Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbindolare

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L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

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Vettese, Angela 1 occorrenze

Quando si cerca di aggiudicarsi ciò che è realmente contemporaneo, bisogna inoltre tentare di scegliere sempre tra le opere del mercato primario, cioè provenienti direttamente dallo studio dell’artista, e non lasciarsi abbindolare da presunti affari legati a lavori già da tempo oggetto di compravendite, appartenenti al mercato secondario, a meno che non si individuino opere interessanti in aste serie, spesso con l’obiettivo di acquistare i lavori di caratura storica.

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Il talismano della felicità

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Boni, Ada 1 occorrenze

Chi compera deve rimanere tetragono e non lasciarsi abbindolare dalle chiacchiere: deve portare a casa quel ch'egli vuole e non quello che gli si vuole... propinare. Di qui, come dicevamo, la necessità di conoscere perfettamente quel che si acquista: a base principale dell'economia, prima, e della buona riuscita di ciò che si cucina, poi.

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora. Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora. Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà.... Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme. Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse: - Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene? - Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari.... "Ahi," pensò Enrico. - La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo. - Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere.... - Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia. - Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary. - Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia. Comincerò col presentarti alla mia amorosa. - Chi è? - Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti. - Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato riprese facendosi serio ad un tratto. L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto. - Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale. - Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io... ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più. - E la ragazza è contenta che la si tratti così? - Contentissima. L'abbiamo lanciata noi? - Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è? - Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa. - E tu? - domandò il conte. - Oh, io non mi lascio pigliare! Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani. - Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi. Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le corde della curiosità voluttuosa. Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di questa misteriosa e splendida Nanà. - Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava enormemente in quel soggetto. A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia di dire la verità, avrebbe dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura, avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro insegnato di rivolgersi a madame Tricon dove, mediante una trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza. Fi donc doncE avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da madame Tricon proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà. Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse che erano forestieri: "Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero? "Italiani - aveva risposto il Sappia." E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che alla loro affermativa aveva soggiunto: "Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte nella stessa giornata." Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola, laddove egli accenna di questa signora: "Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che pativano asciugaggine di tasche." La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon. "Va, va, ma fille! diceva essa fra sè - ne compte que sur toi. Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront." "Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras. Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de trouver là vincinq louis qui l'attendaient. l'attendaient.Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida galanteria. Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses, coulisses,poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso. Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui, precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure colla punta del dito mignolo. I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette. Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso. La sorte aveva favorito il Marliani. La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia dell'uno in quelli dell'altro. Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous vousanche a lui. Essa era venuta infatti, tutta bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto: "No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?" "Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non essere crudele con me." "Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!" Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera, nè colle offerte. Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà; sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano. La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico, aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare. Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli significava che la Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo per condizione il migliaio. Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora aveva già indosso l'agonia. Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti insieme. Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no, giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più ritrovati. Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà, che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo. La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni. Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro. Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome di Aldo Rubieri. Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via Solferino. Chi era la Luisa? D'onde veniva? Come aveva conosciuto il Sappia? Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice, una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori. Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse una creatura che sapesse conservarsi onesta. La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere azione disonesta. "Un mestiere come un altro" diceva lui. Egli, sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so quanti centesimi il chilogrammo. Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi dalla paura. Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in flagrante contrasto con suo padre per causa di probità. Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito. - Che hai Gana? - domandò la madre. - Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani lorde. - Che prezzo? - Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia! - Babbo! - fece la Luisa. - Che vuoi, pettegola? - È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo? - Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te l'ha detto? - Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina. - Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar.... La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta. Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare artisticamente e umanamente presentabile. Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre. - Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente. Non l'avesse mai detto! Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente intrisa. La madre svenne di spavento. Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti. Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e affetto da lue ereditaria, aveva tratto al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna premeditazione. In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata. Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva, scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di catarro. Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere alla propria esistenza? - Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so. - Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî. "Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere." - Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia rispondere per una povera tosa che esce di prigione? - Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato. - Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo. - Cerca qualcun altro allora. - A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto, come faccio a vivere? - Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola? - In che modo buona figliola? - Mettendoti ancora a lavorare! - Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei. - T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu prima da una stiratora? - Oh, come lo sanno loro? - Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è vero? "Ho capito" - pensò fra sè la Luisa. - Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona donna. - Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella stanza? L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì. Il delegato capì e non insistette. - Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni? - Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta pagare carne salata, me l'hanno fatta. - Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie. - Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io m'aiuti, posso fallare a morir di fame. - Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno. Capisci? - Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il lavoro? E intanto come farò a vivere? - Questo ti riguarda, Arràngiati. Arràngiati.La Luisa continuava a far l'innocentina. - Cosa vuol dire arràngiati? arràngiati?- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada, specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti condurranno qui da me. - Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora. E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far cascare il delegato in una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina. - Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare? - Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui che io ti cancellerò subito dal libro. - Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così! Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola vittoria. Essa c'era riuscita! E infatti pensava lei a un dipresso: "È il direttore d'una sezione di Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa." La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato. Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di Questura: Non caste sed caute Così che, se fosse anche stato il caso di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano. Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di non morir di fame. E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato! Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione, nella schiena. Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una donna, un'antica conoscenza, una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a vedere come l'avesse già ravvisata da lungi. Quando le fu d'accosto: - Centini mundi - sclamò questa; la era una sua esclamazione particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo? Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla? La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non arrossendo e con una specie di impertinenza: - Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto? - Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba, perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo. In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente. In dialetto, monte e mondo hanno lo stesso suono. - Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano? - Che vuole, cara Luisa! E lei? - Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare. - Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una bella tosa pari sua? Centini mundi S'io fossi in lei, vorrei domandar se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo grembiale e star lì a veder i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e verdi. - Me lo disse poc'anzi anche il... Voleva dire il delegato, ma troncò la frase. La vecchia però aveva già mangiata la foglia. - Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù? La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto. - M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola. - Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia strizzando l'occhiolino. - Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire. - Un messere, centini mundi Chi vuol che sia? - Chi è desso? - È un banchiere. - Giovane? - Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma però è benissimo conservato, e ricco. - Quanti anni avrà, insomma? - Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue. - Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo! - È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua carovana. - Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero! màghero!- È capace di farle una posizione. - Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore? - Questo poi non lo so, perchè è ammogliato. - Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora! - Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe, comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il.... - Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po' duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica. - Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo? - In casa mia, se vuole. - Lei sta ancora laggiù? - Sì, cara. - E quando? - Magari domani. Il tempo di avvisarlo. - A che ora? - A mezzogiorno. - Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei. E si lasciarono. La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi pedinatori stava ad aspettarla. Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose con un modesto chinar del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto. - Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta? - Lei è ben curioso! - Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso di accompagnarvi a casa. - Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo. - Perchè non può darmelo? - Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi risponderebbe? - Che la curiosità è la madre della voglia di sapere. - Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali? - No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda? - Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust e Margherita, e ora è la madre della voglia.... - Bene, parlerò più facile. Come avete nome? - Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi. - Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una donna adorabile. - Me l'hanno detto degli altri. - E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne darebbe lei il permesso? - Mi par bene che stiamo facendola.... - Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi. - Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei. - In casa sua dunque non ci si può venir davvero? - Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo. - E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta? - Dove, per esempio? - Non saprei.... All'Isola Bella. - No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al Giardino d'Italia. - Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza. - Come vuole. Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia. Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due piccioni ad un favo. Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel giorno. - Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi? - Davvero? Ciò mi rende orgogliosa! - Naturalmente voi non siete ancora a quel punto.... - Oh, lo credo! - Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama. - Ho capito! - Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria. - Vuol dire che li spendeva. - Sicuro! - Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle. - Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà. - Che non spende trentamila franchi al mese, però. - Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi. - Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano. - Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi. - Voi ci tenete ad essere solo? - Perchè questa domanda? - Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico.... - Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo. - Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis, gratis,n'è vero? - Neppur per sogno. - Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà detto. - Accettato. - Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa. E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico. Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna. Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione, trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non ritornasse ogni mattina e ogni sera a persuaderla che bisognava dar ascolto al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en entitre l'altro lo spunta-pesi segreto. Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami dell'amore. - Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico O'Stiary. E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui un po' in disparte. - Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il conte, ripigliò: - T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa i primi passi al mal costume. Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio, che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla fronte del giovinetto. La Luisa lo invitò a sederle accanto. - Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il mio motto è sans gêne Ma quasi mi scordavo di presentare a questi signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di Genova. I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto. - Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero? - Ora torna dal campo. - Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure più di cento franchi. - Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri. - Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa. - Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che muore di fame. - Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare? - Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità. E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary. - Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete. - Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po' da sfacciata! - Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte. Ecco i miei cinquanta franchi. - Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque biglietti da dieci nella borsa. Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore. - Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa, che lo ringraziò col suo più splendido sorriso. "Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo che la Luisa lo ebbe ringraziato. - "Io non potevo dar meno di Paganino e di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me." Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si praticava sul viso. Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa su una buvette, dove la Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega a bevere l'amaro prima di andare a pranzo. La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col disprezzo d'una principessa! Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche! A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece recar le carte e lasciò che giuocassero. Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte. Sappia gli andò vicino: - Non fai conto di giuocare tu? - Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a vedere... - Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa. Enrico si fece tutto rosso in viso. - Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto? - Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino. - Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo. - Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo: - Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora. Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino? Andò al tavolo verde. Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento franchi. La Romea gliene aveva beccati fuori la metà. Sappia gliene prestò subito altri mille. Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza. A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già disperatamente sulla parola. Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse: - Mi pare ora di andarcene. - Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata. Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea, Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime. Il Sappia dovette scuoterlo più volte. - Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea. - Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti. Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone: - Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa. - Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza... "Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se. Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più. Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile. A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi. La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo. Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura. seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco. Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco. Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase: - Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile! Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore. - Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra. - Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese. - Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa. - Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me. - Possibile? - Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più. E qui si mise a parlargli di tutt'altro. Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato. Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni. - Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte? - Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte. Il marchese crollava il capo sorridendo. - Ah, entusiaste! - Non lo crede lei? - Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni? - Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...! - Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo? Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione. Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto: - Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare. Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza. Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne. Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento. Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle. Poi, con Sappia, ritornò a casa. - Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri! Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese. - Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa? - Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi. - Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io! - No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io mi stia ai primi danni. Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna. Il tutore non badava più all'Enrico. Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi" come diceva lui. Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore. Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte. Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto! Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico. Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese. Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto. Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia. La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio. Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli. - Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi. La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò: - Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo? Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove. Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno. Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista. Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno! L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare. Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato? Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Gente esperta smaliziata scaltrissima, durò parecchio a lasciarsi abbindolare, fuorviata dal nome falso e dalle indicazioni sballate. Alla fine se ne venne a capo, fu identificato da suo padre al San Michele. Entrò pallido come un morto, non lo vedeva da due anni. Il ragazzino neppure una grinza. Quel poveraccio ebbe paura di riprenderselo _ bisognò rimandarlo con due agenti _ sapeva che prima di arrivare alla stazione gli sarebbe scappato di nuovo. Riscappò dopo. Correzionale. Al momento mancano i casi clamorosi. Vi sono monellucci che la famiglia senza risorse spinge all'accattonaggio, bambini abbandonati, ladruncoli, vagabondi, rissosi, i cosiddetti "generici". (Se si fa vedere qualche madre delle borgate è per piangere, se parlano è per lagnarsi con la monaca di questa maledizione dei figli, cercare a lei un sistema per abortire meno pericoloso del ficcarsi dentro un corpo estraneo.) C'è un calabresino bruno come un moretto, occhi neri dolcissimi, che il fratello maggiore fornì a Cosenza del biglietto ferroviario e spedì alla capitale contando che sarebbe stato fermato e messo in qualche posto a spese del governo: ebbe il tempo di godersi la capitale per qualche giorno. C'è la bambina che vide sgozzare la propria madre dall'uomo nero" e rimase coricata con la morta l'intera notte, la trovarono che cercava di scaldarle le mani. Una coppia d'indivisibili _ prima di qui non si conoscevano _ simpaticissimi. Vogliono fare i meccanici, come spesso ambiscono i ragazzi, e sembra questo ad accomunarli. Ma se pure si trattasse d'una indivisibilità di natura più intima, ebbene ? Due faccette serie, fruste, con pieghe dolorose, la patina dell'esperienza. Aspettano di essere destinati insieme a qualche istituto. (Ma si baderà a non separarli?, le assegnazioni sulla carta separano anche i fratelli.) Genitori all'ospedale, in carcere, morti. Uno ha detto con importanza: Mamma eia il cancro alle budella. L'altro, rimasto completamente solo, per mesi ha dormito dove capitava e provveduto al proprio sostentamento. C'è il ribelle disadattato irreversibile che coi mezzi comuni _qui senza mezzi _non si riesce a domare. Facile predirgli la galera, previsione dell'agente. Una faccia sbalestrata. Arretra divincolandosi e parando il braccio. Deve averne preso di botte. Si lascia infine toccare con un lungo fremito come una belva. È la terza volta che lo portano qui (ci ritrova il fratello e la sorellina con la bocca storta per una paresi), dai salesiani scappa. Gli domando perché. Menano col manganello. Attorno si ride. Sbaglia sempre, vorrebbe dire campanello. Gli davano sulla testa il campanello delle lezioni. Questi tipi scappano tutti dai salesiani, conferma la suora. La disciplina della comunità applicata di colpo deve risultare come una imposizione subitanea e incondizionata di virtù al gran peccatore. Anche le città i borghi dei ragazzi, superata la fase eroica del rastrellamento fra le macerie e dei capannoni a tettoia, costituiti a organizzazione regolamentata, escludono gl'irregolari, la loro collocazione resta l'ospedale la neuro il manicomio il reclusorio. L'" artista" si esibisce davanti all'ospite su un pezzo sgualcito di giornale, col mozzicone di matita traccia a segni rapidi e sicuri grosse teste sbilenche espressive. Sono avidi di carta, c'è gran consumo di giornali vecchi. Quello che crede di prepararsi all'esame d'ammissione _ ma non ha libri, gli fanno fare qualche cosa per tenerlo buono _si offre di leggermi un suo tema. E vuole mostrarmi la fotografìa di quando cantò alla Rupe Tarpea. (Be', non ce li hanno buttati.) In cinque o sei spostano i tavoli con fracasso, vi mettono sopra le panche, staccano dal muro foto accartocciate. È davvero lui al microfono. E gerite intorno, signore e signori, pezzi grossi. Ebbero un gran pranzo. Eh, dice rimirandosi, sono proprio io.. Ora è seminudo sporco irsuto. Non ce tengo, dice, a dove sta qua dentro uh piagnerei. Va e viene. Ci sta da sei mesi. Ebbero anche i pacchi dalla "moglie della Repubblica," insomma la Presidente. Un pacco per uno, ma c'era roba piccola, i calzoni non entravano, la maglietta a una coscia. Che si credevano, il brefotrofio. Domando perché si trova al San Michele. So' cattivo, mbè. Ma cede la sua spavalderia, gonfia gli occhi di lacrime e s'allontana. Questo mostruoso San Michele. Almeno separarli maschi e femmine. Nel putiferio che a tratti si scatena, suor Maria Elodia ripete che i maschi hanno già le veneree. Basterebbe intanto un semplice cambio: gli uffici ai cameroni tetri e i piccoli ai saloni degli uffici, vedrebbero il Tevere come un pezzo di mare. Certo, è solo uno scherzo. Sia l'agente che la monaca a sentirmelo dire hanno riso. Ma si sta provvedendo per iniziativa della questura. Sì, proprio la questura. Appello a tutta la cittadinanza abbiente. E l'istituto di osservazione al centro minorile? Risposte evasive, come se non si sapesse che è, il Gabelli viene sempre chiamato riformatorio. Bene, milioni se ne sono già raccolti. C'è stato il famoso ballo, ne parlarono le rubriche mondane. Mi si mostra il ritaglio di un diffuso quotidiano: civettuolo titolo "II ballo dei nastri," cronaca d'un "avvenimento mondano di memorabile eleganza" a totale beneficio della erigenda "Casa del fanciullo". Le vie della provvidenza sono infinite: questa forse, gira e rigira, alla fine arriverà.

