, quando ritornerà non penserà più come me ed è meglio ci avvezziamo ora a trattarci con deferenza. Nessuno vorrà negare che i nostri popolani nell’indicare la origine del male, non colpiscano nel segno. Sì, dall’università ci venne il paganesimo intellettuale, se non sempre la crisi morale. Ebbene, o signori, volevate voi che giovani convinti della loro fede ed entusiasti della sacra poesia della religione paterna, saliti là dove più distintamente s’ode il rumore della battaglia suprema, se ne stessero indifferenti osservatori? No, noi abbiamo ascoltato la voce del dovere, ci siamo stretti in un fascio, abbiamo spiegato la nostra bandiera e abbiamo offerto alla causa cattolica il nostro tributo di forze giovanili. Noi, ricordandoci delle parole di Montalembert, non abbiamo nemmeno supposto di non accettare le condizioni di un’epoca militante. Non bastava conservare il cristianesimo in sé stessi, conveniva combattere con tutto il grosso dell’esercito cattolico per riconquistare alla fede i campi perduti. Contribuire ora e più tardi al ritorno delle classi colte trentine all’antica fede della città del Concilio, e distruggere così l’abisso fatale aperto fra il popolo e la colta borghesia, ricondurre quell’armonia necessaria ad un popolo tendente ad alti destini, ecco quello a cui noi tendiamo e che esprimiamo mettendo a capo del nostro programma la parola cattolici. E a questo scopo ci soccorre la fede che solleva i cuori e la scienza che arma la mente. A chi nega la conciliazione dell‘una con l'altra, risponda Pasteur. Disse una volta ad un cotale che gli domandava se fra i risultati delle sue esperienze e la Bibbia avesse mai trovato contraddizione: Signore, io passai la vita nello studio, e giunto alla fine credo quanto crede un povero contadino della Bretagna. Se vivessi ancora penso che le mie esperienze mi condurrebbero a quella fede che anima la più povera vecchiarella brettone! Signore! signori! I polacchi dicono che per loro polonismo e cattolicismo è la medesima cosa. Polacco significa già cattolico. Parlando di noi trentini potremo dire a più ragione: Cattolici significa già italiani. E avremo una parola di meno nella formula. Ma viviamo, o amici, in un paese di confine, ove valse fin'ora per buon italiano chi giurò spesso d’esserlo, ove una borghesia di petrefatti ricantò nei caffè e nelle accademie ideali vecchi, tramontati già, se non mai sorti, per le masse popolari, belli se commuovono un popolo intero, quando seguirli venga stimato virtù; spogli di splendore, abbrutiti quando non facciano conto della realtà delle cose e dell’anima popolare e vengano rappresentati senza uomini o partiti come passione senza il riconoscimento delle leggi morali e dell‘ordine civile! Questi uomini e questi partiti o giovani, che ne ereditarono il fonografo, ripetono ancora oggi in buona o mala fede una terribile accusa contro i cattolici: mancar essi di patriottismo ed amore alla propria nazione. Ricorderò sempre, o signori, con sdegno la risposta che a me e ad un mio collega diede uno studente radicale in Vienna, quando eravamo accorsi come tutti ad interessarci d’una questione comune: Voi cattolici — lo sapete — non vi teniamo come italiani. Ah! Viva Dio, avremo dovuto rispondergli, i cattolici sono italiani da secoli, da quando sorse la nazione intorno alla cattedra di San Pietro; voi siete — se lo siete — italiani da dieci-dodici lustri. I cattolici hanno dietro quasi due periodi storici che furono guelfi, voi, forse, il ghibellinismo di cinquanta anni. Ma ci parve meglio ridergli in faccia. E così dovrei far oggi e passar oltre e dire: Guardate che cosa hanno fatto i cattolici trentini per la difesa della loro lingua e dei loro costumi, e vi basti. Se oggi sviluppo alquanto il nostro pensiero, non è per rispondere a certi giovanotti che di questi giorni proprio vanno, a rovina della patria e a vantaggio di un partito, ripetendo antiche menzogne, né per ottenere la patente di buon italiano da certi signorini che poi dichiarerebbero, magari dal podio del teatro sociale, di non crederci; ma io penso alle madri ed alle famiglie, ove la calunnia poté trovare credenza. A loro gioverà gridare di nuovo: No, questi giovani che si propongono d’essere anzitutto cattolici, non dimenticano socialmente di essere anche buoni italiani. Difendendo la fede e i costumi dei padri, compiono il primo dovere che incombe ad ogni italiano che non abbia dimenticato Dante, Raffaello, Michelangelo, Manzoni per Proudhon, D’Annunzio o Zola, né san Tommaso per Kant o Nietzsche, né il nostro apostolo latino san Vigilio per il teutonico Marx. La differenza capitale fra noi e gli altri è questa: gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per la quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l‘Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria, del senso della nazione, sull’altar della quale tutti i commemoratori delle glorie altrui ripetono doversi sacrificar tutto e idee e convinzioni. Questo concetto trapelò anche da noi in molte occasioni e quando si dice che davanti al monumento a Dante devono sparire tutte le misere divisioni di partito, che cosa si vuole insegnare altro alla gioventù se non altro che la Nazione va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Signori, non è vero! Noi ci inchiniamo solo innanzi a un Vero supremo indipendente e immutato dal tempo e dalle idee umane e al servizio di questo noi coordiniamo e famiglia e patria e nazione. Prima cattolici e poi italiani, e italiani solo fino là dove finisce il cattolicismo. Pratica: non furono i cattolici che ordinarono i fatti di Wreschen, ma furono coloro che senz’altro ritegno di giustizia e moralità gridano: la nazione soprattutto. No, Iddio, il Vero innanzi tutto! Nella pratica della vita questo principio non ci ha impedito di accorrere ogni qualvolta lo richiedesse l’onore di tutti gli italiani: e noi giovani anche per l’avvenire non perderemo nella nostra propaganda democratica cristiana; rammenteremo sempre che vogliamo creare non soltanto buoni cattolici, ma anche buoni italiani, amanti della lingua loro e dei loro costumi, fieri di appartenere a quella Nazione che fu nella storia la prediletta della Provvidenza. Un’altra parte del nostro programma è espresso nella parola «democratici». Signore e signori! Se le esigenze del Congresso e la ristrettezza del tempo lo permettessero, io vorrei parlare a lungo su questo argomento. E non perderei tempo! A quei signorini universitari che se ne stanno anche durante gli anni dello slancio e dell’altruismo epicureamente lontani dal popolo e s’avvezzano per tempo al caffè donde c’è venuta una borghesia parassitaria, vorrei ripetere oggi questa parola. Anche in questo riguardo il periodo universitario e fatale: dall’università si esce democratici o aristocratici già fatti. O che da giovani ci si avvezza a ridurre il mondo ai giornali che si leggono e ai membri della propria classe, e allora il giovane, divenuto dottore, avvocato, non discenderà fra le grandi masse popolari come fratello ai fratelli, ma come rappresentante di quella borghesia che si attirò nei tempi nostri tanti odi e maledizioni. O che si vede già da giovani oltre la barriera borghese venire una moltitudine di gente che vuole passare e si comprende la giustezza della tendenza, e allora si stende al di là la mano; vi fate a loro compagno e considerate tutta la vita come una faticosa erta su cui dovete salire voi e il popolo ad una meta comune. Non è mancanza di modestia, o signori, se noi, studenti cattolici, ci mettiamo senz’altro fra i democratici. Io credo che nessuna associazione universitaria ha tanti membri che si siano, come molti dei nostri, buttati all’istruzione popolare ed abbiano affrontato con coraggio, quando i loro studi lo permisero, il problema di creare nel popolo trentino democratici cristiani. Ma questo spirito democratico che ci anima, non è, o signori, una concessione alle tendenze di oggidì, ma un frutto di quel cristianesimo compreso socialmente, praticato dentro e fuori dell’uomo, in tutta la vita pubblica. Signore! signori! Con questo programma che abbraccia tutta la vita, abbiamo alzato l’anno scorso, all’autora del secolo XX la nostra bandiera. Questa bandiera l’abbiamo portata in mezzo alla gioventù studiosa, chiamando a raccolta e continuando a combattere. Noi vogliamo creare caratteri, vogliamo chiarezza d’idee. La nostra società è sorta come un’accusa contro i compromessi morali e religiosi. Noi rompiamo questa massa incolore, fortemente, ma lealmente! Numquam incerti, semper aperti! Non tema qualche buono che con ciò creiamo dissidi incancellabili. Vogliamo la guerra, ma per la pace. Quando gli studenti si troveranno di fronte con ideali chiari, con propositi precisi, sarà più facile intendersi. Ma fino a che regna la nebbia e il mare batte furioso, noi — la cavalleria leggera dell’esercito cattolico — stiamo sull’attenti, e al primo rumore che precorre l’assalto, gridiamo rivolti a tutti: Alle dighe; e vi ci lanciamo per i primi!

Il congresso dell'Associazione universitaria cattolica trentina - Relazione del presidente

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Nel comizio convocato l’anno scorso a Natale abbiamo offerto alla causa dell’università italiana l’appoggio dei cattolici trentini, cioè della maggioranza del paese. Per tutta risposta ci hanno esclusi dai comitati. Per certa gente sono italiani soltanto i liberali, come Hutten in tedesco voleva dire luterano. Ora si è inaugurata solennemente una nuova tattica: quella di ignorarci. E la tattica del «volere e non potere». e finora non ce ne siamo accorti granché. Noi invece seguiremo attentamente le mosse degli avversari, sempre pronti a discuterle, e del resto continueremo tranquillamente per la nostra via, come abbiamo fatto durante l’ultima fase della questione universitaria. Per tutto questo rimandiamo alle nostre dichiarazioni precedenti.

Il popolo trentino, plaudente alla redenzione, reclama il diritto di decidere sui proprio ordinamenti interni

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Due esempi tipici: nelle trattative di pace, quale cosa più logica e naturale che l’invitare a Parigi, per la regolazione delle cose che riguardano il nostro paese in confronto degli altri della cessata monarchia, i nostri rappresentanti? L’hanno fatto tutti, dalla Serbia che ha per delegati personalità slovene e croate, all’Austria tedesca che fra gli altri si è fatta rappresentare dal tirolese Schumacher. Ebbene soltanto dopo le ripetute insistenze nella nostra Consulta si consentì acché l’on. Tambosi si recasse a Parigi, ma egli si è trovato nonostante le sue attitudini come sperduto in quell’areopago, poiché il suo non era compito che potesse assolvere una sola persona e pensando a lui mi sono ricordato di quello che scrisse il Gazzoletti, quando gli emigranti trentini proponevano nel ’59 di mandare un delegato alla conferenza di Parigi. Arriviamo così forse alla mancata tutela nel trattato di pace, della nostra produzione vinicola, danneggiandosi così gli interessi di noi italiani per favorire altri che alla guerra hanno portato un contributo soltanto all’ultima ora. L’oratore passa quindi a dimostrare come neppure il trattamento che in questi otto mesi di armistizio si è fatto alle autonomie provinciali e comunali ci possa ispirare fiducia. A parlare soltanto delle autonomie comunali basti questo: che su 338 comuni di cui ha potuto aver notizie, 215 hanno sindaco e rappresentanza eletti regolarmente, 29 hanno la rappresentanza eletta e il sindaco nominato dal governatore, 34 solo sindaco e rappresentanza (una specie di Consulta) nominati, in 50 comuni c’è solo il sindaco nominato, in 5 c’è un commissario militare e in 2 (Cavareno e Quetta) si sono fatte le elezioni durante il periodo di armistizio. L’amministrazione provinciale poi è talmente ridotta nel personale di concetto che non può sviluppare un’adeguata attività. Dunque, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Possiamo poi aggiungere un terzo esempio e cioè l’esperienza fattaci fare in questi giorni con la creazione del nuovo ufficio d’amministrazione civile delle terre redente. (Notiamo fra parentesi che la Consulta, tutti l’hanno visto, non ha avuto nessuna autorità; strappata al governo dopo più di un mese dalla liberazione del nostro paese, essa non è stata mai consultata; non si è richiesto il suo parere su una sola delle questioni più essenziali per noi). Ebbene, per la nuova sistemazione è venuto fuori, all’improvviso, senza che nessuno ne sapesse nulla, un decreto che si dice essere stato però preparato, già da diversi mesi, dal gabinetto Orlando: l’on. Nitti deve averlo trovato a caso, riordinando le carte e spolverando la sua scrivania (ilarità). Questo decreto è molto più grave di quanto non possa esser sembrato a prima impressione; rileggendolo attentamente, si scorgono i pericoli che esso cela. Noi potremmo essere beneficiati per lungo tempo, magari per un anno, da un regime eccezionale durante il quale, senza consultare il parlamento o il nostro paese, ma soltanto, se si vuole, una nuova consulta risiedente a Roma e composta di persone scelte dal governo, il nuovo ufficio centrale dovrebbe affrontare e risolvere per decreto reale tutte le gravi, delicate e complesse questioni delle terre redente.

