Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattuto

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Lì m'ero posto a sedere tante volte sopra un tronco abbattuto, studiando le formiche, ammirando gl'insetti gialli d'oro, rossi di rubino, verdi di smeraldo, leggendo un bel libro o fantasticando alle cose gaie nella vacuità della vita. Poco lontano, dove il viottolo costeggia un campo di magre pannocchie, m'ero sdraiato una mattina a guardare per un'ora di seguito tre giovani donne, che raccoglievano le noci, le quali, scosse da un ragazzo sull'albero, cadevano nel fiume, e le tre donne, ridendo, mostravano le grosse gambe fin sopra il ginocchio, con le gonne legate ai fianchi. La macchia grigia era andata ad arenarsi sopra un banco di ghiaia, accanto alla riva. Mi tolsi le scarpe e le calze, mi arrotolai i calzoni alle cosce, e camminai tra le onde. Non mi reggevo in piedi. Il fiume mi tirava giù con una violenza invincibile. Sentii la piccolezza dell'uomo in faccia alla volontà delle cose insensate. In quell'istante il Chiese dovette chiamare in aiuto tutte le forze de' suoi abissi: coperse il banco di ghiaia con un'ondata impetuosa e, avvoltolando l'orrido oggetto biancastro, lo portò via inesorabilmente. Mi sentii vinto. Rientrando nella mia camera di Garbe ero inzuppato d'acqua e di sudore, sfinito; avevo gli occhi gonfi, la testa in fiamme; i polsi martellavano. Non potei chiudere occhio. Appena giorno mi alzai barcollando, e sulla sinistra del Chiese, lungo la via postale, andai a Sabbio. Ora le mie membra erano tutte ghiacciate, ora dovevo asciugarmi la fronte. A Sabbio, dove spesso andavo a far colazione, l'idalgo e la sua moglie ostessa m'accolsero con un mondo di cortesie, chiedendomi venti volte se stavo male. - Non è niente, - rispondevo, - l'aria fresca, la passeggiata e la colazione mi rimetteranno -. Non mangiai nulla. Guardavo come in sogno il largo portico adorno di ragnateli, le chioccie che venivano a beccheggiare i minuzzoli di polenta per portarli a' pulcini, la chiesa della Madonna, la quale, alta com'è sul colle e posta lì proprio accanto, pareva piantata sopra i tetti dell'osteria. Mentre io stavo immerso in queste visioni, entra uno dei figliuoli dell'ostessa, Pierino, bel ragazzotto di sette anni, saltando, e si mette a gridare: - Mamma, l'ho visto, sai? - Chi? - L'uomo che hanno trovato nel fiume stamattina. - È bello? - No, è tanto brutto. Domandalo alla Nina. La Nina era entrata insieme col fratello, ma s'era tosto rincantucciata in un angolo del portico, con le mani giunte, mormorando qualcosa sotto voce. Si sentiva a intervalli la parola Requiem , flebile, soffocata. - È giovine o vecchio? - ripigliò la madre. La Nina non rispose. Rispose Pierino: - È vecchio, ha la barba bianca, lunga lunga. Ha gli occhi stralunati. - Dov'è? Voglio vederlo - gridai scattando in piedi. L'ostessa mi sbirciò, e bisbigliando: - Dio, che gusti! - ordinò a Pierino di accompagnarmi. In quattro salti fui alla chiesa, quella del paese basso. In una stanza umida annessa alla sagrestia avevano esposto il corpo dell'annegato. La stanza era piena zeppa di contadini. Uno diceva: - Chi lo deve conoscere? Si vede bene da' panni che non è del paese. Un altro soggiungeva: - Io dico che è tedesco. - No, è di Milano. - Indosso non gli hanno trovato niente? - chiedeva un giovinotto. - Niente: né una carta, né un soldo. - Si sarà affogato per la miseria. - Io dico che è cascato nel fiume. - Io dico che ve l'hanno gettato. - L'occhio è da demonio. - Con quella bocca aperta sembra che ci voglia mangiare vivi. Una bambina si nascondeva, tremando, dietro al corpo del padre, e ripeteva: - Ho paura, ho paura; andiamo via. Il padre intanto esaminava da vicino l'abito dell'annegato, lo toccava e sentenziava: - Bel fustagno! Dev'essergli costato caro. M'ero cacciato innanzi tra la folla. Il vecchio del Ponte dei Re fissava gli occhi nel mio volto, sinistri, minacciosi. Sentivo in quello sguardo immobile un supremo rimprovero. Alle orecchie mi ronzava un soffio da tomba, che diceva: - Tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu potevi salvarmi, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu avevi indovinato quel che io stavo per compiere, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Il soffitto della stanza mi crollava sul capo; la folla mi stritolava. Credevo di essere nell'inferno, in mezzo ai diavoli, giudicato dalla voce cavernosa e dagli occhi implacabili di un cadavere grigio. Entrò un contadino, che avevo visto a Idro. Guardando l'annegato, esclamò: - Povero vecchio, le voleva tanto bene! Due giorni soli ha potuto vivere dopo morta la sua Teresa! * * * Mi posero a letto con una febbre da cavallo. Le impressioni di quella mattina, le fatiche della sera precedente, i rimorsi, produssero il loro effetto: avevo delle allucinazioni spaventose. Gli occhi infiammati mi dolevano assai. Il mio buon sindaco veniva a visitarmi due volte al giorno, e mi stava accanto delle lunghe ore, porgendomi egli stesso le medicine e raccontandomi piano, quando gli sembravo un po' quieto, qualche storiella, che non mi faceva sorridere. D'allora in poi la febbre s'è mitigata, ma, ad onta del chinino, non m'ha voluto lasciare. I medici dicono che è di quelle periodiche, le quali si pigliano facilmente con l'umidità e con gli strapazzi. Io la sopporto in pace; ma non posso tollerare in nessun modo questa maledetta macchia negli occhi. Appena uscito dai vaneggiamenti, me la son vista dinanzi, e continuo a vederla, come vi ho descritto, ostinata, abbominevole ... Ecco, anche in questo momento uno spettro scialbo e confuso mi balla di contro, ecco che insudicia il foglio bianco. Il sole è già tramontato, e la scrivania rimane in una penombra, che mi basta a gettare sulla carta in furia queste parole, ma che non mi lascerebbe rileggerle. Volevo finire prima di accendere il lume, e la macchia si giova della mezza oscurità per lacerarmi il cervello ... La macchia cresce, la macchia - cosa nuova! - prende una forma d'uomo Le spuntano le braccia, le spuntano le gambe, le nasce il capo. È il mio vecchio, il mio terribile vecchio! Parto stasera; vi consegnerò io stesso domani questo manoscritto. O guarisco o mi strappo gli occhi.

IL BENEFATTORE

662586
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col più ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse più frequentemente le visite alla signora, e consentì anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora Von Schwächen scoprì un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale, sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si diè segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero più, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore Von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolaro, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferì i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova sè stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolaro stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. - La mia è malefica! - conchiuse il professore. - La mia è peggio; è superflua! - conchiuse il discepolo.

Racconti 1

662673
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - abbandonato sopra il divano, anelante, con le braccia penzoloni, abbattuto da quell'insperata felicità; e guardando fissamente nello specchio di fronte, si vedeva pallido come un cadavere, con gli occhi smarriti ... - No, non è vero! - Nello studio, silenzio profondo, penombra soave. Il gran quadro, i bozzetti, i disegni a penna, le stampe rare, le panoplie, gli strumenti barbari, le stoffe antiche, i vecchi mobili scolpiti, tutti i gingilli di bronzo e di porcellana sparsi disordinatamente qua e là, stavano assopiti nella grande quiete della sera che invadeva la stanza vasta e alta; quiete commovente, pietosa, quasi d'addio! ... Soltanto la figura di donna ignuda, mezz'affondata tra la giubba d'una pelle di leone, soltanto quella pare va lo guardasse intentamente con occhi vibranti, cerchiati d'azzurro, invitandolo ai baci con le sottili labbra semiaperte, insistente, insistente, quasi dovesse lei, e non l'altra, prendergli la vita, la giovinezza, l'avvenire, tutto, in cambio d'un bacio, d'uno solo! "A questo patto, venite!" Si alzò barcollante nel buio; e chiuso l'uscio, discese le scale, non accorgendosi neppure che erano al buio anch'esse; tanta luce gli rideva nel cuore! Appena scorse, indistinta nell'oscurità, in fondo al gran viale alberato, la palazzina indicatagli, Alberto s'inoltrò in punta di piedi, trattenendo il respiro. Gli immani alberi attorno stormivano leggermente; nel cielo, di un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle; e al loro scarso lume si vedevano i fumaioli rizzati fantasticamente sul tetto, quasi persone poste in sentinella, in strana lontananza; la quale pareva indietreggiasse, indietreggiasse, di mano in mano ch'egli, con andare di sonnambulo, in oltravasi, sopraffatto dall'improvviso terrore di esseri sovrumani - nascosti fra le siepi scure e fra i cespugli - della cui presenza gli pareva lo avvertisse quel brivido che gli formicolava per la persona. La palazzina era lí, a pochi passi, silenziosa, con tutte le finestre chiuse; e le piante arrampicate serpeggiando alla facciata, sembravano larghi crepacci di vecchio edifizio lasciato in preda alla distruzione ... Allora, senza far rumore, un usciolino s'era aperto; il bianco fantasma apparso sulla soglia aveva accennato con una mano; un mormorio di voce femminile s'era disperso, inintelligibile, nell'oscurità ... E Alberto, seguendo quel bianco fantasma di donna pel breve corridoio rischiarato da riflessi che scappavano da un uscio socchiuso, credeva proprio di sognare; e mentalmente pregava: - È troppo bello, Signore! Non vorrei piú svegliarmi, Signore! - Ella lo aveva spinto, tutt'a a un tratto, nella stanza illuminata, arrestandosi, mezza avvolta tra le tende dell'uscio, con vivissimo stupore negli occhi dilatati. - E siete venuto? ... A quel patto? - Alberto non aveva forza di rispondere, intimidito da quegli sguardi che lo scrutavano, da quell'esotico accento che dava alla parola un'espressione piú efficace, quasi un significato nuovo e profondo, che nessuno avrebbe mai sospettato. - A quel patto? - Ella lo ripeteva con una specie di malvagia durezza nell'atteggiamento delle labbra e nella voce; diffidente, immobile fra le tende grige, quasi in mezzo a nube che dovesse, da lí a poco, avvolgerla e farla sparire dagli occhi di lui. - Grazie! La ho vista da vicino ... Ho inteso la sua voce ... Mi basta! ... Mi faccia morire! ... Mi basta! ... - balbettò, fissandola con supplichevole sguardo. Tutto quel che provava era cosí assurdo, cosí incredibile e cosí immensamente dolce, da farlo soffrire piú di ogni tormento di desiderio, piú d'ogni smania di speranza, piú di ogni angoscia di disperazione in quei tre mesi provata. - Sedete - ella disse, slanciandosi per allungarsi nella poltrona dirimpetto a lui. - Vi ho creduto. Vi conoscevo, da un pezzo, avendovi notato tra la folla; mi seguivate dovunque! ... Vi ho creduto, perché ho visto prima i vostri sguardi ... Sono una donna come le altre ... ma fino a un certo punto. Un'altra, infatti, non avrebbe accettato; io sí. A qualunque altra mancherebbe il coraggio di dirvi: "Ecco un veleno che non perdona; bevete ... e baciatemi!" Non mi avete proposto questo? - Sí! ... - E se io non avessi risposto? Che avreste fatto? - Non lo so -. Alberto se la divorava con gli occhi, ancora incerto s'ella fosse davvero lí, stesa su quella poltrona. La veste da camera di seta cinese, spumeggiante di trine, le modellava talmente alcune parti del corpo da svelarne tutto il meraviglioso segreto delle linee, che qua e là si perdeva nell'ondeggiamento della stoffa. Quella voce cosí meravigliosamente melodiosa che poco prima era risuonata pel salottino con accento vibrante, ora quasi mormorava. Col capo indietro, le braccia distese lungo il corpo e le dita delle mani incrociate, ella lo guardava fisso e continuava: - Non avete ben riflettuto, forse; siete però ancora in tempo. La vita è cosí bella! ... Voi amate, almeno vi sembra ... Dicono che sia cosí delizioso! Amare! Illudersi! Essere amata dovrebbe essere delizioso egualmente ... Ma la certezza? ... E poi, tutto questo dura appena un istante. Riflettete. Io sono donna: ho quella curiosità che rende fin perverse e crudeli ... Ho accettato per mera curiosità. Se voi avete calcolato su la debolezza del mio cuore, vi siete ingannato. Ve lo dico prima; non voglio avere rimorsi. Non c'è un uomo al mondo finora che possa vantarsi di aver sfiorato con un bacio le mie labbra, le mie guance, una di queste mani; e ne sono orgogliosa. Siete cosí vanitosi, cosí meschini, tutti! Con voi, è un'altra faccenda. Chi sta per morire è quasi uno spirito, non è piú di questo mondo. Tra voi e me starebbe un segreto che nessuno potrebbe rompere. E bello; è strano ... Mi avete tentato ... Sareste il mio fidanzato eterno ... Forse allora vi amerei ... Vi dovrei es ser grata di avermi fatto provare un sentimento ancora a me ignoto -. S'era rizzata sul busto, sporgendosi verso di Alberto, affascinante, col bianco volto dagli occhi nerissimi sotto le nerissime sopracciglia, i neri capelli raccolti sul capo in un gran nodo e una lieve ombra di ricci folli su la fronte marmorea. - È vero che è delizioso? - E taceva, aspettando la risposta. - Tanto - disse Alberto - che dare per questo la vita mi par niente! - Riflettete ... - Ora? ... È impossibile! - Vedendola scattare in piedi, Alberto si alzò anche lui; ma non fece neppure un passo per seguirla verso l'armadietto d'ebano dov'era andata a prendere un bicchiere d'oro e una boccettina d'oro finamente cesellati ... - Il sapore è cattivo - ella disse, versando un liquido latteo. La sua mano non tremava; il suo viso era impassibile; se non che le balenava negli occhi la crudele curiosità della donna che non indietreggia davanti a nulla, quando è tentata dall'assurdo e vuol vedere ... e vuol sapere ... Ma che importava? Alberto stese il braccio, guardando quelle labbra leggermente increspate, quasi frementi pel prossimo contatto del bacio. - No - ella aggiunse subito, scostando la mano. - Riflettete ... No ... No! Rifle ... - S'era interrotta, vedendogli sorbire il liquido lentamente, senza nausea ... E appena Alberto le rese il bicchiere, s'avanzò risoluta, severa, con gli occhi socchiusi: poi si arrestò immobile, offrendo le labbra impallidite, e attese ... Lo lasciò fare ... Uno, due, dieci, venti baci ... senza ch'ella si scotesse, senza che accennasse a renderne uno! Il leggiero tremito di tutta la persona, il rapido battere delle palpebre abbassate erano l'unico indizio da cui Alberto poté capire che stringeva fra le braccia un corpo vivo! Come poco prima, gl'immani alberi del viale stormivano leggermente; nel cielo, d'un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle ... Con la testa vagellante, e il respiro affannato, Alberto si sentiva avvolto da una vampa, da capo a piedi ... Appena scostatosi dall'uscio che s'era subito richiuso ... Gli era parso? ... No; il bianco fantasma era di nuovo lí, accennante; di nuovo, un mormorio di voce femminile si perdeva inintelligibile nell'oscurità ... Egli si lanciò per esalar su quelle labbra l'anima agonizzante: - Addio! ... Addio! - ripeteva, aspirando il respiro di lei. Ella intanto, con fremito lieve della voce, dolcemente, gli mormorava all'orecchio: - Oh, no, addio! A rivederci, amore! - Napoli, maggio 1888@. 1888.

Il padre, dal viso smorto e abbattuto, a testa bassa, biasciava quel po' di pietanza che metteva in bocca, e allontanava presto il piatto con gesto di nausea, facendo segno alla serva che glielo levasse d'innanzi. Giustina s'era messa a tavola con un po' d'appetito, eccitata; ma da lí a poco sentí mancarsi anche lei ogni voglia di mangiare, al funebre silenzio che le annunziava certamente qualche disgrazia. - Babbo! ... - disse a un tratto - Il bambino ... forse? - E guardava ansiosamente ora lui che aveva levato il capo senza comprendere, ora la madrigna diventata piú rigida e piú severa. - Che cosa è accaduto insomma? - Niente. - Niente - ripeté la signora Ersilia. In quella stanza da pranzo semplicemente arredata, davanti a quella tavola ovale, coperta da tovaglia bianchissima, su cui le posate d'argento e le bottiglie e i bicchieri di cristallo luccicavano in un canto, nei soli tre posti occupati; con la vecchia serva che aspettava silenziosa, o portava attorno le pietanze, andando e venendo in punta di piedi quasi per paura di far rumore; dopo le poche parole strappate a stento e che non le apprendevano niente, Giustina era rimasta un momentino interdetta: - Si tratta di me, senza dubbio; di qualche nuova indegnità di mio marito! ... E sbucciando una mela, per tenere occupate le mani, cercava d'indovinare: - È per l'amministrazione della dote? ... Per una separazione legale? ... - Smaniava, ma non voleva farsi scorgere; e guardava, simulando indifferenza, i brutti disegni del soffitto, senza curarsi del caffè che le si freddava nella tazza. Il signor Federico s'avviò lentamente verso il salotto, tenendo le mani dietro la schiena, strascicando un po' i piedi. Sua moglie, vicino alla credenza, dava alcuni ordini alla serva e a Giulia sopraggiunta. Giustina, andata dietro al babbo, l'aveva già fermato, supplicandolo: - Babbo, parla, per carità! ... Parla; di che si tratta? - Giacché tu vuoi saperlo ... Leggi, leggi qui! E, spiegato a stento il numero del "Secolo" di Milano cavato di tasca: - Leggi - ripeté il signor Federico; e il gesto quasi teatrale del vecchio avvocato indicava un lungo frego di lapis rosso. Atterrita, ella divorava con gli occhi il brano di cronaca, tolto da un giornale di Firenze, che riferiva minutamente la storia del duello, coi nomi e con ogni altra indicazione, aggiungendo - dietro il solito: Cherchez la femme - anche i particolari dell'antefatto, compiacendosi della narrazione, drammatizzando le scene, inventandone di sana pianta; quasi il cronista imbecille fosse stato presente; quasi non avesse dovuto riflettere che quelle righe avrebbero colpito mortalmente, se non la donna stimata co lpevole e non piú degna di riguardi, la sua famiglia che, per la sventura, meritava qualche rispetto! ... Ma che importava a lei del cronista, del duello, del povero capitano ferito? E altiera della propria innocenza, rossa di vergogna: - Tu non gli credi, - disse - tu non gli credi, è vero? ... Torno a giurartelo: Sono innocente! Mentiscono tutti. Fu soltanto un'imprudenza. Credimi almeno tu, tu solo! - Sciagurata! Vai in casa d'uno scapolo, d'un militare, già sul punto di partire e mutar di guarnigione ... e pretendi che la gente non sospetti niente di male? Ah! Minacciava di ammazzarsi? Che te ne faceva a te, se non lo amavi? - Sí, babbo, hai ragione: che me ne faceva, se non lo amavo? ... Ma non lo amavo, te lo giuro per la santa memoria della mamma! ... Temetti uno scandalo, fui mal consigliata ... Oh, credimi tu, tu solo! Non sono indegna d'esserti figlia! - Il vecchio scoteva tristamente il capo: - E quando ti avrò creduto io? - Ella gli stringeva ancora le mani, bagnandogliele di lagrime, quasi in ginocchio davanti a lui, quando la signora Ersilia intervenne. - Vuoi farlo morire di crepacuore? - Sentendosi presa pel braccio e cosí rimproverata dalla matrigna, Giustina si rizzò: - Sí, sí, dite bene! - balbettò con ironia disperata, fra i singhiozzi. E andò via lentamente, aspettandosi d'essere richiamata indietro, aspettando che il babbo le gridasse: - Ti credo! - e le stendesse le braccia. E il babbo l'aveva lasciata andar via senza richiamarla, senza dirle niente! Era una cosa enorme! E all'arrivo, egli l'aveva ascoltata attentamente, e quei suoi: - Quand'è cosí! ... Quand'è cosí! - le erano parse parole di perdono! ... Parlava a voce alta in camera, gesticolando, andando su e giú a grandi passi; e il suono della propria voce la eccitava, la indignava di piú. L'aveva lasciata andar via, senza richiamarla, senza stenderle le braccia. E mentr'ella qui veniva cosí ingiustamente vilipesa, colui agonizzava, laggiú, non meno ingiustamente, colpevole soltanto d'averla amata e rispettata; agonizzava, chi sa?, maledicendola per la palla che gli aveva lacerato il petto e forse intaccato un polmone! ... Istintivamente portò le mani al seno; le parve sentire proprio la viva impressione di quel sangue spricciante caldo caldo dalla ferita, e venne meno in mezzo alla camera , cadendo sul tappeto senza rumore. - Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! - Era rimasta parecchi giorni tutta rimescolata da questa idea, quasi una ruota di mulino le girasse, rumorosamente, senza un istante di tregua, dentro il cervello. Niente aveva potuto distrarla; neppure gli occhi sorridenti d'immensa gratitudine con cui il ferito la guardava dalla sua immobile posizione, essendogli vietato di parlare; neppure le brevi e frequenti strette alla mano, ch'egli voleva continuamente tenere tra le sue per convincersi che la presenza di lei in quella camera sul Viale dei Colli, piú in là di porta San Gallo, non fosse un'allucinazione di sensi sconvolti. - Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! - E il cuore le si era gonfiato di repugnanza, in quella camera dalla carta di parato pretensiosa e volgare, dalle tende che parevano uscite allora allora da un negozio a buon mercato, dalle seggiole rivestite di cretonne sbiadito, dal canapè di stoffa blu che mostrava negli angoli i dentini bianchi della trama, dalle pareti con le oleografie del Capponi stracciante i patti di Carlo VIII e della battaglia di Gavinana, ove Ferruccio moriva, premendo una mano sul petto, come un tenore da melodramma. - Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! - E aveva assaporato, con trista voluttà, l'amaro beveraggio del proprio avvilimento ogni volta che s'era vista squadrare, frugare, quasi oggetto di curiosità, dagli sguardi indiscreti e delusi - non la trovavano punto bella - dei giovani uffiziali che venivano a visitare il ferito. Poi s'era accasciata, lassamente; e nella monotonia delle lunghe giornate d'infermiera, dopo che gli uffiziali, per riguardi facili a capirsi, diradarono le loro visite, con l'unica distrazione di qualche lettura che spesso non riusciva a interessarla, quel nuovo stato d'abbattimento le era riuscito anche gradevole. - Come ho potuto resistere? ... Come resisto ancora? ... Ah, il dolore non uccide! - In certi momenti però, tutt'a un tratto, la sua povera testa vertiginava, e il libro le cascava di mano. Sprazzi di luce le sfolgoravano interiormente, nel buio della memoria, vicini, lontani, senza legame di sorta. In che maniera persone dimenticate da tanto tempo, paesaggi veduti di sfuggita anni addietro, insignificanti impressioni di passeggiate, di tramonti, di serate di teatro allora avvertite appena; in che maniera parole, mezze frasi, semplici inflessioni di voci sconosciute, che l'avevano colpita n on ricordava piú quando, si ridestavano ora vivissime, con senso di ripercussione, e tutto il resto taceva, quasi non fosse mai esistito? Non riusciva a spiegarselo. - Sto forse male? - Le dispiaceva soltanto per lui, quantunque il dottore avesse annunziato che da ora in poi non sarebbe piú venuto due volte il giorno; non occorreva ... - Con un'infermiera come la signora -. Il capitano sorrise. - Fuori di pericolo, finalmente! - disse Giustina, appena rimasero soli. - Che m'importerebbe di morire, dopo che vi ho vista qui? - rispose il capitano con voce fioca. - Se sapeste ... - Zitto, non vi affaticate. - Parlate almeno voi ... Non dite mai niente. - V'affaticherei lo stesso. Avremo tanto tempo fra poco! - Ella arrossí della pietosa bugia che le aveva scottato le labbra. Che poteva mai dirgli? Con tutta la grande pietà verso quell'uomo che si era dibattuto fin allora tra la vita e la morte a cagion di lei, quantunque senza sua colpa, ella si sentiva tuttavia estranea colà, e trascinatavi per forza. - Ed è passato un mese e mezzo! - Abbastanza tranquilla da poter riflettere, da poter osservare se stessa, da alcuni giorni, a intervalli, l'assoluta mutezza del suo cuore - cosí ostinata anche dopo che la sua ragione non aveva saputo resistere all'urto degli avvenimenti - l'assoluta mutezza del suo cuore la rendeva sgomenta. - E se durerà sempre cosí? - Le minute cure d'infermiera però sopraggiungevano sempre in tempo per riscuoterla e distrarla. Allora, seduta presso la finestra, a ogni svoltar di pagina del libro che teneva in mano, ella volgeva lo sguardo verso le colline dove le ville, biancheggianti tra il verde cupo degli alberi, parevano arrampicarsi qua e là, come agnelle disperse. E alla vista di quel cielo di limpida profondità azzurrina, e senza nuvole, che serviva di fondo agli svelti campanili e alle brune case di Fiesole; alla vista di quel m are di verzura steso dattorno, a perdita d'occhio, e che quasi gettava le sue ultime ondate lí sotto, a pochi passi, con gli alberi che proiettavano l'ombra sul viale polveroso, un'impressione di refrigerio al cuore la faceva sorridere d'ammirazione per quel gentile accordo di tinte. - Bello, eh? - egli le disse, vedendola guardare cosí intenta. - Andremo assieme lassú, la prima volta che mi sarà permesso uscir di casa. - Affrettatevi - rispose Giustina. - Siete voi che mi guarite, coi vostri occhi. Fate piú presto -. Quel viso di sofferente, su cui la barba lasciata crescere rendeva piú visibili il dimagrimento e il pallore, si rianimò luminoso. E stettero tutti e due un pezzettino a guardarsi senza dir altro; egli quasi ancora incredulo di quella non mai sperata o sognata fortuna d'amante, ella commossa da carità d'infermiera, che le soavi impressioni di quel momento rendevano piú viva. Poi quando all'orizzonte il cielo si tinse d'un rosso tendente al violetto, e i campanili, le cupole, le mura di Fiesole parvero di fuoco contro gli ultimi raggi del sole al tramonto, e il vasto mare di verdura diventò scuro scuro fra i vapori azzurrognoli che salivano lentamente nella maestà della sera, Giustina sentí una tristezza piú intima, piú straziante delle altre volte, di creatura vigliaccamente abbandonata da tutti; e rimase a lungo con la fronte appoggiata ai cristalli, lasciando sgorgare di nasc osto le lagrime che le venivano su, proprio dal cuore. Il capitano intanto, dal suo letto in fondo alla camera, scoccava bacettini verso quella mezza figura di donna spiccante in nero sui cristalli della finestra, ai rossicci riflessi dei fanali di fuori. Giustina si sentiva assai meno tranquilla ora che il ferito rifioriva, ora che gli era permesso di muoversi, sedersi sul letto, e parlare. Egli l'attirava dolcemente, con tutte e due le mani, verso la sponda: - È vero? ... Siete proprio qui? - E in quell'accento pieno di carezze si sentiva il primo sfogo della gioia dovuta comprimere e soffocare durante i penosi giorni della convalescenza. - Vi ho fatto molto male ... Perdonatemi. È stato senza volerlo. - Oh, non parliamo del passato! - Avete ragione; non parliamo del passato -. E la fissava con gli occhi raggianti d'affetto umile, rispettoso dinanzi a quella severa ritrosia che era d'imbarazzo per tutti e due. Oh, egli non aveva fretta! L'aveva amata due anni senza nessuna speranza, senza nessuna lusinga, inebriato dal filtro della gioconda serenità che le sorrideva nello sguardo, della gentile espressione di dolcezza e di pace che traspariva dagli irregolari lineamenti di quel volto bruno, ridondante di salute. - Vi ricordate dove ci siamo incontrati la prima volta? - No. - È naturale; mi guardaste appena: nel salotto della signora Pietrasanta. Suonavate qualcosa del Berlioz musica strana, e come non l'ho risentita da nessun altro. Da quel momento non ebbi piú pace. Che cosa amavo maggiormente in voi? Non avrei saputo spiegarlo. Amavo voi, tutta voi ... che intanto non potevate neppure soffrirmi! - egli soggiunse sorridendo. - No; v'ero grata, credetemi ... - Mi sarebbe bastato, se me l'aveste lasciato scorgere da un lieve segno. - Non volevo incoraggiarvi. Temevo, a ragione ... - Ed ora siete qui! ... Siete mia! ... Mi pare assurdo ... - Tentò di passarsi le braccia di lei attorno alla vita e cingerla con le sue; ma Giustina si trasse indietro. - Scusate ... Certi ricordi mi fanno ancora male ... - Dimentichiamoli. - Dimentichiamoli! - ella replicò con un sospiro. - Lascerete queste brutte stanze, - riprese Fasciotti dopo un momento di silenzio. - Troveremo un nido degno di voi, da vivervi senza soggezioni importune. Io verrò a trovarvi, discretamente ... - Ella lo ascoltava, intenerita di tutti quei bei castelli in aria ch'egli si compiaceva di fabbricare con giovanile prodigalità, rovesciato sul mucchio dei guanciali, tenendola per le mani presso il letto, esitante ancora di chiederle che questa piccola familiarità d'amico si mutasse, per grazia, in un bacio d'amante. La tenerezza di lei diventava però dispetto e fino rabbia contro se medesima, appena ella si sentiva rattrappire come piú la voce del capitano suonava commossa, come piú l'accento si turbava nella crescente effusione delle confidenze, come scoppiavano in quegli occhi i forti bagliori d'un desiderio rattenuto a stento e che già pareva spazientirsi. E scappava via con qualche pretesto, per abbandonarsi nella sua camera alla desolazione del proprio tormento: - Sono dunque di ghiaccio? ... Come mai non lo amo? ... Come mai resto impassibile di fronte a tanta delicatezza di passione che può chiamarsi eroismo? ... E durerà sempre cosí? ... No! no! - rispondeva spaventata. Avrebbe voluto fermare il tempo: - Se la convalescenza di lui fosse piú lenta! - Ah, diventava anche crudele! Quella mattina, scorgendolo in piedi in mezzo alla camera, ella trasalí, come davanti a un agguato. - Entrate, c'è qualcosa che vi aspetta - le disse Fasciotti, additandole il pianoforte verticale aperto tra le due finestre dov'era prima il tavolino. - Come siete buono! - Dite egoista - rispose andandole incontro. - È stato dunque per questo che mi avete costretta a fare una passeggiata? - Volevo farvi una sorpresa -. Ella resta sull'uscio, appoggiandosi su l'ombrellino, indecisa. Nella camera, tutta illuminata dai vivi riflessi del sole di giugno che splendeva fuori, qualcosa d'insolito e di sottinteso la metteva in diffidenza. Egli le porse la mano.. - È un Pleyel - disse Giustina avvicinatasi al pianoforte. - Molto da strapazzo. - Come la suonatrice. - Questo dovrà dirlo il pubblico: io. Sono inesorabile, sappiatelo! ... Dove siete stata? - Per la campagna, da questa parte. Lasciai subito la carrozza. Sono tornata a piedi ... Che giornata di paradiso! ... Ho rubato dei fiori per voi. - Grazie -. Ella guardava il pianoforte, tentata. La passeggiata per la campagna l'aveva scossa. Si sentiva per tutto il corpo un senso di freschezza e di leggerezza. Il fremito delle fronde e delle erbe al lieve alitare del vento, riprendeva a vibrarle dentro eccitato; e socchiudeva gli occhi, quasi ancora offesa dalla troppa luce, come poco prima sotto l'ombrellino, all'aria aperta. - A che pensate? - le domandò Fasciotti, vedendola immobile e silenziosa. - A niente -. Non era vero. Ella pensava al bel bambino veduto saltellare, a cavalluccio di un bastone, su la terrazza d'una villetta ... Pensava alla bionda signora vestita di stoffa grigia, e che sorrideva di gioia materna dinanzi al bel bambino saltellante ... Cosí aveva fatto anche lei, una volta! ... - A niente! - replicò. E per frenarsi, stese una mano su la tastiera del pianoforte, facendovi scorrere su, con scatto nervoso, le dita, quantunque impacciati dal guanto. Quelle poche note la punsero come colpo di sprone. Si tolse in fretta in fretta il cappellino e i guanti: - È il ringraziamento; compatitemi - disse. Appena il pianoforte cominciò a susurrare, a balbettare sotto voce, con suoni che s'interrompevano e si riprendevano, tremolanti, accarezzantisi fra loro, egli si allungò su la poltroncina, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, cedendo alla deliziosa sensazione che gli si rinnovava nel cuore. - Berlioz! - mormorò sorridente di riconoscenza. A un tratto, i bassi insorsero cantando un coro grandioso, che riempiva tutta la camera di mistica sonorità. Ed ella si rizzò su la vita, irrigidendo le braccia, quasi cercasse far ostacolo alle vibrazioni che sopraffacevano, squassandole i nervi, già tesi per lo sforzo di quell'esecuzione a memoria. Fasciotti si era levato lentamente in piedi, rapito, esaltato dalla voluttuosa frase musicale che in quel momento tintinniva e guizzava rapidissima sul cupo accordo insistente. A un tratto, le si avventò, divorandosela dai baci. - No! No! - ella balbettava supplichevole, quasi svenuta. E le corde del pianoforte ondulavano ancora fra l'incessante scoppiettio. Nell'immediato turbamento, aveva pensato fuggire e scrivergli: "Perdonatemi! ... Il sagrifizio è superiore alle mie povere forze!" - Ma, dopo? - aveva subito riflettuto. - Come ne godrebbero coloro che mi hanno dato la spinta! Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: "La ragione! La ragione! ..." A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che deci de, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? - E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa. - Che posso piú farci? ... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: "Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!" Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente ... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei. - Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto. - Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente. - È per vedervi meno seria ... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo? ... Non lo negate: siete cangiata. - Come potrei essere la stessa? - Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, sí, vi voglio a quel modo! - Scendiamo -. Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci ross i e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde; ... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti. - Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse: - Indovinate che pensavo? - Se fossi stata indovina! - ella rispose. - Pensavo ... No, non voglio dirvelo -. Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava lí attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla. - Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi. - Vi ascolto. Dite tante belle cose! - Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento: - Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? - Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! - E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa? ... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata! Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera. - Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola. Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente. Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: "No, non dev'essere! ..." mentre avrebbe voluto dire il contrario. Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci: - Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato. - No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima. E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente: - Almeno m'ha creduto! - E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo. - Devi annoiarti in questa solitudine. - Ho pianoforte, musica, libri! ... E poi, mi dai tu forse tempo? - Faccio quel che posso. - Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú. - Non è neppure una marcia. In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano. - Ti annoi; perché negarlo? - Ti dico di no. - Tanto meglio -. Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina. - Che bella veduta! - ella disse. - Bellissima! - E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Racconti 3

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col piú ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse piú frequentemente le visite alla signora, e acconsentí anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora von Schwächen scoprí un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si dié segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero piú, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolare, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferí i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova se stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolare stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. «La mia è malefica!» conchiuse il professore. «La mia è peggio; è superflua!» conchiuse il discepolo -.

Roxa si accasciò nuovamente, piú abbattuto di prima. Povero Roxa! Non aveva neppur forza di proseguire. Avrebbe mai potuto imaginare che quella magra, quasi brutta e assolutamente insignificante, non ostante ch'egli si fosse lasciato indurre a sposarla e le volesse bene ancora dopo due anni di matrimonio e dopo la delusione dell'agognata genitura ... ? Avrebbe egli mai potuto imaginare che vi sarebbe stato al mondo un altr'uomo capace di farsene un'amante, come egli se n'era fatta una moglie? Avrebbe mai potuto imaginare che quella donna concepisse la maligna risoluzione di dimostrargli che l'ostacolo, no, non era in lei? ... Infelicissima idea, in verità, la viva insistenza di Emilio: «L'ostacolo è in te! L'ostacolo è in te!» Pur troppo la vanità (non la tentazione diabolica, com'egli supponeva) perde sovente un galantuomo! Eppure io non credo che la signora Roxa abbia avuto la perversa intenzione di una vendetta; credo piuttosto che ella abbia agito con animo sicuro, convinta dal marito che appunto l'«ostacolo» stesse in lei e che quindi non c'era da temere, in ogni caso, che ne venisse fuori la dimostrazione contraria. Quell'altro era inquilino della stessa casa, uscio a uscio, scapolo e collega di Emilio nella quarta divisione al ministero della guerra. Passavano le serate insieme, distraendosi con interminabili partite di scopa, fumando, bevendo qualche bicchiere di vino, chiacchierando, facendo un po' di maldicenza ... L'occasione, dicono, fa l'uomo ladro. Veramente il proverbio non mi sembra giusto, perché i veri ladri cercano l'occasione; ma lasciamo andare! Senza dubbio fu l'occasione che fece prevaricare la signora Roxa. E quando ella ebbe la sorpresa e la certezza ... A questo punto, caro professore, Emilio Roxa, oh! non raccontò piú, rappresentò la tragica scena. Io assistei a qualcosa di scespiriano interpretato dal Salvini dei migliori tempi! Scena indimenticabile, caro professore! Riveggo Emilio con quel viso di stupore animalesco, quasi la ragione gli si fosse annientata nel cervello, mentre mi ripeteva, imitandone fin la voce, le parole di sua moglie: «Sai, Emilio? ... Credo ... che il Signore ci ha fatto la grazia!» «Proprio, il Signore! Proprio, la grazia!» Le donne hanno a dirittura la privativa di certi mirabili eufemismi! Che cosa poteva risponderle? ... Avrebbe dovuto saltarle al collo, strozzarla per quella sfacciataggine! ... E allora? Egli si sarebbe smentito da sé. E c'era inoltre il fatto - Emilio non aveva resistito alla vanità di ripeterglielo parecchie volte - c'era il fatto del bambino avuto, nella prima giovinezza, da una di quelle donne che non si sposano e della paternità del quale egli non poteva dubitare ... - bambino bello come un angiolo e che pareva precisamente il suo ritratto ridotto in piccole proporzioni. - Poteva egli confessarle ora che, dopo una sciagurata malattia ... ? A quell'età si è imprudenti, non si bada a pericoli «Ma, dottore, è possibile? Non s'inganna?» «Ormai è un fatto accertato dalla scienza. Sí! Sí!» Gli tornava in mente la consultazione di due anni avanti, e rivedeva la seria figura del dottore che insisteva: «Sí! Sí! ... » Ed ecco, caro professore, la terribile situazione presente! Che dovrà fare il povero Emilio? Il figlio ... di quell'altro ... sta per nascere ... Emilio non ha forza né coraggio di disdirsi, dopo aver quasi rinfacciato tante volte alla moglie: «L'ostacolo è in te!» né trova modo di far valere la sua dignità offesa. «La colpa è mia! ripete, la colpa è mia!» E, in verità ... Per ciò egli lascia correre per ora. E con sua moglie finge di credere che il Signore, finalmente, gli abbia fatto la grazia; e non osa di chiudere in viso a quell'altro la porta di casa! Io mi atterrisco pensando quel che può accadere da un momento all'altro: una strage, forse! Un suicidio, forse! - Forse niente di tutto questo, dite voi, caro professore. Indovino? In certi momenti, riflettendo bene, quel naso mi rassicura. Non mi par naso da suicida o da assassino. Son sicuro che esso mi darà occasione di scrivere le piú belle e piú profonde pagine della mia Psicologia positiva del naso ... A questo mondo, caro professore, c'è sempre qualcuno che guadagna con le disgrazie degli altri!

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Da due o tre giorni il giovine cominciava a uscir dal letto, e ancor debole e abbattuto si era rannicchiato in portineria ad aspettare la signora. Suo padre era stato messo in libertà ed egli doveva ringraziarla dell'opera e della carità usata in questa circostanza. Voleva dimostrarle che sapeva perdonare anche lui a chi gli aveva fatto del male e che non gli mancava la buona volontà di cooperare a quel molto di bene che si poteva fare. Infine voleva rivederla, salutarla... Vestita di nero, coi capelli che cascavano quasi stanchi anch'essi sul collo e sulle spalle, nel disordine che segue alle notti mal dormite, cogli occhi abbruciati dalla veglia, la signora gli parve ingrandita e rischiarata d'una bellezza più pura e ideale. L'apertura del vestito lasciava scoperto un poco il collo d'una candidezza d'avorio, come d'avorio in quel nero parevano le mani. Rivedendo nella sua dolente realtà colei che gli era apparsa trasfigurata e raggiante nella poesia del delirio, sentì d'essere meno straniero verso la poverina. Avevano sofferto insieme. La zia Colomba lo aveva messo a parte di tutti i particolari per cui la signora era venuta a chiedere l'ospitalità in casa sua. Sul tavolino erano rimasti molti fogli di una lettera, scritta da lei nel furore d'uno spasimo mortale, e da quei frammenti il giovane aveva imparato a conoscere a quali gridi si abbandoni un'anima che insorge e che ricade accasciata sotto il peso delle cose. La storia di questi dolori era scritta anche sul volto appassito, nella bellezza attenuata, nel disordine della persona, nello sguardo intimidito e assente: e parlava nella voce, una voce che avreste detto venire da una donna sopravissuta a una tremenda catastrofe. "O Ferruccio, come sta? meglio?" "Sissignora, sto bene." "È pallidino ancora..." "Sono venuto a ringraziarla." "Suo padre?" "Son venuto anche a nome suo..." "Dimentichiamo..." "Oh! ne abbiamo bisogno..." "Pensi a guarir bene e si lasci veder presto alle Cascine." "Lei parte…" "È necessario: ho troppo bisogno di riposare. Venga e parleremo di questi interessi." "Verrò, sissignora." "Lei non ci abbandonerà..." disse, stendendogli lentamente la mano. "Oh no!... se lei comanda..." "Dobbiamo far del bene insieme." Egli non poté più cucire due sillabe. "Saluti la buona zia Colomba: verrò presto a ringraziarla." E serrando la mano del giovine nella sua, seguì papà Paolino, che aspettava presso una vettura. Ferruccio stette appoggiato al muro, cogli occhi incantati sulla carrozza, che si allontanava e si impiccioliva in mezzo al via vai e al frastuono della città. Sognava ancora a occhi aperti.