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Racconti 2

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Monsignore s'era lasciato abbindolare, e aveva fatto prevosto quell'altro, senza tener conto del parere degli esaminatori, né delle eresie, né dei solecismi di latino di cui l'ignorantone aveva seminato a larga mano gli scritti del concorso. - Raglia! Raglia! - Era quel che si meritava. Il canonico Salamanca, che poteva spiegare benissimo per quali cattive ragioni non fosse diventato prevosto, non avrebbe intanto saputo dire perché si fosse messo il collare e avesse preso gli ordini sacri. Nella famiglia, ab immemorabile, c'era sempre stato un canonico; per continuare la lucrosa tradizione, suo padre aveva fatto indossare la zimarra a lui e lo aveva mandato in seminario. Lui come lui, non aveva detto né sí, né no. Studiacchiata un po' di teologia, come avrebbe studiacchiato un po' di codic e o di medicina all'università, ricevuti gli ordini, la messa, e in fine il canonicato, aveva posto subito i libri teologici a dormire sotto la polvere negli scaffali, e s'era abbandonato interamente alla sua passione giovanile, la caccia. Ora, il vero breviario gli pareva quel fucile a due canne, novità fatta venire da Malta, e costata un occhio; e i colpi sparati alle beccacce, ai conigli, alle pernici, alle lepri, alle volpi, quando capitavano, ai porci spini, anche piú rari, gli suonavano all'orecchio assai meglio di tutti i salmi, di tutte le antifone e dello stesso uffizio dei morti, che pure veniva pagato lí per lí, appena terminata la funzione. A casa sua era un via vai di cacciatori e dilettanti e di professione. Chi lo pregava per ottenere in prestito il bracco o il levriere, o il furetto; chi si raccomandava per un po' di quella polvere miracolosa, che si trovava soltanto presso il signor canonico ed era inutile cercarla altrove; chi veniva a dargli l'avviso di certo posto dove la selvaggina formicolava; chi a raccontargli le peripezie di una partita di caccia andata a male: - Ah, ci voleva il signor canonico! - E il signor canonico, sorridendo invanito, prestava il bracco, il levriere, il furetto, pei quali poco prima s'era lasciato scappare: - Non li presterei neppure a mio padre! - E regalava, due, tre cariche di quella polvere proprio inglese, che, a sentirlo, pareva gli fosse stata portata a dirittura di mano degli angioli, e di cui c'erano al mondo le sole poche libbre da lui possedute. Il gran confidente del canonico però era 'Nzulu Strano, la "prima balestra del paese", com'egli lo aveva battezzato. Arrivava ordinariamente verso un'ora di notte, stanco d'una giornata di caccia, mestiere di cui viveva, allampanato e giallastro, con quel vestito di frustagno color cece, che lo faceva parere piú smorto, coi calzoni infilati negli stivali e la pipa di radica in bocca. Quando portava qualche gran notizia, si fermava nel vano dell'uscio, con le gambe allargate, agitando una mano: - Il Padre Eterno dei bracchi! L'ha un saponaio di Ragusa. - Chi te l'ha detto? - E 'Nzulu, una sera, aveva sfilato una storia che non finiva piú; vita e miracoli di quel Padre Eterno dei bracchi: - Instancabile! E un fiuto! E un fermo! Inchiodava la selvaggina. Il cacciatore poteva con tutto il suo comodo ricaricare il fucile e godersi il colpo; una meraviglia! - Vorrà venderlo? - Neppure a Ferdinando II -. Gli occhi del canonico sfavillarono cupidi: - Se tu riescissi! - 'Nzulu, compreso che significassero quelle tre parole buttate cosí per aria, alzò le spalle masticando il bocchino della pipa: - E se mi arrestano? - Va' là! Il capitan d'armi di Modica è un amico. Ti hanno forse arrestato per Nièula e per Cardillo? Trattandosi di cani, il canonico Salamanca aveva pochi scrupoli, perdeva facilmente le giuste nozioni del tuo e del mio. Per quel Padre Eterno dei bracchi, avrebbe speso mezzo canonicato, senza rifletterci un solo istante; ma poiché il saponaio diceva di no: - Neppure a Ferdinando II! - voleva fargli vedere che lui, povero canonico e nient'altro, si sentiva piú forte del re. - 'Nzulu, se tu riescissi! - Riesciva sempre quel diavolo allampanato e giallastro, maledetto da Dio! E il mezzo canonicato se lo beccava lui, a poco a poco, lamentandosi tutti i giorni del suo brutto mestiere che non andava piú, della selvaggina diventata rara, della polvere cattiva, dei pallini che costavano cari, quasi fossero fatti di argento e d'oro; di quella tristaccia della Capraia, che gli rodeva gli occhi del capo, malata dodici mesi all'anno! - Costei è la mia rovina. Ora ci vogliono sei tarí per un intruglio dello speziale, e non ho nemmeno due grani - Cosí, oggi erano sei, domani dodici tarí, che il canonico gli metteva nel pugno, di nascosto di sua sorella donna Agnese, la quale sarebbe diventata una lima sorda, se se ne fosse accorta. Ella ce l'aveva contro quel pezzo di scroccone, e non dava requie al fratello. Succedeva un battibecco di due ore, quando il canonico le diceva: - Verrà 'Nzulu, per due tumoli di frumento. Poveraccio! Perisce di fame. - Dategli quello del canonicato, che mandate in casa di donna Totò! Chi ne vede un chicco? - E spesso, infatti, egli inviava 'Nzulu da donna Totò, perché il grano del canonicato i fittaiuoli della collegiata andavano a scaricarlo là, con la scusa che il canonico gliel'aveva venduto. - Sta bene, signor canonico! - rispondevano i fittaiuoli. E sacravano sotto voce: - La roba di Dio va al diavolo! - Ogni mattina, donna Totò preparava la pipa al canonico, perché facesse una fumatina, intanto che si riposava della salita, ora che la podagra gli aveva mezze spezzate le gambe. Il fumo non rompeva digiuno; e se Gesú Cristo, entrandogli in bocca dopo la consacrazione, sentiva un po' di puzzo di tabacco, poteva ben compatirlo. Fumava anche il papa! Poi, il caffè di donna Totò aveva un'aroma speciale. Quello preparato da donna Agnese pareva al canonico proprio acqua affumicata. E sua sorella non pensava né a crostini, né a biscotti, né a pan di Spagna da intingere. Indossando il camice e la pianeta, egli già cominciava a sentirsi solleticare le narici da quel profumo delizioso. Al vedere nella patena l'ostia da consacrare, pensava subito ai crostini, che erano assai piú sostanziosi; e si spicciava, si spicciava dall'"introibo" all'"ite missa est", tanto che il sagrestano durava fatica a tenergli dietro con gli "amen" e i "cum spiritu tuo". In campagna, nella chiesola della masseria, egli si sbrigava per un altro verso. Ogni sabato sera, suo fratello don Franco gli mandava la mula, e la partenza del canonico era uno spettacolo nella viuzza dove egli abitava. Tutti i suoi cani, sguinzagliati, abbaiavano, si rincorrevano festosamente, facevano un chiasso indiavolato attorno alla mula sellata, che il garzone teneva per la briglia, aspettando che il canonico scendesse le scale portando in mano il fucile e la carniera ad armacollo. 'Nzulu Strano era lí, alla cantonata, con la pipa in bocca e il fucile in ispalla per fargli compagnia; e carezzava i cani, o li richiamava col fischio e con la voce, se si allontanavano per le vie accosto: - Tèh, Nièula! Tèh, Cardillo! - Tutte le donnicciuole sugli usci. Bambini scalzi e stracciati schiamazzavano insieme coi cani attorno alla mula, che si lasciava tirare per la coda o per la criniera pacificamente, conoscendoli uno per uno, tante volte li aveva visti per la stessa occasione. - Buona caccia, signor canonico! - Felice viaggio, signor canonico! - Solo una vecchierella non gli diceva nulla, comare Nina la sciancata. Il canonico aveva notato che a ogni "Buona caccia, signor canonico" di quella vecchia sciancata, la polvere non gli diceva piú, i cappellotti non prendevano, i conigli si scotevano da dosso i pallini quasi fossero stati goccie d'acqua benedetta, e nell'andarsene via quatti quatti, voltatisi indietro, agitavano le orecchie per canzonarlo. - Voi non dovete dirmi niente, jettatoraccia! Avete capito? - E la povera vecchierella non gli aveva detto piú niente. Alla masseria, il "preparatio ad missam" era la posta pei colombi selvatici. Intanto che il massaio, sonando con la buccina marina l'appello ai contadini per la santa messa, faceva rintronar la vallata, il canonico andava ad appostarsi laggiú, sotto il sorbo, e 'Nzulu buttava sassi di cima alla rupe, tra i fichi d'India e gli oleastri, per ispaventare i colombi e farli scappare dai nidi. Essi scappavano a stormi, con gran fruscio di ale, a ogni sasso che rumoreggiava sbalzando tra le schegge della rupe, i f ichi d'India e gli oleastri; e subito, si udivano due colpi di fucile, uno dietro l'altro, laggiú, di sotto il sorbo. 'Nzulu ne vedeva il fumo; e vedeva anche il canonico raccogliere frettolosamente i morti e riporli nella carniera. E la buccina del massaro continuava ad assordare la vallata; e i colpi di fucile a echeggiare tra le rupi. Nella chiesuola, i cani scodinzolavano e saltavano attorno al canonico mentre 'Nzulu lo aiutava a indossare i paramenti sacri, a preparare il calice e aprire il messale. Il canonico gli aveva insegnato a servir messa. Che quegli storpiasse il latino, non importava; Domineddio capiva lo stesso. E poi, era affare di un quarto d'ora. Un giorno però la messa del canonico durò anche meno. A un " dominus vobiscum ", dalla porta spalancata, in fondo al viale affollato di contadini inginocchiati che la chiesola non capiva, davanti le piante dei carciofi, aveva visto un cane di pelo castagno, piccolo, seduto su le gambe posteriori, col muso all'erta, le orecchie ritte e lo sguardo fisso. Testa intelligente, naso di razza, musino bene affilato da cane da fermo; non poteva sbagliarsi. Da prima, resistette alla curiosità e sbrigò l'evangelo; ma voltatosi di nuovo, a una squadratura piú lunga, da quell'espertissimo cacciatore ch'egli era, poté giudicarlo meglio. Accennò a 'Nzulu, e fingendo di dirgli qualcosa che riguardava il servizio divino, gli soffiò a voce bassa: - Quel cane ... presso i carciofi, guarda. Di chi è? - 'Nzulu, data un'occhiata, rispose con una mossettina di testa e di spalle: - Di chi? Non lo sapeva. - Ma ne domandò al massaio inghinocchiato presso l'altare. Il massaio si rivolse per guardare; e allora coloro ch'erano nella chiesuola si voltarono tutti, intrigati; e fuori, nel viale, seguí un piú rapido movimento di teste alla direzione della carciofaia, un domandare e un rispondere con monosillabi e con cenni ... Nessuno ne capiva niente. Il cane, quasi ne avesse capito qualcosa lui, si levò e disparve, mentre il canonico, aprendo le braccia per un altro " dominus vobiscum ", sgranava gli occhi, arrabbiato che fosse andato via prima ch'egli avesse terminato la messa. Quei cinque minuti, che occorsero per arrivare affrettatamente alla benedizione trinciata in un battibaleno, gli erano parsi un'eternità. Cavatosi il manipolo, la pianeta, il camice, che stracciò a una manica, disse al massaio: - Di chi è quel cane? - Dev'essere di Corda-al-piede - rispose un contadino accostatosi per sapere di che si trattasse. Infatti, presso i carciofi, il figlio di Corda-al-piede lisciava l'animale e gli diceva ridendo: - Hai sentito la messa anche tu? - Il cane salterellava, faceva le viste di volergli mordere la mano, per carezza, ringhiando eccitato e allegro; e abbaiava, a riprese, se qualcuno gli toccava la coda, o tentava di accarezzarlo il padrone. - Che ne fai di questo cane? - gli domandò il canonico. - È di mio padre. - Me lo prendo io. - Neppure per chiasso. Gli costa mezza salma di fave. - Gliene darò una intera. - Niente, signor canonico. Gli vuol bene piú che a me che gli son figlio. - Su: venga a prendersi le fave. Va' a dirglielo -. Ma, un'ora dopo, Corda-al-piede arrivò, trafelato pel cammino fatto, strepitando: - Voglio il mio cane! - Bestia, che te ne fai? - Voglio il mio cane! - Non rispondeva altro. E siccome 'Nzulu e il massaro cercavano d'inframmettersi, cominciò a sbraitare e a dir loro delle parolacce. 'Nzulu lo tirò da parte, vicino al pollaio: - Come? Dite di no al signor canonico? Non lo sapete dunque ch'egli può giovarvi in tutte le circostanze? ... - Voglio il mio cane! - Quel giorno il canonico tornò di malumore al paese; e per una settimana discorse di quel cane con 'Nzulu e con gli altri che venivano a fargli visita, al solito, pel levriere, o pel furetto, o per qualche carica di polvere da caccia, di quella che si trovava soltanto presso di lui ed era inutile cercarla altrove ... Cottone, un altro cacciatore di mestiere, lo conosceva meglio di tutti il cane di Corda-al-piede: - Animale coi fiocchi! Cacciava da sé, e portava i conigli al padrone senza che nessuno l'avesse addestrato. Ma quello zotico non si degnava nemmeno di prestarlo -. Mezzo paese si mise in moto, per far cosa grata al signor canonico. E 'Nzulu andava e veniva, aumentando ogni volta il prezzo che quegli era pronto a pagare. Corda-al-piede piú si vedeva pregato, e piú diventava duro. Il canonico, quando gli riferivano le risposte, si mordeva le mani. Non gli era mai accaduto un caso simile; gli pareva impossibile che quel pezzo di villanzone resistesse alle offerte e alle minacce. Giacché egli, alla fine, era ricorso alle minacce per intimorirlo. Corda-al-piede rispond eva: - Nel mondo, due sono potenti: chi ha molto e chi non ha niente. Che può farmi il canonico? - Questi, tornando a dire la messa in campagna, aveva delle distrazioni. Vedeva sempre, là, in fondo al viale, presso la carciofaia, il cane di Corda-al-piede, che non c'era piú, e non s'era piú visto perché il padrone lo teneva in casa incatenato. - Né io, né lui! - decise il canonico. E trovò chi, con la scusa di dire una parolina a Corda-al-piede, andò a buttargli in casa una polpetta di stricnina pel cane. Ma un sabato sera, il canonico Salamanca, andando a Bardella per la messa della domenica, vide proprio la morte con gli occhi, come diceva 'Nzulu Strano, raccontando il fatto. Corda-al-piede, che attendeva allo svolto della strada, presso il vallone della Lamia, gli puntò il fucile in faccia, esitante: - Per la Madonna! ... Dovrei farvi fare una fiammata e andarmene in galera! - Il canonico, colto alla sprovvista, fermò la mula, pallido come un cadavere, balbettando: - Contro un sacerdote? - Ringraziate la chierica di Cristo, che non siete degno d'avere in testa! - E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.

