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Introduzione al Vangelo secondo Giovanni

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Egli s' abbevererà al torrente della strada: perciò alzerà il capo »(2). » In questo magnifico e sublimissimo Salmo il Padre dice al Figliuolo che ha consumato il suo sacrificio, e che s' è abbeverato al torrente della tribolazione e della povertà: « Sorgi e siedi alla mia destra ». Ecco la prima parte della mercede dovuta al Figliuolo: l' assunzione all' immortalità ed alla gloria divina della sua divina umanità. E di questa parte Cristo aveva detto: « Ego te clarificavi super terram: opus consummavi quod dedisti mihi ut faciam: et nunc clarifica me tu Pater apud temetipsum claritate quam habui priusquam mundus esset apud te (1). » Le quali parole rammentano quelle di S. Giovanni: « In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum; » e vengono a dire: Io prima d' esser manifestato agli uomini, anzi prima che fossero gli uomini e il mondo, cioè ab eterno, ero Dio: io fui generato prima dell' astro della luce fra gli splendori della santità, come dice il citato Salmo, della tua stessa sostanza, ex utero . Ora tu dunque decora anche la mia umanità di questa stessa gloria divina ed infinita, che come Dio non ho mai perduta, siccome tu già prima della costituzione del mondo hai predestinato nel tuo altissimo e sapientissimo consiglio facendomi sedere glorioso appresso di te, cioè alla tua destra. Dove scorgesi che l' espressione adoperata da S. Giovanni al cominciamento del suo Vangelo, apud Deum, conviene, benchè in diverso significato, non meno alla divinità che all' umanità di Gesù Cristo, in quanto questa è indivisa dalla divina persona. Questa comincia nel tempo a fruire di tal gloria per una cotale partecipazione, quando il Verbo la fruì ab eterno ed essenzialmente. L' altra parte del compenso e della mercede dovuta a Cristo si è l' accontentamento di ogni naturale desiderio della sua umanità rispetto agli uomini co' quali ha comune la natura umana. Il desiderio naturale dell' uomo è quello di essere il signore e dominatore del mondo, e di aver tanta potenza da poter sottomettere pienamente a sè i suoi nemici. Il qual desiderio è malvagio qualora non sia sottomesso alla giustizia e si voglia soddisfare indebitamente e senza un legittimo titolo, come avviene; ma in se stesso è fondato nella natura, e però non punto nè poco riprovevole: quand' anzi è tale che innalza e nobilita l' umana natura. Quindi nel citato Salmo Iddio dà a Cristo in piena balìa il mondo: gli promette di porre i suoi nemici a sgabello de' suoi piedi, lo esorta a signoreggiare nel mezzo di essi: la verga, cioè la potenza di Dio, uscirà da Sionne che rappresenta la giustizia, il bene morale, facendo che dalla virtù morale proceda la forza; e dice che nel giorno del suo trionfo sarà seco il principio, cioè Dio Padre, che è essenzialmente il principato, non solo il principe. Ma in qual maniera l' Uomo7Dio si prevale di tanta potenza accordatagli, di quella potestà di cui Cristo stesso aveva detto « dedisti ei potestatem omnis carnis (1), » e ancora dopo la resurrezione: « data est mihi omnis potestas in coelo et in terra (2)? » Amando Cristo come uomo la natura umana che egli possedeva, doveva amarla anche in tutti i suoi simili. Quindi, secondando il suo naturale affetto, doveva, colla risurrezione di tutti gli uomini, restituire tutta la natura umana distrutta colla morte. In tal modo egli vinceva il demonio, disciogliendo il maligno disegno di perdere questa fragile e mortale natura, che pure Iddio come opera sua voleva conservata. Aboliva anche il peccato originale, in quanto esso consiste e procede dalla corruzione della carne, dando ai risorti, quanto a sè, qualora non abbiano peccati attuali, un corpo perfetto. Onde l' Apostolo: « Nunc autem Christus resurrexit a mortuis primitiae dormientium: quoniam quidem per hominem mors et per hominem resurrectio mortuorum. Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (3). » E altrove dice che « purgationem peccatorum faciens, sedet ad dexteram majestatis in excelsis (4), » attribuendo alla gloria di Cristo che siede in cielo, e di là può render partecipi gli uomini della sua gloria, la purgazione dei peccati. Ma non bastava a Cristo il restituire al genere umano, già divenuto preda della morte, la vita sua propria: l' affetto, di cui ardeva verso Dio e verso i suoi simili, troppo più richiedeva. E` proprio della natura umana l' amicizia; niuna cosa più desidera l' uomo non corrotto quanto l' unione col suo simile: ciascun uomo sente di non essere tutta la natura umana, e che una parte di questa è in altri individui: a lui sembra dunque di completare in se medesimo la umana natura, qualora può congiungersi il più strettamente che egli possa con altri individui della natura stessa, e divenir quasi una sola cosa con essi. Ma i vincoli, coi quali gl' individui umani possono stringersi ed adunarsi insieme, sono limitati dalle condizioni della stessa natura. Uno, e forse il più intimo di questi vincoli, è il coniugale che dell' uomo e della donna fa una sola carne, in cui vivono due anime concordi. Questa imagine viene adoperata nelle Scritture per indicare la stabile, perpetua e reale unione di Cristo co' suoi santi in Cielo. Cristo, quale Sposo, celebra colà eterne nozze colla Sposa sua la Chiesa in istato di termine, che è la società dei predestinati già comprensori. Giovanni nell' Apocalisse descrive la visione avuta di questa Sposa dell' Agnello nell' atto ch' ella scendeva da Dio di Cielo in terra: [...OMISSIS...] Nel Cantico de' Cantici si cantano i casti amori, divini preludii in terra dello stabile indissolubile matrimonio la cui consumazione è la stessa beata eternità: quivi non cade infedeltà di sorta o raffreddamento d' affetto. Or, come il coniugio è tolto a simbolo delle nozze di Cristo e della Chiesa, così viceversa quest' unione mistica, essendo perfettissima e santissima, diviene l' esemplare del coniugio dell' uomo e della donna cristiana, partecipando Cristo ai suoi seguaci che si uniscono in matrimonio di quella grazia e santità spirituale che annoda lui ineffabilmente colla Chiesa beata. Laonde S. Paolo dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo in compenso, e mercè de' suoi meriti e ineffabili patimenti senza alcuna sua colpa sostenuti, potè dal genere umano cavarsi la Chiesa, cioè unire e incorporare a sè quel numero di uomini che a lui piace, e fra questi eleggere quelli che partecipino della sua gloria. « Ascendisti in altum, » avea detto il Salmista, « cepisti captivitatem; accepisti dona in hominibus (2). » Il qual luogo, commentato da S. Paolo, dice: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi. Propter quod dicit: Ascendens in altum captivam duxit captivitatem: dedit dona hominibus. Quod autem ascendit, quid est nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? Qui descendit, ipse est et qui ascendit super omnes coelos ut impleret omnia (4). » Così Cristo in conseguenza della gloria ottenuta co' suoi patimenti e della signoria del genere umano, atteso l' amor suo verso di Dio suo Padre e verso gli uomini consorti della natura da lui assunta, divenne loro redentore dalla morte e dal peccato originale, loro maestro e salvatore da tutte le colpe attuali, e loro glorificatore. Quindi ebbe la dignità di mediatore e di sacerdote, non solo quella di Re, come soggiunge il Salmo sopra citato: « Juravit Dominus et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (1). » La dottrina del sacerdozio di Cristo è profondamente esposta nella lettera di S. Paolo agli Ebrei. In essa dimostra l' Apostolo come questa dignità di Pontefice se l' acquistò Cristo e meritò col suo essere passibile e mortale, e la esercitò co' suoi patimenti coi quali fece il sacrificio di se stesso. [...OMISSIS...] Il che viene a dire che avendo Cristo patito ed essendo stato tentato, quando la giustizia divina non avea cosa da punire in esso, conveniva che la giustizia stessa, che non concede che l' innocente soffra alcuna pena, dèsse a Cristo un ristoro e compenso del patimento sofferto e non meritato; e questo fu il lasciargli podestà non solo di risorgere egli stesso impassibile ed immortale, ma di poter anco venire in ajuto de' suoi fratelli nei loro patimenti e nelle loro tentazioni. Dice ancora « Non enim habemus pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (3). » Dove è da considerare, esser così fatta l' umana natura, che dall' esperienza del patimento ella ritenga una positiva cognizione di esso, la quale, per la legge della simpatia che è fra individui aventi una stessa natura, rende lei compassionevole e pietosa: e la natura umana in Cristo volle subire le leggi, fra le quali anche questa, alle quali essa natura soggiace. E quantunque ogni cosa meritassero i suoi patimenti, a compensazione de' quali ogni suo desiderio doveva venire soddisfatto dal Padre; tuttavia, perchè doveva esercitare in ogni cosa la massima generosità ed essere a noi compiuto modello, volle avere la gloria e la vita dovutagli piuttosto come impetrata con umili preghiere, che per giustizia meritata: o certo nell' uno e nell' altro modo. Di che di nuovo S. Paolo: « Et quidem cum esset Filius Dei didicit ex iis quae passus est obedientiam: et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae, appellatus a Deo pontifex juxta ordinem Melchisedech (4). » Il sacrificio adunque di Cristo ebbe virtù di rimettere i peccati degli uomini, perocchè, come dice S. Paolo: « Eum, qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit » (soffrì d' esser trattato come un peccatore), « ut nos efficeremur justitia Dei in ipso (1); » ed essendo egli risorto dopo aver patito, ed entrato in cielo, ivi egli esercita un perpetuo sacerdozio, e può riconciliare e far partecipi della stessa gloria quanti uomini a lui piace. Perocchè, come dice di nuovo S. Paolo, egli è fatto sacerdote « « non secundum legem mandati carnalis, sed secundum virtutem vitae insolubilis »(2), » e soggiunge: « « Et alii quidem plures facti sunt sacerdotes, idcirco quod morte prohiberentur permanere: hic autem, eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium. Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis »(3) » Laonde il solo sacrificio della morte di Cristo, dalla quale risorse glorioso, fu accettevole ed efficace per sempre a rimettere i peccati e salvare gli uomini. [...OMISSIS...] Imperocchè è da considerarsi che i sacerdoti della nuova legge, sebbene molti, tutti partecipano dell' unico sacerdozio di Cristo, e non offrono se non la medesima oblazione, cioè il corpo ed il sangue di Cristo. Nel che ancora apparisce l' unità che tutti formano con Cristo, perocchè è sempre Cristo quello che in essi opera quando sacrificano, per modo che un solo Cristo in tutti essi è il vero sacrificatore e la vera vittima sacrificata. Il perchè niuno può essere sacerdote della nuova legge se non è battezzato, attesochè solo pel battesimo s' incorpora l' uomo con Cristo, e Cristo è nell' uomo. La morte dunque di tutto il genere umano satisfaceva alla divina giustizia, ma non salvava l' uomo, anzi lo distruggeva; e l' anima separata dal corpo rimaneva sempre sotto la medesima giusta dannazione. Ma la morte di Cristo, sostenuta da lui senza averla meritata, non era una soddisfazione che dovesse dar Cristo per i proprii peccati; ma era un credito ch' egli acquistava verso la divina giustizia, un credito infinito, col quale, dopo pagato il debito dell' uman genere, rimaneva ancora tanto avere, da poter regalarne gli uomini d' ineffabili doni e di prezzo infinito. La morte di Cristo adunque salvò il mondo perchè meritò la risurrezione di Cristo, glorioso Signore onnipotente, Re ad un tempo e Pontefice, secondo il giuramento interposto dall' eterno suo Padre. Quindi è che le sacre carte attribuiscono sempre la salvezza del mondo alla risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo, che, come aveva detto il Salmo, ascendendo nell' alto menò captiva la captività, cioè tolse al demonio il dominio sopra gli uomini e li fece captivi a se stesso, ed ottenne copia di doni da distribuire agli uomini stessi da lui liberati per giusta conquista. Laonde Cristo stesso avea detto agli Apostoli che tornava loro conto ch' egli se ne andasse di questo mondo al Padre « Quia vado parare vobis locum. Et si abiero et praeparavero vobis locum, iterum venio et accipiam vos ad me ipsum, ut ubi sum ego et vos sitis (1). » Conveniva che Cristo fosse glorificato, acciocchè egli potesse far partecipi della sua gloria i suoi discepoli. Il ritorno di cui parla Cristo, nel quale viene a prendergli, a riceverli a sè, a collocarli là appunto dov' egli è (non dice dove sarà, perchè Cristo fu sempre appresso Dio, non solo come Verbo, ma ben anco, in un altro senso, come uomo godendo della visione beatifica, benchè questa non espandesse i suoi effetti gloriosi fuori della mente del Salvatore), questo ritorno è appunto la comunicazione della gloria da lui ottenuta, e si riferisce principalmente alla seconda venuta del Salvatore, quand' egli risusciterà i giusti, che in lui credono, e li ammanterà della sua propria gloria. Perocchè, dicendo iterum venio et accipiam vos, parla all' uomo intero e non alla sola anima. Tuttavia un altro ritorno di Cristo è anche quello che avviene alla morte del giusto che in lui crede, quando accoglie a sè l' anima sua, e le dà della sua vita ammettendola alla visione di Dio. Un terzo ritorno di Cristo è l' effusione dello Spirito Santo, il quale segna Cristo nelle anime in cui viene, e dà loro la caparra dell' immortalità e della risurrezione; e di questo ritorno parla Cristo poco appresso dicendo [...OMISSIS...] Dice che pregherà il Padre, mostrando che come uomo egli impetra per gli altri uomini il dono dello Spirito Santo, di cui siamo per conseguente obbligati all' umanità di Gesù Cristo, che dopo aver meritato di essere esaudito in ogni suo desiderio, pregò mosso dalla sua carità per noi, e il priego che manifestava il suo desiderio non poteva andare inesaudito. Dice che non li lascierà orfani, cioè senza Padre, perchè egli, che è il Figliuolo entrato già in essi e ad essi congiunto come il capo alle membra, sarà illustrato dalla luce del suo Spirito, e avranno coscienza di possederlo, e così di essere veramente figliuoli di Dio partecipando della Figliuolanza del Verbo incarnato a cui sono indivisamente uniti. Di che S. Paolo attribuisce al Santo Spirito la consapevolezza che noi abbiamo d' esser divenuti figliuoli di Dio: [...OMISSIS...] dice, [...OMISSIS...] Dice finalmente che i suoi discepoli al lume dello Spirito Santo lo vedranno anche quand' egli sarà partito dal mondo, quia ego vivo et vos vivetis, cioè perchè essi partecipano della stessa vita di Cristo; e il veder Cristo è un atto di questa vita. Dice del pari che conosceranno il Santo Spirito, perchè apud vos manebit et in vobis erit: giacchè lo Spirito Santo non si può conoscere se non per lo Spirito Santo, onde il mondo non lo vede e non lo conosce, perchè nol può ricevere, atteso l' ostacolo del peccato. Ripete ancora che torna conto a' suoi discepoli che egli se ne vada, perchè, venendo egli glorificato, manderà lo Spirito Santo caparra della loro gloria futura: [...OMISSIS...] Per le quali cose S. Paolo attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra giustificazione; giacchè, se questa fu meritata dalla Passione di Cristo, fu però attuata e compiuta mediante la risurrezione; per la quale Cristo acquistò la signoria sopra di noi, e potè fare di noi secondo l' amoroso suo cuore: « qui traditus est » (così l' Apostolo) « propter delicta nostra, et resurrexit propter justificationem nostram (4); » giacchè, se non fosse risorto Cristo, egli non poteva comunicarci di quella sua vita gloriosa, e quindi noi non saremmo risorti, ma rimasti sotto la condannazione del peccato. Medesimamente S. Pietro attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra rigenerazione: [...OMISSIS...] E deduce dalla risurrezione medesima di Gesù Cristo, la virtù che ha il battesimo di porre in noi il germe della vita che aspettiamo gloriosa: [...OMISSIS...] La qual dottrina consuona mirabilmente con quella di S. Paolo, che a' Colossesi scriveva: [...OMISSIS...] Imperocchè non bastava che si distruggesse il vecchio uomo adamitico, se non si faceva vivere l' uomo nuovo: il che Cristo fece comunicando all' uomo della sua vita nuova ricevuta nella risurrezione. Perocchè l' uomo incorporato a Cristo, e divenuto un membro di quello stesso corpo di cui Cristo è il capo, dovea partecipare di tutte le vicende del capo, e con lui morire, e con lui risorgere. Laonde L' Apostolo non dubitava dire: « « Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra: invenimur autem et falsi testes Dei, quoniam testimonium diximus adversus Deum quod suscitaverit Christum, quem non suscitavit si mortui non resurgunt. Nam si mortui non resurgunt, neque Christus resurrexit. Quod si Christus non resurrexit, vana est fides vestra, adhuc enim estis in peccatis vestris. Ergo et qui dormierunt in Christo perierunt. Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus omnibus hominibus »(1). » Nel quale luogo S. Paolo argomenta la risurrezione dei morti dalla risurrezione di Cristo; perocchè gli uomini non avrebbero potuto risuscitare, se Cristo risorto non avesse acquistato la potestà di fare altresì risorgere quelli che partecipavano con esso lui della stessa natura umana. Ma particolarmente dalla resurrezione gloriosa di Cristo argomenta la risurrezione gloriosa di quelli che morirono in Cristo, cioè incorporati a Cristo, e che perciò con Cristo formano una sola cosa, un solo corpo, che dee esser tutto avvivato della stessa vita, o tutto giacere nello stesso stato di morte: onde, posta la risurrezione del capo, è giocoforza porre altresì la risurrezione delle membra. Di più dice senza questa risurrezione rimane lo stato di peccato, adhuc enim estis in peccatis vestris, e perciò è vana la predicazione dell' Evangelio, cioè della buona novella, e vana è pure la fede che ad esso si presta; perocchè, giacendo gli uomini prostrati dalla morte, non può dirsi rimesso il peccato a quelli, in cui ne dura la pena. Finalmente fa intendere che senza la risurrezione non v' ha più speranza nella vita futura, e quindi i Cristiani sarebbero i più miseri fra gli uomini, posciachè dovrebbero sperare unicamente nella presente, a' cui diletti hanno rinunziato, ed è da loro considerata piuttosto come morte che come vita. La qual dottrina consuona a capello con quella che è costante in tutti i libri dell' Antico Testamento, dove la speranza della vita futura trovasi sempre fondata nella fede della risurrezione, e non in altro. Laonde il libro della Sapienza, parlando de' giusti defunti, non commenda il loro stato pel presente godimento a cui fossero ammessi, ma per la speranza, perchè « spes illorum immortalitate plena est (2), » e perchè a suo tempo Iddio perdona ad essi, « et in tempore erit respectus illorum (3), » e l' incontaminato « habebit fructum in respectione animarum sanctarum (4), » cioè nella risurrezione. E il fanciullo maccabeo, che veniva tormentato, nella risurrezione pone ogni sua speranza, dicendo che: « Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit (5). » E ancor più efficace è quel luogo ove parlandosi della colletta di dodicimila dramme d' argento fatta da Giuda Maccabeo ed offerta in Gerusalemme, acciocchè vi si offerisse un sacrificio pe' morti in battaglia, a cui erano stati trovati sotto le tuniche doni degl' Idoli, il sacro storico dice in modo assoluto, che se non vi avesse la risurrezione sembrerebbe inutile il pregare pei morti per la remissione de' loro peccati. E le parole son queste: [...OMISSIS...] La qual dottrina offerisce a noi cristiani una difficoltà che dobbiamo sciogliere accuratamente. Tutta la nostra felicità, la nostra speranza di felicità, si fa per essa dipendere dalla risurrezione: la remissione stessa dei peccati, o la giustificazione si afferma dipendere dalla risurrezione medesima. Ora noi sappiamo per fede che l' anima separata dal corpo, se non ha macchia di peccato, viene ammessa alla visione di Dio, e che se essa porta seco delle macchie leggere viene addetta al fuoco che la purga e rimonda, e, tosto che è resa netta e pura del tutto, la visione beatifica le è conceduta prima della risurrezione dei corpi. Come dunque può dirsi col citato libro de' Maccabei, che sembrerebbe superfluo e vano pregare pei morti ut a peccatis solvantur, quando non dovessero risorgere, mentre pure giova intercedere per le anime purganti acciocchè cessi presto il tormento, e passino presto a godere Iddio? E come, ancor più, può egli sembrare al vero conforme quello che dice l' Apostolo, che, se non vi avesse la resurrezione de' nostri corpi, noi cristiani saremmo i più miserabili degli uomini, quando pure le nostre anime, anche prima della risurrezione, possono fruire del beato consorzio di Dio? Affine di risolvere queste apparenti difficoltà conviene por mente a due cose: 1 Quale sarebbe lo stato dell' anima separata dal corpo ed abbandonata intieramente a se stessa; a ciò che ella ha per natura sua, senz' altra aggiunta o azione esteriore: 2 Che cosa s' intende per la risurrezione, opera del nostro Gesù Cristo, che cosa s' intenda particolarmente pei giusti che risorgono. Quanto alla prima questione è da rispondere che l' anima umana, privata che sia del corpo, ove non le venga alcuna giunta dal di fuori, non venga fatta in lei alcuna azione da qualche agente a lei straniero, l' anima umana separata, da sè sola, primieramente non ha più alcuna sensazione, nè fantasma, nè può fare alcun atto sensitivo, al che si richiede l' organo corporeo; e di conseguente non può più raziocinare nè pensare a cose reali, nè ad astratti che hanno sempre bisogno di qualche segno sensibile per esser pensati. Ella dunque non ritiene se non l' intuizione immota dell' essere indeterminato, e gli abiti contratti nella vita precedente che la individuano, i quali abiti non passano giammai all' atto, perchè nulla vi ha che li tragga a questo. Laonde l' anima, senza alcun termine reale, non avrebbe alcun sentimento, in quanto questo si definisce per la forma reale dell' essere; e però sarebbe senza alcuna vita, eccetto il semplice atto intellettivo dell' intuizione che non si direbbe propriamente vita: l' anima così esisterebbe, ma non vivrebbe. Nel quale stato non essendo a lei possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno: onde i negri tartari (1) ed i luoghi bui (2) de' poeti, e il loro ferreo ed eterno sonno. Questa fu una delle cause per le quali alcuni filosofi, che non ricevettero il lume della rivelazione, e forse fra questi Aristotele, almeno secondo l' interpretazione di Pomponaccio e d' altri negarono l' immortalità dell' anima: e il loro errore fu di crederla annullata o disciolta, non distinguendo fra vita ed esistenza, e non conoscendo quell' atto intuitivo dell' essere, e quel deposito di abiti rimanenti nell' anima dalla precedente sua unione col corpo, che dà a lei un' esistenza intellettiva ed una individualità, sebbene non una vera vita nel senso che noi crediamo proprio di questa parola. Nello stesso errore era caduta, presso gli Ebrei, la setta dei Sadducei. Questi credevano che l' anima non soprastesse alla sua separazione dal corpo, o piuttosto la negavano (3); e ciò qual conseguenza dell' altro loro errore pel quale negavano la risurrezione. Ora Gesù Cristo, togliendo a confutare il loro errore, non toglie a stabilire la tesi generale che l' anima separata dal corpo viva; ma si limita a parlare degli uomini santi, e dice di questi che nella risurrezione vivranno per non più morire. Perocchè, avendo i Sadducei proposta la difficoltà di chi sarebbe nella resurrezione la donna che avesse avuto per mariti successivamente sette fratelli, Cristo risponde loro: « Filii hujus saeculi nubunt et traduntur ad nuptias: illi vero qui digni habebuntur saeculo illo, et resurrectione ex mortuis, neque nubent neque ducent uxores: neque enim ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt, et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis (4): » e nulla disse dell' anima per sè sola considerata, nè tampoco de' reprobi che pure risorgeranno, ma « non in resurrectione vitae, sì in resurrectione judicii (5). » Ora dalle citate parole di Cristo si può raccogliere due cose: la prima, che la resurrezione è quella che dà ai giusti l' immortalità; la seconda è, che per la risurrezione i giusti sono figliuoli di Dio, tolti per conseguente da ogni pena o sequela del peccato, fatti simili agli angeli santi, spiritualizzati senza il legame o l' impaccio di un corpo materiale. Ma dopo di ciò Cristo continua provando a' Sadducei la verità della risurrezione de' giusti in questo modo: « Quia vero resurgant mortui, et Moyses ostendit secus rubum (1), sicut dicit Dominum Deum Abraham, et Deum Isaac, et Deum Jacob: Deus autem non est mortuorum sed vivorum: omnes enim vivunt ei (2). » Le quali parole confermano mirabilmente quello che dicevamo. Perocchè Cristo argomenta così: « Mosè disse che il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ora, se questi Patriarchi fossero morti, non si direbbe che il Signore fosse il loro Dio, perocchè il Signore è Dio de' vivi e non dei morti. Dunque questi Patriarchi sono viventi. Ma non potrebbero dirsi viventi, se un giorno non dovessero risorgere. Dunque convien dirsi che i morti risorgono ». Questo ragionamento fa dipendere la vita di que' Patriarchi dalla loro futura resurrezione. Perchè sono vivi? perchè risorgeranno. Dunque non sarebbero vivi se non dovessero risorgere. Dunque l' anima separata se non fosse destinata a risorgere, se non avesse in sè una ragione o un germe della sua futura palingenesi, troverebbesi in una condizione e stato di morte. Soggiunge però che a Dio tutti vivono, omnes enim vivunt ei, per indicare che Iddio ha virtù di far tornare a vita tutti quelli che egli vuole. Il che sembra accennare alla risurrezione universale sì dei buoni che de' cattivi; ma, dicendo che « tutti vivono a Dio »; parla d' una vita relativa a Dio, non d' una vita relativa a se stessi, non d' una vita soggettiva; e con ciò dimostra, che tutte le anime continuano ad esistere anche separate dal corpo, e però tutte possono essere ravvivate da Dio, in relazione al quale perciò vivono (3). Veniamo alla seconda questione: che cosa s' intenda per la resurrezione che opera nostro Signor Gesù cristo ne' giusti. Secondo la maniera di favellare delle divine scritture, sotto la parola risurrezione non s' intende solamente l' ultima palingenesi, quando gli uomini ricupereranno un corpo proprio, e i giusti un corpo proprio e glorioso che non più deporranno: si intende il nuovo uomo, s' intende Cristo che è nell' uomo e la cui vita è eterna. Coll' incorporazione dell' uomo in Cristo comincia nell' uomo la vita eterna: la vita adamitica e corruttibile perisce, ma sotto di questa ve ne sta un' altra nascosta come sotto la morta spoglia del serpente sta una pelle nuova e viva che si discuopre colla deposizione di quella. Laonde Cristo disse: « « Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, benchè egli sia morto, vivrà; e ognuno che vive e crede in me, non morrà in eterno »(1). » Ora Cristo in altro luogo dice de' suoi discepoli parlando al Padre: « Ego in eis et tu in me (2). » Se dunque Cristo è la vita, e se egli è nei suoi discepoli, egli è conseguente che a questi non può mai venir meno la vita se non si tolgono dall' unione con Cristo: deve rimanere in essi una vita eterna, una vita che di sua natura non può perire. Onde Cristo assolutamente dice che « ogni vivente e credente in lui, non morirà in eterno ». Ma Cristo non è solo la vita, ma anche la resurrezione. Qui evidentemente il discorso si riferisce a due forme o maniere di vita; altramente chi ha la vita non avrebbe bisogno di risorgere. Altra è dunque la vita propria degli umani individui, la qual consiste nell' unione vitale dei proprii loro corpi colle loro anime; ed altra la vita che comunica loro Cristo, quando ad esso incorporati ne partecipano la grazia. Rispetto a questa maniera di vita, Cristo dice se stesso di esser la vita; rispetto alla prima, dice di esser la risurrezione . Quegli stesso che è la vita permanente negli uomini santi della nuova legge, è anche la loro risurrezione. Quella vita non può venir meno giammai, perchè « Christus resurgens ex mortuis jam non moritur, mors illi ultra non dominabitur (3). » Ma pure Cristo una volta morì; ed allora sono forse morti gli Apostoli e discepoli suoi ne' quali egli era? Sì, quel Cristo che era in essi morì: nel triduo della morte di Cristo, Cristo morì ne' suoi discepoli: i discepoli di Gesù Cristo in quel tempo ebbero in se stessi Gesù Cristo morto: nella stessa eucaristia che avevano ricevuto la vigilia della morte di Cristo, se si conservò in essi, vi aveva Cristo morto, il corpo separato dall' anima. Ma primieramente si consideri che la divinità non abbandonò giammai nè il corpo nè l' anima di Cristo, e che perciò la persona di Cristo non fu soggetta alla morte, perchè quella persona era il Verbo. Cristo dunque, sebben morto come uomo, era vivo come Dio ed aveva la podestà di riassumere la sua vita umana come aveva avuto la podestà di deporla. Cristo come Dio conservava il suo corpo immune dalla corruzione, lo conservava in suo potere, nè perciò permetteva che di lui si vestissero altri animali, come accade de' cadaveri degli altri uomini, ne' quali si generano i vermi ed altri minimi esseri viventi, quand' anzi può credersi che il divin corpo non avesse ricevuto nella Passione alcuna di quelle disorganizzazioni che impediscono assolutamente di vivere, eccetto l' emissione del preziosissimo Sangue. Di poi non sarebbe alieno dal credersi, che, quantunque Gesù Cristo avesse cessato di vivere della vita naturale dell' uomo, tuttavia vivesse l' anima sua della vita eucaristica, della qual misteriosa vita forse altrove ci accadrà di parlare più estesamente. Ma lasciando per un momento da parte questa misteriosa vita, conviene tuttavia distinguersi anche in Cristo primieramente due vite: la vita divina che aveva come Dio, la quale non gli potè giammai venir meno, perchè Iddio non muore; e la vita umana che consisteva nella unione dell' anima sua sacratissima col suo divinissimo corpo. Ora, quantunque Cristo nel triduo della sua morte si trovasse ne' discepoli suoi morto della vita umana, tuttavia viveva in essi colla divina, la quale è la prima causa della risurrezione che Cristo stesso attribuiva alla virtù di Dio, quando a' Sadducei diceva « Erratis nescientes scripturas, neque virtutem Dei (1), » e quando chiamava « figliuoli di Dio »i « figliuoli della resurrezione »(2). Ora la virtù, cioè l' onnipotenza di Dio, poteva certamente dare un termine reale alle anime separate, in qualunque maniera egli si compiacesse di farlo, il quale tenesse luogo del corpo, e così poteva farle vivere di vita soggettiva, benchè non della naturale. Imperocchè la vita dell' anima, generalmente considerata, altro non richiede se non un termine reale così ad essa congiunto, che con esso lei formi un unico soggetto, il quale possa, aggiungendosi le condizioni opportune, fare le operazioni vitali del sentire e del pensare su cosa reale. Ma questo termine reale può esser vario: onde le varie maniere di vita, e l' onnipotenza di Dio, come dicevamo, anche ad un' anima separata dal proprio corpo naturale può aggiungere un' altra realità, che tenga per essa luogo del proprio corpo. Il qual termine noi stimiamo sia, come toccammo, l' essere sacramentale di Cristo, giusta quelle parole: « « il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo »(3), » cioè la mia carne, sotto forma di pane, di alimento, terrà luogo, farà le veci della vita del mondo. Si distinguano adunque oggimai quattro maniere di vita in Cristo e nei discepoli di Cristo: 1 La vita naturale, cioè l' unione del corpo umano naturale in un individuo soggetto; 2 La vita divina, misteriosa, eucaristica, che rimase nel triduo della morte di Cristo; 3 La vita spirituale di Cristo ancor viatore, qual ebbe prima della sua morte, la qual consisteva in una santificazione e divinizzazione di Cristo come uomo naturalmente vivente, cioè in una santificazione e divinizzazione della sua anima e del suo corpo uniti insieme individuamente, dal che proveniva la potenza che aveva di trasfigurarsi, come fece sul Tabor, e di glorificarsi quando avesse voluto, benchè volle piuttosto contenere questi effetti della sua divinità lasciando che il suo corpo e l' anima sua potessero patire, come abbiamo detto, e dividersi per morte; il che non toglieva che la vita immortale e gloriosa di Cristo non fosse in lui viatore, ma nascosta, quasi in germe, che a suo tempo sarebbesi sviluppata e manifestata, il che fu nella resurrezione; e 4 Finalmente la vita gloriosa dopo la resurrezione, e dopo l' ascensione al Cielo (due gradi della stessa vita), la quale è la stessa vita precedente attuata nella pienezza del suo vigore e dei suoi meravigliosi effetti. La prima di queste quattro maniere di vita era destinata alla morte in Cristo e ne' suoi discepoli: ne' suoi discepoli come conseguenza penale del peccato adamitico, pel quale la vita naturale degli uomini era divenuta corruttibile, ricalcitrante allo Spirito Santo, e preda del demonio: in Cristo, perchè Cristo per la sua magnanimità, come abbiamo detto, volle prendere su di sè la pena del peccato senz' alcun peccato, e così riuscire quel tipo perfettissimo di virtù morale, che il suo eterno Padre voleva che fosse ed apparisse in questo mondo. La seconda vita non venne mai meno in Cristo, nè pure nel tempo della sua morte e durante la dimora del suo corpo sacratissimo nel sepolcro. Che durante questo tempo Cristo e i suoi discepoli in lui incorporati vivessero della vita eucaristica sembra indicarsi da queste parole di Gesù Cristo «: Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (1). » Il cibo adunque che Gesù Cristo non avea dato fino allora, ma che prometteva di dare, dice esser tale che non muore, non vien meno perchè permane nella vita eterna, e questo è il cibo eucaristico. E soggiunge questa ragione: « Hunc enim Pater signavit Deus (2) »: quasi voglia far intendere che quel Figliuolo dell' uomo, che Iddio segnò come sua proprietà anche morto quant' è alla vita naturale, non può non avere qualche altra maniera di vita, in modo che la vita soggettiva in lui duri eterna, e la possa comunicare a' suoi, dandosi loro sotto forma di cibo. Poco appresso soggiunge: « Non Moyses dedit vobis panem de coelo, sed Pater meus dat vobis panem de coelo verum. Panis enim Dei est, qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1). » Questo pane del Cielo è Gesù Cristo stesso, ma non nella sua vita naturale, ma nella sua vita eucaristica. I SS. PP., che interpretarono questo capo VI dell' Evangelista Giovanni, hanno inteso costantemente dell' essere eucaristico o sacramentale di Cristo, ciò che ivi si legge del pane celeste. Questo pane si dice dato dal Cielo, perchè Cristo, nella forma di cibo o di pane, non è più nel suo essere naturale umano, non è nella vita adamitica, ma in un modo miracoloso, soprannaturale; ha un altro essere, un' altra vita nascosta e al tutto misteriosa: e questa vita è per comunicarsi al mondo, dat vitam mundo: dà al mondo, che ha perduto la vita in Adamo, una vita di forma del tutto nuova; la quale rimane anche quando il mondo è morto della sua vita naturale, di quella vita che gli venia dalla terra e non dal cielo, che gli veniva dalla carne e dal sangue e non da Dio: « qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (2). » Questa vita poi, che viene comunicata meravigliosamente agli uomini, ha condizione di cibo, perchè sia così ristorato l' antico modo col quale gli uomini si dovevano rendere immortali, cioè col mangiare del frutto dell' albero della vita: modo stabilito da Dio a principio e reso inutile dall' insidia del demonio. Ora, dovendo il demonio esser vinto e confuso in tutti i suoi tranelli, dispose l' Eterno di dare al mondo riconquistato un altro albero della vita, assai migliore del primo, e questo fu Gesù Cristo; e il cibo eucaristico, la vita di Cristo nascosta in esso, è il frutto di quest' albero. Il qual cibo noi possiamo acconciamente chiamarlo frutto, perchè fu impetrato da Cristo appresso il Padre e meritato colla sua passione e morte, di cui per questo pure è la vivente memoria, perchè egli dura e vive anche quando Cristo è morto nella sua umana natura. Alla qual vita nascosta ed eucaristica, che non vien meno, consuonano quelle parole dell' Apostolo « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia (3). » Ora dalla morte naturale Cristo non fu immune, non fu esaudito; e, quantunque ne sia poscia stato campato colla resurrezione, tuttavia questo non toglie che l' abbia sostenuta. Ma, se poniamo che Cristo, anche morto, vivesse d' un' altra vita occulta, e fuori dell' ordine naturale, qual è l' eucaristica; in tal caso egli fu esaudito, perchè non fu mai senza qualche maniera di vita. E` anche da osservarsi che questa maniera occulta di vita comunicandosi agli altri per modo di cibo, suppone che essi già vivano: ed è per ciò che l' eucaristia non si può ricevere se non da quelli che sono nati nelle acque battesimali. Dice Gesù Cristo di nuovo agli Ebrei « Ego sum panis vitae: qui venit ad me non esuriet: et qui credit in me non sitiet unquam (1) » Ed alla Samaritana avea detto il somigliante dell' acqua che ha pur forma di cibo: « « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere; tu forsitan petisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam »(2). » E ancora: « « Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua, quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam »(3). » Quest' acqua è il premio della fede, onde dice: « qui credit in me non sitiet unquam; » e mescolata nel calice col vino si transustanzia anch' essa nel sangue di Cristo. L' acqua mescolata col vino non diviene una sola sostanza con lui, non si combina con esso lui chimicamente; e pure secondo i teologi nel calice insieme col vino diviene sangue di Cristo. Ed anche il pane eucaristico è farina impastata coll' acqua, come osserva S. Cipriano, di cui Innocenzo III cita questo testo: [...OMISSIS...] La fede è il principio della salute: essa dà il diritto al battesimo e agli altri sacramenti. Se questi non si possono ricevere, la fede, che ne produce il desiderio, salva l' uomo, dandogli il diritto di ricevere dopo morte quella vita da Cristo, che in terra non ha potuto ricevere da' sacramenti desiderati. Il sangue di Cristo si dee dunque ricevere misto coll' acqua viva della fede, come la farina pure divenuta pane per l' acqua. Per questo si suol dire giustamente che l' acqua nel calice rappresenta il popolo che si unisce strettamente e s' incorpora a Cristo, il che avviene per la fede viva di esso popolo: l' acqua rappresenta dunque il popolo credente, rappresenta l' atto o l' abito della fede, col quale il popolo aderisce a Gesù Cristo e si fa uno in se stesso. Ma della fede e delle altre virtù teologali, che uniscono a Cristo dando il diritto all' unione corporale con lui, parleremo in appresso. Cristo disse alla Samaritana: « Si scires donum Dei, » il che sembra alludere al mistero eucaristico, giacchè la stessa parola eucarestia, secondo l' interpretazione di valenti grecisti, significa buon dono, eccellente, ottimo dono, da «eu», bene, e da «charizomai», largior, dono (1); onde «charisterion», donum, e dono è chiamata l' Eucaristia dai più antichi Padri (2). Vero è che dono è anche la parola significativa dello Spirito Santo, ma questo suppone prima Cristo dal quale procede; e nell' Eucaristia, che è Cristo coll' essere e colla vita di cibo, si diffonde lo Spirito Santo, essendo quello il mistero dell' amore di Gesù Cristo. Il che è confermato dal contesto. Perocchè dicendo: « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: da mihi bibere; tu forsitan petiisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam, » quasi voglia dire: « tu stessa domanderesti il dono dell' acqua viva, se conoscessi qual dono sia questo, e chi sia colui che a te domanda dell' acqua materiale: il quale è tale che potrebbe ben darti dell' acqua molto migliore a te ». Laonde il dono si riferisce all' acqua, e l' acqua, simbolo della fede, si riferisce all' eucaristico soprasostanziale alimento. Tornando dunque alle citate parole di Cristo [...OMISSIS...] esse si possono parafrasare in questo modo: « Chi verrà a me con disposizione di credere alle mie parole, non avrà più fame, perchè io lo accoglierò e gli darò finalmente me stesso a suo nutrimento, per guisa che egli vivrà della mia vita, di quella vita che io ho sotto forma di pane; e chi già crede in me, non avrà più sete, perchè io gli darò me stesso a sua bevanda per guisa ch' egli pure vivrà di quella vita che io ho sotto la forma di vino e di acqua col vino mista ». Accenna due semi della salute dell' uomo: le disposizioni alla fede, e la fede già ottenuta. Promette che l' uno e l' altro seme frutterà e recherà l' uomo alla vita eterna, perchè Cristo gli si darà in alimento, e sotto questa forma gliela comunicherà. Dice, che colui che mangierà o berrà questo nutrimento divino, non avrà più fame d' alcun altro cibo, nè sete d' alcun' altra bevanda; ma non avrà tuttavia sazietà dello stesso cibo, come si rileva dalle parole della stessa Sapienza che sembrano contrarie alle riferite di Cristo, e non sono: « qui edunt me adhuc esurient, et qui bibunt me adhuc sitient (1), » perocchè queste parlano della fame e sete della sapienza che non s' estingue, e quelle della fame e sete che s' estingue in quelli che sono satollati della sapienza e della vita di Cristo. E Cristo stesso dichiarò la cosa: quando, dopo aver detto alla Samaritana che chi berrà dell' acqua ch' egli darà non avrà più sete in eterno, soggiunge di ciò questa ragione: « sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam . » Non è dunque a intendersi che non avrà più sete, quasi non voglia più bere di quest' acqua; ma non avrà più sete per penuria di essa acqua; non vi avrà più pericolo che quest' acqua gli possa mancare, onde debba sofferire una sete molesta perchè non soddisfatta del bramato umore: chè l' acqua, cioè la fede, che io gli darò, diverrà in lui stesso una fonte copiosa e perenne di acqua viva, a cui continuamente si abbevererà, e quest' acqua salirà fino alla vita eterna, giacchè dalla fede germinano le altre grazie, e la vita che comunicano e conservano i sacramenti, fra i quali in modo più che mai pieno l' eucaristico. Continuandoci ora a considerare il discorso di Gesù Cristo, che avevamo allegato, dopo aver detto: « Ego sum panis vitae, » poco appresso soggiunge: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die. Haec est autem voluntas Patris mei, qui misit me, ut omnis qui videt Filium et credit in eum, habeat vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (2). » Questi due periodi cominciano egualmente: « Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato », ma non è da credersi che ripetano la stessa cosa. Anzi essi manifestano le due maniere onde Cristo dà la vita agli uomini, delle quali abbiamo sopra toccato. Perocchè: A tutti gli uomini Cristo nell' ultimo giorno restituirà la vita naturale che aveano perduta per insidia del demonio col peccato del primo uomo; A quelli che sono predestinati alla eterna salute darà la vita eterna, e li risusciterà nell' ultimo giorno. Di vero egli dice, che tale è la volontà del Padre che lo ha mandato, che egli non perda nulla di ciò che gli ha dato. Ora, che cosa il Padre diede al Figliuolo? Lo dice altrove in quelle parole: « dedisti ei potestatem omnis carnis (3). » Ogni carne dunque è in potere del Figlio, il quale però integra ogni carne nell' ultimo giorno colla resurrezione. Egli non dice che ogni cosa che gli diede il Padre sarà da lui resuscitata nel giorno estremo. Parlando di ciò ch' egli resuscita nel giorno estremo, usa il genere neutro omne quod dedit mihi; ma parlando di quelli che hanno la vita eterna , usa del genere maschile omnis qui videt Filium et credit in eum . Il genere neutro si conviene alla natura, il genere maschile alla persona: il primo conviene alla carne, il secondo allo spirito. Cristo colla resurrezione ultima de' buoni e de' tristi reintegra tutta la natura umana, restituisce la vita a tutta la carne: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Cristo, colla comunicazione della vita misteriosa che sta nella percezione e incorporazione di lui, salva le persone che gli sono state date dal Padre, e a queste, oltre l' aspettazione della resurrezione futura colla quale ricuperano quella vita che consiste nell' unione delle loro anime col loro corpo naturale, hanno oltracciò un' altra vita misteriosa, che noi crediamo consistere nella percezione di Cristo vivente sotto forma di cibo o di pane: [...OMISSIS...] Vedere il Figlio è percepirlo, averne la percezione, il che si consegue quando viene impresso nell' anima il carattere indelebile; credere nel Figlio è dare l' assenso volontario; e, se la fede è viva, è altresì un dare la ricognizione pratica e l' adesione al Figlio percepito. Questi, dice Cristo, ha la vita eterna . Ma se ha la vita eterna, qual bisogno avrà egli di essere resuscitato nell' ultimo giorno? Acciocchè alcuno possa esser resuscitato, conviene che sia morto: ma chi ha la vita eterna non è morto. Conviene dunque dire che l' uomo possa esser morto secondo una vita, cioè secondo la vita naturale, e possa tuttavia vivere d' un' altra vita migliore ed eterna, la quale egli ha qualora veda il Figliuolo di Dio e creda in Lui. Attesa questa vita eterna di cui l' anima è dotata per la grazia di Cristo, nel quale ella è incorporata, non s' avvera giammai dell' anime cristiane l' ipotesi, che noi facevamo più sopra, di un' anima cioè separata dal corpo, che non ritiene altro se non la sua propria natura, la quale, abbiam detto, esisterebbe sì ed avrebbe l' intuizione dell' essere e certi abiti conservati dalla sua precedente unione col corpo; ma non però avrebbe vita, in quanto la vita esprime « il sentimento d' una realità »; e però sarebbe del tutto priva d' ogni altra attività, di ogni altro atto, e molto più d' ogni consapevolezza. L' anima cristiana all' incontro, anche separata dal corpo, non riman sola, perchè è unita con Cristo; non riman senza vita, perchè ha la vita eterna: il cui termine reale era probabilmente nel triduo della morte di Cristo il suo corpo e il suo sangue sotto la forma di cibo e di bevanda; e, dopo risorto, è non solo il corpo di Cristo secondo l' essere sacramentale, ma ben anco secondo l' essere suo naturale glorioso. Ma nella vita presente l' uomo è incorporato a Cristo secondo la vita misteriosa e sacramentale solamente, perchè l' essere naturale e glorioso di Cristo gli rimane al tutto nascosto, acciocchè sia oggetto della fede, e s' avveri il detto del Signor nostro «: Beati qui non viderunt et crediderunt (1), » e l' uomo s' abbia quella beatitudine che altramente non avrebbe. Tutto in beneficio dell' uomo, anche la limitazione de' doni. Perocchè il non vedere Iddio e tuttavia credere alle sue parole con efficacia di opere, dà maggiore onore a Dio che credendo dopo aver veduto. Quell' atto contiene una intiera fiducia in Dio rivelante, un intero abbandono a lui come verità, ed è un atto di mente più ferma e libera e dominatrice dei sensi e delle loro apparenze che sogliono attirare e legare l' assenso dell' uomo. Onde nella fede v' ha un prezzo e una dignità morale maggiore che non sia nella semplice visione, e tutto l' intento divino è di condurre l' uomo alla maggiore perfezione dell' essere. Questa è la fede di quelli che sono già incorporati in Cristo: la fede dopo la percezione occulta di Cristo, colla quale si percepisce Cristo, nel suo essere sacramentale di cibo; la fede di cui disse Cristo «: Ut omnis qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam (2). » Prima dice videt filium, e poscia dice et credit in eum, perocchè a quella visione del Figlio soprastà la fede . Non è una visione che tolga la fede, quand' anzi le dà il fondamento, giacchè la fede è « « la sussistenza delle cose da sperarsi, l' argomento delle non vedute »(3); » definizione che conviene sommamente alla fede dell' uomo già incorporato con Cristo, nel quale Cristo percepito occultamente, e non nel suo corpo naturale nè glorioso, è la sussistenza delle cose da sperarsi, cioè della manifestazione di Cristo nel suo esser glorioso, ed è l' argomento inconcusso di questo esser glorioso di Cristo che nella vita presente non apparisce. Cristo disse ancora nella stessa conferenza cogli Ebrei: « « Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum: et ego resuscitabo eum in novissimo die. Est scriptum in Prophetis et erunt omnes docibiles Dei (1). Omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me. Non quia Patrem vidit quisquam, nisi is, qui est a Deo, hic vidit Patrem. Amen, amen dico vobis: qui credit in me habet vitam aeternam »(2). » Nelle quali parole Cristo descrive tutto il progresso pel quale l' uomo perviene a quella fede in lui, onde ha la vita eterna. Prima l' accenna in generale dicendo, che « niuno può venire a lui se il Padre che ha mandato Cristo non tragga l' uomo a Cristo »; e promette « che se il Padre lo trae, in qualunque modo lo tragga, Egli lo risusciterà nell' ultimo giorno ». Questo trarre a Cristo può anche in qualche modo intendersi di tutte le cose, come Cristo altrove disse «: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum (3); » e in questo senso si possono interpretare le parole che seguono [...OMISSIS...] della universale resurrezione, allo stesso modo come abbiamo spiegato l' altre parole precedenti « ut omne quod dedit mihi non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Ma l' espressione del « trarre del Padre »abbraccia di più; come generalissima abbraccia ogni maniera di traimento, e specialmente di quelli che sono tratti a Cristo, acciocchè non siano solamente in potestà di Cristo, ma sieno salvati da Cristo, rispetto a' quali la promessa di Cristo « ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno »dee intendersi della resurrezione beatifica e gloriosa. Se il Padre trae in questo significato a Cristo, la persona che è tratta non è ancora venuta a Cristo, non ancora incorporata con esso lui: ma è nondimeno in sulla via a questo felice termine. Il traimento adunque del Padre a Cristo comprende quelle grazie e quei doni che costituiscono la disposizione dell' uomo a credere in Cristo, e che perciò precedono la fede compiuta attuale ed abituale. Queste disposizioni non sono propriamente la rettitudine naturale del pensare e dell' operare, la naturale scienza, la naturale onestà. Questa non può essere che una cotale disposizione iniziale e remota, che sarà nondimeno anche questa valutata « in die cum judicabit Deus occulta hominum, secundum Evangelium meum per Jesum Christum (4). » E tuttavia anche questa si attribuisce convenientemente al Padre, a cui s' attribuisce la creazione; e conviene poi al Padre in proprio, in quanto il Padre genera il Figliuolo, e di conseguente tutte le appartenenze del Verbo, fra le quali è il lume della ragione umana, cioè l' essere ideale: si attribuisce al Padre altresì la conservazione e la provvidenza delle cose, onde viene a tutte le cose e nominatamente all' uomo il vigore pel quale durano in essere ed operano, ed ancora la ragione per la quale certi uomini sembrano incontrare nella vita minori tentazioni al mal fare. Ma le immediate ed efficaci disposizioni al ricevimento di Cristo e del suo Vangelo, pei Gentili erano le antichissime tradizioni orali, provenienti dalle primitive rivelazioni fatte da Dio ad Adamo, ed ai successivi Patriarchi prima che l' uman genere si separasse in nazioni, e per gli Ebrei erano le rivelazioni speciali e tradizioni orali e scritte consegnate alla famiglia d' Israele. Mediante queste rivelazioni e tradizioni divine, tanto i Gentili quanto gli Ebrei potevano avere qualche notizia del futuro Redentore del mondo, su cui si fondasse la fede in esso. E al Padre s' attribuiscono queste verità rivelate, perchè, essendo esse, come abbiamo detto (Lezione L, facc. 130), appartenenze soprannaturali del Verbo, benchè non ancora il Verbo stesso, a questo si riducevano, e il Padre che genera il Verbo e lo manda al mondo produceva con ciò stesso tuttociò che al Verbo appartenesse: onde Cristo non si contentò di dire: « Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit eum; » ma disse: « Pater qui misit me » quasi dica: Colui che a me è Padre ab eterno, e che agli uomini mi manda e mi comunica nel tempo. Dice nelle parole appresso che nessuno degli uomini vide il Padre, « nisi is qui est a Deo » perchè il Padre non è conoscibile e percettibile se non pel Figlio e nel Figlio, il quale n' è il Verbo che tutto lo comprende, e quindi n' è l' intelligibilità. Ma tuttavia dice che, se il Padre non si può vedere dagli uomini, tuttavia da essi si può udire, onde il profeta Isaia dice che « saranno tutti docibili », ossia atti ad essere ammaestrati da esso Dio Padre. Ora questi ammaestramenti dal Padre dati agli uomini che ancora non conoscono Cristo, dati specialmente avanti la venuta di Cristo, sono appunto quelle rivelazioni e istruzioni soprannaturali di cui abbiamo parlato, e che abbiam detto non essere ancora il Verbo, ma essere tuttavia appartenenze del Verbo. Ora queste, ricevute docilmente, umilmente, fedelmente dagli uomini, sono le disposizioni prossime ed efficaci che poscia li fa ricevere Cristo e credere in lui. Onde Cristo promette, con infinita bontà, che: « omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me . » Non basta che gli uomini odano dal Padre quello che loro insegna, quello che loro insegnò colle primitive rivelazioni, quello che insegnò agli Ebrei colle rivelazioni speciali fatte alla casa di Giacobbe; conviene ancora che imparino quanto il Padre insegna, acciocchè vengano a Cristo: cioè conviene che aggiungano la loro cooperazione, l' adesione della loro libera volontà, [...OMISSIS...] In tal caso vengano a Cristo. Il venire a Cristo sembra che sia una disposizione ancora precedente alla fede, precedente al credere in Cristo. Quando l' uomo udì dal Padre, quando l' uomo imparò ciò che il Padre gli favellò, allora egli va a Cristo, cioè nasce in lui il desiderio che sia completata quella scienza che gli ha insegnato il Padre, ed opera in conformità di quel desiderio, cercando quel completamento che ancora non ha, ancora non conosce, il quale completamento è Cristo. Postochè Cristo gli si annunzia; allora egli crede in Cristo, ed opera in conformità di quella fede. Giunto a questo punto la sua salute eterna è assicurata, promettendolo Cristo: « Amen, amen dico vobis, qui credit in me habet vitam aeternam . » Ma chi ha la vita eterna crede in Cristo, cioè continua a credere, e crede con maggior luce, cioè colla luce della vita eterna che oggimai egli possiede. Ora Cristo passa ad insegnare come questa vita eterna si formi nell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] Aveva detto che chi crede in lui ha la vita eterna, e poi dice di essere egli stesso pane di vita, di cui quegli che avrà mangiato, vivrà in eterno. Se la Fede basta per avere la vita eterna, come poi mette per condizione all' uomo per vivere eternamente, ch' egli mangi del pane della vita? E se questo pane della vita è il pane eucaristico, se è la carne di Cristo, come espressamente spiega lo stesso Cristo, « et panis quem ego dabo caro mea est; » sarà egli vero che colui che ha la fede e non ha ricevuto l' eucaristico pane non abbia la vita eterna? Questo sarebbe opposto a quanto aveva detto, perocchè Cristo aveva detto assolutamente e senza altre condizioni: « qui credit in me habet vitam aeternam . » E` dunque da dirsi che questa fede in Cristo trae seco per natural conseguenza il desiderio del battesimo e degli altri sacramenti, il qual desiderio, quando non può essere soddisfatto, basta all' uomo per l' eterna salute. Ma in tal caso, in qual modo Cristo dice assolutamente poco appresso: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi: [...OMISSIS...] Queste parole sono assolute ed universali. Qui sembra occultarsi un grande mistero. E quantunque questo mistero rimarrà sempre in parte occulto, tuttavia sembra che Gesù Cristo medesimo ce l' abbia in parte svelato. Gesù Cristo ci dice che egli si comunica agli uomini in forma di cibo: che questo cibo è la sua carne: che questa carne sotto forma di pane e di bevanda dà la vita: che se non si ciba questo pane e questa bevanda non si può avere la vita in se stessi: e che il pane che egli darà è la sua carne per la vita del mondo, [...OMISSIS...] ovvero, come dice il testo greco « « è la mia carne che io darò per la vita del mondo » », [...OMISSIS...] quasi dicendo: quella stessa carne, che io darò a morte acciocchè il mondo viva, è il pane della vita; cioè quel pane che darà al mondo una nuova vita immortale ed eterna. Vi ha dunque una carne che Cristo abbandona alla morte; ma questa carne stessa, destinata alla morte, sarà il pane della vita eterna, cioè avrà una maniera di vita che non può venir meno; e questa darà la vita agli uomini, anche quando questi avranno perduta la loro vita naturale, la vita del mondo. Io darò dunque a morte la mia carne, ma nello stesso tempo darò un' altra vita, perocchè questa mia carne rimarrà sempre un pane vivo, un pane che dà la vita. Questo pane adunque dee dare la vita anche a quegli uomini che sono morti secondo la vita naturale ed adamitica. Il che importa che ci abbia un' azione, un effetto dell' eucaristia al di là di questa nostra vita naturale, sicchè le anime nostre anche separate vivano di quella vita che dà la carne di Cristo sotto forma di pane della vita, in un modo del tutto occulto e misterioso. E veramente Gesù Cristo disse agli apostoli, dopo istituito il sacramento eucaristico, ch' egli avrebbe bevuto un vino nuovo insieme con essi, quando fosse entrato nel suo regno: [...OMISSIS...] Il vino eucaristico che Cristo dichiara che avrebbe bevuto nel regno del Padre suo, lo dice « vino nuovo »perchè il suo corpo sarebbe stato glorioso: dice che lo avrebbe bevuto « con esso loro », per indicare la partecipazione ad essi della sua vita eucaristica: il vino eucaristico suppone anche il pane, come il sangue suppone il corpo; ma Cristo si limita ad accennare quell' umore che dà la vita al corpo naturale, giacchè era scritto: [...OMISSIS...] E poco prima aveva detto: [...OMISSIS...] Questo sangue, che è destinato da Dio pro piaculo animae, non è il sangue d' alcun animale, il quale non poteva che raffigurarlo; nè è il sangue dell' uomo corrotto: ma il sangue del Figliuolo dell' uomo che è insieme Figliuolo di Dio, Gesù Cristo Signor Nostro. Non si potea cibare qualunque altro sangue, perchè era sangue morto, e traendolo dal vivente, gli dava morte; ma Gesù Cristo irritò anche questa prescrizione legale compiendola, dando all' uomo il suo preziosissimo sangue in forma di vino, sangue vivo e vivificante, vero piaculum delle anime, sangue del nuovo ed eterno testamento. Oltre di ciò, parlando Cristo a' suoi discepoli, preferisce di parlar loro del sangue suo, che avrebbe bevuto nuovo nel suo regno sotto forma di vino, perchè l' assunzione del sangue era riserbata specialmente ai perfetti, ed ai sacerdoti, a' quali poi riserbolla la Chiesa diminuito il primo fervore dei fedeli, come quello che contiene in modo speciale le grazie più perfette, qual è l' allegrezza nel fare il bene significata dalla specie del vino che « laetificat cor hominis (3), » e la grazia della fortezza e del martirio significata nel sangue che Cristo il primo dovea spargere. Onde quelle parole erano conforto ad un tempo e robustezza aggiunta a' dolenti discepoli che doveano quanto prima vedere il loro Signore e Maestro barbaramente crocefisso. L' essere adunque eucaristico di Cristo, che vive in forma di pane e di vino, opera al di là di questa vita, e dà all' anima separata, come all' anima unita al corpo, una vita misteriosa in Cristo che non può venir meno giammai, perchè di sua natura è eterna. [...OMISSIS...] Questo pane è sempre vivo: « Ego sum panis vivus; » questo pane è vivo in modo che dà altrui la vita: « Ego sum panis vitae . » Cristo può esser dunque morto della sua vita naturale, ma non della sua vita eucaristica. Questo pane vivo è disceso dal cielo: « Ego sum panis vivus qui de coelo descendi » e perciò appunto non muore, perchè non è nato della terra: il cielo è il luogo della vita e non della morte: ciò che è dal cielo non soggiace alle leggi della terra, e perciò non muore, perocchè nè la terra nè le forze della terra, nè quelle dell' inferno non hanno potestà sulle cose del cielo: il corpo naturale di Cristo era venuto dalla terra perchè composto del sangue della Vergine, e però fu potuto abbandonare alla morte: ma il corpo eucaristico ha un essere soprannaturale, che viene unicamente dal Cielo, e però è vivente e vivificante: niuno lo può distruggere. Una dottrina così recondita e meravigliosa faceva stupire gli Ebrei che non la intendevano, e ne mormoravano dicendo: « Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? (1). » E tuttavia Cristo non ritratta o spiega in senso traslato quanto aveva detto, ma lo conferma e rinforza dicendo e ripetendo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole Cristo mette per condizione ad avere in se stessi la vita il mangiare la carne sua e bere il suo sangue: « Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis ejus sanguinem non habebitis vitam in vobis . » Le parole sono chiare ed assolute, a tal che, prima che fosse deciso dalla Chiesa l' assunzione dell' Eucaristia non essere di necessità di mezzo alla salute (3), v' ebbero alcuni, come S. Agostino (4) e Innocenzo I (5), che ritennero non bastare all' eterna salute de' bambini ricevere il battesimo, se ancora non fosse data loro l' eucaristia. Ma ora è definito il contrario dall' infallibile autorità della Chiesa; e pure quelle parole di Cristo son così assolute ed universali, come quelle che inculcano la necessità del battesimo: [...OMISSIS...] Se dunque chi non mangia la carne del Figliuolo dell' uomo e bee il suo sangue non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d' acqua, o di sangue, o di desiderio è certo che acquista la vita eterna, convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte, e così avrà la vita in se stesso: giacchè, come abbiamo veduto, l' eucaristia ha degli effetti anche al di là di questa vita, e Cristo stesso disse che entrato nel suo regno glorioso egli l' avrebbe presa insieme co' suoi discepoli. In questo modo anche a' santi dell' antico testamento, quando Cristo discese al limbo, potè Cristo comunicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così ravvivarli da quello stato di tenebre e di sonno in cui si trovavano; e, mettendoli a parte della propria vita eucaristica, renderli atti alla visione di Dio; la fede loro era per essi il titolo, con cui sono morti, di un diritto ad rem, che fu poscia effettuato da Cristo, quando diede loro il possesso delle cose in cui speravano, onde il loro divenne un diritto in re . Il medesimo dicasi di tutti que' Gentili che ebbero la fede nel futuro Salvatore del mondo, e che vissero senza peccato mortale, o pentiti n' ottennero il perdono. Lo stesso di que' Cristiani che muojono, benchè battezzati e mondi dal peccato attuale, senza aver ricevuto nella vita presente l' eucaristia, come accade a molti bambini, e come accadde a colui, a cui disse Cristo in Croce: « Hodie mecum eris in Paradiso (1). » La qual dottrina viene confermata dal sacrificio della messa. Perocchè in questo, dopo avvenuta la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, si prega che questo venga portato dall' angelo « in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae, » e che quanti partecipiamo di questo altare, « omni dono coelesti et gratia repleamur : » il che è la società e comunicazione nostra co' santi che sono in Cielo. Laonde Innocenzo III nella sua opera sulla liturgia, venuto a questo passo che incomincia: « Jube haec perferri, » appone al capitolo questo titolo «: De profunda quorumdam intelligentia verborum; » ed appresso scrive così «: Tantae sunt profunditatis haec verba ut intellectus humanus vix ea sufficiat pertractare . » Vede in quelle parole il mistero, e non osa quasi per riverenza svelarlo; non osa per la profondità sua investigarlo: perocchè veramente ella è questa una delle più arcane dottrine della cattolica Chiesa. Che se noi osiamo favellarne, è solo per la persuasione in cui siamo che così voglia Iddio in questo tempo. Quel sommo Pontefice nondimeno lo accenna colle parole di C. Gregorio Magno, di cui allega due testi, continuandosi in questo modo: [...OMISSIS...] (1). Dopo recati tali testimonii, Innocenzo III passa a spiegare quelle parole in un senso meno profondo, attestando però di nuovo l' alto mistero che esse nascondono con dire: [...OMISSIS...] Ma poscia, venendo a parlare di quell' altare sublime in cui il sacerdote prega che sia portata dall' Angelo l' eucaristia, dice: « Multiplex autem altare legitur in scripturis superius et inferius, interius et exterius » e si fa ad enumerare questi diversi altari superiori e celesti, ed inferiori e terreni, e fra questi dice che altare superiore è anche la Chiesa trionfante, altare poi inferiore la Chiesa militante [...OMISSIS...] Ed acconciamente pel sublime altare, di cui è fatta menzione nelle citate parole che pronuncia il sacerdote nella messa poco dopo la consacrazione, si può intendere la Chiesa trionfante, la quale è fatta partecipe degli stessi divini misteri, di cui si rende partecipe il credente viatore su questa terra, vivendo e l' una e l' altra dello stesso cibo, fruendo della medesima vita di Gesù Cristo. Qual ineffabile consorzio! Qual intima unione del Cielo colla terra! qual divino legame fra le cose visibili ed invisibili! Qual ammirando commercio fra la vita presente e la futura! Quale unità di tutto il Corpo di Cristo, la quale discende da questo corpo glorioso e si comunica non meno alle membra già partecipi della sua gloria che alle membra che ancor vivono di fede sperando! Ora nella Santa Messa, dopo che il sacerdote pregò Iddio perchè comandi che l' Angelo porti il pane e il vino della vita, che sta in sull' altare terreno, anche sull' altare celeste, cioè che la porti a' celesti comprensori, egli prega per le anime dei defunti non ancora pervenute allo stato di termine e che debbono purificarsi dalle leggiere macchie che da questa recaron seco nell' altra vita. Perocchè, se questo cibo vitale venga dato a quelle anime fedeli, esse saranno tantosto liberate dalla loro oscura prigione, ottenendo quella vita di Cristo colla quale nell' altra vita si è atti a vedere la faccia di Dio: giacchè questo cibo rimette i peccati leggieri, e monda le anime intieramente, « tamquam antidotum quo liberemur a culpis quotidianis, » come disse il Sacrosanto Concilio di Trento (1). Alla commemorazione poi delle anime purganti, segue l' orazione che incomincia: Nobis quoque peccatoribus, colla quale il sacerdote prega per sè, per gli assistenti, e per tutti i fedeli che costituiscono la Chiesa militante su questa terra, e dimanda che mediante il cibo eucaristico possiamo tutti aver qualche parte coi santi martiri ed altri comprensori celesti, in modo che, dopo esser vissuti quaggiù della vita nascosta di Cristo, possiamo in cielo godere della vita palese e a pieno manifesta. Così le tre parti in cui la Chiesa è divisa, cioè la trionfante, la purgante e la militante, conviene che vivano della stessa vita di Cristo, benchè in gradi e modi diversi, e che abbiano uno stesso mezzo con cui partecipare di questa vita. Conviene riflettere che il concetto del sacrificio fu sempre eguale dal principio del mondo, nè fu solo conservato presso gli Ebrei, ma presso tutte le genti. Questo concetto non involgeva solo l' immolazione della vittima alla divinità, ma ben anco acchiudeva la persuasione che della vittima immolata si cibassero, parte la divinità stessa, parte gli uomini che facevano il sacrificio. Si concepiva così che un solo cibo diventasse comune a Dio, od agli Dei, ed agli uomini, e per tal modo gli uomini partecipassero della stessa vita di Dio o degli Iddii. E Iddio presso il suo popolo mandava sovente il fuoco dal cielo ad assumere la vittima quasi egli stesso se ne nutrisse. [...OMISSIS...] si legge ne' libri de' Maccabei, [...OMISSIS...] Questo concetto costantissimo presso tutte le nazioni, non fu effettuato in antico se non simbolicamente; ma Cristo compiè il simbolo, e adempì la verità di quel concetto profetico. Se dunque era nell' antica tradizione, e nell' istinto della natura umana, che una vittima dovesse esser cibo comune a Dio ed agli uomini, era convenevole che Iddio divenuto uomo e glorificato partecipasse d' un alimento sacro di cui potessero altresì partecipare gli uomini, e questo alimento fu il pane ed il vino divenuti sua carne e suo sangue. E se Cristo glorioso ne partecipa, conveniva che tutta l' umanità gloriosa, che forma un solo corpo con esso lui, pure ne partecipasse: questo dunque è il cibo soprasostanziale di tutti i santi che ammantano Cristo, e compiscono il suo corpo santissimo. Quando parla Gesù Cristo del cibo eucaristico chiama se stesso « Figliuolo dell' uomo »: [...OMISSIS...] Abbiamo detto che questa era la denominazione più umile che poteva dare a se stesso. Ma egli era venuto a prendere la difesa dei figliuoli dell' uomo contro il demonio, a prendere la forma così bassa ed umile di figliuolo dell' uomo (espressione che allude alla generazione, nella quale il demonio aveva posto il guasto della natura umana e per la quale il peccato si propagava di padre in figlio, benchè Gesù Cristo, non concepito per umana generazione ma per opera dello Spirito Santo, ne andasse del tutto immune, come ne andava pure immune per essere in pari tempo Dio) per rinnovare e rialzare dal suo avvilimento lo stesso figliuolo dell' uomo, il quale in lui sussisteva perfetto e sublimato: perfezione e sublimità che voleva pure comunicare agli altri figliuoli degli uomini a cui s' era fatto fratello secondo la carne, a cui voleva pure esser fratello secondo la divinità. Quindi, in onta al demonio, egli esalta e magnifica quel figliuolo dell' uomo, che l' inimico aveva tanto umiliato e distrutto, e però egli dice: « Ut autem sciatis quia Filius hominis habet potestatem in terra dimittendi peccata (1); » dice ancora: « Dominus est Filius hominis etiam sabbati (2); » dice: « Mittet Filius hominis angelos suos et colligent de regno ejus omnia scandala (3); » dice: « Filius enim hominis venturus est in gloria Patris cum angelis suis, et tunc reddet unicuique secundum opera ejus (4): » e tante altre cose dice in onore della umana natura che il Demonio aveva tanto abbassata, ed egli era venuto ad innalzare. Ed è da considerarsi che egli non esaltava solo questa natura in un solo individuo di lei, cioè in se stesso, ma la voleva esaltata in molti individui che rappresentassero tutte le forme o specie di onore e di gloria di cui ella fosse suscettibile (1), giacchè invitava tutti gli uomini a partecipare di que' pregi, ed onori, e glorie che in lui primo dovevano essere, fino a dire: « Amen dico vobis, quod vos, qui secuti estis me, in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede majestatis suae, sedebitis et vos super sedes duodecim judicantes duodecim tribus Israel (2). » Ora, nello stesso modo parlando del cibo eucaristico, invece di dire: « Se non mangerete la mia carne, »ovvero: « se non mangerete la carne del Figliuol di Dio », dice: « Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' Uomo », quasi volendo dire: Il figliuol dell' uomo fu corrotto dal peccato per insidia del diavolo: ora, a scorno del medesimo corruttore ed insidiatore, il figliuolo dell' uomo troverà il rimedio da riparare a' suoi danni in se stesso, non avrà bisogno d' uscire da sè per rinvenirlo. Il che tutto dimostra un ineffabile amore per l' umana natura, di cui Iddio si rende il campione prendendone la difesa: dimostra una delicatezza che provvede all' onore di questa natura tanto vessata dal suo perpetuo inimico, e quella cotal riverenza verso essa, di cui favella il Libro della Sapienza, ove dice: « Tu autem, dominator virtutis, cum tranquillitate judicas, et cum magna reverentia disponis nos (3). » E tuttavia la vita eucaristica è soprannaturale e divina. Il che Gesù Cristo fa intendere con quelle parole: « Sicut misit me vivens Pater et ego vivo propter Patrem, et qui manducat me et ipse vivet propter me . » Il Padre dà la missione al Verbo d' incarnarsi, in generandolo, ed il Verbo incarnato vive, tutto Dio e uomo, della vita del Padre: perocchè, come Verbo ha comune col Padre la vita, e come uomo partecipa, per l' unione ipostatica, di quella vita. Questa non è la vita naturale, ma la vita divina partecipata, la vita essenziale di cui dice S. Giovanni: « « In ipso vita erat ». » Questa vita è la sussistenza vivente nel Padre, conosciuta per essenza nel Figliuolo, amata per essenza nello Spirito Santo. Questa vita della persona divina di Cristo reggeva come principio supremo la sua natura umana, e nascondeva questa natura umana vivente della vita divina e da questa governata sotto la forma di cibo per potersi così comunicare agli altri uomini. Perocchè l' uomo non acquista il termine reale del suo sentimento, per il quale egli vive, se non per generazione e per nutrizione: in questi due modi il suo spirito si unisce alla corporea sostanza come a termine del suo sentire. Ora, essendosi guastato il primo modo, con cui si doveva propagare la vita naturale, per opera del demonio; restava intatto il secondo, giacchè l' albero della vita non fu potuto profanare nè dal demonio nè dall' uomo. Al frutto dunque dell' albero della vita, che nella prima istituzione doveva aggiungere all' uomo colla nutrizione un termine corporeo che lo avrebbe reso immortale, Iddio sostituì un altro cibo tolto dall' uomo stesso, cioè la carne ed il sangue di Gesù Cristo. E questa vita, misteriosa ed occulta, è quella vita colla quale il Padre provvide al Verbo incarnato, quando si consigliò di abbandonarlo rispetto alla vita naturale, nelle mani