Lo vedeva ora così malato, così abbattuto... "Via, si faccia animo, papà, e disponga pure di me fin dove posso essere utile. Non c'è male per quanto grande, a cui Dio non trovi un rimedio ancor più grande. Lei è proprio malato, vedo bene. Ha bisogno di riposo, di tranquillità d'animo. Ha la febbre, sento. Anche il suo aspetto mi dice che non si sente bene. Devo chiamare l'Augusta?" Il vecchio fece segno di no. "Lei si sente male..." Arabella cominciò a tremare, e cercò svincolarsi per correre a chiamar gente; ma lui la trattenne forte per un lembo del vestito: e mormorando parole grosse e confuse, le fece capire che voleva scrivere. "Scrivere" e indicò col dito un calamaio sul tavolino da lavoro. Arabella accostò il tavolino, aprì il calamaio, stese un foglio, mise la penna in mano al vecchio, obbedendo in preda a una convulsa agitazione ai cenni di quel povero uomo, che la tratteneva sempre per il lembo del vestito. "Passa, passa..." mormorò con voce di fiera malinconia il vecchio come se si riavesse da una momentanea vertigine. Appoggiò la testa alla mano sinistra, strappando con l'altra il vestito della giovane, che s'inginocchiò, cedendo quasi all'invito d'un comando interiore. "Ho da chiamare qualcuno?" "No, sto bene. Sta qui." E dopo aver arzigogolato un poco colla penna, il vecchio malato cominciò a scrivere in righe oblique mostrando nella contrazione dolorosa del viso duro e pallidissimo lo sforzo della fuggente volontà Arabella, che sentivasi molle il viso di lagrime, vide che a un certo punto la mano del vecchio s'irrigidì. Fu per gettare un grido di avviso; ma egli se ne accorse. Svegliandosi, la guardò teneramente, mosse le labbra a un sorriso morto, e allungando la mano a riprendere quella di Arabella, dopo un lungo sforzo per formulare la parola, disse: "Prega..." Arabella aprì le braccia e sorresse il corpo cadente, mentre cogli occhi pareva chiedere soccorso intorno a sé. Quando si accorse che il malato veniva meno, non trovando in se stessa la forza né di gridare, né di sollevarsi, allungò la mano fino a toccare il bottone del campanello elettrico, e riempì la casa d'uno squillo lungo e spaventato. Sentì correre gente. Entrò l'Augusta, che visto il viso irrigidito del vecchio e gli occhi spaventati della signora corse fuori a chiamar la Gioconda. Le due donne prestarono i primi soccorsi: finché qualche vicino avvertì il portinaio e si mandò per il dottore.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Beatrice trovò Demetrio molto abbattuto e invecchiato, e lui s'umiliò al cospetto di una signora che pareva cresciuta di nobiltà nell'eleganza degli abiti nuovi e signorili. "Che cosa è accaduto?" chiese ella per la prima, mentre abbracciava con una rapida occhiata la povertà della stanza in disordine e la valigia fatta e pronta sopra la tavola. "Che cosa?" chiese distrattamente Demetrio fingendo di non capire il senso della domanda. "Sono venuta apposta anche per questo, e non voglio partire senza conoscere la verità." "Quale verità? sedetevi." Demetrio mandò avanti una sedia, dove Beatrice si pose a sedere, mentre egli tornava ad appoggiarsi colla vita alla tavola. "Paolino aveva bisogno di parlarvi, è venuto a Milano, andò a cercarvi all'ufficio e ha sentito ... " "Che cosa?" chiese con un filo di voce Demetrio, abbassando gli occhi. "Ha sentito che avete avuta una brutta scena col cavaliere in seguito alla quale siete stato licenziato. È vero?" "Non licenziato" mormorò languidamente con un tenue sorriso. "O vi hanno traslocato in un paese lontano: è vero? Perché non avete seguíto il mio consiglio? Avete forse voluto difendermi troppo ... e v'è capitato male." "Troppo? non si difende mai troppo una povera donna insidiata, calunniata" esclamò Demetrio con un tono vibrato e caldo di voce. "Voi non ne avete nessuna colpa." "Povera me, come sono disgraziata!" scoppiò a dire Beatrice, portando in fretta e furia il fazzolettino agli occhi. "Paolino è tornato a casa tutto fuori di sé, ha fatto una scena colla Carolina, vuole che io gli spieghi questo mistero del braccialetto, suppone non so quali tradimenti ... Che gli devo dire, per amor di Dio? Questo matrimonio si doveva fare in agosto e invece s'è scoperto che non si potrà fare prima dell'inverno: anche questa circostanza aiuta a rendere Paolino inquieto e di malumore. Scrivetegli voi, per carità, o lasciatevi vedere una volta. Voi solo potrete dimostrargli che io non ho avuta nessuna colpa in tutta questa scena dolorosa, dissiperete tutti i suoi sospetti, distruggerete le calunnie della gente cattiva." "Io?" esclamò Demetrio come se parlasse a sé stesso. Appoggiato colle mani alla tavola, fissò uno sguardo gentile e carezzevole su quella povera donna, che aveva ancora una volta tanto bisogno di lui: e provò in fondo al cuore ancora una volta una vanitosa compiacenza, un soave orgoglio di sé. Per un bizzarro ritorno d'impressioni gli venne in mente la prima volta ch'egli s'era incontrato in Beatrice, in casa sua, nel salotto elegante, e che la povera donna, dall'alto del suo trono di cartapesta, aveva disprezzato i consigli d'un galantuomo: quante cose da quel giorno in poi! quante mortificazioni, quanta pazienza, quanta rassegnazione c'era voluto per non perdere i frutti di una buona intenzione! Chi aveva vinto? La gente che giudica all'ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri, cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a lui nella luce blanda d'un tramonto di estate, esultava ancora nella coscienza di un trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti, né ai fortunati. Beatrice non era salita per la seconda volta alla modesta soffitta per consolare le malinconie di un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e consigli a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria dunque? Ecco quello che passò rapidamente e senza ordine nel suo cuore, mentre Beatrice finiva di piangere. Il signor Paolino, nell'estasi della sua fortuna, alla vigilia di un ineffabile godimento, non aveva saputo resistere all'insidia del male. Una parola sinistra, una voce in aria, raccolta nell'anticamera d'un ufficio, era bastata come una goccia d'aceto a corrompere il latte della sua felicità; il sospetto, la diffidenza, l'ingiuria si mescolavano già ad un amore tutto fatto di bisogni e di ciechi desiderii, a un amore che non resiste alle prove dure e tiranniche della vita. Se un povero impiegatello destituito e traslocato, che aveva dovuto vendere il letto per mettere insieme i denari del viaggio, avesse in quel momento ritirata la mano dalla testa di quella donna: avesse — obbedendo a una ruvida istigazione dell'invidia e della passione — rifiutata una spiegazione a un uomo che non la meritava piú, che cosa sarebbe stato di Beatrice e de' suoi figliuoli? che cosa sarebbe stato di Paolino? Questa paurosa apprensione egli lesse bene negli occhi lagrimosi di Beatrice, quando si alzarono verso di lui quasi in atto di invocare misericordia. Se egli fosse stato un uomo cattivo ... ma che cattivo? se egli fosse stato soltanto una persona rispettabile come il suo superiore, o un galantuomo dei soliti sul genere di Paolino, avrebbe ben saputo trarre da questo gruppo di circostanze almeno l'interesse dei suoi sacrifici. È bene o male essere un po' diversi dagli altri? "Beatrice" disse, distaccandosi dalla tavola e avvicinandosi due passi. Si fermò davanti a lei in una attitudine tranquilla di padre indulgente e amoroso, e, lasciando sgorgare l'onda delle parole secondo l'ispirazione del cuore, soggiunse: "Io scriverò al signor Paolino, non solo per difendere la vostra innocenza e per risolvere tutti gli equivoci che possono essere nati, in mezzo a tante ciarle; ma gli dirò anche quanto si faccia torto e quanto divenga indegno di voi con delle diffidenze, che ingiuriano una donna onesta non meno delle insidie di chi la tenta coi piccoli regali." Beatrice, scossa dal suono vibrato con cui Demetrio pronunciò queste parole, alzò gli occhi e stette a sentire senza battere palpebra. Le fece subito piacere l'energia con cui suo cognato prometteva di difenderla. Era venuta apposta per avere in lui un valido avvocato difensore. Guai se Paolino si fosse intiepidito e avesse mandato a monte ogni cosa! che avrebbe dovuto fare co’ suoi tre figliuoli? e la vergogna, e le ciarle della gente, e la nuova miseria piú grande se non piú spaventosa della vecchia? Ecco cosa dicevano i suoi occhi, mentre Demetrio, fisso alla linea ancora luminosa del lontano tramonto, colle mani giunte, quasi appoggiate alla bocca, con una visibile tensione di tutti i nervi, seguitava: "Gli dirò che non vi merita, perché non ha avuto fede precisamente in ciò che voi avete di piú prezioso e di piú nobile, la vostra onestà. Questo sentimento, questa preziosa eredità, voi, anche povera, la lascerete in dote alla vostra Arabella" il nome della fanciulla fu come un gruppo che fermò un istante il discorso "e il signor Paolino non ci ha creduto. Anch'io, è vero, ho diffidato una volta, anch'io ho accolto leggermente le voci della malizia, ma erano diverse circostanze, e non vi amavo ... allora ... come dice di amarvi quest'uomo che vi manca di rispetto ... ." Beatrice aprí un poco la bocca a un fiato di sorpresa. Perché si corrucciava tanto suo cognato? Demetrio si accorse anche lui d'essersi lasciato trasportare un po' troppo. Si fermò, abbassò gli occhi verso di lei, stentando le parole, che si sprofondavano nella gola, parlando insomma attraverso al singhiozzo: "Gli scriverò," disse, "gli scriverò dimani da Genova ... Addio, state bene ... Aggiusterò tutto: addio!.. siate felice ... ." Beatrice, quasi sollevata da lui, s'alzò lentamente senza togliere gli occhi dal viso di suo cognato, che, dopo averla commossa in modo straordinario, si commoveva anche lui fino alle lagrime, e diceva parole strane, agitando la mano nervosa e smarrita davanti alla bocca, tremando in tutta la persona magra e rannicchiata come un uomo che cerca di fuggire da un tremendo disastro. Che aveva quel povero uomo? che fosse ancora ammalato? che gli rincrescesse di partire e di lasciare la sua gente? Furono tre o quattro questioni, che si presentarono insieme in quel momento all'intelletto non sublime della povera donna, che, abituata a vivere di sé, incapace di supporre mali lontani diversi dai suoi, e pur sentendosi cagione delle lagrime di Demetrio, stava lí in piedi, vittima anch'essa della sua meraviglia, lontana ancora molti passi dalla verità, incapace di andarle incontro. "Voi partite dimani? È proprio vero? È per causa mia che vi tocca di partire?" chiese con un naturale tremito di voce. "Non per causa vostra ... È il destino cosí. È forse meglio per me ... ." Rimasero un altro mezzo minuto l'uno in faccia all'altra senza poter parlare, egli combattendo una estrema e violenta battaglia colle sue lagrime, essa quasi stordita dal suo stesso non capire. Seguitava ad interrogare quel poverino cogli occhi grandi, incantati, senza un'idea chiara di quel che desiderasse sapere da lui, ma agitata da un senso misterioso di pietà e di paura. Demetrio con la faccia piú stravolta che rallegrata da un sorriso d'uomo malato, agitò ancora la mano nel vuoto, come se cercasse di ravvivare un discorso rimasto spezzato. "Che cosa avete, povero Demetrio?" A questa dimanda e piú che alle parole al suono intenerito della voce, come se tutta la vita gli rifluisse nel cuore, affascinato e tratto dalla sua stessa debolezza e da una vertigine soave, si abbandonò verso quella tenera compassione di donna, come un bambino impaurito, che corre a rifugiarsi nella gonna della madre. La stanza si riempí della luce ch'egli aveva negli occhi, in cui guizzavano le scintille del crepuscolo; la pregò ancora una volta, sigillando la bocca colle dita, di compatirlo, di andar via: la spinse anzi un poco verso la porta, allungando il braccio e la mano con cui teneva nervosamente stretta la piccola mano di lei, si attaccò, per non andare in terra, alla sponda della sedia, vi si rannicchiò, vi si rimpicciolí sopra, e gridando piú che pronunciando: "Andate via ... per carità ... " lasciò irrompere senza piú nessun freno quel torrente amaro di dolori, che lo rendevano cosí debole e vile. A uno scoppio cosí improvviso di lagrime, dalle quali usciva una confessione non meno impreveduta che imbarazzante, il volto di Beatrice si offuscò forse per la prima volta in vita sua di una nuvola di cupa tristezza. Sulle prime non osò credere; si sforzò anzi di non capire ciò che diventava sempre piú evidente, cioè che Demetrio l'amava. Si guardò intorno, come se cercasse di orizzontarsi in quel mondo di affezioni e di afflizioni nuove che il piangere di Demetrio andava suscitando vicino a lei. Si chinò un poco verso il meschino, provò a parlare, ma che cosa doveva dire? Avrebbe voluto che ciò non fosse, gliene rincresceva: che poteva fare lei? quando aveva dato un motivo a questo uomo di credere? All'urto di queste varie questioni, che balzavano e cozzavano nella sua testa, sentí anch'essa una gran voglia di piangere, come una fanciullina che, uscita troppo lontana da casa sua, si trova còlta dalla sera e comincia a temere di perdere la strada. Si sarebbe detto che la violenta necessità di non mostrarsi dura e cattiva coll'unico uomo che le aveva fatto tanto bene, spremesse quanto c'era di buono, di caritatevole, di delicato nel suo cuore. Provò un forte soffocamento di respiro, il petto le si gonfiò, il cuore cominciò a battere con immenso dolore, come se qualche cosa si rompesse in lei, come se in questo primo sforzo intelligente della sua vita, dalla bambola uscisse la donna. Certo qualche cosa di vivo e di caldo sgorgava da quel patimento. "Perdonatemi, Beatrice, sono malato, non so piú quello che mi dico e quello che mi faccio. Sono quattro mesi che soffro cosí, senza parlare mai con nessuno: e sarei partito cosí, senza piú vedervi, se voi non venivate quassú a cogliermi in un momento di malinconia." Demetrio parlava senza alzare la testa dalle mani. "Per amore dei vostri figliuoli, che ho amato come se fossero miei, non fate nessun conto delle mie parole, non dite niente, dimenticatevi anche voi ... Non ricordate se non quel po' di bene che ho voluto ai figli di Cesarino ... Andate via ... ." "Io non potrò mai dimenticare quello che avete fatto per me ... " provò a dire la donna, con una voce che risonò anche al suo orecchio in un tono piú caldo e diverso dal solito. "Avete detto bene: è il destino ... Abbiate pazienza, Demetrio." "Sí, sí, sí!" esclamò Demetrio, sollevando la testa e sporgendo sulla sedia le due mani giunte, come se volesse rinnovare una preghiera. "Sono uno sciocco ... lo so: addio, non vogliatemi male." E cercò di sorridere per togliere al discorso quanto vi poteva essere di penoso e d'imbarazzante per lei. "Abbiate pazienza ... " ripeté meccanicamente Beatrice, avviandosi verso l'uscio, tremando, stentando il passo, come se due forze contrarie si disputassero la sua pigra volontà. Sulla soglia si fermò, chinò la testa quasi contro lo stipite, soffrendo della sua ignoranza che non le suggeriva nulla da dire, nemmeno una parola di cortesia e di carità verso un uomo che aveva sacrificato tutto per lei, il suo pane, la sua pace, la sua libertà, il suo cuore, soffrendo in silenzio, senza chiedere mai nulla per sé. Si fece improvvisamente pallida ... Demetrio, accovacciato, piú che seduto sulla sedia, la contemplava coll'avidità con cui il morente segue l'ultima striscia di lume che tremola nella sua pupilla. Poi chinò un poco la testa. La credeva partita ... Beatrice, appoggiata colla mano all'uscio, si volse ancora una volta e con una voce ancora piú commossa esclamò: "Mi perdonate, Demetrio? vi ricorderete ancora dei miei figliuoli? volete che vi mandi Arabella? Il Signore compenserà le vostre buone intenzioni ... , fatevi coraggio: non datemi questo rimorso di sapere che, mentre io sono felice, voi soffrite tanto. Scrivete qualche volta e se possiamo fare qualche cosa per voi ... ." Di mano in mano che ella parlava, lasciando che le parole uscissero naturalmente, egli sentiva ritornare il calore della vita e il senso delle cose. Nella luce quasi estinta del crepuscolo, Demetrio vide avanzarsi di nuovo quella donna e sopraffarlo colla grandezza della di lei persona. Una mano si posava sulla sua testa, da cui scese un brivido a invadere il corpo. Sentí ancora un bisbiglio confuso di parole, e un'onda tiepida che lo travolgeva: e credette che fosse arrivato l'ultimo momento della vita. Quando si rivegliò, si trovò steso in terra ai piedi della sedia. Un raggio di luna, entrando dalla finestra aperta, disegnava sull'ammattonato i graticci delle gabbie vuote. Quando Beatrice venne via dalla casa di Demetrio era quasi buio, e, camminando tra la gente, si sentí come sola e perduta in una grande città. La scena straziante a cui aveva assistito, la miseria di quella stanza lassú, l'abbattimento fisico e morale del cognato, l'idea del castigo che, per cagion sua, se non proprio per colpa sua, cadeva addosso al povero disgraziato, la paura che Paolino tirasse da tutto ciò un pretesto per non mantenere la sua promessa e la lasciasse sulla strada, lei e i figliuoli, questi furono gli spaventi che l'accompagnarono a casa. Una volta arrivata e chiusa dentro, sentí anche lassú il doloroso silenzio d'una casa abbandonata che si sfascia. Della poca roba salvata dalle mani dei creditori, parte era andata alle Cascine, parte giaceva in disordine accatastata ai muri. Di intatto non rimanevano che la stanza da letto, dove avrebbe dormito forse per l'ultima volta in compagnia di Arabella, che, finiti gli esami, doveva seguire la mamma a Chiaravalle. La ragazza, che in questo matrimonio della mamma rappresentava una parte passiva di silenziosa protesta, andava cercando una scusa per rimanere a Milano presso i Grissini, o in collegio presso le monache, che d'estate conducono le allieve al mare. Ma il signor Paolino si lamentava già della mancanza della figliuola, e non era il momento di disgustarlo anche in una piccola cosa. Che brutta notte passò per l'ultima volta nel suo letto grande la vedova! Arabella, quantunque provasse un piccolo brivido nelle ossa, quando entrò a occupare il posto del suo povero papà, tuttavia, vinta dal sonno facile della sua età, verso le undici si addormentò. Ma la mamma contò tutte le ore e tutti i quarti senza poter raccogliere un'ombra di sonno. Troppe cose uscivano dal cuore, come il sangue cola da una fresca ferita. Ma piú ancora che il cuore, la testa andava mulinando e annaspando pensieri sopra pensieri, reminiscenze, casi sopra casi, immagini scomparse da un pezzo, risuscitando morti e vivi, avvicinando le cose piú secondarie, con tal precipizio, che piú di una volta si sollevò dal cuscino e si passò la mano sulla fronte. Quella testa, cosí poco abituata a riflettere, soffriva sotto la matassa delle cose che il destino le imponeva di dipanare. Ella lesse e rilesse, si può dire da capo, tutto il libro della sua vita. Si rivide fanciulla in collegio a Lodi, presso le Dame inglesi, non fra le prime, e nemmeno fra le ultime della sua classe; da Lodi tornò a Melegnano ancora a tempo per godere gli ultimi raggi della fortuna di suo padre; fu per alcuni anni una corte bandita. Prima che venissero i giorni tristi, eccola a Milano a braccio di Cesarino. Il suo noviziato di sposa fu pieno di care novità e di dolci sorprese. Cesarino, quantunque facile a irritarsi e di gusti difficili, non aveva mai risparmiato sacrifici, perché sua moglie facesse una buona figura nella società. Agli anni felici erano seguiti i mesi della espiazione. Ricordò il primo incontro con Demetrio, il piangere, il soffrire ch'ella aveva fatto sotto il suo bastone. In casa era la miseria e la fame; di fuori il fallimento di suo padre, l'insidia dei protettori, le trappole delle false amiche. Essa aveva vissuto piú in quei pochi mesi che in tutti gli anni prima. Ed ora, mentre stava per tirare il fiato e ricomporre la sua fortuna, ecco una nuova tribolazione. Quantunque Paolino parlasse soltanto del braccialetto e del cavaliere, era evidente che il contegno scontroso e freddo del cugino aveva fatto nascere in lui il sospetto che anche Demetrio avesse del fuoco al cuore. Forse tra lor due s'erano già dette delle parole vive, e nulla era di piú naturale che Paolino s'ingelosisse e mandasse a monte il matrimonio. Ella dunque era chiamata a scegliere tra questi due uomini, ossia non era piú nemmeno il caso di scegliere. Il suo destino non poteva essere che uno solo, quello di salvare un pane ai suoi figliuoli. Era dover suo di dimostrare a Paolino che mai aveva pensato a Demetrio, che nessuno gli era stato al mondo piú antipatico e piú odioso ... In questa lotta di due uomini, per non dire di due ombre, si mescolava nei brevi sopori della fantasia un'altra ombra, quella di Cesarino, che pareva quasi contento che tutto andasse a monte senza che Beatrice, immersa nel superficiale dormiveglia delle ore mattutine, potesse afferrarne il motivo. Sentí Arabella che parlava in sogno. Suonavano in quella tre ore a San Lorenzo. La bambina, che si era addormentata sopra una paurosa sensazione, e che continuava anch'essa ne' suoi sogni a leggere il piccolo libro della sua vita, a un certo punto balzò a sedere sul letto, esterrefatta, e gridò: "No, papà, no, papà ... Mandate via quel cane ... Mandate via quel cane ... ." "Arabella, che hai? che cosa dici?" dimandò la mamma, balzando anch'essa a sedere sul letto, stringendo la ragazza nelle braccia. Questa si lasciò prendere e cercò un rifugio nel seno della mamma. I cuori di quelle due donne battevano e balzavano insieme sotto i colpi della paura. Rimasero abbracciate fino alla mattina, tremando insieme e sospirando lo spuntar del dí. Beatrice pensò che gli spaventi d’Arabella derivassero da qualche bisogno che la pover'anima del suo Cesarino avesse nel mondo di là, e invitò la figliuola a togliersi subito dalle lenzuola per andare insieme fino al cimitero a pregare e a salutare ancora una volta il papà prima di lasciar Milano. Demetrio aveva fatto porre un piccolo sasso sulla fossa, approfittando di quello stesso che era servito per papà Vincenzo e che, passato il termine decennale, egli avrebbe dovuto rimettere pagando di nuovo il posto. Nel bisogno di fare qualche economia, sperò che il buon vecchio non se ne avrebbe avuto a male, e fece collocare la pietra con le altre parole sulla fossa del suo figliuolo prediletto, compiendo cosí quell'opera di misericordia e di perdono, che era cominciata per lui quasi trent'anni prima. Le due donne stavano ancora vestendosi, quando una forte scampanellata le fece trasalire. Chi poteva essere a quell'ora? Beatrice si fece il segno della croce e andò a dimandare all'uscio. "Sono io, il Berretta ... " disse la nota voce del portinaio. "Che cosa c'è?" dimandò aprendo la porta. "M'avete fatto un tal spavento!" "C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice." "Un signore? non vi ha detto il suo nome?" "No, o forse non ho capito." "Non lo conoscete?" "Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia…" "Ditegli che veniamo subito abbasso ... " soggiunse Beatrice con un tremito nella voce. S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia. Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela. Sotto il portico, a’ piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui. Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette. I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta. Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta. Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse: "Leggi tu." Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane: "Che bisogno?" "No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri ... ." "Che cosa ho detto?" "Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque." "Se è per capriccio tuo ... ." Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora. "È la signora Pianelli che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera. "Oh!" fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa vuole la signora delle Cascine?" "T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina." "Che onore!" declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra. "Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento ... ." "Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?" "Non ho questo bene." "Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo." Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò: "Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano." Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti. Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet , nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone. "Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo." Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo. "Che ne dici, dunque? debbo accettare?" "Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te." "Non ne ho nessuna voglia" soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro. "Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira. "Non ho nemmeno un vestito adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi. "Per questo siamo in un Milano ... ." In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa. Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante. Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri. Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno. Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei. Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Fu solamente verso le quattro del mattino che il povero afflitto poté addormentarsi, abbattuto dalla sua stessa fatica. Sognò cose meno torbide, cose lontane, in cui entravano le camicie rosse dei garibaldini, il lago di Garda, le montagne del Tirolo e certi viottoli angusti e sdrucciolevoli, per cui passava una compagnia di soldati sotto un'acquerugiola fina, fredda, noiosa; finché gli parve di arrivare a un certo podere, dove bisognò piantare le tende. Fu allora che intese per la prima volta chiamare: Giacomo, Giacomo! Gli pareva di stringersi nella meschina coperta, di rannicchiarsi sotto la tenda umidiccia, cercava di riprendere sonno, quando di nuovo sentí la voce che lo chiamava. Stava per rispondere: presente: e in quella alzò la testa dal cuscino. Riconobbe che aveva dormito e sognato. Cominciava appena ad albeggiare. - Giacomo! - risonò di nuovo la voce, dalla parte della corte. "Chi mi chiama?" domandò mentalmente, senza alzare la testa. - Oh il mio Giacomo, sono io . - Sei tu? Dio, Dio, è lei - disse a voce alta mettendosi a sedere sul letto, come se si sentisse afferrato da una forza non umana. - Giacomo, senti, sono la tua Celestina - chiamava la voce dolente con una intonazione di tenerezza. - Non sogno, Dio! è lei. - Prese i vestiti dalla sedia, se li indossò in fretta, mentre andava ripetendo macchinalmente: - Dio, è lei. Sei tu? - gridò aprendo la finestra e sporgendo il capo a cercar nella corte. Il giorno era appena chiaro, di quella prima luce che lotta ancora colla pigrizia della notte: ma il riflesso vivo della neve aiutava a far vedere le facciate delle case e i contorni degli oggetti. Giacomo cercò lungo il muro e vide la figura di una donna, ritta in piedi, colla mano sul paletto dell'uscio. - Sei tu? o Madonna, aspetta che vengo . Calzò le scarpe, avvolse la gola scoperta in una sciarpa di lana, uscí sulla loggetta, scese nel buio passaggio della scala, attraversò a tentoni la cucina fredda come una ghiacciaia, fece saltare l'arpione dell'uscio, andò fuori . - O Giacomo, non mi cacci via? - La voce di Celestina aveva in sé qualche cosa di ridente. Giacomo aprí le braccia, strinse quel povero corpo indurito dal freddo, fracido di pioggia, le impedí di gridare mettendole una mano sulla bocca: - Taci, dormono: entra. Sei proprio tu? - Sí, sono io, proprio io: tu non mi cacci via . - Da dove vieni? sei venuta sola? - Sono scappata. Lasciami morir qui, Giacomo. Egli la fece entrare e nell'oscurità dell'uscio, che richiusero dietro di sé, i due promessi sposi si baciarono, si carezzarono, piansero, mescolarono le loro lagrime, si strinsero cuore su cuore, per finir di soffrire tutto quel male, che non aveva piú parole, che non comprendevano piú, che li travolgeva come un grosso fiume, verso una profondità, in cui non senza un'idea di contentezza sentivano che c'era la fine di tutto. - Tu sei malata, tu hai la febbre - disse Giacomo, quando sentí il povero corpo guizzare nelle braccia in un tremito violento e convulso. - No, sto bene, Giacomo - rispose, sempre colla sua voce ridente la poverina. - Vieni, che accendo il fuoco. Sei scappata? sola, di notte? che cos'hai fatto? Sei venuta da Buttinigo fin qui a piedi? - Giacomo, che tremava anche lui di freddo e di emozione, dopo aver cercato gli zolfanelli sulla pietra del camino, accese un moccoletto, tolse dal cassone un gran fascio di sottili stramaglie, l'ammucchiò sul focolare, vi appiccò il fuoco, e, quando la fiamma cominciò a farsi strada e a crepitare, trasse la Celestina a sedere sulla cassapanca, le tolse dalle spalle lo scialle impregnato d'acqua, le asciugò col fazzoletto la testa grondante e, vedendola rianimarsi al calore della fiamma, si domandò se per caso non fosse ancora uno strano sogno. Chi sa misurare la grossezza del filo che intercede tra la verità e il sogno? e chi non ha visto, sognando, la segreta anima delle cose? - A Imbersago ho dovuto aspettare quasi una mezz'ora che la chiatta del porto venisse a portarmi di qua: pioveva e non mi sono accorta. Ma ora sto bene: questa fiammata è il paradiso. - Hai camminato tutta la notte nella neve? - Sempre. Era cosí bello. Fu nel discendere verso il porto per un sentiero gelato e liscio come un vetro che son due volte sdrucciolata ma non è nulla. Ora sto bene qui accanto a te. Giacomo dallo squallido disordine delle vesti, che portavano i larghi segni dello strapazzo e del fango, e piú ancora dell'animazione eccessiva, quasi nervosa, che spingeva la poveretta a ridere e a celiare sulla sua avventura, fu tratto a pensare che lo strano viaggio non fosse andato senza pericoli e senza spaventi. Le scarpe, le calze erano una pietà. Il fango impiastricciava le balzane, i gomiti, il volto fin sopra i capelli. C'era sulla fronte qualche riga di sangue. Al bagliore dei fuoco gli occhi di lei risplendevano d'una luce fissa e cristallina, che pareva mirar lontano. Le braccia avevan bisogno di stirarsi: il corpo pareva desiderare d'annidarsi in quella gran fiamma, che riempiva il camino. Pure, con tutto questo, essa era contenta d'essere arrivata, e parlava sempre con voce elevata, ridente, piena d'infantile contentezza. Giacomo cercò nell'armadio la bottiglia della vecchia acquavite, che il povero pà soleva versare nel caffè. - Bevi, questa ti farà bene: ti scalderà lo stomaco. Essa prese il bicchierino colla mano traballante e tracannò il liquore con avidità, come se fosse latte. Le sue gote si rianimarono subito d'un calore interno. - Grazie della carità. Come sei buono, Giacomo! - Togliti le scarpe: fai pietà - pregò con voce sommessa. - Hai ragione: ho i piedi rotti. Fu un grande andare. - E con docile obbedienza lasciò che colla lama del temperino egli tagliasse le stringhe e aiutasse a levar le povere scarpe, che non erano più scarpette da ballo. Le tolse anche le calze, che parevan state in molle e volle che asciugasse i piedi nudi alla fiamma. Celestina lasciò fare con una infantile accondiscendenza, provando nella gioia fisica di quel calore, che la ristorava, qualche cosa di lieto e di splendido, che correva ad accendere tutti gli spiriti della vita. Cominciò a raccontare con tono eccitato e molto sconnesso le avventure della sua fuga: come avesse ingannato le due signore, perché lei in un ospizio non ci voleva andare: si era accorta che volevan seppellirla viva: disse anche come da qualche tempo le mettevano nel pane, che aveva un sapore amarognolo, una piccola goccia di veleno per farla morire a poco a poco. Allora pensò di fuggire: uscí di casa dietro il carretto del Pasqua e s'era incamminata per quella benedetta strada lunga lunga lunga, tutta coperta di neve. Una volta incontrò il Manetta, che le disse: È arrivato il Garibaldi. Allora s'era consolata tutta: ma alcune donne, che andavano al mercato di Merate, la volevano condurre con loro per raccomandarla alla Madonna del Bosco, dove c'è un lupo che mangia i bambini. Ma essa capí che volevano farla perdere, perché eran streghe travestite. - Il portolano d'Imbersago, quando mi vide comparire cosí,come se fossi stata pescata allora dall'Adda, non voleva a tutti i costi trasportarmi dall'altra parte. C'era una nebbia, ve'. Provò a chiamare un ometto colla barbetta rossa, che voleva sapere chi aveva colta la castagna, chi l'aveva sbucciata e mangiata. Io dissi a quei due burloni che avevano buon tempo e feci vedere un cinque franchi. Allora si persuasero a portarmi di qua. L'acqua era verde come una biscia. Poi non ebbi piú paura di nessuno, perché sapevo che di qua c'eri tu, Giacomo; ma devo aver perduto il borsellino colle sessanta lire della contessa. Credi che abbian potuto rubarmelo quei vecchi? l'ometto dalla barbetta rossa, se non era il diavolo colle scarpe, era uno de' suoi figliuoli piú vecchi. - La febbricitante, mentre raccontava cosí, a spizzico, sconnessamente, non cessò dal togliersi le forcine dai capelli, che sciolse interamente e spremette colle mani, fissando con un sorriso di tenerezza il suo Giacomo. A un tratto, come se venisse meno ogni motivo di gioia, si rannuvolò, strinse nella mano convulsa una treccia e rimase immobile, cogli occhi fissi sulla brage, simile all'immagine simbolica dell'afflizione. - L'Adda era verde come una biscia, - ripigliò colla voce di chi parla in delirio - ma quando fui al di qua del fiume, non ebbi piú paura di nulla. Di qua ci sei tu, Giacomo; tu sei il mio Gesú. - E sporgendo un piede nudo verso la fiamma, soggiunse con dolorosa ironia: - L'ometto dalla barbetta rossa voleva che lo sposassi; ma io gli dissi: "Levatevi la scarpa: fate vedere il piede. Certo era il diavolo". Detto questo, appoggiò la testa stanca al palmo della mano, chiuse gli occhi, abbandonò il corpo e, se Giacomo non era pronto a riceverla fra le braccia, stramazzava nelle fiamme, rotta dal sonno e dallo strapazzo. Egli lasciò che posasse la testa dolente sulla sua spalla, la sorresse col braccio, circondandola, le ricoprí colla sciarpa i piedi, e se la tenne addormentata un pezzo, rannicchiandosi nell'angolo del vecchio camino, mentre la fiamma si spegneva a poco a poco nella cenere e cresceva la luce bianca del dí a schiarire le cose. Il gallo cantò. Poco dopo, cominciarono le campane a sonare l'avemaria, rompendo l'aria muta e ghiacciata con una specie di domestica cantilena. Era proprio Celestina, che dormiva sulla sua spalla colle labbra aperte a un inerte sorriso, sotto i colpi di piccoli fremiti. Era lei, era la sua povera Celestina, che gli parlava coi gemiti del suo dolore assopito. E nel carezzarne i capelli, sentiva uno strano bisogno di ripeterle cose dolci e soavi; come se tra lor due non fosse mai discesa alcuna fatalità. Nella luce ardente di questo istante presente impallidivano i ricordi del passato. Alla realtà l'animo commosso non sapeva opporre che una morta resistenza. La ragione non parlava piú, finalmente, in lui, ma dall'anima sua buona e commossa traboccava la santa pietà, la santa forza operosa che libera e redime. Che cosa diventano i piccoli argomenti della piccola logica davanti all'onda di quel sentimento di amore e di carità? - Tu sei il mio Gesú - essa aveva detto nell'invocare la sua misericordia; e forse parlava veramente al suo cuore una carità piú grande del mondo, quella che Gesú recò sulla croce e che vinse contro le leggi del mondo. - O povera "Frulin" - le andava ripetendo, parlandole sommessamente nei capelli: - Che cosa hanno fatto di te? perché ti hanno ridotta cosí? che male abbiamo fatto noi due per essere cosí puniti? L'ascoltava essa? pareva che uno spirito vegliasse nell'oscurità profonda di quel sonno letale, che impiombava le sue palpebre e snervava tutte le sue forze, perché alle parole carezzevoli rispondeva talvolta un breve corrugare delle ciglia, un movimento languido delle labbra, che cercavano ancora un sorriso. Di mano in mano che la luce si diffondeva nella stanza e i pensieri della realtà entravano a dominare la sua commozione, Giacomo, nel contemplare quel povero corpo rattrappito nelle sue braccia, quei piedi nudi illividiti, le vesti sciupate, i capelli cascanti sul viso arso dalla febbre, non seppe più trattenere il pianto. Credeva che fosse inaridita per sempre la fonte delle lagrime, e invece se le sentiva colare tiepide e larghe nei solchi del viso, le vedeva scorrere come un vero lavacro dagli occhi suoi sul viso e sulle mani della disgraziata . - Povera Celestina, povera "Frulin"! se ti vedesse lo zio Mauro, che ti voleva tanto bene. Perché dovevo provare questo dolore? no, no, non avrei mai creduto che si andasse cosí lontano nella via del patimento. Se non si muore di questi mali, è segno che veramente c'e in noi qualche cosa che non può morire. Cosí parlava o credeva di parlare a lei, ma in fondo non faceva che ascoltare sé stesso. E intanto non osava muoversi per paura di rompere quel breve momento di riposo e di benedetta dimenticanza, che la ristorava. Pensava che, perché la poverina avesse avuta l'audacia di fuggir da una casa ospitale di notte, e di mettersi tutta sola per una strada piena di neve, affrontando i pericoli e gli sgomenti di un viaggio cosí pauroso, questo voleva dire che la febbre dei suoi mali l'aveva eccitata fino al delirio. Ne' suoi discorsi, nel suo stesso ridere festoso c'era già qualche cosa di troppo, di oscuro, di irregolare; e questa febbre cresceva spaventosamente ad abbracciarla, la faceva gemere nel sonno, emanava in una vampa rovente, in cui cominciava ad ardere egli stesso, come di un fuoco che si propaga . Finalmente sentí muovere nella stanza di sopra gli zoccoletti della Lisa, che poco dopo sonarono sulla loggetta. Aspettò ch'ella venisse dabbasso e, quando la vide entrare in cucina, le fece un richiamo colla mano.

Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

I tempi son grossi di arie cattive e una cattiva filosofia è sempre la staffetta d'una cattiva repubblica, L'abbiam visto in Francia ai tempi della Rivoluzione, quando sul posto d'ogni altare abbattuto il buon popolo innalzò una ghigliottina. Che ne pensa la mia dilettissima consorte, che oggi mi par piú malinconica del solito, quantunque ciò non guasti la sua casta bellezza? La contessa si scosse da' suoi pensieri e si sforzò di sorridere; poi, volendo mostrare che prendeva parte ai discorsi dei convitati, chiese al maestro della banda qualche notizia su un certo contrasto nato tra la fabbriceria e il Consiglio comunale a proposito d'un funerale. - La signora contessa sa che la nostra banda non ha opinioni politiche - disse il maestro, un ex- tromba dell'esercito, a cui faceva bene il vino di Piemonte. - La musica è un'arte, e l'arte dev'essere superiore alle opinioni. Si trattava d'un reduce garibaldino, e io domando se si poteva rifiutare di sonar l'inno di Garibaldi. - L'inno di Garibaldi in luogo sacro, - entrò a dire il conte simulando un santissimo orrore per un cosí grosso sacrilegio. - Che ne dice, don Iginio? - Ecco - provò a dire il pretino, facendosi rosso per lo sforzo - poiché Sua Eminenza il nostro vescovo ha proibito ai parroci . - Che cosa ha proibito? - gridò il maestro, che in questa benedetta questione degli inni patriottici s'era piú volte asciugata la gola. - Con qual diritto può proibire un vescovo la manifestazione d'un sentimento patriottico? - Fin che durerà questo dissidio - s'arrischiò d'aggiungere il pretino, sostenuto dalla coscienza del suo dovere. - Ma mi faccia il piacere, don Iginio! - strepitò il maestro, con gusto infinito del conte che si divertiva ad aizzarli l'un contro l'altro parendogli di assistere all'epilogo dell'antica lotta delle Investiture. - Se lei avesse visto il fuoco come l'abbiam visto noi a San Martino, a Palestro, a Custoza, saprebbe che certi sentimenti non si smorzano nemmeno con l'acqua santa . - Questa è buona, Giovannino!. - approvò il conte, picchiando sulla tavola il calice del suo vin bianco dolce; e, strizzando gli occhietti verso Giacomo, stava per citare un verso di Orazio quando, sul caldo frastuono della discussione dei piatti e delle posate, risonò un grido acuto e spaventato, che parve un grido di donna, a cui tenne dietro un forte sbattere di usci e un correre confuso di gente. - Che cosa c'è? misericordia! correte a vedere. Chi si è fatto male? - confusamente esclamarono i convitati. - Sapete che questi spaventi mi fan male, benedetto Iddio, - balbettò il conte, che rimase lí colla forchetta in aria e col boccone infilzato. La contessa era subito scomparsa, ma rientrava poco dopo con Fabrizio a dire che non c'era nulla di grave. La donna di guardaroba era caduta sulla scala con una catinella in mano, ma tutto era finito con molto spavento, e col danno della stoviglia. - Meno male, ma, santo Iddio, state attenti a non procurarmi di questi spaventi, che guastano la digestione. Sapete che son mezzo malato e il cuore mi salta per niente. Par sempre la casa del diavolo. Un po' di riguardo, per bacco! Mi versi un altro dito di vino, maestro. Bevete tutti, fatemi coraggio. Tutti bevettero, per obbedienza, alla salute del signor conte e alla felicità di donna Enrichetta. Donna Cristina, che, durante il pranzo, era stata continuamente col cuore sollevato, al primo grido di quella disgraziata era scattata in piedi, in preda a una violenza nervosa, era corsa di fuori, e giunse appena in tempo ad arrestare sul pianerottolo Celestina, che mezzo svestita, coi capelli in disordine sciolti sulle spalle, colla faccia stravolta, si dibatteva nelle braccia di miss Haynes. La contessa, col tono severo e autorevole che sapeva prendere quando il caso richiedeva, l'afferrò per un braccio, la trasse con sé per il corridoio buio della foresteria, la chiuse nella sua stanzetta, dove Celestina s'inginocchiò: - No, contessa, mi perdoni, - pregava - sarò buona. Mi pareva che volesse pigliarmi. - Chi? chi ti perseguita? - Il diavolo. - Tu non mi vuoi piú bene. - Le voglio bene, signora. Lei è la mia mamma. Ma c'è proprio un diavolo che mi tormenta. - Sei malata, capisci? Senti come abbrucia questa povera testa. Torna a letto. Non sai che ci farai morire, se non obbedisci? - Giacomo è qui. Lasci che gli dica tutto. - Tu non gli dirai nulla, perché io non lo permetterò. Guarda che so essere anche cattiva. Ti farò chiudere in una stanza. Vieni, invochiamo insieme la Madonna dei dolori . Celestina, passata la crisi, dette in un pianto dirotto, si lasciò collocare sul letto e promise di essere savia e obbediente. La contessa chiuse l'uscio a chiave e lasciò miss Haynes in sentinella. Tutto questo accadde nel minor tempo che occorre per raccontarlo, in una specie di furiosa scaramuccia, a cui le due infelici creature andavano da qualche tempo abituandosi. La contessa, non solo si meravigliava di saper vincere e domare la sua vittima, ma una meraviglia piú alta sorgeva nell'animo suo alla prova della sua forza, che mai avrebbe immaginato di possederne tanta; una forza morale e nervosa, che sapeva ardire e nascondersi, che, oltre a insegnarle le astuzie del vincere e del resistere, le manteneva sul viso quasi una maschera sorridente. E non eravamo che alle prime scaramuccie d'una tremenda battaglia! Sarebbe bastata questa forza il giorno che avesse dovuto affrontare il grosso del nemico? non vedeva né il quando, né il dove questa battaglia si sarebbe combattuta; ma, se si raccoglieva un istante, le pareva di sentire non molto lontano un muggito d'una moltitudine di mali selvaggi, non mai immaginati, davanti ai quali il morire, il morir subito, le compariva una liberazione.