Demetrio Pianelli

663120
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"Non è possibile ... " disse freddamente e con un leggiero sorriso ironico Beatrice, per fargli capire che non era disposta a lasciarsi abbindolare. Demetrio, a questa risposta cosí fredda e categorica, alzò gli occhi e li fissò un istante in viso alla sua cara cognata, contraendo le labbra a un tremito nervoso, che pareva un sorriso sardonico. "Non è possibile" tornò a dire Beatrice nella sua matronale tranquillità. "Voi non siete obbligata forse a sa ... sapere e siete da compatire. Ma qui c'è un fascio di conti ... Cesarino aveva le idee troppo grandi." "Bel capitale! Bisognava vivere con decoro, si sa." "Lasciamo il decoro, per carità!" "Si sa, un regio impiegato ... Non tutti possono rassegnarsi a vivere di pane di segale o di polenta ... ." "No, no ... che segale e che polenta! Adesso è morto e noi dobbiamo pregare per l'anima sua, ma vi confesso che sono spaventato. Ci sono tre semestri dell'affitto che bisogna pagare per la Pasqua, o il padrone mette il sequestro. C'è un vecchio conto dell'orefice Boffi, che mi ha portato lui stesso all'ufficio ... Aspettate; perché non diciate che invento tutto per il gusto d'inventare, ho portato con me tutte le pezze giustificative. Quando hanno saputo che Cesarino era morto e che io, suo fratello, m'incarico un poco delle faccende, i creditori si son mossi tutti come le mosche, se la pigliano con me, pretendono che io abbia a pagare ... Io? con che cosa pagare? e che c'entro io?" Demetrio, tratto il suo fascio di cartacce, sciolse lo spago che le legava insieme, e cominciò a spiegarle sulle ginocchia. "Arabella!" chiamò la voce chiara e argentina di Beatrice. "Che cosa vuoi, mamma?" dimandò la bambina, che stava fuori in sentinella. "Portami il caffè." Demetrio frugò un pezzo nella tasca di sotto e trasse l'astuccio degli occhiali. Ne uscí un paio con grosso cerchio d'osso ch'egli appoggiò alla punta del suo naso color patata, assicurando le grosse spranghette tra l'orecchio e il ciuffo rossiccio dei capelli. Inarcò le sopracciglia, e contraendo la pelle della bocca, come se provasse della nausea, cominciò a leggere sopra una pagina: "Ecco, Angelo Boffi, orefice e bigiottiere. Per braccialetto d'oro con zaffiro, lire 150 ... ." "È un braccialetto che Cesarino ha voluto regalarmi fin dal Natale dell'anno passato." "Fu pagato?" "Io credo di sí." "Il signor Boffi dice di no ... ." Beatrice cominciò a guardarsi intorno, come se cercasse un testimonio. Non vide che gli occhi amorosi di Giovedí, che la contemplavano con soave tenerezza. Vedere il povero cane e sentirsi tutta rimescolare fu un punto solo. Ruppe in un singhiozzo, stese le braccia alla bestia, che le saltò in grembo, e si rannicchiò a piangere anche lui. "Dove sei stato fin adesso? o povero Jeudi, o Jeudi ... dov'è il tuo padrone?" Giovedí rispondeva alla sua maniera, mugolando. Demetrio chinò il capo, lasciò cadere la mano sul ginocchio e aspettò che la padrona e il cane finissero di piangere. Cogli occhi fissi nel vuoto, il pover'uomo pensava al numero dei gradini che Beatrice doveva fare per discendere dal suo trono di cartapesta fino alla triste realtà, che la circondava da tutte le parti. "Non fu pagato questo, come non furono pagati gli altri" riprese a dire con un tono uguale e freddo, dopo un istante. "C'è qui un altro conto del signor Cena parrucchiere per ... per ... saponi e profumerie ... lire 56 ... Diavolo, questo non è nemmeno pane di segale." Beatrice arrossí, si rizzò sulla sua persona, e tornò a guardare il cognato orangoutan, con una espressione di sarcasmo e di paura. Demetrio, sempre a capo basso, col coraggio inesorabile e pietoso del chirurgo che opera sulla carne viva, scorrendo uno dopo l'altro quei benedetti conti, seguitò: "C'è un conto anche dal pizzicagnolo, circa duecento lire; c'è quello della sarta Schincardi, un'ottantina di lire anche qui. C'è persino un vecchio conto del pasticciere Dragoni, che risale nientemeno che al battesimo di Naldo e che non fu mai pagato. Anche questa non è polenta ... Conto del calzolaio Bianchi in lire ... cin ... cin ... quecento settantasei ... Una bagattella!.. Conto non quietanzato De Paoli per tap ... tappezzeria ... dice tappezzerie? duecento quarantacinque e settantanove c ... entesimi." Man mano che leggeva, la fronte del bifolco si rimpiccioliva nella contrazione delle ciglia in un gruppetto di grinze, sulle quali veniva a cadere a foggia di tettuccio il piovente duro e diritto dei capelli. Arabella entrò col vassoio del caffè e col bricco in mano. Con la prontezza della sua intelligenza essa aveva già capito che in quel suo zio ruvido e bifolco c'era l'angelo custode travestito da ortolano. La scomparsa improvvisa del papà, la fuga precipitosa, il modo misterioso in cui aveva sentito parlare alle Cascine, le poche frasi udite all'entrare in sala, avevano già detto alla povera tosetta che una grande disgrazia stava sulla sua casa e che forse lo zio Demetrio meritava di essere ascoltato. Dalla cucina veniva un gran chiasso di voci e un gran picchiamento. "Che fanno quei matti?" chiese Beatrice. "Dicono che hanno fame e picchiano sulla cassa della legna. Il lattivendolo non è venuto, e nemmeno il fornaio." "Hai mandato Ferruccio?" "Ma non c'è ... " rispose Arabella con una leggera impazienza, in cui si sentiva il tremito del pianto. "Bene; di' loro che stiano quieti che adesso vengo subito." "Settimo: Conto non quietanzato del farmacista ... ." "Scusate, Demetrio," interruppe questa volta con un atto d'impazienza Beatrice "io non so nulla di questi conti che dite voi ... ." "Non volete dire con ciò che me li invento io ... ." "Non sono in grado di dire se questi conti siano o non siano stati pagati. Lasciateli qui che li farò vedere a mio padre ... ." "Non cerco di meglio ... Ma non vorrei che questi poveri figliuoli andassero di mezzo. Pensiamoci, per carità. Tiriamo i remi in barca ... Che cosa può fare il signor Chiesa per voi e per la vostra famiglia?" "C'è ancora tutta la mia dote. Son quarantamila lire, non un quattrino. Vostro fratello non ha sposato una contessa, ma nemmeno la figlia della serva." "Può il signor Isidoro mantenere oggi le sue promesse?" "Adesso subito forse no, perché è in causa coll'Ospedale, ma fra sei mesi, fra un anno?" "Da quanti anni dura questa causa, lo sapete? quante volte fu già perduta? quante migliaia di lire furono sprecate in questa benedetta questione?" "Mio padre è un uomo di buona fede e trovò sempre degli avvocati di poca coscienza." "Lo so, non facciamoci illusioni ... ." "Che cosa volete dire? che debbo forse mandare i miei figliuoli a fare il ciabattino?" Beatrice aveva letto un romanzo, Lo Sparviero e la Colomba , in cui una giovine bella e ricca ereditiera lottava contro le insidie d'un gesuita che agognava alla sua eredità. Ebbene, le pareva il caso suo. "Per fortuna" pensava "so quel che vali! ma non ci riuscirai ... " E si sforzava, nella sua semplicità di spirito di reagire e di tirarsi su impettita con tutta la persona, come faceva nel suo palchetto quando il marito la conduceva al teatro Dal Verme. Demetrio sentí una gran tentazione di buttarle in viso i conti e di andarsene. Ma gli venne in mente il povero Cesarino disteso sotto una stuoia; gli venne in mente l'obbligo morale che egli si era assunto verso il Martini per salvare l'onore al nome dei Pianelli; gli risonò nell'orecchio la voce aspra del padrone di casa; sentiva nello stesso tempo il chiasso che facevano quei ragazzi di là, picchiando nella cassa della legna ... Pensò che il sor Isidoro era un pazzo, fallito dieci volte per la sua cocciutaggine nel far cause a tutto il mondo, e che sua cognata era una testa d'oca. Per tutte queste ragioni, dopo aver trangugiato molto fiele in silenzio, mentre Beatrice finiva di sorseggiare il suo caffè, rilegato collo spago il fascio dei conti, li collocò sul tavolino, e disse con un tono di voce in cui si sentiva lo sforzo di dominarsi: "Se io volevo dare qualche consiglio, prego mia cognata a credere che non lo facevo per mio interesse. Chiamato in un momento triste, io pensavo che fosse mio dovere di coscienza di mettervi al fatto dello stato delle cose: non vi ho detto tutto ... perché è inutile che sappiate tutto. Amen! Io vorrei vedere qui vostro padre in luogo mio a pagare questi conti; ma forse il signor Chiesa dirà che i vostri figliuoli portano il nome Pianelli e che non tocca a lui di salvarli dalla miseria e dalla fame ... ." "Che cosa dite?" esclamò Beatrice irritata. "Lasciatemi finire e poi vi toglierò l'incomodo per sempre. È inutile farsi delle illusioni. Voi non avete piú un soldo della vostra dote, non avrete un soldo di pensione e con sei o sette mila lire di debiti dovrete provvedere a voi e ai vostri figliuoli." Beatrice tornò a sorridere ironicamente. Il vecchio bifolco credeva forse che ella si lasciasse infinocchiare da queste declamazioni. Sbagliava di grosso. "Io ero venuto per dire che bisognava pensare seriamente, subito, radicalmente, ai casi nostri, o tanto vale prendere i ragazzi e mandarli a suonare l'organetto." "E che cosa bisognerebbe fare? sentiamo" provò a dire Beatrice con aria quasi di sfida. E intanto si paragonava nella sua mente alla gatta che difende i suoi piccini dalle unghie d'un brutto cagnaccio. "Punto primo, si cominci a vendere tutto quello che non è necessario." "Vendere!" esclamò Beatrice, spalancando tanto d'occhi. "Sí, vendere, o restituire quello che non si può pagare ... ." "Ah sí?" disse con un sorrisetto ironico la povera donna. "Punto secondo, bisogna restringersi nelle spese, lasciare le apparenze, non curarsi tanto della gente e rivoltare le maniche, come si dice ... " "Ah sí?" tornò a dire Beatrice, pallida, movendosi da una poltrona all'altra. "Non è il caso di mandare questi figliuoli a fare il ciabattino; ma certo saremmo tutti matti, se pensassimo di farne fuori degli avvocati. Via via, qui c'è della roba, voi avete portato della roba ... ." "Ah chiedo scusa!" interruppe questa volta Beatrice con un impeto straordinario di energia, "della roba mia la padrona sono io ... ." Demetrio, che nel calore e nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna, capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare, raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse: "Scusate, questi debiti io non posso pagarli ... ." "Lo so, non è la prima volta che non potete pagare i vostri debiti ... ." Questa era la frase che il signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva alla famosa dote di mamma Angiolina. Demetrio ricevette il colpo in pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola ... Col dito secco segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza dir nulla. Un grimaldello non avrebbe potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno. Uscí, traversò la cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e finalmente trovò l'uscio dell'anticamera. Fu un miracolo se si ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di nuovo: "Ehi! ehi!" dal fondo dello stanzino. Ma egli non sentí o non volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú oscuro del suo pensiero che una parola sola: "Asino!" In questa parola, che rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira, il dispetto, il dolore, la vergogna dell’offesa ricevuta, e la vergogna della sua incapacità morale. Per via Torino, San Giorgio, Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio. Lavorò meccanicamente, come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua dialettica: "Asino!"

VORTICE

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Al primo dubbio tutte le espansioni si restringevano, ognuno per necessità di battaglia si rimetteva sulla parata con un orgoglio di egoismo, che non vuole lasciarsi abbindolare da pietà di sventure o da illusioni di risorse. Sotto la loquacità chiassosa della colazione egli aveva sentito la durezza impenetrabile dei cuori, la diffidenza vigilante e pronta a tentare col più atroce degli scherzi l'imminenza di una ruina per meglio evitarla. Ma prima di quella cambiale, non aveva notato certe cose. Quindi si era sforzato di non pensarci: il disegno per rimediarvi lo aveva, vendere l'unico podere a quello stesso strozzino, giacché vi rimaneva ancora, malgrado le ipoteche, un margine di tre o quattro mila lire. Ecco perché quasi non se ne preoccupava; ma gli altri debiti, i regolari, lo urgevano tutti i giorni, senza requie. Era andato a Bologna appunto per girare una cambiale colla firma di un amico, un giovinotto in vena di ruinarsi gaiamente, e così fare fronte ad altre due cambiali, che gli scadrebbero lunedì alla Cassa di Risparmio e alla Banca Popolare; ma fra tutte e due non superavano le quattrocentosessanta lire. Era poco, però ne aveva altre, anche più piccole, poi tutto il resto dei debiti e delle liste. Mai si era sentito più sconsolato di quel giorno; per reagire aveva bevuto parecchi vermut nelle bottiglierie, aveva seguito per strada, sino a casa, una ragazza che nemmeno gli piaceva; ma ad ogni disillusione cogli amici, sui quali credeva di contare, pur confessando a se stesso di non averne motivo sufficiente, la tetraggine gli si addensava nell'animo. Quella giornata gli era parsa eterna, specialmente nelle ultime ore. Perché aveva perduto il treno delle quattro e mezzo? non avrebbe saputo dirlo. Infatti quelle, che con uno sforzo di volontà potevano sembrargli combinazioni probabili per la girata della cambiale, erano tutte esaurite prima della colazione. Dopo, non aveva tentato ancora che per rabbia contro se stesso, per darsi dell'imbecille prima, e poi bestemmiando nel fondo del cuore contro il destino. Ma lo sapeva già. Quindi aveva girellato trovando sempre le strade troppo lunghe, curiosando senza voglia nelle vetrine, con quell'aria pesante e distratta, alla quale la gente non s'inganna quasi mai e fiuta i poveri, gli spostati, tutti coloro momentaneamente senza danaro e nella impossibilità di procurarselo malgrado qualunque dolore della necessità. Egli stesso si accorgeva di tradirsi; una vergogna nuova e sottile gli faceva credere di essere mal vestito, gli pareva di sentirsi sempre qualche occhiata addosso; poi non s'incontrava più, egli uso a trovare tanto lusso e tanta squisitezza a Bologna, in niente di bello. Quando vide accendersi i primi lampioni, ne provò un sollievo: l'ombra del crepuscolo aveva spopolato le strade, rendendo meno osservabili coloro che vi passavano. Si avviò verso la stazione, allungando la strada per tutte le svolte sino alla Montagnola; il vecchio ed angusto passeggio era deserto, pieno di alberoni secolari, che avevano già messo le foglie, ma che in quel freddo di sera non abbastanza primaverile rabbrividivano ancora. Qualcuno vi si aggirava come lui, in preda a pensieri forse più disperati. Il rumore della città si assopiva lentamente: i fanali punteggiavano l'oscurità, allineandosi fino lontano, donde un rumore veniva tuttavia, mentre alle finestre delle case per bene si vedevano già accendere i lumi per la gaiezza del pranzo. L'isolamento gli aveva fatto paura: era stata una sensazione subitanea, violenta. Quell'ora del pranzo doveva essere ben terribile per tutti quelli che non avevano dove pranzare, dopo un giorno così lungo, e dinanzi alla notte anche più lunga senza ricovero! Per non pensarci troppo era disceso dalla Montagnola, per il viale degli ippocastani, lungo le mura verso la stazione. Anche lì sembrava stagnare la vita; l'orologio della torre, alto sul mezzo della stazione in quel crepuscolo, col lume acceso dietro il trasparente, aveva una opacità di grande occhio ammalato. Egli così poco artista ed osservatore, n'ebbe l'impressione per la prima volta. Nel ritorno aveva avuto la fortuna di entrare in uno scompartimento di seconda classe vuoto; ma poi, nel viaggio, se ne era rammaricato. Non aveva mangiato e non aveva fame, però l'estenuazione cominciava a dargli quella sensibilità dolente, propria dei deboli; finalmente non si rinfrancò che arrivando in piazza dinanzi al Duomo, sotto quei portici così famigliari, salutando e ricevendo il saluto di voci amiche. Nel caffè c'era Gaudenzi, che lo invitò alla solita partita; un vecchio maestro delle scuole tecniche, vegeto, allegro, chiacchierino, un ricco mugnaio attempato, uno scrivano di notaio, mezzo storpio e divertente per la loquacità melodrammatica e letteraria, avevano circondato il loro tavolino, e la partita era seguitata fra i soliti discorsi nella bonomia tranquilla di tutte le sere. Ma quel gran colpo gli aveva tolto anche la memoria di tale triste ritorno. Poi una paura lo assalì; si nascose frettolosamente la lettera nella tasca dei calzoni e in punta di piedi, lasciando la candela sulla scrivania, venne ad origliare all'uscio della camera da letto. Caterina dormiva con un russo leggiero: stette qualche minuto coll'orecchio incollato alla fessura dell'uscio, poi a ritroso, senza urtare in alcun mobile, rientrò nello studiolo. La mente gli tornava: ritrasse la lettera dalla tasca e, ubbidendo alla preghiera dell'amico, la bruciò, con un senso quasi di sollievo. Era la prima accusa distrutta. Che fare? In quel subbuglio di tutte le idee non poteva ancora rendersi un conto, anche solo relativamente esatto, della propria situazione, ma sentiva che fra poco, quando saprebbe meglio dominarsi, non troverebbe egualmente nulla. Era sempre la stessa sensazione di un buio improvviso e cieco, nel quale non poteva nemmeno gridare: da chi invocare soccorso? Qualunque fosse il perché o il come di tale catastrofe, la violenza non ne diventava che maggiore. Nessuno lo aveva rovinato, nessuno in quel momento lo spingeva nell'abisso. Era stato lui solo, gaiamente, storditamente, per un seguito di piccoli piaceri, di minime compiacenze, di false abitudini, a mettersi in quell'abbrivo, lusingandosi fantasticamente di potersi sempre fermare, coll'esempio di tanti altri, che avendo fatto o facendo tuttavia assai peggio, rimanevano ancora in piedi, salutati, ricevuti dovunque. Ed egli pure aveva voluto essere così forte, senza comprendere in che cosa tale forza consistesse, ma soprattutto vivere meglio del come era nato, in una più alta sfera. Quindi il suo distacco lento ed orgoglioso dai primi compagni, che convinti della propria posizione l'accettavano, nella modestia degli inevitabili lavori, con una rinuncia onesta alla vivacità delle troppo facili speranze; poi la iniziazione nella classe dei signori, che avevano finito col trattarlo da pari, tutta una conquista assidua e minuta, piena di piccole gioie e di nascenti soddisfazioni, onde si era persuaso di essere un qualcuno importante, e di poter un giorno diventare anche qualche cosa. Finalmente lo scialo, non vistoso ma continuo, i vizi, sino a quella passione breve ma rapace, inevitabile, che