de' suoi crocifissori; quella colla quale il Padre esaudì il Figlio secondo le parole dell' Apostolo: « « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia »(1); » il qual clamore, le quali lagrime non potevano non essere pienamente esaudite; quella vita di cui rese grazie Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento: « Dominus Jesus, in qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit (2). » Essendo dunque questa vita divina, e per sè indipendente dalla carne e dal sangue ma per divino consiglio all' umanità di Cristo comunicata, Cristo dice, quasi a conclusione del suo insegnamento sull' eucaristico cibo: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam; verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt (3), » volendo dimostrare due cose: che la vita, che sta nella sua carne e nel suo sangue, è vita divina; e che questa non si può ricevere se non per opera dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo: onde quelli che ricevono l' Eucaristia col peccato nell' anima, non ricevono, non possono ricevere quella vita. Laonde S. Agostino, spiegando le parole di Cristo, dice che non muore colui che riceve nell' eucaristico cibo [...OMISSIS...] E ancora dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo, che promette che non morranno quelli che mangeranno la sua carne e il suo sangue ma avranno in sè l' eterna vita, fa intendere chiaramente che egli parla di una manducazione colla quale l' uomo riceva rem sacramenti, e non solamente il sacramentum . Questo non è quel mangiare di cui parla Cristo; perchè « « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam ». » Onde di nuovo S. Agostino, parlando di questo Sacramento [...OMISSIS...] Per mangiare adunque veramente il corpo e il sangue di Cristo, nel senso che intende Cristo colla voce mangiare, conviene esser membro del corpo di Cristo, e membro vivente. Non basta aver ricevuto il carattere indelebile nel sacramento del battesimo, o anche negli altri sacramenti che lo conferiscono, cioè nella Confermazione e nell' Ordine sacro; conviene ancora aver la grazia che ci rende membro vivo di quel corpo. Perocchè Cristo disse: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo . » Ora, se ivi è l' obice del peccato, questo, che di natura sua avverrebbe per la forza del Sacramento, non può avvenire, perchè « quae conventio Christi ad Belial? (4). » Onde Cristo in quelle parole esprime l' effetto della Santissima Eucaristia, quale essa per sua virtù arreca, prescindendo dall' accidentale impedimento che pone l' uomo. Il perchè S. Agostino dice che nelle citate parole di Cristo il Signore espone « quid sit manducare corpus ejus, et sanguinem ejus bibere . » E soggiunge: [...OMISSIS...] (5). Le quali parole del Santo Dottore vanno intese con buon senno. Perocchè anche chi ha ricevuto il battesimo colla grazia che di natura sua conferisce, questi è già membro vivente del corpo di Cristo, e però egli è in Cristo e Cristo in lui. Ma la Santissima Eucaristia conserva questa unione e mutua inabitazione come fa il cibo che conserva la vita in chi già l' ha: il che viene espresso da quella parola di Cristo manet ( in me manet et ego in illo ), che significa permanenza e continuazione. Di più, il cibo ristora ciò che il corpo vivente va perdendo ogni giorno; e questo fa pure l' Eucaristia togliendo i peccati veniali, in cui quotidianamente l' uomo incappa, rimettendo in lui e rifondendo nuova vita. In terzo luogo il cibo rende l' uomo adulto, e così fa l' Eucaristia dell' uomo nuovo e spirituale, facendo in lui crescere Cristo. In quarto luogo il pane rinforza, e il vino eccita e rallegra; e questi pure sono effetti dell' Eucaristia; la quale dà all' uomo la pienezza della vita, del sentimento, e dell' attività della vita, perchè pone nell' uomo Cristo corporalmente, lo pone tutto, il corpo, il sangue, l' anima e la divinità; laddove il battesimo congiunge l' uomo al corpo vivente di Cristo, ma non pone nell' uomo tutto lo stesso Cristo. In secondo luogo non è da credere che senza la reale manducazione del pane e del vino consacrato l' uomo possa per altra via venire in possesso di tutte queste grazie, e possa aver Cristo corporalmente in se stesso: ma egli può nondimeno salvarsi, perocchè il desiderio di pascersi del corpo e del sangue sacratissimo, e l' essere in istato di grazia, quantunque non glie ne dieno il possesso, e, per così dire, il diritto in re , tuttavia glie ne danno il diritto ad rem , il quale dopo la sua morte lo mette alla partecipazione reale del pane e del vino celeste. Ed ora noi possiamo più precisamente rispondere alla questione: « Che cosa s' intenda nelle divine scritture per risurrezione ». La qual parola riceve più significati dalle diverse maniere di vita a cui si riferisce. Perocchè noi abbiamo distinte in Cristo quattro maniere di vita di cui partecipa il Cristiano, a ciascuna delle quali si riferisce una maniera di risurrezione. E le vite da noi distinte furono: 1 la vita naturale che consiste nell' unione dell' anima col corpo; 2 la vita eucaristica; 3 la vita spirituale di Cristo viatore, che consiste per Cristo nell' unione teandrica dell' uomo con Dio, e pel Cristiano nella partecipazione della grazia di Cristo, per la quale l' uomo non solo percepisce il Verbo ma vi acconsente e vi aderisce colla sua volontà, ancora vivente della vita naturale; 4 la vita gloriosa cominciata per Cristo dopo la sua risurrezione e completata dopo la sua ascensione al Cielo, e che comincierà pel cristiano dopo la resurrezione del suo corpo. La terza e la quarta di queste vite, sono una sublimazione soprannaturale della prima, o, per dir meglio, hanno la prima per loro base e quasi subietto: la seconda, cioè l' eucaristica, è una vita miracolosa e misteriosa. Ciò premesso, per risurrezione nelle divine scritture s' intende: Talora quello che accade per la fede e pel battesimo che restituisce all' uomo la terza delle vite enumerate, cioè la vita della grazia. L' uomo, che nasce dal mal seme di Adamo, nasce corrotto, peccatore; e però si dice morto, cioè privo della vita spirituale. Egli ha bensì la vita naturale, ma soggetta irreparabilmente alla morte, di cui porta i germi in se stesso, e quindi egli non ha che una vita inutile al conseguimento del suo fine che è l' immortalità. Perduta la vita naturale, egli si rimarrebbe morto per sempre: l' anima sua cadrebbe in quello stato di tenebre e d' inazione che abbiamo descritto. L' uomo, che si fa Cristiano ricevendo il Vangelo, depone ogni sua confidenza nella sua vita naturale e corrotta, e si tiene rispetto a questa per morto, ponendo tutto il suo bene e il suo affetto nella nuova vita che egli acquista incorporandosi a Cristo, e vivendo della vita di Cristo. Questo è quello che insegna S. Paolo in quelle parole: [...OMISSIS...] L' immersione nelle acque battesimali rappresenta, secondo l' Apostolo, la morte dell' uomo naturale7corrotto, la morte del peccato. Perocchè Gesù Cristo colla morte del suo corpo naturale7innocente acquistò, come abbiamo veduto, il diritto di giustificare gli altri uomini, pei peccati dei quali la divina giustizia rimaneva soprabbondantemente soddisfatta; acquista il diritto di unirli a sè, com' egli tanto bramava a cagione della generosa sua carità, e quindi di fare che l' uomo morto alla vita soprannaturale risorgesse a questa vita formando un solo corpo con esso lui: e questo risorgimento è simboleggiato dall' uscita dell' acqua, in cui l' uomo era stato immerso quasi in sepolcro. Di che l' Apostolo deduce che l' uomo dee fare gli atti propri della vita nuova, non più dell' antica già deposta, [...OMISSIS...] E fa intendere che in questa vita spirituale noi abbiamo la caparra della futura resurrezione de' nostri corpi: perocchè Cristo, che è in noi, è risorto; onde anche noi risorgeremo alla vita naturale sublimata alla gloria quando deporremo la presente nostra vita naturale7corrotta, che noi dobbiamo già riguardare come morta e vivere come già fossimo risorti anche corporalmente: [...OMISSIS...] E come Cristo morì una volta della morte naturale, e oggimai più non muore; così noi morti al peccato viviamo di vita perenne: [...OMISSIS...] Anche l' Apostolo S. Pietro attribuisce il morir nostro al peccato alla morte di Cristo, e il nostro risorgimento alla vita della grazia ce lo rappresenta come un effetto della risurrezione del Signor nostro, colla quale gli fu dato il diritto di distribuire agli uomini la vita spirituale, germe della futura risurrezione de' loro corpo. E paragona il battesimo alle acque del diluvio, quando nell' arca « « pauci, idest octo animae, salvae factae sunt per aquam » ». E soggiunge: « « Quod et vos nunc similis formae salvos facit baptisma: non carnis depositio sordium, sed conscientiae bonae interrogatio in Deum per resurrectionem Jesu Christi, qui est in dextera Dei, deglutiens mortem ut vitae aeternae haeredes efficeremur, profectus in coelum, subjectis sibi angelis, et potestatibus, et virtutibus »(1). » La differenza fra la vita spirituale e la vita che il cristiano viatore riceve dalla percezione della santissima Eucaristia sta primieramente in questo, che nel battesimo egli acquista la percezione iniziale del Verbo, che lo segna col carattere indelebile, onde fluisce la grazia dello Spirito Santo se non trova ostacoli; e questa maniera di vita gli è comunicata dall' umanità di Cristo per un segreto contatto del suo corpo vivente e glorioso colle acque nell' atto che il battezzatore proferisce le parole, forma del Sacramento. Perocchè, come diremo in appresso, il corpo di Gesù Cristo emana una virtù vitale col solo suo contatto, e questo basta per legare a sè ed incorporare con una comunicazione di vita gli uomini. Laddove nell' Eucaristia l' uomo, incorporato già e vivente di Cristo, non gode del solo contatto invisibile e misterioso del corpo di Cristo, che comunica all' acqua quella virtù vivificatrice onde l' uomo vive di Cristo; ma l' uomo riceve in se stesso tutto l' Autor della grazia, il suo corpo e il suo sangue, e con essi insieme la sua anima e la sua divinità, in forma di alimento. E come l' alimento diviene nostro sangue e nostra carne, così avviene del corpo e del sangue di Cristo sotto gli accidenti del pane e del vino, sicchè un medesimo termine di sentimento e di vita corporea abbiamo noi ed ha Cristo; onde, come da fonte di ogni vita e di ogni grazia, ogni vita ed ogni grazia possiamo derivare. La seconda differenza si è che quell' uomo, che si nutre di questo cibo divino e lo fa suo alimento, non è l' uomo vecchio, ma l' uomo nuovo: è quest' uomo nuovo che, contenendo la virtù della vita di Cristo a sè comunicata colla fede e col battesimo, può mediante questa virtù alimentarsi di Cristo, cioè rendere termine del proprio principio vitale la carne ed il sangue di Cristo. Perocchè, come nella nutrizione comune se non vi avesse nell' anima, cioè nel principio senziente, nel principio soggettivo, la virtù nutritiva, non potrebbe rendere il cibo, preso per bocca, sua propria carne viva, e suo proprio vivo sangue, e non si direbbe che fosse un vero mangiare, un vero alimentarsi, come non è mangiare, non è alimentarsi quello d' una macchina inanimata (per esempio delle macine del mulino) che prende e stritola e fa passare da sè delle sostanze che rispetto agli animali si dicono alimentari; così del pari nella nutrizione eucaristica, se chi la prende non ha già la vita di Cristo, o per non essere battezzato o per essere attualmente morto alla grazia a cagione di peccati attuali, egli può premer bensì col dente le specie eucaristiche, secondo la frase di S. Agostino; riceve bensì il corpo e il sangue reale di Cristo dentro se stesso sotto il velame delle specie; il pane ed il vino consecrato passa per il suo corpo come per una macchina; riceve gli effetti fisici delle specie, ma non si nutre di quello che sta sotto le specie, non si nutre, non si alimenta, non s' impingua dello stesso corpo e dello stesso sangue di Cristo, e però propriamente il suo non è un mangiare la carne e bere il sangue del Salvatore. E però Gesù Cristo adopera queste parole di mangiare e di bere solo per indicare la manducazione e la bibita che fanno del Sacramento augustissimo le anime giuste, che se ne rincarnano e rinsanguinano veramente. Onde dice « Panis enim Dei est qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1), » e ancora: « Si quis manducaverit ex hoc pane vivet in aeternum (1). » Onde colui che non vive della vita eterna, egli è segno che non ha mangiato questo pane, benchè l' abbia materialmente ricevuto nella sua bocca, e fatto passare pe' suoi visceri. Dice ancora, per dimostrare la cooperazione dell' uomo alla nutrizione eucaristica, « Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (2). » All' incontro il battesimo non suppone la vita, ma dà la vita a chi non l' ha ancora: perocchè il ricevere la vita non è un' opera del principio vitale, com' è la nutrizione, ma quella viene all' animale e all' uomo dal di fuori per una operazione anteriore al nuovo vivente ch' ella produce. Quindi se del battesimo è proprio ufficio il dare la vita di Cristo all' uomo che non l' ha ancora, onde si chiama generazione o nascita spirituale; egli è proprio effetto dell' eucaristia il conservarla, come faceva il frutto dell' albero della vita, e l' accrescerla, rendendo l' uomo bambino adulto e gagliardo, onde si paragona alla nutrizione o alimentazione. Quindi, il ricevimento dell' eucaristia non si dice un risorgere. Ma nondimeno la vita eucaristica ha il suo proprio risorgimento, e questo avviene quando l' uomo muore. Perocchè l' anima separata dall' uomo che muore riceve dalla vita eucaristica quella unione perenne con Cristo glorioso di cui disse Cristo: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem in me manet et ego in illo (3); » e la quale, alla morte, presta « quel lume di gloria », di cui parlano i teologi, che rende l' anima atta a vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo e quindi a fruire della eterna beatitudine. Questo è quello che promette Cristo in quelle parole: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (4). » Egli ha la vita eterna, e tuttavia si promette che sarà resuscitato. Che bisogno di essere resuscitato ha colui che già vive, ed eternamente vive, perchè ha mangiato la carne e bevuto il sangue di Cristo? Egli vive, ma in questo secolo vive d' una vita nascosta, la quale si manifesta luminosissima solo alla morte, quando è tolto dagli occhi dell' anima il velame della carne corrotta, velame significato nel velo dell' antico tempio che impediva ai fedeli la vista e l' ingresso del Sancta Sanctorum . Onde, quando morì Gesù Cristo, questo velo fu scisso, perchè, entrato una volta in esso Sancta Sanctorum il nuovo ed eterno Pontefice secondo l' ordine di Melchisedecco, potevano e dovevano necessariamente entrarvi tutti coloro che con esso formavano una cosa, secondo il suo benigno decreto: [...OMISSIS...] Ora quell' anime, benchè separate dal corpo, le quali sono una cosa nel Figliuolo e nel Padre [...OMISSIS...] ; quelle in cui è il Figliuolo [...OMISSIS...] ; quelle che Gesù Cristo vuole che sieno là appunto dov' egli si trova al cospetto della nuda e svelata faccia di Dio [...OMISSIS...] , quelle che debbono vedere la gloria di Cristo [...OMISSIS...] , certo debbono altresì vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo, partecipando della vita gloriosa di Cristo. Il passaggio da questa vita alla futura è dunque per costoro una vera risurrezione, e però s' adempie nel Nuovo Testamento, colla morte di Cristo, quanto egli aveva detto a Marta: « Ego sum resurrectio et vita; qui credit in me etiam si mortuus fuerit vivet (2). » Cristo disse di chi mangierà il suo corpo e berrà il suo sangue ch' egli lo risusciterà nell' ultimo giorno [...OMISSIS...] Ora vi hanno due giorni ultimi: l' ultimo giorno dell' uomo, e l' ultimo giorno del mondo. Cristo gli abbraccia entrambi col suo detto, e quindi egli accenna a due resurrezioni come effetto del cibo eucaristico: a quella che avverrà all' uomo fedele, tosto che sarà spirato e avrà deposto il peso della sua carne mortale; e a quella che avverrà nella fine dei secoli quando gli sarà restituita una carne gloriosa. Gesù Cristo ne' passi più sopra allegati tutto attribuisce alla fede. Egli prega per quelli che credituri sunt, vuole che questi sieno là dove è egli medesimo. Egli dice [...OMISSIS...] Attribuisce dunque alla fede, di cui egli è autore e consumatore (4), non a qualunque fede, quello stesso che attribuisce altrove alla manducazione ed alla bibita della sua carne e del suo sangue; e tuttavia dice che senza di questa non si può aver la vita in se stessi: [...OMISSIS...] Conviene dunque dire che chi ha la fede in Gesù Cristo mangi la sua carne e beva il suo sangue: perocchè senza di questo non possono aver la vita in se stessi; quando pure è certo, per testimonianza di Cristo, che « omnis qui videt Filium et credit in eum habet vitam aeternam . » Ma non tutti quelli che ebbero la fede in Cristo mangiarono, durante la lor vita mortale, del Figliuolo dell' uomo, nè bevvero il suo sangue: non la mangiarono tutti que' credenti che morirono prima dell' istituzione del Santissimo Sacramento dell' altare; molti, anche dopo questa istituzione, morirono nella fede di Cristo senza poterla ricevere. Convien dunque dire, che essi mangino la carne del Figliuolo di Dio e bevano il suo sangue dopo morti, e per esso risuscitino alla vita eterna. Gesù Cristo adunque parla prima della Fede, e poi del cibo eucaristico, per comprendere nel suo discorso anche tutti i santi dell' antico testamento, e tutti i credenti sparsi per le nazioni in tutti i tempi. Perocchè tutti questi si salvarono per la fede in Cristo venturo, o in Cristo già venuto. Onde l' Apostolo: « Fide intelligimus aptata esse saecula Verbo Dei, ut ex invisibilibus visibilia fierent (6): » cioè, acciocchè le cose invisibili, che sono l' oggetto della fede, la mercede promessa e la gloria futura, si avverassero, si adempissero e divenissero visibili, non più oggetto di fede, ma di visione e di esperienza. Di che soggiunge: [...OMISSIS...] Laonde troppa ragione aveano gli antichi santi di riporre la loro fiducia e speranza, non nella immortalità naturale dell' anima separata che non avrebbe potuto dare a se stessa nè luce nè azione, ma bensì nella risurrezione che avrebbe loro dato Iddio per Gesù Cristo, cioè nella restituzione di una vita ed attività soggettiva, in un termine nuovo del loro principio sensitivo e soggettivo, giacchè senza un termine reale non si dà, propriamente parlando, una vita attuale. In questa risurrezione delle loro anime li fa sperare S. Paolo, e non in altro. [...OMISSIS...] E pur que' santi dell' antico testamento dovevano rimanere colle loro anime separate lungamente nello stato di tenebre e d' inazione, cioè fino al tempo in cui Gesù Cristo avesse istituito il mistero della risurrezione, cioè il sacramento del suo corpo e del suo sangue, ed egli fosse entrato nel suo regno, perocchè dovevano essere perfezionati alla vita insieme con noi, dice l' Apostolo. [...OMISSIS...] « Deo pro nobis melius aliquid providente , » dice l' Apostolo; perocchè noi, che Iddio predestinò a vivere nel tempo della grazia del Salvatore, quando usciamo dalla vita presente senza macchia di peccato, siamo tantosto resuscitati alla vita eucaristica e gloriosa, e per questa vita vediamo Iddio; nè l' anime nostre separate hanno ad aspettare, come quelle degli antichi giusti, ad essere ammesse alla gloria. Oltre di ciò noi, oltre altri vantaggi sopra gli antichi, ancora in questa vita mangiamo il corpo e beviamo il sangue del Signore, e così abbiamo in noi quell' eterna vita, che alla morte nostra si rivela con luce fulgidissima, e che veniva simboleggiata da quelle faci che Gedeone aveva fatte nascondere ai trecento dentro a vasi di creta, rotti i quali esse apparirono (5). Quindi la Chiesa cattolica dà il nome di Viatico alla santissima Eucaristia che ricevono i moribondi, ed essi, quando il possano, ne tiene obbligati, acciocchè morendo abbiano quella vita eterna in se stessi, che è il germe della subitanea resurrezione delle loro anime, tostochè sono divise da' corpi. Il che dimostra che non convien troppo scrupoleggiare nel concedere la ripetizione del Viatico all' infermo che sopravvive qualche tempo, dopo averlo ricevuto la prima volta. E questa è altresì, oltre l' altre, una ragione che persuade a' Cristiani la frequente comunione che li tiene di continuo preparati alla venuta dello sposo, come le vergini prudenti (1), facendogli avere continuamente in sè quella vita che si manifesta nell' ora della loro morte. Il sacrosanto Concilio di Trento parla espressamente del convito celeste dell' anime separate, il quale viene pure espresso negli antichi monumenti cristiani, per indicare la beatitudine che gode l' anima in cielo; e sembra che il citato Concilio si giovi di questa ragione appunto per raccomandare a' fedeli la venerazione e l' uso della santissima eucaristia, o almeno che vi faccia allusione. Perocchè egli s' esprime così: [...OMISSIS...] Sulle quali notabilissime parole del sacrosanto Concilio egli è uopo che noi facciamo alcune riflessioni. Egli adopera la parola mangiare, tanto riferendola all' assunzione del corpo di Cristo in questo mondo, quanto riferendola a ciò che si farà in cielo dall' anime separate da' corpi: egli ammette adunque una manducazione del corpo di Cristo nell' altra vita che darà la beatitudine. Egli dice che le anime nostre, passate da questa vita senza macchia o purificate nel fuoco, saranno ammesse a cibare lo stesso pane degli angeli, che relativamente mangiano i viatori in terra . Cristo adunque nella vita futura si unirà alle anime in modo simile a quello col quale il cibo si assimila ed unisce di presente all' anime nostre divenendo nostra carne e nostro sangue. Non dice il Concilio semplicemente che nel celeste regno saremo uniti a Cristo, goderemo di Cristo, ma dice che lo mangeremo, e lo mangeremo siccome pane, cioè al modo del cibo, e che sarà lo stesso pane eucaristico che ora mangiamo in terra, [...OMISSIS...] Che anzi l' essere questo pane chiamato celeste nelle Scritture, del quale io intendo quel luogo di S. Paolo « Gustaverunt etiam donum coeleste (1) » e in figura, della manna è detto « Januas coeli aperuit, et pluit illis manna ad manducandum, et panem coeli dedit eis: panem angelorum manducavit homo (2) » nel libro poi della Sapienza, tutto applicabile più veramente all' Eucaristia che alla manna, si legge: [...OMISSIS...] e ne' tanti altri luoghi delle divine Scritture l' Eucaristia figurata nella manna è chiamata pane del cielo (4). Convien dunque dire che nel cielo si mangi questo cibo divino. E Cristo lo dice ancora più chiaramente parlando di que' servi fedeli che saranno trovati vigilanti alla venuta del loro Signore, per la quale s' intende da' Padri la morte: « Beati servi illi, quos cum venerit Dominus invenerit vigilantes. Amen dico vobis quod praecinget se, et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis (5). » Questo è il convito che si fa ai Cristiani, che muojono giustificati, in cielo subito dopo la loro morte, e all' anime che escono pure d' ogni macchia dal fuoco del purgatorio. Cristo è quello che ministra alla mensa, come fece in terra co' suoi discepoli, ed è il cibo stesso ch' egli amministra. Ma perchè dice ministrerà il Signore a que' servi fedeli in passando? Questa misteriosa parola indica la risurrezione di cui parliamo, che avviene all' anima mondata subito dopo aver deposta la soma terrena, perchè Cristo nell' Eucaristia dall' essere suo nascosto, sub sacris velaminibus, come dice il Concilio di Trento, si apre e manifesta ed è mangiato absque ullo velamine . Al qual passaggio di Cristo, qual cibo, da uno stato nascosto ad uno stato palese risponde quella risurrezione dell' anima di cui dice Cristo che passa dalla morte alla vita [...OMISSIS...] E le due risurrezioni, cioè questa e la finale, sono distintamente annunziate da Cristo in questo luogo; perocchè, dopo aver detto che chi crede al Padre che lo ha mandato ha l' eterna vita e passa dalla morte alla vita, tosto aggiunge dell' altra resurrezione finale: « Amen, amen dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mortui audient vocem Filii Dei: et qui audierint vivent (2). » E dice che già allora i morti udivano la voce del Figliuolo di Dio, et nunc est, benchè non dica che già allora risorgessero, ma che viveranno, et qui audierint vivent; perocchè a' santi defunti venne comunicata gradatamente la salute e la grazia di Cristo per que' gradi stessi pe' quali venivano comunicate agli uomini viventi in terra ne' giorni della vita terrena del Salvatore: onde alla predicazione di Cristo la luce uscente dalla sua parola dee essere splenduta altresì a