Il nuovo governo civile e le nostre autonomie

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Degasperi ricorda che i suoi amici politici già nella Consulta trentina, quando da parte liberale venne proposto di chiedere al governo l’invio di un commissario straordinario nella persona di un illustre parlamentare, si opposero subito a tale proposta per due ragioni: 1) perché la nomina di un commissario straordinario poteva importare il prolungamento del periodo extracostituzionate al di là del termine dell’annessione; 2) perché essendo il commissario straordinario un parlamentare ed uomo politico, la sua nomina sarebbe stata subito frutto di calcoli e combinazioni di gruppi parlamentari e avrebbe portato con sé gli appoggi e le avversioni, di cui tali gruppi lo avrebbero circondato. Noi volevamo invece che la nomina del capo dell’amministrazione civile delle terre redente fosse inspirata a soli criteri amministrativi e affatto indipendente dalle combinazioni di Montecitorio, servendo così non a rompere ma a mantenere una atmosfera di serietà e di oggettività necessaria nel momento in cui le nuove provincie devono poter vedere nell’inviato del governo il rappresentante dell’Italia e null’altro. La nostra opposizione non fu fortunata. Si agì contro il nostro consiglio e così dovemmo divenire purtroppo facili profeti d’una situazione allarmante. S’era appena attenuata l’eco provocata dalla nomina del nuovo direttore generale dell’ufficio delle terre redente commendator Salata, contro il quale i socialisti di Trieste iniziarono una campagna violenta, che il decreto della nomina dei governatori provocava in Italia e da noi una nuova tempesta. Fu in ispecie il nome dell’on. Credaro che divenne subito preda della discussione pubblica.

L'assemblea costitutiva del Partito popolare

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Dopo ch’egli si è ingaggiato alla società, gli resta ancora la parte più nobile di se stesso, queste alte facoltà per le quali egli si eleva a Dio, ad una vita futura, a dei beni sconosciuti in un mondo invisibile. Noi persone individuali abbiamo un altro destino che gli stati». Amici, scusate la lunga citazione. Ma innanzi a quello che avviene intorno a noi, è necessario risalire ai principi. Abbiamo oltrepassata la frontiera di un mondo ch’è scomparso negli abissi dei secoli e abbiamo messo il piede trepidanti in una nuova società politica. Ma l’una e l’altra società compiono quaggiù i loro destini. I nostri invece sono superiori ad entrambi. Per questo nella nostra anima abbiamo portato con noi dalla società umana che ci si è sfasciata attorno alla società nuova che ci ha accolto, un certo corredo di diritti naturali e di concetti superiori che regnano nella cittadella della nostra coscienza. Uno dei più cospicui di questi diritti è quello di professare e far insegnare liberamente la fede dei nostri padri. Ché si parla di austriacantismo, quando reclamiamo per i padri di famiglia il diritto di far insegnare il catechismo ai loro figlioli? Questo diritto era scritto nella nostra coscienza dalla natura prima che Austria o Italia fossero, al di sopra e al di fuori di ogni società umana (applausi). Ché ci accusate di tiepido amor patrio, quando reclamiamo per i tedeschi la stessa equità che abbiamo domandato per noi? È questo un sentimento di giustizia che sta in fondo della nostra coscienza e che vi soffoca ogni velleità di rappresaglia per i torti subiti. Ché ci denunciate di scarso civismo, quando protestiamo contro la Sardegna, come avevamo protestato contro Katzenau, o quando deprechiamo ogni eccesso del militarismo ovunque si trovi? La protesta s’inspira ad una concezione superiore del diritto naturale e primordiale dell’individuo di fronte a quella qualsiasi società umana che lo circonda (applausi). Vedano quindi i nostri avversari, se vogliono comprendere la nostra politica, di non scordare che al di sopra di essa noi poniamo le leggi immutabili della natura e della morale. E vediamo noi amici di non dimenticare mai che siamo entrati nella vita nazionale con questo patrimonio perenne di verità, di diritti e di principi, con questa coscienza morale che va tenuta ben in alto al di sopra del cammino dei partiti perch’essa è la lucerna che rischiara loro la via. Sovra tutto in questo momento. Questa fiaccola bisogna agitare sovratutto in questo momento, in cui lo spettacolo dell’immensa violenza patita, degli orrori e disordini del militarismo a cui hanno assistito, minaccia di travolgere il senso morale delle nostre buone popolazioni. A questo s’aggiunge l’attiva propaganda socialista.

Una conferenza dell'on. Degasperi a Merano. Il contraddittorio coi socialisti

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Voi, dice rivolto ai popolari trentini, eravate la coda dei cristiano-sociali tedeschi a Vienna e del centro germanico che hanno votato la guerra, noi, socialisti italiani, siamo vergini di ogni colpa, quindi possiamo inveire contro la guerra e declinarne ogni responsabilità. Piano, signor Flor, replica l’on. Degasperi, vi nego il diritto d’intrupparvi coi socialisti italiani, per rifarvi una verginità che non avete. Voi, socialisti trentini, prima e durante la guerra, sia come partito politico, sia come movimento politico eravate tutto una cosa col partito socialista internazionale austriaco. I deputati socialisti italiani di Trento e Trieste fecero parte del club socialista in compagnia dei tedeschi anche quando ne uscirono gli slavi. Se mai dei partiti locali trentini qualcuno deve assumere la responsabilità dei club parlamentari austriaci è proprio il vostro, non noi che eravamo costituiti in partito separato dai cristiano-sociali tedeschi. Ma noi ci possiamo rivendicare Federico Adler soggiunge il Flor, che ammazzò Stürgh ed iniziò la nuova era. L’atto di Federico Adler, replica l’on. Degasperi, fu sconfessato dal vostro organo centrale l’Arbeiterzeitung e dal club parlamentare socialista. E il Flor insiste allora sul contegno del Centro germanico e simili partiti. Questi hanno votato per le spese militari avanti la guerra, quindi l’hanno preparata. Certo, ammette l’on. Degasperi; i cattolici, come altri partiti che ebbero responsabilità di governo, votarono anche le spese militari, ma senza voler assumere la responsabilità di tutta la loro politica, e senza voler escludere che ci sia stato qualche imperialista cosciente, non è vero che la maggioranza dei deputati votavano tali spese a malincuore e per la preoccupazione che bisognasse armarsi per non essere assaliti dai vicini, già più agguerriti? Non era questa la teoria in voga da tanti secoli nonostante i pacifisti di tutti i partiti, che per voler la pace convenisse preparare la guerra? Del resto qual differenza esiste fra il Centro che vota 300 cannoni prima della guerra e i socialisti germanici che votando i crediti militari e i prestiti di guerra germanici rendono possibile la costruzione di migliaia di cannoni, che serviranno a massacrare il Belgio e a devastare la Francia? Nell’uno e nell’altro caso - la maggior parte in buona fede - credono che ciò sia inevitabile per evitare la guerra o un lungo prolungarsi di essa. Il Flor insiste ancora: non vagate all’estero, parlateci dei socialisti italiani! Degasperi lo accontenta. Cita Bissolati, Battisti. Flor a questo punto s’impenna, dice che i socialisti hanno cacciato dal loro partito tutti i loro consenzienti che hanno sbagliato. È facile a Degasperi dimostrare che per rimaner «vergine» Flor deve cacciar fuori la grande maggioranza dei socialisti d’Europa, ad incominciare dai classici epigoni di Carlo Marx. A questo si arriva quando non si vuol distinguere fra le varie cause del conflitto mondiale, per ridurlo semplicisticamente ad una lotta fra i proletari ed i capitalisti di tutti i paesi. A tal fine non si distingue fra la guerra dell’Austria provocatrice e dell’Italia, tiratavi per i capegli, della Germania aggreditrice e del Belgio che difende la propria esistenza. Si abbandona la realtà storica per fare della demagogia.

Comizio di Fondo. La votazione per Trento

388005
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Considerato che è in via di fatto esclusa la possibilità di ottenere per ora la istituzione della Facoltà giuridica a Trieste; Considerato che è di grande interesse della nazionalità italiana in genere e del Trentino in ispecie, di ottenere un istituto universitario in terra italiana; Considerando che venendo eletta la Facoltà nel Trentino, Trento per la sua posizione, per la sua storia e per la sua importanza, si presta indubbiamente come sede più adatta di quella proposta dal Governo, il comizio pubblico tenuto ai 17 settembre in Fondo, pur associandosi al voto generale degli italiani per una futura università completa a Trieste e presupposto che il Governo mantenga la promessa di ritirare le disposizioni linguistiche lesive i nostri sentimenti nazionali, chiede che la facoltà giuridica italiana venga eretta provvisoriamente a Trento. Il d.r Degasperi propone poi la seguente aggiunta: Il comizio di Fondo, visto il contegno energico e decisivo degli onorevoli deputati Delugan e Conci nel mentre approva la loro linea di condotta, esprime loro un voto di plauso e d’incoraggiamento.

Il movimento politico e il partito popolare trentino

388016
Alcide de Gasperi 2 occorrenze

Il suffragio universale in Austria, sia pure anche con indebite eccezioni a favore dei tedeschi, aumenterà i mandati degli slavi. Più rilevante però sarà lo spostamento dei partiti in linea religiosa. È certo che avremo un aumento dei radicali e in quantità e in qualità, ma anzitutto in questa. Il gruppo socialista che non oltrepassa oggidì gli undici deputati, salirà probabilmente già al primo assalto a 50 deputati circa. Ciò vuoi dire, per chi conosce le tendenze dei socialisti austriaci, che avremo anche nella Camera a Vienna un forte nucleo eminentemente anticlericale e anticattolico attorno al quale si raccoglieranno le altre frazioni radicali, divenute più omogenee e più pugnaci, per il cessare delle tendenze moderate. Questo accentramento delle forze antireligiose non rappresenta per noi cattolici, un pericolo prossimo? S’è detto, e si ripete volentieri nel nostro paese, che le questioni religiose per la vita pubblica non sono più d’attualità, e che non imperniano più il diventare e l’essere dei partiti. Questa affermazione risale a coscienze amanti dell’equivoco e rifuggenti a penetrare sotto la corteccia esteriore delle cose. Non basterebbe l’esempio della Francia modernissima per provare il contrario di quanto si afferma? Ma v’è delle prove che ci toccano ancora più da vicino. Lo Stato stesso in cui viviamo, benché ossessionato dalle passioni nazionali, superata appena nella sua crudezza la tendenza anticattolica, «Los von Rom», deve occuparsi ora di questioni che toccano direttamente il cattolicismo, del divorzio cioè e della scuola laica. L’agitazione in favore del divorzio specialmente ha ripreso negli ultimi tempi vigore, ha preso forme consistenti ed è arrivato già nelle commissioni parlamentari. Il movimento tende ad ingaggiare la Camera per la cosiddetta riforma matrimoniale. Una questione dunque eminentemente religiosa è divenuta attuale, s’imporrà alla rappresentanza parlamentare.