gli aveva fatto perdere la testa rendendolo ridicolo fra i nuovi amici, e per la quale in una mattina di follia, una mattina pioviginosa e fredda, era andato da quello strozzino per fargli accettare la cambiale! Nemmeno allora se ne era reso ben conto; aveva agito come sotto un incubo, con dei brividi freddi come quelli che adesso gli passavano per le reni, la testa pesante, ma recitando fin troppo bene la commedia preparata. Dopo, aveva sempre fatto degli sforzi per non pensarci, malgrado i debiti, che seguitavano a travolgerlo senza lasciargli un'ora di pace. E tutto era finito prima della scadenza vera; il dramma scoppiava in questa anticipazione imprevedibile, alla quale qualcuno doveva aver cooperato. Non restava che morire. Egli pronunciò mentalmente questa parola, come eco di una voce, che gli sonasse dentro nel profondo del cuore, e subito dopo fu più calmo. Perché? Che cosa era stato? Né la sua volontà, né la sua ragione lo avevano condotto a questa decisione, e tuttavia poté ripetersi distintamente: - Sì, morire! * * * Come accade sempre nelle decisioni troppo importanti, che agiscono sull'anima al pari di un abbarbaglio, una pesantezza torbida lo aveva poco dopo prostrato. Quella idea della morte non gli si era mostrata con alcun significato preciso; non ne aveva veduta la forma, né sentito il dolore, quantunque fosse già il distacco da tutto quanto componeva la sua vita di trentadue anni, una vita senza valore per gli altri, ma intera ed alacre entro l'angustia della propria orbita. Adesso, nell'impossibilità per lui di ripensarla attraverso i molteplici minimi ricordi, acquistava come un'improvvisa, sconfinata dilatazione, nella quale si perdeva anche quel dramma finale come una voce di disperazione per la solitudine di un grande prato squallido, quando la notte sta per involgerlo nella propria ombra. Non gli restava che la sensazione di un vuoto. Sempre così seduto stancamente sulla poltrona teneva gli occhi fisi sulla fiammella della candela, alla quale il suo alito imprimeva tratto tratto qualche lieve oscillazione. Sul suo volto, generalmente rosso, un pallore livido alterava tutti i lineamenti; la fronte diventata greve in quella improvvisa opacità, che le troppo lunghe meditazioni sembrano lasciare su quelle dei pensatori, gli si aggrondava sui sopracigli velandogli gli occhi, mentre uno stiramento gli irrigidiva la bocca convulsa. L'orologio della piazza batté tre quarti d'ora dopo la mezzanotte. La prima cosa che sentì, fu di essere così profondamente mutato. Benché in casa propria, non vi si riconosceva più: vedeva la disposizione di tutto l'appartamento con quelli che vi abitavano, sua moglie Caterina addormentata nell'altra camera sotto la coperta di filugello verde; nella stanzina attigua Ada e Carletto nei due lettini di ferro; vedeva il proprio posto vuoto accanto a Caterina, l'attaccapanni col grande cappello nero a cencio, il mantello scuro, la specchiera sul comò di fronte al letto, udiva la respirazione regolare, il russo lieve di quei dormienti, ma con un senso inesplicabile d'indifferenza come di uno straniero, pel quale quella casa e quelle persone non potessero avere alcun significato. Era solo! La stessa intimità del suo passato con essi si rompeva improvvisamente, isolandolo dalla loro esistenza, della quale una volta provava le ripercussioni ad ogni atto, senza potersene staccare nell'avvenire nemmeno colla fantasia. Quindi un più sottile malessere gli veniva da quel gabinetto quasi vuoto, rischiarato appena dalla candela, freddo e muto come una stanza d'albergo. Infatti era quasi il medesimo mobilio: sedie, scrittoio, scansie, sofà in noce e lana, senza stile, senza accento. Egli vi era solo. Così? Perché? Perché così solo? - Dove sono? - esclamò sommessamente, portandosi ambo le mani alla faccia. L'idea gli si ripresentava lucida, inesorabile. O la morte o la prigione, non vi era mezzo termine. Ma daccapo ebbe paura, e si cacciò col pensiero come fuggendo per tutte le vie che gli si aprivano davanti, acciecato da una speranza di salvezza. La passione della vita gli si era ridestata in uno scoppio: qualunque fossero la colpa e la pena che lo minacciavano, non voleva morire. V'era tempo, tutto poteva ancora accomodarsi. Una ressa d'indistinti bisbigli gli saliva dalla memoria di tanti casi disperati, che aveva veduto a poco a poco acconciarsi nella normalità della vita, di altre esistenze quasi sradicate da un colpo di bufera, e che nullameno avevano potuto resistere rituffando le radici nel terreno e coprendosi dopo qualche mese di nuove foglie. Egli non voleva soccombere: la vita protestava in lui da ogni punto dell'anima in un orgasmo di tutte le fibre. Ma nessuna di quelle vie, per le quali il suo pensiero fuggiva smaniando, era neppure abbastanza lunga per dare tempo ad una illusione; tutte finivano contro lo stesso muro, la medesima impossibilità di evitare il processo, dal momento che la cambiale era già nelle mani del pretore. Questi, un giovane di Senigallia, eccezionalmente ricco per la sua classe, mirava a diventare presto giudice, facendo pompa di un riserbo e di una severità egualmente inflessibili. Ma egli non voleva il processo, quella morte più lenta, ed atroce di qualunque altra nell'agonia del domani o del posdomani, appena il fatto si fosse divulgato, e poi di tutti gli altri giorni sino all'ultimo della condanna a cinque anni, giacché ci aveva pensato involontariamente altre volte di sfuggita. Quel giorno non sarebbe mai finito su quello scanno degli accusati, dinanzi ai giudici e al pubblico, con Caterina nella sala che singhiozzerebbe, mentre egli dovrebbe rispondere all'interrogatorio sentendosi addosso tutti gli sguardi della folla indifferente nella certezza di una condanna, che rendeva egualmente inutile ogni abilità di accusa o di difesa. Tanto era morire altrimenti. Tutto intorno a lui si sarebbe del pari spezzato: Caterina e i bambini, ridotti alla più squallida miseria, non avrebbero più per lui che un orrore misto di odio, quell'odio doloroso ed onesto di tutti i caduti per colpa d'altri nella povertà umiliante di una condizione, dalla quale anche uscendo, rimane la macchia. Ma Caterina sopravviverebbe al colpo? Si poteva durare a quella tortura del processo, che comincerebbe subito, colla sua prima parola, entrando nella camera da letto per confessare tutto? Sarebbe stato il primo tratto di corda al cuore, nel silenzio di quella camera così tranquilla da dieci anni, mentre i bambini dormivano nell'altro stanzino, sempre coll'uscio aperto. Lo strido di Caterina somiglierebbe a quello di un ferito: se lo sentiva già dentro gli orecchi lacerante, lungo, che si perdeva in lontananza dopo avergli forato spasmodicamente il cervello. Egli non potrebbe calmarla. Che cosa dirle? L'origine di quella colpa l'aveva già sconvolta tre mesi prima, apprendendola solamente a mezzo; era stata una gelosia improvvisa, quasi furiosa, che gli aveva rivelato in lei tutta un'altra faccia del suo carattere apparentemente così bonario e insignificante. Egli in quella amarezza dell'essere tradito dall'altra, per la quale si era pazzamente perduto, ne aveva provato come una consolazione di orgoglio, nella certezza dell'affetto che gli restava. In qual modo confessare ora il resto? La colpa stessa spariva nella orribilità della espiazione: aspettare in casa l'arresto, chi sa quanti giorni, indovinando da lungi tutti i discorsi dei caffè; doverne serbare indarno il segreto con Anastasia, la serva, fino al momento che un delegato venisse ad intimarglielo con quella insopportabile gentilezza da impiegato, probabilmente nella forma di una chiamata in questura. Nessuna forza umana poteva bastare a tale supplizio: Caterina ne diverrebbe forse pazza, era impossibile non morirne. Per quanto atroce, il fatto di trovarsi davanti al pretore e al cancelliere, dopo essere forse passato per la città fra le guardie, diventava insignificante al confronto dell'esame, che avrebbe dovuto subire, chi sa per quanto tempo, dinanzi alla moglie, sotto l'inquisizione disperata del suo silenzio o delle domande rinascenti indarno dalle memorie della sua anima calpestata ingiustamente, per sempre, senza un motivo e senza un avviso. Eppure egli lo aveva fatto! Anzi qualche cosa gli restava nel cuore di quella passione istantanea ed irresistibile, una amarezza ed insieme un orgoglio quasi simile a quello che sostiene il coraggio dei delinquenti, e li consola nelle pene dell'espiazione. Si pentiva piuttosto delle conseguenze che del fatto: era stato fatale, senza ricerca da parte sua, senz'alcuna possibilità di resistenza. Adesso tutto era passato. Un singhiozzo gli salì dal petto affaticato. Seguitava sempre a cercare, sorpreso da sùbiti scoramenti, che gli davano la sensazione effimera di un bisogno di pregare, dopo i quali si cacciava più disperatamente avanti nella ricerca insensata di un espediente. Uno stesso smarrimento gli confondeva ragione e fantasia, così che non poteva seguire nemmeno la più semplice combinazione di sogno, o conchiudere il più volgare dei ragionamenti: capiva solo che niente e nessuno verrebbe ad aiutarlo, poiché si era consapevolmente posto in tale condizione. La sua testa, d'ordinario tutt'altro che potente, trabalzava di visione in visione, sfuggendo a quella dello scandalo in piazza con un più acuto terrore dello scandalo domestico, senza potersi ancora fermare al perché di quella anticipazione, e come mai la cambiale fosse stata presentata al pretore due mesi prima della scadenza. Egli aveva già indovinato il colpo: era stato il Bonoli, socio secreto dello strozzino, freddamente perverso e ricco, ad affrettare la catastrofe. Infatti si era ricordato subito, sebbene confusamente, del suo ultimo saluto incontrandolo alla stazione sulle mosse per Firenze due giorni prima. Allora ne aveva provato dentro come un dissolvimento di tutto se stesso, ma nessuno si era accorto di nulla, ed egli non ci aveva pensato oltre. Il Bonoli doveva aver imposto ciò allo strozzino, giacché questi non lo avrebbe forse fatto di per sé, anche per non aumentare in paese le proprie antipatie, contentandosi di acquistare a buon mercato il podere. Tutto ciò gli rimaneva non pertanto torbido nella testa. Non si era nemmeno fermato al solo espediente discutibile: partire per Firenze, presentarsi al conte Zoli, ex-deputato della città, un signore malaticcio, vecchio, infelice per la moglie e senza figli, confessargli il sopruso di quella firma falsa e scongiurarlo di riconoscerla per vera. Infatti era imitata abbastanza bene, perché ciò fosse possibile senza troppo scandalo. Ma come affrontare una tale scena? Poi lo strozzino e Bonoli dovevano già aver ottenuto dal conte Zoli una qualche dichiarazione prima di presentare la cambiale al pretore; e quindi il vecchio signore non avrebbe potuto disdirsi che ben difficilmente, senza cadere egli medesimo nel processo. Questo filo, così tenue, era tuttavia l'unico che gli restasse in quella paura, che lo raggirava sovra se stesso da quasi due ore. Non ci pensò. Morire così era impossibile, mentre tutto era ancora intatto dentro e intorno a lui. La profondità di questa contraddizione non gliene lasciava sentire spasmodicamente che l'orgasmo; nessun'altra sensazione di dolore per il modo o per il tempo della morte si mescolava al suo orrore. Si muore forse, quando si è così nella pienezza della vita? Come comprendere la morte? Egli non ne vedeva la ragione, pur soffrendone la necessità; quindi non faceva che fuggire dinanzi ad essa, che lo circuiva, lo premeva, costringendolo a rientrare da tutte le parti in se stesso, a spezzarsi volontariamente, senza lasciargli nemmeno la tregua indispensabile per riunire tutte le proprie energie in questo sforzo supremo. Un acuto bisogno di aria e di moto lo fece alzare: non voleva restare lì, gli pareva già di essere in cella. Allungò la mano per riprendere il cappello, ma non ebbe il coraggio. Dove sarebbe andato a quell'ora? Tutti i luoghi gli erano diventati indifferenti; non pensava nemmeno a fuggire, sapendo di non aver più né danaro né altra risorsa, colla quale vivere altrove. La città gli fece improvvisamente paura: qualcuno riconoscendolo per via avrebbe potuto fermarlo ed interrogarlo. Egli lo sentiva; alla prima parola rivoltagli avrebbe dato in uno scoppio di pianto, e la confessione gli sarebbe sfuggita intera, spaurita, come ad un bambino, per lasciarlo dinanzi alla indifferenza alquanto stupefatta dell'altro. Perché nessuno ha davvero pietà di ciò che non lo tocca; si guarda, si ascolta, si assente con una segreta inconfessabile soddisfazione di non essere in tale caso, e si accusa sempre chi vi soccombe. Egli invece avrebbe avuto bisogno di un'immensa pietà. Forse vi avrebbe trovato l'energia di soffocare tutta la rivolta, nascondendo con un ultimo sforzo quella compiacenza del sentirsi quasi rimpianto, che è l'orgoglio segreto di tutti i nostri dolori, l'ultima impossibile rinuncia anche pei suicidi. Ma egli non aveva a cui parlare, e soprattutto non gli sarebbe riuscito di trovarne il modo. La sua colpa era troppo sciocca, nel motivo e nelle conseguenze, per eccitare le simpatie di qualcuno: non aveva né padre né madre; sua moglie non avrebbe capito più dei proprii bambini la tragica fatalità di quella scempiaggine. Egli doveva esaminarla solo, senza la falsità di alcun aiuto. Benché avesse già deciso istintivamente, e tutte quelle incertezze non fossero che gli effetti appunto di tale decisione, tuttavia l'istinto vi tornava sopra. Morire subito, senza dir nulla, senza aver prima esaurito tutti i mezzi di difesa, era ancora più impossibile che assurdo. La vita, appunto perché piena di drammi, ha un numero infinito di soluzioni, le quali non si possono vedere tutte al primo sguardo, mentre la morte aspetta pazientemente in fondo, terribile, inintelligibile anche quando la si accetta. Prima bisognava calmarsi. - Vediamo: che cos'é? Ho fatto una firma falsa in una cambiale, - e questa cambiale è stata presentata al pretore prima della scadenza. Perché? Era stato il Bonoli, senza dubbio. Quell'uomo era il suo nemico sino dalle ultime elezioni, nelle quali egli lo aveva stupidamente combattuto, accusandolo appunto di essere un socio segreto dello strozzino Bugnoli. Tutti in fondo lo sapevano, ma nessuno aveva osato formularlo nettamente prima; egli solo, nell'orgasmo di una discussione al caffè, per far piacere al vecchio capo dei moderati, il signor Trenti, un omone altrettanto grosso di ventre che fine di spirito, vi aveva insistito così, citando fatti e satireggiando, che il nome del Bonoli era stato scartato dalla lista. Allora se ne era sentito tutto orgoglioso: per un momento aveva quasi creduto che lo avrebbero sostituito col suo, poi era stato complimentato, messo quasi nel novero dei vincitori. Ma il Bonoli non era uomo da lasciarsi battere impunemente. Mezzo clericale, grasso, malaticcio, con cinque o sei figli brutti anch'essi, aveva rapidamente, inesplicabilmente accumulato un grosso patrimonio. Era infatti socio segreto del Bugnoli; ma ciò non spiegava abbastanza quel suo crescendo subitaneo in ricchezza: molti lo temevano, quasi tutti lo stimavano per la precisione del colpo d'occhio in affari e una sensata larghezza nello spendere. Dopo, si erano trovati parecchie volte al caffè, senza che nei discorsi o negli atti trapelasse alcun rancore, anzi il Bonoli pareva più amabile. Adesso capiva tutto; il Bonoli stava appunto comprando dal conte Zoli un avanzo di tenuta, quattro grossi poderi, e quella doveva essere stata per lui l'occasione d'interrogare il vecchio signore sulla cambiale. Quel sorriso freddo, senza canzonatura, alla stazione, lo rivedeva ancora, provandone lo stesso sgomento tremulo e diaccio: era la vendetta segreta dell'uomo forte, che schiaccia quasi disattentamente e dimentica. Non v'era più riparo. Bonoli, anche scongiurato in ginocchio, avrebbe sempre negato la propria partecipazione in quella denunzia, mentre il Bugnoli avrebbe finito rammaricandosi di aver ceduto ad un moto irriflessivo di sdegno nella scoperta del tiro giocatogli con quella firma falsa. Ma era tardi. A chi rivolgersi? Forse il pretore, malgrado l'ostentata severità, avrebbe potuto, accorrendo subito presso di lui, simulare di non aver ricevuto la cambiale, forse non l'aveva ancora trasmessa alla procura del re; ma da chi farlo pregare? Le persone influenti, quelle pochissime capaci di tale miracolo, non lo avrebbero voluto per un uomo insignificante come egli era sempre stato: bisogna essere in una grande posizione, o aver reso ben grossi servigi in un partito, per ottenere siffatti contraccambi. E la fantasia gli riprodusse istantaneamente tutti i tipi dei più noti signori in città: non erano gente a lui superiore per spirito, solamente erano signori. Ecco la vera, più costante superiorità nella vita. Una rabbia fredda gli strinse il cuore; egli periva come tutto il resto dei poveri o dei piccoli, appunto per essere piccolo e povero. Si ricordò del conte Landi, uno scapestrato del paese, che aveva fatto più d'una firma falsa, ma al quale per riguardi di nome e di parentele tutti erano venuti in soccorso, e lo salutavano, lo ricevevano sempre. Tale ingiustizia gli diede quel senso amaro di orgoglio contro la società, che aveva sempre sentito nei discorsi dei radicali, condannandolo come una bassa invidia. Invece era proprio così; a parte ogni altra differenza, la società giudica secondo le persone. Essere ricco! non v'era altra guarantigia, mentre egli si era rovinato stupidamente per sembrarlo; non si poteva essere più sciocco, lo capiva, se lo ripeteva con tutto il fiele, col quale l'avrebbe detto e ridetto sul viso al proprio peggiore nemico. Venne alla finestra. Fuori c'erano le griglie chiuse, ma attraverso i loro vani gli apparve un lembo della strada e delle case di fronte: non passava alcuno, tutti dormivano ancora. Tese l'orecchio. Nessuno in tutta la città doveva trovarsi come lui in quel momento; involontariamente si paragonò ad un condannato a morte, ricordandosi in un lampo tutti gli articoli delle esecuzioni capitali letti sui giornali. Allora non gli erano parsi che interessanti. La testa gli girava. Perché tanti altri peggiori di lui erano più fortunati? Egli non aveva commesso che una sciocchezza nella vita, innamorarsi di una cantante da operette, e non aveva fatta che quella firma falsa, sapendo di poterla sempre pagare colla vendita del podere. Era dunque appena uno strappo nelle formalità del codice, un fallo di procedura: lo sentiva, era sicuro di non ingannarsi. Era ancora un onest'uomo, uno scemo magari, che si era mangiato troppo presto il piccolo patrimonio della mamma, ma non un delinquente. Non aveva mai rubato. In quel momento si ricordava in blocco tutta la propria vita con una specie di malinconica alterezza, potendo ancora giudicarla migliore