quelli che erano al limbo. La parola transiens s' avvera ancora in un altro modo. Cristo nell' eucaristia passa pe' nostri corpi, come passa il cibo; e un simigliante passaggio, benchè continuo, è credibile che avvenga rispetto all' anime separate venendo in tal modo esse continuamente refocillate da nuovo cibo divino. Onde la parola pasqua, che viene a dire passaggio per indicare il passaggio dell' Angelo, che non sommise alla morte, ma lasciò in vita tutti quelli che avevano tinti gli stipiti delle loro abitazioni col sangue dell' agnello. Allo stesso modo, essendo tutti gli uomini condannati alla morte, l' Angelo della morte non può nulla su quelli che sono vitalmente incorporati a Cristo, perchè ognuno che crede, benchè muoja della morte naturale, pure non muore assolutamente parlando, ma transit a morte in vitam . Così la pasqua degli Ebrei è un segno parlante dell' Eucaristia. Ma qui si presenta una difficoltà sulla denominazione di pane degli Angeli data al cibo eucaristico. Gli Angeli non mangiano, non si nutrono di cibo come gli uomini. Come dunque si può dire che Cristo, la carne ed il sangue di Cristo, si renda cibo de' puri spiriti? E` vero che gli Angeli sono spiriti puri, ma essi hanno nulladimeno una relazione e un' azione sui corpi. Come i corpi sono il termine attivo della vita animale, di maniera che il principio sensitivo riceve da essi un' azione, per la quale egli ha il suo atto di sentire e di essere; così i medesimi corpi sono un termine passivo degli Angeli, di maniera che dagli Angeli essi corpi ricevono quell' attività per la quale possono agire nel principio della vita sensitiva corporea. Quindi gli Angeli possono benissimo esser congiunti al loro modo al corpo eucaristico di Cristo, ad un modo che non è certamente il mangiare dell' uomo, ma che, corrispondendo esattamente ed analogicamente al mangiare e all' alimentarsi dell' uomo, può colla stessa parola denominarsi, non avendo l' uomo altre parole, per significare quanto appartiene alle sostanze pure che non cadono sotto la sua esperienza, se non le analogiche che la propria esperienza gli somministra. Perocchè questa espressione cibo degli Angeli dee avere una verità, e non essere una pura imaginazione degli Ebrei, che, vedendo cadere la manna dal cielo, la dissero cibo degli Angeli che stanno in cielo, e un' imaginazione sarebbe per la manna, ma non pel vero pane celeste che da un altro cielo spirituale discese, e per ragione del quale Iddio permise che così gli Ebrei concepisser la manna, e questo si conservasse scritto ne' libri divini. Può ancora considerarsi che la parola Angelo, che significa mandato, non accenna alla natura ma all' ufficio, onde Angelo è detto nella divina scrittura S. Giovanni Battista, Angeli i Vescovi delle Chiese (1), Angelo del testamento Gesù Cristo medesimo in questo luogo di Malachia: « Ecce ego mitto angelum meum, et praeparabit viam ante faciem meam. Et statim veniet ad templum suum Dominator, quem vos quaeritis, et Angelus Testamenti, quem vos vultis (2). » Il qual Profeta dice pure del Sacerdote: « Labia enim Sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia Angelus Domini exercituum est (3). » Ora il pane ed il vino eucaristico è soprattutto il cibo del Sacerdote, a cui dalla Chiesa venne riserbato in proprio il calice, specialmente essendo profetato dell' eucaristico cibo in questo modo: « Quid enim bonum ejus est, et quid pulchrum ejus, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? (4). » Qui si farà da alcuno questa difficoltà. Ond' è che la Chiesa cattolica raccomanda sì caldamente di ricevere nell' ore estreme il Corpo di Cristo? Questo vien dato dopo la morte a tutti i giusti, in quella maniera misteriosa ed ineffabile che l' umana lingua non può a pieno spiegare, eziandio che non lo ricevessero prima di morire. La risposta si contiene nella stessa denominazione di Viatico che la Chiesa dà all' eucaristico nutrimento preso dagli infermi vicini a morte. E il Tridentino sopracitato lo dichiara assai nettamente con quelle parole: « et is vere eis sit animae vita ed perpetua sanitas mentis, cujus vigore confortati ex hujus miserae peregrinationis itinere ad coelestem patriam pervenire valeant . » Il passo di questa all' altra vita, che l' uomo fa colla morte, quant' è pericoloso, altrettanto è rilevantissimo, perchè da quello dipende l' eterna condizione dell' anima, onde niun mezzo si dee dell' uomo trascurare per averne ajuto e conforto. E di tutti validissimo è l' ajuto e il conforto del cibo eucaristico, del quale fu simbolo il pane e l' acqua recato dall' angelo al profeta Elia fuggente da Acabbo, di cui è scritto [...OMISSIS...] E veramente l' uomo non ha altra fortezza nè altra vera vita che quella che gli viene da Cristo, dall' essere incorporato a Cristo, dal vivere della vita di Cristo, dall' aver Cristo in se stesso. E la vita di Cristo, di cui l' uomo partecipa cibandone il corpo sacratissimo, è tanto potente che rimonda l' uomo da' peccati veniali e dagli stessi mortali, quando egli ne sia pentito, e non avendone coscienza, o non potendoli sottomettere al potere delle Chiavi, ne vada ancor debitore; perchè quella vita repelle e caccia da sè ogni impedimento, a meno che non osti la mala disposizione della volontà dell' uomo, per la quale disposizione malvagia l' uomo riceve il cibo divino senza riceverne tuttavia la vita. Si ponga oltracciò l' attenzione del pensiero in quelle parole del Tridentino « ut is vere eis sit animae vita . » E` chiamato vita non del corpo, ma dell' anima; avendo anche l' anima quella specie di morte naturale di cui abbiamo parlato, oltre la morte del peccato. Sicchè gli antichi giusti che non ebbero il vantaggio della Eucaristia, sostennero quello stato simigliante ad una morte dell' anima, nel quale, come abbiamo detto, si trovavano nel limbo in aspettazione di Cristo che li facesse risorgere. Ma anco fra i Cristiani, che muojono giustificati, si può credere che v' abbia una differenza secondo che muojono con aver ricevuto il Viatico o senza averlo ricevuto, non solo pel grado maggiore di santità e di unione col fonte della santità di cui quelli si vantaggiano, ma altresì rispetto alla condizione della loro morte. E per dare maggior luce a questo concetto, distinguiamo tre casi: 1 quelli che muojono col solo desiderio del battesimo senza averlo ricevuto realmente; 2 quelli che muojono giustificati dopo ricevuto il battesimo senza aver tuttavia ricevuto il Viatico; 3 quelli che muojono giustificati dopo aver ricevuto il Viatico. Egli è certo e ben definito che tutti e tre si salvano. Tuttavia i primi, che hanno un diritto alla vita, hanno la vita di diritto ma non ancora di fatto, e però passano in certo modo per quello stato di morte naturale dell' anima, dal quale incontamente vengono resuscitati da Colui che disse: « Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me eziandio che sia morto vivrà », e questi sono simili agli antichi giusti, colla sola differenza che gli antichi giusti rimasero lungamente in quello stato, laddove essi non fan che passarci istantaneamente. I secondi, che muojono rinati dall' acqua e dallo Spirito Santo, hanno di diritto e di fatto la vita dell' anima, ma non partecipano che inizialmente alla vita di Cristo, benchè rechino seco il diritto di entrare in possesso pienissimo di quella vita. Laonde, deposto che abbiano il corpo, essi non passano neppure per un istante per quello stato di morte naturale dell' anima, ma passano per quello stato di vita iniziale qual è quella che hanno ricevuto nel battesimo e che portano seco, dal quale Cristo immantinente sollevandoli dà loro la vita piena. I terzi, finalmente, avendo ricevuto Cristo effettivamente prima di morire, non soffrono che la morte del corpo, e nell' altra vita si trovano già con quella pienezza di vita che altro non esige se non d' illuminarsi e di manifestarsi, senza che l' anima loro passi per alcun grado inferiore. Rimane ora a dichiarare come, laddove gli uomini viatori cibano il corpo ed il sangue di Cristo che rimane loro occulto e velato, i comprensori celesti si nutrano dello stesso divino alimento senza che alcun velo ne contenda loro la vista [...OMISSIS...] Gesù Cristo, deposta la vita mortale e seppellito il divino suo corpo, poscia risorto, coll' ascensione al cielo si tolse agli occhi degli uomini. L' uomo, incorporato in Cristo, partecipa di tutte le vicissitudini di Cristo, e quindi è morto e seppellito e risorto e salito al cielo in ispirito con Cristo, come membro di Cristo. Il che egli fa colla vita interiore e novella da lui acquistata, venendogli impedito dal farlo compiutamente e corporalmente dall' ostacolo dell' uomo vecchio fino a tanto ch' egli vive ancora della vita adamitica e non ha deposto il corpo mortale; non ha ricuperato il nuovo e glorioso coll' ultima risurrezione: onde al presente dee fare tutte queste cose mediante la fede di cui vive (1), per la quale egli le fa senza averne la piena consapevolezza, e la chiara visione. Quindi la vita dei Cristiani che è in Cristo viene chiamata da S. Paolo vita nascosta . La qual vita si manifesterà, s' animerà di un vivissimo sentimento, brillerà d' una luce ineffabile, primieramente alla morte del corpo, quando avviene la prima resurrezione, che è quella dell' anima; poscia alla ricuperazione del corpo nostro proprio glorioso nella fine dei secoli, che sarà la seconda resurrezione. « Igitur, » così il Vaso d' elezione, « si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite, ubi Christus est in dextera Dei sedens: quae sursum sunt sapite, non quae super terram. Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Cum Christus apparuerit, vita vestra; tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria (2). » Il che viene a dir così: Cristo il quale si tiene in voi è la vostra vita. Ma Cristo è nascosto presentemente all' esperienza de' vostri sensi, perchè questi sensi guasti e materiali non sono degni nè atti di vederlo o percepirlo, perchè non sono degni nè atti di vedere Iddio in cui è Cristo, nè è degna o atta di vederlo quella vita, quell' anima che dee presiedere a tali sensi: quindi Cristo, nostra vera vita, è nascosto al presente in Dio, alla cui destra egli siede. Tuttavia voi vivete, benchè non abbiate la consapevolezza di tutti i tesori che in quella vita, quasi involuti a forma di germe, sono nascosti e che debbono poi apparire in voi d' improvviso, quando vi apparirà in tutto il suo splendore. Dunque avete bisogno di credere tutto ciò, di credere alla vostra vita, di aspettarne la sfolgorante manifestazione: dovete altresì condurvi consentaneamente alla vostra vita immortale ed eterna: dovete rinunziare coll' affetto della volontà e colla stima alla vostra vita naturale e corrotta destinata alla morte, quasi morti con Cristo ed in Cristo, e non cercare, non assaporare se non le cose celesti, cioè a dire Cristo che siede alla destra del Padre in cielo e le cose tutte di Cristo, aspettando la meravigliosa manifestazione di Cristo in voi che vi è promessa. Onde in altro luogo dice [...OMISSIS...] E altrove l' Apostolo vuole che abbiamo fiducia nell' ingresso al Sancta Sanctorum, che è la parte più santa del tempio antico simboleggiante il cielo, dove Iddio e Cristo a noi si svela e la nostra vita occulta si manifesta: ingresso che ci fu aperto col sangue di Cristo, e del quale la carne mortale di Cristo era come il velo pendente che ne toglieva la vista; deposta la qual carne, quel velo è tolto, e noi possiamo entrare, purchè deponiamo anche noi la nostra carne, come ha fatto Cristo, la cui carne era innocente e solo per sua volontà ebbe condizione mortale e passibile, per aver voluto assomigliarsi a noi, la cui carne materiale, non solo mortale ma corrotta, è veramente un velo che impedisce l' ingresso e la vista del luogo santissimo: [...OMISSIS...] Cristo adunque incominciò egli a battere questa via nuova e vivente (perchè anche mentre siamo in sulla via viviamo ), che conduce nel più segreto ed augusto luogo del Santuario, per la quale c' invita ed esorta l' Apostolo di metterci. Di questa « vita nascosta con Cristo in Dio », di cui in questa terrena peregrinazione vive il cristiano, accenna ancora S. Pietro quando favella di quell' eredità preziosissima che si conserva nei cieli pe' fedeli, e che sta pronta per rivelarsi e manifestarsi luminosamente quando finirà la vita di ciascuno, e più pienamente ancora quando finirà il mondo: [...OMISSIS...] pel quale ultimo tempo s' intende non meno quello che è ultimo a ciascun uomo, che è il giorno della morte, quanto quello che è ultimo al mondo, che è quello della finale risurrezione. Vi ha dunque l' eredità immarcescibile conservata in cielo per noi [...OMISSIS...] , colassù palese, a noi ora nascosta: la quale eredità è Cristo, rispetto ai viatori invisibile, rispetto ai comprensori visibile e fulgente; sicchè, quando a noi pure apparirà tale, saremo manifestamente in Cielo. Ora, prima che noi entriamo ad investigare in che consistano i veli che di presente ci avvolgono il cibo eucaristico, e qual cangiamento nasce in noi alla remozione di tali veli; prima che ci facciamo a cercare quanto di questo sublime argomento sia dato a noi di conoscere, è prezzo dell' opera che noi tocchiamo quello che ci insegnano le divine lettere sul progressivo incremento della vita divina ed eterna degli uomini. Perocchè noi abbiamo veduto che anche quelli, che precedettero Cristo, vissero « sub testamento aeternae vitae (1), » anche dopo deposta la soma mortale; onde l' Iddio dei Patriarchi è Iddio de' viventi e non de' morti. Giova dunque dichiarare, quanto a noi è dato, la gradazione di queste vite. S. Paolo insegna che tutti i viatori vivono di fede, e la fede non è delle cose apparenti, ma di quelle che non cadono sotto il nostro sentimento. Ma la fede non è già pura tenebra, ma ella ha ancora della luce, la quale si fa piena allorchè nell' altra vita, cessando interamente la fede, sottentra la piena e lucidissima visione. Fino che questo non avvenga, gli uomini sulla terra possono avere ed ebbero una fede mescolata di maggiore o minor lume di sentimento divino, vi ha fede e cognizione insieme; cose che assai spesso S. Paolo congiunge; per esempio scrivendo a Tito si dice nel saluto apostolico di Cristo, « secundum fidem electorum Dei, et agnitionem veritatis, quae secundum pietatem est (2). » Per il che lo stesso S. Paolo distingue quasi più maniere di fede là dove dice: « ex fide in fidem (3). » « La giustizia di Dio, dice, si rivela nell' Evangelio di Cristo di fede in fede », quasi l' uomo passi per esso da una fede all' altra, da una fede di minor luce ad una fede di luce maggiore. Così il giusto gentile e il giusto giudeo, aderendo alla predicazione del cristianesimo, passarono d' una fede più oscura ad un' altra fede più lucente, perocchè nè anche il gentile poteva esser giusto senza credere. Laonde, non solo rispetto a' gentili, ma ben anco rispetto agli ebrei, la nostra fede è chiamata luce, chiarezza, gloria da S. Paolo, il quale anzi non dubita di scrivere così: « Nos vero omnes, revelata facie gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem tamquam a Domini spiritu (1) » nel qual luogo Giovanni Diodati traduce il vocabolo speculantes [...OMISSIS...] « contemplando come in uno specchio », che risponde ottimamente a quello: « videmus nunc per speculum (2). » E questa eccellenza, questa maggior luce della fede cristiana, sopra quella di coloro che erano avanti Cristo, consiste principalmente in questo: che nell' antico tempo, Cristo non essendo ancor venuto al mondo, non poteva operare colla sua umanità divina sulla nostra umanità e comunicarci, coll' unione fisica, benchè invisibile ed ineffabile, di lui a noi, parte di quella vita di cui gode egli stesso, e così ravvivare la nostra vita soggettiva. La qual comunicazione della vita umana divinizzata in Cristo mancava pure ad Adamo nello stato dell' innocenza; quindi un' altra differenza del carattere di Adamo, se così vogliamo chiamarlo, dal carattere dei Cristiani; perocchè quello non era che oggettivo, cioè la percezione iniziale del Verbo divino, ma questo, oltr' essere oggettivo, è anche soggettivo, perché è la percezione di Cristo oggetto come Verbo, soggetto come uomo . Vero è che il Verbo è l' oggetto ad un tempo persona, e anco la persona del Verbo può esser data all' uomo da percepire, ma soltanto alla mente, e però solo in modo oggettivo. Può bensì il Verbo assumere a sè la natura umana in un individuo, ma questa è l' incarnazione, nella quale la persona stessa del composto è la persona divina; com' è avvenuto in Cristo, nel quale il soggetto umano non è persona, giacchè la persona è il supremo principio operativo d' un individuo, e il supremo principio operativo in Cristo fu il Verbo. La persona divina adunque del Verbo, come a me pare, non può comunicarsi in modo soggettivo ad un individuo dell' umana natura se non incarnandosi in esso. All' incontro l' umanità di Cristo, per la virtù divina di cui è informata, poteva operare fisicamente e in modo soggettivo sull' umanità nostra, come un amico agisce sull' amico, e uno sposo sulla sposa; e la vita di Cristo come uomo assunto dalla divinità poteva operare sulla vita nostra soggettiva, e aggiungerle del suo vigore e della sua propria vitalità; perchè la vita si comunica, come si vede nella generazione, nella nutrizione, e meno palesemente in altri fenomeni ancora, specialmente in quelli dell' amore. Ora dal Verbo oggettivamente percepito può promanare in qualche modo lo Spirito: ma l' effetto di questo spirito sembra dover essere limitato a rendere il bene amabile all' intelletto; non a rinforzare e muovere immediatamente le facoltà inferiori operative soggettive. Laddove, per la congiunzione di Cristo a noi, per l' unione a noi del Verbo incarnato, cioè non meno del Verbo che dell' umana natura assunta dal Verbo, tutte le nostre potenze sono ad un tempo sollevate, corroborate, divinizzate, non solo le oggettive, ma le soggettive ancora. Il che è una notabilissima differenza fra la grazia di Adamo innocente e quella del Cristiano, cioè dell' uomo rinato in Cristo. E di questa vita soggettiva, a noi comunicata dalla vita umana7divina di Cristo, sono quelle parole di S. Paolo « in eamdem imaginem transformamur: » perocchè, come altrove dice: « Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus (1). » Altrove: « Mihi vivere Christus est (2). » Ed agli Ebrei: « Participes enim Christi effecti sumus: si tamen initium substantiae ejus usque ad finem firmum retineamus (3): » dove, quantunque il greco non dica substantiae ejus, ma solamente substantiae [...OMISSIS...] , tuttavia ottimamente la Volgata traduce substantiae ejus, apparendo, che si parla dall' Apostolo della sussistenza o sostanza di Cristo in noi, dalle prime parole del versetto: « participes enim Christi effecti sumus . » Per la partecipazione adunque della vita umana7divina di Cristo noi ci trasformiamo nella stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo, diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo la forza di quella parola imagine , come abbiamo notato più sopra, ponendosi l' imagine per la stessa cosa incipiente, siccome in quel luogo: « Umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginem rerum (4), » cioè non ipsa bona quasi in embrione, sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a Cristo, dispiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi. Onde il Salvatore disse de' suoi discepoli, promettendo loro la venuta personale del suo Spirito: « Venit hora, cum jam non in proverbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiabo vobis. In illo die in nomine meo petetis. Et non dico vobis quia ego rogabo Patrem de vobis. Ipse enim Pater amat vos, quia vos me amastis, et credidistis quia ego a Deo exivi (5). » Queste dolcissime e benignissime parole disse Cristo a' suoi discepoli. Nelle quali è da osservare: 1 Che quel dire, ch' egli parlerà apertamente e palesemente del Padre, dimostra quanto sia illuminata la fede de' Cristiani per la partecipazione della vita soggettiva di Cristo sopra la fede degli antichi, e risponde a quella di S. Paolo: « in eamdem imaginem transformamur a claritate in claritatem, » o, come dice il testo greco: «apo doxes eis doxan». Questa chiarezza non è propria della fede degli Ebrei, ma solo de' Cristiani; perchè gli Ebrei avevano la notizia di Cristo che doveva venire al mondo, ma non potevano avere il sentimento di Cristo, perchè, non essendo ancora venuta al mondo la sua reale umanità, non poteva questa agire sull' umanità loro, come agisce realmente benchè misteriosamente sull' umanità nostra. Onde S. Paolo altrove dice, che Cristo venendo al mondo « illuminò la vita »: [...OMISSIS...] Quasi voglia dire: Vi era una vita anche avanti Cristo (sebbene anch' essa per Cristo), ma questa vita era oscura e non illuminata perchè non era soggettiva, ma soltanto oggettiva, per modo che il soggetto debole ed esile non poteva fare gli atti vitali di sentimento, cavandoli dall' oggetto, che non gli poteva dare l' immortalità soggettiva. Ma Cristo, per mezzo dell' Evangelio, cioè della fede e de' sacramenti, diede all' anima, cioè al soggetto, di quel sentimento immortale ch' egli aveva nella sua umanità congiunta ipostaticamente al Verbo, e così distrusse la morte, cioè quello stato dell' anima separata che rimane senza sentimento operativo perchè priva di un termine reale che formando con essa un solo soggetto la renda atta all' azione, benchè non si rimanga priva d' intellezione anche con un oggetto reale (il Verbo), e però di vita oggettiva; quindi distrusse la morte anche rispetto alla vita naturale, facendo che all' anima sia un tempo restituito un corpo glorioso colla risurrezione della carne. Vero è che agli Ebrei furono preannunziate molte cose di Cristo, e la fede che davano ad esse era soprannaturale. Era soprannaturale perchè queste cose stesse le percepivano oggettivamente in quell' esistenza oggettiva che hanno le cose nel Verbo per una interiore comunicazione del Verbo più o meno chiara, ma sempre mista di molta oscurità. Onde, quando venne Cristo al mondo si adempì la profezia: « Eructabo abscondita a constitutione mundi (1), » e Cristo potè dire: « Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem (2), » e potè rassomigliarsi al Padre di famiglia che « profert de thesauro suo nova et vetera (3). » Se le verità fossero state annunziate agli Ebrei solamente in parole esterne senza che queste fossero accompagnate da alcun lume interiore di fede, la loro condizione non si sarebbe potuta dire soprannaturale, benchè quella rivelazione fosse scaturita da una fonte soprannaturale; ma il lume interiore, donato in varii gradi a que' fedeli, faceva sì, come dicevamo, che percepissero nel Verbo quelle verità che venivano loro annunziate di fuori colle parole. 2 Ma, quantunque gli Ebrei vivessero per questa loro fede, tuttavia quella fede non dava loro la vita soggettiva, non li trasformava, come dice S. Paolo, nella stessa imagine di Cristo, non li toglieva dalla morte e dalla corruzione di sè come umani soggetti; onde coll' aver illuminata la vita, secondo San Paolo, Cristo distrusse la morte e la corruzione, [...OMISSIS...] E come potrebbe venir meno la vita soggettiva a quelli che sono amati dal Padre dello stesso amore del quale ama il suo Figliuolo diletto in cui si compiace, [...OMISSIS...] e le preghiere de' quali, fatte in nome di Cristo, sono accette ed esaudite: [...OMISSIS...] Le preghiere e i sacrificii degli antichi santi, ancor che fatte in nome di Cristo, non potevano salvarli dalla morte soggettiva, e dalla condanna al limbo: conveniva prima, che risorgessero e fossero edotti da quella cotal prigione, e perciò, che venisse Cristo e pregasse per essi, e fosse esaudito secondo il mandato che aveva ricevuto: [...OMISSIS...] Il perchè S. Paolo chiama la stessa legge antica, quantunque santa in se stessa: « ministratio mortis, ministratio damnationis (5), » perchè l' uomo non era avvalorato soggettivamente ad adempirla, e non adempita comminava la morte, nè l' uomo di conseguente si poteva salvare per l' adempimento perfetto di quella legge, ma per la fede in Colui che toglieva e cancellava i loro peccati, i cui meriti per la fede si sarebbero loro applicati. Quindi gli antichi fedeli vivevano di una vita oggettiva, ed avevano una certa speranza della vita soggettiva; ma non ancora la stessa vita soggettiva di Cristo. La qual vita de' santi Cristiani, chiamata bene spesso l' uomo nuovo, l' uomo interiore, viene altresì rassomigliata da S. Paolo ad un vestimento, e la mancanza di questa vita alla nudità della persona: similitudine acconcissima rispetto all' anima separata dal corpo, la quale priva di questo suo termine naturale rimane nuda, se non gli è dato da Dio soprannaturalmente qualch' altro termine reale (il quale secondo noi è l' essere eucaristico di Gesù Cristo), ed è trovata vestita se seco adduce questo termine ineffabile e misterioso, pel quale le è comunicata della vita di Cristo. Medesimamente questo termine reale della nostra vita interiore e spirituale è rassomigliato ad una casa, la quale rimane anche quando la casa temporanea del nostro corpo si discioglie: [...OMISSIS...] 