Quando il progetto del suffragio universale entrò nello stadio, come si dice, d’incubazione, si manifestarono subito due tendenze che miravano a distruggere in concreto il suffragio universale eguale, ammesso in teoria, e questo per mezzo di una distribuzione dei mandati tutta artificiale ed arbitraria. Mentre il concetto integrale del suffragio universale presuppone di per sé la formazione di collegi elettorali eguali per il numero degli abitanti, si tentò ora di creare delle distinzioni e delle eccezioni in favore del censo e della cultura. Il principio del suffragio per grado cacciato dalla porta entrava per la finestra, la disuguaglianza del singolo di fronte al diritto del voto veniva sostituita dalla disuguaglianza delle collettività, aventi diritto a voto, cioè dei collegi elettorali. Da una parte sono i tedeschi, i quali possedendo ora alla Camera il 48,23% dei mandati e prevedendo a ragione di perdere, con la caduta delle curie, questa proporzione che a loro non spetta in base al numero degli elettori, pretendono che nella distrettuazione si abbia riguardo alla cultura e al censo, creando per la città e i centri collegi elettorali più piccoli. E questo nel presupposto che i centri sono prevalentemente tedeschi, la campagna invece non tedesca. L’altra tendenza è propria dei liberali di tutte le nazionalità e vuole col medesimo mezzo della distrettuazione favoriti i centri industriali e le città, come quelle che albergano la borghesia liberale. È noto che queste due tendenze, la liberale e la tedesca, si manifestarono anche nella provincia nostra. D’un canto l’on. de Grabmayr pretese che ai 201.262 abitanti delle città della provincia si assegnassero otto mandati e ai 673.362 abitanti dei comuni rurali, soltanto 13 mandati, dall’altro l’Alto Adige, aderendo a questo principio che faceva valere 25.000 urbani quanto 50.000 rurali, manifestava la tendenza di voler creare privilegi per il partito liberale e gli uomini che lo dirigono. La polemica che ne nacque è nota. Difatti quale è il punto di vista del partito popolare trentino di fronte alle modalità della riforma? Nessuno, se non quello della coerenza, null'altro se non quello della giustizia. Posto una volta il principio dell’eguaglianza del suffragio, non è logico reclamare delle eccezioni a proprio vantaggio, proclamato una volta il suffragio uguale come postulato di giustizia, è ingiusto il fabbricare ad arte disparità ed ineguaglianze. Era nostro dovere di protestare contro codesti artifici anzitutto come italiani, i quali al pari degli czechi, dei croati, degli sloveni e dei ruteni devono richiedere che il suffragio uguale venga applicato rigorosamente e non in modo da mantenere e perpetuare l’egemonia tedesca nello Stato. Era nostro dovere di protestare anche in nome della maggioranza del popolo nostro, il quale non per burla doveva venir proclamato «popolo sovrano». L’oratore passa poi a parlare delle probabili conseguenze del suffragio universale.

Il contraddittorio D.r Degasperi-Todeschini a Merano

388030
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Da questi ed altri fatti che non vi posso riassumere, l’oratore spiega il formarsi di una nuova corrente, fra gli operai, quella delle Unioni professionali cristiane, che ora si prendono a fondare in tutta l’Austria. Lavoratori, emigrati del Trentino, potete voi fidarvi di noi, se vi eccitiamo ad entrare nelle nostre organizzazioni. Badate ai fatti. I cattolici trentini hannno fondato dal 1891 in poi 230 cooperative che raggiungono un giro d’affari di 43 milioni, hanno eretto delle Casse rurali che sono 148 con 30 milioni di depositi, hanno promosso il Sindacato che vende 4 milioni di merce, hanno organizzato in società economiche 44 mila contadini e lavoratori. Ed ora coi denari dei cooperatori fondano la Banca industriale che deve portare una nuova vita al paese (qualche socialista interrrompe). D.r Degasperi: Signori socialisti, dimandatelo ai vostri compagni dell’Umanitaria di Milano, che restarono addirittura meravigliati della nostra cooperazione e vennero apposta a visitare i nostri istituti (applausi). Del pari si dica delle organizzazioni per il bestiame, per i forni essicatoi. Voi direte, tutto questo è in massima per i contadini. È vero, ma anche per gli operai industriali abbiamo tentato il possibile. A Trento si fabbricarono le case operaie, si fondò una cassa d’assicurazione e abbiamo tentato anche le Unioni professionali. Di chi la colpa, se troviamo tanta diffidenza negli operai? Dei capi socialisti, che hanno dipinto i cattolici e il prete come gli strozzini, come i primi nemici degli operai. E ci hanno creduto a questi capi, e quando noi dicevamo, non fidatevene, siamo stati scherniti.

L'assemblea generale del partito

388036
Alcide de Gasperi 2 occorrenze

A tutta questa opera, che non è davvero esaurita in questi rapidissimi cenni, aggiungete l’azione quotidiana e svariatissima che la direzione svolse presso il commissario generale e le autorità locali; e mi direte se questo compito di esercitare - certo imperfettamente e non completamente - quelle funzioni che sarebbero state dei deputati, non abbia già da solo reso travagliato e affaticato quant’altri mai questo periodo di attività della direzione. Ma due problemi, sovra ogni altro, richiesero tutta la nostra attenzione, quello della valuta e quello della ricostituzione politico-amministrativa del nostro paese. Del primo possiamo dire che i nostri replicati e disperati interventi contribuirono - senza con ciò voler menomare l’opera altrui - al risultato di costituire e far lavorare quella commissione che ora a Roma sta risolvendo ad uno ad uno l’intricate questioni che vi sono connesse; del secondo ci sia lecito affermare che senza la nostra tenace propaganda, senza le nostre insistenze, che non disperarono mai né di fronte all’ignoranza né di fronte alle opposizioni, esso non sarebbe oggi divenuto per l’Italia uno di quei problemi istituzionali, che oramai s’impongono a qualsiasi governo e a qualsiasi parlamento.

Sembra a molti che il successo elettorale sia già garantito senza lo sforzo di un’apposita organizzazione politica; poi perché la forza propulsiva dal centro ad un certo punto venne meno. La direzione ha promosso infatti dall’ottobre al gennaio passato un centinaio di conferenze di propaganda; ma poi, vistasi allontanata ormai la speranza di elezioni a prossima scadenza, più che ad organizzare il partito dovette pensare a rappresentare gl’interessi del paese. Giustizia vuole che, giudicando la nostra attività, non dimentichiate il carattere particolare del periodo straordinario che abbiamo attraversato. Fino che parve vicina l’elezione dei deputati, la direzione doveva pensare anzitutto alla propaganda politica, ma quando fu manifesto che il paese sarebbe rimasto ancora a lungo senza rappresentanti, la direzione fu costretta a sostituirli, bene o male, nella loro funzione di sostenere l’interesse del paese. Su questo terreno abbiamo svolta un’attività che credo non potesse essere più intensa. Dal 27 ottobre in cui il vostro segretario presentava all’on. Nitti i vostri o.d.g., votati nell’ultima assemblea fino a questi ultimissimi giorni la direzione esercitò un vero mandato di delegazione presso il governo o presso il parlamento nazionale. Ricordo rapidamente: il nostro intervento per la ricostituzione dei comuni, per i problemi della liquidazione austriaca (on. Grandi, per il rimpatrio dei prigionieri dall’Estremo Oriente, per il pagamento delle pensioni ai sinistrati, per l’applicazione della legge sul risarcimento dei danni di guerra, per i contributi al genio civile, per la ricostruzione, per i contributi dello Stato o dell’istituto federale veneto al consorzio dei comuni, per l’estensione dell’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra e di armistizio anche alle terre redente, per la sistemazione dei pubblici funzionari, per miglioramenti ai ferrovieri, ai postelegrafonici, alla guardia di finanza, ai cancellieri giudiziari, per l’assimilazione agli effetti economici di tutte le categorie di addetti ai servizi pubblici, salvi sempre i loro diritti acquisiti, per sostenere memoriali di maestri e di operai del tabacco, dei segretari ed impiegati comunali, per prorogare l’imposizione di nuove tasse ai contadini per la questione dei vini e dei trattati commerciali, in favore della caccia, del concorso forestieri ecc.

Congresso degli Universitari catt. a Mezolombardo

388043
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

E a proposito, da persona che occupa un posto insigne, è stato augurato che noi ci possiamo unire agli studenti liberali e i socialisti per la difesa nazionale. Accettiamo l’augurio della concordia e dell’unione in certi momenti. Solo osserviamo che l’invito andava diretto non a noi, ma a coloro che, collo spirito di setta e di prepotenza, questa cooperazione rendono, ad uomo coerente nei suoi principii, impossibile. Non a noi andava diretto l’invito che abbiamo l’onore oggi di aver fra noi come oratore, l’amico Luigi Carbonari, lo strenuo difensore dell’italianità, dove l’esserlo è grave e pericoloso. (Applausi prolungati). A questo giovane, che appartiene alle nostre file, vogliamo oggi rendere omaggio, tanto più che il plauso dei non consenzienti, è venuto meno quando s’è scoperto, che a quella strenua opera di difesa, lo guidavano i suoi principi intransigentemente cattolici. Chiedo quindi scusa alla sua modestia, ma ritengo doveroso, che il congresso degli studenti, riconosca i suoi meriti e lo additi al pubblico come esempio. (Applausi). Il dott. Degasperi presenta quindi il seguente ordine del giorno, che viene accolto da applausi fragorosi e grida di viva S. Sebastiano, viva Carbonare, viva lo studente Carbonari! Il congresso di Mezolombardo, mentre protesta contro gli attentati del Tiroler Volksbund diretti contro l’integrità nazionale del Trentino, eccita studenti e popolo tutto ad opporsi con tutte le forze agli avversari nazionali, addita all’ammirazione ed all’esempio dei trentini la difesa dei benpensanti del comune di Folgaria e in modo speciale l’opera energica ed efficacissima dello studente Carbonari.