che quella di tanti. Non vi era giustizia in tutto ciò; perché tanta disparità di trattamento?... E Giovannone? pensò a denti stretti per la collera, ricordandosi uno dei più tristi farabutti della città, appaltatore, negoziante, baro, fallito, quasi ridicolo per i troppi incendi dolosi, e che nullameno aveva ammassato un duecentomila lire, era socio del club, della barcaccia, membro nella società delle corse, e avrebbe potuto essere magari consigliere comunale, volendo. Se come tanti, i quali falliscono con un bel gruzzolo in tasca, avesse avuto nel portafogli molte migliaia di lire, sarebbe fuggito subito a Genova e di là in America, scrivendo poi alla moglie di venirlo a raggiungere. In paese avrebbero parlato qualche giorno di lui, Caterina avrebbe pianto, piuttosto per la sorpresa che per la vergogna, e si sarebbe imbarcata anche lei senza volergli meno bene di prima. Quella cambiale falsa non significava nulla moralmente, ma era stato come a lasciarsi prendere un dito nell'ingranaggio della ruota: nessuno vi salva più, si è presi, battuti, masticati da tutta la macchina, irremissibilmente. In America avrebbe mutato vita, e forse fatto fortuna per conseguenza di quella medesima cambiale falsa. Non lo aveva visto egli stesso mille volte? Non lo si vedrebbe anche nell'avvenire? Ma senza danaro era impossibile salvarsi. Adesso comprendeva lo spasimo feroce dei poveri alla vista dei ricchi, quegl'impeti fulminei di vendetta, che accendono gli sguardi e storcono le labbra. Perché non era egli ricco? Perché altri lo era? L'eterna, oscura domanda aveva dentro il suo cervello un rintocco lugubre di campana nella notte. Milioni di gente, morta o agonizzante come lui unicamente per mancanza di danaro, l'aveva ripetuta variandola indarno per tutta la gamma degli accenti, senza ottenere una risposta; lo strazio di quasi tutta l'umanità non aveva ancora meritato, nonché la soluzione, una tregua al problema. Da due ore si sentiva sempre più venir meno sotto l'oppressione di tale necessità, come sotto un peso, che gli produceva sull'animo gli effetti dell'asfissia. Si era tolto, senza accorgersene, dalla finestra e passeggiava per lo stanzino; fortunatamente le sue scarpe non scricchiolavano. In quella visione netta della soverchiante importanza, che il danaro ha nella vita, e della impossibilità di attirarlo per meriti di virtù o di dolore, si era rivolto immediatamente col pensiero alla vendita del podere per fuggire in America. Ma lì pure si trovava a fronte dello stesso muro; il podere, che poteva valere dalle trentacinque alle quarantamila lire, era coperto di ipoteche, così che vendendolo onoratamente gli sarebbero forse rimasti cinque o sei mila franchi. I compratori non mancavano. Ferdinando Storchi, fra gli altri, l'occhieggiava da un pezzo; però un podere non si vende al mercato, come un paio di buoi, intascandone subito il prezzo, solo coll'abbandonare al compratore un paio di scudi. Anzi i quattro buoi del podere non erano nemmeno suoi, ma da tre anni del contadino. La casa pure aveva due ipoteche addosso per quasi cinquemila lire, e sarebbe stata più difficile a vendersi nel deprezzamento graduale di tutti i fabbricati da qualche anno: già la tassa medesima bastava oramai a divorarli. Non aveva altro; i mobili dell'appartamento non contavano, il suo credito era esausto: a far molto, avrebbe potuto racimolare qualche centinaio di franchi per fuggire solo. Che fare poi? Solo, si sentiva morire, giacché non lo era mai stato. Prima, il babbo e la mamma lo avevano allevato in casa, vezzeggiandolo continuamente come figlio unico, poi il babbo era morto, ed egli si era ammogliato; non aveva imparato una professione, ma la colpa veramente era stata sua nel troncare gli studi dopo due anni di università, profittando stupidamente della condiscendenza dei genitori. Quindi la sua gioventù era passata fra i piccoli piaceri dell'ozio in quella cittadina; un po' di caccia, il teatro nell'inverno, la partita al caffè, preoccupandosi soprattutto di vestiti, leggendo a mala pena i giornali. Poco più tardi aveva sposato Caterina, unica figlia, dell'ex-ingegnere comunale, morto senza un soldo. Come si era innamorato? Si era nemmeno innamorato? Egli stesso avrebbe stentato a poter rispondere: si era trovato così, quasi senza accorgersi, nell'impegno; la ragazza era buona e piacente, la mamma vedeva di buon occhio che egli si ammogliasse presto, per meglio scansare i pericoli di una giovinezza sfaccendata; ed egli lo aveva fatto allegramente, trovandosene bene anche dopo. Null'altro. La passione non vi era entrata. Quando la mamma si ammalò mortalmente di tifo, egli aveva già i due bambini, che riempirono in casa quel vuoto: tutto era andato bene sino allora, malgrado la dilapidazione sistematica e segreta del piccolo patrimonio. Caterina non aveva pretese, egli non sfoggiava né troppo lusso, né troppi vizii, così che i più tra gli indifferenti, coloro che non indagano nella vita al di là delle apparenze, dovevano ancora crederlo nella sicura e modesta posizione lasciatagli dalla mamma. Invece erano bastati sei o sette anni per arrivare a tal punto. Il dramma non poteva essere più semplice ed oscuro, un vero naufragio d'insetto in una goccia d'acqua piovana, fra due selci di strada. Nullameno l'espiazione superava di troppo il peccato. Perché morire, come nelle più alte tragedie, per una bagattella di cambiale, che la vendita del podere avrebbe sempre potuto saldare? Per lo meno ciò era altrettanto assurdo che ingiusto. Tutta la sua stessa onestà protestava contro un simile trattamento: morire! come? perché? quando? La risoluzione sul modo sarebbe stata la vera decisione sulla cosa: come morire? Egli non lo capiva ancora, benché i ricordi di molti altri suicidi gli mostrassero la tragica molteplicità delle varie maniere, tutta una visione lontana, nella quale l'anima non voleva istintivamente entrare. Forze più vive e misteriose la tiravano indietro nel passato, fra quadri domestici e campagnuoli, sotto il sole, in mezzo a brigate chiassose, a caccia, a teatro, nella intimità della sua casa colla moglie e i bambini. Egli non era nato per altro; le grandi emozioni, le imprese difficili non le comprendeva nemmeno abbastanza per ammirarle davvero, ma piuttosto le giudicava col volgo un romanticismo di teste stravaganti, salvo a consentire nel loro trionfo, e a giudicarlo un risultato dovuto ad un'altra categoria di gente, colla quale né egli né i suoi pari avrebbero mai a trattare. Così, riuscendo a trarsi da quell'impiccio, avrebbe poi finito come tutti gli altri in qualche impiego per mandare avanti la casa ed istruire i bambini. Tale quadro consolante gli appariva in una limpidezza di aurora con particolari quasi fragranti; egli si attardava, s'inteneriva dicendosi che alleverebbe Carlino meglio assai che la troppa condiscendenza dei genitori non avesse allevato lui, gl'insegnerebbe ad evitare i pericoli della gioventù nell'ozio della provincia, lo farebbe studiare avviandolo sicuramente sopra una bella strada. Ada aveva un carattere mite, tutto simile a quello di Caterina, e non gli dava pensiero. Il suo cuore gonfio di pietà batteva più adagio: la confidenza gli tornava appunto nella intimità di quel gabinetto, nel quale pochi minuti prima si sentiva come straniero. Era rimasto cogli occhi spalancati nell'incanto di quella visione. La virtù di una simile vita era già un argomento abbastanza gagliardo contro la morte, che avrebbe rovinato tutti quegli innocenti, mentre l'espiazione del reato, purtroppo commesso, finiva col perdere della propria necessità nell'oblazione incondizionata di se stesso ai loro bisogni. E per un momento provò la pace fiduciosa, che la preghiera lascia nelle anime capaci di annullare dentro il mistero di Dio la propria volontà dolente. Ma nemmeno questa illusione durò. L'idea del processo, dileguata per un momento dentro la luce azzurra di quel quadro, gli apparve daccapo in tutta la propria terribilità. Forse lì stava l'espiazione vera, la purificazione violenta del dolore per ritornare poi lontanamente alla vita, se il suo spirito fosse stato abbastanza poetico per comprendere la superiorità anche pratica di una tale soluzione. Invece egli si fermava fatalmente all'orrore delle esteriorità penali, l'arresto, il dibattimento, la condanna, senza la convinzione di aver peccato davvero, e quindi nell'assoluta impossibilità di capire tale rovina. In questo caso diventava più ragionevole morire, risparmiandone a sé e agli altri l'inutile spasimo. Tutto il problema era lì. Invece non aveva che voglia di piangere; grosse lagrime gli si staccavano dagli occhi, mentre una trepidazione di fanciullo gli taceva rannicchiare tutte le membra quasi per farsi più piccolo, colle mani strette fra le coscie, scuotendo il capo paraliticamente. Era un pianto silenzioso, quasi dolce, che gli avrebbe reso facile persino la morte, se quello avesse potuto esserne il modo: vanire come una rugiada, che il sole essica coi primi raggi, o come un singhiozzo indistinto nei soliti rumori del giorno. - Mio Dio, mio Dio! - mormorava tratto tratto, quasi sotto una sferzata improvvisa. Infatti i terrori gli ritornavano in folla, più veementi. Non era più tempo da effusioni, il giorno poteva tardare poco a spuntare; una risoluzione era necessaria, anche per non osare di risolvere nulla, giacchè un qualunque contegno, un discorso bisognava pur prepararlo per presentarsi a Caterina o alla serva. Questa era solita ad alzarsi per tempo, qualche volta andava alla prima messa. Guardò l'orologio: erano le due e mezzo. La candela, bruciata più che a mezzo, aveva sulla punta dello stoppino una larga gemma rossastra, intorno alla quale saliva il fumo; la smoccolò con un buffetto, e rimase un pezzo a guardarsi l'unghia del dito medio lievemente annerita, come non sapendo più in qual modo pulirla. La gola gli bruciava, lunghi crampi gli attanagliavano lo stomaco. Prese la candela, e in punta di piedi venne nella saletta. Tornò ad origliare, quindi rassicurato da quel russo leggero della moglie, si accostò alla tavola per mescersi un bicchiere di vino. Sulle prime non andava giù, le lacrime gli tornavano agli occhi. Allora sedette guardingamente al posto solito, poggiando ambedue i gomiti sulla tavola. Aveva scoperto macchinalmente il piatto, nel quale stava il mezzo pollo: le lagrime gli intorbidavano la vista, aveva paura di far rumore, e nullameno non avrebbe più saputo rientrare nel gabinetto. Era come una tappa già oltrepassata, la prima seduta del processo, che doveva fare a sé medesimo, eseguendone alla fine la sentenza colla inesorabilità di un carnefice. Adesso tutto diventava irrevocabile nel suo stato: non poteva formulare un pensiero, fare un gesto senza sentire che posdomani non avrebbe potuto più ripeterlo. Il suo tempo era misurato; anche se non lo avesse voluto, il più insignificante fra gli atti della sua vita di prima diventava ora di una tragica importanza. Invece la sensazione più acuta gli veniva dal freddo dello stomaco, vuoto sino da quella colazione del mattino nella trattoria delle Tre Zucchette. Benché la possibilità di mangiare in simili condizioni gli ripugnasse, aveva senza accorgersene rotto fra le dita un cornetto del pane, e stava per metterselo alle labbra. Quindi si rinfrancò con un secondo bicchiere di vino, guardò il pollo; la sua cresta era bruciacchiata nelle punte, due o tre goccie di grasso dorato si erano coagulate nel fondo del piatto. - Adesso - mormorò, come se nel cedere a tale bisogno fisico scemasse valore a quella orribile situazione. Poi le abitudini lo riprendevano; tagliò la pagnottina nel mezzo dividendola a fette, avvicinò la candela, dispose la saliera, insinuandosi la punta del tovagliolo dentro il colletto, come usava pranzando cogli abiti che portava fuori di casa. Il viso gli rimaneva lagrimoso. Nella saletta tutto era al solito posto. La sua grossa pipa in legno, ricurva, di modello tirolese, stava sul camino presso alla scatola dei grandi zolfanelli bianchi, fatti con le cannuccie di canapa: nella credenziera di legno giallo, fra i bicchieri e le bottiglie, si vedevano i due vasetti cilindrici, dorati, colla scritta nel mezzo - caffè - zucchero -; sotto, fra il coperchio e il cassettone di fondo, nel quale erano disposti i piatti coi vasi delle conserve sotto aceto e delle ciliege nello spirito, v'era il panierino da lavoro della moglie con due grandi lettere sanguigne, ricamate in lana. Presso il camino chiuso dal paravento, giacché da quindici giorni in quella mitezza di stagione non vi si accendeva più il fuoco, i fascetti di vite e i ciocchi segati riempivano ancora il panierone, mentre il grande cavallo pezzato di Carlino, con una gamba rotta sino quasi alla spalla, dormiva rovesciato sopra una sedia, scoprendo le rotelle del proprio basamento orribilmente fuori di squadro. Egli si ricordò che una rotella era spaccata sino quasi all'asse. Aveva già riconosciuto tutti quei piccoli segni della sua vita quotidiana. Caterina, i bambini e la serva non dovevano aver mangiato che l'altra metà del pollo; egli conosceva bene il piccolo ingegno parsimonioso della moglie e la sua abilità nel rimpinzare i bambini dando loro poca carne. Questo particolare lo commosse di tenerezza; Ada era più docile, ma Carlino, famelico e battagliero come tutti i fanciulli che fanno molto moto, diventava spesso insopportabile. Egli, il babbo, avrebbe quasi sempre ceduto, se la mamma non si fosse opposta col solito argomento: - No, bisogna che i bambini si avvezzino. * * * - Si avvezzeranno pur troppo... Adesso non temono ancora di nulla; ma non bisogna parlarne, tanto non servirebbe loro nemmeno dopo... E la frase gli si imbrogliò, ma voleva dirsi, provandone un grande sollievo di egoismo, all'idea di non essere presente alla scena della catastrofe quando finalmente dovrebbero apprenderla: almeno io non ci sarò più! Gli era accaduto spesso di rincasare tardi, a quel modo, cenando solo mentre gli altri già dormivano, e aveva sempre notato che la sua parte di cena era più abbondante che non quando mangiavano tutti insieme. Questo delicato riguardo alla sua autorità di capo di casa gli faceva ogni volta la stessa impressione gradevole: poi, dopo cena, era solito a fumare una pipa prima di entrare nella camera da letto. Era come un ritorno alle sue notti di scapolo negli ultimi anni, prima del matrimonio, quando il babbo e la mamma, che si coricavano invariabilmente alle nove, gli lasciavano tutto preparato nella saletta, ed egli dormiva allora nello studiolo. Qualche volta si faceva accompagnare da un amico, ma, finché era stata viva la mamma, non aveva mai osato, nemmeno di notte e sicuro di non essere sorvegliato, condurre seco alcuna donna: dopo, il rispetto della moglie e dei bambini lo avevano egualmente preservato da tale bruttura. Anzi, una volta che Camilla con quel suo riso impudente gli aveva detto a bruciapelo: - Scommetto che tu non osi portarmi a cena in casa tua, ora che tua moglie dorme; ne hai paura, - questa frase gli aveva fatto una penosa impressione. Invece la perversa ragazza aveva durato a riderne con gli altri per forse dieci minuti. Quella sera cenavano in quattro all'albergo del Falcone in uno dei camerini a pianterreno sul cortile. Con Camilla era venuta la grossa De Angelis e la Nani, più vecchia, con quel lungo neo nel mezzo della gota destra, Viani, l'ufficiale, con Ridolfi e Politi. Questi era già del tutto rovinato. Si era fatto del chiasso e bevuto del Conegliano spumante; poi egli aveva accompagnato Camilla a casa senza potervi entrare, malgrado tutte le istanze. Camilla aveva il carattere cattivo; era di una eleganza stracciona, di un biondo ardente nei capelli e con una bocca quasi sanguinolenta. La prima volta parlandole all'albergo, il terzo giorno dacché la compagnia cantava all'Arena Borghesi fuori di porta Montanara, era rimasto interdetto dalle sue risposte. La ragazza vestiva un abito chiaro tutto sgualcito, con un paltoncino in casimira avana, del quale la fodera azzurra cominciava a tagliuzzarsi. Anche il suo cappellino rotondo, di una bizzarria temeraria, aveva i nastri e i fiori invecchiati. Nessuno la trovava molto simpatica, benché tratto tratto sulla scena scattasse in gesti di una comicità lubrica ed assieme ingenua. Egli invece era rimasto impressionato vivamente dal modo appunto nel quale si era lasciata prendere un bacio nel Boccaccio, costringendo la platea a gettare un urlo animale. - Posso venirvi a trovare domani? - egli le aveva susurrato all'orecchio nell'offrirle il paltoncino, mentre la comitiva già in piedi stava per uscire dalla sala. La ragazza lo aveva guardato enigmaticamente. Egli era andato, ma indarno; Camilla era fuori di casa. La sera aspettò al cancello dell'Arena per accompagnarla, ma la vide uscire con altre amiche ed alcuni giovanotti. Allora si mise a seguirla; la compagnia andava all'albergo del Falcone, Camilla invece si fermò alla propria porta. Egli affrettò il passo sfiancando al primo vicolo, lasciò passare il gruppo e tornò indietro: le finestre erano socchiuse. Passeggiò, tossì, zufolò inutilmente per mezz'ora. Passava sempre gente; improvvisamente la porta si aperse, e Camilla uscì senza guardarsi attorno. Egli la raggiunse. - Ah! siete voi. - Ero venuto oggi. - Non ero in casa. - Dove andate? - A cena. - Sola? - Sola. - Non mi volete? - No. - Perché? - Vi è bisogno di un perché? Egli rimaneva impermalito. Camilla invece aveva riso gaiamente; ma si erano accompagnati. - Mi avete veduta stasera vestita da bebè? - Siete sempre incantevole! - Infatti mi parete incantato. Come vi chiamate? - Adolfo. - Avete moglie? - Perché me lo chiedete? - Mi avete pur chiesto di accompagnarmi. Dove andiamo a cena? Badate che non voglio trovarmi con alcuno della compagnia. Era una cosa difficile; nondimeno egli promise che all'Aquila d'Oro non avrebbero incontrato alcuno. Non era vero. Infatti ve n'erano molti. Camilla chiamò due o tre donne e uno dei tenori, cenarono, risero; ella diventava di una gaiezza sempre più irritante, mentre gli altri avevano l'aria di spalleggiarla in quella scena. Solamente due giorni dopo egli era diventato l'amante. La ragazza, senza un soldo, golosa, bestemmiava alla più piccola contrarietà e si lavava appena; la prima notte aveva ancora sul collo tutta la biacca della recita, ma in compenso diventava tratto tratto di una sfrenatezza voluttuosa, alla quale nessuno avrebbe potuto resistere. Egli ne era stato travolto. Quando la mattina sulle otto si destò dal torpore, che lo aveva sorpreso a giorno alto, ella intenta già a pettinarsi tornò verso di lui coi capelli mezzo disciolti; aveva la bocca più sanguinolenta nel volto più livido. - Come ti senti? - gli disse ironicamente al vederlo così sfatto. Un bagliore le correva sulla faccia smorta; gli aveva messo una mano nei capelli e gli tirava