3 Conviene in terzo luogo notare che le recate parole di Cristo si riferiscono allo Spirito Santo, il quale è quello che rende propriamente gli uomini, che colle loro volontà non si oppongono e potendo cooperano, figliuoli di Dio, onde passano, come dice S. Paolo, « a claritate in claritatem tamquam a Domini Spiritu: » il che si può intendere, tanto dell' ascendere di virtù in virtù, di perfezione in perfezione, di eccellenza ad eccellenza durante la presente vita, quanto del passaggio dalla chiarezza o gloria interna, che ha il giusto cristiano in questa vita, a quella chiarezza e gloria sfolgorante e completa che avrà nell' altra. 4 E poichè lo Spirito Santo è l' amore divino essenziale, e quindi diffonde in noi la carità, che riforma e santifica la nostra volontà, secondo quello: « Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (2), » e ancora: « Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro, quod sumus filii Dei (3); » perciò Gesù Cristo dice che il Padre ama noi, perchè noi amiamo lui, [...OMISSIS...] giacchè non vi ha la vita soggettiva di cui parliamo dove non vi ha carità, almeno abituale, non avendovi ivi lo Spirito Santo che è quello che congiunge Cristo alle anime nostre nel modo della vita soggettiva. La carità poi (che è assai più d' un semplice affetto naturale ed accidentale, come lo Spirito Santo è assai più che semplicemente l' amore accidentale, essendo sussistente persona divina) ha per oggetto Cristo umanato, quale ci è proposto dalla fede; onde il Signore soggiunge al « quia me amastis, » quest' altra parola: « et credidistis quia ego a Deo exivi . » Nel qual vocabolo, exivi, non è solamente indicata la processione del Verbo dal Padre, ma ben anco la sua missione visibile nel mondo e la sua incarnazione, come dichiarano le parole che vengono appresso: « exivi a Patre et veni in mundum (1), » che rispondono a quelle di Giovanni: « Et Verbum erat apud Deum . » L' Evangelio adunque, cioè non la lettera ma lo spirito, aggiunse una gran luce alla fede antica, ed illuminò la vita spirituale e la scienza: « Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere, ipse illuxit in cordibus nostris, ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie Christi Jesu (2). » E dice in facie Christi Jesu, perchè lo Spirito Santo che illumina l' anima, ha quest' effetto suo proprio di fare intendere, e sentire, e quindi amare Gesù Cristo, come abbiam detto, Dio e uomo, uscito dal Padre, mandato nel mondo dal Padre. Ora tutta questa chiarezza e luce ineffabile della vita cristiana è nondimeno velata in paragone di quella che rifulgerà alle anime nostre, quando sarà squarciato il velo de' nostri corpi: [...OMISSIS...] dice S. Paolo, [...OMISSIS...] Laonde nell' antico testamento vi era la fede, ma vi era un' altra fede da rivelarsi, la quale, appunto perchè doveva rivelarsi, aveva più di chiarezza; al presente poi la nuova fede è rivelata, e non rimane a rivelarsi altra fede, ma solo la gloria. Della fede, che era da rivelarsi e che si rivelò col Vangelo, dice S. Paolo: « Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur conclusi in eam fidem quae revelanda erat (4). » E nello stesso senso lo stesso Apostolo dice, che si rivelò in lui Cristo: [...OMISSIS...] Della gloria poi, e non più della fede che al presente resta a rivelarsi, dice S. Pietro: « qui et ejus, quae in futuro revelanda est, gloriae communicator (1). » E l' Apostolo de' Gentili afferma che la sua predicazione ha per oggetto « il mistero di Cristo », perocchè nella dottrina di Cristo rimane sempre una parte misteriosa a noi che siamo nella presente vita: [...OMISSIS...] dice a que' di Colosse, [...OMISSIS...] e tuttavia soggiunge « ut manifestem illud ita ut oportet me loqui (2) » perocchè questo mistero si può annunciare, credere e in parte anche manifestare, secondo quel modo di conoscimento che a noi è dato finchè siamo circondati dal corpo corruttibile; onde anche prima l' avea chiamato « mysterium quod absconditum fuit a saeculis et generationibus, nunc autem manifestatum est sanctis ejus, quibus voluit Deus notas facere divitias gloriae sacramenti hujus in gentibus, quod est Christus, in vobis spes gloriae, quem nos annuntiamus (3). » Nel qual luogo dicendosi che il mistero di Cristo fu manifestato ai Santi, e non dicendosi a tutti quelli cui fu predicato, ben s' intende che l' Apostolo parla d' una cognizione e manifestazione soprannaturale, per la quale i Santi dentro illustrati dal lume della fede intendono e penetrano nel recondito di tale mistero, quando quelli che non credono, nulla più ne capiscono che la lettera, la quale non è cognizione vera del mistero stesso, nè soprannaturale. Il che spiega l' Apostolo più ampiamente nella sua prima ai Corinti, dove, dopo aver detto che la sapienza di Dio nel misterio è nascosta e nessuno de' principali uomini del mondo la conobbe, soggiunge: « « Nobis autem revelavit Deus per Spiritum suum. Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei. Quis enim hominum scit quae sunt hominis, nisi spiritus hominis qui in ipso est? ita et quae Dei sunt, nemo cognovit nisi Spiritus Dei. Nos autem non spiritum hujus mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. - Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur. Spiritualis autem judicat omnia: et ipse a nemine judicatur »(4). » Dalle quali parole raccogliamo che la cognizione che ha il cristiano in questo mondo comprende il tutto; comprende tutto ciò che conoscerà con maggior luce all' altro mondo, perchè ha lo Spirito di Dio, che omnia scrutatur, etiam profunda Dei, di maniera che il cangiamento che succederà sarà una vera rivelazione, secondo l' etimologia della parola, un vedere le cose stesse che conosce, adesso sotto un velo, allora senza velo, giusta le parole citate dal Concilio, « eumdem panem Angelorum, quem modo sub sacris velaminibus edunt, absque ullo velamine manducaturi . » Quindi, per indicare quel passaggio dalla condizione presente del Cristiano alla futura, talora si nomina una rivelazione di Gesù Cristo. Parlando della seconda venuta di Cristo, dice il Vangelo: « qua die Filius hominis revelabitur (1). » E prima aveva detto dello stato presente del fedele, che ha in sè Cristo in un modo velato: « Non venit regnum Dei cum observatione, neque dicent: Ecce hic, aut ecce illic. Ecce enim regnum Dei intra vos est (2), » e quindi trapassa a favellare come questo regno di Dio, che viene senza attrarre l' osservazione degli uomini, si manifesti rifulgente alla gran venuta del Figliuolo dell' uomo. Medesimamente l' Apostolo promette requie a que' di Tessalonica, che avevano patito pel regno di Dio, « in revelatione Domini Jesu de coelo cum angelis virtutis ejus (3). » La ragione poi, perchè nelle divine scritture si parla più frequentemente e si promette la rivelazione di Cristo alla fine dei secoli, anzichè quella che avviene alla morte di ciascun fedele, mi sembra poter essere che quella è più solenne e compiuta per la risurrezione dei corpi, e doveva forse essere più inculcata come più maravigliosa: oltre di che, se quella gloria privata, dirò così, che ciascuno de' giusti Cristiani riceverà dopo morte, interessa il particolare; quell' ultima è cosa appartenente a tutta la Congregazione de' fedeli, a tutto il corpo della Chiesa. Talora poi il passaggio dalla condizione nostra presente alla gloria futura si appella « rivelazione nostra propria, rivelazione dei figliuoli di Dio, rivelazione della gloria in noi », come in questo luogo [...OMISSIS...] Le quali ultime parole, adoptionem filiorum Dei expectantes, redemptionem corporis nostri , ci avvisano che anche in questo luogo S. Paolo parla dell' ultimo compimento della gloria nostra, che sarà quando risorgeremo gloriosi, e non di quella gloria, quasi direi provvisoria, sebbene beatificante, che avranno le anime nostre separate dal corpo. Ed è da osservarsi che si chiama libertà, tanto quella che ora godiamo in Cristo: [...OMISSIS...] quanto quella che acquisteremo colla gloria finale: [...OMISSIS...] perchè ora la nostra libertà, perfetta quanto allo spirito, è nulladimeno unita ad una certa servitù quanto al corpo corruttibile. Similmente noi siamo già stati adottati figliuoli di Dio quanto allo spirito; [...OMISSIS...] ma, quanto al corpo aspettiamo tuttavia adoptionem filiorum Dei . Secondo la stessa maniera di parlare, nel giorno del Signore si riveleranno le opere nostre quali sieno alla prova del fuoco: [...OMISSIS...] Tutto è adunque nel Cristiano: tutto nella fede e nella cognizione spirituale di colui che è in Cristo secondo lo spirito della santità; ma tutto vi è velato, e in un modo sentimentale a cui non giunge o debolmente giunge la riflessione generatrice della coscienza. Quando poi deporremo il corpo, e più compiutamente quando riavremo un corpo glorioso, tutto sarà a noi svelato, manifesto, fulgente di gloria. Venendo ora alla vita eucaristica, quaggiù velata, colassù in Cielo palese, dico primieramente che i veli che ci nascondono al presente il corpo e il sangue glorioso di Cristo sono gli accidenti del pane e del vino, che soli cadono sotto i nostri sensi esteriori. Ora è da considerarsi che il pane e il vino consecrato (che non è più nè pane nè vino) fa cogli accidenti che conserva, ne' nostri organi sensorii e nell' interno del nostro corpo, gli stessi effetti fisici come non fosse consecrato, cioè come fosse ancora vero pane e vero vino. Ora, questi effetti fisici non sono gli effetti eucaristici. Il corpo adunque ed il sangue di Cristo si sta cotalmente nascosto sotto gli accidenti del pane e del vino, che naturalmente e per la fisica legge de' corpi non produce nessun effetto sul corpo nostro. Quando viveva Gesù Cristo in terra, il suo corpo passibile e mortale era sensibile ed operante ne' corpi degli altri uomini secondo le ordinarie leggi fisiche che presiedono alla mutua azione dei corpi fra loro: ma non così il corpo eucaristico di Gesù Cristo, nel quale tali leggi sono tutte sospese dall' onnipotenza divina, e però non è visibile, nè tangibile, nè odorabile, ecc.. Quindi procede che gli effetti eucaristici dipendono unicamente dalla volontà e podestà dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, secondo quelle leggi che governano l' ordine morale. Di che avviene che quelli che non sono battezzati, e quindi incorporati a Cristo, non ne ricevono alcun effetto (se non gli effetti fisici degli accidenti); e lo stesso si dica di quelli che assumono il Santissimo Sacramento colla coscienza o colla volontà di peccato mortale (oltre il sacrilegio che commettono), perocchè « quicumque manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini ) (1). » Consegue ancora che gli effetti eucaristici vengano da Cristo prodotti ne' fedeli, che ricevono il suo corpo santissimo, secondo il tenore della loro disposizione; e però quelli che sono meglio disposti, e più e meglio cooperano cogli atti della loro volontà, ne ricevano in maggior copia, e in minore gli altri. I quali effetti sono primieramente operazione dello Spirito di Cristo che diffonde la carità nelle anime: ed è per ciò che Cristo disse, parlando dell' Eucaristia: « Spiritus est qui vivificat: caro non prodest quidquam: verba quae ego locutus sum vobis spiritus et vita sunt (2). » Ma egli conviene che noi esponiamo, per quanto ci è dato, in che modo Cristo col suo Spirito produca in colui che riceve il suo corpo ed il suo sangue cotesti maravigliosi effetti. E` dunque da considerare primieramente, che il supremo principio operatore in Cristo è il Verbo, il quale perciò non è soltanto persona divina, ma persona di Cristo, cioè persona divina incarnata; giacchè la persona d' un individuo intelligente è quel supremo principio operativo che è in esso. Ora, come la persona divina del Verbo unì a sè la natura umana? Certa cosa è che il Verbo per questa unione non sofferì passione, nè cangiamento alcuno, non essendone suscettibile, come quello che è immutabile, ed in cui non cadono accidenti di sorta. Ma è da riflettere, qual preliminare della dottrina che dobbiamo esporre, che le cose tutte esistono nel Verbo non solo idealmente, ma anche realmente, come abbiamo detto, in un modo oggettivo; e in questo modo oggettivo, come tutte l' altre cose, così esisteva nel Verbo anche l' umanità di Cristo. Ma qui non ci ha ancora l' incarnazione, non ci ha l' unione ipostatica: altramente il Verbo sarebbe stato congiunto con tutte le creature ipostaticamente, il che è assurdo. L' esistenza oggettiva è sempre divina; le cose create non hanno che un' esistenza soggettiva, o un' esistenza che alla soggettiva si riferisce (esistenza extrasoggettiva). Quindi le cose nella loro esistenza oggettiva, appartenenze del Verbo, non sono le cose quali esistono puramente a se stesse, dal che viene che sieno creature reali. L' esistenza oggettiva delle creature è reale pel Verbo (assolutamente reale), ma non è nelle creature stesse, la cui esistenza propria è soltanto soggettiva, di maniera che quella potrebbe essere nel Verbo (ed è il Verbo stesso) senza che queste ancor fossero. Laonde le creature per la sola esistenza oggettiva non sono a se stesse; e, quando esse sono (soggettivamente), allora esse non apprendono necessariamente il Verbo, sebbene il Verbo le abbia in sè oggettivamente, e l' esistenza oggettiva e soggettiva sieno due modi dello stesso ente. Acciocchè dunque il Verbo assuma a sè e si congiunga una creatura intellettiva in quanto questa è a se stessa, non basta ch' egli l' abbia oggettivamente, sebbene realmente, in sè; ma è necessario ch' egli si congiunga soggettivamente a quella creatura, o per dir meglio congiunga quella creatura soggettivamente a sè. Così fece incarnandosi, cioè congiungendo a sè la natura umana in individuo ipostaticamente. La mutazione, come dicevamo, non avvenne in lui, ma nella natura umana assunta, la quale trovò d' esser mossa e governata, come da suo proprio principio supremo, dalla persona del Verbo. La comunicazione di Dio soggettiva all' umanità è operazione dello Spirito Santo: quindi il Verbo s' incarnò per opera di esso Spirito: [...OMISSIS...] E Cristo chiama se stesso: « quem Pater sanctificavit et misit in mundum (2), » facendo precedere, non quanto al tempo ma quanto al concetto, la santificazione alla missione nel mondo, quasi venendo a dire santificò l' umanità di Cristo in modo che nello stesso tempo mandò in essa il Verbo, il quale a sè ipostaticamente unita l' assunse. Onde l' Apostolo chiama Cristo, « qui praedestinatus est Filius Dei in virtute secundum spiritum sanctificationis (1). » E la stessa parola Cristo significa l' unto del Signore, così venendo chiamato Colui che era stato mandato coll' unzione dello Spirito Santo, come avevano già preannunziato i Profeti: [...OMISSIS...] dice il Redentore in Isaia: [...OMISSIS...] E il Salmo: [...OMISSIS...] E all' udire il racconto che Pietro e Giovanni fecero del processo loro intentato dalla Sinagoga dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, i primi discepoli dissero: « Convenerunt enim vere in civitate ista, adversus sanctum puerum tuum Jesum quem unxisti, Herodes et Pontius Pilatus cum gentibus et populis Isra‰l (4). » E S. Pietro alla famiglia del Centurione dice di Gesù: « Vos scitis - quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute (5). » Ora è da considerarsi che è proprio dello Spirito Santo l' agire in modo soggettivo, perocchè egli s' unisce come principio attivo alla volontà umana, e questa con esso lui unita s' innalza a riconoscere praticamente l' essere, e massimamente l' Essere assoluto, nel che sta la santificazione dell' uomo. Ora parmi che sia da credere che nell' umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all' Essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell' uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime così incarnandosi, rimanendo la volontà umana e l' altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest' essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cessò di essere personale nell' uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura. Dove è da osservarsi che tutte queste operazioni dello Spirito Santo quasi preambole all' incarnazione, e della stessa incarnazione o unione ipostatica, non furono già successive, ma contemporanee, compiute in un istante, nell' istante dell' incarnazione medesima. Il Verbo poi, incarnato così per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa, onde potè dire S. Giovanni che « « il Verbo si fece carne » »; come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini, prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente quant' egli loro diceva quasi teoricamente. E la missione dello Spirito Santo santificatrice dell' umanità di Cristo è sempre procedente dal Verbo, sia quella che si concepisce logicamente preambola all' incarnazione medesima, sia quella che si concepisce logicamente posteriore a questa, venendo la prima dal Verbo separato, la seconda (identica alla prima) dal Verbo medesimo unito. E in un modo somigliante avviene la rigenerazione spirituale dell' uomo, salvo che l' operazione preambola dello Spirito Santo può precedere anche di tempo alla stessa rigenerazione, come accade negli adulti. Questi sono quei doni e quelle grazie, di cui parla il sacrosanto Concilio di Trento come dispositive alla giustificazione, nelle quali in prima la vocazione divina si contiene. [...OMISSIS...] Di poi viene la fede, di cui così lo stesso ecumenico e sacrosanto Concilio: [...OMISSIS...] Queste operazioni che lo Spirito Santo fa nell' adulto per disporlo alla giustificazione battesimale, le fa pure nel bambino, quanto alla sostanza, ma in altro modo occulto, per mozioni abituali della sua volontà e contemporaneamente alla giustificazione; di maniera che nello stesso istante che riceve questa pel battesimo riceve quelle grazie altresì. Nel battesimo poi, nel quale si compie la giustificazione, il Verbo si unisce come oggetto reale alla mente del battezzato, e, dove la volontà di questo non pone ostacolo ma è disposta a riconoscerlo, continua e compie la missione in essa dello Spirito Santo, colla quale egli viene santificato, adottato figliuolo di Dio, e coerede di Cristo. Onde il più volte citato Concilio dichiara che la giustificazione, che pel battesimo si conseguisce, « non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis per voluntariam susceptionem gratiae et donorum (2), » e l' unica causa formale della giustificazione [...OMISSIS...] Ma in quest' opera dello Spirito Santo il Verbo divino viene impresso nelle menti, come dicevamo, qual oggetto, non già qual soggetto; e però non è un' incarnazione, ma soltanto una congiunzione reale delle persone umane col Verbo incarnato, le quali persone sono come membra di quel corpo mistico di cui il Verbo è capo. Nulladimeno, atteso che questo capo, cioè il Verbo incarnato, influisce nelle membra la virtù dello Spirito Santo, prima di tutto la volontà di esse membra, dove risiede la loro personalità, è santificata, cioè tratta a riconoscere praticamente quel Verbo che percepisce; e perciocchè così acquista una nuova attività soprannaturale che non aveva prima, perciò la persona dicesi rinnovata, formatosi un uomo nuovo, nel che consiste la spirituale rigenerazione: « Voluntarie enim genuit nos, » dice S. Giacomo, « verbo veritatis ut simus initium aliquod creaturae ejus (1): renati, » continua S. Pietro, « non ex semine corruptibili, sed incorruptibili, per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum (2). » Or, come abbiamo detto già innanzi, crediamo assai probabile che la virtù vitale di Cristo si comunichi all' acqua battesimale per un segreto contatto del suo corpo glorioso, in virtù e nel momento nel quale sono pronunciate le parole, forma del Sacramento; e che l' acqua, toccando il corpo di lui che si battezza pella fede sua propria o in quella della Chiesa, comunichi la predetta virtù di Cristo, la quale passando dal corpo all' anima ed allo spirito, rinnova finalmente la superiore parte dell' uomo, imprimendo nella sua mente il Verbo. Ma nell' eucaristico Sacramento il pane ed il vino non è solamente toccato dal corpo di Cristo, ma assunto e transustanziato nella sua carne e nel suo sangue glorioso. Onde ricevendo questo Sacramento l' uomo non riceve soltanto l' influenza della virtù di Cristo, come nel battesimo, dove l' acqua rimane acqua, benchè diventi il veicolo della virtù di Cristo, e tocca il corpo momentaneamente e spontaneamente; ma si ricevono le stesse carni viventi e gloriose, e il sangue di Cristo dentro di noi (e per concomitanza altresì l' anima e la divinità), le quali restano dentro di noi qualche tempo, benchè non tocchino il corpo nostro, il quale è toccato solo dagli accidenti del pane e del vino. I quali accidenti operano tuttociò che operano il pane ed il vino non consacrati, venendo digeriti ed assimilati, e così passando in nostra nutrizione. Ma imperocchè sotto questi accidenti vi è il vero corpo e il vero sangue di Cristo, questo produce i suoi effetti spirituali nell' anima e nello spirito dell' uomo battezzato e ben disposto. Perocchè, se gli accidenti del pane e del vino sono a un contatto reale colle nostre carni, il corpo ed il sangue di Cristo, nascosto sotto quegli accidenti, trovasi a un contatto spirituale e corporeamente insensibile; e come la carne nostra è viva, e viva è pure la carne gloriosa di Cristo, per questo contatto spirituale si comunica della vita di Cristo alla nostra vita, in quella misura ch' egli vuole e secondo le disposizioni che in noi trova. Il battesimo fa due cose nell' uomo: 1 imprime il carattere indelebile; 2 conferisce la grazia santificante. Pel carattere indelebile l' uomo è posto in comunicazione col Verbo per mezzo della sua intelligenza essenziale; per la grazia l' uomo è posto in comunicazione collo Spirito Santo per mezzo della sua volontà essenziale. Essendo aperta, mediante il battesimo, questa comunicazione dell' uomo col Verbo e collo Spirito Santo, ricevendo gli altri Sacramenti, e soprattutto quello della SS. Eucaristia, egli riceve dal corpo e dal sangue del Signore gl' influssi dello Spirito Santo che è carità, « Deus Charitas est (1), » e indi anche se li deriva. In qual maniera questi effetti avvengano egli è cosa segreta: tuttavia non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che sola è verità, la seguente conghiettura. La carne ed il sangue di Cristo, in cui si è convertita la sostanza del pane e del vino, è termine del principio senziente di Cristo. Ora, questa carne e questo sangue, nel modo che è nell' Eucaristia, può divenir termine altresì del principio senziente dell' uomo che lo riceve. La sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d' essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così la avvivò della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quand' è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più, come prima, pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perchè è divenuto termine del nostro principio sensitivo. Concependo in questa maniera la transustanziazione, noi possiamo più facilmente ravvisare e determinare qual sia il Corpo di Cristo eucaristico. Perocchè, quantunque Cristo abbia un solo Corpo, al presente glorioso, tuttavia, avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al Corpo glorioso si sia aggiunto qualche parte in esso incorporata, ed indivisa e del pari gloriosa. E questa parte aggiunta, cioè la sostanza del pane e del vino transustanziata, che forma una cosa sola col Corpo di Cristo glorioso, come una porzione della nostra carne e del nostro sangue forma una cosa sola col nostro proprio corpo, si può intendere che sia quella che diventa termine comune al principio senziente di quell' uomo che in grazia di Dio riceve il cibo eucaristico. Ma qui prima di proceder oltre dobbiamo sciogliere alcune obbiezioni. La prima, che secondo una tale dichiarazione non ci avrebbe nell' Eucaristia tutto il Corpo di Cristo. A cui si risponde che appunto perchè il Corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario dove si trova una parte si trovi tutto; ma che la distinzione della parte dal tutto non si fa che rispetto alla operazione spirituale ed interna nell' uomo che riceve bensì tutto quel Corpo, ma non tutto quel Corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che risponde a quel tanto che v' aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza, il che