La scopa di Francia

388049
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

I vescovi austriaci nell’ottobre di quest’anno indirizzarono ai credenti una pastorale comune, nella quale i due movimenti vengono caratterizzati come sopra e vien detto ai cattolici: «Voi non dormirete, mentre il nemico si accinge a spargere fra il grano la zizzania, ma veglierete e colla vostra vigilanza e fortezza ne manderete a vuoto i tentativi». E perché noi vegliamo, perché ci schieriamo attorno ai vescovi per la difesa degli interessi religiosi siamo detti clericali e i nostri avversari anticlericali? No, qui si tratta di cattolici o di non cattolici. Volete sapere come la pensano i liberali-radicali del Trentino in proposito? È un po’ difficile, perché a fatica prendono posizione aperta in questioni siffatte, amano meglio farsi eleggere con programma nazionale ed esercitare più tardi incontrollati il loro giacobinismo alla Camera com’è accaduto altra volta. Però, a lungo andare, la botte lascia trapelare di quel vino che ha. L’Alto Adige definiva la pastorale dei Vescovi austriaci una brutta lettera sinodale (Alto Adige 19 nov.) e s’augurava la fine della confessionalità dell’Austria. Che cosa l’autore intendesse sotto questa parola è evidente da tutto l’articolo. Il «grande conflitto» a cui accenna l’Alto Adige non è che il conflitto fra Chiesa e Stato o meglio fra cosiddetta coscienza moderna e gli storici principi del Cristianesimo. Ma un altro giornale liberale il Messaggero di Rovereto parlò ancora più chiaro e rivolgendosi ai liberali dell’Alto Adige scrisse ai 17 nov.: «Uniamoci tutti invece con ferma fede ed attività di lavoro per opporci a questo oltracotante clericalismo che ha già sfruttato il Trentino. Non è ancora maturo il popolo italiano per adoperare la scopa di Francia! Ma educhiamolo almeno che, quando sarà fatto conscio di sé saprà dire la sua sovrana parola». Queste parole, contenute in un articolo tutto intiero dello stesso spirito sono un programma, sono un programma, come si suol dire, di anticlericalismo o come più esatto, di lotta nelle questioni ecclesiastico-religiose. Si vuole il bloc anticlericale per educare il popolo, affinché sia degno della scopa di Francia. Sapete che roba è questa scopa di Francia? La scopa di Francia è quella che ha spazzato via il nunzio della S. Sede da Parigi sicché il Vicario di Cristo venne proclamato in Francia uno «straniero», la scopa di Francia ha spazzato via frati e monache dai loro conventi, ha cacciato l’insegnamento religioso dalle scuola ed ora spazzerà fuori dalle Chiese tutti i sacerdoti che rimarranno fedeli al papa. Ecco la scopa di Francia che si augura al Trentino, ecco il fine a cui tendono educando intanto il popolo a tali gloriosi destini. Donde si vede che anche i nostri radicali prendono parte al movimento anticattolico generale e che se non combattono più energicamente «la rude campagna» è solo perché il popolo è ancora credente, non maturo. Qual è il' dovere dei cattolici di fronte a tale situazione? 1) Tener fermo all’educazione cristiana del popolo ed educarlo cristianamente anche nella vita pubblica. Propagate quindi anzitutto la stampa quotidiana. 2) Partecipare attivamente alla vita pubblica, occupandosi di politica, elezioni e organizzazione. Fatevi quindi soci attivi della Unione politica popolare trentina, ossia divenire membri coscienti del Partito popolare trentino il quale si propone anche la difesa della libertà della Chiesa e degli interessi religiosi. L’oratore, dopo aver accennato alla nuova situazione elettorale, conclude la sua applaudita conferenza con un appello a tutti i consenzienti. Per vincere sono necessarie tre cose 1) coraggio e coscienza d’essere la maggioranza del paese 2) contatto col popolo e agitazione incessante delle nostre idee 3) ferrea disciplina che lascia da parte tutte le questioni secondarie, per raggiungere lo scopo comune. Nelle prossime elezioni generali noi ci presentiamo con un programma apertamente nazionale e sinceramente democratico, ma vi poniamo a capo la questione detta falsamente «anticlericale» ed esattamente religiosa. Si tratterà della scopa di Francia. Attenti dunque al manego della scopa di Francia!

L'evoluzione della cultura e la stampa quotidiana

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Migliaia e migliaia d’anni rizzano al cielo le cime loro, le superbe mon-tagne del Tibet: migliaia e migliaia d’anni le squarciano i fulmini, le fendono i ghiacci, le tormentano le bufere e pare quasi che quei giganti sotto l’ira secolare del cielo, stretti, soffocati dalle nubi che eternamente s’accumulano intorno al loro capo, soffrono di un immenso e disperato dolore e piangono da tutti i pori dalle grandi ferite del tempo, per le quali esce l’acqua copiosa, a rivi, a torrenti, a fiumi. E l’acqua continua l’opera di distruzione sulla china, alle falde, alle basi, raccoglie a valle i frammenti, i detriti, il fango strappato alla montagna nella lotta eterna degli elementi, scende il declivio, s’avvia alla pianura e qui distende pacifica il famoso limo della «terra gialla», depone quegli strati uniformi, che sono i più fertili, i più fecondi del mondo. Gli uomini vi seminano, vi fabbricano e benedicono alle acque generose. Nella pianura dell’Hoango nasce il benessere, la ricchezza, la civiltà. Ma lassù il lavoro, la distruzione continua, senza tregua; finché un giorno l’ira del cielo imperversa più forte, i frammenti della montagna precipitano al basso, spinti dal diluviare delle acque e il fiume ove l’ingordigia umana gli rizzò una diga proprio di contro oppure ove la cecità dell’uomo lo volle costringere ad una direzione opposta al naturale andare dell’elemento, abbatte argini ed ostacoli, invade e distrugge la campagna e l’abitato, porta ovunque desolazione e morte... Poi il cielo e i giganti del Tibet si concedono tregua, altri uomini traggono sul limo nuovo, nuovo benessere e nuova vita, finché non risuoni ancora il rombo del tuono e il diluvio susseguente non trovi uomini non ancora ammaestrati dalla storia delle generazioni passate. Così da millennio a millennio, da secolo a secolo. Signore e signori! La storia del fiume giallo e della sua terra è la storia della cultura umana. Anche questa ha la sua evoluzione eterna, il suo fatale andare. Nel corso delle ere più remote, nello svolgersi delle epoche più vicine, in tutte le fasi e i tempi presenti, possiamo figurarci il progresso della cultura come una dispersione dei frammenti di queste masse enormi e rozze ancora, di quella vergine montagna ove stanno accumulate tutte le energie umane: materiale greggio che viene mano mano usato dai popoli nella fattura della civiltà. E anche qui, talvolta sopravvengono dispersioni violente che interrompono la pacifica evoluzione. Sono inondazioni morali che abbattono e distruggono chi vi si pone di contro perché ignaro del limo che le acque travolgono sotto o chi senta di dar direzioni artificiose all’elemento che cammina, com’è natura sua.

Comizi fiemmesi

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Corradini, l’egregio segretario luogotenenziale tanto benemerito dell’attuale soluzione, si diffonde poi più largamente a parlare dell’ultimo secolo, delle disposizioni dei governi bavaro, italico ed austriaco, che condussero infine all’amministrazione degli undici capi comune, la quale, secondo i decreti dell’autorità, doveva sussistere fino che fosse compiuta la divisione di tutti i beni fra gli undici comuni. La divisione totale non avvenne né in via amministrativa né in seguito ai processi divisionali che durarono dal 1823 fino al 1888. La divisione non poté farsi o perché i comuni non s’accordavano intorno alle parti che sarebbero loro toccate, o perché nelle sentenze non si ammetteva come base di divisione il numero della popolazione, affermando che la comunità non era da eguagliarsi ai comuni, ma ad una società privata vicinale. Da tali sentenze e dall’esito dei processi dei non vicini, (quelli del tribunale dell’Impero del ’72 e del ’74, dalla maggior parte delle sentenze del tribunale amministrativo fino al 1891), attinse forza il movimento «vicinale» che s’incamminò per le vie legali con la petizione del 27 agosto 1897. La petizione veniva respinta. Sono poi noti i fatti del maggio 1906 e la conseguente causa dei vicini che finì con le due sentenze del 25 aprile 1907 e 21 ottobre 1907. Siccome esse rappresentano lo stato giuridico della comunità in quel momento in cui si procedette al compromesso, fissato nello statuto provvisorio è bene che ci soffermiamo a considerarne il contenuto. In queste sentenze — e qui seguiamo l’esposizione del dr. Corradini — troviamo rilevato: 1) che la comunità di Fiemme prima del 1807 era un comune politico complessivo; 2) che con disposizione del Regio Governo bavaro 4 gennaio 1807 fu sciolta la Comunità quale comune politico e costituite le undici regole a comuni indipendenti, cioè divisa la Comunità in undici comuni; 3) che il patrimonio della cessata Comunità fu in parte suddiviso fra i comuni e che il rimanente fu e viene in base a misure amministrative del Regio Governo italico, riconosciute legali ed ulteriormente sviluppate dal Governo austriaco, amministrato quale bene e patrimonio comunale per conto degli undici comuni da una commissione (consesso) istituita quale rappresentanza comunale; 4) che questo patrimonio, in ispecie le vaste ed assai ricche foreste rimasero anche dopo lo scioglimento dell’unitario vincolo comunale, cioè dopo la divisione dell’antica comunità in undici comuni, destinata a quelli scopi politici ai quali servirono prima dello scioglimento: strade, affari sanitari, provvedimenti, poveri, scuole, ecc. cioè per scopi comunali; 5) che l’amministrazione del patrimonio della cessata comunità a nome e per conto degli undici comuni per scopi comunali forma una istituzione a senso del paragrafo 83 regolamento comunale, vale a dire la comunità come sussiste attualmente è una unione, un complesso di comuni e non già un complesso di vicini; 6) che il consesso non era soltanto una negotiorum gestio, nella quale si immischiarono gli undici capi comune ed il loro presidente senza mandato; lo sviluppo storico della comunità dopo il suo scioglimento quale comune politico della valle — dice il Tribunale amministrativo — comprova chiaramente che l’amministrazione finora esistita (cioè il consesso) si basa su disposizioni autoritative della supremazia dello Stato, che regola gli affari comunali, disposizioni che, dopo ritornato il Governo austriaco, vennero riconosciute legittime e tenute ferme. Il consesso non era quindi di un organo abusivo ma legale; 7) che la giunta provinciale in forza del diritto di sorveglianza conferitole dalla legge era in grado ed è obbligata a tutelare i diritti dei comuni di fronte alle pretese di terzi (cioè dei vicini) fino a tanto che, forse in seguito ad un processo civile, sarà creata una condizione giuridica che obbliga a desistere da diritti finora esercitati dai comuni. In proposito osserva poi il Tribunale amministrativo che i tentativi dei vicini non hanno finora sortito un esito favorevole come risulta dalle sentenze del 31 ottobre 1900 26 aprile e 2 luglio 1901. Tale è la condizione giuridica della comunità. In via di fatto poi tro-viamo l’amministrazione ufficiosa, con la direttissima ingerenza della Giunta. La luogotenenza pensava anche di imporre alla comunità un nuovo statuto. Di fronte a che sorse l’idea dello statuto provvisorio che inaugurasse un periodo di transizione, salvando più che fosse possibile influenza e diritti dei vicini e introducendo una progressiva democratizzazione dell’amministrazione della comunità. Chi trattò l’oggetto del compromesso fu — nel modo sopraddetto — l’on. Paolazzi, chi lo formulò, il dr. Corradini, al quale i fiemmesi devono sincera gratitudine. Lo statuto trovò oggi opposizione ad Innsbruck, dove si volevano maggiori restrizioni. Finalmente venne approvato.

Il discorso dell'on. Degasperi al convegno universitario di Mezacorona

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Alcide de Gasperi 2 occorrenze

Vale insomma oggi quello che l’oratore ebbe a dire vent’anni fa: «che la differenza capitale fra questo nostro punto di vista e quello degli altri sta in ciò, che gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per il quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umamità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria in senso della nazione, sull’altar della quale debbasi sacrificare ogni convinzione e ogni diritto individuale umano. Che cosa infatti si vuol insegnare alla gioventù se non altro che la Nazione, va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Noi in particolare delle Nuove Provincie che abbiamo imparato a sentire che cosa sia la Nazione nel lungo tormento dell’esserne dalla violenza straniera disgiunti, sappiamo valutare in tutta la sua bellezza ogni sforzo che tenda a farla risorgere nelle coscienze e negl’istituti del paese; ma anche tale attività dovrà andare soggetta alle norme della morale e ai principi immutabili della giustizia. La rappresaglia e la legge del taglione sono Vecchio Testamento. Cristo ci ha dato un Testamento Nuovo! L’on. Degasperi termina eccitando i giovani a sollevare lo spirito al di sopra delle lotte presenti, a non lasciarsi vincere dalla tristezza dello spettacolo quotidiano, a tenere fisso lo sguardo a quanto è secolare, permanente, divino nello svolgimento della nostra civiltà italica e cristiana. Ogni volta, egli dice, che spinto dal bisogno irrefrenabile di cercare come nel cielo un’idea che mi elevi al di sopra dei contrasti terreni m’innalzo fino dentro la cupola di Michelangelo a contemplare dipinti nell‘ampio empireo Angeli e Santi che fanno corona alla Tomba apostolica, penso con infinito orgoglio che qui ove s’incurva il duomo della mia religione universale s‘innalza anche il tempio del genio della mia stirpe e al di sopra delle delusioni presenti, rinnovo nel mio spirito rinfrancato la visione dei grandi e sicuri destini della Patria.