su la testa per cacciarsela in seno. Poi lo lasciò ricadere sul cuscino. - Gli uomini, mi piace di vederli così. Questa frase, che allora gli era parsa piacevole, non aveva più potuto scordarla: gliene era rimasta, in fondo all'anima come una paura segreta, non scevra d'antipatia. Infatti non si erano ancora detto di amarsi, malgrado l'inganno così facile in simili relazioni, quando la stanchezza inclina alla sentimentalità; egli rimaneva con un vago rimorso nella coscienza, ella non parlava che di teatro, della vita a Milano, ove era stata mantenuta di un gran signore. Allora cominciavano per lui le torture. Quella donna quasi magra, di un pallore caldo, coi grandi occhi grigi e quella bocca quasi sanguinante, non aveva mai un momento di abbandono; anzi ad ogni eccesso i suoi moti parevano diventar più agili, e dopo aver girato e rigirato per la camera, andava a gettarsi sul vecchio sofà mezzo sgangherato, stirandosi come un animale al sole. Era la sfida inconscia della femmina, che può nutrirsi impunemente con qualche cosa anche più vitale del sangue, e nella propria insaziabile voracità non si compiace che di se stessa. Egli se ne rendeva conto a mala pena, ma ne soffriva. Era la prima volta che una donna gli faceva provare certe cose. Ma poi si era innamorato, forse appunto per non sentirsi corrisposto, senza potere più adontarsi delle trivialità, che ella gli scopriva ad ogni momento. Una sensazione acuta lo vinceva al solo vederla, e subito dopo non gli restava che un bisogno crescente, tormentoso, di stringerle la testa fra le mani e di coprirla di baci. Ella, quando non era in vena di carezze, arrivava tosto alle ingiurie, l'altro implorava con tenerezze umilianti, si bisticciavano per finire sempre allo stesso modo, egli offrendo qualche regalo ed ella ricusando per irritarlo maggiormente, così sicura di se stessa che nemmeno si pigliava l'incomodo di mentire. Tali provocazioni impudenti, invece di farlo fuggire, lo attiravano tristamente, per quel mistero della donna, che solamente nell'abbiezione di tutta sé medesima trova le proprie forze supreme. Talora si prometteva di smettere, perché quella ragazza, chi era mai finalmente? Una cantante d'operette, come tutte le altre, senza educazione, senza cuore, senza nulla; nemmeno piaceva agli altri. Come mai non piaceva? Forse nessuno l'aveva ancora veduta a certi momenti come lui. Questa supposizione vanitosa, inevitabile a tutti gli innamorati per il bisogno di modificare qualche cosa nella propria amante, lo rieccitava alla speranza di farsi amare, come se l'amore solamente potesse spiegare in lei quegli scatti deliranti. Ella invece lo canzonava anche in pubblico sui vestiti, sulla sua educazione e soprattutto sulla spilorceria. Due volte credette di averla abbandonata. Quando le tornò l'ultima volta, ella gli buttò le braccia al collo; era mezzo discinta, aveva mangiato allora allora delle sardine colla cipolla, e il suo alito se ne risentiva. Lo guardò fiso: - Non te ne andrai che quando io vorrò! Egli sentì la verità di questa condanna, poi pregò, ella non acconsentì in quel momento. Poco dopo egli piangeva sopra una sedia. - Non hai tua moglie? Questa crudele bassezza non l'offese. - Se ti annoi, vattene, - ella riprese: - per quello che mi hai dato, siamo pari. - Che cosa vuoi? Non pertanto aveva già speso molto danaro per lei, senza che la ragazza si fosse rimpannucciata. Dove lo metteva adunque? Neppure essa avrebbe saputo dirlo: aveva pagato dei debiti, ne aveva prestato alle compagne, lo buttava in piccole compre, e finiva col non avere mai un soldo, così credendo, quasi in buona fede, di non costargli nulla. Intanto nella città la cosa cominciava a propagarsi. Egli sul principio temette qualche scena dalla moglie, poi rassicurato dalla ignoranza, che la vita casalinga le faceva, non ebbe più ritegno; solamente, quando rimaneva fuori di casa tutta la notte, inventava pretesti. Una strana morbosità aveva finito col fargli credere di essere cresciuto d'importanza possedendo quella ragazza di un temperamento così acre e voluttuoso. Tutte le segrete vanità del maschio, acuite da una passione mal corrisposta, si combinavano grottescamente nella sua testa. Poi erano esplosioni ardenti e luminose di sensualità, che lo lasciavano senza forza per andarsene, in una di quelle stanchezze pesanti ed insieme gradevoli, come dopo certe scorpacciate, quando si prova un ultimo piacere nel non potersi più muovere. Ma i giorni passavano rapidamente, la compagnia doveva trasportarsi a Cesena. - Mi lascerai? - egli le chiese scioccamente una mattina. Ella, intenta a pettinarsi, lo guardò senza rispondere. Nella cassetta di cartone, entro la quale teneva i pettini, le forcelle e gli sfumini per pinturicchiarsi la faccia, c'erano tre o quattro fotografie di uomini e di donne. Egli ne prese una. - Dove sarà costui adesso? - Chi lo sa! - Eppure è stato il tuo amante! - sospirò tristamente. - Vorresti che mi seguissero tutti? - ella rispose con uno scoppio di riso. Capiva di essere assurdo, eppure la volgarità di quel finale gli faceva una pena infinita. Quella mattina le aveva portato centocinquanta lire, delle quali la ragazza diceva di essere in debito col direttore: il danaro era ancora sul comò. - Mi verrai a trovare? - Sì. - Non ti credo. Voi altri uomini dimenticate anche più presto di noi altre; poi tu hai paura della moglie. L'ultima sera, in teatro, mentre il pubblico fingeva allegramente d'entusiasmarsi in quella rappresentazione di addio, egli si sentiva il cuore così grosso che avrebbe quasi pianto; invece gli toccava di vociare in mezzo agli amici per non attirarsi i loro sarcasmi, e nemmeno vi era riuscito. La compagnia partiva la mattina col primo treno delle quattro; ma non ostante tutte le promesse, quella notte la ragazza non volle riceverlo: egli ne rimase furioso. Stette insino all'alba per i caffè, e andò con altri due nottambuli alla stazione per vedere la partenza. Era già dimenticato. In quel trambusto, tra i fagotti, le valigie e tutti quegli uomini e quelle donne sonnacchiose, malvestite, affaccendate intorno alle proprie robe, mentre gli impiegati giravano su e giù con le lanterne, rispondendo con accento seccato alle brevi contestazioni, non gli fu possibile trovare il momento per uno sfogo. La ragazza sfringuellava sempre in qualche crocchio di compagne, quasi tutte incollerite, o correva su e giù per le sale con certi moti vispi, che a lui svegliavano troppi ricordi. Finalmente poté rattenerla un istante. - Venite a Cesena domani sera, - ella gli disse senza badare alle sue parole. Egli nascose a stento lo sdegno, l'altra era già lontana. Quando il treno arrivò, il rimescolìo divenne pazzo addirittura. Era un treno diretto: il grosso dei bagagli restava in stazione per partire con un altro treno della giornata. Le donne si cacciarono dentro i vagoni con un garrito di passere, alcune in seconda, altre in terza classe; dagli sportelli aperti si vedevano gli scompartimenti gremirsi in un attimo di sottane, di cappellini, di fagotti, di valigie, mentre la voce dei conduttori scoppiava tratto tratto in sollecitazioni impazienti, e le figure tumultuavano dietro gli sportelli già chiusi, mentre il treno fischiava divincolandosi. Egli rimasto sul marciapiede col cuore stretto e gli occhi fissi allo sportello, dietro il quale ella era scomparsa, traballò come il suolo, allungando il collo per vedere ancora, ma la fila nera dei vagoni si allontanava già, senza che la ragazza avesse sporto il capo dalle tendine svolazzanti nel vento di quella fuga. L'indomani sera andò a Cesena. D'allora la sua passione crebbe morbosamente. Camilla aveva confessato subito di avergli trovato un successore, con quella inconsapevole spudoratezza, davanti alla quale si resta quasi perplessi di aver torto; egli si esasperò, pianse, discese alle minaccie, e finì col lasciarsi vincere dalla prima carezza. Non pertanto gliene restava in fondo al cuore il rancore. Sciaguratamente l'altro era facoltoso, un uomo quasi sulla cinquantina, celibe, vissuto sempre allegramente, che, nell'apprendere la cosa, rise. Quindi una gelosia di vanità avvelenò quell'amore nato da un capriccio e cresciuto fra le immondizie della vita e della scena. Egli avrebbe voluto essere ricco per trarla da tale compagnia di saltimbanchi, tenendola tutta per sé in una qualche casa solitaria; e forse così sarebbe guarito; ma quella lotta senza alcun orgoglio morale, interrotta da transazioni ignobili, dopo le quali si sentiva più male di prima, lo degradava anche ai propri occhi. Alla terza gita gli toccò di passare tutta la notte per Cesena, perché Camilla cenava in casa di quel signore con alcuni artisti della compagnia; quindi capì che dovevano ridere di lui e della sua ridicola passione col cinismo proprio di tale gente, quando trova nel vino l'ultima falsa gaiezza. - Come avrei dovuto fare? - fu tutta la risposta di Camilla nell'incontro successivo. L'altro aveva una voglia pazza di batterla. Improvvisamente ella cangiò: si era fatta malinconica, non discorreva più! Era vestita elegantemente con un abito di lanetta crema, un cappellino piatto sulla testa, le scarpette gialle, le calze nere; il suo viso illuminato dalla fiamma dei grandi occhi grigi, fissi in uno sguardo indefinibile, diventava di una certa signorilità. Egli stesso fu sorpreso da un nuovo sentimento. Poi Camilla parlò adagio, coll'accento stanco di chi si lascia andare ad una confessione pur sapendola inutile; erano brani della sua vita passata, evocazioni triviali e dolenti di una giovinezza sagrificata come tante altre dalla brutale corruttela dei genitori. Ella pareva accettarne la necessità con una confusa poesia di sagrificio. Però era stanca di se stessa. Lo congedò, egli protestava. - No? E perché? A che cosa mi servi tu? - T'imbarazzo? - egli rimbeccò amaramente. - Certo. - Come? - Tu non puoi niente per me. Dopo un lungo battibecco ella confessò di avere un bisogno imprescindibile di duemila cinquecento lire; doveva questa somma al direttore, che aveva minacciato di scacciarla. Evidentemente si trattava di una frottola, ma la sua faccia era così ansiosa e il suo accento così convinto, che l'altro si lasciò commuovere. - Tu non li hai; poi se li avessi anche... ti conosco. - E dopo che te li avrò dati, mi tratterai allo stesso modo? Un lampo bruciò negli occhi della ragazza, egli lo vide. - Mi vorresti possedere tutta la vita per duemila e cinquecento franchi!... Vattene. Egli titubava. - Mai più, mai più! - Almeno l'ultima volta. Ella ebbe una smorfia così sdegnosa che l'altro ne provò quasi la sensazione di uno schiaffo. - Quando ti occorrerebbero? - Vattene. Camilla si era tratta il cappellino e si spogliava senza badargli più, come se fosse già uscito: l'altro rimaneva perplesso, guardandola girare in sottana per la stanza col petto già scoperto e il busto azzurro-cupo, listato d'oro, che le disegnava una curva di anfora sulle anche e sul ventre. Si accostò per darle un bacio, ma ella lo respinse brutalmente contro una sedia. - Avaro! - Non credi che io abbia duemila e cinquecento lire? - Forse non le hai nemmeno, pitocco. Ma levati dunque di qui... Dio! che antipatico! Era uscito pallido, con una tempesta di odio nel cuore. Che cosa era accaduto dopo? Non se ne ricordava bene che l'ultima parte, la più terribile, quella che d'allora gli aveva creato tale tragica situazione. Era entrato nella bottega dello strozzino sotto il loggiato alle undici; passava poca gente; la piccola bottega al solito era vuota. Nella vetrina, distese come dentro una cassa di vetro, luccicavano molte antiche monete d'argento, e si drizzavano tinte di un pallido cilestro due larghe cartelle di una lotteria comunale: dentro, null'altro che un banco rettangolare, nero, che nascondeva forse nel ventre la piccola cassa forte, e parato al disopra di un panno turchino come usano gli orefici. Lo strozzino sedeva al banco leggendo la "Gazzetta dell'Emilia". La sua faccia grinzosa si volse di sbieco, ma gli occhietti grigi non si mossero, e la bocca rapace, quasi rientrata nel vano delle gengive, rimase chiusa come sempre. Siccome l'altro si levava il cappello, anche lo strozzino salutò; allora la sua fisonomia divenne così caratteristica che Romani ebbe quasi paura davanti a quella testa pelata, piatta, con pochi capelli incollati sulla fronte, come una testa di magro avoltoio. Il dialogo aveva cominciato stentatamente. Poi una disinvoltura quasi spavalda gli era venuta improvvisamente, presentando quella cambiale falsa, ma colla firma imitata benissimo; lo strozzino avrebbe dovuto comprendere che colla firma di un tal signore non occorreva certo rivolgersi a lui per lo sconto; non di meno la sua fisonomia, ancora più chiusa in quel momento della sua cassa forte, non esprimeva nulla. Guardava attentamente la cambiale. - Desiderereste per caso una firma migliore? - Romani credé di poter aggiungere scherzando, mentre un sudore freddo gli inumidiva istantaneamente tutta la pelle. - Sconto del dodici per cento: impossibile a meno, lo sapete. E lo strozzino aveva riabbassato gli sguardi sulla cambiale. - È troppo. - Presentate ad un altro la vostra cambiale; del resto ha una firma, che vi fa onore. Vi era un doppio senso in queste parole? L'altro si era affrettato a cedere. - Ebbene, ripassate oggi alle due - soggiunse lo strozzino, mettendo accuratamente la cambiale in una casella del vecchio portafogli, che portava in tasca: adesso non ho pronto tutto il danaro. Romani aveva avuto come una vertigine; guardava quella testa glabra, rugata, nella quale la bocca storta e socchiusa sembrava immobile per la fatica di una troppo lunga masticazione, mentre negli occhietti grigi si accendevano brevi luccicori di acciaio vecchio. Tutto in lui era povero; il colletto della camicia dritto, ma senza amido, usciva da un sottile cencio di cravatta, che doveva stringergli il collo fin troppo, il bavero del pastrano era grasso, il resto degli abiti sgualcito e stinto. Solo le scarpe apparivano solide, grosse e rossastre nella peluria, che la mancanza del lucido aveva lasciato crescere sulla tomaia. Fino alle due Romani era vissuto dentro un incubo. Se ne ricordava bene, giacché tutte le percezioni gli erano rimaste chiare: si era sentito già denunziato, perduto, senza che dal fondo dell'anima gli sorgesse una qualunque resistenza. Quando rientrò nella bottega, aveva quello strano sorriso, col quale gli ammalati senza speranza accolgono talvolta il medico. L'altro invece era più ciarliero: trasse di tasca il danaro, lo contò e lo ricontò alla sua presenza. Romani vi scorse un bono da cinque lire falso, ma non osò farne l'osservazione: si sentiva scoppiare in una dilatazione subitanea di benessere, che gli gonfiava cuore e polmoni; negli occhi gli entrava una luce stranamente limpida e, poiché vide passare due signore di sua conoscenza sotto il loggiato, si volse scioccamente per salutare. - Siamo intesi per la scadenza. - Non dubitate. - Se avessi dubitato... Ma Romani aveva già la gruccia dell'uscio in mano. - Come sta il conte? - gli chiese l'altro alle spalle. - Bene. E si era affrettato ad uscire. Corse alla stazione, alle quattro scendeva a Cesena. Non trovò la ragazza a casa. Quando l'incontrò due ore dopo, in compagnia di altri cantanti, non poté farle che un cenno, cui ella finse di non badare. Allora divenne imprudente, la pedinò sino a casa e, poiché salivano anche coloro con lei, poco dopo arrischiò di presentarsi. La padrona non voleva lasciarlo passare, Camilla accorse al rumore. - Ho quella cosa, - egli le gridò quasi. - Dammi... - e tese puerilmente la mano. Ma l'altro non si mosse; non di meno il suo viso era così raggiante che la ragazza rimase convinta. - Torna fra tre quarti d'ora. L'hai tutta, quella cosa? Mezz'ora dopo risalendo le scale, giacché nel bollore della propria impazienza non aveva neppure potuto attendere tutto il tempo assegnatogli, Romani incontrò per le scale un facchino carico di un baule; la ragazza era ancora sulla porta dell'appartamentino guardando. - Ah! sei tu, vieni, - esclamò con un tremito nella voce; ma, appena dentro, la sua fisonomia si era fatta repentinamente dura. - Non mi hai ingannata? Egli, che aveva comprato appositamente un altro portafogli, lo trasse di tasca e glielo offerse: era di seta azzurra con una ballerina dipinta nel mezzo. La ragazza si chinò con le mani tremanti sul comò a contare il danaro; ma non erano che duemila e quattrocento lire, perché egli ne aveva cavato un bono da cento, rosso, per quella piccola avarizia del non voler perdere tutto. Ella gli saltò impetuosamente al collo mordendogli le guance, rispondendo alle sue parole come in una ubbriachezza improvvisa: - Sì, sì. Non poteva star ferma, si mise a girare su e giù per la stanza. - A che ora sarai libera? - domandò tutto felice di contemplare quella sua gioia profonda: - Mi ami un poco adesso? Non aveva saputo dir altro, soffocato egli stesso dal bisogno di riprendersela fra le braccia, per sentirsi scricchiolare sul petto il suo sottile corpicino di danzatrice. Dopo, per tutta quella notte era stato come un abbarbaglio di girandola, un tumulto giocondo e brutale, che lo aveva lasciato al mattino rifinito e assonnato sul guanciale. - A che ora parti? - ella gli aveva chiesto con la sottana già infilata. - Col treno di mezzogiorno: torno qui? - Ho da fare. Invece egli si era riaddormentato sino alle undici. Quando si svegliò ebbe l'impressione di qualche cosa di nuovo nella camera e nella ragazza: non trovò più né il sapone né il pettine di lei, che soleva adoperare. - Mio Dio! non hai sentito sulle dieci che è venuto l'uomo a prendere la cesta per stasera? Ho dovuto mandare tutto in teatro, non hanno nulla laggiù in quella maledetta Arena, - ella rispose impazientita. Si salutarono freddi. Egli era stupito di sentirsi malcontento, col cuore vuoto e una spossatezza, nella quale gli ritornavano indefinibili paure. Ripartì col treno di mezzogiorno: tre ore dopo Camilla fuggiva col secondo tenore della compagnia, senza lasciare il proprio indirizzo. * * * Era ancora a tavola, col mento sulla palma della mano e gli occhi nel vuoto. Altre circostanze di quella sua relazione con lei gli ripassarono nella memoria senza interessarlo: ci aveva pensato già troppo, facendosi indarno tutti i rimproveri possibili: poi, a che pentirsi? Tanto la situazione non cangiava. Aveva amato davvero? Era stata una passione quella? Adesso non lo comprendeva più bene, ma sentiva che, rivedendo quella ragazza, non avrebbe provato nulla, nemmeno una sensazione di sdegno, come dinanzi alla causa di tutta la propria sventura. La necessità di andare a letto lo riprese: la candela stava per finire, forse fra due ore Anastasia si alzerebbe, poiché quella mattina era domenica. In tutta la sua vita non gli era ancora capitato di pensare tanto; oramai