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PRIN 2012 - Accademia della Crusca
Trento, 19 settembre 1922
Il discorso dell'on. Degasperi al convegno universitario di Mezacorona
Diamo oggi le linee direttive del discorso che l’on. Degasperi, per invito dei giovani cattolici universitari tenne domenica al loro annuale convegno. Fu un discorso giubilare perché ventun anni fa, proprio nello stesso giorno, cioè il 17 settembre 1901, il Degasperi, allora alle sue primissime armi, aveva svolto nella stessa Mezocorona al III Congresso dell’Associazione il tema «La riscossa cristiana nel campo della coltura», mentre l’on. Grandi parlava del dovere sociale dei giovani. Questo ricorso diede occasione all’oratore di chiamare a paragone i tempi d’allora coi tempi d’oggi, ricavandone ammaestramenti e considerazioni che non ci paiono senza interesse anche per i nostri lettori.
Ricordata la situazione locale, caratterizzata da un nucleo assai esiguo di cattolici militanti, da un movimento sociale economico nel primo sviluppo, da un’organizzazione Sindacale deficiente e dalle totale mancanza di una organizzazione politica, il Degasperi descrive a rapidi tocchi la situazione generale, nei suoi rapporti col pensiero cristiano. Nel movimento sociale incalzava il socialismo, venuto finalmente colle sue ondate a cozzare anche contro le nostre Alpi e, nei riguardi più particolarmente nostri, s’imponeva con tutto il vigore la dottrina sociale della Rerum Novarum. Quest’enciclica aveva constatato che nel mondo capitalista un piccolissimo numero di straricchi avevano imposto alla infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile; respinta la dottrina socialista della comunanza dei beni, aveva rilevato però la funzione sociale della proprietà; aveva insegnato che nelle contrattazioni fra lavoratori e datori di lavoro entra un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti e constatato che interessa allo Stato che sia inviolabilmente osservata la giustizia, che una classe di cittadini non opprima l’altra, aveva dichiarato «che il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, non impedirne o punirne le violazioni... le misere plebi che mancano di sostegno proprio, hanno specialmente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato... E, agli operai, che sono del numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua». Con tali insegnamenti veniva decisa in senso affermativo la vessata questione della liceità e dell'opportunità dell’intervento dello Stato nei rapporti economici dei cittadini, allo scopo di tutelare i più deboli.
L‘oratore ha creduto opportuno ricordarlo perché oggidì sembra sopravvenire di nuovo fra i seguaci stessi della dottrina cattolica un qualche dubbio e riprendere vigore la vecchia teoria liberale del disinteressamento dello Stato e del «lasciate fare, lasciate passare», quasicché nel sistema economico capitalista, lasciato completamente libero nei suoi impulsi economici, esista un elemento naturale di equilibrio e di giusta compensazione. Questa dottrina, vent’anni fa quasi universalmente rifiutata, sembra ora riprendere vigore, perché il pubblico confonde l'intervento sociale dello Stato sopra descritto, coll'intervento industriale e finanziario dello Stato, come amministrazione, a imprese economiche. Le esperienze fatte nell’ultimo periodo, specie in conseguenza della guerra, sono disastrose, onde d’ogni parte s’invoca - e il’ partito popolare fra i primi - il ritiro dello Stato da simili partecipazioni. Giova però rendere attenti i cattolici che pur assecondando la campagna per quello che si proclama «il ritorno dello Stato alle sue funzioni» non ricadano nella vecchia teoria libero—conservatrice che nega la funzione di tutela che lo Stato deve esercitare per i più deboli.
L’oratore crede opportuno ricordare anche che la stessa enciclica proclamava la necessità di un ordinamento operaio con esplicito richiamo alle antiche corporazioni d’arte e mestieri. («Manifestissimi furono presso i nostri maggiori i vantaggi di tali corporazioni... Bensì il progresso della cultura, le nuove costumanze e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni vengano adattate alle condizioni presenti»). Oggi che le corporazioni si riaffacciano col loro vecchio nome nel movimento sociale e vi vengono propagate, quasicché fossero riesumazione nuova dello statuto del Carnaro, i cristiano—sociali non hanno che da ricordare Vogelsang e De Mun, per scegliere tra i molti e rileggere le tesi dell’Unione di Friburgo (l’internazionale scientifica dei cattolici raccoltasi ogni anno a Friburgo dal 1884 in qua) una delle quali tesi dice: «Il regime corporativo è il modo di organizzazione sociale che ha per base l’aggruppamento degli uomini dietro la comunanza dei loro interessi naturali e delle loro funzioni sociali e per coronamento necessario la rappresentanza pubblica e distinta di questi differenti organismi». Queste citazioni, questi ricordi - continua l’oratore – vengono ravvivati per l’orientamento della generazione nuova; nel 1901 non ne avevamo bisogno, giacché si lavorava allora con entusiasmo e senza titubanza per la via segnata dal Pontefice. Il nostro compito di organizzare corporativamente o sindacalmente le masse operaie era chiarissimo. Ma al di là di questo compito, diremo, manuale e per uno studioso, ausiliare, non ne avevamo uno più diretto, più confacente alla nostra vocazione e che pur doveva servire ai progressi dello stesso mov1mento cristiano—sociale?