non par contrario alla dottrina cattolica, secondo la quale è bensì di fede che tutta la sostanza del pane e del vino si transustanzia, ma non che si transustanzia in tutto il Corpo e in tutto il Sangue glorioso di Cristo, secondo le parole del sacrosanto Concilio che definì: [...OMISSIS...] dove dicesi: [...OMISSIS...] ma non dicesi: « In totam substantiam corporis et sanguinis Christi ». Un' altra obbiezione si cava dalla Psicologia. In questa fu da noi detto che se due principii senzienti avessero lo stesso termine, essi s' immedesimerebbero e ne diverrebbe un solo. Ora, sarebbe un assurdo, contrario alla fede ortodossa, il dire che il principio senziente di Cristo e quello del fedele che si comunica in grazia diventi un solo principio. A cui si risponde, che l' immedesimazione de' principii non ha luogo se non quando il termine corporeo sia totalmente identico. Ma nel caso nostro la cosa non va così; perocchè il principio sensitivo del fedele che si comunica in grazia non ha di comune col principio sensitivo animatore di Cristo tutto il corpo di Cristo, ma solo quella parte che risponde alla sostanza del pane e del vino transustanziata; e neppur tutta questa, ma una parte di questa, corrispondente a quegli accidenti del pane e del vino che passano nella nutrizione del fedele, e non a quella parte di essi che corrompendosi, senza passare in nutrizione, cessano dall' essere velo al corpo e sangue di Cristo, e tornata la sostanza materiale passa questa dal corpo del fedele per altra via. Quella parte di carne e di sangue di Cristo, che rispondeva prima della transustanziazione alla sostanza del pane e del vino, contiene propriamente, se vere sono le conghietture sopra esposte, quella vita eucaristica, che non cessò mai in Cristo neppure nel tempo della sua morte avvenuta nel suo corpo naturale, come abbiamo di sopra accennato, e per cui fu esaudito, come dice S. Paolo, quando pregò d' essere campato dalla morte: onde l' Eucaristia si chiama pane vivo, e non fu giammai pane morto come fu morto il suo corpo naturale. E il pane ed il sangue eucaristico, che è detto « novi et aeterni testamenti (1), » è l' oggetto di un sacerdozio, che da S. Paolo si asserisce fatto « secondo la virtù di una vita insolubile »: [...OMISSIS...] Ora, se la vita eucaristica di Cristo, oggetto del sacerdozio, si fosse sciolta anche per poco tempo, non sembra che si potesse chiamar più vita insolubile . Sebbene adunque questa denominazione d' insolubile convenga ottimamente alla vita gloriosa acquistata da Cristo dopo la risurrezione, tuttavia più pienamente luce la verità di quella parola, interpretandola dell' insolubilità della vita eucaristica, perocchè Cristo esercitò il suo sacerdozio prima della sua morte nell' ultima cena, ed era costituito sacerdote secondo l' ordine di Melchisedecco, che offerì pane e vino già prima della sua risurrezione gloriosa, e però fin d' allora era costituito tale « secondo la virtù della vita insolubile ». Onde a tutta ragione S. Ignazio martire, discepolo degli apostoli, chiama l' Eucaristia « pharmacum immortalitatis (3), » e il Santo Concilio di Trento lo dice « « un ineffabile e al tutto divino beneficio quo mortis ejus victoria et triumphus repraesentatur »(4). » Continuandoci dunque al discorso precedente, se egli è vero che il principio senziente di quelli che ricevono tutto Cristo nella Santissima Eucaristia riceva per termine quella porzione del corpo e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione, s' intende come questo Sacramento sia dai Padri e dai Concilii chiamato « Signum unitatis (5), » e certo non un segno inefficace ma un segno efficace, cioè operatore dell' unità ch' egli segna, come sono segni efficaci tutti i Sacramenti di Cristo; cioè operatori nell' uomo di quel che segnano. La quale unità è doppia, cioè de' fedeli con Cristo e de' fedeli fra loro. L' unità di chi riceve il corpo di Cristo con Cristo diviene somma ed al tutto ineffabile. Perocchè, quantunque non s' identifichi Cristo con lui, come abbiamo detto, tuttavia una porzione della vita sensitiva di Cristo s' identifica in certo modo con una porzione della vita del fedele che riceve Cristo, perocchè queste due vite hanno una porzione del loro termine corporale identica: Cristo ed il fedele sentono come porzione del proprio corpo lo stesso corpo eucaristico. Questo sentimento non accade in quelli che non hanno ricevuto il battesimo, i quali non sentono che gli accidenti del pane e del vino, rimanendo in essi il corpo e il sangue di Cristo inefficaci, cioè non comunicando Cristo loro quel termine corporeo, in quanto è termine della vita di esso Cristo, e perciò non avvenendo la comunicazione delle due vite, la parziale identificazione dei due sentimenti. E ciò perchè lo spirito di questi non ha ricevuto la virtù che li rende atti a comunicare collo Spirito di Cristo, perchè non sono congiunti a quel Verbo che produce nei battezzati tale virtù soprannaturale, che giunge a percepire quell' umanità di Cristo che sta sotto gli accidenti. Perocchè l' uomo da sè solo non potrebbe mai comunicare colla carne e col sangue vivente di Cristo, che sta nascosta sotto il velo degli accidenti del pane e del vino, soli accessibili naturalmente al senso dell' uomo; ma l' uomo battezzato è già congiunto con Cristo, e Cristo in lui e con lui comunica necessariamente colla propria carne e col proprio sangue, e così l' uomo insieme con Cristo. Ora, la vita sensitiva di Cristo è intimamente e individualmente congiunta colla sua vita intellettiva, e la persona del Verbo è congiunta con entrambi in modo, che l' umanità intera di Cristo appartiene in proprio alla persona del Verbo, e non ha altra persona se non questa che tutta la regga e governi, qual principio supremo dell' unico Cristo. Quindi l' uomo che partecipa nel modo detto della vita sensitiva di Cristo, partecipa nello stesso tempo della virtù e della divinità di tutto Cristo, il quale nei giusti emette il suo Spirito di Carità, onde tal Sacramento è chiamato giustamente il Sacramento dell' amore, « vinculum charitatis (1). » E come l' amore ha più gradi, ma il massimo è quello per il quale gli amanti s' uniscono sostanzialmente in quella più stretta guisa che la natura loro concede, e godono l' un dell' altro in questa unione, quasi con un indiviso sentimento; così egli è manifesto, che essendo sostanziale e reale l' unione del fedele con Cristo mediante l' Eucaristia, fino ad avere in parte uno stesso termine della vita, che è la massima unione che si possa concepire secondo la natura umana e la condizione della vita presente; quindi questo Sacramento, com' è il massimo pegno dell' amore di Cristo verso gli uomini, così contiene il più intimo atto d' amore fra l' uomo giusto e Cristo. E quell' amore non è puramente ideale e spirituale, ma reale, sostanziale, soprannaturale e vitalmente corporeo. Dove cade in acconcio di commemorare il canone del Sacro Concilio di Trento, che dice: « Si quis dixerit Christum, in Eucharistia exhibitum, spiritualiter tantum manducari, et non etiam sacramentaliter ac realiter, anathema sit (1). » E` dunque da distinguere fra non battezzati, i quali non ricevono, assumendo l' Eucaristia, nè il Sacramento, nè la cosa del Sacramento, dai battezzati, i quali ricevono il Sacramento, e, se sono in grazia di Dio, anche la cosa del Sacramento . I primi non comunicano che cogli accidenti secondo le leggi fisiche e naturali, ma i secondi comunicano con Cristo: ma in diverso modo quelli che sono in grazia, e quelli che sono in disgrazia di Dio. I battezzati, che non sono in grazia, hanno il Verbo nella loro mente, la quale appartiene alla loro persona umana, ma non la costituisce; e però dall' avere l' impressione del Verbo non sono santificati, perchè il Verbo che è in essi non manda lo Spirito Santo, ossia la grazia di questo, nella lor volontà, che costituisce la loro persona. Laonde il Verbo impresso nella loro mente si completa, quasi direi, colla carne e col sangue che essi ricevono quasi in essi incarnandosi; ma tutto ciò nell' ordine della mente e del sentimento in cui non giace la santificazione. Perocchè è da osservare che quantunque l' acqua battesimale operi gli effetti soprannaturali per virtù del contatto segreto dell' umanità di Cristo, tuttavia nel battesimo non viene comunicata all' uomo la stessa umanità di Cristo, la stessa carne, o lo stesso sangue vivente, ma solo la virtù che esce dal corpo del Salvatore, la qual virtù è atta a comunicare la percezione del Verbo, onde Cristo ebbe a dire a S. Filippo: « Philippe, qui videt me » (cioè la mia umanità in modo soprannaturale) « videt et Patrem (2), » cioè « vede me come Verbo, e in me conosce il Padre mio di cui sono l' imagine ». Laonde colla Eucaristia si completa nell' uomo la comunicazione di Cristo incominciata nel battesimo, aggiungendosi la carne ed il sangue, cioè l' umanità di Cristo al Verbo che risplendeva nella mente, e tutto ciò, se l' uomo ha una volontà peccatrice, non a sua salute, ma a sua condanna. Questo è il primo effetto della SS. Eucaristia. Ma se l' uomo battezzato è in grazia, il Verbo emette in lui lo Spirito Santo, col quale santifica la sua volontà, dove giace la personalità dell' uomo, e quindi rimane santificata la persona dell' uomo. Allora poi che quest' uomo, ricevendo l' Eucaristia, riceve l' umanità vivente di Cristo, e si completa in lui il Verbo incarnato, questo Verbo incarnato emette lo Spirito Santo nell' uomo, non solo come luce, immediata operazione del Verbo, ma ben anco, per mezzo del suo corpo santissimo, come luce e sentimento e gaudio corporale. Quindi lo Spirito Santo emana alla santificazione dell' uomo da tutto Cristo, sempre venendo mandato dal Verbo. Ma se il Verbo prima non illustrava col divino Spirito se non la suprema parte della volontà dell' uomo, cioè la facoltà del riconoscimento pratico e l' intelligenza ad esso ubbidiente; di poi la volontà umana ed inferiore di Cristo comunica lo Spirito Santo anche alla volontà inferiore dell' uomo e la corrobora a sottomettersi alla volontà superiore, e il sentimento ed istinto sensitivo di Cristo comunica dello Spirito Santo al sentimento ed istinto animale dell' uomo e lo tempera dal male e lo governa al bene, e le carni e il sangue di Cristo comunicano pure del Santo Spirito alle stesse carni ed allo stesso sangue dell' uomo, e rendono l' uomo casto, sicchè tutte le parti di Cristo operano in tutte le parti dell' uomo, e s' avvera da parte di Cristo quant' egli disse nella orazione al Padre che pronunciò prima di patire: « Pater, venit hora, clarifica Filium tuum, ut Filius tuus clarificet te, sicut dedisti ei potestatem omnis carnis, ut omne quod dedisti ei det eis vitam aeternam (1). » E da parte del fedele allora si possono dire appieno verificarsi le parole dell' Apostolo ai Filippesi: « Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras in Christo Jesu (2), » e quelle: « Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (3); » onde dal sentimento di Cristo a noi comunicato s' apprende la sua umiltà, che non possono insegnare le parole degli uomini, seguitando a dire S. Paolo: « qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (4), » perocchè veramente effetti speciali dell' Eucaristia, in chi degnamente la riceve, sono la castità e l' umiltà. E perciocchè lo Spirito Santo si comunica alla volontà dell' uomo, e sono a questa soggiogate l' altre potenze inferiori; perciò fra la volontà, costituita in istato soprannaturale di grazia, e lo Spirito Santo è aperta una comunicazione, per la quale l' uomo, cogli atti della sua volontà stessa, può derivare maggiore o minor copia del Santo Spirito, di che la quantità di grazia, che i giusti ricevono, come dagli altri sacramenti, così ancora da questo della SS. Eucaristia, è varia secondo la loro disposizione e cooperazione. Onde della stessa giustificazione che si riceve nel battesimo, « quod est sacramentum fidei sine qua nulli unquam contigit justificatio, » il Tridentino dice che l' unica causa formale è la giustizia di Dio, « qua nos justos facit - justitiam in nobis recipientes, unusquisque suam secundum mensuram, quam Spiritus Sanctus partitur singulis, prout vult, et secundum propriam cujusque dispositionem et cooperationem (1). » E posciachè, consacrato il pane ed il vino, anche prima dell' uso, dimora sempre sotto quegli accidenti tutto intero Cristo; quindi da lui possono derivare i fedeli, anche senza riceverlo realmente, delle grazie spirituali (emettendo egli in essi i doni del Santo Spirito) col solo adorarlo di presenza, e col desiderio e col voto di riceverlo sacramentalmente: il qual modo di partecipare si chiama comunione spirituale. Laonde il Tridentino dice dell' uso che fanno i fedeli dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] Rimane perciò fermo che nella comunione spirituale non si riceve il corpo di Cristo nè realmente, nè sacramentalmente; ma che se ne derivano le grazie dello spirito, se ne raccoglie frutto, se ne esperimenta l' utilità. Ancora un' altra differenza fra la comunione sacramentale e la spirituale è questa: che nella prima Cristo stesso opera ne' giusti che l' hanno ricevuto l' emissione dei doni del suo Spirito ex opere operato, e così il primo va incontro all' anima colla divina sua operazione, la quale ne sentirebbe l' effetto quand' anche l' uomo non fosse in grado, per malattia o per sopore, di fare alcun atto d' affetto volontario, dopo aver ricevuto il corpo di Cristo; laddove nella comunione spirituale è l' anima che cogli atti della sua volontà deriva a sè le grazie del sacramentato Signore. E qui si osservi che, quantunque il corpo che noi abbiamo ricevuto da Adamo sia guasto e destinato alla morte, e buono solo a farne un sacrifizio al Signore, secondo l' Apostolo: [...OMISSIS...] tuttavia quell' ostia stessa, cioè il corpo dei cristiani, si dice « ostia vivente, e santa, e a Dio piacente », perchè dai sacramenti di Cristo anche il corpo riceve un' influenza santificatrice, ma specialmente dal sacramento eucaristico nel quale lo stesso corpo glorioso del Signore s' inserisce in parte nel corpo nostro e vi mette un elemento d' immortalità. Il perchè l' Apostolo chiama non solo i nostri spiriti, ma ben anco i nostri corpi membra di Cristo e templi dello Spirito Santo: onde deduce qual insulto si faccia a Cristo colla fornicazione violando le sue membra e il suo tempio: [...OMISSIS...] Di che conchiude: « Glorificate et portate Deum in corpore vestro (5). » Laonde S. Pietro chiama il suo proprio corpo « « un tabernacolo » (6), » dimostrando così, ch' esso era una custodia del Verbo e dello Spirito. E S. Paolo dalla stessa dottrina trae più altri precetti morali (giacchè, come abbiam detto, il principio di tutta la morale cristiana è l' inabitazione di noi in Cristo e di Cristo in noi). E primieramente insegna ai cristiani di non contrarre matrimonio cogli infedeli pel rispetto che debbono avere a' proprii corpi santificati dalla dimora in essi di Cristo: [...OMISSIS...] Dallo stesso principio deduce l' amore e il rispetto che i mariti debbono avere alle loro mogli: [...OMISSIS...] Deduce ancora l' obligazione che i Cristiani si astengano dal partecipare alle vittime immolate agli idoli. Perocchè dice: [...OMISSIS...] Ma, quantunque il corpo de' Cristiani guasto dalle conseguenze del peccato d' origine riceva qualche influenza dalla grazia di Cristo, e coll' eucaristia riceva altresì qualche parte che in lui s' inserisce del corpo di Cristo; tuttavia il corpo animale è destinato a perire, perchè non può essere senza di ciò intieramente rigenerato: e però quell' elemento occulto di vita che quaggiù riceve da' Sacramenti, ma soprattutto dal Sacramento Eucaristico, è oggetto di fede, anzichè di piena e manifesta esperienza, e un saggio e un pegno della futura risurrezione; onde dice S. Paolo: « Quod autem nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (3). » Ora il pane eucaristico non è solamente un vincolo d' unione del fedele con Cristo, ma ben anco de' fedeli fra loro. E come l' unione del fedele comunicante con Cristo ha due modi, l' uno de' quali si fa immediatamente per Cristo, l' altro per lo Spirito Santo che diffonde nell' anime la carità che da Cristo procede; così parimenti una duplice unione de' fedeli fra loro trovano i fedeli che ricevono degnamente Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. L' unione del fedele comunicante con Cristo che si fa immediatamente per Cristo è fondata in due ragioni. La prima, che tutti ricevono lo stesso Cristo tutto intero. La seconda, che ciascheduno converte in termine della propria vita quella quantità della carne e del sangue di Cristo che risponde alla quantità della sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione. L' unione del fedele comunicante con Cristo, che si fa per mezzo dello Spirito Santo, nasce dall' emissione dello Spirito e de' suoi doni che fa Cristo al fedele in quella misura che Cristo vuole e in proporzione della disposizione e della cooperazione dello stesso fedele. Queste due maniere d' unione che si formano o si perfezionano col ricevimento del Sacramento eucaristico sono indicate da S. Paolo in quelle parole: « Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae (1). » Col sacramento della fede, cioè col battesimo, gli uomini incominciano ad essere membra del corpo mistico di Cristo; ma coll' eucaristia si connettono vieppiù col corpo di Cristo perchè una porzione di questo corpo, indivisa dal tutto, s' inserisce in essi quasi porzione di loro proprio corpo, e così vi ha una continuazione più piena di essi con Cristo. Ma l' essere essi divenuti corpo di Cristo non giova alla loro salute, anzi grandemente loro pregiudica, se, trovandosi essi in istato di peccatori con volontà avversa a Cristo, non ricevono l' unione dello spirito. Che se la volontà non pone ostacolo, in tal caso lo Spirito di Cristo in essi si diffonde, ed allora giova loro senza fine l' essere un corpo con Cristo, col quale diventano in pari tempo, per così dire, uno spirito. Per ciò adunque che riguarda l' Eucaristia, l' unione che forma di essi un corpo solo con Cristo (il qual corpo, sebbene reale, si dice mistico, che vuol dire occulto, perchè in questa vita non si vede ed è oggetto di fede) nasce dal divenire propria carne e proprio sangue del fedele quella porzione della carne e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della consacrazione. E questo si fa in modo occulto, perchè il fedele non s' accorge che in lui rimanga una parte della carne e del sangue di Cristo, rimanendo questo velato sotto gli altrui accidenti, come rimane velato tutto il corpo reale di Cristo indiviso da quella piccola parte. Sicchè il corpo di Cristo rispetto al fedele non opera che spiritualmente, perocchè Cristo tutto intero nel suo corpo o condanna il fedele se in consapevole peccato, ovvero lo santifica comunicandogli lo spirito di santità. Ma ciò non toglie che rispetto a Cristo, questi non sia inserito nel fedele in parte col suo proprio corpo reale nel modo di essere eucaristico: e che un giorno, cioè dopo la vita presente, non si manifesti. Cristo adunque da parte sua tiene tutti i fedeli che si comunicano uniti al proprio corpo reale, quasi con altrettante funicelle, colle diverse porzioni del pane eucaristico che loro divide. Onde questa parola di dividere o frangere il pane sì di spesso ripetuta nelle scritture parlanti di questo sublime mistero. [...OMISSIS...] E nella moltiplicazione dei pani, in figura del sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] E del pari nella seconda moltiplicazione dei pani: [...OMISSIS...] E la medesima espressione scrupolosamente inseriscono nella loro narrazione S. Marco (6) e S. Luca (7). Anche negli Atti Apostolici, facendosi uso della stessa parola solenne, vi si dice: « fragentes circa domos panem (.), » luogo che i sacri interpreti intesero dell' Eucaristia. Nella Liturgia Ambrosiana in quell' atto che il sacerdote spezza l' ostia dice: frangitur corpus Christi: la quale espressione, acciocchè non contenga errore, deve intendersi come la dichiarò il Sassi nella sua Dissertazione. Il corpo di Cristo adunque non può dividersi, ma niente vieta che una parte del corpo di Cristo nel suo essere eucaristico sia legata più strettamente delle altre col corpo del fedele che si comunica; e questa parte, che più strettamente si lega col corpo di un fedele, sia diversa da quella parte con cui più strettamente si lega il corpo di un altro fedele; e queste diverse parti, ciascuna delle quali è destinata alla nutrizione spirituale di un fedele rimanendo indivisa dall' intero corpo di Cristo, sieno corrispondenti a quella quantità della sostanza del pane che vi avea in ciascuna ostia prima della consacrazione: le quali parti si raffigurano in que' grani di frumento sparsi dal seminatore e cadenti altri sulla pubblica via, altri sulla pietra, altri fra le spine, ed altri finalmente sul buon terreno (1), giacchè Cristo altrove si chiama appunto grano di frumento (2). Tutti adunque i fedeli mediante l' Eucaristia s' attengono al corpo di Cristo e formano un sol corpo mistico e tuttavia reale con esso lui. Quindi sono altresì uniti strettamente fra sè, come le membra d' un solo corpo, che quantunque distinte non sono divise: [...OMISSIS...] Laonde, giusta l' esposta sentenza, la diversità delle membra del corpo mistico di Cristo troverebbe altresì un fondamento nella diversità di quella porzione eucaristica che ricevono, e che in ciascuno frutta diversamente secondo il terreno o secondo la qualità della pianta in cui viene innestata. L' unione poi dei fedeli fra loro, l' unione, dirò così, misticamente corporea, risulta dal partecipare tutti come cibo e nutrizione di una parte appartenente allo stesso corpo, e dal ricevere colla detta parte l' intero e identico corpo di Cristo in se medesimi, il quale non può separarsi da quella parte che ciascuno in modo più speciale si appropria. Ma soltanto l' unione che nasce dallo Spirito Santo è quella che unisce non la sola natura dell' uomo con Cristo, la quale s' unisce per la sopradescritta unione corporale, ma lo stesso uomo, la stessa persona dell' uomo: e che unisce in un solo spirito tutte le persone dei fedeli fra loro, perocchè dice San Paolo: « qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (4). » Questa unione spirituale che procede dalla corporale, come lo Spirito di Cristo procede da Cristo, fu quella che Gesù Cristo domandò al Padre nella sublime orazione che fece nel cenacolo: [...OMISSIS...] Cristo dunque, l' identico Cristo è ugualmente tutto in tutti, e tutte le parti di Cristo comunicano della loro virtù a tutte le parti dell' uomo, di che fu figura la maniera usata da Eliseo a risuscitare il figlio della Sunamitide. Perocchè narra la Scrittura: [...OMISSIS...] Essendo dunque il medesimo Cristo in tutti, tutti hanno, per lo Spirito Santo che in essi si diffonde, e sanno d' avere un solo ed identico bene infinito, tutti una sola vita immortale, quella che partecipano da questo bene che possedono cioè da Cristo, tutti un solo amore, una sola volontà. Onde de' primi fedeli si legge: « Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una (3). » Di che proveniva che, come avevano in comune Cristo che era l' unico loro bene, così volessero avere in comune anche l' altre cose che non reputavano beni se non in ordine a Cristo: [...OMISSIS...] E descrivendo questa unanimità e comunità di beni si fa dagli Atti Apostolici speciale menzione dell' Eucaristia, che n' era il fonte e la più efficace cagione, perchè si dice [...OMISSIS...] L' esemplare di questa unione che Cristo desiderava nei suoi fedeli era l' unione ch' egli aveva col Padre suo: ut sint unum sicut et nos . Il Verbo divino col suo Padre è unito colla natura che è identica nell' uno e nell' altro, ma è distinto quanto alla personalità. Così ne' fedeli deve restar distinta la personalità di ciascuno, ma debbono comunicare fra loro nella natura. Gli uomini, prescindendo dalla grazia, convengono nella medesima specifica natura, quindi la loro medesimezza appartiene al solo ordine ideale ed oggettivo, ond' essi, avendo il modo di essere soggettivo, non conseguono da questo di essere veramente unificati nè quanto alla persona, nè quanto alla natura. Ma il Verbo divino è oggetto non solo ideale, ma reale; onde il suo operare (in quanto trapassa l' ordine della natura e tende a perfezionarla compiendo le sue lacune e limitazioni senza distruggerla), è sempre perfetto e compiuto, e però vòlto a realizzare l' oggetto anche rispetto alle nature soggettive. E perocchè in tutti gli enti il principio ritrae la determinazione e l' attività sua dal termine immanente con cui è legato per sintesi ontologica, e il termine del principio intellettivo è l' oggetto; perciò il Verbo manifestandosi alle intelligenze le unifica anche realmente: perocchè, in quanto hanno per termine lo stesso Verbo, il principio intelligente che le costituisce soggettivamente viene determinato ed attuato nello stesso modo, e s' identifica non totalmente, ma in quanto ha quell' oggetto reale comune. In quanto poi il Verbo si manifesta diversamente e con diversi gradi di luce alle intelligenze finite, in tanto esse si distinguono fra loro. E nel battesimo già si dà questa segreta comunicazione del Verbo, e questa parziale identificazione, della quale S. Paolo scrive: « Unus Dominus, una fides, unum baptisma (1). » Ma Cristo non era solo Dio, ma anche uomo, in modo però che la personalità di quest' uomo risiedeva nel Verbo di Dio, onde il Verbo di Dio come persona reggeva l' umanità quasi potenza inferiore. Quindi anche l' umanità riceveva dal Verbo il divino istinto di unificare realmente gli uomini, ne' quali amava la similitudine della natura; e questo l' ottenne coll' istituzione del Sacramento eucaristico, nel quale tutti gli uomini acquistano per termine della loro vita sensitiva una porzione del corpo di Cristo indivisa dall' intero corpo, e quindi anche il principio sensitivo, base della natura umana, ha una identificazione parziale di natura, rimanendo distinte le persone. Onde aveva ben ragione Isaia di cantare predicendo le opere del Salvatore: « « Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris, et dicetis in die illa: Confitemini Domino et invocate nomen ejus: notas facite in populis adinventiones ejus. - Exulta et lauda habitatio Sion: quia magnus in medio tui Sanctus Isra‰l »(2). » Dall' essere Cristo connesso coll' uomo, e l' uomo inserito in Cristo come tralcio nella vite ne' modi sopraddetti, ne viene che l' uomo sia connesso altresì coll' eterno Padre, nel seno del quale è il Figliuolo, e che è pure nel Figliuolo. [...OMISSIS...] Quindi la società dell' uomo con Cristo ordinata dal Padre, di cui dice l' Apostolo: « Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii ejus Jesu Christi Domini nostri (3), » è società ad un tempo col Padre stesso, come insegna S. Giovanni: [...OMISSIS...] E si osservi quanto qui è proprio il vocabolo di società, la quale esige che più persone abbiano un bene posto in comune. Ora i fedeli con Dio e fra sè hanno in comune, e in comune godono il loro bene che è appunto Cristo, e il suo Corpo santissimo, ed il suo Spirito. E venendo a parlare dello Spirito che emette Cristo in quelli ne' quali egli dimora, primieramente diremo che questo è Spirito di vita soggettiva . Perocchè nell' essere senziente ed intelligente, considerando com' egli è ontologicamente costruito, si distinguono due estremi, il principio ed il termine . E benchè il principio (che è propriamente il soggetto) non sia senza il termine, tuttavia, posto ch' egli esista, ha un' attività sua propria colla quale può più o meno aderire al termine. Il che si scorge massimamente nelle creature intelligenti e libere, di cui l' atto soggettivo, che può essere di maggiore o minore intensità, è l' adesione dell' amore. Laonde, quantunque non si può dare l' atto soggettivo dell' amore se manchi l' oggetto cui amare, secondo l' adagio voluntas non fertur in ignotum; tuttavia, quando vi ha l' oggetto, questo può essere più o meno amato dal soggetto. Nell' ordine della vita soprannaturale, di cui parliamo, l' oggetto immediato è sempre Cristo. Ora l' atto soggettivo, col quale si ama Cristo conosciuto, è mosso dallo Spirito Santo. Questo Spirito è mandato dall' oggetto stesso, cioè da Cristo. Cristo adunque è l' autore immediato della vita oggettiva, fonte della soggettiva. Della vita oggettiva disse Cristo: « Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant te, solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (1), » e questa vita si dice oggettiva, non perchè non sia anch' essa un atto del soggetto (nel qual senso ogni vita è soggettiva), ma perchè è determinata necessariamente dalla sola percezione immanente e primitiva dell' oggetto, ove non vi ponga ostacolo la volontà che può rifiutarla, il quale oggetto Cristo ha lo Spirito Santo in se medesimo. Della vita soggettiva, opera speciale dello Spirito Santo, Cristo disse: « Et notum feci eis nomen tuum, et notum faciam » (mandando il Santo Spirito personalmente); « ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit, et ego in ipsis (2). » Nell' una e nell' altra vita opera lo Spirito Santo, che perciò si chiama « Spiritus vitae (3), » in quanto entrambe sono soggettive, atto del soggetto; ma nella prima lo Spirito opera inizialmente e quasi potenzialmente (con che vogliam dire che al sentimento dell' uomo lo Spirito non si manifesta come persona, ma in forma di doni semplicemente, e non distinto da Cristo). L' effetto dello Spirito Santo è di aggiungere forza all' attività soggettiva soprannaturale in modo che conosca più vivamente e perfettamente Cristo e le sue parole, e più grandemente ed efficacemente lo ami. Il Verbo si rimane distinto dal soggetto uomo in cui dimora per quella differenza che v' ha fra l' oggetto e il soggetto, la quale è categorica; lo Spirito Santo si rimane distinto solo come il creante e il creato, il movente e il mosso. Il soggetto mosso, nel nostro caso, sente la mozione, sente che vi ha in sè quello che non era prima, sente la carità, possiede le azioni sante; ma non iscorge per questo alcun oggetto nuovo, perchè lo Spirito non ha la forma oggettiva propria del Verbo. Onde Cristo disse: « Spiritus ubi vult spirat, et vocem ejus audis, sed nescis unde veniat aut quo vadat: sic est omnis qui natus est ex spiritu (4). » E S. Paolo distingue la mente dell' uomo, la quale ha l' oggetto per forma, dallo spirito che è a foggia d' istinto senza oggetto nuovo e suo proprio, onde dice: [...OMISSIS...] Ed altrove dice che lo Spirito prega nell' uomo, e dimanda quel che deve dimandare, quando l' uomo stesso non sa che cosa debba dimandare siccome si conviene (1). Lo Spirito si unisce dunque, e in certa maniera si mescola col soggetto che egli santifica, operando in lui in modo che il soggetto è insieme quello che opera. Onde Cristo attribuisce allo Spirito l' uomo nuovo, l' uomo nato alla santità; il qual uomo perciò si dice divenuto uno spirito con Dio: [...OMISSIS...] E S. Paolo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (3). » Onde lo stesso Apostolo dice, che lo Spirito in noi prega quando noi preghiamo: [...OMISSIS...] Ma, oltrechè lo Spirito viene dato « secundum mensuram donationis Christi (5), » come s' esprimono le Scritture, rimane sempre distinta la consapevolezza divina dello Spirito, dalla consapevolezza umana dell' uomo, nel quale lo Spirito si manifesta. E così pure si distingue la giustizia di Dio, « qua ipse justus est », dalla giustizia di Dio « qua nos justos facit (6); » perocchè, benchè sia una la giustizia e la santità ed identica, tuttavia sono diversi i soggetti che la partecipano o la possiedono, e n' hanno il sentimento o la consapevolezza. Come adunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo Spirito unifica le persone umane nella più intima società ..........

Giacomo l'idealista

663182
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Quel giovinastro seduttore non me lo puoi ammazzare, perché si ammazzano le galline e non i cristiani: e poi, quando pure ti fossi abbeverato di sangue, non puoi fare che non sia avvenuto quel che è avvenuto. Non te la puoi pigliare colla poverina, che non ha nessuna colpa. La contessa, che avrebbe tutto l'interesse ad accusarla e a farla passare per una civetta, vedi invece che la difende a spada tratta e mette la sua innocenza fuori di discussione. Non ti resta dunque che di pigliartela con te stesso; bravo, ma tu sei il meno colpevole, avendo sempre nelle tue azioni operato con buona intenzione e con sincerità. Se l'ammazzare è un mestiere da beccaio, l'ammazzarsi è da asino. A chi gioverebbe una tragedia? a te no, a Celestina nemmeno, meno ancora a tua madre e alla tua casa: tutt'al piú servirebbe a far sapere anche a chi non lo sa che ti hanno fatto un gran torto. Sicuro che fu un gran torto! e capisco come tu possa averne la testa malata: ma, lasciando stare che anche a nostro Signore ne hanno fatto dei torti, e grossi, io, se dovessi scegliere, vorrei sempre essere tra coloro che li ricevono i torti e non tra coloro che li fanno. Il mondo fu sempre e sarà sempre pieno di trappole e di dolori. In qualche modo bisogna che anche il male si manifesti. Oggi è una grossa flussione, domani è un tremendo mal di denti, dopodomani è una ladreria, che ti fanno patire, o un'ingiuria, o una coltellata che ti dànno nella schiena: è inutile! il diavolo c'è e vorrà sempre metter lecorna nelle faccende del mondo. Che possiamo e dobbiamo fare noi cristiani di fronte a questa dichiarazione di guerra? Darla vinta a berlicche? Rinunciare alla battaglia per paura delle botte? Il diavolo lo si piglia per le corna e gli si dice: Io sono piú forte di te! Alle tue cornate non c'è nulla che piú resista come un buon cuscino imbottito di pazienza. E lo sai meglio di me tu, che hai letto i classici; e sai quel che dice Virgilio, che non era un coglione: " Durate et vosmet rebus servate secundis ." - Qui il vecchio prete tirò una presa dalla scatola d'osso, poi continuò: - Stando cosí le cose, non vedo che un mezzo possibile per uscire da questo ginepraio. Chinar la testa alla volontà di Dio e lasciare che il tempo faccia maturare il sacrificio. Tu non puoi, qualunque sia il tuo modo di vedere, abbandonare Celestina in mano agli altri, non puoi chiuderle l'uscio in faccia, come se fosse una donna perduta, non puoi spingerla sulla brutta strada, come purtroppo capita a queste povere figliuole senza protezione. E se la disperazione le andasse alla testa? e se in un momento di pazzia commettesse uno sproposito? Non v'è bisogno d'avere studiato per capire certe necessità. Non puoi nemmeno far cadere il castigo delle colpe altrui su tua madre, su tua sorella, sulla tua casa, a cui oggi sei piú necessario di prima. L'amore sarà, anzi deve essere una bella cosa, dal momento che Dio lo mette nel cuore degli uomini; ma il mondo non lo si mantiene soltanto coll'amore. Ci deve essere anche il dovere per fodera. E non si abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse, stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche buon secolo primache si inventasse d'attaccare il picciuolo alle ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. - E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare. Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti troverai contento di non aver impedita la pace. Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose? Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.

IL Santo

668142
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Ma quando Benedetto si alzò e tutti gli si scostarono d'intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il vecchio Signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta dalla emozione: "Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l'avvenire che desidera, ma l'avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno." Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto, turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e questi corse a lui, proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno sussurrò: "Un discepolo." Altri soggiunse, piano: "Sì, e il prediletto." Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti, disse con voce commossa: "E per noi, Maestro, non avrà un consiglio?" "Non mi chiami Maestro" rispose Benedetto, tutto ancora turbato; "preghi luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me." Uscito ch'egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni fra loro nell'esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del discorso, l'accento o lo sguardo dell'oratore, o lo spirito di santità diffuso nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta quasi scortese. Rimasto solo, aperse un uscio ch'era chiuso a chiave, s'inchinò dentro l'apertura. "Signore!" diss'egli. E spalancò l'uscio. Uno sciame di Signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando: "Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perché non siamo corse tutte fuori ad abbracciarlo!" "Cara" disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due grandi belli occhi, "perché, fortunatamente per lui, l'uscio era chiuso a chiave." Erano dodici Signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio dell'agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici. Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due quacchere, straniere, parevano impazzite dall'entusiasmo e fremevano contro la marchesa, una vecchia scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente: "Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre parlava." E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un buco nell'uscio o almeno levata la chiave dalla toppa. "Sei troppo Santo" diss'ella. "Non conosci le donne." Il Guarnacci rise, si scusò con l'ossequio dovuto alla padrona di suo Padre e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perché, uscì a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch'era brutto. "Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora" disse acremente una quacchera. E l'altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire la malignità espressamente, un velenoso: "Naturellement!" La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l'imbarazzo e il dispetto, ch'era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta. " Eh! Sempre nel giardino di mia cognata" diss'ella. "Sempre nel giardino?" esclamò la marchesa. "È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?" La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi furiosi. Entrò il thè, compreso nell'invito del professore Guarnacci. "Bella discussione, eh?" disse piano la signora Albacina, moglie dell'onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l'Interno, all'orecchio della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise tristemente e non rispose. Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose all' Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a scampanellare per ottenere silenzio. "Vorrei sapere di questo giardino" diss'ella. Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l'ortodossia cattolica di Benedetto, non avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la curiosità della signorina matura, all'udire la parola "giardino" scattò. Scattò fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare tutto che sapeva di questo Padre Hecker italiano e laico. Un po' per sfoggio di cultura, un po' per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così. Allora la Insipidetta guardò l'orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n'erano già quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto della commedia. Due altre Signore avevano altri impegni e partirono con lei. La Fermi restò: "Fa presto, però, professore, " diss'ella, "perché stasera mia figlia ci aspetta, me e queste altre Signore di cui vedi le spalle." "Faccia prestissimo" disse, dispettosetta, la signorina matura. "Dopo parlerà per la povera gente che non mostra le spalle." Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile allo povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di rabbia come un gambero. "Allora" incominciò il professore "siccome la signora marchesa e forse anche le altre Signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne prima della sua partenza da Jenne, quello lo lascio. Io dunque un mese fa, in ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio, di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno uscendo da S. Marcello m'incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva nell'Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice che adesso in Roma c'è un amico di Selva, il quale farà parlare di sé più che lo stesso Selva. "Chi è?" faccio io. "II Santo di Jenne" dice. E mi racconta questo. L'uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva conosciuto a Subiaco, lo prese per aiuto-giardiniere nella villa che si è fabbricata due anni sono sull' Aventino, sotto Sant' Anselmo. Il nuovo aiuto-giardiniere che si fa chiamare Benedetto e nient'altro, come a Jenne, è diventato presto popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l'imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda, benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l'altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in Chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant' Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe." La signorina matura esclamò: "Nelle catacombe?" E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: "Mon Dieu! Mon Dieu!" e un'altra voce, grave di stupore riverente: "Che senso!" "Ecco" riprese il giovine, sorridendo "Porretti ha detto "nelle catacombe" ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch'io." "Ah!" fece la signorina matura. "Lei lo conosce? Dov'è?" Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione. "Scusi, scusi!" disse, frettolosa. "Lo sapremo, lo sapremo" fece la marchesa. "Ma senti un po', figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?" "Stasera" rispose il professore Guarnacci "ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi." "Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella." E con quest'allegra profezia la marchesa se n'andò seguita da tutte le spalle scoperte. La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant' Anselmo? E della Vita passata di quest'uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un Padre di Sant' Anselmo: "un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa." Ma quando, partite tutte le altre Signore, si trovò solo con l' Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all' Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l' Albacina di presentarlo. L' Albacina non ci aveva pensato. "Il professore Guarnacci" diss'ella. "La signora Dessalle, mia buona amica." La "catacomba" era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell'alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch'era partita poc'anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell'interno elemento divino combinata con le reazioni dell'esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell'ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba. "La marchesa" continuò il professore "dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c'è a temere di eresie né di scismi. Proprio nell'ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell'elemento di Verità, quell'elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all'errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa." L' Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata. "La profezia del torcibudella, no!" disse il professore, ridendo. "Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un'altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch'erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare che si cerchi l'aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l'aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c'è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un'altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un'azione penale." La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo. "Come è possibile?" diss'ella. "Signora mia," disse il professore "Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl'intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch'è importantissimo." II professore tacque un momento, assaporando l'acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame. "L'altro giorno" riprese "il segretario del cardinale. ... un giovine prete tedesco, si recò a Sant' Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant' Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch'era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza, e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l'udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco." "E quando ci va?" chiese l' Albacina. "Posdomani sera." Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l'indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L' Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n'era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all'Indice. "Sarebbe poco" disse l' Albacina, sottovoce;Jeanne ebbe un fremito di consenso. "Pochissimo!" esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell'argomento gli parlerebbe certo. L' Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva né gli altri. "Io lo spiego!" disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. "Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?" Guarnacci sorrise di un sorriso fra l'ammirativo e l'ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L' Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa. "Oh lui" rispose il professore "nel Papa non considera e non venera che l'ufficio. Almeno credo. Della persona non l'ho inteso parlare mai. Dell'ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia Santo, intelligente, malato e debole. Nell'accompagnare le Signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando: "Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme." L' Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi: "Oh poveretto! Di che soffre?" "Ma!" rispose il professore. "Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch'ebbe a Subiaco e sopra tutto della Vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni." E continuarono la lunga discesa in silenzio. Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi mormorò: "Non ci si vede." Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sé del buio, accusandone l'avarizia del padrone di casa. Jeanne salì nella carrozza dell' Albacina che la portò al Grand Hôtel Nel tragitto l' Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all'amica. "Lei non è stata contenta del discorso?" diss'ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne. "Sì" rispose questa. "Perché?" "Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?" L' Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere: "Le sono tanto grata!" La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta. "Nientemeno!" pensò l' Albacina. "Questa è una futura dama dello Spirito Santo." "Per conto mio" riprese ad alta voce "capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl'intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l'uomo m'ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo." "Io non desidero di vederlo" s'affrettò a dire Jeanne. "Davvero?" esclamò l'amica. "Ma come? Mi spieghi questo enigma." "Così. Non desidero." "Curiosa!" pensò l' Albacina. La carrozza si fermò davanti all'entrata del Grand Hôtel Nell'atrio Jeanne s'incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano. "Finalmente!" disse Noemi. "Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il medico." I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell'inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l'arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l'inverno, volle il medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell'irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel'aveva taciuto. Carlino l'accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto. "Non ti sei vergognata" diss'egli "di star ad ascoltare alle porte?" E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. "Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!" Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L'idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi. Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d'ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire. Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto. Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l'idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre "si teme che non viva" aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l' Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l'una e con l'altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un balenar continuo, nel suo profondo, di quest'idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all'amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda Verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò: "Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo." Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse: "A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre ... "Credo. "Jeanne Dessalle." Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne. Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l'altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno.

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