non ne era più capace, e la mente gli si distraeva in futili particolari, che avrebbero dovuto far stupire lui stesso in tale momento. * * * - Ah! - fece Caterina con voce sonnacchiosa, girandosi sul fianco verso di lui. Egli si era spogliato nella saletta, entrando poi guardingamente nella camera con la speranza di stendersi sul letto senza destarla. - Dormi? Ma ella non dormiva più. - Perché hai fatto così tardi? - seguitò tastandogli una spalla. - È appena mezzanotte. - Non ti è accaduto nulla? - No, dormi: anch'io ho bisogno di dormire. Rimase supino, senza la forza di rivolgerle la schiena: un'idea lo aveva assiderato. Quella era l'ultima notte di matrimonio per lui e per Caterina, benché nessuno dei due sapesse davvero che cosa accadrebbe l'indomani; ma una nuova angoscia più atroce di tutte le altre gli stringeva il cuore al pensiero che un altro forse, fra non molto, potesse trovarsi in quel letto al suo posto, cogli stessi diritti e senza la più piccola meraviglia, a parlare di lui, naturalmente per dargli torto. Caterina non avrebbe mai potuto approvare quella morte, e pigliando un secondo marito, come per centomila ragioni lo prendono quasi tutte le vedove giovani, gli sacrificherebbe anche il rispetto del primo. - Con quale corsa sei ritornato? Egli cercava di non rispondere. - Dormi? Ma è dunque tardi? Ti abbiamo lasciato la cena. Pareva che non volesse più riaddormentarsi. - Stamane alle nove debbo andare dalla zia Matilde coi bambini; dovresti venire anche tu. Metterò l'abito rimodernato. Perché non mi hai portato un mazzettino di viole in tela? Sono di ultima moda e costano quasi nulla. - Come potevo pensarci? - Ma che cos'hai? - tornò a chiedere con uno scoppio improvviso. - Lasciami dormire. - E se non lo volessi? Egli era finalmente riuscito a voltarsi, e pensava: - Se adesso suona l'orologio della piazza, siamo daccapo. Attendeva raggomitolato colla testa mezzo coperta dalle lenzuola, benché nella camera facesse caldo; il cuore gli batteva impetuosamente. Aveva compreso che tutte le forze stavano per venirgli meno, e quell'interrogatorio così insignificante della moglie lo avrebbe con altre poche domande fatto scoppiare in pianto. Un desiderio spaventato gli cresceva ad ogni minuto di essere solo nel letto per ravvoltolarsi strettamente nelle coperte, col volto schiacciato nel cuscino. Caterina si voltò dall'altro lato, e poco dopo si riaddormentò. Egli vegliava cogli occhi dilatati, in ascolto del più piccolo rumore; dall'uscio dell'altro stanzino, ove dormivano i bimbi, si udiva russare Anastasia; un tenue filo di luce passava per una fessura della finestra, e si perdeva nel buio della camera senza rischiararvi alcun oggetto. Gli parve di aspettare: che cosa? Non lo sapeva; ma il letto lo stancava invece di riposarlo. Una smania gli veniva dallo stomaco a tutti i muscoli, provocandovi dei piccoli sussulti, dei brividi lievi, simili a scariche silenziose, dopo le quali provava un'impressione di freddo. Una specie di vacuità gli si era fatta nel cervello. Avrebbe voluto assopirsi in quel primo vaneggiamento di febbre, colla testa pesante, sprofondata nel cuscino. Ma il letto non gli pareva buono come le altre notti, non poteva girarsi e rigirarsi sui fianchi pel timore di svegliare daccapo Caterina. Strinse violentemente gli occhi, dicendosi con tutta la forza che gli restava, di voler dormire. Poco dopo, l'orologio della piazza batté le due e tre quarti. Qualcuno cominciava a passare per strada. Coll'orecchio reso più acuto da quell'orgasmo seguì e distinse la battuta dei passi, che si allontanavano di sotto alle sue finestre. Quelli delle donne, quasi tutte vecchie in quell'ora, parevano strisciare; erano donne di piazza che vi si affrettavano per disporvi le mostre degli ortaggi, o beghine già fuori di casa per la prima messa del Duomo. Una biroccia scrollò i vetri della finestra; ma quel filo di luce vi passava sempre così tenue, vanendo a pochi passi nell'ombra. Poi ebbe caldo. La smania gli aumentava, eccitata dal calore dei materassi in lana e da quello, anche più vivo, che il corpo giovane e grasso di Caterina radiava al suo fianco. L'aria stessa si faceva più pesante. Perché era venuto a letto, sapendo di non potervi dormire? Il pentimento fu così acuto che si rigettò le coperte dal collo; ma le riprese quasi istantaneamente, ritraendosi sulla sponda col proposito anche più fermo di addormentarsi. Infatti la stanchezza lo aveva esaurito. Poco dopo, sognava. Le raffiche della pioggia si schiantavano sempre più violentemente urlando nell'aria sotto un cielo nero. Come mai si trovava egli solo nella campagna deserta a quell'ora? Non conosceva la strada, non si vedevano più case attraverso il velo pesante dell'acqua. Era rimasto immobile, rannicchiandosi timidamente sotto la bufera, col ricordo confuso di non essere diretto molto lontano, ma senza poter nemmeno tenere gli occhi aperti, perché le goccie vi battevano contro dolorosamente. Anzi per qualche tempo, colle mani nelle tasche dei calzoni, e l'acqua che dalle cuciture del cappello gli colava giù per il viso, si era abbandonato a piangere. Un pianto amaro e silenzioso gli era uscito dagli occhi, mentre collo sguardo incerto cercava di seguire una barchetta di carta azzurra, galleggiante sul fosso della strada e che ne discendeva il pendio, senza che i goccioloni sembrassero toccarla. Forse un fanciullo si era divertito nell'affidarla alle acque per una vaga reminiscenza del diluvio universale, quando gli oceani si congiungevano alle cime dei monti e l'arca sola errava sul mondo sommerso. Infatti la barchetta si dondolava appena, come nella letizia del temporale, serbando nella soavità cilestrina del proprio colore tutto il sorriso del cielo. E improvvisamente egli vi scorse dentro il cavallo di Carlino, quello medesimo che dormiva sdraiato sopra una sedia nella saletta da pranzo; ma adesso invece era dritto, malgrado la gamba davanti rotta sotto il ginocchio, e il vento gli sollevava di dietro il pennacchio della coda fatto con sottili setole bianche da spazzola. Dove andavano quella barca e quel cavallo? Quale comando di favola spediva il cavallo di Carlino, sopra una barchetta di carta, ove non era possibile indovinare? Non di meno in lui cresceva la preoccupazione di quel viaggio, come se il destino di suo figlio vi fosse congiunto, ed egli stesso si trovasse lì nient'altro che per sorvegliare la strana imbarcazione. Poi tra la melma spumeggiante dell'acqua cominciarono a passare mucchi di foglie morte e di pagliuzze, che negli urti contro la sponda aprivano spessi vortici, e vi sprofondavano per riapparire a strisce poco lungi. Anche la barchetta se ne risentiva. Benché i suoi fianchi non lasciassero ancora schiudersi le ripiegature, era già affondata sino all'orlo e non inoltrava che lentamente. Il cavallo invece, niente preoccupato del pericolo, colla testa immobile, senza nemmeno sentire le larghe redini di panno rosso inchiodate sull'arcione della sella nera, teneva gli orecchi dritti nel vento ad un appello lontano. La voce disperata di Carlino gridava: - Il mio cavallo, il mio cavallo! Ma la barca seguitava ad affondare, le sue ripiegature di poppa e di prua si erano distese sulla corrente. Per un minuto il cavallo apparve miracolosamente ritto su quella specie di piccolo manto cilestre, senza che per tutto il suo corpo un brivido solo tradisse la paura. - Oh! - egli esclamò lanciandosi al suo soccorso, perché un grosso manipolo di stecchi stava per investirlo; ma cadde pesantemente sotto l'acqua, rimanendogli negli orecchi l'ultimo strido di Carlino, che singhiozzava sempre: - Il mio cavallo, il mio cavallo! Aveva provato, per qualche secondo, l'asfissia dell'annegamento; poi gli pareva di essere trascinato per una cloaca; le acque non passavano più, ogni rumore era cessato, ed egli rimaneva immobile, coricato nella melma. Era dunque morto? Il suo pensiero solo viveva, perché il pensiero non può morire, ma i suoi occhi spalancati non potevano muoversi nemmeno dentro le orbite. Non vedeva nulla. Allora un terrore senza nome gli coperse l'anima: era quella l'eternità assegnatagli? Una cloaca senza sfondo, nella quale tutto si arrestava separatamente, per sempre, nel silenzio di un'ombra vuota. Fece uno sforzo delirante per gridare, ma la melma gli aveva otturato la bocca, e un lombrico vi si moveva pigramente. * * * Dalla fessura della finestra filtrava un lume più chiaro. Spaventato, si volse dall'altro lato per dormire ancora, sentendosi tutto mollo di un sudore freddo. - Mio Dio, mio Dio! - mormorò. Le campane del Duomo suonavano lietamente nel mattino, la gente passava a frotte per la strada, le voci salivano, mentre il fragore sordo dei carri imprimeva ancora alle case gli stessi scuotimenti che nella notte. Così mezzo assonnato, cogli spaventi di quell'ultimo sogno si vedeva dinanzi la faccia dello strozzino diventato uno di quei grossi ragni, quasi rotondi, dalla pelle zebrata, che tessono la propria rete verticalmente dinanzi alle finestre delle cantine, e vi rimangono immobili nel centro aspettando le mosche. Lo strozzino aveva adesso un ventre enorme, lucido, con una testina nera e due occhietti ardenti, che lo fissavano senza stancarsi. * * * - Oh! - gridò di soprassalto al fracasso della finestra, che si apriva lasciando il varco ad un vivissimo raggio di sole. - Non t'immagini che sono già le nove e mezzo! - gli rispose Caterina, ritta fra le tende coi capelli biondi incendiati dalla luce: - Ti abbiamo lasciato dormire sino ad ora, perché dovevi essere stanco. Ieri sera hai fatto tardi. Egli cogli occhi abbacinati non la vedeva ancora bene, aveva la testa pesante, la bocca pastosa. - I bambini sono già andati a messa con Anastasia, - seguitò Caterina: - Se avessi visto, quando abbiamo provato loro le vestine nuove! Ada si è messa a piangere. - Perché? - Voleva un nastro celeste alla cintura, come quello di Carlino. Caterina si era appressata al letto. Portava il solito abito di lanetta azzurro-cupa, che dava un bel risalto alle sue carni fresche di bionda; l'abito aveva, secondo la moda oramai vecchia di qualche anno, le maniche a sbuffi verso la spalla e la gonna, quasi corta, pieghettata sui fianchi. Il suo viso calmo, con un principio di pinguedine sotto le guance, aveva sempre la stessa espressione di bontà; qualche lentiggine le macchiava i pomelli, gli occhi troppo rotondi e quasi bianchi non dicevano gran cosa, ma il suo sorriso era dolce come sempre. - Non ti alzi? - Sì, aspetta. - Ti aiuterò io: ho mandato i bambini a messa, perché, così vestiti di nuovo, con me non sarebbero stati fermi, in chiesa. Carlino era in un orgasmo incredibile. Io andrò sola alla messa delle dieci e mezzo in S. Bartolomeo, poi torno a casa per condurli a fare un giro nel corso. Sono tanto carini così, li vedrai! Egli si era svegliato, al solito, in quella camera, nella quale tutto gli era famigliare. Il mobilio in noce si componeva di un letto, due comò, l'armadio collo specchio, un tavolino da toeletta e due portacatini, uno per lui e uno per Caterina, nascosti nell'angolo dietro l'armadio. Ma i comodini erano ricoperti di un piccolo ricamo bianco ad uncinetto, perché i candelieri e i bicchieri dell'acqua per la notte non ne sciupassero la lustratura. L'aria ed il sole avevano riempito allegramente la camera. Caterina andò nella saletta a prendergli i panni già spazzolati. - Avresti potuto spogliarti qui, stanotte. - Non volevo disturbarti. - Ti ho sentito ugualmente. Alzati, dunque, vado a prenderti l'acqua fresca. Egli si accorse di avere le ossa indolenzite. Improvvisamente quel pensiero dimenticato lo riassalse. Quando Caterina tornò con la brocca bianca nella mano, egli guardava la parete con gli occhi spaventati. - Muterò l'asciugatoio dopo; per questa mattina ti puoi ancora servire del vecchio; - e ne aveva già tolto un altro dal comò, a lunga frangia candida, ornato da due grandi lettere sottili, a colori rosso e turchino. Ma siccome l'altro non si alzava, si voltò ad osservarlo. - Mi sembri pallido: hai dormito male? - No, no, - rispose nervosamente, allungando un piede fuori dalle lenzuola per cercare le pantofole; poi così in camicia, coi piedi nudi, venne a mirarsi nello specchio della toeletta. Infatti aveva l'aria sparuta; chiazze plumbee gli macchiavano la pelle, gli occhi gli si erano affossati; si vide dimagrito, invecchiato, con un senso doloroso di sorpresa. - Tu hai qualche cosa, - disse nuovamente Caterina, venuta per di dietro a guardare nello specchio. - Ti dico di no: chiudi piuttosto i vetri della finestra. - Con questo bel sole! Intanto li chiudeva. - Ti farò un caffè, se hai rimasto qualche cosa d'indigesto nello stomaco. Finalmente fu solo. Tutta la lunga tempesta della notte gli si ripresentava nella memoria, piuttosto indolenzita che calmata dal sonno pesante di quelle poche ore, e gli ricominciava nella coscienza quella novità insopportabile del sentirsi straniero nella propria casa. Daccapo il freddo lo sorprendeva, così in camicia, malgrado il tepore dell'aria e l'impeto rutilante del sole, che passava trionfalmente attraverso i vetri. Per rischiararsi la mente si affrettò a tuffare il viso nel catino. Ordinariamente la sua toeletta era svelta e poco accurata; si lavava il viso, poi colla spazzola si ravviava i capelli, non aveva altre abitudini di culto per sé medesimo. Ma dopo essersi asciugato davanti allo specchio, si vide colla stessa faccia di prima, anzi gli occhi gli si tornavano a gonfiare. Quindi si rimise la camicia del giorno innanzi cogli stessi abiti. - Ma come! - esclamò Caterina rientrando nella camera, dopo aver lasciato il caffè a precipitare lentamente entro la cocoma sul focolare della cucina: - non ti cangi il vestito? Hai ancora la camicia di ieri, oggi che è domenica. Egli alzò le spalle, ma l'altra insisteva. - Che importa? - Lo hai sempre fatto tutte le domeniche. - Non lo farò più. - Che cosa? Per non spiegarsi egli tentò di sorridere scrollando la testa; però pensava che altri, vedendolo a quel modo, poteva fare la stessa osservazione di Caterina. Dovette andare con lei in cucina a prendere il caffè. Sul fornello fumava la pentola, una coscia di capretto infilata nello spiedo stava entro un piatto sulla tavola, poiché in casa non avevano gatti; era questa una mania di Caterina. - Oggi Anastasia farà anche una piccola zuppa inglese per i bambini; avranno quest'altro piacere, dopo quello degli abitini nuovi. E la mamma sorrideva contenta nel pensiero della sorpresa, alla quale i piccini avrebbero battute le mani a tavola gridando. Poi l'interrogò sulla gita a Bologna: come mai aveva potuto fare tanto tardi? Che cosa era successo? - A proposito, aspetta: me n'ero scordata. E scappò, ritornando indi a poco colla faccia attonita. - L'hai presa tu? Avevano portata una lettera. - Sì, - egli rispose con voce strozzata. - Niente d'importante? - Niente. Dopo questa parola egli depose la tazza del caffè sul focolare, invece di accostarla alle labbra. - Vi avrò messo poco zucchero; a te piace che tutto sia dolce. - Già! Vuotò la tazza, e tornò nella camera per finire di vestirsi; aveva fretta di uscire. - Ma non aspetti i bambini? Eccoli! - ella gridò sporgendosi dalla finestra, che aveva riaperto. Due minuti dopo i fanciulli entravano trionfalmente nella camera, e correvano ad abbracciare le ginocchia del babbo, più guardingamente del solito in quella vanità dei vestitini nuovi. Al vederli così belli egli stentò a frenare le lagrime; cadde sopra una sedia e si mise a baciarli furiosamente; essi ridevano, Caterina sorrideva, ma Anastasia protestò. - Vuole dunque spiegazzare tutto, mio Dio! è proprio così; - e con una mano afferrando quella di Ada, l'aveva già tirata indietro. Carlino invece si era arrampicato sulle ginocchia del padre. - Io vado, - riprese Caterina, - tornerò a prendervi fra un'ora: non vi sporcate, piccini! Mi raccomando, Anastasia. - Io... come si fa? debbo preparare l'arrosto: riconduca i bambini a messa con lei. - Figurati! mi farebbero impazzire, adesso che l'hanno già ascoltata con te. - Ci baderò io, - egli esclamò con voce intenerita. - Allora facciamo così: siccome andrò dalla zia Matilde per mostrarglieli, vieni anche tu. È un pezzo che le dobbiamo una visita, ci sdebiteremo tutti insieme. Anastasia era passata nello stanzino per cangiare abito prima di rimettersi a cucinare; egli sempre più tremante entrò coi due fanciulli nella saletta. La prima cosa che vide, fu appunto il cavallo di Carlino, ancora sdraiato sopra la sedia, colla zampa rotta sino quasi alla spalla e le rotelle del piedestallo sgangherate. Il sogno misterioso della notte gli ritornò alla memoria, rinnovandogli la stessa angoscia, come se davvero un medesimo destino unisse suo figlio a quel giocattolo. Si era riseduto su quella sedia, mentre i bambini giravano intorno alla tavola svogliati. Non sapeva più che cosa dire loro. Una tenerezza di lagrime gli ammolliva il cuore; i due fanciulli erano belli, Ada maggiore di due anni, così abbigliata, aveva già della donnina nelle movenze. I magnifici capelli biondi, sciolti sulla schiena, brillavano nel fulgore dell'oro, incorniciandole il viso illuminato soavemente da due grandi occhi chiari, assai più vivi che quelli della mamma. Aveva una pelle di gelsomino e un'ineffabile freschezza sulla bocca; Carlino invece più tozzo, bruno, coi capelli corti e il nasino all'in su, pareva un contadinello, che si movesse goffamente, con quella pesantezza così esilarante nei bambini. - Siete stati a messa? - egli ricominciò. - Sì, - rispose Ada: - Amelia mi ha sempre guardata, poi mi mostrava alla mamma, perché ero meglio vestita io. - Ah la superbetta! e tu Carlino? - Lui non s'è voluto inginocchiare per non sporcarsi i calzoni. Infatti anche adesso tornava a mostrarli superbamente così puliti, senza una appannatura al ginocchio. Egli dovette alzarsi per resistere alla emozione; lo spettacolo di quella letizia, così primaverile ed inconsapevole, gli produceva come uno stordimento doloroso; avrebbe voluto dir loro qualche cosa, ed invece stentava a frenare certe grida, che gli salivano impetuosamente dal cuore. Che cosa aveva dunque deciso nella notte? Una debolezza gli era rimasta in tutti i nervi da quei sogni, nei quali doveva aver sudato come sotto un accesso di febbre. Tratto tratto le mani gli tremavano. - Che cos'hai, babbo? - chiese improvvisamente Ada, impressionata dalla fissazione del suo sguardo. Invece di rispondere egli rientrò nella camera per prendere la rivoltella dal tiretto del comodino; ma poté cacciarsela appena nella tasca interna della giacca, che i due fanciulli gli erano daccapo fra le gambe. - Andiamo in cucina, - disse con un ultimo sforzo. Anastasia aveva riacceso il fuoco ed infilava lo spiedo nel girarrosto. - Ecco! - proruppe subito: - perché qui? vuole che si sporchino? Se la signora Caterina