Ecco il quesito al quale ventun anni fa, cercavo di dare risposta nella mia relazione. Rispondevo che il socialismo doveva la sua forza non solo alla massa operaia organizzata, ma anche alla sua veste scientifica e all’attività della sua scuola che, attraverso il materialismo storico, aveva inquinate le università e inspirate migliaia di pubblicazioni. Il socialismo non sarebbe caduto prima che non si fosse spazzato via 11 falso nimbo scientifico di cui era circonfuso. Ma conveniva non solo far opera di confutazione, ma anche di positiva elaborazione scientifica del nostro programma. Conveniva tentare la riscossa su tutti i campi della coltura perché i cattolici sarebbero riusciti a risolvere la questione sociale solo se avessero strappato agli intellettuali il riconoscimento della loro abilitazione scientifica. L’oratore ricorda qui – commosso - il bel tentativo fatto dai nostri accademici e dal nostro piccolo mondo scientifico riuscendo per parecchi anni a mantenere la Rivista Tridentina che, lontana com’era dai centri d’attività intellettuale, non poteva dare nessun contributo alla rinascita che invocavamo, ma che rimane una prova confortevole dello sforzo con cui gli irredenti, chiusi a nord dal confine linguistico e a sud da quello politico, si affermavano nel campo della coltura.
E qui l‘on. Degasperi apre una parentesi per invocare dagli studiosi trentini, ora che è felicemente aperta la grande via della Nazione, una maggiore attività nel collaborare alle riviste e agli organismi colturali nazionali. Ci lagniamo di essere mai compresi e protestiamo contro chi ignora il valore dei nostri particolari istituti amministrativi, politici e giuridici, che vogliamo difendere, ma ove sono i giuristi, i letterati, i politici del Trentino, che parlino dei nostri problemi alla Nazione? Ritornando all’argomento principale l’on. Degasperi completa il paragone fra il movimento sociale del 1901, e quell’odierno, chiedendosi quali siano le ragioni della decadenza socialista.
Gran parte dell’opinione pubblica l’attribuisce semplicemente alle «operazioni» della milizia fascista; ma sarebbe come affermare che Napoleone in Russia deve la sua disfatta ai cosacchi - (il paragone non ha alcun sapore offensivo - i quali molestarono e finirono i resti della Grande Armata dopo... Napoleone perdette la partita per l’orgoglio sconfinato del suo spirito di predominio e per il freddo e per le nevi che fecero cadere le armi dalle mani dei suoi soldati. Il socialismo ha toccato la sua più tremenda sconfitta il giorno che volle spingere le masse operaie alla conquista rivoluzionaria di uno Stato utopistico e quando, volendo l’assoluto predominio della sua dottrina sulle masse lavoratrici soffocò ogni tentativo venuto da parti diverse per sottrarre il movimento operaio come tale al predominio dell’organizzazione politica socialista. Oggi che i socialisti stessi parlano di liberare la confederazione del lavoro dall’influsso dei partiti giova ricordare che dopo Ketteler e Ferdinando Lassalle, il più grande tentativo di emancipare il movimento operaio dal socialismo, pur difendendone le rivendicazioni sostanziali fu la Rerum Novarum. Il tentativo a giudicare dai congressi internazionali di Bienne e Wintertur (1896), ove convennero rappresentanti cattolici e socialisti per deliberare sulla tutela internazionale degli operai sarebbe anche riuscito, se i socialisti non avessero poi violentemente avocato a sé il monopolio della rappresentanza operaia e non avessero, inspirandosi al materialismo della loro dottrina filosofica, intensificata la loro campagna anticlericale. Ma il socialismo marxista venne disfatto anche perché interiormente oramai s'era sfasciata la sua impalcatura scientifica e morale. Soldati e soprattutto capitani che combattono senza fede nella propria causa lasciano cadere le armi, come se avessero le mani assiderate dal freddo. La demolizione della dottrina e della fede nella dottrina era già quasi completa prima della guerra. Durante la guerra i partiti socialisti che trovarono la via dell’unità nazionale si salvarono trasformandosi in partiti