Ricordata la situazione locale, caratterizzata da un nucleo assai esiguo di cattolici militanti, da un movimento sociale economico nel primo sviluppo, da un’organizzazione Sindacale deficiente e dalle totale mancanza di una organizzazione politica, il Degasperi descrive a rapidi tocchi la situazione generale, nei suoi rapporti col pensiero cristiano. Nel movimento sociale incalzava il socialismo, venuto finalmente colle sue ondate a cozzare anche contro le nostre Alpi e, nei riguardi più particolarmente nostri, s’imponeva con tutto il vigore la dottrina sociale della Rerum Novarum. Quest’enciclica aveva constatato che nel mondo capitalista un piccolissimo numero di straricchi avevano imposto alla infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile; respinta la dottrina socialista della comunanza dei beni, aveva rilevato però la funzione sociale della proprietà; aveva insegnato che nelle contrattazioni fra lavoratori e datori di lavoro entra un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti e constatato che interessa allo Stato che sia inviolabilmente osservata la giustizia, che una classe di cittadini non opprima l’altra, aveva dichiarato «che il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, non impedirne o punirne le violazioni... le misere plebi che mancano di sostegno proprio, hanno specialmente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato... E, agli operai, che sono del numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua». Con tali insegnamenti veniva decisa in senso affermativo la vessata questione della liceità e dell'opportunità dell’intervento dello Stato nei rapporti economici dei cittadini, allo scopo di tutelare i più deboli.