vedesse... Carlino si era già troppo appressato al focolare. - Indietro, marmottina: vedete un poco! gli hanno messo l'abitino nuovo solamente da un'ora. Allora egli dovette sorridere e ritirarsi coi due fanciulli sopra una sedia presso la tavola, lasciandosi sgridare; ma l'altra, che doveva preparare di nascosto la zuppa inglese, e temeva soprattutto un rabbuffo dalla padrona se i bimbi avessero macchiato le vesti, seguitava: - Lo sa pure anche lei che debbo preparare quella cosa: perché stanno qui? - Non aver paura, ci bado io. - Sì, lei! ci saranno dei guai anche oggi. Ma Ada, col suo garbo di donnina, l'ammansì chiedendole quale minestra avrebbe fatto in quella domenica. - Il risotto alla milanese. Ada batté le mani. - Indietro adunque; state tranquilli col papà, o vi mando via tutti. La cucina, piccola, non riceveva luce che da un cortiletto morto; v'era una madia e un largo tavolo rettangolare appoggiato al muro. La pentola gorgogliava fra lo scoppiettio della fiammata accesa per l'arrosto. Padre e figli rincantucciati dietro la tavola si facevano delle carezze in silenzio: egli li aveva ricinti con un braccio e lisciava loro i capelli coll'altra mano. - Dammi un soldo, - domandò improvvisamente Carlino. - E a me? - proruppe Ada. - Tu sei già una donnina. Il complimento fece effetto. Egli si era tratto un soldo dalla tasca, lasciando che Carlino glielo ghermisse di mano come un gatto. - Che cosa ne farai? non hai nemmeno la tasca. Ma osservando quel soldo, il fanciullo si accorse che era bucato. - Cambiamelo. - No, non lo spendere oggi, avvezzati a risparmiare. Era esausto. Si volse ad Anastasia, scappando nella propria camera a prendervi il cappello: - È tardi, io debbo andare. Un minuto dopo riapriva, col cappello in testa, l'uscio della cucina, che dava sull'anticamera; i fanciulli erano ancora presso la tavola esaminando il buco di quel soldo. - Anastasia, mi capisci? quella cosa cerca di farla grande. Che siano contenti, che siano contenti! * * * Era uscito di casa quasi fuggendo, ma appena sulla strada la vivezza della luce lo arrestò. Passava molta gente, una indefinibile allegrezza si espandeva nell'aria col suono delle voci da tutta la festività delle faccie e delle vesti; le finestre sembravano aperte alla letizia sopra le botteghe chiuse nella tranquillità del riposo. Egli si sentì stravagante. Istintivamente si riadattò il cappello sulla testa ed allentò il passo, dirigendosi verso la barriera, oltre la quale si scorgevano le ali troppo alte del ponte in ferro fra il borgo e la città e subito dopo, nell'avvallamento del suolo, un grosso gruppo di case dipinte di giallo. Fuori, la via di circonvallazione era fiancheggiata da masse enormi di sabbia che s'imbiancava al sole; di quando in quando un parapetto giallognolo impediva alle carrozze e ai passanti di pericolare nel fiume, già scarso di acqua fra le ripe scabre e senza piante. Ma anche lì proseguiva la festa della domenica. I soliti operai non trascinavano su per le ripe, col viso adusto, i calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ansando e vociando, le carriole cariche di sabbia sgocciolante. Non passavano carrette: i contadini allegri ritornavano dalla città ai campi, dopo la messa; piccoli scolari vagabondavano nell'ozio e nella incertezza del chiasso, col quale stordirsi. Infatti le loro scaramuccie accadevano sempre nel pomeriggio. Di qua e di là del fiume i campi si stendevano sotto al sole, in una gioia verde, lampeggiante di sorrisi nel tremolio delle foglie, mentre gli uccelli festanti in quel mese degli amori si inseguivano per l'aria rapidi e bruni, o s'arrestavano talvolta sulla cima flessibile di una fronda quasi ad ammirare l'incantevole mattino. Egli solo camminava cupamente preoccupato. Lungi, dinanzi ai suoi occhi, le prime vette dell'Appennino sfumavano il proprio verde sul ceruleo dell'aria, entro una leggerezza di vapore trasparente. Alla prima svolta, fra mucchi di ghiaia e di sabbia, si fermò a guardare il cimitero dei cavalli: era un lembo di terra sommossa, a picco sul fiume, brulla e triste; dirimpetto biancheggiava silenziosa una pila da riso, che il padrone milionario aveva per capriccio chiusa da gran tempo, e le sue bocche da acqua, vuote ed aride, rimanevano indarno inclinate sul fiume dentro un'ombra, che rendeva anche più cupa la loro tenebrosa profondità. Un ragazzo in bicicletta gli passò rasente a volo. Egli lo seguì macchinalmente cogli occhi, e lo perdette in cima alla salita, dalla quale sparve strisciando come una rondine. Non sapeva ancora dove andare; ma la città gli faceva paura in quel giorno. Tutti vi erano sfaccendati, la requie della domenica rendeva la gente più occupata dei fatti altrui e più dura verso coloro che non potevano né riposarsi né godere del riposo comune. Oltrepassò il ponte, bel ponte di un arco solo, che la gente chiamava Rosso, non si sa perché; poco lungi il camino tozzo ed alto di un mulino a vapore fumava malgrado la domenica, un vecchio cane bracco era sdraiato al sole dinanzi alla porta, alcune anitre si dondolavano pesantemente col collo ripiegato, frugando del becco il terreno intorno. Volse a sinistra per un sentiero, che fra la riva e gli orti, passando dietro il cimitero monumentale, benché i monumenti vi siano scarsi e brutti, si allontanava per ombre incerte di acacie. Allora, finalmente solo, respirò. Al di sotto, il fiume non era più che un canalaccio dal letto melmoso, nel quale l'acqua stagnava in lunghe pozzanghere opache; di fianco, invece, gli orti lussureggiavano. La gamma dei loro verdi vibrava tutta nella luce, mentre la poca terra scoperta era così umida e scura che, guardando bene, si sarebbe creduto di vederne salire i vapori nel sole. Ma egli camminava invece a testa bassa, preoccupato dall'angusto sentiero slabbrato, pel quale non sarebbe stato molto difficile mettere il piede in fallo. Guardò se v'erano pescatori, qualcuno di quei maniaci, che venivano spesso a passare lunghe ore seduti sopra uno sghembo della sponda, con una canna e una lunga lenza inutile. Nessuno! I muraglioni muffosi del cimitero arrivavano fino quasi sul fiume. Quel sentiero malinconico e mezzo invisibile era prediletto dagli amanti e dai vecchi per un bisogno di solitudine, forse meno dissimile fra loro che non paia. Egli vi era passato poche volte, quasi sempre con un gruppo d'amici, in una di quelle giornate, nelle quali, per ammazzare la noia della solita passeggiata per lo Stradone, l'unico passeggio pubblico della città, si cercava di commettere qualche facile stravaganza. Ma alla prima svolta, dove un viottolo sfiancava lungo il nuovo muro del cimitero, si arrestò; una voce sottile canterellava la celebre e delicata romanza della Mignon: Non conosci il bel suol che di porpora ha il ciel... l'opera data in quell'inverno al teatro comunale. Era una voce di uomo, incerta nelle parole e nell'aria, che pareva fremere di una curiosità triste. Si turbò; istintivamente gli era ritornato nella memoria che lungo quel sentiero, negli anni andati, erano avvenuti parecchi suicidii, tutti di giovani operai, forse spaventati dalle crudeli esigenze della vita. L'ultima volta erano stati due ragazzi di appena vent'anni, morti insieme avendone avvisato prima gli amici, che non avevano voluto crederlo e non seppero poi indovinarne il motivo. Si erano ammazzati colla stessa rivoltella, l'uno dopo l'altro, ed erano rimasti sul sentiero col cranio aperto, sanguinolenti, vestiti cogli abiti di festa, quasi per una suprema ironia. Ma la voce ripeteva sempre la stessa domanda di Mignon, povera abbandonata nel freddo di un paese nebbioso, che risognava i trionfi abbaglianti del sole sulla marina napoletana, dove tutto è musica ed incanto, festa ed oblio. E a pochi passi, nell'ombra di un albero piegato a capanna, vide disteso sui cuscini entro una carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla estremità dell'orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su, sempre così coricato, col volto appannato dall'ombra stessa della sua vita. Eppure viveva. Impetuosamente egli se ne chiese il perché, mentre l'altro cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello dell'albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua figura. Poi tacque. L'orto era deserto: un uccello pigolò dall'altra ripa del fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa. Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l'acqua e non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte. Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi un'altra paura gli cresceva: nella fretta di evitare la città non aveva temuto anzitutto che un incontro col signor Bonoli o con lo strozzino, a quest'ora naturalmente piccati da un desiderio crudele di curiosità a suo riguardo. Avevano presentato essi medesimi la cambiale in pretura? Il caso era poco probabile; secondo il solito, colle più vecchie convenienze del mestiere, lo strozzino doveva aver finto una qualche girata, giacché tutti i suoi pari sono sempre provvisti delle così dette teste di ferro. Ma egli, incontrandolo, non avrebbe saputo qual contegno tenere; non lo odiava, anzi per una di quelle condiscendenze imposte dalla pratica della vita, riconosceva che, agendo in tal modo, colui faceva solamente il proprio interesse. Di che cosa lagnarsi? Ma dinanzi alla sua faccia di sparviero disseccato, con quegli occhi metallici, la bocca che non sorrideva mai, gli sarebbe stato impossibile resistere. Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una ruggine d'oro. L'erba era soffice. Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma piccina riverberava. Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre, specialmente finché si è giovani, la morte non aveva esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente, si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi, la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive così, come se la morte non fosse, in una sicurezza d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta, ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli era stato come gli altri. Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne andassero. Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte le proprie forze. Non era né credente né incredulo; come nella maggior parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana. Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali, massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la forza della tradizione durava: la religione era cosa da non parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente. Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci. Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria immobilità. Aveva avuto paura. Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi. Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che restare per la tortura del processo e della prigione!, molto più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci, aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente, quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel momento? Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema. Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita incomprensibile e tuttavia di una supposizione così inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie prima d'incontrarla. Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio? Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente avrebbe seguitato a dubitare? Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? Malgrado l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la medesima spensieratezza seguitava nei viventi. Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi. Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della propria posizione; una specie di tranquillità gli si era fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni, si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze luminose e scottanti. Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne; poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna, che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita, perché non se ne era anzi sentito mai così pieno: vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini, amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno, fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era così, perché era così. Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito? Tale decisione restava però fuori del suo spirito, giacché non ne provava ancora tutto il peso. - Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto. A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano, manderebbero fuori la serva a cercarlo. Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile. Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto. Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo distraeva. Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato, senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua indolenti sotto al sole. E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di fiume invisibile fra i campi. * * * - Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo, - io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei. - Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di quei discorsi, che preparavano l'avvenire. Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo. Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene. Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso. Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell'avvenire. Il suo affetto era specialmente per la bambina. Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni. - Tu manderai avanti Carlino. Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde. - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta? La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare. Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio. - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? - proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta. - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai pure che è pazza per quella sua figlioccia. - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi. - Deve! - Non si può gettare via il capitale della famiglia. Egli s'irritò. - Molti lo fanno. - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu? - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, - protestò Ada agitandosi sulla sedia. La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all'indomani. - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini. - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre. Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse. - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino. Allora Ada s'ingelosì. - Lascia lascia, egli è più piccolo di te. Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava. Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro. - In quale stato pranzeranno domani! Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti! Dove sarebbe allora il suo cadavere? - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia. - Io! - Io dunque? proprio lei, che cosa ha? - Infatti anch'io ti ho osservato. - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia? Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo trascinò. - Bah! se dovessi anche morire... - Che discorsi sono questi? Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia. Il piccino rideva superbo. - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino. - Eccolo, papà: guarda il buco. - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma? Carlino esitava. - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone. Così poté alzarsi per accendere lo zigaro. - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, - tornò ad insistere Caterina. - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te. - Tu scherzi sempre. - Già! Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè. - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi. Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare. - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta. Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo. Caterina rimase sorridendo di quella soluzione. * * * Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso. Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non avrebbe saputo dirlo. Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve: - Andiamo. Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia. Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo. Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore. Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente. Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa. Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla. Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere. Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro. Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno. - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po' avversato. - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione. Egli sussultò. - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere risposto male. Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro. - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via. - Perché cinquanta franchi? - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta... Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita. Allora Romani ebbe un impeto di sdegno. - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori. - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita. Tutti risero. Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina. Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano. - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto, giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; - nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! - seguitò animandosi: - Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento! - Ma in teatro... - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani? - Mi pare che hai ragione. - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, - disse un altro. - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte. Ma la conversazione deviò ancora. * * * Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così? Erano le cinque. Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato. Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato. Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna. Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura. - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera? Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto? In questa impassibilità stava già la morte. Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile. Aveva acceso un altro sigaro. Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE