Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbazia

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Domenico Zampieri detto il Domenichino, Apparizione della Vergine ai santi Nilo e Bartolomeo, 1608-09, Grottaferrata (Roma), Abbazia di San Nilo, Cappella dei Santissimi Fondatori. Fig. 54. Guido Reni, Apollo guida il carro del Sole preceduto da Aurora, 1612-14, Roma, Casino di Palazzo Rospigliosi Pallavicini. rocciose più o meno artificiali, il movimento neoclassico, nella seconda metà del Settecento, coniò il termine Rococò per definire spregiativamente, in quanto frivole, artificiose e vanamente capricciose, le tendenze artistiche in auge nel primo Settecento cui esso intendeva reagire ed opporsi. Come in molti altri casi, anche in questo si trattò di una definizione non del tutto impropria, ma che proiettava un’ombra uniformemente negativa su tutta un’epoca, senza distinguere tra artista e artista e soprattutto emettendo un giudizio, di ordine morale e ideologico-politico, che identificava, in modo alquanto grossolano e generico, l’arte di un Jean-Antoine Watteau (fig. 56), di un François Boucher (fig. 57) con il gusto artificioso di un Ancien régime ormai prossimo alla fine. Giudizio tanto drastico quanto unilaterale e ingeneroso, perché ignora gli stretti legami che si possono istituire tra il Rococò e le tendenze filosofiche empiriste e sensiste del secolo dei Lumi, e dunque in ultima istanza con quella rivoluzione culturale dei philosophes, che preparò il terreno alla secolarizzazione della cultura e al crollo dell'Ancien régime.

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Le arti belle in Toscana da mezzo secolo XVIII ai dì nostri

254925
Saltini, Guglielmo Enrico 1 occorrenze
  • 1862
  • Le Monnier
  • Firenze
  • critica d'arte
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Pagina 52

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Dalla finestra l'occhio poteva scorrere sulla verde distesa dei prati fino all'antica abbazia di Chiaravalle, che usciva da un folto di pioppi e di salici cenericci con una severa e ardita dignità; ma anche in quella stanza dalle pareti ruvide e ruvidamente intonacate di calce, dai grossi travi del soffitto male spiallati, dai quadretti di vetro verdognolo sulle impannate, dal permanente odor di rinchiuso, essa stentava troppo a ritrovare la sua benevolenza, e l'energia di comparire, di operare, di concorrere cogli altri al bene della sua famiglia. E mentre da una parte contava i giorni di andarsene, non poteva sfuggire dall'altra parte a un senso quasi di rimorso di non saper restituire nulla a sua madre e al suo benefattore, in pagamento del bene che le avevano fatto, col darle una buona educazione e col metterla in grado di apprezzare i beni superiori della coscienza e della religione. Se non ci fosse stato un uomo tanto generoso da prendersi tutta una famiglia sulle spalle, che cosa avrebbe potuto essere una povera vedova con tre figliuoli piccini? Quale aiuto avrebbe dato il mondo alla figlia di un uomo che si era ucciso per isfuggire all'infamia di un processo? Queste idee, cozzando colle altre che venivano da Cremenno, facevano spesso un tal tumulto nel suo piccolo cuore che spesso non poteva dormire la notte. Una giovinetta di diciott'anni, educata a tutte le delicatezze spirituali di un collegio di monache, che chiamano peccato ogni filo di polvere dimenticato sui mobili, non poteva adattarsi senza ripugnanza all'unto e al bisunto di cose e di abitudini grossolane, alla materialità di una vita così rasente terra, agli schiamazzi, al vociare continuo, al fumo che i camini rimandano negli occhi, all'untume delle minestre di lardo, al puzzo delle stalle, al linguaggio nudo e mal vestito dei villani, che parlano secondo natura vuole, andando alle cose per le parole più corte. "Il mio collegietto di Cremenno mi è sempre nel cuore" scriveva a suor Maria Benedetta "e in questo basso mondo stento ad abituarmi. "Non può immaginare, mia buona madre, quanta malinconia mi fa la vita dei pallidi astri e dei girasoli, che fioriscono in questo nostro umido orticello, dove la notte vengono a cantare le rane. Mi assale una specie di vertigine quando penso alle mille rose che ornavano la nostra Madonna l'ultimo giorno del mese di maggio. Penso a loro così liete nella santa opera dell'educare e mi spavento quasi della mia inerzia di spirito. Anch'io ho un gran debito da pagare a Dio, e mi pare che ogni notte la povera anima venga a bussare al mio uscio. "A casa mi tornano tutte le memorie del passato e mi par di soffrire per me e per conto di un assente che aspetta tutto da me. Quel giorno che potrò consacrare il mio cuore e la mia giovinezza all'esercizio del bene e alla preghiera perenne, soltanto allora mi sembrerà di aver trovata la mia strada: soltanto allora potrò dormire tutta una notte intera." L'ultima volta che venne alle Cascine tornò a scrivere con più malinconia: "A casa ho trovato nuove tristezze. Questo mio secondo padre, al quale devo pure della gratitudine, mi ha raccontato molte sue disgrazie, da cui non ho afferrato bene che un pensiero, cioè che io son di peso. E veramente che posso fare io per sollevare questo peso? Se è vero che gli affari dell'azienda vanno male, quale rimedio posso io opporre se non è una fervida preghiera a Colui che può tutto? dove potrei pregar meglio che in codesto luogo, dove ho imparato a conoscere il tesoro dei beni spirituali? Ho fatto domandare a Lodi quel che ci vuole per ottenere la patente di maestra e nel prossimo ottobre potrei dare gli esami. Così, se non potrò, nella mia miseria, portare alla Congregazione una dote (e lei sa che di mio non ho che dolorose memorie) cercherò di portarvi un titolo utile e una bella volontà di lavorare." Questo malinconico desiderio di rinchiudersi e di sottrarsi alla tristezza delle cose cresceva in lei fino al patimento, nelle giornate bigie e in quelle piovose, quando il lungo cascinale colle molte bocche dei fienili aperte nella corte, coi porticati tozzi, ingombri di travi, di fascine, di attrezzi, coi tetti neri e lucenti, sgocciolanti acqua nelle tinozze, pareva sprofondarsi nella nebbia e nella mota. In quella scolorita tetraggine com'era triste il vociare delle oche che starnazzano nel pattume! e che indefinita voglia di non essere metteva indosso il piagnucolare del fratellino in fascie, che la mamma non sapeva consolare, un piagnucolare dolente, che saliva dalla cucina insieme al rotto frastuono delle faccende! Tratto tratto la giovinezza voleva la sua parte. Al tornare, per esempio, d'una bella giornata pigliava con sé qualche libro, l'album, il panierino di lavoro e correva colla furia d'una passera spaventata verso una chiesuola detta la Colorina, isolata in mezzo al verde dei prati, a mezza strada tra l'Abbazia e il Camposanto. Più che una chiesa, si poteva dire una vecchia cappelletta votiva restaurata e ingrandita al tempo della peste, non arredata ora che da un povero altare di legno inverniciato con quattro figure smorte su per le lesene sgretolate del muro. Serviva anche di deposito e di magazzino al becchino che vi raccoglieva gli arnesi del mestiere. Là dentro l'aria e il sole entravano liberamente per le finestre non difese che da logore impannate coi piombi scassinati, con ragnatele al posto dei vetri. Entravano nella chiesina le rondini, che avevano i nidi sotto le cornici di gesso; entravano i bimbi e le galline per la porticina sempre aperta sui campi, nella quale nei quieti meriggi di estate soffiava l'aria calda e profumata del fieno agostano ch'essiccava sul prato. Arabella, sfuggendo alla sua malinconia, si rifugiava spesso alla Colorina, costeggiando un lungo canale d'acqua corrente e lucida, chiuso tra due filari di salici. Entrava, e chiuso col saliscendi interno la porta sconnessa, si trovava subito con Dio e colle ultime rondini dell'anno a riflettere sulla sua vocazione, a meditare sui dolori della terra e sulle immense cose che riempiono il cielo, a pregare per l'anima bisognosa del povero papà. Più che leggere nel libro di devozione, leggeva nella pagina azzurra del cielo, che dal suo banchetto vedeva attraverso a una larga finestra ovale: ed era un assopimento leggero di tutti i sensi in una visione senza contorni, nella quale sentiva diluire la sua piccola vita in un mare di gaudio. Era la vigilia della Madonna di settembre. Arabella verso sera affrettavasi a dare gli ultimi punti al bucato della quindicina, di cui aveva davanti una cesta piena, sotto la finestra della sua camera, quando vide entrare papà Paolino più triste e più malato del solito. Si mise a sedere con l'aria stracca dell'uomo sfiduciato, finché in mezzo a dei grandi sospiri uscì a dire: "Puoi darmi ascolto due minuti, Arabella?" Perché non doveva ascoltarlo? il disgraziato era solito sfogarsi con lei quando la passione gli mozzava il respiro. Anche questa volta egli cominciò molto da lontano. Lo avevano tradito perché si era fidato troppo degli uomini. Tutti rubavano, tutti mangiavano addosso a lui, povero uomo, che aveva il sangue alla gola. Tornò a parlare di una certa ipoteca... parola che alla monachella ignorante suscitava l'idea d'una cosa antipatica e odiosa, ostinata a voler fare del male a papà Paolino... Un padre di famiglia, seguitava lui, non può fuggire e rinchiudersi in un convento. Come un capitano di mare, deve naufragare e abbruciare col suo bastimento. San Martino veniva avanti a gran passi, egli avrebbe dovuto rinnovare l'affitto coll'Ospedale, pagare gli interessi al sor Tognino e non aveva i mezzi abbastanza. La causa, i cattivi raccolti, la concorrenza, le malattie, i figliuoli, le spese, l'avevano mezzo rovinato. Bisognava ricorrere alle cambiali, cioè farsi strozzare o liquidare, vale a dire rovinarsi prima del tempo, perché una liquidazione agricola significa perdere le scorte, i foraggi e i frutti del capitale versato sulla terra. E poi dove andare? che cosa fare? se si fosse lumache! ma quando un uomo ha perso il credito, è peggio d'un cavallo che ha le gambe rotte... E tante altre cose seguitò a tirar fuori dal petto quel benedetto uomo, lasciando sgocciolate sulle gote rese fonde e scialbe dal male quelle lagrime, che in presenza di mamma Beatrice si sforzava d'inghiottire in stranguglioni grossi e duri come noci. Arabella l'ascoltò con attenzione, con pietà, con una commozione sincera e profonda, lontana le mille miglia dall'immaginare dove sarebbe andato a finire un discorso così patetico, che somigliava troppo a cento altri, perché ella vi potesse supporre qualche cosa di nuovo. Cercò di mettere qua e là una di quelle parole che hanno bisogno d'una gran fede nella Provvidenza per far bene; ma papà Botta pareva disperare anche della Provvidenza. Da tre domeniche non si lasciava vedere a messa. La sua vita e la sua morte erano nelle mani del sor Tognino. Questo nome di sor Tognino, insieme all'altro di ipoteca, più di cento volte era tornato nei discorsi di papà Botta, come quello di un genio cattivo della sua casa. "Mi dica, papà," chiese con un moto di lenta curiosità "questo sor Tognino non è quello stesso che ha fatto la causa di turbato possesso?" "Lui, precisamente. È un uomo forte, pieno di denari, che mi può fare del male e anche del bene." "Come c'entra ancora?" "C'entra perché io non l'ho pagato... cioè l'ho pagato parte con delle cambiali, parte con delle ipoteche." "Se io potessi capire queste benedette parole..." "Bisogna però esser giusti anche con lui e riconoscere che mi usò sempre della cortesia. Volle mostrarsi forte nel suo diritto, ma non posso dire che abbia abusato della sua forza. La gente vista da vicino alle volte è migliore di quel che sembra da lontano. Io l'ho sempre trovato un uomo ragionevole. È appunto di lui che son venuto a parlarti, la mia figliuola." "Se non lo conosco..." "Egli conosce te." "Che vuole da me questo signore delle ipoteche?" "Ti ha incontrata due o tre volte sulla strada della Colorina, è un signore che passa in una carrozza coperta, con un cavallo grigio…" "Un uomo vecchiotto..." "Ma un vecchiotto in gambe. Possiede San Donato, o se non lo possiede, lo amministra, che è quasi lo stesso. L'ho trovato sabato quindici a Melegnano e venne ad offrirmi del miglio. Poi mi domandò se quella signorina, così e così, che incontra spesso sulla strada della Colorina, è mia figlia. Gli dissi: è mia figlia adottiva, ma è più che mia figlia." Papà Botta si commosse all'idea del bene che avrebbe voluto fare ai figli di Cesarino Pianelli, e che il destino invece... "Lo so, lo so" fu pronta a dire Arabella, posando una mano sopra un ginocchio del suo benefattore. "È una bella e simpatica ragazza", seguitò il sor Tognino, e ha l'aria d'una donnina di talento. Come sarei contento (ripeto le sue parole) come sarei contento se mio figlio sposasse una ragazza così! E io: la nostra Arabella ha tutt'altre idee e non pensa a maritarsi." "Infatti..." si affrettò a dire la fanciulla, sorridendo e arrossendo un poco. "E ci lasciammo, e amen: non se ne parlò più. Comprai il miglio e questo discorso m'era già uscito dalla mente, quando stamattina ricevo, guarda, ricevo una lettera, to'..." e trasse di tasca un foglio "una lettera sorprendente, che non ho osato far vedere a tua madre, perché le donne si scaldano facilmente la fantasia e a me piacciono le cose misurate e ponderate. Sicuro! tu hai già fatto il tuo pensiero, e il tuo pensiero dev'essere per noi inviolabile come il Santissimo sopra l'altare. Prima di tutto la voce del cuore, e per quel che c'è di bello nel mondo, vorrei poter anch'io dare un bell'addio e ritirarmi sopra una montagna. Ma un padre di famiglia è come un capitano di mare. Quando ho sposato tua madre, Arabella, speravo bene di fare la vostra fortuna e Gesù è testimonio che se si fosse trattato del sangue, avrei dato il sangue. Le cose sono andate a male, pazienza! ma crepi io sotto la mia casa prima che domandi il sacrificio di nessuno. Questa lettera nessuno l'ha vista, si può leggere e si può abbruciare. Non te l'avrei nemmeno fatta vedere, se non mi si dicesse d'interrogarti; né io posso rispondere, se non t'interrogo. Leggi e per tutta risposta dimmi un no, un sì, una parola che io scriverò tal e quale al sor Tognino, senza..." Un piccolo singhiozzo ruppe a questo punto un discorso, che il pover'uomo non aveva più la forza di sostenere. Arabella, fattasi più presso alla finestra, lesse nella corta luce del tramonto le seguenti parole: "Mio caro signor Botta, vuol interrogare la buona Arabella in proposito del discorso di sabato? Mio figlio non cerca dote e quando scegliesse una moglie di suo gusto, sono disposto a far qualunque sacrificio. È libero il cuore della popòla ? potrei dire per esempio, al mio Lorenzo di passare qualche volta a caccia da queste parti? La cosa resti tra noi; ma fin d'adesso assicuro il signor Botta che se combiniamo l'affare io giro a mia nuora tutti i diritti ipotecari che posso vantare sulle Cascine. Tra buoni parenti non si guarderà al centesimo; anzi spero di fare un buon acquisto nell'esperienza del mio vicino per il buon andamento dei fondi, di cui sono un meschino e incapace amministratore. Mi mandi una risposta presto e buona". Arabella lesse due volte lentamente fin che le parole regolari e nette della lettera scomparvero nell'ombra della sera. Sebbene còlta all'improvviso, coll'animo caldo d'altri pensieri e a tutta prima l'idea del maritar le sembrasse un'assurdità da riderci su, tuttavia, nel punto di aprir bocca, sentì correre sul cuore qualche cosa come un dubbio, o come un rimorso, che arrestò la deliberazione e la trattenne in una penosa sospensione d'animo. Nel voltarsi a rendere la lettera, scorse il suo patrigno e benefattore raggomitolato sulla sedia, quasi nascosto dal buio, coi gomiti puntellati ai ginocchi, colla testa chiusa tra le mani come in due morse, nell'attitudine stanca e paurosa di chi aspetta una sentenza fatale. A quella vista non ebbe coraggio di togliergli tutte le speranze. La campanella della Colorina prese a suonare i segni del rosario. Pareva una voce che parlasse da lontano, un avvertimento che uscisse dalla tristezza infinita dell'ombra e della pianura. Dal portico saliva il piangere del piccolo Bertino malato, accompagnato da una cantilena della "Bassa", in cui urtavano i ruvidi colpi della culla sballottata fuor di tempo. Al piangere del piccino mescolavansi altre voci di ragazze e di donne, insieme al cigolìo dei secchi, al rotolare delle carriole che rientravano cariche d'erba, nell'ombra sempre crescente del casolare, in cui serpeggiava quasi un senso di paura. Rimasero tutt'e due un lungo tratto in silenzio, occupati, smarriti nella grande quantità di pensieri, che passarono in mezzo tra l'uno e l'altra, che se avessero avuto figura, si sarebbero visti intrecciarsi, cercarsi e sfuggirsi agitati da una stessa passione. Il benefattore non voleva sacrifici, ma perché aveva aperta la questione? La speranza è sempre in ciò che non si ha, e molte volte in ciò che non si vuole. Questo buon uomo, che aspettava una parola di vita o di morte, aveva strappata una povera vedova con tre figliuoli dalla disperazione e dalla miseria e aveva procurato a una fanciulla, senza padre e senza protezione, i mezzi d'educarsi, d'essere qualche cosa, togliendola ai cento pericoli che circondano un'orfanella povera e abbandonata. Quel Dio, a cui Arabella era disposta a sacrificare la sua giovinezza e la sua vita in espiazione, chi sa?, parlava forse per la bocca medesima di un uomo onesto e virtuoso, del quale s'era servito per operare i prodigi della sua bontà e della sua carità. Arabella sentì subito in quel primo e improvviso conflitto di sensazioni e di pensieri che non basta essere santi a questo mondo, cioè comprese che è impossibile diventarlo, se non si comincia coll'essere pietosi e buoni. Non volendo mostrarsi arida e intollerante, si accostò al pover'uomo, che non osava alzare il capo, e gli disse: "Questa lettera, veramente, io me l'aspettavo così poco, che non so che cosa rispondere. Bisogna a ogni modo che io rifletta, che interroghi me stessa. Ne parleremo anche colla mamma. Io non conosco questa gente: e son così lontana dall'idea di maritarmi… Ma intanto si faccia coraggio, papà, non si avvilisca in questa maniera. Ha visto che Dio ci ha sempre aiutati in cento altre circostanze..." Paolino, soffocato dalle lagrime e dalla commozione che suscitava in lui la voce tenera e pietosa della figliuola, alzò un poco la testa, prese la mano della ragazza, se la strinse nelle sue, e voleva dire ancora ch'egli non cercava il sacrificio di nessuno, che aveva parlato solo per iscrupolo di coscienza, che qualunque fosse la risposta, il suo cuore non si sarebbe mutato per rispetto alla sua cara Arabella; ma di tutto ciò non poté dir nulla. Si sentiva un uomo strozzato. La voce della mamma in fondo della scala chiamò a cena, e come se quel grido disturbasse due innamorati, papà Botta scappò via. Arabella raccolse il bucato e chiuse la finestra. Peccato! camminava così serena e sicura nella strada della sua vocazione ed era già così vicina a toccare il porto della sua pace, che la monachella si irritò non senza qualche ragione contro questo improvviso ostacolo e si meravigliò di non trovare in sé il vigore e il rigore delle vere sante, che non odono che una voce. Il dir di no e seguitare la sua via sarebbe stato più naturale e più semplice per lei e anche per la gente che si occupa dei fatti altrui, perché, infine, nulla di più ridicolo d'una mezza monachella che sulla soglia del convento si volta a sposare il primo che capita. Con tutto ciò al di sotto delle prime ragioni andava formandosi e crescendo un'altra convinzione, fatta più di coscienza che di ragioni, una coscienza mista a uno sgomento indeterminato delle conseguenze, che il suo decidersi, qualunque fosse, avrebbe trascinato con sé. Scese anche lei in cucina, come al solito, a cena. In casa Botta, seguitando gli usi antichi, ognuno pigliava un posto a una gran tavola, dov'erano distribuite molte scodelle in disordine, servite senza lusso di tovaglie e di tovaglioli. Un pentolone solo bagnava le zuppe dei padroni e dei castaldi, che tolta la ciotola in mano, sedevano in giro sui sacchi e sui barili a sbrodolarsi lo stomaco. Un'unica lucerna a petrolio rischiarava il vasto camerone, ingombro più che arredato di vecchie tavole, di sedie spagliate e zoppe, di botticelle, di sacchi pendenti dal soffitto, di molta roba usata, inutile o dimenticata, che la pigrizia lasciava lì e il disordine pigliava a calci. Bertino quella sera non fece che piangere tutto il tempo. Era arrivato anche l'attestato scolastico di Maria con delle note scadenti e una lettera scoraggiante del padre rettore. Mario, il maggiore dei due fratelli di Arabella, avrebbe dovuto corrispondere con più riconoscenza agli sforzi e ai sacrifici di papà Botta. La mamma ne aveva gli occhi rossi, ma ordinò alla figliuola di non dir nulla a quel povero uomo. In quella casa si giocava a chi sapeva più bene nascondere: e un male, che si poteva guarire a tempo, si copriva di cenci finché fosse incancrenito. Arabella, vestita d'una divisa scura di collegio, che davale già l'aspetto di monaca, cogli occhi fissi in una scodella d'orzo bollito, sentì tutta la tristezza di quella gran casa in decadenza, una barca sdruscita, troppo piena di roba e di gente, che faceva acqua da tutte le parti, dove ogni sera venivano a radunarsi i rancori, le delusioni, le tristezze di giornate lunghe, piene di fatiche inutili. Quel povero Bertino non cessò mai dal piangere. Era malato, si vedeva, d'un male che nessuno credeva necessario di curare e al quale ognuno dava un nome diverso. Sentendosi anche lei un gran peso alla testa, colse un pretesto e si ritirò prima del solito nella sua stanza, dove si chiuse al buio, per bisogno di raccogliere i suoi pensieri. Perché avrebbe dovuto maritarsi? Quando aveva ella pensato mai che ci fossero degli uomini al mondo e che ad uno di questi uomini avrebbe dovuto legare la vita e l'anima? La sua vita, più ricca di pensieri che di passioni, trattenuta anche dagli spontanei rigori di una natura tenera e delicatissima, più irrigidita che scaldata dall'educazione sistematica della scuola e della chiesa, intimidita dalle apprensioni provate fin da bambina, non conosceva nessuno di quei ciechi fenomeni dell'istinto, che turbano la giovinezza di altre fanciulle. Dell'amore ne sapeva quel poco che una collegiale può capire dai "Promessi Sposi" e dai proverbi della gente onesta, e andava, tutt'al più, a immaginare una tenera e affettuosa benevolenza tra uomo e donna, che ha per misteriosa conseguenza un certo numero di figliuoli. E con questi scarsi elementi della vita essa era chiamata a decidere della sua vita. Chi era questo bravo uomo a cui avrebbe dovuto consacrare la sua benevolenza? L'aveva mai incontrato una volta sulla sua strada? Credeva anche lui in Dio e nel bene? Come poteva dunque esitare a rispondere una parola che la salvasse subito e per sempre da una terribile responsabilità? Presa dalla voglia d'uscire al più presto da un'incertezza così penosa, accese un lume, levò dal cassetto un foglio e cominciò a scrivere a papà Botta i motivi morali che non le permettevano d'accettare l'offerta del signor Tognino. La sua vita, scriveva, era già consacrata allo sposo celeste, e non era la vocazione d'un giorno, ma il pensiero dominante di tutta la sua giovinezza. Per questo voto aveva già ricevuti replicati affidamenti di grazia, talché il venir meno alla promessa sarebbe stato per lei un tradire, un abbandonare sopra l'abisso un'anima bisognosa, l'anima del suo povero papà. In questa convinzione, che le maestre e i confessori avevano più volte ribadita nel suo tenero cuore, la fanciulla si sentì così dotta e agguerrita, che non le mancarono le parole calde e affettuose per convincere sé e gli altri; e dopo tre pagine la sua mano leggera scriveva ancora, come se un angelo guidasse la penna, provando essa stessa una soave emozione nel rileggere parole e frasi scaturite quasi miracolosamente dalla ricchezza del cuore, e che le inondavano il viso di lagrime. Sonavano le nove nel gran silenzio. Alle Cascine eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d'una bocca d'acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso. Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d'usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: "Arabella!" Salta in piedi: "Che c'è?" "Vieni, io corro a cercare il dottore." E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. "Che cosa c'è mamma?" Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell'aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì alla gola. La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che: "Gesù, Gesù!" Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non poté. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica. Bertino, un grassottello roseo, coi riccioli biondi, era il coccolo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevano bene anche per quest'ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne. Il dottore non poté contare che sull'aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri. Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò che il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finché durò la tremenda agonia, finché il piccino non ebbe dato l'ultimo respiro. Era la prima volta ch'essa vedeva soffrire a quel modo un'innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose. Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell'animo non sapeva a volte distinguere tra sé e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l'anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche cosa d'irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciato con tanta effusione d'affetto e di lagrime la sua povera mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa comprensione, come se l'umanità saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis. Nel dolore immenso conobbe l'amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le parve di aver fatto un lunghissimo viaggio. Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo patrigno, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento. Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l'occhio itterico, i capelli irti come setole faceva e rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di condurre i bambini, di cui non c'è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d'una bella giornata di settembre e cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a cui dovevano l'edificazione commovente di quello spettacolo. Il funerale, al ponte, s'incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il giovane robusto che era con lui. Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d'uno spillo. Un profondo turbamento scosse il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d'una fiamma, che parve a chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi. Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Don Giovanni, durante la convalescenza, si lasciò vedere anche lui diverse volte e sedette a intrattenerla colla storia della vecchia abbazia, dei frati di Chiaravalle, di San Bernardo fondatore dell'Ordine, dell'eretica Guglielmina, che, dopo essere stata sepolta come una santa nel cimitero della Certosa, un bel giorno scoprono che è un'anima dannata, la disseppelliscono e bruciano il corpo sulla piazza di Sant'Ambrogio. Cose che capitano ai morti! Beatrice ristoravasi in mezzo a queste cure. Rifiorí daccapo, mentre le piante andavano perdendo a poco a poco le foglie. Paolino, ricuperata la confidenza di prima, andava segnando sul taccuino americano i giorni che lo separavano dal gran giorno. Demetrio, uomo onesto e sincero, nella prima lettera consegnata ad Arabella e poi in altre che scrisse, dalla sua nuova residenza (dove dice di non trovarsi malaccio), ha saputo toccare la nota giusta. Non si dubita dell'onestà di una donna come si dubita del vino degli osti. L'uomo si uccide nell'onore, — scriveva il buon cugino — la donna nel pudore. Se a questo mondo non ci sforziamo di far tacere la maldicenza e l'invidia della gente per ascoltare di tanto in tanto la voce sola e irragionevole del cuore, finiremo col non credere piú a nulla, nemmeno al pane che si mangia, e allora la vita diventa un inferno e chi trionfa è sempre il piú bugiardo e il piú sfacciato. Andiamo avanti con confidenza e verrà giorno che i buoni torneranno ancora buoni a qualche cosa — cosí scriveva il cugino. Si può immaginare che questi consigli furono altrettante goccie d'olio refrigerante sull'animo del buon Paolino, che un momento aveva dubitato anche lui delle cose del mondo. Ma ogni giorno piú, cioè ogni passo ch'egli fa verso il sospirato giorno, la realtà che lo aspetta gli pare irraggiungibile. Tutte le volte che torna da quella benedetta casa verso le Cascine, dubita ancora che sia un sogno. La gioia, il desiderio, la immaginazione crescono a tal punto che il cuore non può contenere tutta la felicità; il piacere tocca lo spasimo, l'aspettazione si cambia in paura. Gran destino che non si possa essere felici nemmeno in mezzo alla felicità! qualche cosa di guasto ci deve pur essere nel meccanismo del mondo — cosí pensava alla sua volta Paolino delle Cascine. E pare anche a noi. Passò anche quel mite autunno. La terra si coprí di foglie morte, e, dietro la siepe degli alberi nudi, la guglia sottile del duomo di Milano riapparve nell'aria pura degli ultimi giorni di novembre. Poi cominciarono le nebbie, che, come un mare di vapore, nascondono i prati. Seguirono lunghi giorni piovosi. Finalmente la campagna è tutta coperta di neve. Dal bianco strato e dall'orlo delle fosse, che mostrano la nera crosta della terra, i mozziconi delle piante capitozzate sporgono le braccia corte e intirizzite a un roseo sole di gennaio. Il cielo è bianco e netto, ma tira dai prati un'arietta sottile, fresca, che frusta le orecchie dei cavalli e passa i coturni di Bassano, che dalle Cascine va colla carrozza a prendere la sposa a Chiaravalle. Il gran giorno è arrivato. Il cavallantino è in gran tenuta: cilindro di pelle, nappina nuova fiammante, guanti di lana, fazzoletto bianco al collo, con due cocche svolazzanti, di cui si serve, di tanto in tanto, per asciugarsi i baffi dalla brina. Con lui viene il sor Isidoro Chiesa, il padre della sposa, l'uomo libero per eccellenza, vestito di nuovo, che manda dagli occhiali nuovi tutta la gioia fosforescente dell'uomo che trionfa. Avrebbe potuto esserci anche un altro signore, a cui il governo ha cambiato la greppia, e allora si sarebbe potuto dimostrare, strada facendo, che un Chiesa di Melegnano non è soltanto un gran buon uomo. "Ci rivedremo, Filippo!" aveva promesso un Chiesa, e il giorno era venuto. Le Cascine sono in festa fin dall'alba. Cominciano ad arrivare le carrozze dei parenti e degli amici. S'era detto di fare una cosa modesta, senza rumore, tra parenti intimi; ma un Chiesa di Melegnano avrebbe creduto di buttare la figlia ai cani, se non avesse trascinato alla festa mezza provincia di Lodi. E non contento ancora, pagò il campanaro perché rompesse i timpani alla gente. Le belle campane della badia annunciano ai popoli il lieto avvenimento e mettono una nota allegra nell'aria fredda ed abbagliante delle campagne coperte di neve. Non manca un raggio di sole sul celebre campanile, che torreggia dignitosamente coi suoi archi bruni, colle sue colonnine, colla sua svelta piramide, sotto un pittoresco cappuccio bianco. Arrivano tre o quattro carrozze, in mezzo a un rumoroso tintinnare di campanelli, tra gli evviva dei ragazzi e gli spari dei fucili da caccia. La buona Carolina, che non sa covare risentimenti, finisce di dare l'ultimo tocco ai capelli della sposa, mentre l'Elisa, fatta venire apposta da Milano, aggiusta le pieghe del vestito. I maschietti Mario e Naldo, vestiti come sposini essi pure, saltano, gridano cogli altri ragazzi sotto il portichetto. Dalle Cascine sono accorse tutte le ragazze curiose che hanno potuto scappar via, e fanno colle vecchie spettinate una siepe, un muro di gente innanzi alla casa. Beatrice sente che gli occhi le si gonfiano di pianto. In certi momenti le par di sognare, in certi altri le tornano in mente le circostanze che accompagnarono il suo primo matrimonio, e a volte non sa distinguere tra adesso e allora. Lo stesso chiasso, lo stesso tintinnare di campanelli, e sopra ogni altro rumore la stessa voce stridente del babbo, che predica, che ride, che comanda. Ogni momento le pare di vedere il suo Cesarino spuntare in cima alla scala, bello, elegante, nell'abito fresco, col cravattino bianco ... Asciugati gli occhi e ricomposto l'animo, pallida e ancora palpitante, scende, passa tra una doppia fila di persone, che gridano: "Viva la sposa!" Le ragazze curiose, le vecchie spettinate, i vecchi massai, che stanno sulla porta, fanno ressa, sporgono il capo, e, congiungendo le mani in orazione, esclamano con la sincera ammirazione della povera gente: " Gesus, se l'è bèla! " Le carrozze partono tutte insieme verso la chiesa. Solamente Arabella, indugiando sulla scala, s'è fermata a casa. Ritta dietro i vetri della finestra, essa stende il suo sguardo molle e afflitto sulla pianura tutta coperta di neve, pensa ai morti, pensa ai lontani e riempie l'avvenire colle ombre del suo passato.

Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all'orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall'acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un'ombra sull'aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! C'erano, in quell'antico convent o degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c'erano dei corridoi cosí lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c'era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra. In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sí un'altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell'angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura "To-to ... finito."

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Perché fra Antonio nella sua giovinezza, prima della soppressione dell' Abbazia di Praglia, vi ha passato alcuni anni, e ne parla come di una madre venerata. - Ah, la Chiesa di Praglia! I chiostri! Il chiostro pensile, il refettorio! - Alle inattese parole Jeanne si esalta. Esse le dicono: va, va, va subito! Ella scatta dalla seggiola. "Quest'orto? Per qual parte ci si va?" Fra Antonio, un po' sorpreso, le risponde che può recarvisi attraversando il monastero oppure girandolo di fuori. Jeanne esce, chiusa nel suo pensiero ardente, passa il cancello, gira a destra, entra nella galleria sotto la biblioteca, vi si ferma un momento stringendosi le mani sul cuore e procede. Il vaccaro del convento, fermo sull'entrata del cortile dov'è l' Ospizio dei pellegrini, le mostra sull'opposto fianco della viuzza chiusa fra due muri, l'uscio dell'orto. Ella gli domanda se avrebbe trovato nell'orto un tale Benedetto. Malgrado lo sforzo di dominarsi, le trema la voce nell'attesa di un sì. Il vaccaro risponde che non sa, si offre di andar a vedere, bussa più volte, chiama: "Benedè! Benedè!" Un passo, finalmente. Jeanne si appoggia allo stipite, per non cadere. Dio, se è Piero, cosa gli dirà? L'uscio si apre, non è Piero, è un vecchio. Jeanne respira, contenta, per un momento. Il vecchio la guarda, meravigliato, dice al vaccaro: "Benedetto non c'è." La contentezza di lei è già svanita, ella si sente gelare; quei due la guardano curiosi, in silenzio. "È questa signora " disse il vecchio "che cerca di Benedetto? " Jeanne non rispose. Rispose per lei il vaccaro; e poi raccontò che Benedetto aveva passato la notte fuori, ch'egli lo aveva trovato all'alba, tutto molle di pioggia, nel bosco del Sacro Speco, che gli aveva offerto del latte e che Benedetto aveva bevuto come un moribondo in cui rifluisca la Vita. "Udite, Giovacchino" soggiunse il vaccaro, fattosi a un tratto solenne. "Quell'omo bevuto ch'ebbe, mi abbracciò così. Io stavo male, non avevo dormito, mi doleva il capo, mi dolevano tutte l'ossa. Ebbene, dalle sue braccia mi vennero come tanti piccoli brividi e poi come un calore buono, un piacere, un sentirmi così bene che mi pareva avere nello stomaco due sorsi di acquavite, la più fina. Via il mal di capo, via il male d'ossa, via tutto. E mi sono detto: per Caterina, quest'omo è un Santo. E un Santo è." Passò, mentr'egli parlava, un povero sciancato, un accattone di Subiaco. Vista la signora, si fermò, le tese il cappello. Jeanne, tutta in quel che il vaccaro diceva, non si avvide di lui né lo udì quando, avendo il vaccaro finito di parlare, le chiese l'elemosina per l'amore di Dio. Ella domandò all'ortolano dove questo Benedetto si potesse trovare. L'ortolano si cercò una risposta nella nuca. Allora la voce flebile dell'accattone gemette: "Cercate Benedetto? Sta al Sacro Speco, sta al Sacro Speco." Jeanne gli si voltò avida. "Al Sacro Speco?" diss'ella. E l'ortolano domandò all'accattone se ce l'avesse veduto lui. L'accattone raccontò, lagrimoso più che mai, come si fosse trovato più di un'ora prima sulla strada del Sacro Speco, oltre il bosco dei lecci, proprio a due passi dal Convento con un fastello di legna; come fosse caduto malamente e rimasto a giacere sotto il fastello. "Iddio e san Benedetto" diss'egli "fecero che passasse un monaco. Questo monaco mi rialzò, mi confortò, mi prese a braccio, mi accompagnò al Convento dove gli altri monaci mi ristorarono. Io me ne venni via e il monaco rimase al Sacro Speco." "E che c'entra?" fece l'ortolano. "C'entra che prima, vestito com'era, non lo riconobbi, ma poi lo riconobbi. Era lui." "Chi, lui?" "Benedetto." "Ma chi era Benedetto?" "Il monaco." "Ma che sei pazzo! - Scemo che sei!" fecero l'ortolano e il vaccaro. Jeanne diede allo sciancato una moneta d'argento. "Pensate bene" diss'ella. "Dite la Verità." Lo sciancato si sdilinquì in benedizioni, intercalandovi degli umili "quello che volete, quello che volete, - mi sarò sbagliato, mi sarò sbagliato" e se ne andò con la sequela di pii borbottamenti. Jeanne interrogò ancora il vaccaro e l'ortolano. Possibile che Benedetto avesse vestito l'abito? Ma che! L'accattone era un povero scemo. Se n'andò anche il vaccaro e Jeanne entrò nell'orto, sedette sotto un ulivo, pensando che Noemi avrebbe facilmente saputo del portinaio dove trovarla. Il vecchio ortolano, curioso la sua parte, le domandò con molte scuse se fosse parente di Benedetto. "Perché si sa ch'è un Signore" diss'egli. "Un Signore grande." Jeanne non rispose alla domanda. Volle invece sapere perché si avesse quell'opinione della ricchezza di Piero. Ecco, si capiva dai modi, e anche dalla faccia; una faccia da Signore, proprio. E non s'era fatto monaco? Eh, no. E perché non s'era fatto monaco? Non si sapeva, di certo. Se ne dicevano tante. Si diceva persino che avesse moglie e che la moglie gli avesse fatto ciò che l'ortolano chiamava un brutto gioco. Jeanne tacque e all'ortolano balenò che quella lì fosse la moglie appunto, la donna del brutto gioco, che venisse, pentita, a implorar perdono. "Se questo fatto della moglie è vero" diss'egli allora "la ci avrà avuto le sue ragioni, non dico, ma però come bontà d'uomo, la non ne avrà trovato di certo uno migliore. Guardi, signora, questi padri sono persone sante, non c'è che dire, ma uno buono come lui, né a Santa Scolastica né al Sacro Speco, glielo giuro io, non ci sta, benché c'è don Clemente ch'è santissimo! Però come questo Benedetto, no." A Jeanne tornarono subitamente in cuore le parole dell'accattone: Benedetto, fatto monaco. Perché mai? Si sgomentò che le tornassero in cuore senza una ragione. Non avevan detto quei due ch'era una stoltezza e che l'accattone era uno scimunito? Sì, una stoltezza, lo capiva anche lei; sì, uno scimunito, era parso tale anche a lei; ma le parole stolte battevano e ribattevano al suo cuore, sinistre come maschere dalle facce assurde che battessero al vostro uscio in altro tempo che di carnevale. "Se si trattiene, signora" disse l'ortolano "non passa una mezz'ora che capita. Che! Un quarto d'ora! Sta forse in biblioteca con don Clemente a studiare, o forse in Chiesa." Dalla biblioteca che cavalca la stradicciuola si esce direttamente nell'orto. "Eccolo!" esclamò il vecchio. Jeanne balzò in piedi. L'uscio che mette dalla biblioteca nell'orto si aperse lentamente. Invece di Piero comparve Noemi seguita da un gran frate. Noemi vide l'amica fra gli ulivi e si arrestò di botto, sorpresa. Jeanne nell'orto? Possibile che ...? No, il vecchio che le stava accanto non poteva essere Maironi e nessun altro era con lei. Sorrise, la minacciò col dito. Don Leone, inteso da Noemi che quella era la signora della quale gli aveva detto durante la visita del monastero ch'era rimasta in portineria, prese congedo. Naturalmente le Signore salirebbero al Sacro Speco e la passeggiata del Sacro Speco non conveniva più alla sua mole. Erano quasi le undici, la carrozza doveva trovarsi alle dodici e mezzo dove l'avevano lasciata, perché a casa Selva si pranzava al tocco; se Jeanne voleva vedere il Sacro Speco non c'era tempo da perdere, posto che il suo malessere si fosse dileguato, come pareva. Noemi consigliava così e non s'indugiò a chiedere spiegazioni, in presenza dell'ortolano, dell'aver piantato fra Antonio per correre a esplorare l'orto. Si accontentò di sussurrare: "fingevi, eh?"Jeanne rispose che al Sacro Speco ci doveva andar lei, Noemi, e subito, appunto. Ella intendeva di stare ad aspettarla nell'orto. Noemi indovinò un'altra commedia. "Oh no!" diss'ella. "O vieni al Sacro Speco o, se non stai bene, scendiamo subito a Subiaco!" Jeanne obbiettò che scendere subito era inutile perché non si sarebbe trovata la carrozza; ma Noemi non si arrese. Avrebbero fatto la discesa a grande agio, sarebbero state pronte a salire in carrozza appena venisse. Jeanne rifiutò ancora, più vivacemente, non avendo altre ragioni a opporre. Allora Noemi la guardò in silenzio, cercando leggerle negli occhi un disegno nascosto. In quell'attimo di silenzio Jeanne fu rimorsa nel cuore dalle parole dell'accattone. Prese impetuosamente il braccio dell'amica. "Vuoi che venga al Sacro Speco?" diss'ella. "bene, andiamo. Tu credi una cosa e non sai. Faccia il destino!" Ma prima ancora di muovere un passo si sciolse da Noemi, che la guardava trasognata, scrisse a matita nel suo portafogli: "Sono al Sacro Speco. In nome di don Giuseppe Flores, mi aspetti." Non firmò, stracciò la paginetta, la diede all'ortolano "per quell'uomo, se ritornava" riprese il braccio dell'amica, dicendo: "Andiamo!" Il sole ardeva sulla petraia fumante umidi odori di erbe e di sasso, inargentava i cirri di nebbione erranti lungo i fianchi della stretta valle selvaggia fino al cumulo enorme assiso là sul fondo, a cappello delle cime di Jenne; la voce grande dell' Aniene empiendo le solitudini. Jeanne saliva senza dir parola, senza rispondere alle domande di Noemi più e più sgomentata del suo silenzio, del suo pallore, del vederle le labbra strette a comprimere il pianto, del sentir sussultare il suo braccio. Perché? Nella notte e fino all'entrata di Santa Scolastica la povera creatura aveva ondeggiato fra il timore e la speranza, in una febbre di aspettazione. Adesso era un'altra febbre. Almeno pareva. Pareva che avesse saputo, là nell'orto, qualche cosa di cui non volesse parlare, qualche cosa di penoso, di pauroso. Cosa poteva essere? Il tragico pianto delle acque invisibili, il tremare silenzioso dei fili d'erba per la petraia, lo stesso calore ardente stringevano il cuore. Pochi passi prima dell' Arco ritto a contenere la folla nereggiante dei lecci, Noemi ebbe il conforto di udire voci umane. Erano Dane, a cavallo, Marinier e l' Abate a piedi, che scendevano insieme dal Sacro Speco. Dane mostrò molto piacere dell'incontro, trattenne la sua cavalcatura, presentò le Signore all' Abate, parlò con entusiasmo del Sacro Speco. Jeanne, scambiata qualche parola coll' Abate, gli domandò se qualcuno avesse pronunciato i voti solenni, o almeno vestito l'abito, di recente. L' Abate rispose ch'era venuto a Santa Scolastica da pochi giorni e non era in grado di risponderle lì per lì; ma non credeva che da un anno, a dir poco, nessuno a Santa Scolastica avesse fatto la professione solenne né vestito l'abito di novizio. Jeanne s'illuminò di gioia. Adesso lo capiva, era stata una stupida di dubitare possibile, anche per un solo momento, che Piero fosse diventato frate, da contadino, in dodici ore. Avrebbe voluto ritornare subito all'orto di Santa Scolastica; ma come fare? Quale pretesto prendere? Proseguì, ansiosa di sbrigarsi presto del Sacro Speco. Noemi propose di sostare un poco all'ombra dei lecci che là sulla via delle anime agitate dall'amor divino paiono torti anch'essi da un interno furore ascetico, da un frenetico sforzo di svellersi dalla terra per avventar le braccia nel cielo. Jeanne rifiutò, impaziente. Aveva ripreso colore nel volto e luce negli occhi. Si mise spedita per la scaletta che termina il breve cammino e malgrado le proteste di Noemi, che non capiva il perché di tanto mutamento, non volle neppure riprender fiato in capo alla scala, ove improvvisamente si scopre la scena cupa, profonda della vallea, e alto, a sinistra, l'orrido sasso caro ai falchi e ai corvi, rigonfio sopra le murature squallide, bucate di fori disadorni, che vi s'incrostano per traverso sugli anfratti nudi e sono il monastero del Sacro Speco. Sotto il monastero, nel profondo, pende il roseto di san Benedetto e sotto il roseto pendono gli orti, pendono gli uliveti al ruggente Aniene scoperto. Il cumulo assiso sui monti di Jenne saliva invadendo il cielo. Una ondata d'ombra passò sul sasso enorme, sul monastero, sul parapetto cui Noemi aveva appoggiato i gomiti, contemplando. "Questo è magnifico" diss'ella. "Lasciami fermare un po' qui almeno, ora che c'è ombra!" Ma in quel momento, a due passi da loro, si apriva la porticina del monastero e ne usciva una compagnia di stranieri, signori e Signore. Il monaco che li aveva guidati, vedendo Jeanne e Noemi, tenne aperto l'uscio in atto di aspettazione. Jeanne si affrettò a entrare e Noemi, mal suo grado, la seguì. "Affreschi del Trecento" disse il benedettino nell'oscuro corridoio di entrata, con voce indifferente e passando. Noemi si fermò, curiosa delle pitture antiche. Jeanne tenne dietro al benedettino, senza guardare né a destra né a sinistra, distratta, tentata da un dubbio. Se l' Abate non avesse detto il vero? Se lo avesse detto l'accattone? La fantasia le rappresentò l'incontro felice nel cortile di Praglia, il viso pallidissimo di lui, il "grazie" che l'aveva fatta tremar di gioia. Le correvano brividi nel sangue e, come per una strappata di redini all'immaginazione, si voltò a Noemi: "Vieni" diss'ella. Seguì il monaco nulla udendo di quello ch'egli diceva, nulla guardando di quello che indicava. Noemi dissimulava a fatica le proprie inquietudini. Presentiva un pericolo nel ritorno. Il punto pericoloso era l'orto di Santa Scolastica dove Jeanne intendeva rientrare, secondo aveva detto al vecchio