Il partito polare e le elezioni comunali

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Il più celebre fu l’imbrattamento del busto a Canestrini, accaduto al 23 settembre 1903. Benché La Voce Cattolica protestasse contro l’autore di tale atto e fosse probabilissimo l’intervento di qualche agente provocatore (fatti recenti ci hanno confermato dove stiano di casa gli imbrattatori), gli anticlericali di tutte le gradazioni mossero all’attacco. I consiglieri comunali della Democratica, con pensiero altamente geniale, proposero di ribattezzare l’antica via San Pietro in via Canestrini, e in piazza e per le vie si inscenarono dimostrazioni violente. La ragazzaglia insultava i preti e i pochi che avevano il coraggio di dire il proprio biasimo, la polizia lasciava fare, fino che ad un suo membro influente parve che i «preti i ghe n’avessa abbastanza». In protesta i deputati conservatori alla Dieta presentarono al 9 novembre un’interpellanza in cui era detto: «Per quanto sia da deplorarsi e riprovevole l’atto vandalico di chi ha sfregiato il busto a Canestrini, è ancor più deplorevole che dell’atto di un Singolo, di cui ignorasi a qual partito appartenga e che ogni partito certo disdegna e sconfessa, si tragga argomento, per inveire contro un intero partito e contro un intero ceto di persone». I democratici trovarono l’interpellanza offensiva per la città di Trento e telegrafarono al podestà, dr. Brugnara, capo del club dietale, un aperto biasimo. Perché aveva egli permessa la presentazione della interpellanza da parte dei conservatori, perché non aveva levata la voce contro simili attacchi? In protesta l’«Alto Adige» annunziava la candidatura dietale del candidato avv. Silli, in sostituzione del dimissionario Bertolini. Si accusava in genere i deputati liberali di troppa cedevolezza di fronte ai «clericali», ed i due capi d’accusa principali erano questi: primo, l’omissione della protesta suddetta, poi la firma ad un telegramma di condoglianza per la morte del principe vescovo Valussi. Tali le solenni origini della nuova democrazia. Il Popolo stava in cattedra ed augurava che da parte degli anticlericali si cancellasse non solo la macchia del busto, ma «si lavori a cancellare anche dal paese l’onta e la vergogna di un partito che della verità della scienza e della libertà è e sarà implacabile nemico». Invero alla loro messa anticlericale i democratici vollero più tardi dare anche un’interpretazione di radicalismo nazionale diretto contro il fatto che tutti i deputati dietali avevano sospesa l’ostruzione per votare gli aumenti di stipendio ai maestri. Così, l’«Alto Adige» dei 23-24 dicembre, riassumendo, stampava: «I democratici hanno protestato a ragione contro un indirizzo della politica provinciale sommamente dannosa al paese e se la loro protesta ha fatto prendere cappello alla moderateria trentina, i democratici non hanno che vederci. Con molto maggior ragione si potrebbe, caso mai, asserire, che la causa dello stato presente si fu il procedere dei deputati della Dieta, del tutto contrario agli impegni da essi presi di fronte agli elettori». Le conseguenze politiche sono note; rottura del compromesso liberale-conservatore, proclamato una volta il patto della concordia e della dilezione contro il nemico comune, venuto oggi in disprezzo quasi fosse un vergognoso connubio, il disgregarsi in due frazioni del partito liberale, la vecchia delle quali, forte specialmente in Rovereto, non volle mai ammettere la fondatezza delle accuse mosse dai democratici, e nel campo cattolico il fortificarsi dell’idea essere necessario ed urgente di organizzarsi politicamente in base ad un programma popolare e proprio. Siamo ai natali dell’unione politica. Ma a noi oggi interessano soprattutto le conseguenze dell’attacco anticlericale nell’ambito dell’azione comunale di Trento. Il dr. Brugnara che aveva deposto il mandato dietale, al 23 novembre dimise la carica podestarile. Lo seguì il vicepodestà conte Manci che, alle ragioni del podestà, aggiunse le sue preoccupazioni per la finanziazione della nuova impresa: la centrale del Sarca; e poi la Giunta che fece atto di solidarietà col primo cittadino. Dopo parecchi tentativi di ricostituzione arrivammo al commissario governativo che per il marzo del 1904 indisse le elezioni generali. I democratici, decisi ormai ad assumere il potere, si allearono coi socialisti. La lista conteneva parecchi i.r. impiegati e (ahi, somma sventura!) un ex guardia di polizia di parte socialista. Questa grave circostanza doveva riuscire fatale alla novella democrazia! Caratteristico è che dei candidati comuni non comparve un programma comune. Ciascuno pubblicò un’edizione propria colle specialità dell’officina. Il Popolo prometteva senz’altro l’abolizione e la riduzione di tasse, l’«Alto Adige», più guardingo non prometteva niente, ma a chi domandava come si farebbe poi a finanziare la centrale, rispondeva sdegnosamente che a questo ci penserebbero loro. Comune era invece l’intonazione anticlericale. Alla vigilia delle elezioni, nel comizio, il dr. Battisti, volgendo lo sguardo alla nuova era, augurava che a Trento «invece di guglie, di chiese e campanili si vedessero fumaiuoli e camini, la ricchezza di Trento». Alla coalizione radicale si oppose una coalizione conservatrice. Nel suo programma erano i seguenti caposaldi: rispetto ai sentimenti della cittadinanza, unione di Trento con le valli, evitare attriti per questioni religiose. In affari amministrativi i due programmi erano identici, solo che in quello dei conservatori si accentuava la necessità delle economie. Al 14 marzo si svolse la lotta del terzo corpo. I radicali vinsero con un massimo di 626 voti, la coalizione moderata soccombette, raccogliendo sui capilista Brugnera e Peratoner non più di 551 voti. Con tale votazione incomincia l’era democratica in comune. L‘oratore non vuole indugiarsi a descrivere la storia, perché è cosa di ieri e perché si può racchiudere in poche parole: nessuna democrazia (si pensi al contegno del Municipio di fronte ai padroni fornai col conseguente rimipicciolimento del pane, si pensi alle tasse sull’acqua ed al modo con cui venne imposta), nessuna discussione pubblica ed una notevole paura del socialismo al quale anche quando l’idillio è rotto si concedono non solo sovvenzioni materiali ma si fa largo per ogni manifestazione che non sia direttamente antiliberale. L’oratore tocca alcuni episodi elettorali dell’era democratica. Nel dicembre del 1895 i cattolici, all’ultimo momento, con brevissima preparazione, raggiunsero nel terzo Corpo 300 voti, la metà circa dei voti radicali. Nel secondo corpo si ebbe una votazione-protesta degli impiegati, i quali riunirono sul nome di Antonio Tambosi 61 voti. Gli impiegati raccoltisi, in adunanza all’Hotel Europa rispondevano alle provocazioni dell’«Alto Adige» con una risoluzione nella quale si protesta contro «un sistema a base di intollerante invadenza, di intemperante soperchieria, di demagogica tracotanza da noi non temuto, sistema che già da troppo tempo perdura e che inasprisce e nausea la parte più sana ed eletta della città e delle valli, che, indignate, rifuggono dal loro centro. È ora di finirla!». È a questo turno di tempo che risale la rottura coi socialisti in causa di quella malaugurata ex guardia, che i democratici avrebbero magari tenuta per buona come comandante degli agenti municipali, ma non come consigliere. E veniamo al 1907. In maggio i democratici o buona parte di loro levano sugli scudi il socialista Avancini, ma in dicembre, alla vigilia delle elezioni comunali, ai medesimi «compagni» viene dato il bando, perché antinazionali. «Il socialismo trentino avverte l’Alto Adige (30 novembre) - si ispira a quelle idee sindacaliste ed internazionalistiche, alle quali nessun trentino potrà mai dare quartiere finché il terreno non sia completamente sbarazzato da tutte le piccole e grandi insidie che minano la nostra esistenza nazionale». E più innanzi, parlando della sovvenzionata Camera del lavoro: neghisi il voto ad «una istituzione che si apparta ostentativamente quando si tratta di combattere i nemici della nostra patria e qualifica come gazzarra una nobile lotta ingaggiata nel nome del principio di nazionalità». Tale rottura coll’ala socialista dell’antica alleanza parve consigliare uno spostamento verso destra. Ma i moderati, alle sollecitazioni di parecchi di ritornare almeno nel Consiglio, risposero con un diniego, osservando che il Consiglio deve condividere le responsabilità della Giunta dalle quali i moderati rifuggono (Unione, 14 novembre) e il barone Salvotti, al quale si rinfacciava un trapasso troppo immediato dal Comitato Diocesano alla Lega democratica, si vantava ad elezioni fatte, d’aver saputo tener lontani dal Consiglio comunale «certi faziosi che avrebbero tirato addosso al partito democratico il rimprovero di aver fatto un passo indietro, con grave suo danno, relegando invece i moderati nell’abbandono oblivioso in cui li ha lasciati la cittadinanza trentina». Caratteristico è il disinteresse, con cui si svolsero queste elezioni. Si ha infatti la seguente statistica: III corpo: elettori iscritti 1900, votanti 587, cioè il 30%; II corpo: elettori iscritti 595, votanti 136, cioè il 24%; I corpo: elettori iscritti 60, votanti 13, cioè il 21%. E si noti che fra i 587 votanti del III corpo sono comprese circa 200 procure! Non entra a discutere la gestione finanziaria dell’era democratica, non intendendo oggi il partito di presentare una propria lista con un programma economico dettagliato, ma fa semplicemente osservare che il partito dominante, in 5 anni di amministrazione, lasciando da parte tutto il resto è arrivato ad un sorpasso di un milione128 mila, ad un nuovo debito di un milione e mezzo e quel che è peggio ad un deficit che risulta tutt’altro che provvisorio di almeno 100 o 120 mila corone annue, da coprirsi con nuovi balzelli. Ma forse è migliore e più favorevole il bilancio morale della era nuova? Non vogliamo dire l’opinione nostra che potrebbe parere troppo soggettiva. Leggete Il Popolo di giorni fa. Si tratta degli alleati e dei commilitoni di 5 anni or sono. «A Trento — stampa il foglio socialista — c’è un Consiglio comunale in cui prevalgono i poltroni, gli inerti, gli eterni muti. Non discutiamo l’indirizzo (qualche volta si potrebbe dire il non-indirizzo) del partito che tiene le redini del Comune, constatiamo che fra i 36 consiglieri ci sono troppe teste vuote, troppe animucce imbelli, troppa gente che tien la carica come un gingillo. Il Consiglio comunale non è in massima composto dalle migliori forze, non diciamo della città, ma neppure del partito dominante. A Trento — e purtroppo l’abitudine è antica — nel Consiglio civico per un consigliere intelligente ci sono quattro o cinque che si lasciano tirare pel filo come le marionette. Tutto quello che sanno fare due terzi di essi è — quando lo sanno — votare, secondo gli ordini del padrone. Le discussioni sono state abolite nel consesso di Trento. Tutt’al più si fa qualche discorsetto rettorico — da qualcuno magari imparato a memoria sul manoscritto di terzi — o un po’ di pettegolezzo sulle questioni di minor importanza». Ma non migliore giudizio ci pare risulti dalla posizione che oggidì assume l’organo municipale, l’Alto Adige. Nella settimana testé decorsa sono comparsi tre articoli, che sembrano scritti dalla Maddalena pentita? L’Alto Adige si rivolge a quella che un tempo fu chiamata «moderateria» e: taccian, pare ripeta. Taccian le accuse e l’ombre del passato Di scambievoli orgogli acerbi frutti Tutti un duro letargo ha travagliato Errammo tutti. Oggi in più degna gara a tutti giova Cessar miseri dubbi e detti amari Al fiero incarco della vita nuova Nuovi del pari. Questa volta il «fiero incarco» sarebbe naturalmente quello di pagare i debiti. O meglio ancora la posizione dell’«Alto Adige» ricorda il «Mira, o Norma — ai tuoi ginocchi questi cari pargoletti, Deh! pietà...». Leggete infatti gli articoli di fondo sopralodati, in cui si fa appello a coloro che «per ragioni di coltura, di censo e di aspirazione dovrebbero dare l’indirizzo nel seno del partito liberale» e si parla della necessità di richiamare in consiglio i moderati per dargli l’autorità ed il valore voluto dal momento attuale. Bel complimento ai consiglieri d’oggi! La finale poi è commovente come quella dei drammi degli oratori. E un inno alla «nuova era di pace e di lavoro concorde, la quale sarà apportatrice di nuovi benefici alla nostra città diletta» ed un sacro giuro di voler collaborare «all’opera benedetta della concordia cittadina». In tale lacrimevole ed umile intonazione dunque doveva finire dopo un lustro appena la fanfara di guerra della democrazia liberale? Ma a noi poco importa se dinanzi a tale compunzione — dice qui il relatore — Norma s’impietosirà o meno e se i moderati si sobbarcheranno al nuovo «fiero incarco», a noi importa rilevare con quali intenti si tenta la concentrazione delle forze liberali rispetto al nostro partito, l’«Alto Adige» non vi lascia in dubbio. La preoccupazione prima e sempre quella che i clericali non entrino in Municipio. «Teniamo le polveri asciutte!» avverte l’«Alto Adige»: non si sa mai! Per questo sforzo anticlericale, per questo bando da mantenersi ad ogni costo contro i nostri aderenti, invano cercherete ragioni plausibili. Forse che siamo un manipolo trascurabile? Le elezioni parlamentari del maggio 1907 hanno dato 960 voti a noi e 934 ai liberali. Forse che non paghiamo imposte in misura ragguardevole? Si pensi solo a quello che pagano le istituzioni centrali del nostro movimento. A mo d’esempio la Banca cattolica di tasse comunali paga 20.700.16 corone annue, la Banca Industriale, il cui capitale è anche in gran parte dei nostri consenzienti, paga 21.489.79. Forse che i deputati del nostro partito combattono gli interessi di Trento? O non è vero invece che in molti problemi di capitale importanza per la città, l’opera dei deputati popolari e ricercata e largamente data? Nessuna ragione oggettiva quindi, ma solo lo spirito di fazione cagionano l’ostracismo che si vuole a qualunque costo mantenere contro di noi. Di fronte a che noi non ci inchiniamo per chiedere delle concessioni, ma domandiamo ad alta voce il nostro diritto. Diritto che si risolve in una protesta contro un sistema elettorale che dà mandato assoluto ad una minoranza d’imporre balzelli sulla maggioranza. E qui il relatore si diffonde a spiegare il vigente sistema che risale al 1889 e la riforma votata per l’ultima volta nel Consiglio comunale ai 3 settembre 1903, e che ora è in Dieta, aspettando l’approvazione della rappresentanza provinciale. La riforma introduce un quarto corpo coi caratteri della vecchia quinta curia parlamentare. Noi temiamo però che anche con tale riforma con pretesti anticlericali si riesca ad escludere dal Municipio il nostro partito, non per la forza dei nostri avversari presi a sé, ma per le coalizioni che si formeranno in odio contro di noi. Chiediamo quindi che il nuovo sistema permetta la rappresentanza delle maggioranze. In Italia l’articolo 74 della legge 4 maggio 1898 prescrive che «ciascun elettore ha diritto di scrivere sulla scheda tanti nomi quanti sono i consiglieri da eleggere, quando se ne devono eleggere almeno cinque. Quando il numero dei consiglieri da eleggere è di cinque o più, ciascun elettore ha diritto di votare pel numero intero immediatamente superiore ai quattro quinti». In tal maniera un quinto di eletti apparterrà ad un partito di minoranza. Ma più equo e più sicuro è il sistema proporzionale. L’oratore descrive la marcia del principio proporzionale nei corpi rappresentativi politici, dove però è ancora discutibile se sia da preferirsi un grande frazionamento di partiti alla base sicura di Governo che dà una forte maggioranza. Ma certamente accettabile è la proporzionale per i corpi amministrativi. Essa fu introdotta anche recentemente in Baviera, in parecchie città austriache e in tutte le città del Vorarlberg che ha copiato il sistema dalla vicina Svizzera. Nel Vorarlberg vige il sistema della lista obbligata. I partiti cioè devono presentare 14 giorni prima al magistrato la lista dei propri candidati. Il magistrato esamina le liste e se qualche candidato è contenuto in più liste, gli chiede se a ciò ha dato il suo assenso o meno: in caso negativo il suo nome viene cancellato dalla lista che egli non accetta. Poi sei giorni prima delle elezioni, le liste vengono pubblicate come liste riconosciute. Nel giorno elettorale gli elettori, se vogliono che il loro voto abbia un valore effettivo, devono darlo ad una delle liste riconosciute. Chiuso l’atto elettorale, la commissione constata il numero dei votanti, divide questo numero per il numero dei consiglieri da eleggersi, il numero che risulta è il quoziente elettorale. Quante volte questo quoziente sta al numero di voti dati a ciascuna lista, altrettanti consiglieri spettano a tale lista. Si fa notare che per quoziente non si prende proprio il risultato netto della divisione suddetta, ma per evitare frazioni, il numero immediatamente superiore a tale risultato. Per esempio: sono da eleggersi 6 consiglieri. Il numero dei votanti è 216. 216: 6 + 1 = 30 e frazioni; il quoziente elettorale è quindi 3 — 1, e le liste vanno divise per tal numero. Il risultato ci dà il numero dei consiglieri che spettano a ciascuna lista. Un altro sistema è quello delle liste libere o di concorrenza, nel quale caso non occorre presentare previamente le liste dei candidati. Il relatore spiega anche questo sistema. Ma senza entrare in questioni di dettaglio, a cui provvederanno i legislatori, l’oratore ritiene che la proporzionale porti tali vantaggi per un’amministrazione controllata e sia così equa, che si raccomandi da sé. Si tratta di dare ad ogni partito quello che gli spetta. Non vuole entrare nella questione se si debba introdurre accanto alla proporzionale il suffragio uguale con un corpo elettorale solo. Tale postulato rinvierebbe la riforma alle calende greche. Nel Vorarlberg si è semplicemente introdotta la proporzionale in ogni corpo, lasciandoli tutti e quattro. Ritiene che anche il partito dominante non dovrebbe opporsi a tale riforma, poiché non si tratta di dare la scalata né di conquistare la maggioranza, e d’altro canto un deputato nazionale liberale l’anno scorso propugnava nell’Alto Adige la proporzionale. Egli si limita a presentare il seguente ordine del giorno: Gli elettori comunali di Trento, aderenti al partito popolare, constatando che né il regolamento elettorale cittadino attualmente in vigore, né la riforma sottoposta per l’approvazione alla Dieta provinciale corrispondono ai criteri di equità, imposti dai moderni bisogni; chiedono che accanto al massimo ampliamento possibile dell’elettorato comunale, si aggiunga l’introduzione della rappresentanza proporzionale di partiti. Tale conchiuso verrà presentato al podestà di Trento ed ai capi della deputazione dietale italiana. Il dr. Lanzerotti aderisce alla relazione del dr. Degasperi ed aggiunge agli argomenti già addotti, che non si potrà certo negare ai popolari la pratica amministrativa necessaria per i consiglieri comunali né ancora si potrà tacciarli di non aver riguardo ai sentimenti nazionali, quando si faccia un salutare confronto fra la Trento-Malè, il cui progetto era in mano della città di Trento, e la Dermulo-Mendola in mano di un nostro istituto. Il dr. Degasperi eccita i consenzienti a raccogliersi più di frequente ed a fare sentire la propria voce affinché non ci si tratti come cittadini di secondo grado, mentre si accumulano colpevoli transigenze verso il partito socialista, L’ordine del giorno venne accolto con prova e controprova ad unanimità. L’on. dr. Cappelletti crede di interpretare il pensiero dei propri colleghi dietali del Club popolare, affermando che si interesseranno della cosa nel senso voluto dall’ordine del giorno. Già nell’ultima sessione dietale l’on. Decarli fece delle riserve a proposito della riforma elettorale presentata alla Dieta per l’approvazione. I deputati non mancheranno di propugnare il principio equo della rappresentanza proporzionale. Con ciò dichiara chiusa la riuscita adunanza.

Parlamento e politica

388113
Luigi Sturzo 3 occorrenze

Così impostata la battaglia, viene naturale rispondere al primo quesito se oggi sia matura una sintesi programmatica che interessi profondamente la nazione come cardine politico; questa sintesi è data da una compagine statale forte, coerente in sé, atta a superare le difficoltà interne ed esterne e resistere ai movimenti di disgregazione. Il bisogno ne è sentito da tutti, e tutti convengono che per ottenerlo è necessario in primo luogo il risanamento della finanza statale, il ripristino della forza della legge, la sicurezza dei rapporti con l’estero. Politica finanziaria, politica interna e politica estera sono tre cardini inscin¬dibili dello stato. Lo sforzo fatto dall’Italia dopo la guerra per superare la crisi che l’ha minata proprio al centro di questi tre cardini della politica statale, è stato eccezionale. Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

E mentre gli uni credono che a rafforzare la compagine statale e darvi valore all’interno e all’estero devesi insistere ancora di più nella concezione dello stato centralizzatore, e aumentano ogni giorno la cerchia delle sue attività; altri, con noi, credono all’inverso che lo stato debba essere solamente organo politico attorno ai tre cardini della politica finanziaria, della politica interna e di quella estera e a quanto vi è inerente per la difesa del territorio, per la tutela della giustizia e del diritto e per il coordinamento e la integrazione delle altre attività pubbliche del paese. Da questa concezione noi deriviamo gran parte del nostro programma di ricostruzione pratica, in rapporto coi problemi più vivi e agitati che rispondono oggi alle esigenze im¬mediate e preparano il domani forte e risolutivo. I problemi fondamentali della nostra vita sono tre: uno economico, l’altro organico, il terzo spirituale. Il partito popolare italiano fin dal suo sorgere ha visto questi problemi nella loro ragione astratta e nella loro portata reale, e ha voluto precisare nel suo programma il punto di vista differenziale e fondamentale, quando ha riaffermato come punto di partenza e di arrivo la libertà. È il nostro motto: è stato il nostro grido, il fondamento del nostro appello. Parve strano, ci è stato negato che fosse necessario proclamarlo perché esisteva, hanno dovuto accorgersi, nel travaglio del dopo guerra, che la libertà in gran parte non esisteva più, era soffocata. Non la libertà economica, nelle costrizioni statali, negli inceppamenti formalistici e nelle ingiuste protezioni; non la libertà organica, nei privilegi particolaristici, nell’abolizione dell’autonomia, nell’accentramento burocratico; non la libertà morale, nella scuola monopolizzata, nella chiesa ancora sottoposta a vincoli esterni ed economici ed a proibizioni giuridiche, resti di vecchio giurisdizionalismo vuoto di senso. Lo stato e debole dove dovrebbe essere forte: nella tutela della legge, nel rispetto al diritto dei cittadini, nella garanzia allo sviluppo di tutte le libere energie; è invece forte dove non dovrebbe avere ingerenza diretta, ma solo coordinatrice e integratrice: nello sviluppo di tutta la vita che ferve alla periferia e che crea le energie produttrici del paese, morali, organiche ed economiche. Non noi solamente, molti furono anche gli uomini, studiosi e parlamentari, che all’indomani della guerra affermarono la necessità del ritorno alla libertà economica, per riprendere rapidamente il ritmo della produzione alterata e arrestata durante la guerra. Gli stessi uomini di governo vi aderirono; però, strano a ricordarsi, non vi fu periodo più rovinoso per la nostra economia di quello, per l’appunto, del dopo guerra. Istituti, consorzi, enti, gestioni fuori bilancio, monopoli si moltiplicarono in maniera incredibile; quelli creati durante la guerra furono conservati ed ampliati, soffocando ogni libera iniziativa, impedendo con leggi e decreti improvvidi la ripresa del ritmo economico, credendo che con semplici paraventi di cartone si potesse arrestare la forza dell’imperativo economico, legge ferrea della vita. Gli stessi favori economici e giuridici alle cooperative debbono essere inquadrati in una esatta visione di tali problemi, per non creare facili illusioni e formare una economia fittizia a danno della finanza dello stato. Debbono essere ridotte le protezioni allo stretto necessario per le esigenze dello stato, ed essere dirette a creare industrie indigene che si possano reggere da sé. Debbono perciò rivedersi le tariffe doganali, con un largo spirito di economia produttiva, senza tendere a sovrapporre le industrie all’agricoltura; debbono essere soppressi i regimi di sovvenzioni, e attenuarsi e ridursi secondo le esigenze reali della vita del paese le statizzazioni in materia economica e produttiva. È un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello stato produttore, dello stato economo, dello stato protettore, dello stato assicuratore; è una audace rinunzia a tutto un bagaglio di parassitismo economico, che si è vestito tante volte di ragione sociale, per cui hanno peccato tutti in Italia, meno pochi, pochissimi ed inascoltati. Ma fino a che qualche po’ di denaro e di credito c’era, da poterlo anche sciupare tentando gli esperimenti (come, ahimè, falliti! A cominciare dalle poste di stato, per finire alle ferrovie dello stato, ed all’ormai defunto monopolio del caffè che ha avvelenato tanti stomaci italiani), era tollerabile che tutti i democratici d’Italia battessero le mani, e che gli increduli nell’avvento della economia associata fossero ritenuti della gente vieta e sorpassata. Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Si è a lungo discusso se le elezioni generali politiche, così rapidamente affrettate, fossero, come suol dirsi, un salto nel buio, ovvero l’inizio della ripresa della vita nazionale. Nella politica il successo è molte volte prova e sanzione insieme; e l’insuccesso costituisce la ragione dell’avversario. Mutevoli come sempre i venti del favore popolare, ieri secondavano le correnti del disfacimento e della rivoluzione, oggi dànno la spinta al movimento antibolscevico e nazionale; per l’uno e per l’altro, un appello al paese può riuscire proficuo e vantaggioso, può essere invece un motivo di più aspri contrasti e di più violenti urti nel campo della vita politica ed economica. Noi non fummo tra coloro che reputavano assolutamente necessario un immediato mutamento di rappresentanza nazionale, né per la stessa ragione l’avversammo e ci ponemmo contro; l’abbiamo guardato come una delle fasi della nostra crisi che investe, insieme ad ogni altro istituto, la più alta espres¬sione del potere e della rappresentanza popolare. Varranno le presenti elezioni a far superare la crisi parlamentare italiana, che risale a prima della guerra, a ridare alla nazione un organo veramente vitale, centrale, fattivo, saldo, dal quale i governi attingano potere e autorità, che sia sintesi di forza morale e di ragione politica? Ovvero le elezioni del 1921 saranno altra prova generale, altro tentativo di approssimazione espressiva di un popolo, che sembra aver perduto l’unità mo¬rale e intellettuale nel significato di nazione, e che la ricerca nella mobilitazione di un voto; che {{163}}forse torna ad essere turbato dal cozzo di fazioni, nella sua origine e nella sua portata equivoco, e nelle sue finalità reazionario? Ecco l’esame che affronterò dal punto di vista generale, per arrivare a stabilire quale contributo ha dato e deve dare il partito popolare italiano, perché l’istituto parlamentare rappresenti genuinamente il pensiero collettivo della nazione, ne sia organo autorevole, e avvii l’azione governativa e direttiva del paese verso una politica di ricostruzione e di rinnovamento. La lealtà mostrata dal nostro partito, in due anni e più di esistenza, e l’azione intesa verso la soluzione della crismi che travaglia la nostra vita pubblica, sono garanzia della nostra azione futura.

Progetto per la costituzione di una banca popolare a Caltagirone

388119
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Incaricato da questa Giunta federale delle Casse Rurali della Diocesi di Caltagirone di studiare il progetto di una Banca per azioni a capitale illimitato da fondarsi in Caltagirone e da servire come Cassa Centrale della Federazione, per quanto le mie cono¬scenze sul credito siano limitate, presento stamane il modesto risultato del mio studio. 1. Nulla dirò sulla necessità di istituire, e presto, in Cal¬tagirone una Banca popolare, che aiuti specialmente l’industria agricola e manifatturiera e il commercio di questo circondario; perché tutti siamo convinti dell’impellente necessità, alla quale non possono sopperire le Casse Rurali, il cui funzionamento ha limiti troppo ristretti. E a noi cattolici, che oggi specialmente, nel continuo e pro¬gressivo sfacelo di ogni risorsa materiale e morale del popolo, abbiamo la missione di riedificare tutto, a noi incombe il dovere di sollevare i corpi per poter sollevare le anime del popolo. Onde è necessario sin dal principio assodare la base dei nostri istituti economici con la così detta confessionalità; anche la Banca che vorremo fondare deve essere cattolica, e portare l’impronta del cattolicesimo puro, perché questo carattere toglie la morale pos¬sibilità della bancarotta, l’agio di esercitare l’usura con i denari affidati alla banca, il commodo [sic] di servirsi della Banca per scopi elettorali e per fini politici e per mene indegne. Quindi necessità somma che gli azionisti sieno cattolici; e poiché tutti, a dritto o a torto si fregiano di questo nome, con¬viene che in linea di massima gli azionisti siano soci dei nostri Comitati; così si rafforza anche la nostra propaganda e aumentano le nostre fila, e lo spirito e l’indirizzo morale della banca sia [sic] al lume dei principii religiosi. Quindi credo proporre che la Banca abbia per l’indirizzo morale il suo assistente Ecclesiastico, e dipenda nell’indirizzo mo¬rale dal Comitato Diocesano, come la nostra Cassa Rurale. Questo non toglie che non possano usufruire della banca facendo con essa operazioni contro pegno di valori o di titoli, scontando cambiali, assegni cambiari ecc., anche coloro che non siano socî dei Comi¬tati ed opere annesse, basta che non siano apertamente contrarii alla Religione Cattolica. Però a costoro, credo che non si pos¬sano accordare prestiti sull’onore, tranne che la cambiale non sia avallata da un azionista. Per questa ragione conviene stabilire delle norme tassative pel passaggio delle azioni per vendita, donazione, testamento da un possessore all’altro in modo che non debba accadere che uno che non appartenga ai Comitati ecc. divenga azionista. A questo punto si solleva la difficoltà del personale.

Parlamento e politica

401995
Luigi Sturzo 4 occorrenze

Così impostata la battaglia, viene naturale rispondere al primo quesito se oggi sia matura una sintesi programmatica che interessi profondamente la nazione come cardine politico; questa sintesi è data da una compagine statale forte, coerente in sé, atta a superare le difficoltà interne ed esterne e resistere ai movimenti di disgregazione. Il bisogno ne è sentito da tutti, e tutti convengono che per ottenerlo è necessario in primo luogo il risanamento della finanza statale, il ripristino della forza della legge, la sicurezza dei rapporti con l’estero. Politica finanziaria, politica interna e politica estera sono tre cardini inscin¬dibili dello stato. Lo sforzo fatto dall’Italia dopo la guerra per superare la crisi che l’ha minata proprio al centro di questi tre cardini della politica statale, è stato eccezionale. Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

E mentre gli uni credono che a rafforzare la compagine statale e darvi valore all’interno e all’estero devesi insistere ancora di più nella concezione dello stato centralizzatore, e aumentano ogni giorno la cerchia delle sue attività; altri, con noi, credono all’inverso che lo stato debba essere solamente organo politico attorno ai tre cardini della politica finanziaria, della politica interna e di quella estera e a quanto vi è inerente per la difesa del territorio, per la tutela della giustizia e del diritto e per il coordinamento e la integrazione delle altre attività pubbliche del paese. Da questa concezione noi deriviamo gran parte del nostro programma di ricostruzione pratica, in rapporto coi problemi più vivi e agitati che rispondono oggi alle esigenze im¬mediate e preparano il domani forte e risolutivo. I problemi fondamentali della nostra vita sono tre: uno economico, l’altro organico, il terzo spirituale. Il partito popolare italiano fin dal suo sorgere ha visto questi problemi nella loro ragione astratta e nella loro portata reale, e ha voluto precisare nel suo programma il punto di vista differenziale e fondamentale, quando ha riaffermato come punto di partenza e di arrivo la libertà. È il nostro motto: è stato il nostro grido, il fondamento del nostro appello. Parve strano, ci è stato negato che fosse necessario proclamarlo perché esisteva, hanno dovuto accorgersi, nel travaglio del dopo guerra, che la libertà in gran parte non esisteva più, era soffocata. Non la libertà economica, nelle costrizioni statali, negli inceppamenti formalistici e nelle ingiuste protezioni; non la libertà organica, nei privilegi particolaristici, nell’abolizione dell’autonomia, nell’accentramento burocratico; non la libertà morale, nella scuola monopolizzata, nella chiesa ancora sottoposta a vincoli esterni ed economici ed a proibizioni giuridiche, resti di vecchio giurisdizionalismo vuoto di senso. Lo stato e debole dove dovrebbe essere forte: nella tutela della legge, nel rispetto al diritto dei cittadini, nella garanzia allo sviluppo di tutte le libere energie; è invece forte dove non dovrebbe avere ingerenza diretta, ma solo coordinatrice e integratrice: nello sviluppo di tutta la vita che ferve alla periferia e che crea le energie produttrici del paese, morali, organiche ed economiche. Non noi solamente, molti furono anche gli uomini, studiosi e parlamentari, che all’indomani della guerra affermarono la necessità del ritorno alla libertà economica, per riprendere rapidamente il ritmo della produzione alterata e arrestata durante la guerra. Gli stessi uomini di governo vi aderirono; però, strano a ricordarsi, non vi fu periodo più rovinoso per la nostra economia di quello, per l’appunto, del dopo guerra. Istituti, consorzi, enti, gestioni fuori bilancio, monopoli si moltiplicarono in maniera incredibile; quelli creati durante la guerra furono conservati ed ampliati, soffocando ogni libera iniziativa, impedendo con leggi e decreti improvvidi la ripresa del ritmo economico, credendo che con semplici paraventi di cartone si potesse arrestare la forza dell’imperativo economico, legge ferrea della vita. Gli stessi favori economici e giuridici alle cooperative debbono essere inquadrati in una esatta visione di tali problemi, per non creare facili illusioni e formare una economia fittizia a danno della finanza dello stato. Debbono essere ridotte le protezioni allo stretto necessario per le esigenze dello stato, ed essere dirette a creare industrie indigene che si possano reggere da sé. Debbono perciò rivedersi le tariffe doganali, con un largo spirito di economia produttiva, senza tendere a sovrapporre le industrie all’agricoltura; debbono essere soppressi i regimi di sovvenzioni, e attenuarsi e ridursi secondo le esigenze reali della vita del paese le statizzazioni in materia economica e produttiva. È un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello stato produttore, dello stato economo, dello stato protettore, dello stato assicuratore; è una audace rinunzia a tutto un bagaglio di parassitismo economico, che si è vestito tante volte di ragione sociale, per cui hanno peccato tutti in Italia, meno pochi, pochissimi ed inascoltati. Ma fino a che qualche po’ di denaro e di credito c’era, da poterlo anche sciupare tentando gli esperimenti (come, ahimè, falliti! A cominciare dalle poste di stato, per finire alle ferrovie dello stato, ed all’ormai defunto monopolio del caffè che ha avvelenato tanti stomaci italiani), era tollerabile che tutti i democratici d’Italia battessero le mani, e che gli increduli nell’avvento della economia associata fossero ritenuti della gente vieta e sorpassata. Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Si è a lungo discusso se le elezioni generali politiche, così rapidamente affrettate, fossero, come suol dirsi, un salto nel buio, ovvero l’inizio della ripresa della vita nazionale. Nella politica il successo è molte volte prova e sanzione insieme; e l’insuccesso costituisce la ragione dell’avversario. Mutevoli come sempre i venti del favore popolare, ieri secondavano le correnti del disfacimento e della rivoluzione, oggi dànno la spinta al movimento antibolscevico e nazionale; per l’uno e per l’altro, un appello al paese può riuscire proficuo e vantaggioso, può essere invece un motivo di più aspri contrasti e di più violenti urti nel campo della vita politica ed economica. Noi non fummo tra coloro che reputavano assolutamente necessario un immediato mutamento di rappresentanza nazionale, né per la stessa ragione l’avversammo e ci ponemmo contro; l’abbiamo guardato come una delle fasi della nostra crisi che investe, insieme ad ogni altro istituto, la più alta espres¬sione del potere e della rappresentanza popolare. Varranno le presenti elezioni a far superare la crisi parlamentare italiana, che risale a prima della guerra, a ridare alla nazione un organo veramente vitale, centrale, fattivo, saldo, dal quale i governi attingano potere e autorità, che sia sintesi di forza morale e di ragione politica? Ovvero le elezioni del 1921 saranno altra prova generale, altro tentativo di approssimazione espressiva di un popolo, che sembra aver perduto l’unità mo¬rale e intellettuale nel significato di nazione, e che la ricerca nella mobilitazione di un voto; che {{163}}forse torna ad essere turbato dal cozzo di fazioni, nella sua origine e nella sua portata equivoco, e nelle sue finalità reazionario? Ecco l’esame che affronterò dal punto di vista generale, per arrivare a stabilire quale contributo ha dato e deve dare il partito popolare italiano, perché l’istituto parlamentare rappresenti genuinamente il pensiero collettivo della nazione, ne sia organo autorevole, e avvii l’azione governativa e direttiva del paese verso una politica di ricostruzione e di rinnovamento. La lealtà mostrata dal nostro partito, in due anni e più di esistenza, e l’azione intesa verso la soluzione della crismi che travaglia la nostra vita pubblica, sono garanzia della nostra azione futura.

Il partito popolare italiano che da due anni agita, attraverso varie e molteplici fasi, questi problemi, che a queste idee generali e a questi schemi ha fatto seguire una realtà vissuta, e nel campo delle libere organizzazioni e della propaganda, e coll’attività parlamentare e governativa, non perdendo la linea attraverso tutte le difficoltà della crisi generale, il nostro partito ha il cómpito di valorizzare politicamente un programma, che deve divenire aspirazione, coscienza e volontà del popolo italiano. I fatti minuti e quotidiani tante volte hanno un significato limitato e si perdono nel rapido succedersi di eventi; le parole cadono, dette dagli oratori o scritte sui giornali; sembra che il mondo sia fermo attorno a noi e che la rapidità dei consensi tenga dietro alla rapidità dei dissensi; oggi in auge, domani a terra, l’opinione pubblica fatta anch’essa di episodi si attarda attorno a quello che ha più vistosità nelle apparenze e linea più forte nei contrasti. Penetra però dentro alle coscienze e diviene abitudine, arriva nelle fibre di molti e diviene forza quel che due anni addietro era un nome. Ha cittadinanza quel che si ripudiava; odii e amori in contrasto dividono gli uomini; le mobilitazioni elettorali esercitano le passioni, ma le idee penetrano nel cuore, divengono atti di volontà individuale e collettiva, superano il fenomeno e attingono la loro esistenza nella sostanza delle cose. Come il partito liberale prima, quello socialista poi, rispondendo a stati d’animo hanno creato una loro letteratura, una legislazione, una organizzazione; così il partito popolare italiano ha superato lo stato di fenomeno transeunte, ha vinto molte difficoltà interne, ha espresso politicamente un suo pensiero ricostruttivo e tende a trovare su questo pensiero la rispondenza politica della pubblica opinione. Il partito popolare italiano e però partito di minoranza, la sua funzione di collaborazione o di opposizione è importante nell’ordine delle propulsioni e nel gioco delle alternative parlamentari, ma non è decisiva. Certo non basta un solo partito ad imporre un orientamento alla vita pubblica collettiva, né ad imporne la soluzione; però basta a creare stati d’animo adatti, punti di partenza e di riferimento, elementi di prova, ragioni di consensi; sì che la maturazione politica (dovuta spesso a forze imprevedute che balzano dai fatti della vita vissuta) arrivi fino alla soluzione dei grandi problemi. Sono rimasti, a saldo segno, i famosi nove punti che il gruppo parlamentare popolare affermò come base di collaborazione col secondo ministero Nitti e i patti di alleanza con i quali partecipò ai governi. E sono nostre le battaglie programmatiche combattute per la libertà della scuola, per la proporzionale amministrativa e politica, per la libertà dei sindacati e per la riforma agraria, e per il decentramento amministrativo. Non sono idee isolate; appartengono come fondo a molti partiti; gli studiosi attorno a tali problemi cercano soluzioni o illustrano questioni; nei congressi si discute e si battaglia. Però, perché un’idea dal campo speculativo passi a quello pratico e divenga ragion politica, occorre questo immenso lavorio dei partiti; fra i quali il nostro assume una vera posizione di battaglia in quella larga collaborazione parlamen¬tare che è ancora necessaria perché un parlamento come il nostro viva ed abbia la sua maggioranza. È questo un dovere dei partiti oggi in lotta: creare una salda maggioranza parlamentare. I blocchi, dove sono stati possibili, assolvono il cómpito di dare all’elettore un senso di unità e di resistenza; non dànno però una base programmatica: altrimenti non sarebbero blocchi. La unione negativa di difesa non basta all’opera. Le differenze create dalle altre liste più o meno ministeriali valgono quanto i blocchi stessi. Non si può dire che esista realmente una opposizione costituzionale e ciò è un male, non solo per la chiarificazione delle posizioni, ma anche per la saldezza della stessa maggioranza, alla quale certo non potranno partecipare coloro che credono di appoggiare blocchi e fasci e unioni per una politica di pura conservazione economica e di tutela capitalistica, perché falserebbero, fin dall’inizio, il significato della lotta e comprometterebbero le sorti della camera futura. Occorre avere un programma positivo, base della maggioranza, non nella confusione dei partiti ma nella specificazione di criteri, di metodi e di finalità, quando si tratta di salvare il paese. Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

Progetto per la costituzione di una banca popolare a Caltagirone

402001
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Incaricato da questa Giunta federale delle Casse Rurali della Diocesi di Caltagirone di studiare il progetto di una Banca per azioni a capitale illimitato da fondarsi in Caltagirone e da servire come Cassa Centrale della Federazione, per quanto le mie cono¬scenze sul credito siano limitate, presento stamane il modesto risultato del mio studio. 1. Nulla dirò sulla necessità di istituire, e presto, in Cal¬tagirone una Banca popolare, che aiuti specialmente l’industria agricola e manifatturiera e il commercio di questo circondario; perché tutti siamo convinti dell’impellente necessità, alla quale non possono sopperire le Casse Rurali, il cui funzionamento ha limiti troppo ristretti. E a noi cattolici, che oggi specialmente, nel continuo e pro¬gressivo sfacelo di ogni risorsa materiale e morale del popolo, abbiamo la missione di riedificare tutto, a noi incombe il dovere di sollevare i corpi per poter sollevare le anime del popolo. Onde è necessario sin dal principio assodare la base dei nostri istituti economici con la così detta confessionalità; anche la Banca che vorremo fondare deve essere cattolica, e portare l’impronta del cattolicesimo puro, perché questo carattere toglie la morale pos¬sibilità della bancarotta, l’agio di esercitare l’usura con i denari affidati alla banca, il commodo [sic] di servirsi della Banca per scopi elettorali e per fini politici e per mene indegne. Quindi necessità somma che gli azionisti sieno cattolici; e poiché tutti, a dritto o a torto si fregiano di questo nome, con¬viene che in linea di massima gli azionisti siano soci dei nostri Comitati; così si rafforza anche la nostra propaganda e aumentano le nostre fila, e lo spirito e l’indirizzo morale della banca sia [sic] al lume dei principii religiosi. Quindi credo proporre che la Banca abbia per l’indirizzo morale il suo assistente Ecclesiastico, e dipenda nell’indirizzo mo¬rale dal Comitato Diocesano, come la nostra Cassa Rurale. Questo non toglie che non possano usufruire della banca facendo con essa operazioni contro pegno di valori o di titoli, scontando cambiali, assegni cambiari ecc., anche coloro che non siano socî dei Comi¬tati ed opere annesse, basta che non siano apertamente contrarii alla Religione Cattolica. Però a costoro, credo che non si pos¬sano accordare prestiti sull’onore, tranne che la cambiale non sia avallata da un azionista. Per questa ragione conviene stabilire delle norme tassative pel passaggio delle azioni per vendita, donazione, testamento da un possessore all’altro in modo che non debba accadere che uno che non appartenga ai Comitati ecc. divenga azionista. A questo punto si solleva la difficoltà del personale.