operai, e la costituzione di Weimar è forse il più bel documento che chiude, in Germina, la patria di Carlo Marx, il periodo inaugurato dal «manifesto dei comunisti» e inizia quello della collaborazione sul terreno nazionale. Ma in Germania i socialisti si erano costruiti il ponte del ritorno entro la nazione col loro atteggiamento favorevole alla guerra cosidetta «di difesa»: in Italia invece, sventuratamente, la guerra, per la condotta dei capi socialisti da un lato e dall'altra perché le classi dirigenti non seppero avvincere durevolmente le masse, come avevano saputo fare i consiglieri di Guglielmo, non attenuò, ma acuì il dissenso. L’oratore dichiara a questo punto di non voler trarre dalla situazione le ovvie considerazioni di attualità politica, perché in un convegno universitario sarebbero fuor di luogo, ma di poter concluderne che se alla revisione prima e alla demolizione scientifica del socialismo poi ha contribuito la sociologia e l’attività scientifica dei cattolici, contemporaneamente quello che contrastò al movimento socialista il dominio assoluto fu il sindacalismo bianco che rappresentò fino a poco fa l’unico rifugio per gli operai che non vollero piegarsi alla tirannide rossa. Quel che più importa ancora è di rilevare che tale risultato fu ottenuto senza compromettere in nulla la causa delle rivendicazioni operaie, anzi riaffermandola, e senza mai nulla concedere alla reazione che avrebbe voluto riprendere la posizione procuratale dal liberalismo economico.
Con tali criteri converrà procedere anche di qui innanzi. I cattolici riaffermano per oggi che la ricostruzione nazionale non sarebbe possibile qualora si attentasse al nuovo diritto operaio conquistato negli ultimi anni, si negasse allo Stato ogni intervento e si soffocasse il movimento cooperativista e partecipazionista, il quale, non ostante gli errori commessi, rappresenta un indispensabile correttivo del sistema capitalista e un avviamento ad un sistema migliore. Noi affermiamo sovratutto anche oggi che la ricostruzione non può avvenire senza il riconoscimento di un Vero immutabile e supremo e di una moralità superiore all’interesse del momento. Vale insomma oggi quello che l’oratore ebbe a dire vent’anni fa: «che la differenza capitale fra questo nostro punto di vista e quello degli altri sta in ciò, che gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per il quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umamità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria in senso della nazione, sull’altar della quale debbasi sacrificare ogni convinzione e ogni diritto individuale umano. Che cosa infatti si vuol insegnare alla gioventù se non altro che la Nazione, va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Noi in particolare delle Nuove Provincie che abbiamo imparato a sentire che cosa sia la Nazione nel lungo tormento dell’esserne dalla violenza straniera disgiunti, sappiamo valutare in tutta la sua bellezza ogni sforzo che tenda a farla risorgere nelle coscienze e negl’istituti del paese; ma anche tale attività dovrà andare soggetta alle norme della morale e ai principi immutabili della giustizia. La rappresaglia e la legge del taglione sono Vecchio Testamento. Cristo ci ha dato un Testamento Nuovo! L’on. Degasperi termina eccitando i giovani a sollevare lo spirito al di sopra delle lotte presenti, a non lasciarsi vincere dalla tristezza dello spettacolo quotidiano, a tenere fisso lo sguardo a quanto è secolare, permanente, divino nello svolgimento della nostra civiltà italica e cristiana. Ogni volta, egli dice, che spinto dal bisogno irrefrenabile di cercare come nel cielo un’idea che mi elevi al di sopra dei contrasti terreni m’innalzo fino dentro la cupola di Michelangelo a contemplare dipinti nell‘ampio empireo Angeli e Santi che fanno corona alla Tomba apostolica, penso con infinito orgoglio che qui ove s’incurva il duomo della mia religione universale s‘innalza anche il tempio del genio della mia stirpe e al di sopra delle delusioni presenti, rinnovo nel mio spirito rinfrancato la visione dei grandi e sicuri destini della Patria.