ortolano. Adesso le era passato il desiderio di vedere questo famoso Maironi. Non desiderava che di ritornare con Jeanne a casa Selva senz'aver fatto incontri e avrebbe voluto indugiarsi al Sacro Speco il più possibile perché poi mancasse loro il tempo di sostare a Santa Scolastica. Perciò fingeva prendere alle viscere preziose del monastero dalla squallida pelle un interesse continuo, mentre invece sentiva solamente desiderio di ritornarvi un'altra volta, con sua sorella o con suo cognato, in pace. Nel discendere in quella miniera della santità, né l'una né l'altra sapevano qual via facessero per l'aria morta e fredda, per le ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall'alto, per gli odori di sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di sangue, color di notte, color di neve, di rigide folle pie dalle facce bizantine ingombranti le pareti, i timpani delle arcate, di monacelle e di fraticelli ritti nelle strombature delle finestre, nei pennacchi delle vôlte, lungo il giro degli archivolti, ciascuno con la sua venerabile aureola. Non sapevano quale cammino vi facessero e Jeanne appena ne sentiva la realtà. Nello scendere la Scala Santa, precedendo il monaco seguito immediatamente da Jeanne e Noemi venendo ultima a cinque o sei gradini di distanza, Jeanne, improvvisamente, gittò le mani alle spalle della guida e subito, vergognando dell'atto involontario, le ritolse mentre il monaco, fermatosi, le volgeva il capo, attonito. "Scusi" diss'ella. "Chi è quel Padre?" Fra due ripiani della Scala, dietro un risalto della parete di sinistra, una figura tutta nera nella tonaca benedettina si teneva ritta nell'angolo oscuro, appoggiando la fronte al marmo. Jeanne l'aveva oltrepassata di quattro o cinque gradini senza vederla. S'era voltata a guardare per caso, l'aveva veduta, un istintivo sospetto le era lampeggiato nel cuor tremante. Il monaco rispose: "Non è un Padre, signora." Si chinò ad aprire con la chiave la cancellata di una cappella. "Cosa c'è?" chiese Noemi, sopraggiungendo. "Non è un Padre?" ripeté Jeanne. Nell'udire la voce strana dell'amica, Noemi trasalì. Neppure lei aveva notato la figura ritta nell'ombra della parete. "Chi?" diss'ella. Il monaco, che intanto aveva aperto, intese "qui?" e riferì la parola a un discorso di prima. "No" disse "il ritratto autentico di san Francesco non è qui. Più abbasso c'è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare ..." Noemi disse piano a Jeanne "cos'hai?" e avendo l'altra risposto con voce più tranquilla "niente" le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell'ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall'obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un'arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe. Sull'attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos'avrebbe detto, cos'avrebbe fatto, ella prese l'ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell'andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell'ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell'udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell'ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui. Anch'egli l'aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all'ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta. Ella lo vide e impietrò sull'atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi. Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l'impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell'anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra. Benedetto si recò alle labbra l'indice della sinistra e tese l'altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola SILENTIUM. Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell'indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell' Aniene e del vento. A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l'amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l'amato si recò nuovamente l'indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione. Lo seguì fino alla cappella che chiamano la Chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s'inginocchiò, com'egli accennolle, sull'inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr'egli s'inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell'arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un'alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell'ombra. La voce di lui mormorò appena udibilmente: "Senza fede ancora?" Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose: "Sì." Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce: "La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?" "Se non è necessario di mentire, sì." "Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell'anima da Lei amata?" Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva. "Promette di farlo" riprese Benedetto "se io prometto di chiamarla presso di me in un'ora fissa dell'avvenire?" Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante: "Sì sì." "In quell'ora La chiamerò" disse la voce nell'ombra. "Però non cerchi mai rivedermi prima." Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un "no" soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò: "Sa che don Giuseppe Flores è morto?" Silenzio. Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella Chiesa.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Avvenimenti giocosi e pittoreschi, l' Abbazia degli Stolti ad esempio, la singolare associazione privilegiata ed approvata dal Duca, la quale aveva qui la sua sede, apprestava le pubbliche feste e le pubbliche facezie e attendeva a cariche singolari come la percezione del diritto di barriera tassa che gravava sui novelli sposi che giungevano a Torino. La coppia era fermata precisamente tra queste torri, alla Porta Decumana; l'Abate degli Stolti, con i suoi Monaci si recava incontro agli sposi in pompa magna e con rituale scherzoso fingeva di voler loro impedire il passo: lo sposo doveva sottostare ad alcune formalità e sborsare un tanto per fiorino sulla dote della sposa novella. I Monaci cedevano il passo e la coppia entrava in città. Consuetudini che sanno di lepida farsa; ma l'Abbazia attendeva ancora all'allestimento di feste solenni, di giostre sontuose, quali si sognano soltanto nei poemi cavallereschi; e il cortile antistante al Palazzo si gremiva di popolo plaudente. Gli storici rammentano la giostra allestita a cura dell'Abbazia nel dicembre 1459 tra il Cavaliere errante Giovanni di Bonifacio e Giovanni di Compei, i quali si provarono alle armi a piedi ed a cavallo. Rammentano le splendide feste del 1474 in occasione della elezione del Rettore dell'Università, alle quali era presente la Duchessa Violante di Francia vedova del beato Amedeo IX e quelle per la Marchesa di Monferrato, moglie di Guglielmo VIII. Nel 1500 per le nozze del Duca Carlo Emanuele con Caterina d'Austria - scrive Daniele Sassi - nella sala maggiore del Palazzo si formò un teatro per rappresentare il Pastor Fido del Guarini. Il Duca Carlo Emanuele aveva spirito d'artista, incoraggiava le pubbliche festività, componendo egli stesso azioni spettacolose di soggetto mitologico o marziale. La Corte ne seguiva l'esempio. Così nel gran salone del Palazzo Madama il Conte San Martino d'Agliè produsse un suo Ercole domatore dei Mostri e un Amore domatore degli Ercoli ed altre inventioni il Principe Maurizio, figliolo del Duca, scrisse e recitò il suo Nettuno Pacifico ... Dolce accademia, arcadia di endecasillabi sciolti, di stucco e di tela dipinta! Come si conciliava il "bello stile" con la rudezza guerresca piemontese? Come la letteratura iperbolica con il gaio stuolo illetterato di quei tempi in cui la lingua, italiana era lingua straniera e poche erano le dame che sapessero scrivere il proprio nome o lo scrivevano con quella calligrafia tremula, deforme che oggi distingue soltanto certe serve campestri? Non erano però illetterate le spose dei signori: non era illetterata la moglie di Guglielmo VIII di Monferrato, nè la moglie di Ludovico I, se scrivevano in corretto latino epistole affettuose ai consorti, lontani e guerreggianti; non quella Giovanna Battista di Savoia Nemours che componeva in un dolce francese arcaico strofe piene di sentimento aggraziato, non Cristina di Francia, la prima Madama Reale, che culmina nella storia e nella leggenda. Il solo suo nome sembra evocarne l'ombra imponente; e l'ombra invade gli atri, le scale, i saloni di questo Palazzo Madama, l'occupa tutto come sua dimora, esclusiva, sembra offuscare d'una luce unica i fantasmi leggieri delle altre principesse. "Beauté, douceur, esprit, mémoire, jugement fin, éloquence, libéralité, constance dans le malheur, tout concourait à en faire une princesse, accomplie. Elle s'exprimait avec noblesse et avec grâce en français, en espagnol, en italien. Ses connaissances, variées, sa sagacité d'esprit ne l'empêchaient pas de déférer volontiers aux bons avis. "Quoiqu'elle ne fut pas ennemie des fêtes et des plaisirs, elle se livrait avec assiduité aux affaires d'état les plus graves. Nous la verrons exercer une grande influence durant le règne de son époux, gouverner avec sagesse pendant les onze ans de sa régence, être, toute sa vie, l'âme des affaires. Vêtue en amazone, cette Princesse conduit elle-même au camp de Verole cinq régiments d'infanterie, et deux mille hommes de cavalerie, inspecte les troupes, les exhorte à bien faire, et ne revient à Turin qu'après leur avoir vu prendre la route de Verceil". Così l'ufficioso, e molto timorato storico Jean Frézet, abate di Corte e pedagogo. Certo è che, rimasta vedova giovanissima, lanciata dal destino tra le vicende più tragiche che possano turbare un reame, Madama s'innalza nella nostra fantasia come un'immagine di forza e avvedutezza che pochi regnanti possono vantare. Ella sa equilibrarsi, tra cupidigie opposte, tra nemici formidabili. La Francia da una parte, che è pure la sua patria perduta, la quale l'incalza contro la libertà del Piemonte con la politica subdola, terribile, inesorabile di Richelieu e del fratello Luigi XIII. Dall'altra la fortuna e la libertà del Piemonte che è anche la fortuna e la libertà del figlio superstite, un gracile bimbo di sei anni che ella adora e che sarà col tempo il grande Vittorio Amedeo; dall'altra i cognati: il Principe Tommaso e il Cardinale Maurizio implacabili contro la Reggente. Da questo nodo di cupidigie opposte scoppia la guerra civile del 1640. C'è, di quei giorni, una lettera di Madama, che non si può leggere senza un fremito di commozione e di ammirazione, e che rivela la tempra veramente superiore di quella donna che ha paura d'esser donna Ella deve lasciare per qualche giorno la Cittadella, deve abboccarsi segretamente col fratello Luigi XIII e Richelieu, a Grenoble, per moderarne i disegni crudeli e conciliare il destino di tutti quelli che ama. Essa lascia il figlio piccolino al Marchese di San Germano, lo affida con queste parole che è bene meditare: "Je vous confie le dépôt le plus cher. Ne laissez point sortir monn fils de la Citadelle: n'y recevez pas d'étrangers. Ne remettez cette place forte à personne. Si vous receviez des ordres contraires, fussent-ils revêtus de ma signature, regardez-les comme non avenus. On me les aurait extorqués. Je suis femme . .E altrove, accasciata per un attimo dal destino che minaccia la catastrofe ultima, oppressa dalla malvagità dei più famigliari, scrive al fratello: L'heureux a peu d'amis: le malheureux n'en a point! Je suis femme Com'era? Bella? Nessuna stampa dell'epoca la ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro sogno faccia di tutte le sue effigi una sola, per vederla com'era, o basta sillabare il suo nome, pensarla intensamente ad occhi socchiusi perchè la sua figura si profili contro la parete sanguigna, sotto le vôlte a crociera. Ha una veste nera - non ha deposto le gramaglie più mai, dal giorno che è rientrata in Torino vittoriosa centro i suoi sudditi - la quale l'avvolge graziosamente, con un guardinfante appena accennato: una veste che potrebbe ricordare la foggia odierna se non terminasse alle maniche, alla gorgiera con sbuffi di velo bianco e ondulato. Madama non ha più gioielli. Dato fondo al Tesoro per sostenere le spese della guerra, essa ha venduto i famosi brillanti, dono e retaggio di principi sabaudi, ha venduto "le smaniglie e le boccole pesanti", ha venduto la collana di Ahira, la meravigliosa collana bizantina d'oro massiccio e di smeraldi che gli Avi Cristianissimi avevano portato da Gerusalemme al tempo delle Crociate: " J'aime mieux, mon frère, me passer de joyaux que de lasser mes troupes sans paie ... ". Il volto è circondato da un'acconciatura di tulle nero, alla Holbein, che gli darebbe non so che espressione monacale se sotto non balenassero gli occhi chiari di amazzone, il profilo diritto, la bocca volontaria, la mascella forte: un volto che sembra la maschera dei guerrieri greci, come si sognavano nelle fantasie mitologiche di allora, non il volto d'una Regina, d'una donna segnata dal destino al dolore ed all'amore. L'amore? "Elle eut des envieux, des ennemis qui s'efforcèrent de répandre des nuages sur ses belles qualités: la calomnie n'épargna pas la grande Princesse". L'amore? La immagino dolorante, tragica, combattiva: non la so pensare amante. Se qualche verità c'è in fondo alla calunnia e alla leggenda, se in un'ora di sconforto supremo ella ha piegato la bella fronte virile sulla spalla di qualche amico, certo deve essersi sollevata subito, conscia del suo destino, deve aver ripetuto fieramente al favorito d'un'ora le parole che scriveva al Marchese di San Germano: "Regardez-les (trattati politici o baci che fossero) - regardez-lecorame non avenus, on me les aurait extorqués. - Je suis femme".

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 1 occorrenze

Il capo dei goti gli ha lato licenza di riscattarli e di condurli con sé nella vicina abbazia, dove essi rimarranno e che egli ha promesso di rispettare. - Coleremo i calici; daremo loro i vasi sacri, fatti a pezzi. Il Signore non ha bisogno di quei vasi; egli preferisce abitare nei vostri petti, che sono il suo tempio vivo ed eletto, non fatto da mano umana ma creato da lui, per la sua gloria, osserva. E pò; dice loro, che i goti hanno promesso di non piiù bruciare, di non uccidere, di non fare schiavi; si accontenteranno di prelevare dalla popolazione il necessario alla vita, nella loro grande marcia verso Roma. Il giovane monaco avvicinò l'agricoltore. ? Publio mio! ? gli disse, gettandogli le braccia al collo. - Romano! Tutto, tutto perduto! - Hai perduto beni terreni. Dio ti darà in cambio beni eterni, fu la dolce risposta. ? La mia casa? ? La rifabbricherai. ? Le mie messi? - Ti è rimasta la terra, questa buona madre. Essa avrà compassione di te, ti sarà grata del tuo lavoro e ti produrrà centuplicati frutti. ? Le mie mandrie? - Il Signore provvederà. - E la mia donna? - Sei ammogliato? - Dovevo prendere moglie appena messo al sicuro il raccolto. - Se ti ama ti prenderà anche povero. - Non posso più prenderla. ? E' morta? - I barbari ... e non potè continuare. - Dove si trova? chiese il giovane monaco pieno di compassione. Il fratello gli indicò la bella contadina, che guardava confusa il suolo, in uno stato che rasentava la pazzia. - Insegna sant'Agostino, che la vera verginità risiede nel cuore. Gì'impudici abbracci dei barbari non ne hanno diminuito il candore. Prendila. ? E' stata d'altri. - Ha sofferto ingiuria, come l'hai sofferta tu, come l'hanno sofferta mille e mille, come l'ha sofferta questa povera terra, che noi tanto amiamo. Prendila! Il tuo amore le sia di conforto nelle sue amarezze. Il fratello non risponde. ? E tu? domanda piuttosto. Il bell'occhio profondo del giovane brilla d'infinito entusiasmo. ? Sono felice! esclama. ? Hai trovato? - Quanto cercava. La terra sospirata dai miei sogni; la patria terrena, che mi fa pregustare le dolcezze dell'eterna; un padre buono, fratelli dolcissimi, all'ombra della chiesa, secondo la regola del mio santo padre Benedetto, benedetto davvero, dal quale venne a me ed «I mondo tanta pace, tanta benedizione! I goti conducono i prigionieri alla non lontana abbazia, Un colle, anticamente selvaggio, od ora reso fertile dal lavoro di monaci industriosi. Una chiesa semplice, ma vasta, tutta candore, con un grande coro ed un altare coperto di veli; attorno a quella alcuni piccoli edifici: il dormitorio dei monaci, la biblioteca ricca di volumi, da l'oro pazientemente copiati, la scuola, la troppo modesta cucina. E fra quegli edifizi si aggirano parecchi monaci, vestiti di bianco, provetti alcuni negli anni e quasi cadenti, altri ancora giovani e quasi fanciulli, ma tutti spiranti la stessa pace di paradiso. I goti ne sono colpiti. Chinano rispettosi il capo avanti a tanta pace e non osano venir meno alla parola data. L'abbate rompe i vasi sacri e da loro quell'oro, quelle gemme. Lo fa senza alcun rimpianto, abbenchè quei vasi fossero la sua delizia. Ne era tanto fiero. Li aveva fatti fondere coi gioielli della sua defunta madre, lieto di poter offrire un calice, degno di ricever il sacrosanto sangue del Signore. Ma avrebbe dato non solo quei calici, ma furto se stesso, la propria libertà, la propria vita, per riscattare anche uno solo di toro. I goti accettano l'oro e partono. I prigionieri vengono assistiti dai monaci e l'agricoltore comprende, che l'opera di san Benedetto è la grande salvezza della scienza, dell'arte, della libertà d'Italia; che quei santi monaci sono i custodi vigili del pensiero cattolico ed italiano; che sicurezza e libertà non havvi che all'ombra delle loro abbazie. Non sente voglia di ritornare alla sua terra devastata, ma decide di rimanere all'ombra dell'abbazia. Giura, nella Chiesa bianca, fede incrollabile alla sua sposa, che mai gli sembra così pura e così degna di amore come ora, che ha sofferto tant'onta; che vuole consolare, col suo maschio amore, per l'onta subita, ed incomincia a diradare una foresta abbandonata, a coltivare la fertile terra, a edificare un rustica casa; lieto di trovarsi anche là in Italia, perché sa che là, dove si trova anche un solo italiano, vi è pure l'adorata madre Italia......

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 5 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Domani messer Baldo, il nostro dottore, redigerà una lettera per l'Imperatore, nella quale io chiederò che sieno aggiunti alla nuova abbazia alcuni terreni e borghi vicini. Tu, intanto, pensa a qual Santo desideri sia dedicato il monastero. Il vecchio signore prese fra le mani tremule la fiera testa di Sofia, e la baciò sulla fronte. La giovane signora si ritirò in camera sua e trasse da un vecchio mobile di quercia un libro, ornato di figure di santi. Ella non sapeva leggere, ma dalle immagini miniate dalla mano abile di un monaco Camaldolense, ricavava la storia dei martirî e dei miracoli di molti beati. Il suo occhio si fermò specialmente sopra una pagina in cui era raffigurata la testa sanguinante di san Giovanni Evangelista, deposta sul bacino, pure insanguinato. Ed a Sofia parve che gli occhi di quella testa la mirassero supplichevolmente e che due lacrime scorressero su quelle livide guance. - Ecco il Santo al quale dedicherò la nuova abbazia! - disse la giovane. - E in memoria del frate Camaldolense, che ha delineato la testa di san Giovanni Evangelista, le mie monache seguiranno la regola di san Romualdo. Quella notte Sofia non sognò altro che la testa insanguinata della vittima di Erode, e si vide vestita del lungo abito bianco dell'ordine, alla testa di una numerosa processione di monache. La mattina dopo, ella scese il ponte levatoio del castello per recarsi sul luogo ove desiderava sorgesse il suo monastero. Era seguita soltanto da due valletti e dal padre confessore. Sofia aveva fatto pochi passi lungo i fossati del castello, quando vide distesa in terra una bianca mula, sfinita di forze e tutta coperta di guidaleschi sulla schiena e sulle gambe. Pareva che la povera bestia stesse per mandare l'ultimo respiro; ma quando vide Sofia, fece uno sforzo supremo e, riunendo i quattro piedi, si alzò all'improvviso e le si accostò nitrendo. La giovane strappò pochi fili d'erba secca sulla proda del fossato e li offrì alla mula, la quale, barcollando e tentennando il capo, li prese e si diede a masticarli. Sempre barcollando sulle malferme gambe, la povera bestia seguì Sofia fino al luogo ove ella aveva in mente di costruire il monastero, e giunta colà cadde di botto in terra. La signora ordinò a uno dei valletti di tornare al palazzo e di chiedere una barella con quattro portatori robusti per trasportare nella stalla la bestia sfinita. I portatori giunsero: ma per quanti sforzi essi facessero, non riuscivano a movere la mula. Allora Sofia, sentendo che il vento soffiava gelato dai monti e vedendo che la neve incominciava a turbinare, ordinò agli uomini di non turbare l'agonia di quel povero animale e di fargli con alcune frasche un riparo, tanto per non lasciarlo seppellire dalla neve. Gli ordini di Sofia vennero subito eseguiti. Fu portato acqua e fieno alla mula, le fu gettato una coltre addosso, e soltanto quando la ragazza vide che nulla mancava alla bestia ammalata, ritornò al castello. Quel giorno stesso il conte Guido di Pratovecchio mandava all'imperatore Lotario, un messo recante una lettera, con la quale egli chiedeva la creazione dell'abbazia di San Giovanni Evangelista, dell'ordine di San Romualdo, nonché l'investitura di quell'abbazia per la figlia. La risposta dell'Imperatore doveva farsi aspettare molto tempo, ma quel periodo d'aspettativa non doveva parer lungo a Sofia; poiché in essa si compierono avvenimenti così meravigliosi che la tennero occupata notte e giorno. La mattina dopo, nonostante che la neve ricoprisse il terreno, ella uscì con la solita scorta per andare a visitare la mula; ma aveva appena varcato il ponte levatoio, che l'animale incominciò a nitrire in segno di gioia. - Madonna, questo è un miracolo! - esclamò il giovine Corrado da Barberino, uno dei valletti che l'accompagnavano. - La mula è viva e io non avrei dato un soldo della sua carcassa, tanto era rifinita. La mula, infatti, non soltanto era viva, ma se ne stava ritta gagliardamente sulle quattro zampe e con le narici fiutava il vento, come se fosse impaziente di slanciarsi alla corsa. I guidaleschi in quelle poche ore erano sanati come per incanto; e l'animale, ringagliardito, dimostrava di non essere una mula comune, ma di quelle bensì che servivano di cavalcatura ai papi, agli abati e alle dame nobili. Sofia la condusse al castello e la fece collocare nella stalla dove si tenevano i cavalli del Conte; le fece fare una morbida lettiera, e ordinò alle sue donne di trapuntarle una ricca gualdrappa di panno cremisi. Da quel giorno Sofia non ebbe altra cavalcatura, e la mula era così agile e sicura che nessun cavallo la vinceva alla corsa, e nessuno s'inerpicava meglio di lei su per le vie scoscese dei monti. Intanto era incominciata la costruzione della chiesa dedicata a san Giovanni Evangelista e del monastero. Sofia andava ogni giorno a vedere i lavori, impartiva ordini, e il conte Guido era più impaziente di lei di veder presto terminato quell'edifizio, che doveva servire d'asilo alla diletta sua figlia. Quando giunse la risposta affermativa dell'imperatore Lotario, già l'edifizio, che aveva più l'aspetto di una fortezza che di un monastero, era coperto, e non rimaneva altro che da benedire la chiesa. Nel nuovo monastero Sofia aveva fatto costruire, sotto la camera sua, una bellissima stalla per la mula. Nell'impiantito stesso della camera vi era una bodola, e sotto a quella una scaletta che metteva nella stalla, per modo che la Badessa potesse scendere direttamente dalla mula e, all'occorrenza, salirle in groppa e correre colà dove il bisogno la chiamava. Poiché Sofia non aveva dimenticato che doveva essere la difesa del fratello e dei beni della famiglia. Appena si seppe in Casentino che la figlia del conte Guido fondava un monastero, giunsero numerose le domande di ammissione per parte delle fanciulle di nobile casato, che preferivano la vita calma del chiostro a quella agitata dei castelli; e il giorno che l'abate scese in gran pompa dall'Eremo di Camaldoli per benedire la chiesa e il convento, già venti ragazze nobili facevano corona a Sofia, e molte contadine, che si contentavano dell'umile ufficio di converse. Il conte Guido e la contessa Emilia vollero che la cerimonia fosse oltre ogni dire sontuosa e non trascurarono di donare alla chiesa ornamenti preziosi, croci, calici, lampade, candelabri e paramenti sacri. Pochi giorni dopo che Sofia ebbe vestito l'abito bianco dell'ordine di San Romualdo, il vecchio Conte spirò fra le braccia de' suoi, raccomandando anco una volta alla figlia di vegliare sulla madre, su Ruggero, sul loro castello, sui terrazzani. Furono fatte solenni esequie, e il corpo del Conte venne deposto nell'avello della chiesa, sotto la custodia della badessa Sofia. Appena il vecchio ebbe chiuso gli occhi, incominciò a destarsi la cupidigia del signor di Porciano. Tutti sapevano che Ruggero era molto debole, e in quei tempi, in cui la forza e la prepotenza equivalevano al diritto, pensavano che un feudo così importante non doveva rimanere nelle mani di chi non sapeva difenderlo. Si armarono dunque, tanto il Conte, che era un fiero cavaliere, quanto i quattro figli, e scesero dalle loro balze seguiti da una turba di soldati, per assediare all'improvviso Pratovecchio, che credevano indifeso, e impadronirsene. Ma Sofia vegliava, e soprattutto vegliava la mula. Appena i signori di Porciano erano scesi dal loro castello, la mula s'era messa a raspare con le zampe, a sbuffare e a nitrire, e Sofia, che credeva fermamente che quell'animale le fosse stato inviato da san Giovanni, si insospettì, e nel cuor della notte corse al castello per prepararlo alla difesa; guarnì di uomini armati tutte le feritoie, e dopo aver dato gli ordini che credeva opportuni, ritornò al monastero e fece sonare a stormo. Da ogni parte giungevano i terrazzani dipendenti dall'abbazia, ed ella, che aveva nelle mura del chiostro un vero arsenale da guerra, li armava e li incitava alla difesa. Così quando i signori di Porciano sbucarono davanti al castello per assalirlo, ella, spiegando il gonfalone su cui era trapunto il capo di san Giovanni Evangelista, montata sulla bianca mula, andò loro incontro alla testa dei suoi uomini armati. - Perché giungete con tanto apparato di guerra, Conte? - domandò Sofia fermandosi a pochi passi dal signor di Porciano. - Quale offesa vi fu fatta da mio fratello o da me? - Io non sono uso di trattare di faccende guerresche con femmine, - rispose il Conte. - Rientrate, dunque, madonna, nel vostro monastero e pensate alle cose dell'anima. - Ci penso quando non ci minaccia nessun pericolo; ma ora non ho altra cura che quella della difesa. Una risata di scherno partì dalle file dei porcianesi. Sofia si sentì ribollire il sangue nelle vene e, afferrato lo scudo e la spada che le offriva il giovine valletto Corrado da Barberino, mosse ardita contro i nemici, gridando: - Per san Giovanni Evangelista, a me, miei fidi! La mula non corse, ma volò a gettarsi nella mischia. Sbuffava, rompeva le file dei combattenti, colpiva con la testa e con le zampe quanti cavalli le si paravano dinanzi, mentre la spada di Sofia faceva strage dei nemici. Quella donna vestita di bianco e quella mula bianca parevano un solo fantasma distruggitore. La spada di Sofia, che mandava lampi, s'immerse nel collo del conte di Porciano, dopo aver ferito molti dei suoi. Un grido di sgomento partì subito dalle file degli assalitori, vedendo cadere il loro capo, e tutti si diedero a fuga precipitosa nella campagna. Sofia, sventolando il gonfalone in segno di vittoria, ordinò ai suoi di raccogliere il ferito e di portarlo al monastero, dicendo: - Se i signori di Porciano vorranno il loro capo, debbono venirlo a prendere nel castello. Gli ultimi fuggiaschi dovettero udir certo queste parole di sfida, perché due giorni dopo, chiesto rinforzo ai loro dipendenti, signori dei piccoli castelli sulle balze dell'Appennino, si presentarono ben più forti della prima volta, e mandarono un messo a Sofia, dichiarandole che volevano misurarsi a corpo a corpo con il conte Ruggero, e non con una monaca che chiamava in suo aiuto il Cielo ... e magari l'Inferno. Sofia ricevé il messo, non nella sala della sua abbazia ma nel cortile del castello, mentre ritornava da una ispezione alle terre, nella quale si era trascinata dietro il fratello. - Direte al vostro signore che domani all'alba il signor di Pratovecchio scenderà in campo aperto attendendolo. Egli parla mal volentieri, ma si batte con piacere, e quando avrà scavalcato il primogenito dei signori di Porciano, affronterà il secondogenito, il terzo e anche il quarto, - rispose la fiera monaca. Il messo s'inchinò e fu riaccompagnato, dai valletti e dagli uomini armati, al di là del ponte levatoio. Sofia, appena il messo fu andato via, corse a sostenere il fratello, che stava per perdere i sensi. - Perché, - diceva egli con voce tremante, - perché hai fatto a nome mio quella promessa? Io non mi batterò mai; morirei se dovessi scendere in campo! - Calmati, signore, - rispose la Badessa con un sorriso di scherno. - Se ho promesso, manterrò, e il cavaliere che scavalcherà il signor di Porciano, sarò io e non tu. Dopo aver detto questo, ricondusse Ruggero alla madre più morto che vivo, ed alla Contessa raccomandò di vegliare sul figlio, poiché era in uno stato miserando. Poi ella distribuì armi, assegnò a ogni uomo il proprio posto e, scelta nella sala d'armi una forbita armatura, una spada, un'asta, un pugnale e uno scudo, se li fece recare al monastero, ordinando che le porte del castello fossero sbarrate e non si aprissero altro che se ella avesse sventolato il gonfalone con san Giovanni Evangelista. Nel monastero ella fece pure preparativi di guerra, schierò dinanzi a quello e al palazzo buon numero d'armati, e prima dell'alba, vestita l'armatura e inforcata la sua mula, scese in campo. Il figlio primogenito del prigioniero non tardò a giungere, e, schierati i suoi uomini dal lato opposto di quelli di Pratovecchio, salutò il cavaliere nemico, e il duello ebbe principio con l'asta. Sofia, portata dalla mula impaziente, fu addosso in un momento al cavaliere, e l'urto che questi ricevé dall'asta della Badessa e che il cavallo si ebbe dalla mula, li fecero precipitare per terra. Quando i fratelli del caduto videro questo, accecati dall'ira, piombarono subito sopra a Sofia, e dietro a loro si avanzò un forte drappello di soldati per aiutarli. I colpi piovevano come grandine sul morione e sull'armatura della Badessa, la quale non poteva neppur sollevare il braccio per difendersi, ma intanto la mula sbuffava, calciava, calpestando il corpo del caduto, che spirò fra atroci dolori. Appena l'anima di lui fu uscita dal corpo, la mula si sollevò da terra come se fosse stata un uccello, sgominando a calci i nemici, e poi depose Sofia in un punto poco lontano dove potesse servirsi delle armi contro di loro. Oltre il primogenito dei signori di Porciano, la prode Badessa scavalcò anche il secondogenito, e avrebbe vinto anche gli altri due, se essi, sgomenti, non si fossero dati alla fuga. Allora ella prese dalle mani di Corrado da Barberino il gonfalone con la testa di san Giovanni Evangelista e lo sventolò in segno di vittoria, invitando i suoi a inseguire i fuggiaschi. Questi, il giorno dopo, vennero umili a chieder pace. Domandavano il cadavere del loro fratello morto, la liberazione del padre e la consegna dell'altro fratello ferito. In cambio offrivano terre e molto denaro. Il messo fu ricevuto da Sofia in abito da cavaliere. Ella accondiscese ai patti, purché i signori di Porciano promettessero che non avrebbero più molestato i signori di Pratovecchio. Queste condizioni le dovevano scrivere, e aggiungere che sarebbero sleali qualora non le mantenessero. Le promesse non costano nulla e si fanno facilmente, ma è più agevole romperle che osservarle, e questo avvenne per i signori di Porciano. Appena riebbero i loro prigionieri, pensarono di vendicarsi. Ormai avevano scoperto che era stata Sofia, la fiera Badessa, che li aveva vinti, e quest'umiliazione inflitta loro da una donna non potevano inghiottirla a nessun costo. Ma che Sofia fosse valente nelle armi, non potevano negarlo, e non volevano misurarsi con lei per non esporsi a nuova vergogna; perciò occorreva rapirla e farle pagare con una lunga prigionia, e forse con la morte, la baldanza dimostrata. Sofia era troppo schietta per supporre che i signori di Porciano macchinassero contro di lei un tradimento, e non poteva supporre che quattro cavalieri, tra cui un vecchio, mancassero alla parola data e si esponessero ad esser accusati da ognuno di fellonìa. Non temendo dunque nessun attacco, ella si dava alle cure del suo monastero, agli esercizî spirituali, e nelle ore che le rimanevano libere, visitava la madre ed il fratello, il quale diveniva ogni giorno più effeminato e quasi stupido. Una sera dunque, mentre se ne tornava dal palazzo all'abbazia pensando alla triste impressione ricevuta nel trovare il fratello curvo sul telaio a ricamare un velo di seta come una femminuccia, vide uscir fuori da un ciuffo d'alberi un branco d'uomini armati. Prima che avesse il tempo di gridare, essi l'avevano legata, imbavagliata, e buttata come un sacco in groppa a un cavallo; poi si erano allontanati, portandola seco prigioniera. All'abbazia aspettarono un pezzo la Badessa, ma quando non la videro giungere, inviarono a cercarla dovunque. - Che cosa sarà successo? - si domandavano le monache fra di loro. Andarono nella camera, era vuota; scesero nella stalla, la mula era legata alla mangiatoia; soltanto sbuffava, raspava, e dagli occhi mandava lampi. Finalmente die' uno strattone alla corda, la quale si spezzò; allora la mula aprì con una zampata la porta della stalla, uscì nel cortile, e con un lancio saltò al di là delle mura dell'abbazia e dei fossati, e via a corsa sfrenata verso Porciano. Le monache, vedendo l'animale in tanta furia, si sbigottirono e, cessate le ricerche, si riunirono in chiesa, davanti a una immagine di san Giovanni Evangelista, che fecero ornare di lumi, e rimasero là in orazione per molte ore. Intanto la mula correva verso Porciano senza toccar quasi il terreno, tanto aveva il piede svelto. Giunse al castello che era già notte buia, e il ponte levatoio, abbassatosi per lasciar passare Sofia e i rapitori, era rialzato. La mula spiccò un salto, varcò il fossato, imboccò la pusterla, rovesciando quanti incontrava, e si fermò davanti all'uscio sbarrato di un sotterraneo. Pareva che udisse una voce a lei nota, perché drizzava le orecchie, sbuffava e calciava contro l'uscio per farsi sentire. Gli uomini d'arme, spaventati nel vedere quell'animale bianco, infuriato, si rinchiusero frettolosamente in una stanza, altri si affacciarono al ballatoio della scala, ma non ebbero coraggio di scendere, e intanto la mula continuava a fare un rumore d'inferno davanti alla porta del sotterraneo. Accorgendosi che l'uscio resisteva ai calci, l'animale s'inferociva sempre più, e imboccata la scala, la salì di corsa e penetrò come un fulmine nella grande sala del palazzo, dove i giovani signori di Porciano erano aggruppati intorno al padre, ridendo per essere riusciti nell'impresa di mettere in gabbia la fiera Badessa. Nel vedere la mula bianca, il vecchio Conte e i figli mandarono un grido di terrore e cercarono di rifugiarsi in altre stanze; ma la mula li rincorreva, li spingeva contro il muro, li gettava in terra e poi a suon di calci, di morsi, di zampate li uccideva. Quando li vide tutti distesi come tanti cenci per terra, scese la scala, e afferrato con i denti il carceriere, che traversava il cortile per darsi alla fuga, lo trascinò davanti all'uscio del sotterraneo e non lo lasciò andare altro che quando questi ebbe aperta la prigione. Allora la mula si diede a nitrire, e Sofia, udendola, salì l'angusta scala scavata nel masso, balzò in groppa all'animale, e poco dopo giungeva sana e salva alla sua abbazia e faceva suonar le campane per avvertire il popolo di Pratovecchio di armarsi; ma non ce n'era bisogno, perché quelli di Porciano avevano da seppellire i loro signori, ed era tanto il terrore che sentivano per la mula, che non avrebbero mai più osato di avvicinarsi all'abbazia e al castello. Dopo questo fatto nessuno turbò più la vita tranquilla di Sofia. Sua madre e il fratello Ruggero si spensero placidamente, e la Badessa sola rimase a guardia del castello. Ella visse lungamente e la mula si mantenne sempre forte e agile tutto il tempo che Sofia rimase a questo mondo. Nell'abbazia e in tutto il Casentino si attribuiva a miracolo quel lungo vivere di un animale, e si diceva che la Madonna e san Giovanni Evangelista avevano mandato quella mula a Sofia per aiuto e sostegno nelle vicende di una esistenza divisa fra le cure del monastero e la difesa di vasti feudi. Infatti il giorno in cui Sofia si spense, la mula ruppe la cavezza e fuggì via, né di lei si seppe altro. Morta la Badessa, ricominciarono gli attacchi al castello e all'abbazia, finché l'imperatore Corrado, che era succeduto a Lotario, non ebbe dato quel feudo a un altro conte Guidi. E così la novella è finita. Ma se la novella era terminata, la veglia non si sciolse subito, perché la Carola aveva preparato la pasta per fare i necci, e appena Regina ebbe cessato di parlare, prese i testi, li arroventò, li rivestì di foglie di castagno e poi, versatavi sopra la pasta, li mise per un momento al fuoco. Quei necci bollenti sono la ghiottoneria dei bimbi dell'Appennino toscano, e anche dei grandi. La Carola ne distribuì a tutti una certa quantità, coprendoli di burro fresco; per i grandi mise fuori una bottiglia di vin santo, e la veglia si protrasse lungamente. A un certo punto, mentre tutti mangiavano, comparve la matrigna di Vezzosa. - È questa un'ora da stare fuori di casa? - disse alla figliastra senza neppur dar la buona sera. - Via subito! Vezzosa si alzò per ubbidire, ma la Carola la trattenne. - Finché è con noi, voi non le potete far rimproveri, - disse alla vecchiaccia. - Andate pure a letto e non vi date pensiero; la riaccompagnerà Maso. La donna se ne andò scorbacchiata, rifiutando di accettare i necci e il vino, e Cecco si accostò a Vezzosa per dirle: - Sai, fra tre domeniche è Pasqua; ci hai poco più da tribolare, abbi pazienza! Ella gli rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e non disse nulla. Il martirio era per finire, e ormai la pazienza non le mancava più.

poiché in quella notte era consuetudine dei Marcucci che i giovani andassero alla messa notturna alla abbazia di San Fedele, sul monte dove s'erge gigante il castello di Poppi, con la sua immensa torre che si vede quasi da ogni punto del Casentino, e i piccini rimanessero a casa a far compagnia alla nonna, la quale li teneva desti narrando loro fiabe meravigliose, che ella aveva udito a sua volta dalla propria nonna e dalle vecchie del vicinato. Il maggiore dei figli della Regina, l'austero Maso, che faceva da capoccia dopo la morte del padre, li comandava tutti a bacchetta; egli si alzò e, aprendo la porta della cucina che guardava sulla aia, disse, rivolto alla moglie e alle altre donne: - La nottata è brutta e la neve è tutta ghiacciata, che vogliamo fare? Mentre Maso teneva ancora l'uscio aperto strologando le nubi, che correvano da tramontana, un soffio di vento gelato penetrò nella cascina e fece rabbrividire grandi e piccini. Ma la Carola era stata pronta a dire: - E da quando in qua il freddo e la neve ci mettono paura? Alla messa di Natale ci siamo sempre andati e ci andremo anche stanotte, se Dio vuole. La Carola, come moglie del capoccia, godeva in famiglia di una certa autorità; così le altre donne annuirono con la testa, e mentre ella si alzava per vedere se le ballotte eran cotte nel paiuolo, le cognate salirono al piano superiore a prendere lo scialle, il rosario e i cappotti di panno pesante foderati di flanella verde dei rispettivi mariti. Quando esse riscesero, la Carola aveva già posato il paiuolo in tavola, dopo averne scolato l'acqua, e con una mestola di legno distribuiva ai bambini le castagne. Anche le cognate se ne empirono le tasche dei grembiulini di rigatino, e quando Maso disse: "Dunque, vogliamo andare?" tutti si strinsero bene sotto il mento il fazzoletto di lana a colori vivaci, e su quello si misero lo scialle di flanellone. - E tu non vieni? - domandò Maso a Cecco vedendo che s'era seduto di nuovo sulla panca nel canto del fuoco. - Sentirò tre messe domani, per ora resto qui; è tanto che non ho più fatto il Natale a casa, e mi struggo di sentir raccontare dalla mamma la novella dello scettro di re Salomone e la corona della regina Saba. Cecco non diceva tutto il suo pensiero. Tornato a casa dopo tre anni passati al reggimento, parte ad Alessandria, parte a Palermo, aveva trovata la sua vecchietta molto deperita, e il timore di perderla da un momento all'altro lo aveva assalito tanto da inchiodarlo a fianco della mamma in tutte le ore che non lavorava. E anche quando era nel campo, pensava sempre: "La troverò viva quando torno a casa?". Quel pensiero angoscioso e continuo gl'impediva d'imbrancarsi con gli amici e di andarsene a veglia nei casolari vicini, dove il bell'artigliere sarebbe stato festosamente accolto dalle ragazze, curiose di sentir parlare della vita di città e delle avventure militari. Maso aprì l'uscio e s'incamminò alla testa della comitiva, composta delle cognate, dei fratelli e dei tre ragazzi maggiori, ormai giovinotti anch'essi. Appena tutta quella gente fu uscita, Cecco andò a sedersi accanto alla Regina, e mettendole una mano sulla spalla, le disse scherzando: - Badate, mamma, la novella la so quasi a mente, e se non la raccontate bene, vi tolgo la parola e la narro io! Vi rammentate quante volte sono stato a occhi spalancati, con le gomita sulle ginocchia, a sentirla? - Quelli erano bei tempi! - sospirò la vecchia. - Allora era vivo il babbo tuo, tutte le figliuole erano in casa e io non ero così grinzosa. - Nonna, la novella! - dissero i piccini, che erano tutti ansiosi di udire per la centesima volta il meraviglioso racconto, che aveva sempre la virtù di commuoverli. La vecchietta finì di sbucciare una castagna, e dopo che l'ebbe data alla minore delle nipotine, prese a dire con la voce dolce e il purissimo accento, proprio degli abitanti delle montagne toscane: - Dovete sapere che al tempo dei tempi arrivò un giorno a Montecornioli un vecchio con la barba bianca, i capelli lunghi che gli scendevano fin quasi alla cintola, vestito di una cappamagna di seta e con un turbante in testa. Questo vecchio cavalcava una mula bianca e dietro a lui veniva un carro tutto coperto trascinato da un paio di bovi, e guidato da un altro vecchio, pure con la barba lunga e i capelli lunghi, ma vestito più miseramente. Attorno al carro cavalcavano cinque uomini armati di lancia, e tenevano a distanza chiunque si volesse accostare. Né l'uomo dalla cappamagna, né il carro, né i soldati erano stati veduti passare per il Casentino. Essi erano arrivati a Montecornioli senza valicare l'Appennino, senza battere le strade maestre. La gente li aveva veduti soltanto sul Pian del Prete, quando salivano la vetta di Montecornioli. Poi erano spariti col carro dentro un vano, che mette a una grande caverna. Soltanto l'uomo dalla cappamagna era rimasto a guardia di quel vano, e la mattina, quando i montecorniolesi si alzarono, rimasero a bocc'aperta nel vedere che, proprio in quel punto, dove prima non crescevano nemmeno le cicerbite e i cardi, era sorta, come per incanto, una casetta con le finestre chiuse e la porta sbarrata. La mia parola sarebbe insufficiente se volessi dirvi la meraviglia che destò in tutti la comparsa in paese di quella comitiva, e poi il veder sorgere quella casetta dalla sera alla mattina. Prima accorsero a Montecornioli, per sincerarsi del fatto, gli abitanti di Poppi e di Bibbiena; poi quelli di Certamondo, di Romena, di Pratovecchio, di Stia; e finalmente vennero anche da lontano. Ma guarda e riguarda, non vedevano nulla, e la casa rimaneva chiusa come se dentro non ci stesse nessuno. Però i più curiosi, mettendo l'orecchio contro il buco della chiave, sentivano un rimuginìo di monete e certe parole che nessuno capiva. Venne l'inverno, e la casa, che era bassa, rimase quasi nascosta nella neve. Quel mistero dei sette uomini seppelliti in quella caverna, metteva in moto tutti i cervelli e faceva dimenare tutte le lingue. Ci fu un montecorniolese più curioso dei suoi paesani, un certo Turno, che, senza dire nulla a nessuno, si mise in testa di scoprir quel mistero, e, aspettata una notte che non ci fosse luna, s'infilò un coltellaccio alla cintura, prese un'asta più lunga di lui, e si avviò alla casetta. Era buio come in gola al lupo e il vento mugolava nelle insenature dei monti e spazzava giù una neve fine fine e gelata, che tagliava la faccia a Turno; ed era giusto che fosse freddo, perché era appunto la notte del Natale. I rami degli alberi, sfrondati, battevano fra loro facendo un rumore di ossa cozzate insieme, e, un po' il buio, un po' quel mugolìo del vento, e più di tutto quel rumore, gelarono il sangue a Turno; ma la curiosità fu più forte della paura ed egli si accostò alla casetta misteriosa. Quando fu lì, avvicinò l'occhio al buco della serratura, ma non vide nulla; allora vi pose l'orecchio, e sentì un tintinnìo d'oro e di argento e un parlare strano, che egli non capiva. Stette così un pezzo, incerto se doveva bussare o no, ma finalmente, vedendo il fumaiolo del camino, dal quale non usciva punto fumo, salì sul tetto per tentar di penetrar con l'occhio nella stanza. La neve alta attutiva i suoi passi, e siccome il tetto era basso, con poca fatica vi salì; ma capì subito che non era riuscito a nulla, perché dal fumaiolo si vedeva il focolare spento e basta. Turno però, che aveva le scarpe grosse e il cervello fine, pensò: "È tardi, e prima o poi questi uomini misteriosi andranno a letto. Anche a contare i quattrini finiranno per stancarsi, e allora io, che sono secco come un fuscello, mi calo giù per la cappa del camino e mi levo da dosso questa curiosità, che non mi dà pace". Infatti si accoccolò come meglio poté da un lato del fumaiolo, a riparo dalla neve e dal vento, e aspettò. Ma aveva un bell'aspettare! Quelli di giù, conta che ti conto, non finivan mai di maneggiar monete e di ciarlare. A un tratto cessò il rumore, i lumi furono spenti giù nella stanza, e tacquero tutti i discorsi. In quello stesso momento, al castello di Soci scoccò la mezzanotte. "Ho capito, - pensò Turno, - sono stregoni, e a quest'ora se ne vanno in giro; tanto meglio, così vedrò senz'essere disturbato; aspettiamo." Ma non ebbe molto da attendere perché di lì a poco fu colpito da un gran chiarore e si vide passar davanti agli occhi una figura tutta bianca e lucente, e dopo questa una seconda, una terza, e poi tante e tante. Avevano i capelli biondi e inanellati, due ali bianchissime attaccate alle spalle, e portavano in mano una cesta coperta. Appena sbucavan fuori dal fumaiolo, si dirigevano verso un casolare o un villaggio. Le più volavano alto alto e poi sparivano fra le macchie di faggi o d'abeti verso l'Eremo di Camaldoli, nei punti dove sono le case dei carbonai o dei mulattieri. - Sono angioli! ... - diceva fra sé Turno. - E io che li avevo creduti stregoni! E quando ne ebbe veduti uscire un centinaio, e che gli parve che non ne dovessero venir più su per la cappa del camino, Turno si legò una corda alla cintola, fermò quella fune intorno al fumaiolo e si calò giù. La cucina era grande e, a giudicarne dalla sua vastità, doveva essere l'unica stanza della casa; ma sulle due lunghe tavole e sulle panche non c'erano né monete né altro. Dirimpetto all'uscio che metteva sulla campagna, v'era una specie di vôlta chiusa da un sasso. Turno staccò un lumicino di ferro dal muro, e dopo aver girata la pietra, entrò in un corridoio buio. Egli camminò per un pezzo, sempre in discesa, e finalmente sboccò in una caverna bellissima che pareva una sala. La vôlta era tutta tempestata di ghiaccioli di cristallo di forma curiosa, e nel mezzo c'era una grandissima colonna, tanto grande che quattro uomini non l'avrebbero abbracciata. Quando si fu fermato costì a guardare, Turno riprese la via, e scendi scendi, a un tratto fu colpito da una grandissima luce. Quel chiarore veniva da una sala, molto più bella della prima, che si trovava in fondo alla discesa, proprio nelle viscere del monte. Codesta sala era illuminata a giorno, e nel mezzo c'era una cassa d'oro col coperchio di cristallo, e intorno tante casse più piccole. Sulla parete di fondo v'era poi una specie di trono, tutto d'oro, e su quello dormiva il vecchio dalla cappamagna di seta. Turno tremò tutto nel vederlo e non osò accostarsi a lui. Si avvicinò peraltro alle casse d'oro col coperchio di cristallo, e rimase a bocca aperta a guardarle. In quella di mezzo, che era la più grande, v'era uno scettro d'oro tutto tempestato di perle grosse come nocciole. Sul fondo d'ebano nel quale era posato lo scettro, stava scritto in pietre preziose: "Salomone". In un'altra cassetta c'era una corona d'oro tutta ornata di brillanti, e su quella stava scritto: "Regina Saba". Nelle altre poi vi erano alla rinfusa braccialetti, collane, pugnali, spilloni, il tutto lavorato stupendamente e tutto scintillante di gemme lucenti come tanti soli. Turno, a veder tutta quella grazia di Dio, rimase di sasso, e il diavolo in quel momento lo tentò. Con una sola di quelle collane si sarebbe potuto comprare un podere, fabbricarsi una casa e cessare la vita di stenti che aveva fatto dacché era nato. Alzò gli occhi e vide che il vecchio dalla cappamagna dormiva come un ghiro, e il diavolo lo tentava sempre, facendogli pensare che nessuno si sarebbe accorto della mancanza di un gioiello. "Per chi possiede tanti tesori, un oggetto più o meno, non fa nulla", gli suggeriva lo spirito del male. Turno alzò il coperchio di una di quelle cassette, ficcò la mano dentro e la rilevò piena di gioie, che si nascose subito in seno; poi, tutto guardingo e tremante, riprese il lumicino che aveva posato in terra, e rifece la via percorsa prima per uscire dalla caverna. Giunto che fu alla seconda sala, grondava di sudore e le gambe gli si erano fatte pese come di piombo. Ogni momento si fermava, stava in ascolto perché gli pareva udir dietro a sé rumore di passi e voci. La salita che doveva fare lo sgomentava, e se non fosse stato il timore di trovare il vecchio desto, sarebbe tornato addietro per rimettere al posto i gioielli rubati, tanto se li sentiva pesare sul petto come ciottoli di torrente. In quella seconda sala si gettò un momento a sedere, ma subito si rialzò perché aveva sentito nitrire un cavallo a poca distanza, e si die' a salire di corsa per il lungo corridoio. Egli giunse tutto trafelato in cucina, e senza concedersi un momento di riposo, si attaccò alla fune e in un momento fu sul tetto. Appena Turno fu all'aria aperta vide venire volando da tutti i punti cardinali gli angioli bianchi e luminosi, che gli erano passati a poca distanza quando era nascosto dietro il fumaiolo. Tutta l'aria era imbiancata dalla luce che mandavano i loro corpi, e da ogni lato si sentiva cantare: "Osanna! Osanna! ... " mentre le campane delle chiese sonavano il mattutino. Turno, impaurito da quella vista e da quei canti, senza pensar nemmeno a levar la corda, spiccò un salto dal tetto, e invece di correre in direzione del paese, si nascose in una buca in mezzo alla neve e costì rimase intirizzito fino a giorno, come un ladro che ha paura di essere scoperto. Soltanto all'alba tornò a casa, e quando la madre gli domandò dov'era stato tutta la notte, rispose arrossendo: - Sono stato alla messa. E invece di aiutare la sua vecchia mamma nelle faccende di casa, salì in camera, nascose la roba rubata sotto un mattone dell'impiantito, e si coricò. Ma il sonno, che era il suo compagno fedele dopo le fatiche, quella mattina non andò a chiudergli le palpebre, e, dopo essersi rivoltato per diverse ore da una parte e dall'altra, dovette alzarsi. Appena scese in cucina e si affacciò sulla porta di casa, vide passare due contadini tutti lieti, che parlavano fra di loro gesticolando. Essi eran tanto infatuati a parlare, che neppur si accòrsero di Turno. - Sai, - diceva il più vecchio, - è proprio un miracolo. Stanotte alla mezzanotte s'è veduto sopra la casa mia un gran chiarore e poi s'è sentito un fruscìo d'ali sul tetto. Camillo, il mio bambino maggiore, che dorme in cucina, s'è destato e ha veduto scendere un angiolo dalla cappa del camino. Quell'angiolo si è chinato sul letto, lo ha baciato in fronte e gli ha detto: "Eccoti i doni che ti manda il Bambin Gesù perché sei stato buono. Ogni anno, se continuerai a essere onesto e timorato di Dio, verrò a visitarti". Poi l'angiolo è sparito cantando: "Osanna!" e Camillo racconta che tutta la stanza era piena di un odor acutissimo di gigli e di rose. Sul letto il ragazzo ha trovato inoltre un sacchetto di monete d'oro, vestiti caldi per ripararsi dal tramontano, e ghiottonerie di ogni specie. Io vengo a Montecornioli a raccontare il fatto al curato e a fargli vedere le monete. - In casa mia è avvenuto lo stesso, - disse l'altro contadino, - i regali sono toccati soltanto alla mia Maria, perché i maschi son tre forche, e l'angiolo, che lo sapeva, lo ha detto alla bambina mentre l'ha baciata. Turno, tutto commosso, aveva seguito i due uomini fin davanti alla chiesa e li vide imbrancarsi con tanti altri, i quali aspettavano che il curato avesse detto l'Ite missa est per interrogarlo al pari dei due contadini. Ora capiva dov'erano volati gli angeli! ora si spiegava perché aveva sentito contare tante monete! E quello che egli aveva rubato era dunque il tesoro dei bimbi buoni, dei bimbi poveri! Ebbe vergogna del suo furto e gli pareva che tutti dovessero leggergli in fronte la sua mala azione. In quel giorno non poté entrare in chiesa, non lo poté davvero! Le gambe non ce lo volevano portare; si mise a fuggire, e corri corri giunse in un bosco di castagni, dove rimase come un bandito fino a notte. Quando tornò a casa, trovò la mamma che piangeva davanti alla tavola apparecchiata. La povera vecchia, non vedendolo tornare a mezzogiorno, s'era messa a smaniare e non aveva potuto ingollare neanche un boccone del pranzetto preparato per quel giorno di grande solennità. E ora che lo rivedeva e le pareva così stralunato, non si poteva consolare, perché era sicura che qualche cosa di grosso gli fosse accaduto. Ma a tutte le domande che gli rivolgeva, Turno rispondeva sempre che non aveva nulla, che si era imbrancato con i compagni e per questo aveva fatto tardi. Madre e figlio mangiarono di malavoglia e, per la prima volta, andarono a letto senza neppure dirsi: "Felice notte", tanto Turno, arrabbiato con se stesso, se la ripigliava con la povera vecchia; e tanto lei era convinta, convintissima, che il figlio suo avesse commesso una cattiva azione. Né la vecchia afflitta, né Turno perseguitato dal rimorso, dormirono; anzi, il giovane a una cert'ora si levò, perché gli pareva di soffocare, alzò il mattone, si mise di nuovo in seno i gioielli rubati, e s'avviò verso la casetta all'imboccatura della caverna. Voleva vedere se gli riusciva di riscendere in cucina e rimettere al posto quelle gioie, perché gli pesavano sul petto come macigni, ed era pentito, arcipentito della sua birbanteria. Ma appena fu salito sul tetto della casetta, dovette di nuovo nascondersi, perché sentì giù nella cucina un gran tramestìo, e un momento dopo vide gli angioli comparire a uno a uno, e poi, quando furono tutti usciti dalla cappa del camino, prendere il volo come un branco di uccelli che vadano dal monte alla palude. Turno si accòrse che i volti degli angeli erano seri e accigliati. Volavano velocemente, e dalle loro bocche non usciva nessun suono melodioso. A un tratto uno di essi si voltò e fece, sul paese che abbandonavano, un gesto di maledizione. Turno si gettò di sotto impaurito e cadde sulla neve. In quello stesso momento udì un rumore tremendo, e la casetta crollò e scomparve giù nel le profondità della terra, per incanto com'era sorta. I montecorniolesi videro in quella notte, sull'apertura della grotta, due diavoli col piede di capro, che tramandavano un così acuto odore di zolfo, da soffocare quanti si accostavano. Quei due diavoli avevano in mano spade fiammeggianti. I montecorniolesi non solo, ma anche gli abitanti delle valli più basse e dei casolari di montagna s'impaurirono di questo succedersi d'incantesimi, e nessuno osava più passare, neppur di pieno giorno, davanti alla bocca della caverna. Di notte poi non se ne parla, perché stavano tutti rintanati in casa, e dopo la prima notte nessuno volle più esporsi a vedere quei brutti ceffi di diavoli con le spade di fuoco. La notizia di questo fatto giunse fino al beato Romualdo, abate di Camaldoli, il quale scese con una lunga processione di frati del suo Eremo, portando in mano la croce, e si recò a benedire la bocca della caverna di Montecornioli. Il santo abate però disse che sotto quel fatto ci doveva essere un mistero, quando gli fu assicurato da un suo frate che dopo poche notti che la caverna era stata benedetta, erano ricomparsi i demoni a farvi la guardia. L'abate Romualdo ordinò preci e digiuni a tutti gli abitanti del paese di Montecornioli, per impetrare da Dio la liberazione da quel tremendo flagello; ma neppur questi valsero, e i demoni continuavano a mostrarsi. In quel frattempo Turno era ridotto al lumicino. Nella notte stessa dalla scomparsa degli angioli e della casa, egli, sentendosi opprimere da quelle gemme rubate ai poveri, invece di portarsele a casa e nasconderle sotto il mattone del pavimento, aveva scavato una buca in cantina e ve le aveva rimpiattate, e poi era andato a letto. Ma non aveva potuto dormire in tutta la notte, e nell'uscire la mattina per andare nel bosco a segar le legna, come faceva ogni giorno, aveva sentito tutta la gente sgomenta dall'apparizione dei demoni e dalla scomparsa degli angeli, che avevano recato nella notte di Natale tanti doni ai bimbi buoni, ai bimbi poveri di tutta la contrada. Quelle lamentazioni che udiva gli arrivavano al cuore, perché sapeva che senza la sua curiosità e il suo furto, gli angeli avrebbero continuato a beneficare i poverelli del paese. Egli si sentiva un gran malessere dentro e le braccia cionche come se non potesse fare nessun lavoro. Tutto il giorno vagò per il bosco evitando d'imbattersi negli altri boscaiuoli, e non si avviò a casa altro che a ora tarda. Ma prima di oltrepassare gli ultimi alberi, sentì uno sbatter d'ali sulla sua testa, e a un tratto vide un pipistrello, grosso come un'aquila, con gli occhi e la lingua di fuoco. Il pipistrello rimase ad ali aperte davanti a lui, e gli disse: - Turno, tu hai reso al Diavolo un gran servigio, scacciando gli angioli dalla caverna. Devi sapere che essi vi avevano nascosto il tesoro della regina Saba e del re Salomone, salvato da Gerusalemme dopo la distruzione di quella città. Si erano ridotti qui dopo lunghe peregrinazioni e ad essi lo aveva confidato il Nazzareno. Se occhio umano riusciva a mirarlo, essi ne perdevano la custodia, e il tesoro passava nelle mani del nostro signore, Belzebù. Egli ora ti vuole ricompensare e ti permette di penetrare nella caverna e di sceglier magari lo scettro di Salomone e la corona di Saba. - Non voglio nulla! - diceva Turno tremando. - Non voglio nulla; è roba del Diavolo! - e si fece il segno della croce. Il pipistrello con gli occhi di fuoco cadde in terra come fulminato, e dove era caduto si aprì una buca fonda fonda, che ancora si chiama "Buca del Diavolo" e chi ci precipita non riesce a tornar più su. Turno, dopo questo fatto, tornò a casa come immelensito. La sua mamma non gli poté cavar di bocca neppur una parola assennata, perché vaneggiava come un matto. La sera gli venne la febbre, una febbre da cavalli, e nessuno sapeva da che derivasse. Così rimase un mese, fra la morte e la vita. Sua madre chiamò i medici a curarlo, ma essi non ci capivano nulla in quella malattia; chiamò le donne che sanno togliere il mal d'occhio, ma neppure quelle riuscirono a guarirlo; finalmente chiamò il curato a benedirlo, e allora Turno si sentì a un tratto sollevato, cessò di gridare e volle confessarsi. Dopo la confessione si comunicò, e appena si sentì in forze, scese in cantina, prese le gioie che vi aveva nascoste e se ne andò col bordone da pellegrino e col capo coperto di cenere, prima alla Verna, dove rimase in preghiera tre giorni, poi all'Eremo di Camaldoli, e finalmente alla Madonna di San Fedele a Poppi. Dinanzi a quella immagine egli depositò le gemme prese nel tesoro della caverna, e la collana e il diadema che nei giorni di festa ornano il collo e la testa della Madonna, sono ancora formate delle stesse perle e delle stesse gemme donate da Turno. Il quale, finché visse sua madre menò un'esistenza laboriosa, alternando il lavoro con le preghiere; ma alla morte della madre vendé la casetta, distribuendone il prezzo ai poveri, e poi andò a farsi frate a Camaldoli e per le sue virtù fu tenuto in concetto di santità. I montecorniolesi non hanno più veduto i diavoli con le spade fiammeggianti a guardia della caverna, ma nessuno ha osato mai di scavare il monte per impossessarsi delle ricchezze. Due ladri soltanto una volta vennero da lontano per rubare quello che sta nascosto nella caverna, ma sull'imboccatura furono tutti e due colpiti da una saetta, che li incenerì. Ma neppure i bimbi buoni, i bimbi poveri dei casolari sparsi sulla montagna hanno avuto più i ricchi doni, e questo fa supporre che in paese gli angeli non siano più tornati. La Regina tacque, e Cecco, il bell'artigliere, esclamò: Mamma, la memoria vi regge, ma una cosa sola avete dimenticato di raccontare a questi bimbi, che vi stanno a sentire a bocca aperta. - Che cosa? - domandò la Regina. La storia del turbante! - Non l'ho dimenticata; gliela serbo a domani sera, e per ogni festa del Natale ne ho un'altra. - Dunque, mamma, ne sapete tre solamente, perché tre son le feste di Ceppo? - esclamò l'Annina, una bimba vispa, che già aiutava in casa come una donnina. - No, no; intendo dire che ne ho in serbo anche per la sera di Capo d'anno, per quella di Befana e per le domeniche di gennaio. - Siete una gran nonna! - disse, mettendo la testa in grembo alla vecchia, un maschietto di capello rosso, con una testina sempre arruffata e certi occhietti furbi, nei quali si leggeva tutto quel che gli passava nella mente. - Peraltro la novella di stasera non mi capacita. - Perché? - domandò Cecco alzando Gigino e mettendoselo a cavalluccio sulle ginocchia. - Perché gli angioli non se la dovevano prendere con i bambini se Turno era sceso nella caverna. Mi pare che paghi il giusto per il peccatore, e a noi, a noi che ci si sforza di non far birichinate in tutto l'anno, quando vien la vigilia di Natale, non ci tocca nulla. - Son novelle! - sentenziò l'Annina, - e si raccontano così per divertire. Se ci credessi, io non porterei mai le pecore a pascere dalla parte di Montecornioli: avrei paura. - Però Gigino ha ragione, è un'ingiustizia! - dissero a mezza voce altri due piccinucci, che erano sempre del parere del Rossino. In quel momento si sentì alzare il saliscendi dell'uscio e le mamme tornarono con lo scialle tutto tempestato di sottilissimi cristalli di ghiaccio. Esse vuotarono sulla tavola una fazzolettata di brigidini e di confetti, sui quali i bimbi si gettarono avidamente. - Eccoli i nostri angioli! - esclamò l'Annina. - Ecco il mio angiolo! - disse Cecco abbracciando la sua vecchina. Dopo poco, grandi e piccini, tutti riposavano al podere dei Marcucci, e i bei sogni rallegravano la mente dei bimbi dormenti.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

Forse si può far risalire a lui, e alla sua abbazia di Telema, quella maniera oggi trionfante attraverso a Sterne e Joyce di "scrivere come ti pare", senza codici né precetti, seguendo il filo della fantasia così come si snoda per spontanea esigenza, diversa e sorprendente ad ogni svolta come una processione di carnevale. Ci è vicino, principalmente, perché in questo smisurato pittore di gioie terrene si percepisce la consapevolezza permanente, ferma, maturata attraverso molte esperienze, che la vita non è tutta qui. In tutta la sua opera sarebbe difficile trovare una sola pagina melanconica, eppure Rabelais conosce la miseria umana; la t ace perché, buon medico anche quando scrive, non l' accetta, la vuole guarire

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IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

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Brigola, Gaetano 1 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. _ È bello dall'alto mirare la sottoposta marmorea mole, stupenda per le 116 guglie piramideggianti, per le 4000 e più statue, poi trafori, balaustrate e terrazzi, lavori di più secoli; ed intorno l'animato spettacolo della lombarda metropoli; e più lungi l'ubertoso agro milanese, dove la celebre Abbazia di Chiaravalle, e più remota la maestosa Certosa di Pavia, e il memorabile campo di battaglia di Magenta, e gli ameni colli della Brianza colla Rotonda del Cagnola, e infine la catena dei monti che trasportano il pensiero fra le delizie dei laghi di Como e di Lecco. _ Nell'interno del Duomo, dove la luce penetra attraverso le vetriate dipinte, quali da artisti del 500, quali dai contemporanei Bertini, spiccano i monumenti eretti all'arcivescovo Ariberto, l'inventore del Carroccio; a Gian Giacomo de' Medici, che vuolsi disegno del Michelangelo con statue di bronzo di Leone Leoni; al Vimercate e al Caracciolo, del Bambaja, autore dell'altare della presentazione; a Ottone Giovanni Visconti; all'arcivescovo Arcimboldi; inoltre ammiransi l'urna di porfido del Battistero, le statue di Martino V e di Pio IV de' Medici, quella di San Bartolomeo dell'Agrati, i bassorilievi del capocroce allo svolto, e le statue del Bussola, la Madonna dell'albero del Buzzi, denominata dal ricco candelabro che sta dinanzi all'altare; i pulpiti rivestiti di rame stonati da Andrea Pelizzone e sostenuti ciascuno da quattro cariatidi `di bronzo; gli intagli degli stalli del coro, della cantoria; il tabernacolo all'altare maggiore, opera dei Solari lombardi e dono di Pio IV; infine nella segrestia meridionale il Tesoro, e nella cripta o cappella sotterranea, la preziosa urna ove riposa la salma dell'arcivescovo S. Carlo. Nel principio del Duomo ovvi una meridiana eseguita nella seconda metà. del secolo passato sotto la direzione dell'illustre astronomo Boscovich, la cui perfezione subì qualche pregiudizio in occasione in cui si rifece il pavimento.