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Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Egli resta compresso, abbattuto dalla persuasione della sua impotenza e della sua indegnità, è l'imparità, è l'indegnità di sostenere la causa della Patria e della Ragione, quando si è in peccato carnale. Così egli è impedito dalla debolezza fisica e dalla coscienza morale a protestare italianamente contro l'andata del Soldato di Palestro a Vienna, e impedito a chiedere dantescamente e petrarchescamente l'abolizione della Legge delle guarentigie al Papa dell'empia Babilonia, che usurpa il luogo vacante di Pietro e di Cristo. Ma, appena cessato il comizio, lo invasa l'orazione, che egli avrebbe dovuto o potuto fare. A casa, a scuola, per via, egli soffre i tormenti del discorso rientrato, che gli ulula dentro. Egli si abbandona per parecchi giorni ad una masturbazione oratoria, declama il discorso nel suo gabinetto solitario, allunga le unghie per afferrare le settemila persone del Comizio già da tre giorni disciolto. * L'oratoria, egli riflette, rassomiglia un po' all'amore. Quando l'amante si incammina al colloquio con l'amato bene, ha l'anima rigurgitante di parole da Paradiso; ammutolisce poi nel colloquio; ed appena ritorna solo, quelle parole non dette gli rientrano, si amplificano, insorgono, lo accusano, lo assalgono, gli si ficcano nelle carni del cuore, nei precordii, gli scuotono, gli gonfiano il cervello, inferociscono ... Con un ghigno mefistofelico sull'utilità trapassata gli si matura la materia, gli si riordinano gli argomenti. Gli pare di trovarsi perfettamente nel precetto di Orazio: cui lecta potenter erit res, nec facundia deserit hunc, nec lucidus ordo ... Ed ora tutto è inutile, tutto è perduto ... No! Perviene a salvarlo, liberarlo dall'ossessione, a fruttificarlo nella vita degna essa, la fedele, l'ottima signora Consorte. La quale gli consegna un decreto ministeriale, che lo nomina Commissario Regio per gli esami di Licenza all'Istituto Tecnico di Trentacelle. Trentacelle era la città, dove Losati aveva compiuto gli studi secondarii, e dove il padre di Lorenzina si era arricchito con la macelleria gentile. Non per l'attrazione di un'aurea dote, ma per l'attrazione di due trecce nere più forti delle catene di un porto, per l'attrazione del volto di rosa ferruginosa, per l'attrazione di due occhi scintillanti, come il diamante, Losati si era sentito avvinto alla sua futura consorte cogli approcci dell'improntitudine, che la Provvidenza aveva stabiliti a salvezza e consacrazione della vita. Che bella cosa pel professore rifare a Trentacelle l'idillio studentesco! E l'ottima signora lo avrebbe volontieri accompagnato colà, se nominata dal Municipio di Torino ispettrice per le Scuole elementari di Borgo Dora non avesse dovuto essa stessa prendere parte ad una giunta esaminatrice. Il redento Losati giunse pertanto solo a Trentacelle con la migliore intenzione di purificare nei ricordi testimoni di un ingenuo santo idillio i trascorsi peccaminosi con la contessa De Ritz. Ma nella sera medesima del suo arrivo all'Albergo del Leon D'Oro , ecco riapparirgli Nerina, pantera misteriosa, fatta di ombra e di velluto, e di fascino sempre irresistibile. Pertanto egli venuto ad esaminare e giudicare i giovani per la direzione alla virtù, cedeva di nuovo scandalosamente al vizio. Inutile il suo rimorso della profanazione di innocenti primordii d'amore appositamente voluta dalla consumata peccatrice. Vicino all'Istituto Tecnico eravi l'asilo infantile " Calasanzio" . La Contessa, dopo essere stata a prendere il professore al termine d'una sessione d'esami, volle essere condotta da lui a visitare quell'asilo, che meritamente si decantava come un monumento d'arte applicata all'educazione, onde l'architetto cav. Domenico Gattelli era stato insignito della Commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro. Di vero l'edifizio meritava una visita di ammirazione, specialmente il cortile, che rendeva la poesia d'un chiostro francescano. I pilastrini esili come steli coi capitelli di varietà floreale erano stati inspirati dal modesto e valoroso artista Giuseppe Maffei, che nel Biellese sotto il patrocinio munifico di Federico Rosazza ricreava un tipo genuino di arte primigenia. Quei portici parevano fatti, perché vi passeggiasse Gesù, mettendo la benedizione delle sue dita tra i ricci dei bambini; e parevano quelle volte echeggiare il cristianissimo: Sinite parvulos venire ad me! L'architetto aveva avuta una vera trovata amena ed economica. Verso la sommità alla parete degli atrii erano fisse mensole marmoree, ciascuna delle quali portava un angelo di gesso, che mostrava, quasi ventilava questa scritta: Datemi diecimila lire e vi cedo il posto. Un invito al busto per la fiera della vanità umana. Già tre benefattori avevano accolto l'invito; e sopra tre mensole avevano rispettivamente preso il posto degli angeli di gesso due impettiti in marmo di Carrara; un salsamentario decorato, che si era fatta inchiodare al petto, oltre la croce della Corona d'Italia, la medaglia di un'esposizione di suini; un droghiere improsciuttito dall'aria impepata, che faceva starnutare a guardarlo; terzo un canonico di bronzo. Anzi dal poeta cittadino doctor Malalingua si attribuiva al canonico l'idea bronzea di lasciare per testamento altre dieci mila all'Asilo Calasanzio, affinché erigesse un busto in marmo cipollino alla famosa cuoca di lui per quel panteon di beneficenza. Nerina commentò a Losati: * Mio papà ci morderebbe. * Poi ebbe un pensiero più irriverente: il pensiero, che in teatro le signore scollacciate mettessero sulle trine del seno: dateci dieci mila lire, ed anche meno, con quel che segue. Il professore Losati, utilitario nelle modernità pratiche, ammirava eziandio l'igiene e la decenza delle latrine. La Contessa si affisò davanti la lastra della soneria elettrica, compitando gustosamente il cartellino d'avviso al bottone: un colpo solo pella portinaia; due colpi per le suore maestre; una suonata lunga per la superiora. La Contessa si allontanò a braccetto del professore sghignazzando nel pervertimento dei doppi sensi d'interpretazione: e pretendendo per sé tutta la gamma dei campanelli elettrici, specialmente la suonata lunga della superiora da disgradarne la sonata a Kreutzer del Tolstoi. Il professore, pur incapace di reagire, ne sentiva ribrezzo, come se egli con quella diavolessa avesse importato la corruzione in quella antica città patriarcale. Davvero Trentacelle era in uno stato di quiete da offrire il maggiore spicco alla anormalità di una diavolessa eteroclita. Felicemente priva di quei superuomini sporadici, che intorbidano in certe epoche le città di provincia, era governata sistematicamente da vecchi patriottardi ingenui, che pigliavano sul serio anche i diplomi delle Società dei Salvatori di Napoli e dei vetrai perlacei di Venezia. La stagione estiva aumentava la solitudine acquitrinosa da capitale delle risaie. Viceversa le belle e ricche signore che Doctor Malalingua chiamava ambubaie gratuite o paganti, se ne erano andate alle acque più salubri dei mari, dei laghi e dei monti. Talune si erano spinte all'Esposizione Universale di Vienna; e con maggiore fracasso delle altre era partita per quella Mostra Mondiale la sfarzosissima marchesa, che Doctor Malalingua aveva soprannominata la Dea Reggimentale, dopo che essa in una cena al Circolo Ricreativo innalzando il calice spumeggiante aveva brindato: Viva Piemonte Reale! Abbasso i mariti! Desiderato Chiaves in una ricreazione filodrammatica, compassionando una vedovella solitaria nella sua villa, aveva fatto esclamare da uno zio rappresentativo: * Che fa il ministero della guerra, che non manda uno squadrone di cavalleria nei dintorni a consolare la solitudine della mia cara nipotina? * Così e converso gli ufficiali di Piemonte Reale Cavalleria pesante, di guarnigione all'uggia della melmosa Trentacelle nella state del 1873, potevano mitologicamente invocare Venere e Cupido: * Se non siete definitivamente morti, Dio dell'amore, Dea dell'amore, che fate? Spediteci qui una bellezza da ammirare e corteggiare. Si direbbe, che Venere e Cupido esaudissero i voti dell'Ufficialità di Piemonte Reale Cavalleria con la spedizione della Contessa Nerina a Trentacelle. Veramente essa vi era venuta per il professore Losati. Ma non è più lecito ignorare, che essa era uno di quei cuori ardenti, che non si appagano di nessun amore. Ed era più prepotente di una czarina slava nella molteplicità dei suoi capricci imperiosi. Della sua prepotenza aveva già dato saggio all'albergo, al caffè e nelle passeggiate, principalmente con gli occhi, che lucevano come una stella; una stella d'inferno, stella promettitrice di rapimenti, tempeste e rovine. La sua conquista decisiva fu a teatro. Al Politeama Tupinetti si rappresentava un drammaccio da arena: La colpa vendica la colpa. Però il maggiore spettacolo era quello che il pubblico si dava a se stesso, facendo licito il libito in sua legge per esalare seralmente l'afa della giornata estiva. Chi fumava, chi cicalava, chi beveva, chi ordinava scioppi di birra. Si sentivano come revolverate gli stappi della gazosa. Nel pandemonio si distingueva la barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che sporgeva al lato destro del proscenio, tanto da poter stringere la mano alla prima donna o dare un pizzicotto alla servetta. Irruppero cinque o sei tenentini reduci coll'ultimo treno dagli esami di promozione della Scuola di Pinerolo. Furono interrogati premurosamente sull'esito. Il più oratore di essi rispose con rassegnazione di iattanza nel latino maccheronico più che goliardico: Si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, pigliabo uxorem et coglionabo professorem. Il cicaleccio venne interrotto dalla luminosa apparizione della Contessa De Ritz nelle sedie chiuse col professore Losati. Vista la puntatura pertinace del relativo binoccolo, un capitano osservò all'oratore dei tenentini di Piemonte Reale: * Mi pare che tu voglia pigliare la moglie degli altri, la moglie del professore. Pigliabo uxorem et coglionabo professorem, divenne il ritornello, il refrain , il leit motiv della barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che colle bande rosse sulle gambe lunghe si rizzavano, si protendevano, come diavoletti arroncigliatisi: chi spediva baci, chi pareva volesse gettare il fazzoletto di sultano, chi la rete di pescatore, chi il laccio di gaucho mato sulla Contessa imperatrice delle sedie chiuse. Il professore non dava segno di accorgersene, assorto come la maggiore parte del pubblico nella lettura dell' Eco di Trentacelle , il cui foglio uscito e distribuito di fresco, andava a ruba e costituiva l'avvenimento di quella sera. Tutti lo leggevano, ad eccezione degli ufficiali della barcaccia più dediti all'equitazione, alla scherma e alle conquiste, che ai pettegolezzi della letteratura provinciale. Eppure Spirito Losati, benché rotto alle letterature classiche, scopriva un nuovo filone di minerale letterario in quelle Cacature di Mosca , come il Doctor Malalingua dell' Eco di Trentacelle aveva voluto modestamente ed anche sprezzantemente intitolare i suoi ristretti di romanzo e spunti di commedia. Egli era il giovane farmacista Evasio Frappa, che a divagazione e sostegno della monotonia dei suoi pestelli e vasetti si era fatta coll'assidua lettura una cultura straordinaria, e si era formato uno stil nuovo caustico da rivaleggiare nella provincialità di Trentacelle con il rapido, plastico e mordente bozzettista americano Bret Hart, e da precorrere agli acidi corrosivi dell'amaro Massimo Gorki. Se un generoso editore (nella supposizione inverosimile che vi siano generosi editori in Italia) avesse la furberia di raccogliere dalle annate gialle dell' Eco o dell' Oca (come dicevano gli spiritosi dileggiati) di Trentacelle d'una quarantina d'anni fa, le Cacature di Mosca di Doctor Malalingua (Evasio Frappa) colpirebbe l'immaginazione del pubblico con un tesoretto postumo di osservazioni concrete da togliere il gusto della letteratura sbattuta e vuota oggi in voga. Segnalatamente gustosi gli scampoli: Un trombone isolato * Il burattinaio famelico * A che servono le donne d'altri * Lasciate amare * Il mestiere d'amare * Storia di una molecola * Le citte * Necrologia di una pipa * Al marito di cento, senza averne sposata nessuna , titolare di una commedia a soggetto. Noi per connessione di causa riproduciamo un profilo relativamente più debile intitolato: Formidabile , caricatura a chiave riconoscibilissima della Dea reggimentale, la cui attraente lettura in quella sera distraeva l'attenzione dal dramma " La colpa vendica la colpa" nonché dalle manovre di Piemonte Reale Cavalleria nella barcaccia, dagli inviti assordanti di gaseuse e bira , e dallo stesso splendore e fascino civettuolo della contessa Nerina sovrana nelle sedie chiuse. Ecco il profilo esumato: * Formidabile * sommario di romanzo I. Non è la storia di una pirocorvetta ad elice, ma è la storia di una nobile signora più formidabile di una fregata da cento cannoni. Nacque figliuola unica del barone Uvamico, proprietario rentier , insignificante, inconcludente e della baronessa Carissa dei nobili Scintilla morta con sapore di bambina. Fu battezzata Stella. Fu educata in un convento. Ritirata a casa a sedici anni giocava ancora con la puppatola. Sentiva bisogno di amare. In convento le era sembrato di amare un baritono venuto a cantare un pange lingua in una funzione religiosa. Ora avrebbe voluto amare uno scolare studioso, un avvocato eloquente, un giovane che si fosse reso benemerito verso sua madre o verso il prossimo, un fabbricante, che avesse trovata una tinta indelebile per i calzoni o per la cifra della biancheria. Un giorno le annunziarono, che ella avrebbe sposato il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia. II. Chi era il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia? Era figliuolo a un diplomatico di Carlo Emanuele ultimo e di Vittorio Emanuele I, che aveva abbandonato l'educazione del figlio per la diplomazia. L'aveva commesso a un prete, Don Procopio. Il tirone, di indole frigida, cioè pochissimo sensuale, si innamorò molto spiritualmente e poco spiritosamente del cappellano. Don Ercolino mostrava e sentiva entusiasmo per le benedizioni ed i santuarii: portava il baldacchino, la pellegrina e le conchiglie in processione: avrebbe fatto dieci miglia a piedi per sentire una messa cantata, accompagnata all'organo da padre David. Si soffiava il naso con fazzoletti dello stesso colore del piviale, che deve variare ogni giorno il prete a messa secondo il calendario rituale. Aveva divisato di immortalarsi con una monografia sulla Confraternita di Santa Caterina. I cosidetti sensi non li conosceva più nemmeno, avendo tarpato loro le ali, appena mettevano il cannone. A quindici anni, quando alcuno gli domandava chi intendesse sposare, egli rispondeva: * Voglio sposare Don Procopio! A venticinque anni, il padre gli replicò la domanda. Ed egli rispose, che voleva sposare la Chiesa. Il padre pianse alla pochezza d'ingegno del figlio, egli che voleva tirarne un diplomatico, un uomo di stato. Gli osservò, come per un figlio unico non c'era luogo a vocazione ecclesiastica, * e che per un nobile né prete, né militare era un disonore non avere moglie. Don Ercolino si acconciò e sposò la contessina Clara Faggio Del Poggio, florida bionda, che dal giorno del matrimonio al contatto di quella cartapecora intristì, fino a morire di lì a sette mesi. Il marchese Ercole ne pianse la morte religiosamente, ufficialmente e coralmente, perché così gli imponevano le sue convinzioni di gentiluomo, di galantuomo e di fedele cristiano. Ma nel suo sé fu contento di essersi spacciato dall'obbligo della moglie, e dal disonore di rimanere nobile celibe senza essere colonnello né monsignore. Durò cinquant'anni di fiera vedovanza, durante i quali fece fabbricare due organi nuovi, pubblicò le sue opere storiche su diverse confraternite e comperò la mula bianca per l'ingresso del nuovo arcivescovo. Protestò contra lo Statuto e l'abolizione del foro ecclesiastico e dei Conventi. Nel 1858 per l'epidemia clericale elettiva fu mandato deputato al Parlamento Subalpino. Vi si recava, dopo avere udito e servito due o tre messe a San Filippo. Avrebbe creduto di commettere un peccato di gentiluomo cattolico, se avesse toccato la mano a Brofferio o a Borella. Non parlò mai. Quando il padre Angius o il conte Solaro della Margherita nominavano il Padre Eterno od il suo figliuolo nostro Signore Gesù Cristo, egli si levava il berrettino pretesco, e si faceva fieramente il segno della Santa Croce in Parlamento. Dopo il sessanta, egli pianse su Casa Savoia e si recò nel suo Castello di Frappaglia, paese quasi tutto suo. Diceva il breviario, come i preti. Abolite le corporazioni religiose anche nel Napoletano, egli ospitò a Frappaglia un monastero di suore carmelitane. Una nobile monacella, dolce come una caramella, la Mirto La Chaine di Mostiafè, la quale non aveva ancora varcato gli ultimi voti, gli presentò nel giorno onomastico un mazzo di fiori con la grazia di un'estasi implorante da reclusa. Il vecchio marchese Passerotto di Frappaglia sentì uno strabiliante effetto di amore a settant'anni. Nell'orgasmo senile la baciò, ed onestamente se la sposò, dopo avere pagata una lauta dispensa alla Dateria apostolica di Roma ed ottenuta per sopramercato una particolare benedizione dal Santo Padre. La marchesina allontanava ogni adorazione altrui con un raggio d'occhio dolcemente superbo. Morì nella maternità martire. Inconscio Barbableu, il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia pianse di nuovo ufficialmente e coralmente, e fece venire, oltre l'arcivescovo, due vescovi e dieci canonici per la sepoltura. Finito il rito funebre, convocò l'arcivescovo, i vescovi e i canonici a concilio nel coro della cappella, e tenne loro un'arringa, dicendo che per la salute della sua anima e del suo corpo aveva bisogno di una nuova sposa, purché aristocratica e cattolica; e glie la cercassero. Non fiutarono a lungo i monsignori per trovare la nubenda al vegliardo de cujus . Uno di essi propose la propria nipote baroncina Stella Uvamico, il cui padre era vicino a spiantarsi per la sua imbecillità. Nei primi giorni del suo terzo matrimonio, il marchese Passerotto lasciò in libertà la sposa, che aveva quartiere separato. Al sesto giorno la più vecchia delle dame di compagnia avvertiva la marchesa, che lo sposo sarebbe venuto a farle visita intima di sera, dopo il rosario. Venne ilare, rimpennacchiato, ossia vestito comicamente e lussuosamente alla Goldoni con trine bianche e parrucca nera, spadino e fioretti ... Contento della relativa conquista, egli si arrese a trasportare i lari in città. Quivi dava delle feste da ballo, come glie lo permettevano le sue trecento e cinquanta mila lire di rendita. Mentre gli altri ballavano o si divertivano altrimenti, egli diceva il breviario, e finito il ballo andava a messa. La marchesina Stella paragonò il poderoso scalpitio di un capitano di Nizza Cavalleria alla tosse e allo scricchiolare della carcassa del marchese. Dopo mille rimordimenti di coscienza, diede il suo cuore, la sua fotografia, le sue labbra all'ufficiale cavaliere, per crearsi una nuova vita di felicità perpetua, fedele, amorosa, permessa dalle leggi degli angeli. Il capitano cambiò di guarnigione. Inutilmente essa spedì il marito clericale nella capitale usurpata ad invocare dal ministero massone il ritorno di Nizza Cavalleria a presidio della consorte. Essa voleva fuggire, suicidarsi, farsi monaca ... Voleva recarsi a implorare un santo consiglio da un santo vecchio sacerdote ... Invece capitò a farle visita un giovane e bel canonico. Essa si accorse solo allora, come un prete poteva essere salacemente bello. Subì una dichiarazione amorosa sacerdotale. Stella amava misticamente il canonico, che venne graffiato dalla cuoca e piantò la marchesa, dopo averla accompagnata ostensivamente a braccetto nel visitare le cappelle artistiche del Sacro Monte di Varallo. Delusa dall'abbandono canonicale, la marchesa ritiratasi al Castello di Frappaglia, quivi amò rubestamente un contadino, che aveva adocchiato a un ballo pubblico, e giudicato più bello ed aitante di tutti gli ufficiali e di tutti i canonici ... Se ne disgusta una sera per il puzzo ... Stella non voleva cadere in una stalla. Ritorna in città più formidabile che mai. Allaccia, straccia, stritola, scarpiccia cento vincoli di amore. È un uragano in un bosco d'amore. Il marchese sopporta da gentiluomo del settecento; raccomanda solo di salvare le moderne apparenze. Stella riceveva docile e imperiosa i frequenti assalti, più che omaggi, dei tenentini impertinenti ed impetuosi; e dignitosa gli inchini dei grossi colonnelli, uno dei quali, grosso come un tamburo, nel forte della dichiarazione scappò in un petardo. Sgloriata nuovamente del militarismo, essa volle lasciare un'altra volta l'esercito per la chiesa; finse una malattia e una confessione per sedurre un celebre predicatore. Poscia si invaghì di un giovane pittore, il quale visibilmente segnato dalla Dea Gloria, aveva promesso di sposare al suo paese l'umile figlia di un fornaio, ricciuta come una pecora del sole, perché era stata la sua prima favilla artistica. Stella si fissò di rapire il nuovo Raffaello alla fornarina rusticana. L'artista cede alle lusinghe della superba matrona. Ma dopo la prima eclampsi d'amore, egli, già snebbiato di voluttà, sentì la plebea tentazione di imprecare: porca marchesa! Come il re Teodorico in una ammoniaca spirituale dell'ebrietà banchettante vide nella testa del pesce i teschi delle sue vittime Simmaco e Cassiodoro, così il pittore in una svenia della Donna formidabile vide rifiorire l'immagine della sua unica Fornarina, innocente fanciulla, che lo scacciava dalla filatessa degli amanti di Stella. Per riabilitarsi egli ha bisogno di un gran colpo: trae di tasca un portafogli; ne estrae un biglietto della Banca Nazionale di lire cento, rosso come la vergogna, e lo dà alla marchesa, dicendo: non ho mai pagato tanto niuna ... Se avesse pronunciata la parola, l'avrebbe detta in greco: etaira ... La marchesa urla, ma ritiene il biglietto, lo caccia in un medaglione; poi lo fa inquadrare e spianta la sua corte. Diviene una benefattrice. L'artista ha sposato la fornarina. Il marchese Ercole è morto. Morrà anche la marchesa lasciando il fatto suo allo Spedale. Sarà santificata." " Doctor Malalingua" Alla chiusa ottimista del bozzetto, il professore sollevò lo sguardo carico dall'appendice dell' Eco di Trentacelle, e colse in uno sguardo fragrante l'attacco più che formidabile di Piemonte Reale Cavalleria alla contessa De Ritz, e questa in posa smaniosa di fortezza prendibile, e quasi in accensione di Troia omerica; onde sospirò internamente con una sicurezza di virgiliana immagine: Nerina ruit in pejus.

Ma è pur verissimo che papà Vittorio, il Gran Re finì vittorioso a Roma, mentre il piccolo Napoleone, imperatore curvo al lecchezzo delle superbe dame, venne abbattuto, spazzato via da una delle più sonore batoste storiche ... * Ma, * ripiglia * padre Zappata, hai forse seguito, per quanto ti fosse possibile, l'esempio morganatico del Gran Re? * Comprendo, * rispondeva a se stesso, sdoppiandosi psicologicamente l'avvocato * comprendo ed apprezzo il tuo sospetto, comprendo e sento la tua gelosia quasi lancinante per le testarde premure della tua serva padrona verso il giovane ortolano, benché Miclìn si mostri teco estremamente servizievole con un'aria da santificetur e con un profilo di San Luigi Gonzaga. * Insomma chi conterà la fine di un capriccio di Gioiazza? Lo conterà la sua serva padrona ed ereditiera? Per ora l'avvocato Gioiazza, constatando che non è possibile restaurare il concubinato nella presente civiltà giuridica, presagisce, che egli finirà con lo sposare Quagliastra almeno con il rito religioso, magari licenziando il giovine ortolano, ed assumendo all'irrigazione e alla coltivazione dell'orto un giardiniere stravecchio, o meglio un veterano reduce d'Africa, a cui gli abissini abbiano fatto l'estremo oltraggio, dando gli onori dei cantori della cappella Sistina. Nell'ultimo sguardo alla illuminazione della sottostante Torino, l'avvocato Gioiazza già si vede, come in uno specchio: salire alla villa, portando la sporta alla cuoca elevata a mogliera, ed aggiungendole cordiali, stimolanti e rispettose facezie per ingraziarsi lei ingrugnata, per feje chitè 'l grugn. Il purgato spirito di Nerina folgore caduta in un pozzo, risorgerà in alto, in alto, e sorriderà da una stella invisibile al critico contatore dei Capricci per pianoforte .

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso del suo silenzio imbronciato; non tanto perché le ultime parole di Giovanni avessero fatto cammino nella sua mente, quanto perché sapeva dei dispiaceri che le opinioni religiose da lui professate gli fruttavano, perché lo vedeva abbattuto di spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua sorella d'essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso Jeanne. Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era aperta con Maria solo fino al confine dello stretto necessario. Jeanne, sempre malata di corpo e di spirito, aveva udito parlare del Santo di Jenne che guariva i corpi e le anime, la pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo Santo, di scrivergliene qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta sola, doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima confidenza si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell'amicizia e parlò. La povera Dessalle era più infelice che mai. Nel breve soggiorno a Subiaco aveva incontrato l'antico amante. Esclamazione di Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l'uomo venuto alla villa col Padre la sera dell'arrivo di Jeanne, il garzone ortolano di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero, colui del quale si parlava già in tutta la valle dell' Aniene, e anche a Roma, come del Santo di Jenne. Noemi si scusò di non averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse venuta a saperlo, dopo le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva. Giovanni prese quasi furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle labbra. Maria intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande. Sì, lo aveva riconosciuto la sera dell'arrivo e adesso Giovanni e Maria potevano intendere il perché di quel tramortimento che si era visto. L'incontro era poi avvenuto l'indomani al Sacro Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n'erano state distrutte, ch'egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo datosi a Dio per sempre, ch'ella gli aveva promesso di dedicarsi ad opere di carità e che nessuna relazione diretta era più possibile fra loro. Adesso la Dessalle scriveva da villa Diedo, il soggiorno veneto dove si era ricondotta col fratello da Roma, due giorni dopo aver lasciato Subiaco. Scriveva in un'ora di amarissimo sconforto. Il fratello, sorpreso ch'ella si occupasse tanto de' poveri, s'irritava di questa novità nei suoi pensieri e nella sua Vita. Largheggiasse di denaro, se le piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa, visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso, era ridicolo, era pazzesco, era clericale. C'erano altre difficoltà. Ell'avrebbe desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della città. Al contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sé per Maironi, che se pure andava qualche volta in Chiesa la domenica però non adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sé stesse come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa si ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo cammino, tanto più pronte quanto più il cammino si faceva difficile. Sentiva di dover soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di aiuto da lui. Vederlo non poteva, scrivere non osava perché certamente egli aveva inteso vietare anche questo ed ella sarebbe morta piuttosto che fargli cosa sgradita, potendo evitarlo. Aveva letto una corrispondenza romana del Corriere sul "Santo di Jenne" dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da bracciante nell'orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava Noemi di andare a Jenne, di chiedergli per lei l'elemosina di un conforto. Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe Giovanni accompagnarla? Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una tacita offerta di scuse e di pace, le stese la mano. "Di tutto cuore" diss'egli. Maria si offerse per terza compagna. Fu stabilito di andare l'indomani, a piedi, e di partire alle cinque del mattino per non avere il sole ardente sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si parlò del Santo. Tutta la valle ne era piena. La corrispondenza letta dalla Dessalle diceva che una quantità di gente affluiva a Jenne per vedere e udire il Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose operate da lui, che i benedettini raccontavano con ammirazione la Vita di penitenza e di preghiera ch'egli aveva condotto per tre anni lavorando nell'orto di Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale Torquato, guardaboschi, brav'uomo, parente della domestica dei Selva, aveva detto a costei di essere andato a Jenne con un forestiere, una specie di poeta, venuto da Roma per parlare al Santo. Nell'andata e nel ritorno aveva veduto, tutt'assieme, forse una cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo stesso scopo. Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di donne che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una notte l'arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande croce piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso la croce che ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le montagne e le valli. Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine vestito da converso benedettino, che aveva l'incarico di recargli una lettera. Questa lettera era dell' Abate di Santa Scolastica e diceva: "Vi mando un angelo di fuoco ardente che farà parlare di Jenne in tutto l'universo mondo." Anche vi era scritto che questo giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E l'arciprete si era come impazzito per la commozione di questo fuoco sognato e di questo fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima febbre. L'indomani era giorno di festa. Degli altri due preti che stanno a Jenne uno era infermo e l'altro se n'era andato a Filettino due giorni prima per vedere sua madre inferma. La fantesca del parroco aveva raccontato nel paese di questo benedettino e del sogno e ogni cosa. La gente del paese era andata in Chiesa per udir la messa del benedettino che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il benedettino non dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue proteste di non averne il diritto in Chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano tanta ressa intorno ch'egli aveva accennato con la mano di uscire della Chiesa promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato. Che avesse propriamente detto, la fantesca non l'aveva saputo dire a Maria, né Maria l'aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un po' interrogando, un po' immaginando, ella si ricostituì il suo discorso così: Potete voi entrare in Chiesa? Siete voi riconciliati con i vostri fratelli? Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con questa parola che non si può avvicinarsi all'altare senza essersi riconciliati con i fratelli? Sapete che non potete entrare in Chiesa se avete mancato contro la carità e la giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti quando nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in Chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma pure se avete fatto torto loro in qualunque modo, negl'interessi o nel'onore, se avete detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i loro corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i rosarii, le litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il cuore secondo la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio, d'impurità? Andate, Gesù non vi vuole in Chiesa! Ma che! diceva Torquato. Il discorso era niente, era la voce, era il viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come se vi ci fosse trovato. Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe donne, nemiche fra loro, ad abbracciarsi. Già non c'erano che donne e vecchi perché gli uomini di Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così contriti, aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi, adoratelo in silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in ginocchio, tutti, e per un quarto d'ora, Torquato raccontava così, si sarebbe udita, in quella grande Chiesa, una mosca volare. Poi il Santo aveva intonato il "Padre nostro" a voce alta e, seguito dal popolo, lo aveva recitato lentamente sostando a ogni versetto. E Torquato raccontava che l'arciprete, udito tutto questo, aveva baciato il suo ospite e nel baciarlo era guarito della febbre. Ecco portare infermi al Santo, in canonica, perché li benedica e li sani. Egli non voleva ma quanti riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano. E tanti andavano a lui per consiglio. C'era stato un miracolo grande di una mula imbizzarrita sulla discesa della costa, ch'era per gittare il suo cavaliere sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall' Infernillo portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata sull'atto. Il racconto del guardaboschi fu riferito da Maria. "Che tutto sia vero come il principe di sangue reale?" disse Noemi. "Domani si saprà" rispose Giovanni, alzandosi.

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Chi si fosse abbattuto a vederla doveva morire entro pochi giorni. Edith si compiacque di ritrovare la tradizione tedesca, e domandò se ci fossero strade per quei monti. Il ragazzo rispose che v'erano dei sentieri, fra i quali uno buonissimo che si poteva prendere pe r ritornare a piedi dall'Orrido al Palazzo. Intanto la lancia passava davanti a Val Malombra, radeva l'alto promontorio coronato di selve. L'acqua vi era profondissima sotto gli scogli protesi. Il Rico sosteneva che il lago vi s'inabissava dentro caverne smisurate, perché sopra quegli scogli v'era una buia fessura, detta il Pozzo dell'Acquafonda, dove gittando pietre le si udivano schiaffeggiar l'acqua. E cominciò a dire come converrebbe esplorar quelle caverne occulte. Marina si impazientì e lo fe' tacere. Saetta entrò poco dopo nell'ombra, approdò fra due salici grigiastri, sulla ghiaia bianca di un torrentello che versava al lago, di pozzanghera in pozzanghera, tremole fila d'acqua silenziosa. Dietro ai salici tacevano prati oscuri, freddi; e si celavano a manca insieme al torrente, nelle ombre azzurrognole della valle tortuosa. Ardeva in alto, al sole, il dorso delle montagne; quel buco nero lì pareva la tana del novembre. Quando anche il battello ebbe girati gli scogli del promontorio, si udì la contessa gridare "che freddo! che orrore!", si vide un agitarsi, uno stendere di braccia che infilavano soprabiti, e il conte Nepo che si avvolgeva al collo un fazzoletto bianco. Il Rico doveva guidar la compagnia all'Orrido, ma prima di partire, sorse la questione della contessa Fosca. Sua Eccellenza aveva creduto che l'Orrido fosse quello lì; interrotta da un baccano di proteste, si meravigliava delle meraviglie altrui; il luogo le pareva brutto abbastanza. E ora cosa si pretendeva da lei infelice? Che sgambettasse per due o tre ore su quel dio di sassi? Che stesse lì ad aspettar gli altri in quella sorbettiera? Nepo sbuffava, la rimproverava di non esser stata a casa. Steinegge p rotestò con enfasi, il Vezza a fior di labbra, che non avrebbero mai lasciata sola la signora. Né il Finotti né l'ingegnere dissero parola, la conclusione si fu che Sua Eccellenza avesse a recarsi con Steinegge a un'osteria che si vedeva brillare al sole a un chilometro lontano dove la strada provinciale tocca il lago. Il Rico affermava che si poteva calarvi direttamente dall'Orrido per un altro sentiero. Quando il battello si staccò dalla riva il commendator Finotti domandò qualche cosa al Rico e si voltò poi a gridare: "Coraggio, contessa! È qui vicino l'Orrido!" "Xelo colù?" chiese Sua Eccellenza agli altri, additando il commendatore. La comitiva si pose in cammino pel torrente seguendo il Rico che saltava di sasso in sasso come un ranocchio. Prime gli tenevano dietro Edith e Marina, poi veniva il Ferrieri, gran camminatore, gran valicatore di montagne. Alle sue spalle trottava Nepo, tutto sbilenco, sudando per l'angoscia di camminar frettoloso sui ciottoli aguzzi. Egli si studiava d'intenerir Marina sul fatto dei due commendatori di retroguardia che mettevano veramente pietà. "Caro cugino" disse Marina voltandosi indietro e fermandosi. "Vi prego di rappresentar qui mio zio e di tener compagnia ai suoi tre ospiti." Nepo e il Ferrieri, capìta l'antifona, rallentarono il passo e si raccolsero, mogi mogi, a' commendatori che avanzavano, il Finotti bollente e ansante, l'altro seccato e scorato. Come videro le signore dilungarsi anche dagli altri due, cadde loro la speranza di raggiungerle e sostarono a respirare un poco, fremendo contro Marina, maledicendo chi aveva messo fuori pel primo la bella idea di venire a quello sconsolato massacro di piedi. Intanto sopravvenne loro il Rico, mandato da Marina perché non avessero a smarrire la strada. Marina stessa non la conosceva, ma se l'era fatta insegnare dal ragazzo e camminava rapidamente senza parlare. Edith le teneva dietro, silenziosa e nervosa essa pure, ma per altre cagioni. Intorno a lei e più ancora dentro a lei suonava una sola parola: "Italia! Italia!". Da quando era venuta al Palazzo, se si trovava sola, se le sfuggiva un momento il pensiero di suo padre e dell'avvenire, le sfolgorava subito il cuore questa parola: "Italia!". Allora stendeva la mano per toccare qualche cosa di vero, di solido, e guardando l'orizzonte o qualche striscia bianca di strada lontana, palpitava e si perdeva in un deside rio indistinto. Adesso ell'aveva bisogno di fermarsi spesso per guardare a misura che la via saliva, lo svolgersi lento e maestoso delle montagne, in alto il verde pieno di sole che saliva fino al cielo sereno, dietro a lei, al basso, il lago che s'allargava sempre più verso ponente. "Ah" disse Marina entrando nel sole "ci siamo." Ella saltò di gioia tuffandosi nella luce e nel calore. Passava allora fra due campicelli di grano saraceno. Una nuvola di farfalle si alzò dai fiori bianchi del grano, vi aleggiò sopra per breve tempo e tornò a posarvisi. "Pare neve" disse Marina volgendosi per la prima volta, a Edith. Ma Edith era rimasta qualche passo addietro. "Vengono?" le gridò Marina. "Odo la voce di Suo cugino e del ragazzo", rispose Edith. Marina fece una piccola smorfia. "Venga con me" diss'ella. Il sentiero toccava, due passi più su, un gruppo di stalle seduto sullo spigolo del monte che si gira per andare all'Orrido. Quelle rozze stalle sedevano dentro una larga macchia di fango puzzolente, all'ombra chiara di alcuni noci tutti sforacchiati di raggi di sole. Non ci si udiva, non ci si vedeva anima vivente; tutto taceva. Qualche gerla abbandonata presso gli usci chiusi, qualche pezzo di corda accavallato al pozzale della cisterna, l'aspetto della profonda valle e un sussurro di lontane cascate invi sibili accrescevano il silenzio. Il sentiero indicato dal Rico passava tra le stalle; Marina pigliò un altro viottolo che sale dritto a una cappelletta. Ella fe' cenno a Edith di sedere e disse piano: "Aspettiamo che passino." In quella cappelletta era dipinto un Redentore coronato di spine, bruttissimo, a' piedi del quale si leggeva: Quantunque, o passegger, ti sembri un mostro, Io sono Gesù Cristo, Signor Vostro. L'erba intorno brillava ancora di rugiada e di vento puro, vivificante, che faceva lievemente stormire le foglie dei noci. Edith guardava quell'immagine pia, omaggio di gente semplice al re del del dolore, le veniva in cuore una dolcezza tenera, triste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittore, del povero poeta, delle donnicciuole che andando ai campi o tornandone affaticate dovevano alzare gli occhi a quegli sgorbi con maggior devozione ch'ella non avesse provato guardando Maria dipinta dal Luini. Avrebbe voluto profondarsi in questi pensieri, e non poteva; si sentiva legata da una catena dura e fredda , comprendeva confusamente di soffrire della vicinanza di uno spirito umano affatto discorde dal suo, appassionato di altre passioni, chiuso e superbo. Fra lei e il sole, Marina, ritta, scalfiva il suolo con la punta dell'ombrellino, figgendovi gli occhi e serrando le labbra; la sua ombra cadeva pesante sopra Edith, le entrava nel sangue. Intanto le voci dell'altra comitiva salivano sempre più distinte. Si udì un passo frettoloso fra i muri delle stalle e subito dopo sbucò dietro la cappelletta il viso sfavillante del Rico. Vedendo le signore si fermò di botto, aperse la bocca; ma un'occhiata fulminea di Marina gli troncò la parola. Spiccò un salto verso alcuni cespugli di more, ne colse e ridiscese di corsa. Le grosse voci dei commendatori gorgogliarono fra le stalle. Il commendator Finotti raccontava delle oscenità con la più franca energi a di linguaggio, da libertino mezzo che fruga nelle immondizie della parola per trovarvi la sua giovinezza. Si udì il Ferrieri dirgli ridendo: "Il letame t'ispira." Marina, indifferente, diede una rapida occhiata a Edith: ma Edith non poteva conoscere quella feccia di linguaggio e non batté ciglio né mutò colore. La sua compagna si strinse nelle spalle e aspettò in silenzio che le voci si spegnessero, quindi sedette presso Edith. "Le informazioni" diss'ella "riguardano una persona che Lei conoscerà a Milano." "È sicura" rispose "che conoscerò questa persona?" "Lei dovrà conoscerla." "Dovrò?" "Dovrà, dovrà. Non per far piacere a me, sa, perché succederà così. Insomma non importa. Lei conoscerà a Milano questa persona ch'è un amico di Suo padre." "Si chiama Silla?" Gli occhi di Marina lampeggiarono. "Come lo sa?" diss'ella. "Mio padre mi ha parlato di questo signore suo amico." "Che Le ha detto Suo padre?" Edith non rispose. "Ha paura?" disse Marina duramente. Edith arrossì. "Non conosco questa parola" diss'ella. Dopo un breve indugio Edith alzò il viso e guardò Marina: "Sicuramente il vero" diss'ella. "Il vero! Non parli del vero. Nessuno lo sa, il vero. Suo padre Le avrà detto che io ho insultato questo signore?" "Sì." "E ch'egli, una notte, è andato in fumo?" "Sì." "Proprio in fumo? Non le ha detto dove si trova ora? Sì che glielo ha detto; Lei non vuole ora ripeterlo a me, ma Suo padre glielo ha detto sicuramente." "Io credo" rispose Edith con un leggero accento d'alterezza offesa "io credo che i miei discorsi con mio padre le debbano essere affatto indifferenti. So che un signor Silla, di Milano, è amico di mio padre, il quale non ha forse altri conoscenti in quella città. Per questo ho pensato ch'Ella volesse alludere a lui e ho proferito il suo nome. Mi dica, ora, se crede, cosa desidera da me pel caso che io conosca a Milano questo signore." Marina stette un momento pensosa, con l'indice al mento, come se un sì e un no si dibattessero nel suo segreto; indi parve salir dalla terra una vampa nella bella persona. Ella fremé da capo a piedi, protese il petto ansante, le sue labbra si apersero, nessuno può dire quello che dissero gli occhi. Edith trasalì, attese parole imprevedute. Ma le parole non vennero. La bocca si chiuse, la persona si ricompose, la strana luce degli occhi si spense. "Niente" diss'ella. "Andiamo." Edith non si muoveva. "Venga" ripeté Marina; "Ella è troppo tedesca. Mi basta di sapere dove il signor Silla abita e cosa fa. Me lo scriva subito. Vuole?" "Signorina" disse Edith "anche in Germania si può comprendere e sentire qualche poco. Non desidero sapere i Suoi segreti, ma se posso fare un'opera buona per Lei..." "Ah, virtù! Egoismo!" disse Marina. Una vecchierella curva sotto una gran gerla di fieno sbucò tra stalla e stalla davanti a lei, si fermò e a gran fatica le alzò incontro la testa con un sorriso di bontà e di meraviglia, dicendo: "Reverissi. Son venute a fare una passeggiata?" Era un'immagine di miseria sucida, sorta dal suolo fetido e dalle vecchie stalle diroccate, scalza, con degli stinchi magri e neri di uccello da preda, con il mento appoggiato a due lisci gozzi rossicci e un guazzabuglio di cernecchi grigi sulla fronte. L'occhio era dolce e sereno. "Che vita, povera donna!" disse Edith. "Non sono mica poi tanto povera. La vede. Son mica signora, magari, ma il mio vecchio guadagna ancora qualche cosa, e io, come posso, neh, perché son già settantatré e passa, la gerla voglio portarmela qualche anno ancora. E poi il Signore ci sarà anche per noi due. Dunque, reverissi, neh, stieno bene, facciano una buona passeggiata." Ella curvò il capo sotto il carico e fece atto di riprendere tentennando il cammino fra i ciottoli, i frantumi di tegole e le immondizie. Marina trasse il suo portamonete d'avorio e glielo pose bruscamente in mano. "Ah, cara Madonna!" esclamò la vecchierella "io non lo voglio. Non lo voglio, cara Lei. Non lo voglio proprio mica. Ciao, ciao" soggiunse poi intimorita da un gesto e da un'occhiata di Marina. "Ah, signèli, è troppo. Ciao, ciao, come vuole Lei. Ah, signèli!" "Buon giorno" disse Marina, e passò avanti. Escita dal tanfo di letame e di putredine, ella si voltò; dovette leggere una parola benevola sul viso di Edith. "Io non sono virtuosa" diss'ella "io non ridomanderò questo a Dio. Io non sono amichevole verso coloro che non amo, con il nobile fine di acquistare un biglietto pel paradiso. Del resto, Lei non può fare per me che quanto Le ho detto; scrivermi dove abita, che fa il signor Silla." Edith tacque. "Teme" disse Marina "ch'io voglia farlo assassinare?" "Oh no, so bene che non lo ama" rispose Edith sorridendo. Marina si sentì afferrare il cuore da una mano fredda. Ella passava allora presso la cisterna. Buttò le braccia sul parapetto e porse il viso al fondo. Il solo suono della parola ama le riempiva l'anima. Non lo ama aveva detto Edith: ma la negazione era caduta inavvertita, non la magica parola ama. Avvenne allora di Marina come di una corda musicale inerte che chiude in sé la sua nota silenziosa, ma se una voce ignara di lei passa cantando nella stanza ove giace, e tocca tra l'altre questa nota, sull'istant e tutta la corda vibra. Ama, ama, ama! In fondo al nero tubo della cisterna brillava un picciol disco sereno rotto da una scura testa umana. Marina chiamò involontariamente a mezza voce: "Cecilia!" La voce percosse l'acqua sonora e tornò su con un rombo sinistro. Marina si rizzò e riprese il cammino senza parlare. Girarono le coscia della montagna, discesa giù a destra fino ai greti del torrente. Il fragore di cascate lontane, che si udiva dalle stalle, parve saltar loro in faccia col vento della vallata. Acque potenti non si vedevano; s'indovinavano là davanti in una gola stretta, chiusa da altri monti carichi di fosche nuvole meridiane e nell'ombra di una lunga spaccatura tortuosa che discendeva da quella gola nella valle fra una nera costa imboscata, a frane rossastre, e una massiccia cornice di campicelli, di pra telli verdi, illuminati dal sole. A fianco della gola si vedeva una chiesa bianca appollaiata sopra un sasso eminente: sotto di lei una spruzzaglia di tetti scuri, di capanne accovacciate nei prati. E praterie nitide, arrotondate, erano gli alti dorsi delle montagne a destra e a sinistra, sparsi di macchiuzze nere, di mille tintinnii che facevano una larga voce sola, oscillante, pura. Il sentiero fendeva i declivi erbosi, drappi di fiori tremanti nel vento fresco d'autunno. Marina si fermò guardando la gola in capo alla valle. "Dev'esser là" diss'ella. "Cosa?" domandò Edith. "L'Orrido. Questo rumore vien di là. Oggi l'Orrido ha un gran fascino per me." "Perché?" "Perché ci voglio entrare con mio cugino. Lei tace, non si commuove. Non pensa quale emozione trovarsi sola, in una caverna, con lui? Ha resistito Lei al fascino di mio cugino? Due occhi che vanno al cuore. E che spirito! N'è inzuppato, poverino. Non parliamo d'eleganza. È un Watteau, mio cugino. Dev'essere tutto bianco e rosa, un impasto di cold-cream, un fondant! Non le pare? Dica, non m'invidierebbe se diventassi contessa Salvador?" "Vedo che non lo diventerà" rispose Edith. "Perché? Conosco una persona che si sposò per odio." "Non per disprezzo, io credo." "Per odio e per disprezzo insieme. Son due sentimenti che si possono incontrare benissimo nel tallone acuto d'uno stivaletto. Questa persona se ne servì per fouler aux pieds con quattro colpi suo marito e parecchie altre cose odiose e spregevoli." A Edith pareva impossibile che si avesse a tenere questo linguaggio là in alto, davanti alla innocenza solenne delle montagne. Pensò alla povera mamma sepolta lontano; se vedesse la sua figlioletta in tale compagnia, se udisse tali discorsi! Ma Edith non correva pericolo. Ella non ignorava il male, viveva sicura nella propria conscia purità. Lasciò che Marina continuasse a sua posta. "Quest'amica mia si era innamorata di un altro. Si scandolezza?" Edith non rispose. "Via, non facciamo come se ci fosse qui il signor papà o il signor zio o un qualunque signore in calzoni. Quanti anni ha, Lei?" "Venti." "Dunque! Deve ben sapere quello che succede nel mondo. Taccia, mi lasci dire. Non credo a certi candori. Dunque l'amica mia aveva un amante e volle, il perché non importa, volle arrivare ad esso passando col suo stivaletto acuto sopra un marito spregevole, sopra una razza odiosa. Che male c'è? Gli uomini proibiscono questo e quello. Bravi. Ma con quale diritto? Coloro che Iddio congiunse nessuno divida. Non è così? Presso a poco. Bene, questo è bello, questo è grande. I preti sono stupidi con le loro spiega zioni. Domando se è Dio che mette cotta e stola e borbotta quattro parole per congiungere alla cieca due corpi e due anime. Dio li congiunge prima che si amino, prima che si vedano, prima che nascano; li porta, attraverso tutto, l'uno all'altro! Quelli poi che congiunge l'uomo, ossia le famiglie, un calcolo, un errore, un prete che non sa che cosa si faccia, quelli Dio li divide! Cosa dicevo? quest'amica mia sposò con odio e con disprezzo; passò così!" Slanciò avanti la persona fremebonda, e batté col piede a terra con tanta energia che parve a Edith ne dovessero saltar scintille. S'udì una voce acuta da lontano: "Signora donna Marina!" Era la voce di Rico. Egli comparve presto, correndo; quando vide la sua padrona smise di correre e gridò: "Han detto così di far piacere..." Marina gli accennò bruscamente con l'ombrellino di venire avanti. Egli tacque subito, spiccò altri due salti e giunse ansante, accigliato nella sua gravità di ambasciatore e nella paura di lasciar cadere qualche briciola del messaggio. "Han detto così di far piacere a venire un po' più in fretta, perché è tardi e c'è giù la signora contessa che aspetta." "Dove sono?" disse Marina. "Uno è qui vicino che viene incontro a Loro, e gli altri sono nel paese." Non andò molto che apparve sua Eccellenza Nepo seduto sul suo fazzoletto accanto al sentiero. Si guardava attorno con un'aria sgomentata e si faceva vento con un piccolo ventaglio giapponese. Quando sopraggiunsero le signorine precedute dal Rico, si alzò in piedi e, scordandosi per un momento di essere gentiluomo, gridò, prima di salutare, al ragazzo: "Perché non mi hai aspettato, imbecille?" "Pare che avesse ragione di non aspettare" osservò Marina freddamente. "Voi siete molto cattiva con me" rispose Nepo a mezza voce. Marina non parve gradire quel tono intimo, pieno d'allusioni, e disse asciutta asciutta: "Quanto c'è di qui all'Orrido?" "È subito qui" mormorò il Rico fra i denti. "Cielo clemente, un'eternità c'è!" gemette Nepo. "Non è stata un'idea molto felice quella di farci arrampicare fin quassù. Il commendator Vezza e il commendator Finotti sono mezzi morti. Io sono un grandissimo camminatore e mi ricordo d'esser salito a piedi, quand'ero studente, da Torreggia al convento di Rua, negli Euganei, che non è piccola bagatella; ma qui non so, è un camminare diverso: si fa meno strada e più fatica. Cosa volete che vi dica? Da noi anche i monti hanno più creanza." Approfittò d'un momento ch'Edith era uscita di strada per cogliere un ciclamino e disse a Marina non senza un dispettoso lagno nella voce e nel volto: "E la vostra risposta?" "Presto" diss'ella. "Quando?" "Venite nell'Orrido con me." Nepo non parve contento, ma non poté chiedere spiegazioni, perché Marina aveva preso il braccio di Edith e a lui appena bastava la lena di tener loro dietro. I commendatori e il Ferrieri erano seduti presso la porta dell'osteria di C... sopra una pancaccia addossata al muro, e parlavano a un vecchio calvo, scamiciato, dalla pelle color mattone, accoccolato sulla soglia dell'osteria con una lunga pertica fra le gambe ignude; era il navicellaio, il degno Caronte dell'Orrido. L'Orrido sta a poche centinaia di passi dal paese. Il fiume di C... nasce qualche chilometro più in su, si raccoglie lì tra le caverne immani in cui scendono a congiungersi due opposte montagne, corre per breve tratto in piano, all'aperto, poi trabocca sotto il paese di rapida in rapida, di cascata in cascata sino in fondo della valle, per morire ignobilmente nel lago, là dove approdò la brigata del Palazzo. Uscendo da C... si trova presto un ponticello di legno che gitta la sua ombra sopra una luce di spar se spume, di acque verdi, di ghiaiottoli candidi. Non si passa il ponticello; si piglia invece a sinistra pel letto del fiume. Colà le acque blande ridono e chiacchierano correndo via tra la gaia innocenza dei boschi con certi brividi memori di passate paure. Di scogli non appariscono che striscie oblique a fior di terra, tappezzate di scuri muschi, di fiocchi d'erba, di ciclami pomposi. Guardandolo in su dalle ghiaie si vedono a dritta e a manca disegnarsi sul cielo le due sponde come due colossali ondate di vette fronzute, due alte dighe vive, luccicanti al sole, di roveri, di faggi, di frassini, di sorbi che si rizzano gli uni dietro gli altri, si curvano in fuori per veder passare l'onde allegre, agitano le braccia distese, plaudendo. Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più sole, non più verde, non più riso d'acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n'esce, con il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dal le viscere profonde; l'acqua passa per la bocca degli scogli, grossa, cupa, ma silenziosa. Una sdrucita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiuolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler saperne, torce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nere, qua rigonfie come strane vegetazioni, gemme enormi della pietra, là cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate ad intervalli eguali, scolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In alto, il cielo si restringe via via tra scoglio e scoglio, e scompare. La barchetta salta in una fessura buia, piena d'urla, si dibatte, urta a destra, urta a sinistra, folle di spavento, sotto gli archi echeggianti della pietra che, morsa nelle viscere dal flutto veloce, si slancia in alto, si contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un ver dognolo albore, un lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della roccia, vien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l'acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luce velata di nuvole, sull'alba. Da quell'andito si entra nella "sala del trono" rotondo tempio infernale con un macigno nel mezzo, un deforme ambone per la messa nera, ritto fra due fascie enormi di spuma che gli cingono i fianchi e gli spandono davanti in una gora larga, tutta bollimenti e spume vagabonde, levando il fracasso di due treni senza fine che divorino a paro una galleria. È da quel masso che viene alla caverna il nome di "sala del trono". Si pensa ad un re delle ombre, meditabondo su quel trono, fisi gli sguardi nelle acque pr ofonde, piene di gemiti e di guai, piene di spiriti dolenti. Per una spaccatura dietro al trono sprizza nella caverna un getto di luce chiara. Caronte staccò la barchetta dall'anello e con un urto poderoso la fe' scorrere dalla ghiaia nell'acqua. Intanto il Rico saltellava come una cutrettola pe' sassi sporgenti del torrente e otto o dieci marmocchi s'erano appollaiati dietro la comitiva a guardar fiso come uccelletti curiosi di un grosso gufo. Il Vezza che capiva pochino le bellezze naturali, e il Finotti che non le capiva affatto, ammiravano rumorosamente l'orrida magnificenza del luogo. Il Ferrieri non si curava di unirsi a' loro entusiasmi e n e parlava tranquillamente a Edith. Le diceva di sentirsi freddo più del ghiaccio davanti a simili scene, sin da quando, nella prima giovinezza, si era schiacciato e ucciso dentro al cuore un poeta, incomodo inquilino; soggiungeva però di dubitare ora, per la prima volta, che quello spregevole parassita fosse ben morto; gli pareva di sentirlo a muoversi, di sentire un calore insolito... "Avanti, signori" disse Marina. Infatti Caronte aveva terminato di disporre la navicella e accennava alle due signore di entrarvi. "Mio cugino ed io" disse Marina "saremo gli ultimi." "Allora noi due saremo i primi, signorina Edith." Così dicendo il Ferrieri avvolse alle spalle della sua bella compagna lo scialletto celeste ch'ella portava sul braccio. Edith non se ne avvide, quasi; pareva affascinata dalla bellezza nera delle rocce spalancate davanti a lei. Entrarono ambedue nella barchetta e si allontanarono. Era bello veder passare tra quelle porte infernali la barchetta, lo scialle celeste, il vecchio pittoresco ritto sulla prora colla sua lunga pertica. Presto scomparvero; prima Caronte, poi lo scialle celeste, poi la piccola poppa bruna. Dopo una decina di minuti ricomparvero la pertica ferrata, Caronte, lo scialle celeste. "Dunque? Dunque?" gridarono il Vezza e il Finotti. Nessuno rispose. Appena nello scendere a terra Edith e il Ferrieri dissero qualche fredda parola di ammirazione. Edith era triste e grave, l'ingegnere rosso fino al vertice del cranio; il barcaiuolo attendeva impassibile che si raccogliesse la seconda spedizione. Edith restò presso Marina e il Ferrieri si allontanò a capo basso, studiando i ciottoli. Il Finotti e il Vezza partirono insieme, di mala voglia. Nepo era inquieto. Non parlava, ma si moveva di continuo, guardava qua, guardava là, crollava la testa per iscuoter via l'occhialino che non aveva più; tuffò due o tre volte i piedi nell'acqua per andare di sasso in sasso in mezzo al torrente a spiar il ritorno della barchetta. Quando fu discosto, Marina disse sottovoce a Edith, accennando il Ferrieri: "Anche lui, eh, con i suoi modi di gentiluomo! Ho capito quando siete usciti di barca. Tutti eguali." "È una vergogna, una vergogna!" disse la giovinetta fremendo. "È stato molto audace?" Edith arrossì. "Chi mi manca di rispetto solo per un momento, e con il menomo atto, è molto audace" diss'ella. "Signor Ferrieri" disse Marina ad alta voce. Il Ferrieri si voltò. Voleva parere impassibile e non poteva. "Favorisca di scendere dalla contessa Fosca, che si annoierà molto. La signorina ed io scenderemo dopo, col ragazzo, probabilmente da un'altra parte." V'era nella voce vibrante di Marina il risentimento involontario della donna che coglie un uomo, anche indifferente, ai piedi di un'altra. Il Ferrieri s'inchinò e partì. "Non si usa fare quello che ho fatto io adesso" disse poi Marina a Edith. "Appena un vecchio chaperon lo farebbe. L'ho fatto per Lei, perché Ella non abbia più a trovarsi con quel calvo Lovelace che Le mette tanto ribrezzo; e perché qualche volta non m'importa di quello che si usa." "Grazie" rispose Edith. La barchetta ritornò con i commendatori. "Conte!" disse Marina. Nepo fu per rispondere "Contessa!" ma non fece che aprire le labbra ed entrò, dopo Marina, nella barchetta. "E Ferrieri?" chiese il Vezza. "Ci precede abbasso" rispose Marina. Ma ella era già a quattro passi dalla riva e le sue parole confuse al ruggito sordo del fiume non si distinguevano quasi più. Si strinse nello scialle, piegò il viso per schermirsi dal vento freddo che la spruzzava di minute goccioline d'acqua, stillanti dalle rocce. Guardava con occhi vitrei venirle incontro nell'ombra l'acqua grossa, veemente, senza una voce, senza una ruga. La barchetta si accostava all'andito tenebroso che precede la "sala del trono". La figura del vecchio ritto sulla prora pigliava, tra gli scogli lucidi e neri, un colore sempre più fosco, i colpi della pertica ferrata sparivano nel fragore assordante delle cascate interne. Non ci si vedeva quasi più. Nepo si chinò verso Marina, le prese una mano. "Ah!" diss'ella, come offesa; ma non ritrasse la mano. Nepo la strinse fra le sue, felice; non sapeva che dire; gli pareva tutto fosse detto; stringeva a più riprese quella mano fredda, inerte, come se volesse spremerne un concetto, una frase, una parola. Ebbe un'idea. Tenne con la sinistra la mano di Marina e le cinse la vita col braccio destro. Marina si strinse in sé e si slanciò avanti. "Fermo, Cristo!" urlò il barcaiuolo. Non ci si udiva, non ci si vedeva più. Il fragore uniforme metteva nella fronte e nel petto una contrazione penosa. Nepo rallentò la sua stretta. Non comprendeva quel guizzo di Marina. Parlò. Gli era come parlare con la testa tuffata nella corrente; ma egli, sbalordito, parlava egualmente. E sentì la vita di Marina ribattere indietro al suo braccio. Trasalì di piacere, allargò avidamente la mano che le cingeva il busto, come una branca di bestia immonda, fatta audace dalle tenebre; allargò le dita nella cupidigia di avvinghiare tutta la voluttuosa persona, di trapassar le vesti e profondarsi nella morbidezza viva. Marina s'era ricacciata indietro con la cieca bramosìa di stritolare quel braccio che la irritava come una sferza e s'era volta a insultar Nepo, non udita e non vista. L'acqua, il vento, le pietre stesse urlavano cento volte più forte, sempre più forte. Schiacciavano con la loro collera, con la loro angoscia colossale, la piccina collera, le spregevoli angoscie umane. Schiacciavano, buttavano via sottosopra le parole come polvere. La brutale natura prepotente voleva parlar sola. Nepo sentiva il caldo busto di Mar ina stringersi e dilatarsi ansante sotto la sua mano; gli pareva di discernere, nel frastuono, una fioca voce umana; immaginava parole d'amore e porgeva le labbra in cerca delle labbra di lei, fiutando le tenebre, aspirando un tepore profumato, pieno di vertigini. Allora un vigoroso colpo di pertica fece che la barca girasse l'ultima svolta dell'andito buio saltando in un diffuso chiarore verdognolo che pareva ascendere dall'acqua trasparente. Nepo non ebbe tempo di veder Marina in viso. Il barcaiuolo ritto sulla prora si era voltato verso di loro. Nepo lasciò prontamente Marina e finse di guardare in alto. Il vecchio barcaiuolo aveva addossato lo scafo allo scoglio puntando la sua pertica alla parete opposta, e, con il braccio libero, trinciava di gran gesti, mostra va la cavità, le gobbe mostruose della pietra. "Bellissimo!" gridò Nepo. Caronte si toccò l'orecchio e fe' con l'indice un segno negativo: indi agitò in su e in giù la mano distesa, accennando in pari tempo del capo come per promettere qualche cosa di più bello, e ricominciò a lavorar di pertica. Marina, pallida, serrate le labbra, chiusa nello scialle bianco che le stringeva le spalle, pareva un'anima peccatrice, fuggita nello sdegno alle ombre dei fiumi infernali, mezz'irritata, mezzo stupefatta. La "sala del trono" si spalancò a prora come una visione verde dorata con la sua gran cupola informe. il macigno nero nel mezzo, i tonanti fiotti di spuma e i bollimenti dell'acqua lungo le pareti gibbose; ma la barchetta, invece di entrarvi, scivolò a destra in un seno cieco di acqua tranquilla e si arenò. Una gigantesca cortina di pietra cadeva dall'alto a formar quella cala, schermandola in parte dal fragore dell'acqua. Colà, parlando forte, si poteva farsi intendere. Il barcaiolo domandò a Marina se l'O rrido le piacesse, e soggiunse, sorridendo con cert'aria di benigno compatimento, che piaceva a tutti i signori. Quanto a lui non ci trovava di buono che le trote. Diceva che in quel posto lì eran frequenti, e volle che Nepo e Marina si voltassero a guardar nell'acqua, promettendo ne avrebbero visto balenar qualcuna sul fondo. Nepo, voltandosi, venne a sfiorar la guancia di Marina. "Non mi toccate" diss'ella duramente, senza guardarlo. Egli attribuì quelle parole alla luce indiscreta e non se ne commosse che per dire con mal piglio al barcaiuolo: "Cosa ne facciamo delle tue trote, imbecille? Andiamo!" I suoi modi con gl'inferiori, da gentiluomo maleducato, gli avevano già procacciato uno schiaffo a Torino da un garzone di caffè e potevano procacciargli altrettanto e peggio da Caronte; ma costui non intese che l'ultima parola, e risospinta indietro la barca nella corrente, la fece entrare nella caverna grande, l'addossò al trono, dove l'acqua era più tranquilla, e ricominciò la sua mimica di cicerone muto. Accennò con la mano che si poteva salire sul macigno e uscir quindi per la spaccatura della rupe dal l'Orrido. Marina si gettò addietro lo scialle, balzò in piedi sul sedile della barchetta, respinse l'aiuto dell'attonito barcaiuolo e, posando i piedi sopra i risalti del masso, in due slanci gli fu sopra. Di là accennò imperiosamente a Nepo di seguirla. Nepo, ritto in barca, andava tastando il sasso, titubava e guardava di sbieco Caronte. Questi lo levò di peso e l'appoggiò allo scoglio; come a forza di raspar con mani e piedi vi si fu appiccicato, lo urtò su, con la palme, alla cima. L'acqua, entrando furiosamente, piena di luce, per la fenditura della roccia, si frangeva, a tergo del trono, in due branche spumose che lo allacciavano. Dal trono si passava oltre, si usciva all'aperto per una assicella lunga e sottile gittata sopra i sassi sporgenti dell'acqua. Tenevano quella via i pescatori di trote. Marina, seguita da Nepo, si avviò per l'assicella dopo aver accennato al barcaiuolo che l'attendesse. All'uscita dell'Orrido si apriva una scena severa che sarebbe parsa selvaggia a chi non vi fosse salito dalle caverne inferiori. Il torrente saltava giù allo scoperto per immani scaglioni, brillando al sole come una rete di fila d'argento, a grandi maglie irregolari, piene di fragore, fra due scogliere protese in atto di chiudersi una sull'altra, mezzo ignude, mezzo cenciose nei loro brandelli di bosco. Mar ina salì presso alcuni tassi rachitici che uscivano a lambir con le loro frondi nere un pietrone ritto a fianco della bocca dell'Orrido, ove il terribile fragore era grandemente affiochito. Si sdrucciolava assai per quel ripido pendìo erboso inzuppato di rugiada nella sua ombra perpetua. Non v'era sentiero, ma solo qualche forte impronta di passi nella terra rossastra. Nepo saliva a grande stento, abbrancandosi con le mani ai ciuffi d'erba. Sostò a pochi passi da Marina per pigliar fiato. "Fermatevi lì" diss'ella. "Avete più coraggio all'oscuro." "Oh, adesso poi," disse Nepo "non mi fermo certo." "Fermatevi!" Nepo si fermò, rannuvolato, inquieto. Aveva prima pensato ch'ella volesse procacciargli un colloquio fuori della vista importuna del barcaiuolo. Ora non comprendeva più. Si stizziva in cuor suo con Marina; ma gli era pur entrato da pochi minuti un sentimento o, per meglio dire, una sensazione nuova. Dalla piccola mano di velluto, dal busto caldo, ansante che aveva stretti, gli si era infiltrato nel sangue un turbamento insolito per lui, che usava dire di sentirsi uomo con le pedine, angelo con le dame. Tacquero un momento tutti e due. "Dunque lo volete?" disse Marina. "Ah" rispose Nepo allungando le braccia. Nuova pausa. "Perché lo volete?" "Che domanda, mio Dio!" "Non è vero?" diss'ella sorridendo. "Avete ragione." Lo guardò ben fiso con lo sguardo penetrante che le compariva e scompariva nella pupilla a suo talento, e disse con voce più forte: "Ma io non Vi amo!" "Oh anima mia!" disse Nepo intendendo male. E si arrampicò fino a lei. Ella fece un passo indietro, sorpresa. "Non Vi amo!" ripete. Nepo impallidì, ammutolì; poi proruppe a voce bassa, ma concitata: "Non mi amate? come, non mi amate? E cinque minuti fa in quella barca all'oscuro..." "Ah sì? V'è parso?" "Ma, mio Dio, se quella barca potesse parlare!" "Direbbe male di Voi. Vi siete ingannato; non Vi amo!" Nepo la guardava con le sopracciglia inarcate e le labbra semiaperte. "Però Vi accetto" diss'ella. Nepo mise un ah soffocato, si trasfigurò nel viso e stese le mani verso di lei. "Dunque Vi basta?" diss'ella. Nepo volle rispondere con un abbraccio, ma ella fu pronta ad appuntargli l'ombrellino al petto. "Scendete subito" disse. "Il barcaiuolo potrebbe andarsene. Io non vengo con Voi; giro l'Orrido di fuori. No, non ci vengo. Voi, venire con me? Non Vi voglio. Andate. Non siete contento adesso? Dite alla signorina Steinegge e al ragazzo che mi aspettino al ponte. Voialtri precedeteci. Non ci aspettate laggiù alla barca. Non aspettateci neppure a pranzo. Quando sarete a casa parlate pure a Vostra madre e a mio zio. Subito, prima che io ritorni. Andate." Egli non ne voleva sapere di andarsene. Implorò un bacio, non l'ebbe; anche la piccola mano di velluto, anche un lembo della veste furono negati alle sue labbra. Afferrò l'ombrellino e baciò quello, impregnato esso pure dell'odore di lei. Le acque e le frondi ne risero; ed egli se ne andò contento e malcontento insieme, agitato dalla torbida poesia de' sensi che non è del tutto abbietta e mette almeno qualche volta in ogni anima il suo fervor vitale, il suo cupo fiore di un giorno. Quando Marina arrivò al ponte, Edith era là ad attenderla con il Rico. Rifecero in silenzio la via percorsa il mattino sino ad una vecchia pietra ove era scritto, con la relativa freccia: "Ai monti". Lì presero per una stradicciuola che accennava ad un collo assai depresso tra la scogliera che è sopra C... e altri dorsi erbosi. Erano presso al collo quando Marina, che precedeva Edith, si fermò e le disse bruscamente: "Sa? Sono stata leale." Edith non comprese e non rispose. Ella non pose mente alla emozione febbrile che vibrava nella voce e luceva negli occhi di Marina. L'anima sua era tutta nello spettacolo della valle che si trasformava salendo, negli orizzonti che si allargavano tra le ondulazioni delle cime verdi ed altre cime azzurrognole, nella tremula nota continua delle campanelle vaganti per i pascoli, nelle voci acute e gravi di acque che passavano cantando sul fondo di riposti valloncelli e fra l'erba dei prati cadenti, onde saltava no talvolta sulla via per fuggire dall'altra parte. Ella camminava più lenta, contemplando il cielo così puro al di sopra delle passioni di tante montagne sfolgorate in fronte dal sole obliquo a cui tutte parevano guardare, unite in qualche grande pensiero, in qualche sublime preghiera senza parole. Sospirava e sentiva scendersi al cuore l'aria piena di questo spirito muto delle montagne. Non comprendeva come si potesse pensare ad altro, non sentiva più, come al mattino, l'influenza penosa di Marina; era li bera. Giunta sul collo del monte, disse guardando la nuova scena che le si apriva davanti: "È una poesia." Marina non aperse bocca. Edith vide, accostandosele, che ella aveva gli occhi pieni di lagrime; si fermò, sorpresa. Marina le prese il braccio con forza, e, accennato al Rico di andare avanti, uscì con lei di strada, rapidamente, camminando sul prato; ad un tratto abbracciò la sua compagna e proruppe in singhiozzi disperati. Singhiozzò, singhiozzò sull'omero sottile di Edith, stringendole convulsa le braccia, parlando con le labbra impresse nelle sue vesti, scotendo forte, a ogni tratto, la testa. Edith, co mmossa, tremava da capo a piedi, si sentiva vibrare nel petto il rombo di quella voce soffocata e non poteva coglierne alcun suono distinto; provava nel cuore una pietà grande, come se il cuore avesse intese le cose singhiozzategli sopra; provava un affannoso bisogno di trovar parole di conforto, e non sapeva. Ripeteva: "Si cheti, si calmi" ma senza frutto, che Marina scoteva allora la testa con maggior violenza. Chinò il volto e le posò la bocca sui capelli, esitò un momento, lottando con qualche occulto p ensiero, baciò finalmente quella testa altera, così umiliata, e ne provò consolazione come d'una vittoria. A poco a poco i singhiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith. "È passato" diss'ella "grazie." "Mi parli" disse Edith affettuosamente. "Se Lei mi vedesse il cuore..." "Le ho parlato" rispose Marina. "Le ho detto tutto." Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsi, senza lagrime. Edith voleva che sedesse. "No, no" rispose "è passato." Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere: "È passato, è passato." Ella s'era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacci, che usciva dal prato fra cespugli di mugo, come una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spalle, e volto il viso sulla spalla destra, si guardava la mano rabbiosamente attorta agl'int agli bizzarri del sasso. "Mi dica..." ripeté Edith. Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei. "Che fiore è?" diss'ella bruscamente. "Pare aconito." E lo porse a Edith. Questa prese il fiore senza guardarlo, volle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il masso, vi soffocò i singulti. Pareva sitibonda di entrar nella pietra, di gelarvi, di irrigidirvi per sempre. E intorno a lei era tanta pace! Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della montagna, mettevano voci di vita innocente nei pascoli, nelle selvette compatte, verde-dorate di giovani faggi, in giro a rade macchie metalliche d'abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompa, le felci curvavano le grazie leggere del fogliame color di aprile, ciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de' loro fiori. Tutti circondavano Marina di pace, di dolcezza grave, sile nziosa. Si udì la voce lontana del Rico che gridava: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Voci di mandriani rispondevano: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Parean saluti al sole che aveva levato il suo raggio dall'erba e saettava la cima del sasso bianco. Il tremolìo diffuso delle campanelle s'avvicinava da tutte le parti all'alpe di C... accovacciata in un seno erboso sotto le scogliere. Le vacche vi si avviavano a file, a drappelli, accodandosi le une alle altre sugli angusti sentieri, trottando giù dai brevi pendii, sbracandosi lente nei prati, fermandosi di tratto in tratto a levar il muso e muggire. Il Rico gridava sempre: "Uuh-hup!" Marina si scosse, si volse a Edith e le disse: "Andiamo. Adesso è passato davvero." Edith la pregò ancora di parlare, di confidarsi a lei. "Le ho detto tutto" rispose da capo Marina. "Non potrei ora ripeter quello che Le ho detto. Non lo sento più. Metta che vi fosse in me un sentimento ch'io ignoravo. Ad un tratto ha divampato, mi ha preso alla gola, al cervello, dappertutto. Ma è stata una vampa sola. Adesso è morto. Non lo sento più. Non so più nemmeno se fosse dolore o sgomento. Sa, quando si entra in una via sconosciuta viene sempre questo dubbio: "E se sbaglio? Se mi perdo?" Non dura, ma viene. Senta; se in avvenire udrà parlare di me, c ontro di me, si ricordi questa sera. Allora capirà, forse." "Spero che non udrò parlare contro di lei." "Oh!" Tornate sul sentiero, trovarono il Rico fermo ad aspettarle. Si faceva tardi, era freddo. Scesero in fretta verso Val... Marina non parlava, seguiva i suoi pensieri. Solo dopo una mezz'ora di cammino prese il braccio di Edith e le disse: "Glielo racconti." "A chi?" rispose Edith. Marina trasalì, le lasciò andare il braccio e non disse più nulla. Il sasso bianco, sgretolato dal gelo, ritto fra il mugo, le felci e gli aconiti sotto il cielo pallido della sera, sapeva forse per quali angoscie oscure un corpo e un'anima si fossero dibattuti insieme sopra i suoi fianchi duri, freddi, senza pietà. Se vi dormiva il torbido spirito, l'insensatum cor della montagna, poté sognare che un altro core, appena incatenato alla colpa e alla sventura era corso a palpitar forte, quasi a frangersi addosso a lui, in un impeto di dolore atroce scoppiatogli su da profond ità che oltrepassano la coscienza; poté sognare quanto si soffra anche fuor del suo carcere cieco, anche nel mondo sperato dei sensi, del pensiero e dell'amore. Non si udivano più le campanelle delle vacche, salivano dalle valli fiocchi di nebbia, saliva dall'Orrido, come un gran pianto, la voce del fiume, e là in alto il sasso bianco si faceva sempre più triste, sempre più cupo, tra il mugo, le felci e gli aconiti, sotto il cielo pallido della sera.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Il Tempio della Concordia, e vicino il Tempio d'Era con la sua fuga di venti colonne erette e di venti colonne abbattute, e, più oltre, il Tempio d'Ercole, ossario spaventoso della barbarie cartaginese, meraviglia ciclopica tale che la nostra fantasia si domanda non come sia stato costrutto, ma come sia stato abbattuto; e oltre ancora il Tempio di Giove Olimpico, il Tempio di Castore e Polluce: tutte le sacre ruine che Agrigento spiega a sfida tra l'azzurro del cielo e del mare: ecatombe di graniti e di marmi che sembra dover ricoprire tutta la terra di colonne mozze o giacenti, di capitelli, di cubi, di lastre, di frantumi divini. Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava "il mio tempio", il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno. - No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi. Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra "i monumenti infernali dell'idolatria" per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d'Ercole che fornì materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolavori alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare la terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto Empedocle. - Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori. - Il gregge! Il gregge dell'Abazia! - Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, - il gregge dell'Abazia! Guardate che incanto! Dall'interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla "fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei cani. *** - Non rimpiango d'essere nato troppo tardi. Il quadro è più divino oggi che ai giorni di Empedocle. Il cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi troppo vivi; non so pensare le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli, azzurri, verdi. Non so pensarli che color granito, color di tempo, come li vede oggi la nostra malinconia. Colorato, ornato, fregiato, con i gradi del plinto e le strie delle colonne, i frontoni a linee precise, non addolcite ancora dai millenni; con i labari immensi che s'agitavano al vento e la folla che affluiva nei giorni solenni, il tempio doveva essere men bello di oggi. Oggi ha la bellezza che piace a me, la bellezza che strazia! - È straziante anche il vostro albergatore, - interruppe ridendo la mia amica. - Vedo una réclame di più. In fondo, ai piedi di Girgenti, aggruppata sul suo declivio come un'erede poverella, biancheggiava l'immenso cubo dell'Hôtel d'Agrigento, e sulle pareti candide, sulle alte mura del parco, fin sui cipressi centenari, spiccavano a sillabe colossali gli elogi di cordiali e di aperitivi. - E che cosa fanno all'HÔtel? - Mi dimenticavo di dirvi. Preparano un concerto di Nino Karavetzky, il prodigio di nove anni; suonerà nel Tempio, al plenilunio di domani. - Tutti gli anni fanno qualche cosa di simile, - disse Eleanor abbuiandosi, - l'anno scorso la colonie preparò una festa amena. Lampioncini veneziani dall'una all'altra colonna, razzi, fuochi di bengala, danze, e Vedova allegra - L'idea di quest'anno è meno scellerata. - Scherzo, conosco il piccolo Karavetzky. L'ho sentito l'estate scorsa al Conservatorio di Bruxelles. È più che un enfant prodige È un rivelatore. Sarò felice di sentirlo. - Oh! Che piacere! Allora verrete anche voi! - Non verrò. Lo sentirò di qui. Sentirò benissimo le parole del violino e non i commenti delle signorine Raineri e di madame Delassaux. Fui schiettamente addolorato del rifiuto reciso. Tentai la mia amica insistendo, porgendole il programma. - Guardate, guardate che delizia. Essa lo scorse, lo commentò da fine intenditrice. - Delizioso, ma non verrò. - Oh! Cara Eleanor, quanto m'addolora il vostro rifiuto. Quando mi han detto del concerto ho subito pensato a voi e ad una cosa sola; al piacere di starmene in disparte su qualche capitello infranto ad ascoltare la musica lontana e le cose che voi sola sapete sulle nostre bellezze sepolte. - E bene illuminati dal plenilunio e vigilati da Madame Delassaux o da chi per essa, perchè si tessa qualche favola di più "sur la sorcière des ruines". No, non protestate, sapete benissimo anche voi che mi si chiama così. Non risposi, chinai il volto, premetti le gote che ardevano contro le due mani di lei, gelide e fini. - Il mondo ha pure le sue esigenze, mio povero amico, finchè siamo tra i vivi. Tacqui ancora, parlando senza sollevare il volto. - È una gran delusione per me. Contavo sulla vostra presenza. Sono un vagabondo senz'anima, che non crede e non sente. Ma accanto a voi mi par di sentire e di credere in qualche cosa. Non so, non so dire che cosa io provi quando vi sono vicino. Eleanor ritirò lentamente le mani; sollevai il volto e vidi il volto di lei mutato, e gli occhi, dove la pupilla color velluto divorava, a tratti, tutta l'iride azzurra, che mi scrutavano fino in fondo dell'anima. - È vero. Siete sincero, - disse Eleanor con voce commossa, ma ferma. - Per l'affetto che mi portate e che vi porto, verrò. Aspettatemi verso la quarta metopa; vi prometto che al Notturno di Sinding sarò con voi. La mia anima corresse - sarà con voi! Sorrisi amaramente al gioco di parole, deluso e scontento. Ma Eleanor non sorrise, alzò la mano come a suggellare una promessa. - Sarò con voi. E poichè mi volsi ancora a salutarla dalla soglia, con un sorriso deluso ed incredulo, essa ripetè solenne: - Vi giuro che sarò con voi! Perchè quella promessa e quel volto atteggiato ad una tenerezza quasi tragica mi diedero il brivido? Uscii dalla "Buona Sosta" con un'esaltazione strana, m'avviai quasi di corsa verso l'albergo. A mezza via, dall'ombra di una siepe di agavi e di cacti, balzò il dottor Gaudenzi. - Ti si vede, finalmente! Ma passi le tue giornate alla "Buona Sosta"! Dalle ruine alla gobba, dalla gobba alle ruine. C'è poca differenza. Comincio a pentirmi d'avertela presentata. Per tanti motivi. - Sentiamo. - Sei qui per rimetterti dei tuoi nervi e la compagnia di quell'esaltata è la negazione della cura. La conosco da anni. Giurerei che avete parlato tutto il giorno d'arte e d'oltretomba. Sono le sue due specialità. Hai gli occhi di un allucinato anche tu. - Sentiamo, e voi cosa avete fatto di meglio? - Siamo stati a Porto Empedocle a veder ritirare le reti. Abbiamo aiutato i pescatori e i marinai; un esercizio che avrebbe fatto bene anche a te. Poi abbiamo invasa un'osteria del basso porto, comprese le signore, e abbiamo mangiato il pesce fritto alla saracena. Poi abbiamo scommesso a chi faceva più giri intorno alla fontana di San Rocco con Madame Delassaux tra le braccia. Pesa novantasei chili. Io ho vinto il secondo premio ... Il mio amico aveva ragione. Ma l'errore era d'aver scelto per il mio riposo una terra dove ogni pietra aveva un potere magico, un passato favoloso, e dava l'ebbrezza e l'allucinazione. Meglio la Liguria, non bella che d'aranci e di oliveti, meglio il mio Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l'anima s'adagia come una buona borghese. - Diraderò le mie visite a Miss Eleanor. Hai ragione. La sua conversazione mi esalta. - Farai bene. E non per i tuoi nervi soltanto. Si mormora non poco su questa tua assiduità. Quest'oggi ho sentita una frase perversa sull'idillio "du poète languissant e la bossue aux soixante millions". No, non puoi prendere a ceffoni chi l'ha pronunziata perchè era una donna. Soltanto le donne sono capaci di pensare queste cose. Ma le donne le dicono e gli uomini le credono e le ripetono. Il Tempio di Demetra inargentato dal plenilunio! Una bellezza che nessuna forma d'arte potrebbe ritrarre senza farne un'oleografia dozzinale, una bellezza non sopportabile che nella dura realtà. Ma quale realtà! La terra, il mare, il cielo d'Agrigento si erano fusi in una tinta neutra, quasi per favorire con uno scenario incolore quell'unica forma; e il Tempio s'innalzava sui suo stereobate a cinque gradi, le colonne esatte, rigide, convergenti dai plinti ai capitelli con un'armonia che sembrava una preghiera lanciata in alto, verso l'assoluto. E sulla sinfonia delle sette e sette, delle venti e venti colonne l'architrave, i triangoli dei frontoni equilibrati come due strofe si profilavano intatti al plenilunio, poichè la luce lunare ringiovaniva il Tempio come la ribalta ringiovanisce un volto di donna. - L'uomo ha potuto far questo! Ha concretato nella pietra questo grido verso l'ideale. La mia esaltazione cresceva. M'aggiravo tra la folla con passo malfermo. La folla brulicava intorno: ospiti giunti da tutte le parti, italiani e forestieri; ma le figure moderne, minuscole su le scalee imponenti, fra gli intercolunni colossali, non rompevano l'armonia del quadro, tanto le nostre foggie mutevoli sono miserabile cosa di fronte alla bellezza che non muta. Nell'interno, tra il doppio colonnato della cella, dinnanzi alle tre are consunte, s'addensavano gli spettatori; e le donne cessavano dal cicalare e gli uomini si scoprivano il capo entrando, istintivamente, quasi che ancora la divinità fosse presente. - Eleanor! Eleanor! Che faceva, la mia amica tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Perchè non era con me nell'ora divina? Il plenilunio illuminava a giorno le zone in ombra, faceva scintillare gli occhi, i denti, i gioielli delle signore; alcune - quelle della colonia - in capelli, scollate, con scarpe chiare o a vivi colori laminate d'oro e d'argento, altre - le forestiere - in succinto vestito di viaggiatrici. E, tra la folla che fece ala, apparve il piccolo Mago, condotto per mano dalla mamma, una signora ancora giovane e bella. Ma quanto minuscolo il prodigio famoso! Fu un mormorìo di tenerezza sorpresa che proruppe in una commossa ilarità quando il piccolo tentò, due, tre volte, invano, di dare la scalata al plinto e la madre lo sollevò alle ascelle, ve lo depose con un bacio e con un sorriso, offrendogli, nella custodia aperta, lo strumento, come un giocattolo prediletto. E il bimbo lo prese, lo accordò palpandolo, stringendolo tra le gambette nude, picchiandolo con le nocche, pizzicando le corde con le dita e coi denti, così come avrebbe fatto con un suo cavalluccio un po' guasto, prima di mettersi al gioco. Addossato ad una colonna lo guardavo, attraverso la folla, il Mozart minuscolo sul suo plinto greco, e il mio malessere cresceva, sentivo il rombo del sangue contro il granito al quale premevo la nuca, e gli occhi aperti mi dolevano e se li chiudevo l'orlo delle palpebre mi scottava come se fosse stato di metallo rovente. Aspettavo la musica come nelle notti disperate invocavo dal mio amico la droga del nulla o la puntura pietosa. Ma la prima nota dolcissima - era il concerto in re minore di Max Bruch - mi passò nel cervello come una scalfittura. Tutto il miracolo evocato dal piccolo intercessore, che dalla gagliarda sonorità appassionata delle prime frasi si chiude col finale allegrissimo, saltellante, fu per me un martirio senza nome, come una musica diabolica eseguita da un demone con un archetto di diamante sopra una lastra di cristallo. - Eleanor! Eleanor! Che faceva la mia amica in quell'ora? Ascoltava, con la povera persona deforme palpitante tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Non vedevo la folla, non vedevo che lei. Le note si convertivano in parole sue: - ... la fede, la fede che fa tutto possibile: anche questo! - e abbassava gli occhi accennandosi la sciagura della persona miserrima; poi sollevava le iridi chiare: - ... verrò! Sappiate vedermi. La mia anima sarà con voi. Vi giuro che verrò! Tremai della mia eccitazione. Cercai il dottore intorno, come un salvatore, senza trovarlo. Cercai un capitello, una pietra dove sedermi: tutto era occupato dalle signore. E le ginocchia non mi reggevano. Girai intorno alla colonna, passai dagli intercolunni della cella agli intercolunni esterni, in piena luce lunare. Avanzai quasi di corsa lungo il pronao per allontanarmi dal malefizio dei suoni e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi due, tre gradini, mi adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben sorretta da una curva della pietra consunta. Dinnanzi m'era la pianura incolore ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna. Da un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti ... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario. - Il dolore, il dolore anche qui, eternato nella pietra dura! Cercai la luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che non soffre più, che non soffrirà mai più. - Eleanor, Eleanor! Ah! Perchè non l'avevo vicina? Perchè non aveva consentito al convegno? Fissai il cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice! E il piccolo evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle, lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il profilo; il profilo di Eleanor. Non balzai, non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo. - Non sogni! Non sogni! Eleanor parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle statue immortali. - Non sogni! Non sogni! Ho giurato. Sono venuta. - No, non è vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno dei sogni. - Non sogni! Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi? Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio essere. Tutto è possibile. Anche questo. - Eleanor! Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine. - Verrà la luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo! - Eleanor, se questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi! E tentai di trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del tempio. - No! no! La fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero! Mi resisteva ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino, ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo. Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina. - No! Bada! Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre! Lasciami! Lasciami! Fu la resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo. - Lasciami! Lasciami! Sollevai la persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii, trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo. Ma fu allora come se cominciassi a sognare. Vidi per un attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce di Madame Delassaux, la mia nemica. - Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous par ici, miss Quarrell! Poi più nulla. L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere. - E dopo - dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima. - Ieri? Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non t'agitare ... ti dirò poi. - Voglio sapere, voglio sapere! - Tutte cose innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma non ti agitare! Mi rinnovò il ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare, misurando a grandi passi la stanza. - Bada di dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor. - Miss Elaanor è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più. Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per sempre. Ma lasciami parlare! - Allora cose gravi! - Ma no! Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio. L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando come un forsennato, la povera gobbina svenuta. Avevo allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani. Non potevo ridere, non potevo piangere. - Non è vero! Dimmi che non è vero! - È vero questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro. - Dimmi che non è vero! - Ed è lezione ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello. Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa. Afferrai il rasoio, per gioco. - Non mi resta che il suicidio od il chiostro! Ridevamo perdutamente. Ma lasciai la Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

- Ha abbattuto la sua colonna - rispose il giovane punto dal freddo di quella indifferenza. Il vecchio non ebbe che un fremito. - Nemmeno i vermi avranno rispettato il suo cadavere! L'Europa è dunque come egli l'ha lasciata. Napoleone solo poteva farne un impero; era la sua idea, noi l'abbiamo seguita dappertutto. Io aveva quindici anni quand'egli mi prese nel suo esercito, camminavo quasi nascosto nell'ombra della bandiera. Allora un sergente valeva un re! A Roma abbiamo battuto il papa, alle Piramidi abbiamo sconfitto Maometto, abbiamo trionfato dovunque: egli guardava, noi vincevamo. A Madrid, quando l'imperatore ha fatto scoperchiare la tomba di Carlo V, io ero lì: a Vienna ho visto l'imperatore Francesco seguire Napoleone col cappello in mano, a Berlino pigliammo la spada di Federico, da Mosca ci trasportammo dietro nella ritirata la grande croce d'Ivano il Terribile. - E la perdeste. - La buttammo in un lago, Napoleone buttava via tutto, le croci e le corone, i reggimenti e gl'imperi. Che cosa credete che sia un regno? Ci avevano messo dei secoli a farlo, noi lo conquistavamo in una settimana. Noi eravamo la Grande Armata, il resto era il mondo. Se Napoleone non fosse morto giovane, l'avremmo preso tutto, saremmo andati per le Indie e ritornati per l'America. Tutti i popoli ci aspettavano. - E che cosa avreste recato loro? - Il vecchio sostò, poi guardandolo serenamente rispose: - Napoleone. - Comprendo - proseguì l'altro rattenuto un istante da quella immensa parola. - Il vostro è stato un gran sogno, ma la nostra realtà è anche più grande. Voi eravate la gloria e noi siamo la libertà, voi eravate l'esercito e noi siamo la moltitudine: voi siete stati gli ultimi conquistatori della storia. La guerra millenaria dell'umanità condensandosi in uno sforzo supremo ha prodotto le vostre battaglie; ora la guerra dei popoli è conchiusa e comincia quella delle classi: la prima condensò le nazioni, la seconda le dissolverà in un solo popolo. Una volta il soldato si batteva per il generale, domani vincerà per se stesso. Il vecchio evidentemente affaticato fece uno sforzo. - Vedete là quella costellazione? Un giorno la chiameranno forse di Napoleone: io ci sono, voi con chi siete? - Sono nichilista! - Poi abbassando la voce soggiunse: - Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell'ombra, martiri al sole. - Le vostre armi? - Tutte quelle che un uomo può usare. - Avete vinto nessuna battaglia? - Abbiamo ucciso un imperatore. - Ma l'impero è rimasto. E il vecchio non parlò più. Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell'ombra un pennacchio di fumo. Poi il vecchio mormorò: - Sono tutti morti... - e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell'enorme poema, del quale era l'ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto. In quel momento l'alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all'orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un'isola. - Eccola! - esclamò il giovane levandosi. La faccia del vecchio raggiò. Il mare mormorava, l'alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l'ultima, gli scese dagli occhi appannati. L'altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell'alba sembravano vampate di cannoni lontani, l'onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l'Oceano e il sole sfolgorò. - Viva Napoleone! - gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore. Il sole saliva sopra Sant'Elena. - Andate a visitare la sua tomba? - domandò il giovane. - A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l'ultimo. E fu l'ultima parola.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Il Municipio, che era la cittadella nella quale l'intrigante avvocato non aveva mai potuto penetrare; era abbattuto con un colpo di penna, rimaneva smantellato e aperto alle ambizioni e alle méne del partito ministeriale. Ma dopo quel primo momento di abbattimento, che tiene dietro alle notizie inattese, i moderati ripresero coraggio; e la sera quando entrarono nel teatro circondando il loro candidato e sedette dinanzi alle tavole imbandite, tutti i volti dimostravano la gioia per la lotta che avrebbero incominciata nel campo amministrativo, appena chiusa quella nella lizza politica. Il teatro di Castelvetrano è un piccolo edifizio e la platea non è più grande di una sala da ballo. Al posto dell'orchestra, che è più alta del resto dell'ambiente, troneggiava la tavola per Roberto, per tutti i pezzi grossi del partito; per un ex deputato moderato di Trapani, che contava di esser rieletto, e per due senatori di Palermo. Le tavole per gli altri invitati erano tre. disposte in altro senso, e parallele fra loro, per modo che dalla tavola d'onore si dominavano tutte. Il concorso non poteva esser molto numeroso; perché quelli che s'iscrivevano per assistere alla festa dovevano pagare quindici lire, e quindici lire sono una somma in un piccolo paese. Gli elettori dell'Orlando, che erano tutti più o meno rovinati, non avrebbero potuto assistervi. ma egli aveva fornito i mezzi a diversi, fra i quali il Torres e il Bonajuto, sui quali contava molto per combattere il discorso che Roberto doveva pronunziare. Naturalmente fra gl' iscritti figurava anche l'agente elettorale che non voleva perdere quella bella occasione per farsi un merito presso il sottosegretario Gelsi, clie gli aveva affidato la delicata missione. Mentre l'altra in casa Moltedo era stata una riunione alla buona, questa era l'adunanza ufficiale e tutti aspettavano dalla bocca di Roberto un vero discorso-programmaEgli, partendo da casa, dove aveva lasciato Velleda convalescente e agitata, dove lo assalivano tanti timori, non era punto disposto a pronunziare un discorso. Non aveva avuto il tempo di scriverlo, ma tutto ciò che voleva dire non era una improvvisazione; era il risultato di idee divenute convinzioni, e a parlare non si sgomentava. Come in tutti i banchetti di quel genere, in principio le cose vanno bene; la gente mangia e sta zitta; ma il fermento comincia ali' arrosto, quando si stappano le bottiglie di vino spumante e si attende che il candidato si alzi. Il Torres e il Bonajuto, giunti in tempo, eran riusciti a collocarsi proprio di faccia a Roberto, nella tavola centrale; l'agente elettorale Marvuglia alla tavola a destra. ma anch'egli era abbastanza vicino al candidato per afferrare ogni parola di Roberto, il quale parlò poco e mangiò meno durante il pranzo. La notizia dello scioglimento del Consiglio Comunale, appresa poco prima, lo costringeva a modificare tutto il suo discorso. Che parli! Che parli! - urlavano da tutte le parti, specialmente gli avversarj. Roberto si alzò e disse: La mia prima parola è un grido di protesta. Il nostro partito, che è quello degli onesti, è indignato dell'arbitrio del Governo che scioglie il nostro Consiglio perché professa idee diverse da quelle della maggioranza. Sì, io protesto perché noi non siamo più liberi, perché una tirannia odiosa cerca di soffocare ogni manifestazione di libertà. Ma il Governo è mal consigliato dai suoi fidi, poiché questi atti d'arbitrio, di spudorata ingerenza nelle elezioni, generano sempre una reazione. È vero! - gridavasi da ogni parte. I partigiani dell'Orlando tacevano. Questa protesta, - continuò Roberto, - io la dovevo far qui, ma la farò con più efficacia, se mi crederete degno di rappresentarvi alla Camera; io la farò dinanzi ai rappresentanti della nazione. Bene! - gridavano i convitati che si erano alzati e formavano come una muraglia attorno alla tavola d'onore. E l'esempio corruttore del Governo è seguito dai suoi partigiani, i quali non rifuggono da nessuna bassezza per conquistare un seggio. In una casa del paese, il candidato della parte avversa lanciava contro di me accuse, che io mi sarei vergognato di raccogliere. Ma quelle accuse stampate, diffuse, commentate da chi aveva interesse di demolirmi hanno messo lo scompiglio fra i miei operai, hanno quasi provocato uno sciopero, e un vecchio innocente è caduto sotto il colpo di uno sciagurato, divenuto assassino credendo a quelle accuse. Basta! - gridò una voce e il Torres salendo sopra una sedia ripetè: - Basta! Non accusate un assente. Tutto quello che ha detto l'Orlando è verità. Menzogna! Calunnia! - gridarono cinquanta voci a un tempo. - Altro che menzogne! - continuò il Torres, nonostante il baccano. - Se non volesse licenziare gli operai non avrebbe comprato le macchine. Negate, se potete ; chi rovina i piccoli proprietarj? - L'Orlando rovina tutti e si fa eleggere per lucrare sul voto con ogni Ministero, - gridò don Calogero, che era salito sopra una tavola e si sbracciava. - E il Frangipani si fa eleggere per salvarsi dalla rovina, - gridava il Torres. L'uditorio scoppiò in una risata. - Sì ridete - seguitò il partigiano dell Orlando, se non fosse rovinato non lascerebbe che il fratello non pagasse neppure i debiti di giucco, - e agitava la dichiarazione del duca. -E' falso - E vero. Eppoi voi, buoni padri di famiglia, persone timorate, eleggete uno che tiene una donna maritata in casa, la moglie di un forzato, e non si vergogna di affidarle la figlia che é testimone dei loro amori. Propugnerà il divorzio per isposarla. - Basta! - urlarono tutti. Ma il Torres accennava , voler continuare e agitava la carta. Uno voi e straparla di mano, il Bonajuto accorse in difesa dell'amico volarono i bicchieri e i due partigiani dell' Orlando erano stretti e circondati da una cinquantina di forsennati, Roberto si fece largo, tolse i due disgraziati tutti malconci dalle mani di chi voleva finirli, e li spinse fuori del teatro Che cosa mi avete consigliato! - disse Roberto al Lo Carmine che lo aveva seguito. Il Marvuglia se n'era andato quando aveva veduto la faccenda farsi seria. Gli amici di Roberto, sicuri che fra loro vi era più nessuno di ostile, pregarono il candidato a riprendere l'interrotto discorso. E allora Loberto dette veramente prova di essere un uomo superiore poichè mentre il suo cuore sanguinava per le offese che un indegno aveva pronunziate contro Velleda, mentre fremeva di rabbia, riuscí a imporre alla sua mente di svolgere con chiarezza ammirabile un vasto programma di riforme sociali, un programma da uomo di Stato. I suoi amici ne rimasero sbalorditi e non rifinivano dall'applaudirlo; Roberto aveva misurato le sue forze ed era contento di sè, contento del dominio che sapeva esercitare sui proprj sentimenti. Quel discorso fu stampato nella notte e la mattina Roberto ne portava un esemplare a Velleda. Lo scioglimento del Consiglio Comunale era una sfida che anche i più indifferenti tra i cittadini di Castelvetrano avevano raccolta. Molti di essi, convertiti in agenti elettorali, percorrevano le vie di campagna, distribuendo il discorso del Frangipani, enumerando le persecuzioni cui era fatto segno, accaparrando voti nelle masserie, nei paesi del circondario, spingendo alla guerra contro l'Orlando, che era il rappresentante della tirannia ministeriale. A mezzogiorno, nonostante la diserzione degli operai, cui Roberto non aveva voluto fosse distribuito neppure un esemplare del discorso, il trionfo del candidato della opposizione era assicurato. Dopo tante lotte Roberto aveva bisogno di riposarsi presso Velleda, e quando la vide nel viale dei palmizj seduta sopra una poltrona, sorridergli da lontano, sentì svanire dal cuore tutti i dolori e provò una di quelle gioie intime, così intense, che mozzano il respiro. - Legga, - le disse, - ma più tardi quando io non sarò più al suo fianco. Ora mi narri come ha passato la serata e la notte, mi dica come si sente. - Bene, - rispose ella con un dolce sorriso. - Ora non desidero nulla, - e chiuse gli occhi come fanno i convalescenti, quasi avessero bisogno di riconcentrarsi per sentire il benessere che da la salute. - Io ho un progetto, Velleda,- disse Roberto. - Se sono battuto come se sono eletto a primo scrutinio, lunedì partiamo col " Selino ", andiamo a Palermo prima e poi a Sorrento. Viaggeremo per tre settimane circa, insieme con Maria, dimenticheremo le pene di questi ultimi tempi e vivremo soltanto per vivere. - E per amarci, - rispose ella interrompendolo. Lasci che la pronunzi la parola vera che esprime i nostri sentimenti. Ho veduto la morte in faccia e ho tanto sofferto credendo di dovermi separare da lei, che è per me una gioia immensa di affermare che vivo, affermando questo unico sentimento che mi domina. Questa malattia repentina mi ha reso più sincera e più cattiva. - Non è stata la malattia, sono state le cause di essa. - È vero forse. Ebbene, ora io sento la prepotente necessità di parlarle d'amore e le confesso che la speranza della mia vita è una speranza malvagia, ma naturale. Io spero che mio marito termini una inutile esistenza obbrobriosa nel bagno. - Velleda! - esclamò Roberto. - Non glielo ho detto che sono divenuta più cattiva, che sento i sacrifizj che questo legame m'impone, che anelo di vivere perché la morte mi ha sgomentata? - Cambiamo discorso, - disse Roberto, - e non culliamoci in speranze ingannatrici. Prepariamoci al viaggio che, in tutti i casi, sarà un sollievo dopo una sconfitta. - Mi prometta che il signor Franco non ci accompagnerà. - Glielo prometto, - rispose Roberto facendosi a un tratto triste; - anzi, debbo parlargli; torno subito. E senza dir altro lasciò Velleda, che aperto il foglio che aveva in grembo, si mise a leggere il discorso, accompagnando con un sorriso di gioia la lettura. Franco era ancora a letto quando Roberto salì nel quartiere di lui e sonnecchiava, come accadevagli di fare spesso in questi ultimi giorni, come chi vorrebbe ammazzare il tempo per non soffrire le torture dell'attesa. Costanza ogni giorno sapeva dirgli, mentre nessuno li ascoltava, che aveva ancor poco da attendere ed egli dormiva, affinchè le ore passassero senza sentirne la noia incresciosa. - Franco! - disse Roberto fermandosi sulla porta con tono di voce aspro. - Che cosa vuoi ?-Domandò l'altro aprendo gli occhi. Roberto si accostò al letto senza sedersi, senza stendere la mano al fratello. - È vero, - gli domandò; - che tu non hai pagato un debito di giuoco e hai firmato una obbligazione? Roberto parlava lentamente e teneva gli occhi fissi sbarrati in quelli del fratello per avere una risposta più sincera di quella che avrebbero potuto pronunziare le labbra. - Che te ne importai - rispose il duca col solito fare sprezzante per evitare di rispondere. - Hai un debito di giuoco? Hai rilasciato una obbligazione? - ripetè Roberto a denti stretti, fremente di rabbia. Franco si sentiva dominato da quello sguardo imperioso, sotto il quale doveva abbassare gli occhi e balbettò: - Tu mi tenevi senza un soldo! Per non sentire i tuoi rimproveri ho preferito non pagare altri che ricorrere a te. - Che ne hai fatto del vaglia bancario che rappresentava il piccolo patrimonio di una famiglia? - Non credo necessario di darti conto di quel che ne ho fatto; non potevo pagare. - A quanto ascende il tuo debito? Chi è il tuo creditore? - Il debito ascende a tre mila lire; il creditore è l'Orlando. - Ah! sciagurato! - esclamò Roberto. - Tu non sai forse quanto mi hai fatto soffrire! - E per non mostrare a quel pervertito, privo di senso morale, di delicatezza, tutto il disprezzo che gl'ispirava, traversò il quartiere e scese rapidamente le scale. Giù nello stabilimento era giorno di grande lavoro. Una tartana e un vapore attendevano il carico, le barche. andavano e venivano per prendere i fusti, gli operai li rotolavano sul piazzale, gl'impiegati di amministrazione riempivano bollette, la mercé usciva abbondante e i denari rientravano in gran copia. L'industria non aveva fruttato mai quanto negli ultimi mesi, le fatiche di Roberto non erano state mai cosi largamente ricompensate. - Che cosa fanno gli operai? - domandò il padrone al Varvaro. - Lavorano o discutono il vostro programma; molti, che erano divenuti propensi per l'Orlando, ora ritornano sotto la vostra bandiera. - Badate, Varvaro, non fate loro nessuna pressione! - Padrone, mi conoscete; io ho un alto ideale del rappresentante della nazione. Altri può farsi eleggere con i raggiri e con il danaro; voi dovete essere eletto per quello che valete, e valete molto. Il vostro programma è il frutto di una mente profonda e obbiettiva, di un cuore che impone silenzio ai proprj sentimenti, per accogliere i lamenti che il dolore strappa al cuore dell'umanità. Padrone, io sono altero di starvi a fianco. - Amico, vi è un'altra difficile missione da compiere. Dopo la scena di ieri sera, diviene anche delicata. Bisogna che andiate subito in città, e ricuperiate l'obbligazione di Franco all'Orlando. Ne siete informato? - Il Lo Carmine mi ha narrato tutto. Oh! quel signor Franco! Roberto stava per allontanarsi quando richiamò il Varvaro. - Sentite, - gli disse, - bisogna preveder tutto; è probabile che il losco avvocato si sia fatto fare la dichiarazione per una somma maggiore di quella di cui Franco gli è realmente debitore; cercate di saperlo da mio fratello, io non voglio interrogarlo. Inoltre è possibile che l'Orlando ci voglia fare un ricatto e non restituisca la carta altro che sborsando noi una somma ingente. In questo caso non vi curate di ritirarla. Gli affari di mio fratello sono ben divisi dai miei e chi ha per più milioni di vino nei magazzini e possiede terre senza ipoteche, può ridere di una inezia come quella. Poi con un tono d'amarezza soggiunse: - Sapete, amico, quando tornai da Roma ero tutto lieto di poter consegnare a mio fratello qualche migliaio di lire che avevo salvate a stento dalla rovina. Vedete quel che ne ha fatto? Sono tutte passate nelle mani dei nemici, ed è in grazia di quel debito di Franco che l'Orlando mi scatena a dosso tutti i diavoli e tutte le versiere. - Oh! quel signor Franco, scusate veh! non ha ne testa ne cuore; io lo credo un infelice, ma non mi fa compassione. Questo fu tutto ciò che il Varvaro si permise di dire rispetto al duca; ma se avesse lasciato parlare il cuore oh! quanto di più avrebbe aggiunto. Roberto, per andare nel magazzino del cognac, di cui sorvegliava specialmente la fabbricazione, perché voleva mettere sul mercato, dopo alcuni anni, un prodotto perfetto, passò per l'officina dei fusti, che era sempre il focolare di tutti gli scioperi. Alcuni operai, amici di Giovanni, per far dimenticare al padrone i fatti recenti, lo salutarono; altri gli chiesero il suo parere sui lavori da farsi; si vedeva in tutti una specie di pentimento, un desiderio di farsi perdonare, che consolava quel cuore amareggiato da tanta ingratitudine. Mentre dava alcune disposizioni, un guardiano andò ad avvertirlo che vi erano due carabinieri insieme con un uomo, che volevano parlargli. Quell'annunzio non lo turbò punto, poiché dopo l'uccisione di Federigo quelle visite erano frequenti e andò a riceverli nel suo studio. I carabinieri rimasero sul piazzale, l'uomo soltanto entrò. Era mal vestito, grosso, con una faccia accesa senza baffi, e i capelli rasi. Benché potesse avere appena quarant'anni, pure le sue guance erano flosce e cadenti e la mancanza di baffi e di capelli gli dava l'aspetto di un frate. - Che cosa volete? - gli domandò Roberto cui quella faccia ispirava una istintiva repulsione. - Sono l'avvocato Mario Crespi. Ella, tiene in casa sua mia moglie, Velleda Crespi, nata Bianchi, e io le ingiungo, in forza di una ordinane del presidente del tribunale di Castelvetrano, di restituirmela. Nel caso di rifiuto, mi farei assistere dalla forza. Roberto non tremò e non impallidì. - Ah! siete Mario Crespi, condannato a tre anni di reclusione! Credevo che non aveste ancora scontata la pena. Gli occhi dell'ex forzato si abbassarono sotto lo sguardo di Roberto. - Ho avuto la grazia sovrana, - rispose, - e voglio tornare a viver insieme con mia moglie, alla quale sono pronto a perdonare. - Voi non avete nulla da perdonarle, - disse Roberto, - rammentatevi bene di questo. E io credo che ella serbi un documento che vi toglie su di lei ogni diritto e di cui voi conoscete bene il contenuto. L'ex forzato non andava in collera. - Si vede che il signore è bene informato degli affari di mia moglie, - disse in tono ironico. - Ma fino a che non mi mostrerà quel documento, io ho diritto di far valere il mio, - aggiungeva, spiegando l'ordinanza del presidente. Aspettatemi, - disse Roberto indicandogli il piazzale, sul quale i carabinieri passeggiavano. Anche questa! - esclamò uscendo dalla parte verso il mare. - Ma chi è che mi perseguita così, chi è? e quello spettro misterioso dalle cento braccia malvagie che andava anche a togliere un forzato dal bagno, gli si presentò alla fantasia più spaventoso che mai. Giunse alla villa pallido e agitato, e non incontrando nessuno dovette bussare alla camera di Velleda. Maria, esci, - disse Roberto alla bambina, cui Velleda faceva ripetere una lezione. Che cosa succede? - domandò la signora leggendo in faccia a Roberto una agitazione insolita. Non si turbi per carità. Se avessi potuto nasconderle questa nuova infamia, risparmiarle questo nuovo dolore, avrei dato tutto ciò che possiedo, ma non posso. Mi dica, serba l'atto della separazione legale da suo marito? Sono carte che non si abbandonano; è li, - disse Velleda accennando un mobile. - Ma a che può servire? Il forzato è stato liberato da Nisida e reclama sua moglie, Dov'è? - domandò Velleda. - Voglio parlargli io, voglio sapere chi lo manda. Per carità, pensi alla recente malattia. Sono forte, - rispose ella, - e la vista di quel miserabile non mi può commuovere. Lo faccia chiamare. Velleda! No, voglio vederlo, - e scese per dar ordine a Saverio di chiamare l'individuo che attendeva allo stabilimento; poi risali in fretta; prese alcune carte e andò ad attendere nella biblioteca. Roberto le aveva rivolto un'ultima supplica, affinchè evitasse quell'incontro. No, mio buon signore, ho bisogno di sapere, di strappargli di bocca un nome; mi lasci con lui. Roberto entrava in una piccola stanza attigua, di cui lasciava socchiusa la porta, per accorrere in aiuto di Velleda; pochi istanti dopo, marito e moglie si trovavano di fronte. Che cosa volete? - domandò lei in tono imperioso. Ricondurti a Firenze e riprendere la vita comune. Sono libera, lo sapete; l'atto di separazione mi da facoltà di vivere dove voglio. Finché non lo produrrai, ha valore l'ordinanza del tribunale ed io la farò eseguire. Vieni con le buone, se no ti costringerò a seguirmi in mezzo ai carabinieri. L'atto è nelle mie mani, - rispose Velleda, e io lo mostrerò ai carabinieri, non a voi che sareste capace di lacerarlo. E possiedo altri documenti preziosi, con i quali posso farvi tornare in galera. Quali? - domandò egli turbato. Le cambiali false. Non sono più la donna ignara, la poetessa, la romanziera, come mi chiamavate, di cui s'inganna la buona fede, che si spoglia, cui si ruba la figlia per farla morire. Contro i delinquenti ci si premunisce. Le cambiali che faceste a mio nome, falsificando la firma, non sono state da me pagate alla cieca; sono passate per le mani dei giudici, si è fatta una perizia ed è stato riconosciuto che il falsificatore siete voi. Oggi, domani, potrei intentare l'azione penale; vedete che sono armata di tutto punto. L'ex-forzato taceva. Ma le lacererò in presenza vostra, se mi rivelerete il nome del vostro liberatore; di colui che vi manda qui. Il Re mi ha liberato, - rispose egli evasivamente. Il Re firma le grazie, ma qualcuno deve avere intercesso per voi, deve avervi detto che ero qui, nascosta, vergognandomi di un nome che avevate infamato. Chi vi manda, parlate! Ma le cambiali? Le straccerò appena avrete pronunziato quel nome; ma voglio quel nome, ditelo! Una luce sinistra le balenava negli occhi che in quel momento erano orribilmente stravolti. Ti rammenti del deputato Cesti, per il quale sostenni e vinsi un processo? - rispose l'ex forzato. Ebbene, nell' inverno gli scrissi perché impetrasse la mia grazia. Per più mesi non ebbi risposta. Quindici giorni fa ricevei una lettera in cui mi diceva che il decreto era stato spedito a Monza per sottoporlo alla firma sovrana e tre giorni fa giunse la grazia e una seconda lettera del Cesti con un sussidio. Egli mi diceva che se volevo l'indirizzo di mia moglie, partissi subito per Castelvetrano e mi dirigessi all'onorevole Orlando. Egli mi ha ottenuto l'ordinanza dei tribunale e ieri sera ... . Ieri sera ... . - ripetè Velleda ansiosa. Dovevano presentarmi a un banchetto elettorale, ma nacque un tafferuglio ... . Oh, la politica! - esclamò Velleda. - E voi, voi avreste detto chi sa quali -infamieNon ti curare di quello che avrei detto; dammi le cambiali. Ella se le cavò di tasca e gliele gittò in faccia insieme con un pacchetto di biglietti di banca, dicendogli: Questa è la mia elemosina, malfattore! - e gl'indico la porta. Nell'ingresso, seduti sopra una panca, i carabinieri attendevano. Velleda pose loro sotto gli occhi l'atto di separazione. Vedete che io posso vivere dove voglio, - disse loro quando ebbero letto. Poi accostandosi al marito gli susurrò nell'orecchio: Andate lontano e non turbate la mia esistenza, perché se le mie cambiali false sono distrutte, rimangono quelle di mia madre. Ah! Velleda, come ti avrei amata se tu fossi stata sempre così! - esclamò il Crespi avvolgendola con uno sguardo cupido. Ella gli volse sdegnosamente le spalle e corse da Roberto, che incontrò nella biblioteca. Quanto, quanto fango! - esclamò afferrandogli la mano e scoppiando in lagrime. Quando si fu un poco calmata volle narrargli la scena. Ho udito tutto, - disse Roberto, - e non credo l'Orlando abbastanza potente per mettere in moto un sottosegretario di Stato ... . Lei, mia povera amica, ha rinunziato ad armi potenti; ma noi siamo sempre dinanzi a quel mistero che nulla serve a svelare, e ogni giorno ci sentiamo colpiti da qualche lato. Velleda rialzò la testa e mostro gli occhi ancora umidi di pianto, ma sorridenti. Sono lieta, vede, perché godo di aver riveduto mio marito in quello stato e di avergli gettato in faccia la mia elemosina. Sono cattiva davvero! Roberto non credeva in quel mutamento di carattere e attribuiva tutto alla malattia recente, all'eccitamento nervoso che perdurava, e ognuna di quelle manifestazioni di risentimento e d'odio lo facevano tremare per la salute della sua cara. Sì, sono perfida con tutti, meno che con lei, con tè, gli disse accostandogli la bocca al viso e sollevando su di lui uno sguardo pieno d'amore. Roberto la baciò sulle labbra e le loro bocche rimasero un momento unite. - Sai; - diss'ella senza scostare il volto, - il mondo non merita che noi c'imponiamo sacrifizj, e quel vile, cui hanno certo detto che ti amo, non merita nulla. Roberto, io voglio esser tua, voglio darti la gioia, voglio; capisci! Il passo di Maria nell'anticamera li fece sussultare. Quando la bambina entrò erano già distanti, ma tremavano come due colpevoli. Vede. Velleda, - disse Roberto, - che v'e qualcosa superiore al mondo e alla condiscendenza di un vile, qualcosa che deve imporci l'antico riserbo? Babbo, che vuoi dire? - domandò la bambina. Velleda l'attirò a sé dicendole : Tuo padre intende dire che l'affetto per te deve essere superiore a tutto. Un giorno forse capirai che cosa significano queste parole che ti sembrano oscure.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Egli si sarebbe abbattuto, se il pensiero costante della madre, stesa su quel letto di sofferenze, non lo avesse sostenuto; il suo amore dominava la stan- chezza, ed egli camminava sempre con ar- dore. A un tratto egli vide dinanzi a sè un portico e gli venne voglia di mettervisi a riparo. - Ma per un momento solo, - bal- bettò - perchè la mamma mi aspetta; - e nello spingere lo sguardo sotto il portico vide che al di là di questo vi era un bel giardino, e con sua grande meravi- glia si accòrse che là dentro era sereno. Un dolce chiarore lunare illuminava le piante più rare; e vento, pioggia, gran- dine, fulmini, cessavano all'ingresso del giardino, ove il silenzio della bella notte non era interrotto che dal dolce rumore dell'ac- qua delle mormoreggianti fontane e dal me- lodioso canto degli usignuoli. Desideroso di un momento di riposo, egli sedè in uno dei viali del magnifico giardino, quando a un tratto udì un suono e una voce affascinante di donna, che cantava. Gli usignuoli a quel canto tacquero. La voce giungeva sempre più chiara agli orecchi di Bernardo, così si chiamava il ragazzo, che, voltatosi, vide un palazzo, dal quale usciva una luce mite. Egli si diresse a quella volta, e, oltrepas- sata la soglia e un bel cortile di marmo, nel mezzo del quale zampillava una fontana purissima, in una vasca di alabastro, pene- trò in una sala. Una tavola ne occupava il centro, e su quella tavola erano preparati cibi squi- siti. Bernardo sentì lo stomaco che gli ram- mentava di non avere mangiato dalla mat- tina. Egli prese avidamente un pezzo di pane e lo divorò in pochi bocconi. Quando fu sazio, attratto dalla voce melodiosa e non pensando più a sua madre, andò in una stanza attigna dove ar- deva un bel fuoco. Egli sedè in una co- moda poltrona, dinanzi al caminetto, per asciugarsi i panni, e cullato sempre dalla voce melodiosa, non tardò ad addormentarsi. Allora egli vide la fata Lucinda, della quale avevagli tanto parlato il suo vecchio nonno; quando, stanco dal lavoro, lo pren- deva sulle ginocchia e gli raccontava le novelle. Ella era avvolta in un velo bianco e libravasi sulle acque, mentre un giovine, che aveva qualche somiglianza con lui, la guardava estatico. - Se tu rimani qui, - disse al gio- vine la Fata - io ti darò il potere di af- fascinare con la parola tutti gli uomini, come io li affascino col canto. - Il giovane esitava. - Se tu rimani qui, io saprò darti glo- ria, onori, tutto ciò che può rendere felice un mortale, - continuò insistendo la Fata. - Ti darò le ricchezze, il dominio e tutto ciò che puoi desiderare, ma non devi la- sciarmi. Accetti dunque? - chiese Lucinda vedendo che il giovine esitava. - No, - mormorò lentamente questi. - Ti darò tutto ciò che vorrai, tutto ciò che desidererai, tutto, - disse insi- stendo ancora la bella Lucinda. E mentre gli diceva queste parole, egli si vedeva, come in un sogno, già adulto, sfol- gorante di bellezza, riverito, inchinato da centinaia di uomini, da donne bellissime, seduto sopra un trono, con la testa cinta di una corona, in una sala tutta luce, splen- dente di oro e di pietre preziose. Ma nel cantuccio della sala vi era una nube nera; a un tratto si diradò, ed egli scòrse, sopra un misero letto, una donna col viso coperto di bende, e gli parve di udire una voce lamentevole che chiamava: - Bernardo! - Quella voce fioca bastò a destarlo; si stropicciò gli occhi, si alzò, e, vergognandosi di essersi indugiato per la strada mentre sua madre soffriva, corse via; attraversò le sale, il giardino, e riprese la via maestra, sotto la pioggia dirotta, fra l'imperversare della bufera. Giunto in città al far del giorno andò difilato alla porta dell'ospedale, dove fu ammesso, dietro suppliche insistenti. Egli penetrò in una lunga corsia, fian- cheggiata da letti, su cui giacevano tanti e tanti infermi. Sua madre era nell'ultimo letto, col viso coperto di bende, come egli avevala veduta in sogno, nel palazzo della fata Lucinda. Quando Bernardo si avvicinò a quel letto di dolore, sentì la cara e amata voce che chiamava: - Bernardo! Bernardo, vieni! - Il giovane accarezzò quella testa ado- rata e la donna si calmò sotto la blanda carezza filiale. Quando la malata vide il figlio accanto al suo letto, il respiro le si fece più eguale e dormì un lungo e profondo sonno. Dopo pochi giorni, Bernardo aveva la consolazione di ricondurre sua madre a casa, completamente guarita dalle orribili ferite. La prima notte che egli, stanco, si co- ricò nel suo letto, vide apparirgli in sogno la fata Lucinda, la bella, incantevole abi- tatrice del palazzo fatato. La Fata, anche quella volta, era cir- condata di veli. Ella teneva in mano una lira e parlava a un giovane che rassomi- gliava a Bernardo, ma più maturo di lui; a un bel giovane nella pienezza della vita. - Ascoltami, Bernardo; - ella diceva con la sua voce melodiosa - se tu accon- senti a seguirmi nel mio palazzo incantato, circondato di giardini ove crescono i fiori più rari di tutte le regioni della terra, io ti prometto una felicità non mai interrotta, una gioia senza pari. Il mio popolo ti ac- clamerà suo liberatore; io ti darò il potere di infrangere le sue catene; tu vedrai ai tuoi piedi re vinti in atto supplichevole, scettri infranti, armi numerose tolte ai no- stri nemici, e la riconoscenza, l’affetto di milioni e milioni di sudditi, abbellirà la tua vita. - Bernardo vedeva sul volto del giovane, che a lui tanto somigliava e cui rivolge- vasi la Fata, un sorriso di trionfo. L'am- bizione gonfiavagli le narici, la sete di do- minio gl'inturgidiva le labbra, la speranza dava agli occhi di lui un insolito splendore. Egli stendeva verso la bella ammalia- trice le mani supplichevoli, quasi fosse sul punto di cedere alle sue lusinghe, ed ella già posava le dita affusolate sulle corde della lira per accompagnare un canto di esultanza, un canto di trionfo, quando una voce flebile colpì le orecchie di Bernardo. - Alzati, - diceva la voce indebolita dalle sofferenze - mi duole toglierti al sonno placido, ma tuo zio ha bisogno del tuo aiuto per preparare i campi e spargervi la sementa. Oltre all'essere tu obbligato verso di lui per vincoli di parentela, devi pensare che lo zio, buono e affettuoso con te, ti ha fatto erede dei pochi terreni com- prati a forza di risparmi, di lavoro e di economia. - Bernardo si scosse riconoscendo la voce di sua madre. Egli fece uno sforzo per cacciare dalla mente le immagini di gloria destate dalla fata Lucinda e le disse: - Non ti seguirò; l'affetto mi trat- tiene imperiosamente qui, e il dovere mi impone di non lasciare i miei. - Sei un buon figliuolo, un cuore one- sto, - disse la Fata - e voglio compen- sarti lasciandoti un tesoro. - Fata Lucinda sparì, e Bernardo, de- standosi all'improvviso, si trovò in mano un fogliolino su cui stava scritto: « A chi molto promette, credi poco. » Bernardo fece tesoro di quel consiglio, e oltre ad essere un figlio affezionato, fu sempre uomo di desiderî modesti e di molta prudenza.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Credete che per questo messer Cione si mostrasse abbattuto? Neppur per idea. Non s'era vestito a lutto, non aveva fatto dir messe per il riposo dei suoi morti, e a chi gli porgeva consolazioni, rispondeva: - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! Il giorno dei Morti era sempre un giorno di lutto per gli abitanti di Poppi, com'è anche ora, e per tutti. La gente pensava ai proprî defunti, pregava per loro, assisteva alla messa e all'ufizio e portava ceri sulle tombe. Chi poteva, faceva elemosine e ordinava messe, e sarebbe parso un sacrilegio, in quel giorno funebre, di divertirsi. Messer Cione non solo non pregava né si mostrava afflitto, ma canzonava ben bene, di sulla porta dell'osteria, vuota di avventori, quelli che andavano in chiesa a pregare. - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! - ripeteva egli. Le donne, nell'udirlo dir così, si facevano il segno della croce; gli uomini abbassavano il capo senza rispondergli: ma sì gli uni che le altre lo riputavano empio, e avrebbero scommesso chi sa che cosa che era già dannato avanti di morire. Un anno, il dì dei Morti, durante la messa, s'era fatto vedere a tavola davanti all'osteria a mangiare e bere con due o tre soggettacci di Romena, gente che lo aiutava nelle faccende losche; quando ebbe mangiato a strippapelle, si fece portare i dadi e si mise a giocare e giuocò tutto il santo giorno, dando scandalo a quanti passavano. La sera, mezzo brillo, accompagnò i tre soggettacci fino a Romena, e dopo di aver fatto baldoria anche là, se ne tornò a Poppi cantando una canzonaccia. Quando passava davanti alle immagini della Madonna, murate nella cappellina o sulle facciate delle case de' contadini, batteva col bastone l'erba delle prode, senza aver paura di ferire le anime che in quella notte popolano la campagna. Così cantando e agitando il bastone, giunse a un punto dove facevano capo due vie scendenti da Poppi. La più lunga era posta sotto la custodia del Signore, mentre la più corta era frequentata dai morti. Molta gente, nel passarvi di notte, aveva veduto cose da raccapricciare; ma nessuno osava raccontarle, altro che in mezzo a una brigata numerosa. Messer Cione, per altro, non aveva paura neppur del Diavolo, e prese la via più breve fischiettando allegramente. Era una notte senza luna e senza stelle e il vento impetuoso faceva turbinare le foglie; i cespugli tremavano come persone che avessero paura, e in mezzo a quel silenzio i passi di messer Cione echeggiavano sinistramente; ma egli non aveva paura. Passando accanto a una casa abbandonata, sentì la banderuola che diceva: - Torna addietro! Torna addietro! Torna addietro! Messer Cione non badò a quell'avvertimento, e giunse a un rigagnolo, ingrossato dalla pioggia caduta poco prima, che diceva: - Non passare! Non passare! Egli non badò neppure a questo secondo avvertimento, e, posato il piede sui sassi che erano attraverso il rigagnolo, passò dal lato opposto. Giunto che fu a una vecchia quercia, col tronco vuoto e coi rami scossi dal vento, sentì dire: - Resta qui! Resta qui! Resta qui! Ma ser Cione percosse l'albero col bastone che aveva in mano e affrettò il passo. Alla fine penetrò nel luogo dove bazzicavano le anime. In quel momento, all'orologio di Poppi e a quelli dei castelli vicini, scoccò la mezzanotte. Un altro sarebbe scappato; ser Cione invece, per dar prova di coraggio, si mise a cantare una canzonaccia. Ma nel tempo che cantava la quarta strofa sentì il rumore di una carretta tirata da cavalli senza ferrare, e la vide, infatti, nel buio, che si avvicinava a lui, coperta di una coltre da defunto. Allorché la carretta fu a breve distanza, la riconobbe per la carretta della Morte. Era tirata da quattro cavalli neri, con le code così lunghe che spazzavano il terreno. Seduta sopra una stanga stava la Morte in persona, con una frusta di ferro in mano e ripeteva sempre: - Tirati da parte o ti metto sotto! Tirati da parte o ti metto sotto! Ser Cione si scansò, ma senza turbarsi. - Che fai qui, madonna Morte? - le domandò sfacciatamente. - Prendo, sorprendo e porto via, - rispose il brutto fantasma col viso di scheletro. - Sei dunque una ladra e una traditrice? - continuò ser Cione. - Sono quella che colpisce senza sguardo e senza riguardo. - Cioè una sciocca ed un'assassina. Allora non mi stupirebbe che in codesta carretta tu ci avessi dei compari per darti manforte a commettere le tue infamie. Ma, dimmi un po', perché hai tanta fretta e martorizzi i poveri cavalli con codesta frusta di ferro, che non ho mai veduto usare da nessuno? - Sappi, - rispose il fantasma, - che debbo andare a prendere messer Cione, l'oste di Poppi. Addio! Ciò detto frustò i cavalli, e via. Ser Cione si mise a ridere e non si turbò per questo. Nel giungere a una siepe di pruni, che metteva al lavatoio, vide due donne bianche e belle, che sciorinavano i panni di bucato. - Perbacco! - disse, - ecco due ragazze che non hanno paura del sereno! Perché, belle fanciulle, state fuori a quest'ora? Il coprifuoco è sonato da un bel pezzo, e a Poppi non potrete entrare fino a domattina. Siccome io pure ho fatto tardi, non sarebbe male d'ingannare il tempo ciarlando; che cosa fate? - Noi laviamo! - risposero le due donne. - Me ne rallegro tanto, ma ora non lavate. - Ora rasciughiamo, - soggiunsero le due donne. - Con questa nottata non rasciugherete neppure un moccichino. - Non dubitare, rasciugheremo, e intanto ci metteremo a cucire. - Che cosa? - domandò l'oste. - Il lenzuolo del morto che cammina e parla ancora. - Ditemi un po', come si chiama questo morto? - Messer Cione, l'oste di Poppi, - risposero le donne. Ser Cione rise più forte della prima volta quando aveva inteso pronunziare il suo nome dal fantasma della carretta, e salì per la viottola che menava al paese. Ma più andava avanti e più gli giungevano distinti all'orecchio i colpi che facevano altre lavandaie di notte, sbattendo i panni sulle pietre del rigagnolo. A un tratto le scòrse e vide che battevano un lenzuolo funereo, cantando il triste ritornello: Se cristian non ci viene a salvare, Sempre sempre bisogna lavare; Prepariamo il lenzuolo pel morto, Che dev'esser qui dentro ravvolto. Appena le lavandaie di notte videro giunger l'oste, cessarono il canto, si misero a gridare, e, correndogli incontro, gli presentarono il lenzuolo imponendogli di aiutarle a torcerlo per farne uscir l'acqua. - Non si rifiuta mai un piccolo servigio ... - rispose ser Cione. - Ma aspettate un momento, perché non ho altro che due mani. Allora posò in terra il bastone, e preso uno dei due capi del lenzuolo che gli presentava la morta, si diede a voltolarlo nello stesso senso in cui ella lo torceva, perché aveva sentito dire dai vecchi che quello era il solo mezzo per non essere torto come il lenzuolo e spremuto. Ma appena ebbe strizzato l'acqua dal lenzuolo della prima morta che gli s'era avvicinata, ne giunse una seconda, poi una terza e molte altre ancora, e tutte circondarono ser Cione pregandolo di aiutarle. Fra tutte quelle donne riconobbe sua madre, sua moglie, le sorelle e le figlie, e quando s'era affaticato a torcere il lenzuolo che gli presentavano, per ringraziamento glielo sbattevano in faccia e gridavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E tutte quelle morte scotevano i capelli, alzavano i lenzuoli bianchi, e lungo tutti i fossi del monte e della valle, lungo tutte le siepi, da tutte le vette, migliaia e migliaia di voci ripetevano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! Ser Cione si sentì rizzare tutti i capelli sulla testa, ma seguitava a voltare il lenzuolo nel senso che torceva la morta per non essere torto e spremuto anche lui. Così lavorò fino all'alba sudando freddo, circondato da uno stuolo di morte, che urlavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E dalla valle, dalle balze dei monti, dalle vette, partiva lo stesso grido di maledizione, che l'eco ripeteva migliaia e migliaia di volte. Ma appena l'alba incominciò a imbiancare il cielo, le morte sparirono a una a una, e ser Cione, spossato da tanto terrore, cadde in terra e dormì come un ciocco. Credete che ser Cione nel destarsi fosse pentito? Neppur per idea! Si stropicciò gli occhi e disse fra sé: - Guarda un po' che brutti sogni si fanno quando s'è bevuto un bicchiere di vino di più! Pare impossibile! E cantando tornò a casa sua, aprì l'osteria come al solito, senza serbare sul faccione di luna piena nessuna traccia della paura della notte. E per tutto quell'anno seguitò, come se non fosse stato nulla, a canzonar quelli che andavano in chiesa, che si levavano il boccon dalla bocca per fare elemosine, e ascoltavano messe per i loro defunti. E anche quell'anno ser Cione commise un sacco di ribalderie insieme con altri furfanti del vicinato, e andò lì lì per esser preso sul fatto e impiccato. Ritornò il giorno dei Morti, la triste giornata autunnale in cui tutti avevano la mente rivolta ai loro defunti e pregavano, affinché fossero sollevati dalle pene del Purgatorio. Ser Cione, fin dalla mattina, si mise sulla porta dell'osteria a canzonare quelli che andavano in chiesa, e vedendo passare un lungo stuolo di donne, che dicevano devotamente il De profundis si mise a urlare: - Sgolatevi pure, tanto i ragli degli asini non giungono in Paradiso! Tutto il paese era scandalizzato dalle parole di ser Cione, il quale, avendo invitato come di solito a far baldoria tutti i malanni di Poppi e dei paesi vicini, bevve per dieci, e dopo si diede a percorrere la campagna cantando a squarciagola. A uno a uno i suoi compagni lo lasciarono per tornar alle loro case, ed egli, vedendo che aveva fatto tardi e che al paese non poteva tornare, perché a quell'ora le porte eran chiuse, si rassegnò a passar la notte al sereno, tanto la serata era calma e la pioggia né la neve minacciavano di cadere. Tagliò dunque col coltello, che portava sempre seco, alcuni rami secchi dalle siepi e dagli alberi, e accese una bella fiammata in un punto riparato, a ridosso di un vecchio muro. Appena la fiamma divampò, ser Cione vide un fantasma bianco, rinvoltato in un sudicio lenzuolo a brandelli, accostarsi a lui. - Vattene! - disse ser Cione, - non permetto che altri si scaldi alla mia fiamma. - Lo so che sei un uomo senza cuore, che non hai pietà né dei vivi né dei morti, ma per questa notte io non mi muoverò di qui, - rispose il fantasma, e si sedé davanti alla fiamma. Poco dopo giunse un secondo fantasma avvolto in un lenzuolo anche più sudicio e più sbrandellato di quello dell'altro. - Vattene! - gli disse ser Cione, - non voglio tanta marmaglia d'intorno a me. - So bene che hai una pietra nel posto del cuore, - rispose il secondo fantasma, - che non hai pietà né dei vivi né dei morti; ma per questa notte non mi moverò di qui. Si sedé accanto al fuoco, e quindi soggiunse, rivolgendosi all'altro fantasma: - Ti rammenti come eravamo felici quando ci nacque quel figlio, moglie mia? - Se me ne rammento! Ogni lacrima che mi è costato, mi ha fatto ripensare a quel momento di gioia, marito caro. Io ti ho sopravvissuto, e non puoi credere quello che egli mi abbia fatto patire. Mi sottoponeva alle più dure fatiche, mi maltrattava, mi contava i bocconi, e lui stava tutto il giorno a bere, a bestemmiare e a far di peggio. Tuttavia gli avrei perdonato tutto, se una volta avesse ascoltato una messa, o avesse fatto un'elemosina per sollevare l'anima mia dalle pene del Purgatorio; ma invece quel birbante gozzoviglia in questo giorno sacro a noi, e non ha un pensiero per i suoi morti. Ser Cione, seccato da quei discorsi, si era già alzato per andarsene, maledicendo gl'importuni, ma sentì due mani gelate prenderlo per il viso e trattenerlo dov'era. - Questo è troppo! - esclamò egli. - Io voglio stare dove mi pare e andarmene dove mi accomoda. - Per questa notte, - disse il terzo fantasma, che lo aveva trattenuto, - tu devi ascoltare i nostri lamenti, poiché avrai capito che quei due che parlavano di te furon tuo padre e tua madre, come io fui tua moglie. Ora verranno gli altri morti della nostra famiglia, e spero che t'impediranno di andartene. Ser Cione, di riffa o di raffa, dovette star dov'era, e i due vecchi continuarono i loro lamenti, intanto che la moglie guardava di qua e di là come se aspettasse qualcuno. Finalmente si alzò e corse incontro a due angioletti bianchi, che volarono a lei con le faccine sorridenti, soffuse di luce. La donna li baciò piangendo di gioia: - Ecco i nostri figli, - diss'ella a ser Cione. - Come vedi non hanno bisogno delle tue preghiere, perché sono in Cielo; ma se tu avessi fatto dire qualche messa per me, non sarei più divisa da loro. Di questo solo mi dolgo con te, perché ti era così facile far cessare la nostra separazione. Ser Cione non parlava e neppure osava avvicinarsi ai due angioletti, che s'erano accostati alla mamma e le facevano mille carezze, mentre per lui non avevano nessuno sguardo, nessuna parola. I due vecchi intanto continuavano a imprecare a quello snaturato figliuolo, e alla loro voce si univa quella delle sorelle di ser Cione, sopraggiunte allora e anch'esse avvolte in lenzuoli funerei. Il solo vivo, in mezzo a tutti que' morti, non era più calmo e sprezzante come l'anno prima quando capitò in mezzo alle lavandaie di notte, che gli fecero torcere i lenzuoli funerei, né come poco avanti quando sentiva parlare il padre, la madre e la moglie. Dacché aveva veduto i suoi due bimbi, si sentiva una smania, una irrequietezza che non aveva mai provate. Avrebbe voluto baciare quei due angioletti, ma temeva di vedersi respinto da loro e stava a guardarli intenerito, ripensando a come era triste, ora, nel mondo, senza nessuno. Intanto il vecchio, la vecchia e le sorelle di ser Cione gridavano: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! - Maledetto in eterno! - rispondevano le anime sparse nella campagna e alle quali è concesso, una volta l'anno, di tornare in terra. A un tratto ser Cione scoppiò in singhiozzi. - Son dannato, - diceva, - chi mi salverà? Tutti, tutti mi maledicono! La moglie del ribaldo strinse a sé i due bambini e alternava i baci con le parole che sussurrava loro nell'orecchio. I due piccini risposero alle suppliche di lei: - Non dubitare, mamma, addio! - E per me non c'è neppure un saluto? - domandò ser Cione ai figli. - Per ora no; ma torneremo presto, prestissimo. E volarono su, agili come due colombi. In breve, il chiarore che mandavano si confuse con quello delle stelle che erano sparse nel firmamento. I fantasmi, adunati intorno a ser Cione, non cessavano di lagnarsi di lui, ma egli non li udiva. Aveva nascosta la testa fra le mani e continuava a piangere dalla vergogna dei suoi peccati. La moglie sola non univa la sua voce a quella degli altri, non imprecava contro di lui, ma sibbene pregava per il suo ravvedimento e teneva l'occhio rivolto al cielo, da cui sperava di veder discendere i suoi due angioletti, che erano andati messaggieri a Dio. Ser Cione accostò la bocca all'orecchio della moglie, e le disse: - Credi tu che un uomo macchiato di peccati possa salvarsi? - Lo credo fermamente, - rispose ella. - E con qual mezzo? - Col vero e sincero pentimento, col pentimento che nasce più dal dolore di avere offeso Iddio e di aver recato danno al prossimo, che dal desiderio di sfuggire una punizione eterna, meritata dai peccati. - Io lo provo, questo pentimento, perché ho vergogna di quel che ho fatto, perché soffrirei mille pene, pure di cancellare la mia vita. - Ma senti tu, insieme a questo pentimento, la forza di incominciare un'altra vita, onesta, tutta diversa da quella passata? - La sento, anima santa, e il miracolo non l'hanno operato i miei vecchi con le loro aspre parole, non l'hanno operato le altre anime di morti con le loro maledizioni, ma l'hai operato tu, con la tua dolcezza. Nel vedermi guardare a quel modo dai nostri angioletti ho conosciuto la mia abiezione, ho avuto vergogna e ho sentito che cos'è rimorso e pentimento. In quell'istante ser Cione vide una striscia luminosa solcare lo spazio, e pochi secondi dopo udì due vocine dolci, due vocine care che cantavano: - Osanna! Iddio è grande e misericordioso verso i peccatori pentiti! - Senti, - disse il fantasma della moglie di ser Cione, - sono i nostri figli che tornano dal Cielo e ti portano la grazia; cerca di meritarla. Il solo vivente in quel consesso di morti, cadde in ginocchio, e le sue labbra mormorarono le preghiere imparate da bambino, mentre il suo cuore si dischiuse alla speranza. I due angioletti gli posarono le manine sulla testa, accarezzarono il volto paterno e volarono su nell'etere cantando: - Osanna! Osanna! L'alba incominciava a imbiancare il cielo, e i defunti di ser Cione sparirono a uno a uno, gridandogli: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! La moglie lo lasciò, invece, dicendogli: - Persevera nel pentimento, lavora per meritarti il Cielo, e allora saremo uniti, uniti per sempre. Il sole, nel levarsi, trovò ser Cione allo stesso posto nel quale lo avevano lasciato i suoi morti, con le mani congiunte e l'occhio rivolto al cielo, dove aveva veduto salire i suoi angioletti. - Che sia stato un sogno? - esclamò egli; ma subito dopo aggiunse: - Anche se così fosse, che bel sogno! Salì a Poppi, e invece di andare a casa sua e mettersi a schernire i devoti dalla porta dell'osteria, entrò nella chiesa di San Fedele, s'inginocchiò in un angolo e si mise a pregare come ogni buon cristiano. Dopo aver lungamente pregato, specialmente per i suoi morti, andò in sagrestia e pose nella mano di un frate tutti i soldi che aveva in tasca, dicendo: - Dite tante messe per le anime dei miei poveri defunti! Il frate, che lo conosceva per un malandrino, sgranò tanto d'occhi, e tutti quelli che lo videro in chiesa, andarono a sparger la voce che ser Cione s'era ravveduto, che ser Cione voleva diventar santo. Quel giorno egli non aprì l'osteria e non l'aprì mai più. Dava ai poveri larghe elemosine, pregava, faceva dir messe per i suoi morti ed evitava d'incontrare i suoi antichi compagni di vita peccaminosa. Se però li vedeva, diceva loro: - Fratelli, ravvedetevi! Le soddisfazioni terrene sono fugaci, le punizioni sono eterne! A Poppi tutti erano edificati di quel cambiamento repentino, e le persone buone e pie, che prima egli aveva offese, ora si avvicinavano a lui e lo esortavano a perseverare nella via del pentimento, nella via che conduce alla salvezza. Ma tutte queste esortazioni non sarebbero bastate, se, durante la notte, non fossero scesi al capezzale dell'uomo solo, privo di famiglia, i suoi due angioletti bianchi, e non gli avessero fatto sulla fronte una lieve e dolce carezza. Così pregando, facendo elemosine e lavorando faticosamente per alleviare le fatiche di quelli che erano deboli o vecchi, ser Cione visse un anno ancora, e la notte dei Morti spirò dolcemente, sentendosi accarezzare la fronte dai suoi due angioletti; spirò da buon cristiano, e le benedizioni di quelli che aveva beneficati lo accompagnarono fin alla tomba e financo al di là, perché molti cuori sono riconoscenti anche dopo che il beneficio è cessato. Si dice che l'anima di ser Cione, che sconta ancora in Purgatorio una parte dei peccati che non ha potuto scontare in vita, torni, nella notte dei Morti, a esortare i peccatori di Poppi a ravvedersi e li attenda per le vie. Almeno così dicono molti che si sono pentiti e che da quell'anima hanno saputo la storia della vita di ser Cione e della sua morte, che altrimenti sarebbe da lunghi e lunghi anni dimenticata. - E qui, figliuoli, la novella è finita, - disse la Regina. - Quest'altra domenica ve ne racconterò una più lieta, più gaia, che vi farà ridere e non vi farà sognare i morti e le anime del Purgatorio. - Come la intitolerete, nonna? - domandò l'Annina. - Non te lo voglio dire; lo saprai domenica. - E domenica sapremo anche quando si faranno le nozze, perché fra otto giorni la tua matrigna sarà guarita, - aggiunse la bambinetta rivolgendosi a Vezzosa. - E domenica, - disse la Carola, - faremo anche i regali alla nostra cara sposina. Non son doni ricchi, ma glieli faremo col cuore. Noi donne specialmente non abbiamo altro che quei pochi soldi che si ricavano vendendo le uova, i polli e i piccioni, e possiamo spender poco; ma quei regalucci le mostreranno che le si vuol bene e che si accetta volentieri in casa nostra. La massaia, come al solito, aveva parlato a nome di tutte le cognate. Cecco era così commosso da quelle buone parole, che uscì e si mise a fischiare per non far vedere i lucciconi; la Vezzosa si era stretta un bambino al petto e lo baciava, tanto per isfogare il suo bisogno d'espansione, e la Regina piangeva. - E che son cotesti lacrimoni! - esclamò Maso. - Mamma, bisogna ridere e non far codesta faccia da funerale. - Quando siam vecchi, - rispose la Regina, - ci si commuove e si piange facilmente. Ma vedrete che saprò ridere il giorno delle nozze, e voglio fare anch'io due sgambetti quando gli altri balleranno. - Così va bene! - esclamò Maso. - Gente allegra, Iddio l'aiuta! Uscirono tutti, meno che le donne, per riaccompagnare le ragazze che erano state a veglia, e s'imbatterono nel padre di Vezzosa, che veniva di corsa a chiamarla. - Che è stato? - gli domandò la figlia. - Vieni presto, devo correre dal medico, la Maria delira, si vuol levare dal letto e le tre ragazze non son buone a trattenerla. Vezzosa disse appena buona notte a tutti e corse via. Cecco la seguì a distanza insieme con gli altri. E quando tutte le ragazze che erano state a veglia furono riaccompagnate a casa, egli, invece di tornare insieme con i fratelli al podere di Farneta, se ne andò mogio mogio a casa di Vezzosa. Ma per non disturbarla bussando, poiché la porta era chiusa, si sedé sopra un muricciuolo aspettando che qualcuno comparisse alla finestra o sull'uscio; e con l'occhio fisso sulla casetta bianca, che pareva un masso di neve illuminata in pieno dalla luna, si mise a pensare all'avvenire. Egli si struggeva non potendo aiutare Vezzosa nelle sue faccende, e non vedeva il momento di essere unito a lei per sempre e di dividerne le gioie e i dolori. A un tratto, senza riflettere, si mise a cantare una canzone del paese. Sentiva il bisogno di dire a Vezzosa che le era vicino e che vegliava anche lui. Dopo poco che aveva incominciato a cantare, sentì aprir l'uscio della cucina, e nel vano vide comparire la bella ragazza. Cecco corse a lei con uno slancio, come se non l'avesse veduta da un anno. - Grazie, - gli diss'ella, - di esser rimasto vicino a me. Cecco mio, la mia matrigna lotta davvero con la morte. In questo momento svaniscono in me tutti i risentimenti, e mi pento e mi dolgo di non essere stata più buona con lei in passato. Cecco strinse le mani della sua fidanzata, quasi volesse ringraziarla di esser così buona. In quel momento si udì un rumore di sonagli sulla via maestra, e di lì a poco comparve il calesse del dottore. Momo era stato a chiamarlo sull'imbrunire, e il dottore, scendendo, si scusava di non esser potuto venir prima. Cecco entrò in casa dietro al medico, e fu lieto di perder la nottata per potere ammirare la diligenza e l'affetto di cui dava prova la sua Vezzosa nell'assistere la matrigna.

Stanco, spossato, il conte Selvatico cavalcò fino a Pratovecchio, e la Contessa, nel vederlo così abbattuto e coperto di sudore, ebbe paura che fosse stato colpito da qualche malore e fece avvertire messer Cosimo, il medico sapiente che soleva curarlo. Il vecchio, dopo aver tastato il polso al Conte, gli ordinò di porsi a letto, di sudare e di prendere certi decotti di erbe da lui preparati, che soleva amministrare contro le febbri maligne. Manentessa non si staccò più dal letto del suo signore, assistendolo amorevolmente; ma appena giunse la notte, ella udì la voce cavernosa che partiva dall'armatura, ripetere, allo scoccar di ogni ora: - Conte Selvatico, il mio corpo è ancora in parte insepolto e tu mi hai imposto l'incresciosa compagnia della testa e della mano di un ghibellino ribaldo! Il suono di quella voce faceva dare in ismanie l'infermo, il quale, piangendo, descriveva le angosce patite sul piano di Campaldino e si raccomandava al Sire di Narbona perché lo liberasse da quella persecuzione. - Abbi pietà dello stato mio ed io m'impietosirò delle tue sofferenze, - rispondeva l'ombra implacabile. La malattia del signor di Pratovecchio durò due settimane, e in quel tempo la Contessa apprese dalla bocca di lui, assalito dal delirio, tutto ciò che gli era accaduto. La gentil dama non sapeva a chi ricorrere per aver consiglio. C'era peraltro, su a Camaldoli, un frate che non poteva alzarsi mai dal suo strapunto, e perfino in chiesa lo portavano a braccia su quello. Egli non apriva mai gli occhi, ma in compenso parlava senza chetarsi un minuto solo. Si diceva che fra' Celestino avesse continue visioni, e comunicasse direttamente coi santi, onde a lui ricorreva tutto il contado e anche persone di alto lignaggio. A lui pensò di andar Manentessa, e fattasi preparare una mula e buona scorta, cavalcò un dì fino all'Eremo. La contessa di Pratovecchio fece come i monaci le avevan detto di fare, e, appoggiate le palme su quelle del frate, gli domandò: - Sapresti tu suggerirmi un rimedio per liberare il signor mio dalla persecuzione del Sire di Narbona? Egli fu ucciso a Campaldino e il suo cadavere rimase insepolto; il conte Selvatico lo ha cercato e gli ha dato sepoltura; ma siccome le membra erano disgregate fra di loro, egli ha fatto una confusione, e nella fossa di Amerigo di Narbona vi sono membra che al suo corpo non appartennero. L'ombra si è posta accanto al marito mio e non gli concede tregua né dì né notte se non rinviene tutte le ossa sue, che ancora rimangono esposte alla pioggia e al sereno. E il Conte, per questa persecuzione dell'ombra, si è ammalato e non ha requie. - Se vuoi salvare il tuo signore, - rispose di lì a poco il fraticello, - devi prendere il cero pasquale che è nella cappella del tuo castello, e recarti con quello, a mezzanotte, sul pian di Campaldino, nel luogo ov'è la tomba di Amerigo. Quella tomba tu la riscaverai con le tue mani e colerai, sulle ossa che vi son dentro, della cera. Se la cera si raffredda, puoi esser certa che le ossa appartengono al pio cavaliere, devoto della Santa Vergine; se invece si liquefà, è segno che sono le ossa di qualche dannato. Lo stesso farai con le ossa che giacciono insepolte là intorno; e quando avrai ricomposto tutto lo scheletro, il Conte riacquisterà salute. Amen. Manentessa lasciò larghi donativi all'Eremo e cavalcò fino a Pratovecchio, ove trovò il marito in uno stato tale da farne supporre prossima la fine. La coraggiosa donna cercò di calmarlo, e quando fu vicina la mezzanotte, vincendo la ripugnanza e la paura, uscì sola da una porticina del suo castello, col cero in mano, pregando, e si diresse verso il campo di battaglia. Dalla croce rozza piantatavi da Selvatico ella riconobbe la fossa del Sire francese, e con le sue dita delicate si die' a scavarla. Appena le ossa furono allo scoperto, fece la prova della cera e si accòrse infatti che la testa e la mano sinistra non appartenevano allo scheletro di Amerigo. Allora ella, tremante e smarrita, si diede a versar la cera sulle ossa sparse, e, dopo lungo cercare e dopo lunghe prove, ricompose lo scheletro; poi, fatta una croce delle braccia del morto, disse: - Ombra vagante, riposa in pace e non turbare più il sonno del signor mio! Durante le ricerche e le prove, la contessa di Pratovecchio aveva consumato tutto il cero pasquale, ed ella doveva tornare al suo palazzo al buio. Era una notte burrascosa, e fitte nuvole correvano da mezzogiorno a tramontana; il vento scrosciava fra il fogliame dei pioppi, che contornavano il campo cosparso di ossami. Manentessa si raccomandava l'anima a Dio e raddoppiava il passo per giungere presto al capezzale dell'infermo marito; ma prima che ella ponesse il piede sulla via maestra, si vide circondata da uno stuolo di ombre, tutte avvolte nei bianchi lenzuoli, le quali alzando verso di lei le palme, spoglie di carne, supplicavano: - Donna pietosa, com'hai dato sepoltura alle ossa di Amerigo, dalla pure a noi e salvaci da questo errare continuo in terra! Manentessa, salvaci! Ella si fece più volte il segno della croce, ma quelle non essendo ombre di dannati, non sparivano, e lo stuolo si faceva sempre più numeroso. Pareva che uscissero dalle viscere della terra, dal fondo dei fossi, dall'erba, dalle siepi, e la donna si sentiva afferrare per le braccia, di modo che il passo le era quasi impedito. - Lasciatemi, anime sante, - diceva ella, - il mio signore mi attende e io debbo andare a consolarlo! - Una promessa, facci una promessa! - gridavano le ombre con le voci fioche. - Ebbene, vi prometto di dar sepoltura a quanti scheletri io troverò. - Bada, Manentessa, di rammentarti di queste parole, - dissero le ombre. E lasciato libero il passo alla dama, tornarono a vagare nell'ampia pianura. Più morta che viva ella tornò al suo castello, ma appena fu penetrata nella camera dell'infermo marito, si sentì il cuore sollevato. Il conte Selvatico riposava col capo abbandonato sui guanciali, e nessuna visione incresciosa ne turbava il sonno. Allorché egli aperse gli occhi, la mattina seguente, domandò alla moglie: - Come mai, madonna, l'ombra del Sire francese mi ha dato tregua? - Gli è, signor mio, - replicò Manentessa, - che il suo corpo riposa in pace, ed io per amor tuo feci atto di cui non mi credevo capace. E costì ella raccontò al conte Selvatico come aveva fatto a rinvenire le ossa del Sire di Narbona. Peraltro ella non palesò al marito l'incontro con le altre ombre, e la promessa che le avevano strappata ma che non poteva mantenere, perché non c'erano più ceri pasquali nella cappella del castello. Furono fatte grandi feste per la guarigione del signore di Pratovecchio, ma intanto che Selvatico riacquistava la forza e la baldanza, la Contessa si faceva bianca come un giglio e si struggeva ogni giorno più. Questo dipendeva dalle angosce che pativa ogni notte, quant'era lunga, poiché appena ella si riduceva nella sua camera, lo stuolo delle ombre incontrate sul limitare del pian di Campaldino, le si faceva d'attorno, e con minacce e con preghiere le rammentava la promessa. - Non vi sono più ceri pasquali e non posso tentare la prova, - rispondeva. - Non importa, sotterraci, sotterraci! - gridavano le ombre. E la trascinavano a forza fuori della sua camera e del suo castello fino al pian di Campaldino, dove la costringevano a prender la terra e a coprirne i monti d'ossami. Quel lavoro durava più ore di seguito, e all'alba la povera perseguitata si riduceva mezza morta nel suo palazzo, dove celava a tutti le angosce della notte. Una febbre continua la limava, ma le ombre implacabili ogni notte la costringevano al duro lavoro, e in breve i mucchi d'ossami non furono più esposti al sole e al sereno, ed ella ebbe un po' di tregua. Ma allora ricominciarono le tribolazioni del signore di Pratovecchio. Una notte, mentre egli dormiva placidamente, sentì la voce del Sire di Narbona, la voce tremenda che lo aveva così a lungo turbato, che diceva: - Le mie ossa sono di nuovo sopra la terra; io non ti lascerò requie finché non le avrai riunite tutte in un sepolcreto. I predoni scavarono la fossa e rubarono il cerchio d'argento che portavo al polso destro; ricuperalo. Il conte Selvatico aprì gli occhi e vide a fianco del letto la solita ombra. Allora, rivoltosi a lei, così disse: - All'alba monterò a cavallo con i miei uomini e batterò i boschi per iscoprire i predoni e ricuperare il tuo anello. Ma facciamo un patto; lasciami otto giorni di tregua. - Accetto, - disse l'ombra, - fra otto giorni soltanto mi rivedrai, - e sparì. Il Conte si armò di tutto punto e partì infatti all'alba per i boschi di Prataglia, dove sapeva si annidavano i predoni, che facevano scorrerìe nel contado. Era seguìto da un forte drappello di gente, parte a piedi parte a cavallo. La Contessa lo accompagnava con le sue preghiere, ma era afflitta, molto afflitta di vederlo partire per una spedizione così pericolosa. Dopo lungo cavalcare per monti e per boschi, giunse il signor di Pratovecchio a un casolare basso e affumicato. In sulla porta vi erano alcuni uomini che, al vederlo, si barricarono nella capanna, e dalle finestrine incominciarono a scoccar dardi contro di lui e contro i suoi. - Arrendetevi! - gridò il Conte, che intanto aveva fatto circondar la capanna da ogni lato. Gli altri risposero con una pioggia di sassi. - Appiccate il fuoco! - ordinò il Conte. In un momento furono radunate molte fascine ai quattro angoli del casolare, e le fiamme in breve ne lambivano le mura. I predoni, vedendo che non restava loro più scampo, salirono dal camino sul tetto, e continuarono a lanciare dardi e tegole. Il conte di Pratovecchio abbatté la porta con l'asta, e quindi, precipitatosi in mezzo alle fiamme, si diede a cercare. Vi erano ammassate in quella stamberga spade, misericordie, elmetti, contesti d'oro, cinture di prezioso metallo, ma il Conte non si curava di tutti quei tesori. Cercava il cerchio d'argento del Sire di Narbona, che trovò ancora infilato all'osso attorno al quale era stato ribadito, e appena l'ebbe intascato uscì da quella voragine. Di lì a poco il tetto crollò con gran rumore, e i predoni caddero nelle fiamme trovandovi la morte. Allorché l'incendio fu spento, gli uomini del conte Selvatico rinvennero fra le ceneri gran copia di argento e di oro fusi, e molte pietre preziose. Essi caricarono tutto sopra una mula e cavalcarono verso Pratovecchio. Due giorni dopo il Conte e la Contessa si recarono in processione al pian di Campaldino, e quivi riuniti in una cassa di quercia i resti mortali del Sire di Narbona li deposero nella cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista. Con l'oro e l'argento tolto ai predoni essi fecero scolpire a Firenze, da Giotto istesso, un mausoleo di marmo con l'effigie del Sire di Narbona, vestito della armatura e posto a giacere sulla cassa. Da quel tempo l'ombra del cavaliere non funestò più i sonni del conte di Pratovecchio, ma è certo che la pia Manentessa non riuscì con le sue mani a coprir di terra le ossa di tutti i morti di Campaldino, perché ancora si dice che chi viene a passar di notte in prossimità del campo, vede delle ombre avvolte in lenzuoli bianchi. Per anni e anni l'aratro non è mai passato su quei campi, che bevvero il sangue de' guelfi di Firenze e de' ghibellini di Casentino, ma ora che il piano è di nuovo coltivato, ogni tanto si trovano mucchi d'ossa bianche, sulle quali la contessa di Pratovecchio aveva sparso la terra. E qui la novella è finita. - Voi, babbo, - domandò l'Annina, rivolta a Maso, - voi che passate dal pian di Campaldino anche di notte, per andare alla fiera di Pratovecchio o di Stia, l'avete viste le ombre? - Io no; ho visto bensì qualche volta delle ombre nere sul terreno, ma eran le ombre dei pioppi. L'Annina tempestò di domande tutti gli zii a uno a uno, ma da tutti ebbe la medesima risposta. Ombre non ne avevan vedute. Cecco poi l'assicurò che i morti non tornano. - Ma io non ci passerei davvero, di notte, da Campaldino, - disse l'Annina, dopo che Cecco si fu sgolato a dimostrarle che le ombre non si vedevano. - Domani sera, - disse la Regina, - vi racconterò una novella più allegra. - Come si chiama? - domandarono i bimbi. - La Novella del frate zoppo; - rispose ella, - ora andate a letto e dormite in pace, come in pace riposa il Sire di Narbona.

FIABE E LEGGENDE

679298
Praga, Emilio 1 occorrenze

Qual per te, vecchio curvo come un tronco abbattuto? L'ora che solo, attonito, coi mendichi caduto, come in sogno fra i passi dei cittadini errante, il primo obol sentisti nella mano tremante. E per te, è questa, o Steno!

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679337
Praga, Emilio 4 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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... polso abbattuto? Mignatte! ... Oppressione di capo? Mignatte! .... Delirio, agitazione nervosa? Un salasso! Salassi e mignatte, ecco il sistema del dottor Caniveri .... un uomo che stimo, del resto. Se si lasciasse fare a me .... lo do sano in due giorni, solo lasciandolo in calma. S'interruppe, pensò, poi avvicinatosi a Baccio gli disse all'orecchio una parola. E soggiunse: - Che te ne pare? - Magnifica idea! - Quello è l'uomo che ci vuole: vado da lui; e al diavolo il signor Caniveri. Verso le sei di sera, Baccio partì, tutto orgoglioso del bastone col corno di camoscio, ch'io gli avevo prestato di gran cuore, sapendo di fargli un segnalato piacere. Bazzetta crollava il capo vedendolo allontanarsi e fu con voce dispettosa che mi disse: Io resterò fino a mezzanotte, e ritornerò sul far del giorno. Intanto voi cercate di divagarvi, chè davvero, per essere la prima vi è toccata una giornataccia. Poi, avvicinatosi, mi prese per un braccio e ammiccando gli occhi soggiunse: - C'è in casa un vinettinino impagabile. Non fate complimenti; ne troverete nell'armadio, in cucina. E salì alla camera del curato. Io feci un giro pel villaggio. Gruppi di montanari e di villanelle, seduti davanti alle porte delle capanne, s'indugiavano a respirar l'aria balsamica della sera. Da qualche finestra debolmente illuminata uscivano le nenie del rosario, interrotte dal chiocciare delle galline che sbucavano d'ogni parte dalle siepi degli orti, per ricoverarsi al pollaio. Passando davanti alla fontana, pensai: Chi sa se questa notte non succederà l'inondazione. E mi pareva di veder Baccio colla sua famosa calza in mano. Un vero attruppamento di ragazzi stava immobile, cogli occhi spalancati, come davanti a qualche cosa di straordinario, in faccia alla porta di una casupola le cui finestre, a differenza di tutte le altre, erano spalancate. Chiesi a un d'essi che cosa attirasse la loro attenzione, ma il ragazzotto, per tutta risposta se la diede a gambe, seguito dall'intiera falange. Mi inoltrai dissotto all'androne; non so perchè, quella casa aveva qualcosa di strano da cui mi sentivo attirato. Nel cortile non c'era nessuno; sulla loggia che lo incoronava erano distese materasse e lenzuola in gran numero; un cagnolino guaiva presso una porta semichiusa. - Abbruciate altro aceto, mamma Lena! ouf! si direbbe che è morta da una settimana! E una vecchia, curva come un tronco abbattuto, attraversò il cortile con una lanterna in mano e miagolò: - Vengo, Lisa! e voi andate là da quel poveretto che a furia di piangere finirà per perdere gli occhi. Era la casa della povera Gina. Due ragazzetti, i suoi orfani, vennero a sedersi accanto al cane, con una enorme scodella di latte e pan giallo, ridendo e giocando, fra l'una e l'altra boccata. Ma il cane di tanto in tanto ripeteva i guaiti. Partii da quel luogo, quasi col rimorso di averlo profanato colla mia indiscreta curiosità, e me ne ritornai al presbiterio, ripensando al sogno della notte e alla quantità e alla universalità degli umani dolori. Le campane dell'Ave Maria squillavano malinconicamente; in assenza di Baccio si era andato a cercare il suo sostituto, un vecchio piccino, pellagroso, e che zoppicava. Nell'alternarsi incerto degli squilli si sentiva qualche cosa del suo incesso. Entrai nella cucina, non illuminata che dalla fioca luce del crepuscolo: il fuoco era semispento. Un grosso moscone volava su e giù, ronzando affannosamente e dando ad ogni tratto del capo nelle casseruole appese ai muri. Non vedevo nessuno. - Il curato dorme ed io bevo. Venite a farmi compagnia. Era lo speziale, accovacciato e sepolto nell'ombra sotto la cappa immensa del camino. Mi avvidi subito ch'egli si era rifatto, colla bottiglia, delle noie e delle fatiche della giornata. I suoi occhietti brillavano nel buio come due carbonchi. Gli sedetti dirimpetto, e, sorseggiando quel vinettinino davvero squisito, si cominciò a chiacchierare. Il lettore si imagina di leggieri quali dovettero essere e come insistenti le mie domande. Avevo giurato a me stesso di non chiudere occhio se non avessi prima saputo qualche cosa intorno a quel sindaco misterioso che mi appariva il perno, il movente del dramma, del cui svolgimento il caso mi faceva spettatore. Il Bazzetta sulle prime fu restìo come un mulo. Sapeva di grandi cose (ci teneva a convincermene) ma prudenza gli suggeriva di tenerle per sè. Pochi erano al fatto di così gravi affari: nessuno forse, dopo il curato ed il sindaco, li conosceva a fondo come lui: responsabilità quindi maggiore, obbligo più formale di rinchiudersi nel silenzio. Queste mezze rivelazioni, queste reticenze non facevano naturalmente che accrescere a dismisura la mia curiosità. Misi a contribuzione tutta la mia eloquenza, e pregai e insistetti tanto che, quando Dio pur volle, non senza l'aiuto del vino ripetutamente versato, il dabbene speziale, si decise a snocciolarmi tutta una storia. - La Mansueta, disse, quasi per scusar sè stesso, l'ho mandata a dormire, chè guai dubitasse soltanto che mi permetto di narrarvi le disgrazie che sentirete, e di cui è, poveretta, la causa senza volerlo. Se narro a voi, proprio perchè siete voi, è perchè penso che, alla fin delle fini, fra pochi giorni sarete lontano le cento miglia, e della mia storia non vi ricorderete più nemmeno il principio. Accendo la pipa, scusatemi, e poi mi starete a sentire. Ciò che udii quella sera, nel silenzio opaco e tristo di quella cucina, vorrei potere e saper ripetere colla rozza ed efficace semplicità con cui narrava il dabbene speziale; ma dovrei accennare le interruzioni, citare le osservazioni, ch'egli vi intercalava, senza di che l'effetto sarebbe mancato e il racconto non farebbe che diventar più prolisso. Preferisco quindi riassumere alla meglio e raccontarvi con parole mie:

Egli era tanto avvilito e tanto abbattuto che non durarono fatica a indurlo a scendere dopo il desinare col dottore a Zugliano. L'infelice baciò le sue creature senza far parola, senza spargere una lagrima e s' avviò barcollando come trasognato dietro alla mula del dottore. Lo accompagnammo sino in fondo al villaggio; poi il curato tornò indietro; io continuai la mia passeggiata.

Don Luigi non aveva potuto rispondere altrimenti che con un cenno affermativo del capo: era tanto abbattuto che Attilio non aveva creduto di insistere. Egli mi disse: - Capirai che probabilmente sarò costretto ad assumere un suo formale interrogatorio. Ti ripeto che lo credo innocente, - ma intanto è necessario che ciò si chiarisca nella procedura. L'impreveduta confidenza mi aveva tanto sbalordito che non potei profferire parola. Seguii come trasognato il mio amico fino alla stalla dell'inserviente, dove avevano condotti i cavalli. Quivi sopraggiunse poco dopo il signor De Emma. Ci prese in disparte e disse ad Attilio: - Signor avvocato, don Luigi si è candidamente accusato e non ha pensato a difendersi. Egli le ha detto la verità ma non tutta la verità. Le sue confessioni possono far sospettare di lui; ma io le posso assicurare che il dabben uomo non ebbe mai verso il De Boni l'ombra di una colpa. La scongiuro a mani giunte di non tenerne conto: un atto di procedura fondato sovra esse non gioverebbe alla giustizia ma ucciderebbe senza riparo la riputazione e forse anco la vita di un innocente. Attilio esitava a rispondere. Il dottore soggiunse: - Il suo amico le può dire che fior di galantuomo sia don Luigi. - Però v'è contro di lui un indizio grave, - osservò Attilio. - risulterebbe che egli abbia imposto il peso di un suo figlio naturale al signor De Boni .... si può indurre che egli aveva interesse a temerne e ad evitarne le rivelazioni .... - Ma egli non ha imposto nulla, non sapeva nulla. Senta. Lei, tornando passerà da Zugliano; favorisca in casa mia; mi lusingo di riuscire a convincerla. E rivolto a me: - Venite anche voi; potrete confermare buona parte del mio racconto. - E don Luigi? - osservai riconciliato interamente col dottore. Sarà meglio lasciarlo tranquillo. Inoltre bisogna bene che ci occupiamo senza indugio del povero Beppe. Andai con lui al presbiterio a congedarmi. Don Luigi non cercò di trattenermi: prese la la mano ch'io gli porsi rispettosamente, mi tirò a sè, mi abbracciò con effusione senza far motto. Il segretario fu tanto buono da cedermi la sua cavalcatura e partimmo col dottore. Allo svolto dove la strada passa ancora sotto Sulzena prima di seguir la vallata mi volsi e diedi un'ultima volta uno sguardo di tenerezza al presbiterio che stendeva modestamente al sole cadente i suoi muri bianchi e le ultime foglie rosse del suo pergolato. Dal muricciuolo dell'orto la Mansueta mi salutava scuotendo il suo grembiale con ambe le mani. Nella confusione della partenza m'ero dimenticato di lei. Eppure dopo tanti anni ho ancora vivissima in me la sua immagine! Povera vecchia, santa donna: quanto mi sono rimproverato di non essere tornato indietro a stringer la sua mano aggrinzita dal lavoro! Allora non credevo di non averla a riveder più. Addio! con un cenno di mano si piglia commiato per tutta l'eternità! Si faceva tardi; mettemmo i cavalli al galoppo. A qualche miglia da Sulzena passammo innanzi ai carabinieri che menavano il Beppe. Lo chiamai per nome. Non intese. Camminava colle braccia ammanettate in croce sul petto, colla testa china, col fare stralunato di un uomo che ha l'animo fuori di questo mondo.

Certe mattine all'alba mentre uscivo per le mie corse montanine lo incontravo che rientrava: aveva passata la notte al capezzale di un infermo; era stanco, afflitto ma non abbattuto: mi dava il buon dì con un sorriso ed entrava in chiesa ad offrire davanti al suo tabernacolo i voti della povera creatura di cui aveva nella veglia penosa assistito i patimenti. In quei momenti sentivo tutta la sua superiorità, tanto più grande quanto più inconscia. Quando don Luigi veniva alla Cascata, era un amico, un ingenuo compagno che conosceva molto meno di me le cose e le vie del mondo. Una cosa mi meravigliava: Don Luigi non parlava mai di sè. Se, discorrendo, mi appellavo alla sua esperienza e gli dicevo: «voi sapete questo e quest'altro» non diceva nè sì nè no; qualche volta impensieriva come se una subitanea rimembranza lo assalisse. E la tristezza, ogni giorno crescendo, gli oscurava lo sguardo. Un giorno, mentre all'ora consueta, noi due eravamo alla Cascata, capitò il dottore De Emma. Era stato a casa, non ci aveva trovati ed era venuto a raggiungerci. Sedette sotto i noci e fe' da terzo nella nostra solita conversazione. Il discorso cadde sul Renato di Chateaubriand, lugubre protesta del dubbio uscita dall'anima di un credente. - Strano enigma! sclamò il curato. - Enigma sì, io dissi, e mostruoso, ma punto strano. - Come? domandò Don Luigi. - Queste buie disfatte della ragione e della coscienza sono frequenti nella vita. - Il pittore ha ragione, disse il signor De Emma; le passioni buone o cattive sono lievito originale della nostra natura. Dopo una lunga incubazione erompono come il vaiolo, irresistibili, spesso micidiali, talvolta provvidamente salutari. Don Luigi parve colpito da queste parole, diè una strana occhiata al dottore e domandò: - Credete? - Si, colla differenza che il vaiolo si può prevenirlo col vaccino, mentre per quell'altro male ..... - Non vi sono preservativi? ed aggiunse dimessamente: ma e la virtù e il dovere, e .... - Sono freni, - resistono, ma si spezzano. Ci vorrebbe uno sfogo anticipato, una specie di vaccino morale; una cura previdente di affetti che stornassero in tempo le forze germinanti del male. Ma quale? come indovinarle prima di conoscere il male? Difficilmente si può e si sa fare. Spesso le condizioni, le ripugnanze sociali vi si oppongono. E il più delle volte è impossibile lo scandagliare in fondo alle indoli talvolta diversissime nella sostanza dalle loro superficiali apparenze: ne ho viste talune disformarsi nella crisi subitamente, rivelare tendenze di cui non si sarebbe mai sospettato l'esistenza. E ne ho viste dell'altre trasfigurarsi; e giusto non dimenticherò mai uno stranissimo fatto accaduto a Sorese in Brianza dove la mia famiglia possedeva molti anni sono vasti poderi ed io mi recavo con essa a passare i mesi delle vacanze. Una delle bellezze o rarità, come dicono i ciceroni, di quel villaggio era Tonio, un povero cretino di dieciotto anni, sciancato, losco, peloso, due terzi meno che scimmia, un terzo meno che uomo, serio come un gendarme, ingenuo come una pulzellona, orfano, nudrito, o quasi, a spese del Comune, errante a saltelloni su e giù per le strade, sdraiato in gennaio nella neve, accocolato di pien meriggio sotto il sollione di luglio, creatura incapace ed inoffensiva che rispondeva con un sorriso ed un mugolio a chi gli gettava il soldo o il tozzo di pane. Ora, era avvenuto cotesto, che, trovandosi fornita per bene la cassetta delle elemosine, il dabbene parroco dì quel villaggio, aveva deciso, previo consenso degli onorevoli fabbricieri, di commettere a un pittore di città, una nuova Madonna, ad olio, s'intende, e di grandezza naturale, da collocare al posto di quella vecchia e sdruscita che faceva torto all'altar maggiore, e, a detta di chi se ne intendeva di arti belle «era ormai una Madonna che non valeva più un fico». Quale solennità non fu quella dello insediamento della nuova Madonna! Ad ogni svolto di via, archi trionfali costrutti di paglia intrecciata e di mortella, festoni dall'una all'altra grondaia, tappeti, lenzuola, coperte da letto ad ogni finestra; altarini posticci, irti di moccoli smilzi smilzi e di imagini di santi ancora più smilzi; baracche di merciaiuoli, chicche, aranci, castagne, - per le circostanti praterie assiti e panche e tende d'ogni colore e d'ogni foggia con vendita di vino e di birra; e ciarlatani e spacciatori di zolfanelli e cantatori di bosinate, a suon di pifferi e di chitarre; - e forestieri a bizzeffe, e di quelli, veh! venuti le cento leghe da lontano; e il cortile dell'albergo pieno zeppo di carri e carrette e carrozze, - e fior di signori e signore dagli abiti di panno chiaro e dagli ombrellini di seta e, - ad ogni quarto d'ora, - una salva di mortaretti che faceva traballar tutto e tutti dall'un capo all'altro della borgata. Io vedo tuttociò come se mi fosse ancora presente davanti agli occhi; mi sento ancora pigiato da quella folla variopinta in cui si faceva largo di tratto in tratto, coll'autorità dell'abito e forse più con quella dei gomiti, qualche pievano in ritardo, già prelibante la lauta imbandizione del parroco; in cui si incrociavano in altrettanti saluti, congratulazioni, appuntamenti per la cena e pel ritorno, tutti i minuscoli dialetti della Brianza, da quelli asmatici di oltre Adda, e i secchi e spiccati del piano d'Erba, fino ai cadenzati e grassotti che cominciano verso la Camerlata e si spandono, con poche varianti, su tutto il territorio di Varese, per dar posto ad una lingua, quasi nuova di zecca, sulla sponda sinistra del Verbano. Tutta quella moltitudine era diventata d'un tratto immobile, tutto quel cicalio era cessato come per incanto, a un nuovo e più formidabile sparo di mortaretti e allo scoppio di una allegra fanfara che annunciava l'arrivo della processione e quello della nuova Madonna con essa. Come la cattolica Dea passava davanti a me ed io contemplava curiosamente quella figura dipinta dal pittore di città colla balda ingenuità di un Ottentotto, una mano sulle spalle mi scrollava e una voce ben nota mi distoglieva dal quadro. Era mio padre, che abbassandomisi all'orecchio e additando il centro del corteo mi diceva: - Guarda la faccia di Tonio! E infatti, Tonio era trasfigurato. Armeggiandosi tra la folla con una destrezza che nessuno gli aveva mai riconosciuto fino a quel giorno, gli occhi dilatati, intenti, assorti nella faccia della Madonna, egli andava avanti colla processione come se non toccasse coi piedi la terra, come se un nuovo spirito di vita agitasse il meccanismo del suo carcame, e l'idea, per la prima volta, avesse susurrato chi sa quali arcane sillabe all'animo suo. Le labbra del cretino erano agitate da un tremito convulso; pareva che dietro di esse una parola bussasse disperatamente perchè le venisse aperto! ... Io ricordo quella faccia, così che potrei, dopo tant'anni, riprodurla, se fossi pittore, colla fedeltà della fotografia. La moltitudine, tutta assorta nella imponenza dello spettacolo, non aveva badato alla trasformazione del povero scemo, e forse nemmeno la sua profana presenza in mezzo a quel lusso di stole, di cappe magne, di tricorni, di fiaccole e di stendardi incedenti nella mistica nube dell'incenso e al suono cadenzato delle liturgie. Ma il segrestano, una vecchia volpe bigotta, quando il meraviglioso quadro ebbe passata la soglia della chiesa parrocchiale, vi si piantò diritto davanti coll'asta dell'elemosina adagiata orizzontalmente sull'epa, e, a nome delle autorità civili ed ecclesiastiche, intimò a tutto quel formicaio di popolo che non si facesse un passo più in là; nel tempio non c'era posto che per gli invitati; se volevano veder la madonna a suo luogo, venissero l'indomani; ordine esplicito delle autorità costituite, imbandito da quell'onorevole funzionario, or colle buone or colle brutte, a seconda del caso. Ma Tonio voleva seguire la Madonna; implorava collo sguardo e coi gesti e colle labbra balbuzienti chi sa quale parole di supplica disperata. Il segrestano lo mandò a rotoli con un ceffone, tra le risate del publico. Venuta la sera, tornati alle loro case tutti quei più o meno devoti visitatori, ridivenuto deserto e tranquillo il villaggio, coricatosi il curato contento e ben pasciuto, il segrestano aveva dato di chiavistello a tutte le porte e porticine della chiesa, ne aveva visitati tutti gli angoli, ed era a sua volta andato a dormire ben pasciuto e contento. Quale fu la sua meraviglia quando il mattino seguente, accendendo le candele per la prima messa, inciampò in un corpo disteso per terra, ai piedi della Madonna nuova, e riconobbe Tonio e constatò che era morto! Alla notizia del caso, divulgatasi nel paese in un batter d'occhio, una vecchia aveva giurato sull'anima sua di aver udito uscir dalle labbra del povero scemo, mentre egli seguiva in quel tal modo la processione - queste parole indirizzate alla Madonna: «Ti voglio ... bene!» Sarebbero state le sue prime ed ultime parole ... Don Luigi non si mostrò scandolezzato del racconto. Il dottore continuò: - Chi poteva prevedere le precauzioni di tenerezza che occorrevano a Tonio? e se si fossero potute prevedere? - chi avrebbe voluto accordargliele? Intanto la prima immagine di donna che, per esser dipinta, non stornò da lui, con ribrezzo, gli sguardi lo uccise. - Ora facciamo, dissi con nuovo coraggio, facciamo il caso opposto. - Sicuro, riprese il dottore, supponiamo un carattere nobile, elevato, un uomo superiore. Ebbene, può darsi che egli abbia un'intima inclinazione a delle sregolatezze strane. Ciò succede spesso: Rousseau ha detto che egli sentiva in sè, allo stato potenziale tutti gli istinti del più scellerato malfattore: moltissimi uomini, e dei migliori, potrebbero farvi la medesima confessione. Questi istinti non si avvertono che quando una causa morbosa sopravviene a suscitarli, cioè quando è troppo tardi per correggerli. Torniamo al nostro esempio, facciamo le migliori ipotesi, ammettiamo che quell'uomo superiore preveda il pericolo - ma sarà egli in caso di scansarlo? le funzioni, le convenienze, gli obblighi del suo stato, un insuperabile pudore gli lascieranno la libertà di scegliere i rimedi e di usarne in tempo? Qui sta il punto. Il dottore s'interruppe; e mi parve di leggere nei suoi sguardi il rincrescimento di aver detto troppo. Cambiò discorso: parlò di Beppe. Il povero uomo, a quanto gli scrivevano, aveva mostrata una grande docilicità, ma era tutt'altro che rassegnato. Si manteneva cupo, chiuso nella sua pena come al primo giorno: adempiva il compito della sua nuova condizione, ma con un fare distratto, collo stupore di chi non vi si è ancora dimesticato. Gli avevano proposto di fargli venire i figlioli, - egli ricusava sempre dicendo che sarebbe andato lui a cercarli. - «Quando sarò tranquillo» aggiungeva. Aspettavano dunque che egli fosse tranquillo. Ma quel giorno non pareva vicino. - Lo stato di quell'uomo m'inquieta, disse il curato, siete sicuro che i vostri parenti riescano a trattenerlo? - Lo spero, rispose il dottore. L'ho tanto loro raccomandato che faranno tutto il possibile. - E pensare, soggiunse, che noi ci diamo tante brighe per la sicurezza di quel cialtrone del De Boni. È vero che non si tratta solo di lui: se mai, una lezione gli starebbe bene. - Dio non voglia, sclamò don Luigi un po' sgomento. - Non ha forse permesso il peccato? Però quel disgraziato di Bebbe potrebbe perdersi: e, v'assicuro che questo sarebbe il solo mio rincrescimento. Noi eravamo frattanto tornati in paese e passavamo giusto in quella davanti alla casa del mandriano. Sulla unica finestra del piano superiore notai gli steli disseccati di un garofano che penzolavano dall'orlo di una terrina rotta; - ricordo ed immagine della felicità di un tempo. Annottava. Non so se fosse per i discorsi del dottore o per la mia naturale tendenza ad attribuire sentimenti e pensieri alle cose inanimate; mi parve di intravvedere nell'aspetto squallido di quella casa abbandonata, chiusa, silenziosa, qualcosa di simile ad una minaccia e involontariamente alzai gli occhi alla casa del sindaco che si disegnava nel fondo sopra un cielo di lucida opale. Qualche passo più in là il curato ci lasciò per la solita visita che egli soleva fare prima di cena ai malati del villaggio. Salutò il dottore che voleva ad ogni costo tornare a Zugliano ed entrò in una porta dove un vecchierello lo attendeva come il vicario visibile della provvidenza. Il signor De Emma mi accompagnò fino al Presbiterio, dove aveva lasciato la sua cavalcatura. Allo sbocco della piazzetta c'imbattemmo in un giovine che scendeva dai monti con una scure in ispalla: il quale, appena ci vide, chinò il capo e accelerò il passo come volesse schivare il nostro incontro. Il signor De Emma gli diè una voce, e lo costrinse suo malgrado a fermarsi. Allora, sotto le rustiche spoglie del boscaiuolo, ravvisai con grande sorpresa il mio amico Aminta, che, dal giorno di quel nostro colloquio alla Cascata, non avevo più riveduto. - Che significa codesta novità? domandò il dottore. - È il signor Angelo che mi manda ai Roveretti a spaccar legna, rispose con amarezza e chinando gli occhi vergognoso. - Ma perchè? ... - Mi sono arrischiato a dirgli che avrei preferito un'altra professione a quella ecclesiastica, - egli è saltato su tutte le furie, mi ha strappato la mia veste e mi ha detto che ero un villano, e che villano dovevo essere. Balbettava, tremando, e pareva fosse sulle spine. Il dottore non lo trattenne di più. Aminta ci salutò in fretta e s'allontanò di corsa. Il suo terrore non era senza motivo: s'era appena allontanato che sbucò dalla farmacia la sinistra figura del sindaco, e passandoci innanzi ci diè una breve occhiata di traverso. Il signor De Emma corrugò la fronte e mormorò: - poveretto, egli fa una dura penitenza! povera Rosilde se la lo vedesse! e non poterlo soccorrere! maledetto sistema di spiritualistiche ipocrisie! Poi, accortosi ch'io lo guardavo con curiosa ansietà di penetrare le sue parole, tacque e s'avviò a capo chino. A me rimordeva d'essere la causa di quella nova testina. E mi persuasi come, il più dei casi, i consigli sia ottima cosa tenerli per sè. Anche in agosto, la sera, in montagna, un buon fuoco è sempre una gradita compagnia. Intirizzito dalla brezza pungente che s'era levata al cadere del sole, mi recai in cucina. Mansueta seduta davanti ai tizzoni rimondava delle patate per la minestra e intanto teneva d'occhio la pentola che brontolava in mezzo al camino. Ella non mostrava la sollecitudine dell'altre volte; una delle sue bravure era quella di levare la peluria tutta intera e di farla cadere a terra a spire come la scoria di un serpentello: ma quella sera la rompeva ad ogni momento e i pezzetti saltavano nel piattello, - s'interrompeva spesso e si poneva la mano sugli occhi come per tergere qualcosa che le facesse velo alla vista. Finalmente in uno di questi intervalli la pentola levato il bollore traboccò sulle brace che crepitarono e stridettero annerandosi quasi dalla vergogna dell'inaudita trascuranza di Mansueta. La buona vecchia non resse a tanta mortificazione: l'afflizione che l'accorava irruppe. Mi contò piangendo che aveva visto il nipote. - Povero ragazzo, mi si spezza il cuore vederlo così maltrattato, lui tanto buono e sommesso! Mi provai di consolarla: le dissi che Aminta sarebbe presto liberato di quella schiavitù di cani. - E volevo accennare alla sua età e al coraggio che con essa avrebbe acquistato. La buona donna mi fraintese, e oltrepassando il significato delle mie parole mi disse con rustica franchezza: - Liberato, oh sì ci vorrà ben altro! Quell'orso ha il cuoio duro: è tomo da campar cent'anni. - Oh, soggiunsi ridendo dell'equivoco, oh! se appena gliene capita il destro, colui ci facesse la grazia di accopparsi .... l'occasione sarebbe sempre ottima per tutti di perderlo .... Ma in ogni caso vostro nipote non dovrà mica aspettare quel giorno per scuotere il giogo. - E giusto io avrei certi progetti in cui voglio sentire il parere di Don Luigi. - No, saltò su a dire la donna, no, la non gliene parli per carità, egli non può senz'accorarsi sentirne a parlare; gli vuol tanto bene che il solo pensiero delle sue sofferenze lo fa piangere. In questi giorni è già sempre tanto tristo che non ha bisogno di nuovi dispiaceri. La non gli dica nulla; ci penseremo poi al povero Aminta; ora, poichè la Madonna ce l'ha mandato, faccia di tener allegro il mio padrone, di distrarlo. La buona fantesca nella sua idolatria pel padrone sapeva far tacere anche la voce della sua tenerezza quasi materna per Aminta, l'unica creatura della sua famiglia che le restasse al mondo. Quando intesimo il passo del curato, ella si scosse, si assicurò di aver gli occhi ben asciutti, prese il suo solito fare lesto e volonteroso e per tutta quella sera io contemplai con ammirazione que' suoi occhi affaticati e quel suo volto scarno sorridere mentre avrebbe pianto tanto volentieri. Non scorderò mai quelle sue rughe venerande, in cui non dirò come il secentista, che vi s'appiattassero gli amori, ma traspariva tanta e così limpida devozione, una bontà schietta, animosa! .... E anche Don Luigi, benchè avesse tanti motivi di tristezza, più assai e più gravi di quel ch'io potessi allora immaginarmi, si faceva una gran forza e conversava e mi parlava di me, delle cose mie dimenticando, nella premura di intrattenermi piacevolmente, sè stesso e le sue pene: tutto ciò senza sforzo per una volontaria e spontanea delicatezza. Invece io, il solo senza fastidi (allora non ne avevo), io spensierato, pareva il più cruccioso di tutti. Ammiravo come ho sempre ammirato senza poterlo imitare, quell'eroismo umile di tutte le ore che piglia la vita come vien viene, come una battaglia e la combatte valorosamente ad oltranza.

La chiave a stella 1978

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Levi, Primo 1 occorrenze

Quando il traliccio è stato finito in tutti i suoi trenta metri, ingombrava tutto il piazzale, e era goffo e un po' ridicolo come tutte le cose che sono fatte per stare in piedi quando viceversa sono coricate: insomma faceva pena come un albero abbattuto, e ci siamo sbrigati a chiamare le autogru perché lo mettessero diritto. Ce ne volevano due, da tanto che era lungo, che lo agganciassero dalle due testate e lo facessero camminare piano piano fino sul suo basamento di cemento armato, che era già predisposto coi suoi ancoraggi pronti; e una delle due col braccio a telescopio, che lo tirasse in piedi e poi lo calasse giù. Tutto bene, ha fatto il suo viaggio dal piazzale fino ai magazzini, per svoltare intorno all' angolo dei magazzini abbiamo dovuto tirare giù un po' di muratura ma niente di grave, quando il fondo è stato sul basamento la gru più piccola se n' è andata a casa, e l' altra ha sfoderato tutto il suo braccio con il traliccio appeso, che a poco a poco si è messo in piedi: e anche per me, che di gru ne ho viste parecchie, è sembrato un bello spettacolo, anche perché si sentiva il motore che ronzava tutto tranquillo, come se dicesse che per lui quello era una balla da niente. Ha mollato giù il carico di precisione, coi fori giusti sugli ancoraggi, abbiamo serrato i bulloni, abbiamo bevuto una volta e ce ne siamo andati. Ma il committente mi è corso appresso: mi ha detto che aveva stima, che il lavoro più difficile era ancora da fare, mi ha chiesto se avevo degli altri impegni e se sapevo saldare l' inossidabile, e insomma a farla corta siccome impegni non ne avevo e lui mi era simpatico, e il lavoro anche, gli ho detto di sì e lui mi ha ingaggiato come capomontatore per tutte le colonne di distillazione e per le tubazioni di servizio e di lavoro. Di servizio è come dire dove ci passano l' acqua di raffreddamento, il vapore, l' aria compressa e così via; di lavoro sono quelle dove passano gli acidi da lavorare: si dice così. Le colonne erano quattro, tre piccole e una grossa, e quella grossa era molto grossa, ma il montaggio non era difficile. Era solo un tubo verticale di acciaio inossidabile, alta trenta metri, cioè alta come il traliccio che appunto la doveva tenere su, e col diametro di un metro: era arrivata divisa in quattro tronconi, di modo che c' erano da fare tre giunte, una flangiata e due saldate di punta, una passata interna e una esterna, perché la lamiera era da dieci millimetri. Per fare la passata interna ho dovuto farmi calare giù dalla cima del tubo, in una specie di gabbia come quelle dei pappagalli appesa a una corda, e non era tanto bello, ma ci ho messo pochi minuti. Invece, quando ho cominciato con le tubazioni credevo di perdere la testa, perché io veramente sarei montatore di carpenteria, e un lavoro complicato come quello non l' avevo mai visto. Erano più di trecento, di tutti i calibri da un quarto fino a dieci pollici, di tutte le lunghezze, con tre, quattro, cinque gomiti, e neanche tutti ad angolo retto, e di tutti i materiali: ce n' era fino una di titanio, che io non sapevo neanche che esistesse e mi ha fatto sudare sette camicie. Era quella dove passava l' acido più concentrato. Tutte queste tubazioni collegavano insieme la colonna grande con quelle piccole e con gli scambiatori, ma lo schema era così complicato che io lo studiavo al mattino e alla sera l' avevo già dimenticato. Come del resto non ho mai capito bene in che maniera tutto l' impianto dovesse poi funzionare. La più parte delle tubazioni erano di inossidabile, e lei lo sa che l' inossidabile è un gran bel materiale, ma non consente, voglio dire che a freddo non cede .... Non lo sapeva? Scusi, ma io credevo che a voialtri queste cose le insegnassero a scuola. Non cede, e se lei lo scalda, poi non è più tanto inossidabile. In conclusione, era un gran montare, tirare, limare e poi smontare di nuovo; e quando nessuno mi vedeva, andavo giù anche col martello, perché il martello aggiusta tutto, tanto che alla Lancia lo chiamavano "l' ingegnere". Basta, quando abbiamo finito coi tubi, sembrava la giungla di Tarzan e si faceva fatica a passarci in mezzo. Poi sono venuti i coibentatori a coibentare e i verniciatori a verniciare, e tra una storia e un' altra è passato un mese. Un giorno ero proprio in cima alla torre con la chiave a stella per verificare il serraggio dei bulloni, e mi vedo arrivare lassù il committente, che tirava un po' l' ala perché trenta metri è come una casa di otto piani. Aveva un pennellino, un pezzo di carta e un' aria furba, e si è messo a raccogliere la polvere dalla placca di testa della colonna che io avevo finito di montare un mese prima. Io lo stavo a guardare con diffidenza, e dicevo fra di me "questo è venuto a cercare rogna". Invece no: dopo un po' mi ha chiamato, e mi ha fatto vedere che col pennello aveva spazzato nella carta un pochino di polvere grigia. "Sa cosa è?" mi ha chiesto. "Polvere", ho risposto io. "Sì, ma la polvere delle strade e delle case non arriva fin qui. Questa è polvere che viene dalle stelle". Io credevo che mi pigliasse in giro, ma poi siamo scesi, e lui mi ha fatto vedere con la lente che erano tutti pallini rotondi, e mi ha mostrato che la calamita li tirava, insomma erano di ferro. E mi ha spiegato che erano stelle cadenti che avevano finito di cadere: se uno va un po' in alto in un posto che sia pulito e isolato, ne trova sempre, basta che non ci sia pendenza e che la pioggia non le lavi via. Lei non ci crede, e neanche io sul momento non ci ho creduto; ma col mio mestiere capita sovente di trovarsi in alto in dei posti come quelli, e ho poi visto che la polvere c' è sempre, e più anni passano, più ce n' è, di modo che funziona come un orologio. Anzi, come una di quelle clessidre che servono per fare le uova sode; e io di quella polvere ne ho raccolta un po' in tutte le parti del mondo, e la tengo a casa in uno scatolino; voglio dire a casa delle mie zie, perché io una casa non ce l' ho. Se un giorno ci troviamo a Torino gliela faccio vedere, e se ci pensa è una faccenda malinconica, quelle stelle filanti che sembrano le comete del presepio, uno le vede e pensa un desiderio, e poi cascano giù, si raffreddano, e diventano pallini di ferro da due decimi. Ma non mi faccia perdere il filo. Dunque, le stavo dicendo che a lavoro finito quella torre sembrava un bosco; e sembrava anche a quelle figure che si vedono nell' anticamera dei dottori, IL CORPO UMANO: una coi muscoli, una con gli ossi, una coi nervi e una con tutte le budelle. I muscoli veramente non li aveva, perché non c' era niente che si muovesse, ma tutto il resto sì, e le vene e le budelle le avevo montate io. Il budello numero uno, vorrei dire lo stomaco o l' intestino, era quella colonna grande che le ho detto. L' abbiamo riempita d' acqua fino in cima, e dentro l' acqua abbiamo buttato giù due camion di anellini di ceramica, grossi come il pugno: l' acqua serviva perché gli anelli calassero giù piano senza rompersi, e gli anelli, una volta colata via l' acqua, dovevano servire a fare come un labirinto, in maniera che la miscela d' acqua e d' acido che entrava a metà colonna avesse il tempo di separarsi bene: l' acido doveva uscire dal fondo, e l' acqua dalla parte di sopra come vapore, e doveva poi condensarsi in uno scambiatore e finire non so dove; del resto gliel' ho detto che tutte quelle chimiche io non le ho capite bene. Bisognava appunto che gli anelli non si rompessero, si posassero piano piano gli uni sugli altri, e che alla fine riempissero la colonna fino alla cima. Buttare giù quegli anelli era un lavoro allegro, li tiravamo su a secchi con un paranco elettrico e li facevamo cadere nell' acqua dal passo d' uomo, e sembrava di essere bambini quando si fanno i tomini con la sabbia e l' acqua e i grandi dicono fa' attenzione che ti bagni tutto; e difatti mi sono bagnato tutto, ma faceva caldo e faceva fino piacere. Ci abbiamo messo quasi due giorni. C' erano anche le colonne più piccole da riempire di anelli, e a che cosa servissero quelle non glielo saprei proprio dire, ma è stato un lavoro di due o tre ore: poi ho salutato, sono passato alla cassa a prendere i soldi, e come avevo una settimana di ferie arretrate me ne sono andato in val di Lanzo a pescare le trote. Io quando vado in ferie l' indirizzo non lo lascio mai, perché so bene cosa capita; e infatti torno e trovo le zie tutte spaventate con in mano un telegramma del committente perché a loro, povere donne, basta un telegramma per farle andare su di giri: signor Faussone pregato contattarci immediatamente. Cosa vuole farci? L' ho contattato, che poi vuol dire che gli ho telefonato ma è più elegante, e ho capito subito dalla voce che c' era qualche cosa che non andava. Aveva la voce di uno che telefona per chiamare un' ambulanza, ma non vuole fare vedere l' emozione per non perdere lo stile: che mollassi lì tutto e andassi subito da lui, che c' era una riunione importante. Ho cercato di sapere che razza di riunione e cosa c' entravo io, ma non ci sono riuscito perché lui insisteva che andassi subito, e sembrava che stesse per mettersi a piangere. Prendo su e vado, e trovo un quarantotto. Lui, il committente, aveva la faccia di uno che abbia passato la notte a fare baldoria, e invece l' aveva passata vicino all' impianto che stava dando i numeri; la sera prima si vede che si era lasciato prendere dalla paura, come quando uno ha un malato in casa, e non capisce che male abbia, e allora perde la testa e telefona a sei o sette dottori mentre invece sarebbe meglio chiamarne uno solo ma buono. Lui aveva fatto venire il progettista, il costruttore delle colonne, due elettricisti che si guardavano come un cane e un gatto, il suo chimico che anche lui era in ferie ma l' indirizzo lo aveva dovuto lasciare, e uno con la pancia e la barba rossa che parlava tricolore e non si capiva che cosa c' entrasse, e poi si è saputo che era un suo amico e faceva l' avvocato; ma più che come avvocato, credo che l' avesse chiamato perché gli facesse coraggio. Tutta questa gente stava lì ai piedi della colonna, guardava in su, andavano e venivano pestandosi i piedi uno con l' altro, cercavano di calmare il committente e facevano dei discorsi senza senso; il fatto è che anche la colonna stava facendo un discorso, e era proprio un po' come quando uno è malato e ha la febbre e dice delle goffate, ma siccome magari sta per morire tutti lo prendono sul serio. Per malata, quella colonna doveva ben essere malata, se ne sarebbe accorto uno qualunque, e difatti me ne accorgevo perfino io che non ero della partita e il committente mi aveva fatto venire solo perché ero io che ci avevo messo dentro gli anelli. Aveva come un attacco ogni cinque minuti. Si sentiva come un ronzio leggero e tranquillo che poi man mano diventava più forte, irregolare, come una gran bestia che gli mancasse il fiato; la colonna cominciava a vibrare, e dopo un poco entrava in risonanza anche tutto il traliccio, e sembrava proprio che venisse un terremoto, e allora tutti facevano finta di niente, chi di legarsi una scarpa, chi di accendersi una sigaretta, ma andavano un po' più lontano; poi si sentiva come un colpo di grancassa, ma soffocato, come se venisse di sottoterra, un rumore di risacca, voglio dire come di ghiaietta che crolli, poi più niente, si sentiva solo il ronzio di prima. Tutto questo ogni cinque minuti, regolare come un orologio; e io glielo so dire perché è vero che c' entravo poco, ma fra tutti c' eravamo solo il progettista e io che avessimo conservato un po' di calma da vedere le cose senza perdere la testa: e io più stavo lì e più quell' impressione di avere per le mani una specie di bambino malato mi veniva più forte. Sarà perché lo avevo visto crescere e gli ero perfino andato dentro a saldare; sarà perché si lamentava così senza senso, come uno che a parlare non sia ancora buono ma si vede che ha male; o sarà anche perché mi capitava come al dottore, che davanti a uno che ha male al corpo prima cosa gli mette l' orecchio sulla schiena, e poi lo tambussa tutto e gli mette il termometro, e io e il progettista facevamo proprio così. A mettere l' orecchio su quelle lamiere, quando la crisi si incamminava, faceva impressione: si sentiva un gran lavoro di budelle in disordine, che quasi quasi anche le mie budelle personali c' è calato poco che non si mettessero in movimento ma mi sono tenuto per via della dignità; e quanto al termometro, si capisce che non era come i termometri della febbre che uno se li infila in bocca o viceversa. Era un termometro multiplo, con tanti bimetalli in tutti i punti strategici dell' impianto, un quadrante, e una trentina di pulsanti per scegliere il punto dove si voleva leggere la temperatura, insomma un affare studiato bene; ma siccome il centro della colonna grande, sì, della colonna che si era ammalata, era proprio il cuore di tutto il sistema, in quel punto c' era anche una termocoppia apposta, che comandava un termografo, sa bene, una punta scrivente che scrive la curva della temperatura su un rotolo millimetrato. Ebbene, quello faceva ancora più impressione perché ci si vedeva sopra tutta la storia clinica, fin dalla sera che avevano avviato l' impianto. Si vedeva l' avviamento, cioè la traccia che partiva da venti gradi e saliva in due o tre ore a ottanta, e poi un tratto tranquillo, bello piatto, per una ventina di ore. Poi c' era come un brivido, fino fino che si vedeva appena, che durava appunto cinque minuti; e da allora in poi, tutta una filza di brividi, sempre più forti e tutti di cinque minuti giusti. Anzi, gli ultimi, cioè quelli dell' ultima notte, altro che brividi, erano delle onde di dieci o dodici gradi di scarto, che salivano ripide e cadevano a picco; e un' onda l' abbiamo presa al volo, il progettista e io, si vedeva la traccia che saliva mentre saliva anche nell' interno tutto quel rimescolio, e veniva giù di brutto appena si sentiva quel colpo di tamburo e il rumore del crollo. Il progettista, che era uno giovane ma che sapeva il fatto suo, mi ha detto che l' altro gli aveva telefonato a Milano già dalla sera prima perché voleva l' autorizzazione di spegnere tutto, ma che lui non si era fidato e aveva preferito mettersi in macchina e venire giù, perché la manovra di spegnimento non era cosi semplice e lui aveva avuto paura che il committente combinasse un guaio; adesso, però, non c' era altro da fare. Così, la manovra l' ha fatta lui, e in una mezz' ora tutto si è fermato, si è sentito un gran silenzio, la curva è scesa come un aereo che atterra, e a me mi pareva che tutto l' impianto tirasse un respiro di sollievo, come quando uno sta male e allora gli dànno la morfina e lui si addormenta e per un poco ha smesso di soffrire. Io continuavo a dirglielo, che io non c' entravo niente, ma il committente ci ha fatti sedere tutti intorno a un tavolo perché ognuno dicesse la sua. Io veramente al principio di dire la mia non osavo, ma una cosa da dire ce l' avevo sì, perché gli anelli ero io che li avevo messi giù, e come ho l' orecchio abbastanza fino avevo sentito che quel rumore di budelle smosse era lo stesso rumore di quando versavamo gli anelli dai secchi giù dentro la colonna: uno scroscio come quando arriva un ribaltabile a scaricare la ghiaia, che ronza, si alza, si alza, e poi tutto d' un colpo la ghiaia si lette a slittare e viene giù come una valanga. Alla fine poi questa mia idea l' ho detta sotto voce al progettista che era seduto vicino a me, e lui si è alzato in piedi e l' ha ripetuta con delle belle parole come se fosse stata un' idea sua, e che secondo lui la malattia della colonna era un caso di flading; perché sa, se uno ha propensione per darsi dell' importanza, tutte le occasioni gli vengono buone. Che la colonna andava in flading, e bisognava aprirla, vuotarla e guardarci dentro. Detto fatto, tutti hanno cominciato a parlare di flading salvo l' avvocato, che rideva da solo come un scemo e diceva qualche cosa di nascosto al committente: forse pensava già di fare una causa. E tutti guardavano il sottoscritto, come se fosse già inteso che l' uomo che doveva salvare la situazione ero io; e devo dire che in fondo neanche mi dispiaceva, un po' per la curiosità, un po' anche perché quella colonna che si lamentava, e che raccoglieva in cima la polvere delle stelle, e che si faceva il suo bisogno indosso ... già, forse non glielo avevo detto, ma si vede che andava in pressione, perché sul massimo di ogni onda di calore, dalla guarnizione del passo d' uomo in basso si vedeva uscire una materia maron che colava giù sul basamento: bene, insomma mi faceva pena, come uno che soffra e non sia capace di parlare. Pena e dispetto come fanno i malati, che anche se uno non gli vuole bene finisce col dare una mano perché guariscano, così almeno non si lamentano più. Non sto a dirle il traffico per guardarci dentro. È venuto fuori che dentro c' erano due tonnellate d' acido che costava soldi, e che in tutti i modi non si poteva mandarlo in fogna perché avrebbe inquinato tutta la zona; e essendo che appunto era un acido, non si poteva neppure metterlo dentro dei serbatoi basta che sia, ma ci volevano di acciaio inossidabile, e anche la pompa doveva essere una pompa antiacida perché la roba bisognava scaricarla a monte dato che non c' era la cadenza per scaricarla a gravità. Ma fra tutti ce la siamo sbrogliata, abbiamo scaricato l' acido, abbiamo purgato la colonna col vapore perché non puzzasse tanto, e l' abbiamo lasciata raffreddare. A questo punto poco da fare ero di scena io. I passi d' uomo erano tre, uno in cima alla colonna, uno verso la metà e l' altro al piede: sa bene che si chiamano così perché sono quei buchi rotondi dove ci può passare un uomo, ci sono anche sulle caldaie delle locomotive a vapore, e non è mica detto che l' uomo ci passi tanto comodo perché hanno solo cinquanta centimetri di diametro, e io so di diversi che avevano un po' di pancia e o che non ci passavano, oppure che ci restavano piantati. Io però da quel punto di vista, lei lo vede bene, non ho mai avuto problemi. Ho seguito le istruzioni del progettista e ho cominciato a sbullonare piano piano il passo d' uomo in alto: piano perché caso mai non venissero fuori degli anelli. Scosto il flangione, tasto con un dito, poi con la mano, niente: poteva essere logico che gli anelli si fossero assestati un po' più in giù. Tolgo il flangione, e vedo nero. Mi passano una lampada, infilo dentro la testa, e torno a vedere nero, anelli niente, come se quando li mettevo dentro me li fossi sognati: vedevo solo un pozzo che sembrava senza fondo, e solo quando ho abituato gli occhi al buio ho visto come un biancore giù in basso, che si vedeva appena appena. Abbiamo calato giù un peso attaccato a uno spago, e ha toccato a ventitre metri: tutti i nostri trenta metri di anelli si erano ridotti a sette. C' è stato un gran parlare e discutere, e alla fine si è capito il macinato, che stavolta non era un modo di dire ma era proprio un macinato perché erano gli anelli che si erano macinati. Pensi un po' che lavoro: gliel' ho detto che erano anelli di ceramica, e che erano fragili, tanto che li abbiamo messi giù con l' acqua come ammortizzatore. Si vede che aveva cominciato a rompersene qualcuno, e le schegge a fare strato alla base della colonna; allora il vapore sforzava per farsi la via, rompeva lo strato di colpo, e il colpo rompeva gli altri anelli, e così di seguito. A conti fatti, e i conti li ha fatti il progettista in base alle quote degli anelli, di interi ce ne dovevano essere rimasti pochi. E infatti, ho aperto il passo d' uomo di mezzo e ho trovato vuoto; ho aperto quello in basso, e si è vista una pappetta di sabbia e sassetti grigi, che era tutto quello che restava della carica di anelli; una pappetta talmente intasata che quando ho tirato via il flangione non si è neanche mossa. Non c' era altro che fargli il funerale. Io ne ho già visti diversi, di questi funerali, quando si tratta di fare sparire, di togliersi dai piedi una cosa sbagliata, che puzza come un morto, e che se si lascia lì a marcire è come una paternale che non finisce mai, anzi, è come una sentenza del tribunale, un promemoria a tutti quelli che ci hanno messo mano: "non scordartelo, questa coglioneria l' hai combinata tu". Non è mica un caso che quelli che hanno più fretta di fare il funerale sono proprio quelli che sentono più colpa: e quella volta lì è stato il progettista, che è venuto da me con l' aria disinvolta a dire che bastava un bel lavaggio con acqua, tutta quella graniglia sarebbe venuta via in un momento, e poi avremmo messo dentro degli anelli nuovi d' inossidabile, a sue spese, naturalmente. Sul lavaggio e sul funerale il committente è stato d' accordo, ma quando ha sentito parlare di altri anelli è diventato una bestia feroce: che il progettista attaccasse un quadretto alla Madonna perché lui non gli faceva causa per i danni, ma anelli mai più, ne studiasse una meglio, e un po' in fretta, perché lui aveva già perso una settimana di produzione. Io di colpe non ne avevo, ma a vedermi in giro tanta gente di cattivo umore ero diventato malinconico anche io, tanto più che il tempo si era messo al brutto e invece che autunno sembrava inverno. Poi si è subito visto che non era un lavoro cosi svelto: si vede che quel materiale, voglio dire gli anelli rotti, erano delle schegge ruvide, e si erano intrecciate una con l' altra, perché l' acqua che gli gettavamo sopra con l' idrante usciva di sotto tale quale, bella pulita, e tutto quel fondame non si muoveva. Il committente ha cominciato a dire che forse se si fosse calato dentro uno con una pala, ma parlava come per aria, senza guardare negli occhi nessuno, e con una voce così timida che si vedeva che non ci credeva nemmeno lui. Abbiamo provato in diverse maniere, e in definitiva si è visto che il sistema migliore era quello di mandargli l' acqua per di sotto come si è sempre fatto quando uno è costipato: abbiamo avvitato l' idrante alla bocchetta di scarico della colonna, abbiamo dato tutta la pressione, per un po' non si è sentito niente, poi come un gran singhiozzo, e il materiale ha cominciato a muoversi e a uscire come un fango dal passo d' uomo; e a me pareva di essere un dottore, anzi un veterinario, perché a quel punto invece che un bambino quella colonna ammalata incominciava a sembrarmi una di quelle bestie che c' erano nei tempi dei tempi, che erano alte come una casa e poi sono morte tutte chissà perché. Forse appunto di costipazione. Ma se non sbaglio io avevo incamminato questa storia in una maniera diversa, e poi mi sono lasciato andare. Avevo incominciato a dirle della prigione, e di quel lavoro peggio della prigione. Si capisce che se avessi saputo prima che effetto mi doveva fare, un lavoro così non lo avrei accettato, ma sa bene che a dire di no a un lavoro uno impara tardi, e per dire la verità io non ho ancora imparato neanche adesso, e si immagini un po' allora, che ero più giovane, e mi avevano offerto un forfé che io pensavo già di andare due mesi in ferie con la ragazza; e poi lei deve sapere che farmi avanti quando tutti si fanno indietro a me mi è sempre piaciuto, e mi piace ancora, e loro hanno capito bene che tipo ero io. Mi hanno fatto la corte, che un altro montatore come me non lo trovavano, che avevano fiducia, che era un lavoro di responsabilità e tutto. Insomma gli ho detto di sì, ma è perché non mi rendevo conto. Fatto sta che quel progettista, ben che era in gamba, aveva fatto una topica marca leone: l' ho capito dai discorsi che sentivo in giro, e anche dalla sua faccia. Pare che in una colonna come quella gli anelli non ci andassero, né di ceramica né in nessun' altra maniera, perché facevano ostacolo ai vapori; e che l' unica era di metterci al posto dei piatti, dei dischi forati insomma, d' acciaio inossidabile, uno ogni mezzo metro d' altezza, cioè in tutto una cinquantina ... lei allora le conosce, queste colonne a piatti? sì? Ma garantito che non sa come si montano: o forse lo sa, ma non sa che effetto fa a montarle. Del resto è regolare, uno viaggia in auto e a tutto il lavoro che c' è quagliato lì dentro non ci pensa neanche; oppure fa i conti su uno di quei calcolatori che stanno in saccoccia, e prima si meraviglia ma poi fa l' abitudine e gli sembra naturale; del resto, anche a me mi sembra naturale che io decida di alzare questa mano e ecco che la mano si alza, ma appunto è solo per l' abitudine. È ben per questo che io ho caro a raccontare i miei montaggi: è perché tanti non si rendono conto. Ma torniamo ai piatti. Ogni piatto è diviso in due, come due mezze lune che si incastrano una nell' altra: vanno fatti divisi così perché se fossero interi il montaggio sarebbe troppo difficile o magari impossibile. Ogni piatto appoggia su otto mensoline saldate alla parete della colonna, e il mio lavoro era proprio quello di saldare queste mensoline, a cominciare dal basso. Si va su a saldare tutto in giro, finché si arriva all' altezza della spalla: non più su perché sa bene che è faticoso. Allora si monta il primo piatto sul primo cerchio di mensoline, ci si monta sopra con le scarpe di gomma, e come si è più alti di mezzo metro, si salda un altro cerchio di mensoline. L' aiutante cala da sopra altri due mezzi piatti, uno se li monta un pezzo per volta sotto i piedi, e via: un giro di mensoline e un piatto, un giro e un piatto, fino alla cima. Ma la cima era alta trenta metri. Bene, avevo fatto il tracciamento senza nessuna difficoltà, ma dopo che sono stato a due o tre metri da terra ho cominciato a sentirmi strano. Al principio credevo che fossero i vapori dell' elettrodo, ben che ci fosse un bel tiraggio; o magari la maschera, che se uno salda per tante ore di seguito bisogna che gli copra tutta la faccia, se no si scotta e gli vien via tutta la pelle. Ma poi andava sempre peggio, mi sentivo come un peso qui alla bocca della stomaco, e la gola chiusa come quando da bambini si ha voglia di piangere. Più che tutto, mi sentivo la testa andare in giostra: mi tornavano in mente tante cose che avevo dimenticate da un pezzo, quella sorella di mia nonna che si era fatta monaca di clausura, "chi passa questa porta _ non vien più fuori né viva né morta"; e i racconti che si facevano al paese, di quello che l' avevano messo nella bara e sotterrato e poi non era morto e di notte nel camposanto batteva coi pugni per uscire. Mi sembrava anche che quel tubo diventasse sempre più stretto e che mi soffocasse come i topi nella pancia dei serpenti, e guardavo in su e vedevo la cima lontana lontana, da raggiungerla a passetti di mezzo metro per volta, e mi veniva una gran voglia di farmi tirare fuori, ma invece resistevo perché dopo tutti i complimenti che mi avevano fatto non volevo fare una figura. Insomma ci ho messo due giorni, ma non mi sono tirato indietro, e in cima ci sono arrivato. Però devo dirle che dopo di allora, ogni tanto, così all' improvviso, quel senso di topo in trappola mi ritorna: più che tutto negli ascensori. Sul lavoro è difficile che mi capiti, perché dopo di allora i montaggi nel chiuso li lascio fare dagli altri; e mi chiamo contento che nel mio mestiere il più delle volte si sta ai quattro venti, magari si patisce il caldo, il freddo, la pioggia e le vertigini, ma con la clausura non ci sono problemi. Quella colonna non sono più tornato a vederla, neanche dal di fuori, e giro al largo da tutte le colonne, i tubi e i cunicoli; e sui giornali, quando ci sono quelle storie di sequestri, non le leggo neanche. Ecco. È da stupido, e io lo so che è da stupido, ma non sono più stato buono di tornare come prima. A scuola mi avevano insegnato il concavo e il convesso: bene, io sono diventato un montatore convesso, e i lavori concavi non fanno più per me. Ma se non lo dice in giro è meglio".

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La tregua

679957
Levi, Primo 1 occorrenze

In pari tempo, si videro affacciate alla balconata le teste di un drappello di italiani, saliti a precipizio per le scale tortuose della Casa Rossa a proteggere le donne assediate; il palo, respinto dai difensori, oscillò, rimase librato per un lungo istante in posizione verticale, poi rovinò fra la folla come un pino abbattuto dai boscaioli, coi due uomini abbarbicati. A questo punto, non saprei dire se per caso o se per un savio intervento dall' alto, la lampada del proiettore si spense, tutto piombò nell' oscurità, il clamore della platea toccò una intensità paurosa, e tutti sfollarono all' aperto, al chiaro di luna, fra urla, bestemmie ed acclamazioni. Con rimpianto di tutti, la carovana del cinema partì il mattino seguente. La sera successiva si verificò un rinnovato e temerario tentativo russo di invasione dei quartieri femminili, questa volta attraverso i tetti e le grondaie; in seguito al quale, venne istituito un servizio di sorveglianza notturna, a cura di volontari italiani. Inoltre, per maggior cautela, le donne della galleria sloggiarono, e si ricongiunsero col grosso della popolazione femminile, in una camerata collettiva: sistemazione meno intima ma più sicura.

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

Poi ci ha dormito per qualche anno una favolosa "donna fissa"; in seguito è stato ufficio commerciale di mio padre, finché, con la guerra, ha servito da accampamento e da dormitorio per parenti ed amici a cui le bombe avevano abbattuto la casa. Dopo la guerra (e il sequestro dovuto alle leggi razziali) ci hanno dormito e giocato successivamente i miei due figli, e ci ha passato molte notti mia moglie che li assisteva quando erano ammalati: io no, con l' alibi di ferro del lavoro in fabbrica e con l' egoismo olimpico dei mariti. Attualmente è un laboratorio multiplo dove si sviluppano fotografie, si cuce a macchina e si fabbricano giocattoli divertenti. Trasfigurazioni simili si potrebbero raccontare per tutti gli altri locali; da poco tempo, e con disagio, mi sono accorto che la mia poltrona preferita occupa il luogo preciso in cui, secondo la tradizione famigliare, io sono venuto al mondo. La mia casa è situata in un posto fortunato, non troppo lontano dal centro urbano eppure relativamente tranquillo; la proliferazione delle auto, che riempie ogni cavità come un gas compresso, è arrivata ormai fin qui, ma solo da pochi mesi si fatica a trovare un parcheggio. Le pareti sono spesse, ed i rumori della strada giungono attutiti. Un tempo tutto era diverso: la città finiva a poche centinaia di metri verso sud, si andava attraverso i prati "a vedere i treni" che allora, prima che si scavasse il sistema di trincee del quadrivio Zappata, correvano a livello del suolo. I controviali sono stati asfaltati solo verso il 1935; prima erano acciottolati, ed al mattino si veniva svegliati dai rumori dei carri che venivano dalla campagna: fragore dei cerchioni di ferro sui ciottoli, schiocchi delle fruste, voci dei conducenti. Altre voci famigliari salivano dalla strada in altre ore del giorno: i richiami del vetraio, dello stracciaio, del raccoglitore dei "capelli del pettine", a cui la già nominata donna fissa vendeva periodicamente i suoi, lunghi e canuti; occasionalmente, di mendicanti che suonavano l' organetto o cantavano in strada, ed a cui si gettavano monetine incartate. Attraverso tutte le sue trasformazioni, l' alloggio in cui abito ha conservato il suo aspetto anonimo ed impersonale: od almeno, tale sembra a noi che ci viviamo, ma è noto che ognuno è cattivo giudice delle cose che lo riguardano, del proprio carattere, delle proprie virtù e vizi, perfino della propria voce e del proprio viso; forse ad altri potrà apparire fortemente sintomatico delle tendenze appartate della mia famiglia. Certo, a livello consapevole, alla mia abitazione non ho mai chiesto molto di più del soddisfacimento dei bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza. Né mai ho consapevolmente cercato di farla mia, di assimilarla a me, di abbellirla, arricchirla, sofisticarla. Non mi è facile parlare del rapporto che ho con lei: forse è di natura gattesca, come i gatti amo gli agi ma posso anche farne a meno, e mi sarei adattato abbastanza bene anche ad un alloggiamento disagiato, come varie volte mi è successo, e come mi succede quando vado in un albergo. Non credo che il mio modo di scrivere risenta dell' ambiente in cui vivo e scrivo, né credo che questo ambiente traspaia dalle cose che ho scritte. Devo quindi essere meno sensibile della media alle suggestioni ed influenze dell' ambiente, e non sono sensibile affatto al prestigio che l' ambiente conferisce, conserva o deteriora. Abito a casa mia come abito all' interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 4 occorrenze

E d' altronde un aereo abbattuto non era una sistemazione ideale né definitiva. _ Ho già ucciso anche troppo. Non uccido un uomo per un posto su un aereo che non vola. _ Ne uccideresti uno se l' aereo volasse? Se ti portasse a casa? _ Quale casa? _ disse Mendel: Leonid non rispose. L' usbeco non aveva capito il dialogo, ma aveva riconosciuto la musica aspra del jiddisch: _ Ebrei, vero? Per me è lo stesso, ebrei, russi, turchi, tedeschi _. Pausa. _ Uno non mangia più di un altro quando è vivo, e non puzza più di un altro quando è morto. C' erano ebrei anche al mio paese, bravi a fare commercio, un po' meno bravi a fare la guerra. Anch' io del resto; e allora, che ragione ci sarebbe di fare la guerra fra noi? Il coniglio era ormai scuoiato. L' usbeco mise da parte la pelle, scalcò la bestia con la baionetta appoggiandosi su un ceppo e prese a farla rosolare su una lamiera dell' aereo che aveva piegata alla meglio in forma di padella. Non aveva messo né grasso né sale. _ Te lo mangi tutto? _ chiese Leonid. _ È un coniglio magro. _ Ti servirebbe del sale? _ Mi servirebbe. _ Ecco il sale, _ disse Leonid, cavando un pacchetto dallo zaino, _ sale contro coniglio: un buon affare per tutti. Contrattarono a lungo su quanto sale valesse mezzo coniglio. Peiami, pur senza mai perdere la calma, era un negoziatore instancabile, sempre pronto a rilanciare nuovi argomenti: il mercanteggiare lo divertiva come un gioco e lo esaltava come un esercizio cavalleresco. Fece presente che il coniglio nutre anche senza sale, mentre il sale senza coniglio non nutre. Che il suo coniglio era magro, e perciò più pregiato, perché il grasso di coniglio è nocivo ai reni. Che lui era momentaneamente sprovvisto di sale, ma che nella zona la quotazione era bassa, sale ce n' era in abbondanza, i russi lo buttavano giù coi paracadute a quelli delle bande: loro due non dovevano approfittare della scarsità in cui lui casualmente si trovava, se andavano verso Gomel avrebbero trovato sale in tutte le isbe, a quotazioni disastrose. Infine, per puro interesse culturale e curiosità delle usanze altrui, si informò: _ Voi mangiate coniglio? Gli ebrei di Samarcanda non lo mangiano: per loro è come il porco. _ Noi siamo ebrei speciali; siamo ebrei affamati, _ disse Leonid. _ Anch' io sono un usbeco speciale. Concluso l' affare, vennero fuori da un nascondiglio mele, fette di rapa arrostite, formaggio e fragole di bosco. I tre cenarono, legati dall' amicizia a fior di pelle che nasce dalle contrattazioni; alla fine Peiami andò nella carlinga a prendere la vodka. Era samogòn, spiegò: vodka selvaggia, casalinga, distillata dai contadini; molto più robusta di quella dello Stato. Peiami precisò che lui era un usbeco speciale perché, quantunque mussulmano, la vodka gli piaceva molto; e poi, perché gli usbechi sono un popolo bellicoso, e lui invece non aveva voglia di fare la guerra: _ Se nessuno mi viene a cercare, io resto qui a mettere trappole ai conigli finché la guerra finisce. Se vengono i tedeschi, vado coi tedeschi. Se vengono i russi, vado coi russi. Se vengono i partigiani, vado coi partigiani. A Mendel sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più sui partigiani e sulle bande a cui i russi buttavano il sale. Cercò inutilmente di cavar fuori altre notizie dall' usbeco: ormai aveva bevuto troppo, o riteneva imprudente parlare dell' argomento, o veramente non ne sapeva nulla di più. Del resto il samogòn era veramente poderoso, quasi un narcotico. Mendel e Leonid, che non erano grandi bevitori, e che non bevevano alcoolici da un pezzo, si sdraiarono nella cabina dell' aereo e si addormentarono prima dell' imbrunire. L' usbeco rimase all' aperto più a lungo; rigovernò le stoviglie (e cioè la sua padella fuori ordinanza) prima con sabbia e poi con acqua, fumò la pipa, bevve ancora, e infine si coricò anche lui, spingendo da parte i due ebrei che non si svegliarono. Alle undici, verso ponente, il cielo era ancora leggermente luminoso. Alle tre del mattino faceva già chiaro: la luce entrava in abbondanza non solo dai due oblò, ma anche dalle crepe delle lamiere sconquassate dall' urto dell' aereo contro i tronchi e il suolo. Mendel era dolorosamente sveglio: gli doleva la testa e aveva la gola arida; "colpa del samogòn", pensò, ma non era solo il samogòn. Non riusciva a staccare la mente dall' accenno che aveva fatto l' usbeco alle bande nascoste nei boschi. Non che fosse per lui una notizia in tutto nuova: ne aveva sentito parlare, ed anche spesso; aveva visto, affissi alle capanne dei villaggi, i manifesti tedeschi bilingui, in cui si offriva denaro a chi denunciava un bandito, e si minacciavano pene a chi li favoreggiava. Aveva anche visto, più di una volta, gli impiccati spaventosi, ragazzi e ragazze, con il capo brutalmente slogato dallo strappo della corda, gli occhi vitrei e le mani legate dietro la schiena: portavano al petto cartelli scritti in russo, "sono ritornato al mio paese", o altre parole di scherno. Sapeva tutto questo, e sapeva anche che un soldato dell' Armata Rossa, quale lui era, ed era fiero di essere, se si trova disperso deve darsi alla macchia e continuare a combattere. E insieme era stanco di combattere: stanco, vuoto, svuotato della moglie, del paese, degli amici. Non sentiva più in petto il vigore del giovane e del soldato, bensì stanchezza, vuotezza, e desiderio di un nulla bianco e tranquillo, come una nevicata d' inverno. Aveva provato la sete della vendetta, non l' aveva appagata, e la sete si era attenuata fino a spegnersi. Era stanco della guerra e della vita, e sentiva corrergli per le vene, invece del sangue rosso del soldato, il sangue pallido della stirpe da cui sapeva di discendere, sarti, mercanti, osti, violinisti di villaggio, miti patriarchi prolifici e rabbini visionari. Era stanco anche di camminare e di nascondersi, stanco di essere Mendel: quale Mendel? Chi è Mendel figlio di Nachman? Mendel Nachmanovic, alla maniera russa, come era scritto sul ruolino del plotone, o Mendel ben Nackman, come a suo tempo, nel 1915, aveva scritto sul registro di Strelka il rabbino dei due orologi? Eppure sentiva che non avrebbe potuto continuare a vivere così. Qualcosa nelle parole e nei gesti dell' usbeco gli aveva fatto intuire che lui, sui partigiani dei boschi, ne sapeva più di quanto volesse fare apparire. Qualcosa sapeva, e Mendel sentiva in fondo all' anima, in un angolo male esplorato dell' anima, una spinta, uno stimolo, come una molla compressa: una cosa da fare, da fare subito, in quello stesso giorno la cui luce già lo aveva strappato al sonno del samogòn. Doveva sentire dall' usbeco dove stavano e chi erano queste bande, e doveva decidere. Doveva scegliere, e la scelta era difficile; da una parte c' era la sua stanchezza vecchia di mille anni, la sua paura, il ribrezzo delle armi che pure aveva sepolte e portate con sé: dall' altra c' era poco. C' era quella piccola molla compressa, che forse era quella che sulla "Pravda" veniva chiamata il "senso dell' onore e del dovere", ma che forse sarebbe stato più appropriato descrivere come un muto bisogno di decenza. Di tutto questo non parlò con Leonid, che nel frattempo si era svegliato. Attese che si svegliasse l' usbeco e gli pose alcune domande precise. Le sue risposte, molto precise non furono. Bande, sì: ce n' erano, o ce n' erano state; di partigiani o di banditi, lui non avrebbe potuto dire, nessuno lo avrebbe potuto dire. Armate, certo, ma armate contro chi? Bande fantasma, bande nuvola: oggi qui a far saltare una ferrovia, domani a quaranta chilometri a saccheggiare i silos di un kolchoz; e mai le stesse facce. Facce di russi, di ucraini, di polacchi, di mongoli venuti chissà di dove; ebrei, anche, sì, qualcuno; e donne, e una girandola di uniformi. Sovietici rivestiti dai tedeschi, nella divisa della polizia; sovietici tutti stracciati, con la divisa dell' Armata Rossa; perfino qualche disertore tedesco .... Quanti? Chi sa! Cinquanta qui, trecento là, gruppi che si formavano e si disfacevano, alleanze, litigi e qualche sparatoria. Mendel insistette: dunque, qualcosa lui Peiami sapeva. Sapeva e non sapeva, rispose Peiami; queste erano cose che sapevano tutti. Lui aveva avuto un solo contatto, mesi prima, con una banda di gente abbastanza per bene. A Nivnoe, in mezzo alle paludi, al confine con la Russia Bianca. Per affari: aveva venduto l' impianto radio dell' aereo, e secondo lui era anche stato un buon affare, perché l' apparecchiatura era a pezzi e non pensava proprio che quella gente sarebbe stata in grado di rimetterla in ordine. Lo avevano pagato bene, con due forme di formaggio e quattro scatolette di aspirina, perché era ancora inverno e lui soffriva di reumatismi. Aveva poi fatto un secondo viaggio in aprile: si era portato dietro il paracadute del tedesco morto. Sì, quando lui era arrivato lì, il pilota c' era ancora, morto da chissà quanti giorni, già tutto mangiato dai corvi e dai topi; aveva avuto un brutto lavoro per fare un po' di pulizia e d' ordine nella cabina di pilotaggio. Si era portato via il paracadute, ma a Nivnoe aveva trovato altra gente, altre facce, altri capi, che non avevano fatto tanti complimenti, gli avevano portato via il paracadute e lo avevano pagato in rubli. Una vera presa in giro; che cosa se ne poteva fare, lui, dei rubli? E con quel paracadute si potevano fare almeno una ventina di camicie. Insomma, un affare disastroso, a parte anche il viaggio: perché fino a Nivnoe erano tre o quattro giorni di marcia. No, non ci era più ritornato; anche perché gli avevano detto che stavano per trasferirsi altrove, chissà dove, non lo sapevano ancora o non glielo avevano voluto dire. Erano stati loro che gli avevano regalato il dizionario tedesco: ne avevano un pacco intero, si vede che a Mosca ne avevano stampati in abbondanza. Ecco, era tutto quello che lui sapeva delle bande, oltre naturalmente al fatto del sale. Sale ne avevano, glielo mandavano con i paracadute, e non sale soltanto; appunto, proprio per questo avevano valutato così poco il paracadute del tedesco, benché fosse fatto di tela più fine. Insomma, mettersi nel commercio è sempre un rischio, ma diventa un rischio grave quando non si conoscono le condizioni del mercato; e che mercato è un bosco, dove non sai neppure se hai dei vicini, e che gente sono, e di cosa hanno bisogno? _ Ad ogni modo, voi siete miei ospiti. Non penso che vogliate continuare subito il vostro cammino; fermatevi qui, fate i vostri piani, e ripartite domani più tranquilli. Sempre che non abbiate ragioni di avere fretta. Dividerete la mia giornata: voi vi riposerete, e io per un giorno non sarò solo. Li accompagnò in giro per il bosco, lungo sentieri appena segnati, a controllare le trappole, ma conigli non ce n' erano. C' era una donnola, mezza strozzata dal cappio ma ancora viva; anzi, talmente viva che era difficile difendersi dai suoi morsi convulsi. L' usbeco si sfilò i calzoni, li rimboccò per raddoppiarne lo spessore, vi infilò le mani come in due guanti, e liberò la creatura, che si dileguò rapida attraverso il sottobosco, flessibile come un serpente. _ Se uno ha proprio fame si mangiano anche quelle, _ disse Peiami con malinconia. _ Al mio paese, questi problemi non c' erano; anche il più povero, almeno di formaggio si poteva saziare, tutti i giorni della settimana. La carestia noi non l' abbiamo mai conosciuta, neanche negli anni più brutti, quando in città si mangiavano i topi. E invece qui è diverso, non è facile togliersi la fame; secondo le stagioni, si trovano funghi, rane, lumache, uccelli di passo, ma non tutte le stagioni sono buone; si può andare ai villaggi, certo, ma non a mani vuote: e ci vuole anche attenzione, perché sparano facilmente. A un centinaio di metri dall' aereo mostrò loro la tomba del tedesco. Aveva fatto un buon lavoro, una fossa profonda più di un metro, niente sassi perché nella zona non si trovavano, ma una copertura di tronchetti, un tumulo di terra battuta, e perfino la croce con su inciso il nome, Baptist Kipp: lo aveva ricavato dal piastrino militare. _ Perché tanta pena per seppellire un infedele? E per di più tedesco? _ chiese Leonid. _ Perché non ritorni, _ rispose l' usbeco: _ E poi perché le giornate sono lunghe, e bisogna pure occuparle in qualche modo. A me piace giocare a scacchi, e sono anche abbastanza bravo. Al mio paese non mi batteva nessuno. Bene, qui mi sono fatto i pezzi intagliati nel legno, e la scacchiera di scorza di betulla, ma giocare da soli è insipido. Invento problemi, ma è come fare l' amore da soli. Mendel disse che anche a lui piaceva giocare: c' erano ancora molte ore di luce, perché non fare una partita? L' usbeco accettò, ma quando furono arrivati all' aereo espresse il desiderio che la prima partita la giocassero loro due, Mendel e Leonid. Perché? Per cortesia di ospite, disse Peiami, ma era chiaro che voleva invece farsi un' idea di come giocavano i due futuri avversari. Era uno di quelli che giocano per vincere. I pezzi bianchi toccarono a Leonid, ed erano proprio bianchi e ancora odorosi di legno fresco. I neri invece erano di varie tonalità di bruno, abbrustoliti, affumicati; gli uni e gli altri erano poco stabili, anche perché la scacchiera non era ben piana, bensì ondulata e piena di asperità e di scalini. Leonid aprì di dama, ma si vide presto che non conosceva lo svolgimento normale dell' apertura, e si trovò in difficoltà, con un pedone di meno e i pezzi sviluppati male. Mormorò qualcosa a proposito del gioco, e Mendel gli rispose nello stesso tono sommesso, ma in jiddisch: _ Tienilo d' occhio anche tu, non si sa mai. Il mitra e la pistola sono nella cabina. Scacco al re _. Era uno scacco insidioso, col re dei bianchi malamente insaccato dietro i pedoni. Leonid sacrificò un alfiere in un futile tentativo di difesa e Mendel annunciò il matto in tre mosse. Leonid inclinò il suo re in segno di resa e di omaggio al vincitore, ma Mendel disse: _ No, andiamo fino alla fine _. Leonid comprese: Peiami doveva essere accontentato, non c' era alcun pericolo che si allontanasse, stava seguendo la partita con l' attenzione professionale e sanguinaria degli affezionati alle corride; era meglio non privarlo dello spettacolo del colpo di grazia. Venne il colpo di grazia, e l' usbeco sfidò Leonid, che accettò malvolentieri. L' usbeco aprì provocatoriamente con il pedone d' alfiere di donna: i suoi occhi, dalla cornea di un bianco talmente puro da sconfinare nell' azzurro, erano ancora più provocatori. Giocava con gesti esibiti e grotteschi, avanzando ad ogni mossa la spalla ed il braccio come se il pezzo che spostava avesse pesato una dozzina di chili; lo abbatteva sulla scacchiera come per piantarvelo dentro, o lo girava premendolo come per avvitarlo. Leonid si trovò subito a disagio, sia per questa mimica, sia per l' evidente superiorità dell' avversario: era chiaro, Peiami non voleva altro che toglierlo di mezzo il più presto possibile per cimentarsi contro Mendel. Muoveva con rapidità insolente, senza attardarsi a meditare i tratti, e manifestando sgarbata impazienza davanti alle esitazioni di Leonid. Gli diede il matto in meno di dieci minuti. _ A noi due, _ disse subito a Mendel, con un' aria così risoluta che questi si sentì a un tempo divertito e inquieto. Anche Mendel, questa volta, giocava per vincere, come se la posta in gioco fosse stata una montagna d' oro, o la vita sicura, o l' eterna felicità. Percepiva confusamente di giocare non per sé solo, ma come campione di qualcosa o qualcuno. Aprì attento e prudente, imponendosi di non lasciarsi innervosire dal comportamento dell' altro: il quale, d' altronde, abbandonò presto le sue gesticolazioni disturbatrici per concentrarsi anche lui sulla scacchiera. Mendel era riflessivo, Peiami tendeva invece a un gioco temerario e lampeggiante: dietro ad ogni suo tratto, Mendel stentava a capire se si nascondesse un piano meditato, o il desiderio di stupire, o l' audacia fantasiosa dell' uomo di ventura. Dopo una ventina di tratti nessuno dei due aveva avuto perdite, la situazione era equilibrata, la scacchiera era spaventosamente confusa, e Mendel si accorse che si stava divertendo. Perse deliberatamente un tempo, al puro scopo di indurre l' usbeco a rivelare le sue intenzioni, e vide che l' altro si innervosiva: adesso era lui che esitava davanti ai tratti, guardando Mendel negli occhi come per leggervi dentro un segreto. L' usbeco fece un tratto che si rivelò immediatamente disastroso, chiese di rifarlo, e Mendel glielo permise; poi si alzò in piedi, si scosse come un cane uscito dall' acqua, e senza parlare si avviò verso l' aereo. Mendel fece un cenno a Leonid, che comprese, lo seguì da vicino ed entrò dietro di lui nella cabina; ma l' usbeco non pensava alle armi, era solo venuto a prendere il samogòn. Bevvero tutti e tre, mentre il cielo incominciava già ad oscurarsi e si era levato il vento fresco del tramonto. Mendel si sentiva strano, fuori del tempo e del luogo. Quel gioco intento e serio si collegava nel suo ricordo a tempi e luoghi e persone intensamente diversi; a suo padre che gli aveva insegnato le regole, lo aveva vinto facilmente per due anni, con stento per altri due, e poi aveva accettato le sconfitte senza disagio; agli amici, ebrei e russi, che davanti alla scacchiera si erano educati con lui all' astuzia e alla pazienza; al calore quieto della casa perduta. Probabilmente l' usbeco aveva bevuto troppo. Quando si fu riseduto davanti ai pezzi, scatenò un' interminabile serie di cambi da cui emerse una situazione alleggerita e decantata: lui con un pedone di meno, Mendel padrone della grande diagonale e sicuramente arroccato. L' usbeco ribevve, perfezionò la propria catastrofe con un assurdo tentativo di contrattacco, si diede sconfitto, e dichiarò che pretendeva la rivincita; era stato debole, lo sapeva che quando si gioca non si deve bere, aveva ceduto al vizio come un bambino. Oramai era troppo buio, ma voleva la rivincita: domani mattina, subito, appena fatto giorno. Salutò, salì incespicando la scaletta a pioli tutta sconnessa che portava alla cabina, e dopo cinque minuti russava già. I due tacquero per qualche istante. Sul fruscio delle fronde, scosse dalla brezza, si sovrapponevano suoni meno familiari: fremiti d' insetti o di piccoli animali, scricchiolii, un coro lontano di rane. Mendel disse: _ Non è questo, il compagno di viaggio di cui abbiamo bisogno, vero? _ Non abbiamo bisogno di un compagno di viaggio, disse Leonid, ancora imbronciato per la sconfitta. _ È da vedersi; comunque, è tempo di rimettersi in cammino, prima che sia notte profonda. Attesero che il russare dell' usbeco si fosse fatto regolare, ripresero gli zaini dalla cabina e si misero in via. Per precauzione, si avviarono dapprima verso sud, poi fecero una brusca conversione e procedettero verso nord-ovest: ma il terreno era asciutto e non conservava le impronte.

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Leonid appariva abbattuto, e Mendel cercò di ridargli animo: la colpa non era sua, mancavano i mezzi, e in qualche modo il treno era pure stato arrestato. Leonid tacque a lungo, volgendogli la schiena; poi disse: _ Tu non capisci. Era un regalo. _ Un regalo? A chi? _ A Line: alla ragazza col mitra, sì, a quella che monta di guardia con te. È la mia donna, dall' altra notte. Il treno era un regalo per lei. Mendel ebbe voglia di ridere e di piangere. Stava per dire a Leonid che Novoselki non era il luogo per una storia d' amore, ma poi si trattenne. Proseguirono in silenzio; a metà notte si accorsero che Karlis era rimasto indietro e si fermarono ad aspettarlo. Passò un' ora e Karlis non ricomparve: se n' era andato. I due ripresero la via nelle tenebre sempre più fitte. Giunti al campo, fecero il loro rapporto, e Dov li ascoltò senza fare commenti né esprimere giudizi: sapeva come andavano quelle imprese. La fuga di Karlis era un guaio, ma non poteva essere prevista né evitata, e del resto non era il primo caso; Novoselki non era un Lager, chi voleva se ne andava. Avrebbe parlato? La taglia della polizia era attraente, dieci rubli per ogni testa di ebreo denunciato: i tedeschi sono gente generosa. D' altra parte, coi tedeschi stessi Karlis aveva certi conti in sospeso, e poi al monastero era sempre stato trattato bene, e infine aveva altri modi per guadagnarsi il pane. In ogni caso, non c' era rimedio: solo stare all' erta, soprattutto nei primi giorni, e se c' era un attacco, difendersi. Non venne alcun attacco; venne invece, verso la metà di settembre, portata dai misteriosi informatori di Dov, la notizia che l' Italia aveva capitolato, e mise il campo in subbuglio. Le notizie di guerra, invariabilmente trionfali, erano un lineamento fondamentale di Novoselki. Non passava settimana senza che gli Alleati sbarcassero in Grecia, o Hitler morisse assassinato, o gli americani liquidassero i giapponesi con una nuova arma portentosa. Ogni annunzio entrava poi in circuito affannoso, veniva adornato, arricchito di particolari, e diventava per giorni un presidio contro l' angoscia; i pochi che rifiutavano di crederlo erano guardati con disprezzo. Poi svaniva, veniva dimenticato senza lasciare traccia, in modo che la notizia successiva era accettata senza riserve. Ma questa volta era diverso, l' annunzio della capitolazione era confermato da due fonti, veniva da Radio Mosca, ed era stato avallato da Dov in persona, che di solito era scettico. I commenti erano convulsi, non si parlava d' altro. Dunque le forze dell' Asse erano dimezzate. Dunque la guerra sarebbe finita entro un mese, due al massimo. Era impossibile che gli Alleati non approfittassero della situazione: non erano già sbarcati in Italia? Per le loro armate l' Italia non poteva essere che un passo, in tre giorni sarebbero arrivati al confine e sarebbero penetrati nel cuore della Germania. Quale confine? La geografia dell' Europa veniva ricostruita appassionatamente, attraverso ricordi scolastici e leggendari. Pavel, l' unico cittadino delle paludi che in Italia ci fosse materialmente stato, sedeva come un oracolo al centro di un capannello continuamente rinnovato. Pavel Jurevic Levinski teneva molto al suo patronimico, e meno al suo cognome troppo rivelatore: lui era un russo ebreo, non un ebreo russo. A trentacinque anni aveva già alle spalle una carriera molteplice: era stato sollevatore di pesi, poi attore dilettante e professionista, cantante, e perfino, per qualche mese, annunciatore alla Radio di Leningrado. Gli piaceva giocare a carte e ai dadi, gli piaceva il vino, e all' occorrenza bestemmiava come un cosacco. Nella comunità smunta di Novoselki spiccava per il suo aspetto atletico: nessuno capiva come da quelle razioni di fame Pavel potesse ricavare alimento per i suoi muscoli. Era di media statura, compatto, sanguigno. La barba, che portava rasa, gli arrivava fino sotto gli occhi, e cresceva così rapida che poche ore dopo il passaggio del rasoio già gli stendeva sul viso un' ombra nero-azzurra. Capelli e sopracciglia erano neri e cespugliosi. Aveva una vera voce da russo, profonda morbida e sonora, ma quando aveva finito di parlare o cantare la bocca gli si richiudeva dura, come una tagliola d' acciaio. Il suo viso era a forti rilievi, come a monti e valli; rilevati gli zigomi, incavato il canaletto che dal setto nasale porta al labbro superiore; segnata da due risalti carnosi l' inserzione del canaletto con il labbro. Aveva denti forti ed occhi da incantatore. Con quegli occhi, e con le mani che aveva corte e pesanti, faceva svanire i dolori alle giunture, il mal di schiena, e qualche volta, per poche ore, anche la fame e la paura. Aveva scarsa propensione per la disciplina, ma al monastero godeva di una tacita impunità. I suoi ascoltatori lo tempestavano di domande sull' Italia. _ Ma certo, che ci sono stato. Diversi anni fa, con la famosa tournée del Teatro Ebraico di Mosca. Io ero Geremia, il profeta di sventure: venivo in scena con un giogo sulle spalle, a profetizzare la deportazione degli ebrei a Babilonia, e muggivo come un bue. Avevo una parrucca viola, ero tutto imbottito per sembrare ancora più grosso, e avevo le scarpe con la suola spessa un palmo, perché un profeta è alto di statura. Recitavamo in ebraico e in jiddisch: gli italiani, a Milano, a Venezia, a Roma, a Napoli, non capivano una parola e applaudivano come impazziti. _ Così tu l' Italia l' hai proprio vista coi tuoi occhi? _ gli chiese Ber, l' allievo rabbino. _ Certamente: dal treno. Tutta l' Italia è lunga come da Leningrado a Kiev, si va in un giorno dalle Alpi alla Sicilia: adesso che l' esercito italiano si è arreso, gli Alleati arriveranno alla frontiera tedesca in un baleno. Del resto, anche prima di arrendersi, gli italiani non sono mai stati fascisti sul serio, tant' è vero che Mussolini stesso aveva fatto venire a Roma il Teatro di Mosca, e i soldati italiani in Ucraina non hanno fatto resistenza. L' Italia è un bellissimo paese, con mari, laghi e montagne, tutto verde e fiorito. La gente è cortese e amichevole, sono ben vestiti ma un po' ladri: insomma, è un paese strano, molto diverso dalla Russia. Ma i confini? Fin dove sarebbero arrivati gli Alleati? Qui si vide che Pavel Jurevic non aveva le idee chiare, si ricordava vagamente di Tarvisio, ma non sapeva più se al di là c' era la Germania o la Jugoslavia o l' Ungheria. Si ricordava invece di una ragazza dagli occhi neri con cui aveva passato una notte a Milano, ma questo episodio ai suoi ascoltatori non interessava. Passò ottobre, il freddo incominciò a farsi sentire, e lo spirito collettivo a declinare. Giungevano notizie contraddittorie: i russi avevano ripreso Smolensk, ma i tedeschi non erano crollati. Si combatteva in Italia, ma non al confine, non alle Alpi: si parlava di sbarchi alleati in paesi mai sentiti. Possibile che inglesi e americani, con tutto il loro petrolio e il loro oro, non fossero capaci di dare ai tedeschi il colpo di clava definitivo? E l' Eterno, benedetto Egli sia, perché se ne stava nascosto dietro le nuvole grige della Polessia invece di soccorrere il Suo popolo? "Tu ci hai scelti fra tutte le nazioni": perché proprio noi? Perché prospera l' empio, perché la strage degli indifesi, perché la fame, le fosse comuni, il tifo, e il lanciafiamme delle SS nelle tane stipate di bambini atterriti? E perché ungheresi, polacchi, ucraini, lituani, tartari, devono rapinare e massacrare gli ebrei, strappargli le ultime armi dalle mani, invece di unirsi a loro contro il nemico comune? Ed ecco arrivare l' inverno, amico ed alleato delle armate russe, nemico crudele per i sequestrati di Novoselki. Il vento della Siberia aveva già steso un velo di ghiaccio trasparente sulla faccia nera delle paludi: presto si sarebbe consolidato ed avrebbe retto il peso dei cacciatori d' uomini. Le tracce dei passi sulla neve si sarebbero potute leggere dall' aria, o anche da terra, come si leggono i rotoli della Scrittura. La legna non mancava, ma ogni focolare era una spia; le colonne di fumo che salivano dai camini del monastero sarebbero state visibili a decine di chilometri, a segnalare come un indice teso verso la terra: "le vittime del sacrificio sono qui". Dov dispose che di giorno tutti i cittadini esenti da servizi vivessero riuniti in un solo locale e dormissero a notte nella stessa camerata. Si doveva accendere un fuoco solo; la tubazione del camino doveva essere deviata in modo da far capo fra i rami di una grande quercia che cresceva rasente il muro, così la fuliggine si sarebbe fermata sui rami invece di annerire la neve tutto intorno. Tutto questo avrebbe servito? sarebbe bastato? Forse sì o forse no, ma era importante che tutti facessero qualche cosa per il bene comune, che tutti avessero la sensazione che qualcosa veniva decisa e fatta. Conciatori e ciabattini presero a confezionare stivali di tutte le misure usando tutte le pelli che i contadini erano disposti a cedere, anche pelli di cane e di gatto: rozzi stivali barbarici cuciti con lo spago e col pelo all' interno. Non soltanto per uso locale; Dov mandò una missione a Rovnoe, un villaggio di ucraini di confessione battista, a barattare una partita di stivali contro viveri e lana. Anche i battisti erano disprezzati e perseguitati, sia dai tedeschi sia dai russi; avevano buoni rapporti con gli ebrei. Gli ambasciatori tornarono da Rovnoe pochi giorni dopo, con un discreto carico di merce e con un messaggio per Dov. Era firmato da Gedale, il comandante leggendario, quello che aveva guidato la rivolta del ghetto di Kossovo, e la cui vita era stata salvata da un violino. Dov, che considerava ormai Mendel come il suo luogotenente, gli lesse il messaggio e lo discusse con lui. Conteneva due punti: in primo luogo, Gedale faceva sapere a Dov che nel ghetto di Soligorsk ormai decimato i tedeschi avevano fatto affiggere un decreto di "amnistia", steso nel loro gergo cinicamente eufemistico: le "Umsiedlungen", i trasferimenti forzati (li chiamavano trasferimenti!) erano sospesi a tempo indeterminato; gli ebrei che si nascondevano nella zona, e in specie gli artigiani, erano invitati a rientrare nel ghetto, non sarebbero stati puniti per la loro fuga ed avrebbero ricevuto le carte annonarie. Che Dov, in vista dell' inverno, si regolasse nel modo che riteneva più saggio. In secondo luogo, Gedale invitava Dov a una partita di caccia. Una caccia ai cacciatori: era un' occasione unica. Il conte Daraganov, già grande proprietario terriero, era tornato sulle sue terre al seguito dei tedeschi, e offriva loro una partita di caccia nella sua tenuta sulle sponde del lago Cervonoe, a un giorno di cammino da Novoselki. Ci sarebbe stata una dozzina di alti ufficiali della Wehrmacht; la notizia era certa, veniva da un ucraino che collaborava coi partigiani e che era stato scelto come battitore. La banda a cui Gedale temporaneamente apparteneva era forte e bene organizzata, composta per buona parte da volontari dell' inverno 1941, cioè dall' aristocrazia partigiana sovietica. Gedale pensava che una partecipazione ebraica alla caccia sarebbe stata gradita, opportuna, e forse anche ricompensata con armi od altro. Sul primo punto, Dov si riserbò di decidere più tardi; sul secondo, la sua scelta fu immediata. Era importante dimostrare ai russi che anche gli ebrei sapevano combattere e lo desideravano. Mendel si offerse come volontario: era soldato, sapeva sparare. Dov ci pensò su per qualche istante; no, né Mendel né Leonid, proprio perché erano combattenti esercitati. L' azione proposta da Gedale era importante sotto l' aspetto della propaganda, era una beffa, ma militarmente non significava molto ed era pericolosa. La logica partigiana era spietata, prescriveva che gli uomini migliori venissero tenuti da parte per le operazioni serie, per le divisioni, l' offesa e la difesa. Avrebbe mandato Ber e Vadim, due nebech, due sprovveduti: proprio perché erano sprovveduti. _ Pensi che io abbia le mani sporche? Le ho; come tutti quelli che devono scegliere. Ber, il ragazzo occhialuto che era di turno con Leonid, e Vadim, partirono baldanzosi; Vadim, un giovane imprudente, loquace e distratto, addirittura con allegra fierezza: _ Bucheremo quelle pance coperte di medaglie! _ Non avevano con sé che una pistola e due granate a mano ciascuno. Ritornò Vadim da solo, dopo due giorni, terreo e sfinito, con una spalla trapassata, a raccontare l' impresa. Non era stato un gioco, era stato un macello, una confusione. Sparavano tutti contro tutti, fischiavano proiettili da tutte le direzioni. Avevano cominciato i partigiani russi, erano bene appostati fra i cespugli; con una salva sola avevano ucciso quattro degli ufficiali tedeschi, non sapeva se colonnelli o generali. Poi aveva visto gli ausiliari ucraini venire allo scoperto, sparavano contro i partigiani, sparavano per aria, e si sparavano anche fra loro; uno di loro, davanti ai suoi occhi, aveva abbattuto un ufficiale tedesco col calcio del fucile. Ber era morto subito, ucciso chissà da chi, forse per caso: era in piedi, si guardava intorno; non aveva la vista tanto buona. Lui Vadim aveva gettato le sue granate contro il gruppo dei tedeschi, che invece di sparpagliarsi si erano riuniti e facevano quadrato; una era esplosa e l' altra no. Dov mandò Vadim a riposare, ma il giovane non riposò. Aveva violenti attacchi di tosse e sputava una schiuma sanguigna. Nella notte gli venne la febbre e perse coscienza; al mattino era morto. Morto perché? Aveva ventidue anni, disse Mendel a Dov, e non riuscì ad evitare una vibrazione di rimprovero. _ Non è detto che non invidieremo questo modo di morire, _ rispose Dov. Vadim fu sepolto ai piedi di un ontano, in mezzo ad un' improvvisa tempesta di neve. Sulla sua tomba Dov fece piantare una croce, perché Vadim era un ebreo convertito; e poiché nessuno conosceva le preghiere ortodosse, lui stesso recitò il Kaddìsch. _ È meglio che niente, _ disse a Mendel. _ Non è per il morto, ma per i vivi che ci credono _. Il cielo era talmente scuro che la neve, sia a terra, sia quella che turbinava nell' aria, appariva grigia. Dov mandò un messaggero a Rovnoe, che cercasse di Gedale e della sua banda e chiedesse immediatamente rinforzi, ma il messaggero tornò senza risposta. Non aveva trovato nessuno, e invece aveva visto i contadini di Rovnoe, uomini e donne, sulla piazza con le mani legate. Aveva visto un drappello di SS con le armi puntate, che li facevano salire su un carro. Aveva visto uomini della milizia ausiliaria, ucraini o lituani, che prendevano bracciate di pale da una baracca e le caricavano sul carro, e aveva visto il carro avviarsi verso il vallone a sud del paese, seguito dalle SS che scherzavano e fumavano. Ecco quello che aveva da raccontare. Non c' era anima a Novoselki, e in tutte le terre occupate, che ignorasse il significato delle pale. Dov disse a Mendel che si era pentito di aver mandato Ber allo sbaraglio: _ Se il colpo fosse andato bene, con una vittoria netta, io avrei avuto ragione di arrischiare due uomini. Invece è andato piuttosto male, e adesso io ho torto. Ber, anche da morto, è un ebreo: se ne accorgerebbe chiunque. Ho fatto male a scegliere lui. Del suo cadavere si occuperà certamente la Gestapo. La nostra partecipazione alla caccia ci ha forse rivalutati presso i russi di Gedale, ma tirerà addosso anche a noi la rappresaglia dei tedeschi. La fuga di Karlis, le pale di Rovnoe, Ber: sono tre segnali minacciosi. I tedeschi non tarderanno a localizzarci. Il miracolo della nostra impunità è finito. Così dovevano aver pensato anche gli anziani del campo, a cui Dov aveva detto dell' "amnistia" promessa dai tedeschi. Volevano tornare a Soligorsk: chiesero di andarsene, di essere riaccompagnati al ghetto. Preferivano aggrapparsi alle promesse dei nazisti piuttosto che affrontare la neve e la morte certa a Novoselki. Erano artigiani, al ghetto avrebbero lavorato, e a Soligorsk c' erano le loro case, e accanto alle case il cimitero. Preferivano la servitù e il pane scarso del nemico: come dargli torto? Tornò a mente a Mendel una voce terribile di tremila anni prima, la protesta che avevano rivolta a Mosè gli ebrei incalzati dai carri del Faraone: _ Mancavano dunque le tombe in Egitto perché tu ci conducessi a morire qui? Servire gli Egizi era per noi sorte migliore che morire nel deserto _. Il Signore nostro Dio, il Padrone del Mondo, aveva diviso le acque del Mar Rosso, e i carri erano stati travolti. Chi avrebbe diviso le acque davanti agli ebrei di Novoselki? Chi li avrebbe sfamati con le quaglie e la manna? Dal cielo nero non scendeva manna, ma neve spietata. Che ognuno si scegliesse il proprio destino. Dov fece allestire tre slitte per portare a Soligorsk i ventisette cittadini che non avevano compiti militari e che avevano scelto la via del ghetto; vi erano compresi tutti i bambini, mentre Adam aveva preferito restare. I muli, quelli portati dagli uomini di Ozarici, erano solo due: uno dovette trainare due slitte. Partirono muti, senza scambiare addii, imbacuccati in stracci, paglia e coperte, obbedendo alla povera speranza di qualche settimana di vita concessa in più. In questo modo, subito nascosti alla vista dal sipario della neve, essi spariscono da questa storia. Dov fece scavare tre bunker, o meglio tre tane nella terra nuda, che nonostante il freddo non era ancora gelata. Erano a duecento metri circa dal monastero, nella direzione da cui prevedeva che sarebbero arrivati i tedeschi, che avevano stabilito una guarnigione a Rovnoe semidistrutta; ogni tana poteva contenere due uomini, ed era mascherata da sterpi che si coprirono rapidamente di neve. _ Le pale servono anche a noi, _ disse, e mandò un' altra squadra a scavare una buca quadrata, profonda due metri, attraverso la pista più grande che da Rovnoe conduceva al monastero. La fece coprire con tavole di legno leggero, e su queste fece mettere sterpi fino al livello della neve sul terreno circostante: dopo una notte di nevicata continua il dislivello si notava appena. Sulla pista, e sulla trappola così preparata, fece passare a più riprese due uomini che si trascinavano dietro due pale appesantite con sassi, in modo da simulare due carreggiate recenti. Distribuì armi a tutti, e fece piazzare la mitragliatrice pesante sulla torretta sana. I cacciatori di uomini arrivarono due giorni dopo. Erano più di cinquanta, qualcuno doveva aver sopravvalutato le forze dei difensori. Si udì lo strepito dei cingoli prima che qualcosa si vedesse attraverso il velo della neve, che continuava a cadere fitta. Un cingolato leggero apriva la colonna, seguendo la pista che Dov aveva predisposta: avanzava lento, giunse alla trappola, oscillò sull' orlo e vi cadde, sfondando le tegole che crepitarono. Dov salì sulla torretta, dove Mendel stava pronto con la mitragliatrice. Lo trattenne: _ Risparmia colpi, spara solo se vedi qualcuno che tenta di uscire dalla buca _. Ma nessuno uscì, forse il veicolo si era capovolto. Dietro al cingolato leggero ne veniva un altro pesante, e dietro a questo gli uomini appiedati, a ventaglio, sulla pista e fra gli alberi. Il cingolato pesante aggirò la buca e aprì il fuoco; allo stesso istante anche Mendel cominciò a sparare a brevi raffiche, in preda alla febbre delle battaglie. Vide cadere alcuni tedeschi, e insieme udì sotto di sé due esplosioni violente: due razzi anticarro avevano colpito il tetto del monastero, che crollò e prese fuoco. Altri colpi sfondarono in più punti le mura dell' edificio. In mezzo al fumo e al fracasso Dov gli urlò nelle orecchie: _ Spara tutto, adesso. Senza risparmio. Stiamo combattendo per tre righe nei libri di storia _. Anche Dov sparava verso il basso, con uno dei moschetti italiani. Ad un tratto Mendel lo vide barcollare; cadde all' indietro, ma si rialzò subito dopo. Insieme, udì altri spari di arma leggera provenire dai bunker: obbedendo all' ordine di Dov, i combattenti dei bunker stavano prendendo i tedeschi da tergo. Colti di sorpresa, i tedeschi si scompaginarono, volgendo le spalle al monastero: Mendel si precipitò con Dov giù per le scale, in mezzo alle macerie e alle fiamme. Vide gente muoversi, e gridò loro di seguirlo; uscirono all' aperto sul lato opposto del fabbricato e furono fra gli alberi: "al sicuro", pensò assurdamente. Dall' altro lato il combattimento era ripreso. Udirono schianti di granate e comandi urlati da un altoparlante, videro uomini e donne uscire dalle brecce con le mani alzate. Videro i cacciatori di uomini che li perquisivano ridendo, li interrogavano e li allineavano contro il muro; ma quanto avvenne nel cortile del monastero di Novoselki non verrà narrato. Non è per descrivere stragi che questa storia sta raccontando se stessa. Si contarono. Erano undici: Mendel stesso, Dov, Leonid, Line, Pavel, Adam, un' altra donna di cui Mendel non conosceva il nome, e quattro degli uomini di Ozarici. Adam si stava dissanguando per una ferita all' alto della coscia, talmente in alto che non fu possibile legarlo; si distese sulla neve e morì in silenzio. Dov non era ferito, ma solo stordito. Aveva una contusione alla tempia, forse un proiettile di rimbalzo o un sasso scagliato dalle esplosioni. I tedeschi si attardarono fino a notte a far saltare quanto restava del monastero; non seguirono le piste dei fuggiaschi, che la neve aveva già confuse, e se ne andarono portandosi dietro i loro morti e la mitragliatrice.

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È nello zaino che mi porto dietro, è nel Heinkel abbattuto, è a Novoselki, è nel campo di Turov e in quello di Edek, è di là dal mare, nel paese delle fiabe, dove scorre il latte e il miele. Uno entra in una casa e appende gli abiti e i ricordi; dove appendi i tuoi ricordi, Mendel figlio di Nachman? Ad uno ad uno si svegliarono tutti, e tutti facevano domande ma nessuno sapeva rispondere. Il fronte era passato, non c' era dubbio; che fare adesso? Aspettare ancora, come raccomandava Schmulek? Uscire incontro ai russi? Uscire a cercare cibo? Mandare qualcuno in avanscoperta? Dov si offrì di andare ad esplorare la situazione: aveva le carte in regola, parlava russo, aveva addosso l' uniforme russa, un documento russo, era russo infine, più regolare di Piotr. Si avviò per il cunicolo ma subito tornò indietro: bisognava aspettare, qualcuno stava calando un secchio nel pozzo. Il secchio risalì pieno, Dov poté uscire, e si trovò in mezzo ad un plotone di soldati che, nudi fino alla cintura, si stavano lavando gioiosamente nell' acqua che avevano raccolta in un abbeveratoio. Sul terreno c' era un palmo di neve, scalpicciata e mezza sciolta dagli incendi della notte. Poco lontano altri soldati avevano acceso un fuoco e vi facevano asciugare gli abiti. Accolsero Dov con indifferenza bonaria: _ Ehi, zio! Da dove spunti? Di che reggimento sei? _ Per poco non ti tiravamo su dentro il secchio! _ Ve lo dico io, da dove viene: ha preso una sbornia e ci è caduto dentro. _ O ce lo hanno buttato. Di' , zio: sono stati i tedeschi a buttarti nel pozzo? o ci sei sceso tu per metterti al riparo? _ In questo paese si vedono delle cose strane, _ disse pensieroso un soldato mongolo. _ Ieri, in mezzo alla battaglia, ho visto una lepre: invece di scappare stava lì come incantata. E il giorno prima ho visto una bella ragazza in una botte .... _ Che cosa faceva nella botte? _ Niente. Stava lì nascosta. _ E tu che cosa hai fatto? _ Niente. Le ho detto "Buon mattino, panienka, mi scusi il disturbo", e ho richiuso il coperchio. _ O sei bugiardo o sei stupido, Afanasij; una lepre si fa arrosto, e con una ragazza si fa all' amore. _ Insomma, volevo solo dire che questo è un paese strano. Ieri la lepre, ieri l' altro la ragazza, e adesso salta fuori dal pozzo un soldato con i capelli bianchi. Vieni qui, soldato: se non sei un fantasma prendi un po' di vodka, e se sei un fantasma torna da dove sei venuto. Si avvicinò a Dov il caporale del plotone, lo palpò e disse: _ Ma tu non sei neppure bagnato! _ Nel pozzo c' è un' apertura, _ disse Dov; _ adesso ti spiego. Il caporale disse: _ Vieni con me al Comando: spiegherai tutto laggiù. Mezz' ora dopo Dov e il caporale ritornarono accompagnati da un tenente che portava al braccio la fascia dell' NKVD; al vederlo, i soldati interruppero le loro chiacchiere e ripresero a lavarsi. Il tenente disse a Dov di ridiscendere nel pozzo e di fare uscire tutti quelli che stavano nascosti. Vennero fuori uno per uno, nella luce bianca del cielo che minacciava altra neve, fra lo stupore silenzioso dei russi. Il tenente ordinò a due soldati di rivestirsi e prendere le armi, e fece scortare il drappello lungo il cammino inverso di quello che avevano percorso nella notte sotto la guida di Schmulek; li riportò cioè alle baracche del campo polacco. Qui trovarono Edek con Marian e quasi tutti i loro uomini; c' era anche Gedale con i gedalisti che non avevano seguito Schmulek. Sia i polacchi, sia gli ebrei erano stati disarmati, e la baracca dove essi erano rinchiusi era sorvegliata da due sentinelle russe. Per tutto il giorno non avvenne nulla. A mezzogiorno vennero due soldati e portarono pane e salsiccia per tutti; a sera arrivò una marmitta con zuppa calda di miglio e carne. I prigionieri erano più di cento, e nella baracca stavano stretti, protestarono con le sentinelle, venne il caporale e li divise in due gruppi, uno per baracca, per il che dovette raddoppiare la sorveglianza. Né il caporale né i soldati erano ostili; alcuni sembravano incuriositi, altri seccati, altri ancora avevano l' aria di volersi scusare. I polacchi erano inquieti, ed umiliati per aver dovuto consegnare le armi. _ Coraggio, Edek, _ disse Gedale. _ Il peggio è passato. Per male che vada, questi non ci tratteranno come facevano i tedeschi. Lo hai visto, con loro si ragiona _. Edek non rispose. Al mattino arrivò un bidone di surrogato di caffè, e poco dopo venne il tenente, accompagnato da uno scrivano. Sembrava di cattivo umore ed aveva fretta. Trascrisse i dati personali di tutti su un quadernetto da scolaro, e a tutti fece mostrare le mani, il palmo e il dorso, esaminandole con attenzione. Quando ebbe finito, ripartì i reclusi in tre gruppi. Il primo gruppo era costituito dalla maggior parte dei polacchi. _ Voi siete soldati, e continuerete ad essere soldati. Riceverete divise ed armi, e sarete inquadrati nell' Armata Rossa _. Ci furono commenti, mormorii, qualche protesta; le sentinelle abbassarono le canne dei mitra, e le proteste si spensero. _ Voi ci sarete utili in altro modo, _ disse rivolto al secondo gruppo. Questo era assai smilzo: ne faceva parte Edek con una mezza dozzina di ex studenti ed impiegati. _ Io sono il comandante di questo plotone, _ disse Edek pallido come la neve. _ Non c' è più plotone e non c' è più comandante, _ disse il tenente. _ L' Armia Krajowa è stata disciolta. _ Disciolta da chi? Disciolta da voi! _ No, no. Si è disciolta da sola, non aveva più ragione di esistere. La Polonia la stiamo liberando noi. Non avete sentito la radio? No, non la nostra, Radio Londra: sono tre giorni che trasmette un messaggio del vostro comandante. Vi saluta, vi ringrazia, e vi dice che la vostra guerra è finita. _ Dove ci manderete? _ chiese ancora Edek. _ Non lo so, e non mi riguarda. Io ho solo ordine di mandarvi al comando di zona; lì avrete tutte le informazioni che desiderate. Il terzo gruppo era costituito dai gedalisti più Schmulek, ossia da tutti gli ebrei più Piotr. Mendel non aveva notato prima, e notò allora, che Piotr aveva deposto la sua logora divisa di partigiano, quella che gli aveva vista indosso fin dal campo di Turov. Era alto e snello come Gedale, e indossava i panni borghesi che Gedale aveva sfoderati dopo il colpo di Sarny. _ Quanto a voi altri, _ disse il tenente, _ per ora non ci sono ordini. Civili non siete, militari neppure, non siete prigionieri di guerra, siete uomini e donne e non avete documenti. _ Compagno tenente, noi siamo partigiani, _ disse Gedale. _ I partigiani sono quelli che fanno parte dei reparti partigiani. Di partigiani ebrei nessuno ha mai sentito parlare, è una voce nuova. Voi non fate parte di nessuna categoria. Per adesso restate qui: ho chiesto istruzioni. Avrete il trattamento che spetta ai nostri soldati. Poi si vedrà. La banda di Gedale, ritornata dopo più di tre mesi allo stato puro originario, conobbe giorni d' inerzia e di sospetto. Verso la fine di gennaio, dalla finestrella della baracca videro partire i polacchi del secondo gruppo in mezzo alla neve che cadeva fitta. Per l' occasione, il tenente aveva fatto sbarrare le porte; dovettero accontentarsi di salutare Edek attraverso i vetri. Salito sull' autocarro, Edek agitò la mano verso di loro; l' autocarro partì con un sobbalzo, e Sissl scoppiò a piangere. A differenza dagli altri, Dov, Mendel, Arié e Piotr avevano appartenuto all' Armata Rossa, e non avrebbero avuto difficoltà a chiarire la loro posizione. Piotr non ebbe dubbi: _ Non hanno fatto distinzioni, e per me va bene così. È chiaro che all' NKVD in questo momento interessano solo i polacchi: Stalin non vuole partigiani polacchi fra i piedi. _ Ti hanno preso per un ebreo! _ disse Gedale divertito. _ Del resto, te lo sei meritato. _ Non lo so. Il tenente mi ha fatto due o tre domande, ha visto che rispondevo in russo e si è accontentato. _ Hm, _ disse Gedale, _ secondo me la tua faccenda non è ancora conclusa. _ Per me è conclusa, _ rispose Piotr. _ Io resto con voi. Neppure Dov ebbe dubbi, ma nel senso opposto. La sua decisione non era cambiata, anzi, era stata rafforzata dalle avventure più recenti; era stanco di combattere e di vagabondare, stanco di incertezze e di vita precaria, voleva tornare a casa, lui che una casa ce l' aveva. Una casa lontana, non toccata dalla guerra, in un paese che la distanza nel tempo e nello spazio aveva reso fiabesco: il paese delle tigri e degli orsi, dove tutti erano come lui, ostinati e semplici. In quel paese, che Dov non si saziava di descrivere, il cielo invernale era viola e verde: vi tremolavano le aurore boreali, e ne era scaturita quando lui era bambino la cometa terribile. Mutoraj, con i suoi quattromila abitanti confinati, nichilisti e samoiedi, era un paese unico al mondo. Dov se ne andò in silenzio, triste senza disperazione. Si mise a rapporto con l' intendenza russa, dichiarò la sua posizione militare e i suoi trascorsi, a loro richiesta stese in bella scrittura una relazione sulle circostanze in cui era stato prelevato da Turov, curato all' ospedale di Kiev e riportato in zona partigiana, ed attese. Dopo due settimane prese congedo da tutti, ed uscì decorosamente di scena. Quanto a Mendel ed Arié, sotto questo aspetto non si posero problemi, né alcun problema gli fu posto dai russi. Il fronte si era rapidamente allontanato verso ponente; il tenente dell' NKVD non si fece più vedere, e la sorveglianza intorno alle baracche si fece sempre più rilassata fino a sparire del tutto. La banda di Gedale, al completo, venne trasferita ai primi di febbraio in una scuola, nella cittadina di Wolbrom poco lontana, e qui abbandonata a se stessa: il presidio russo, che del resto era costituito soltanto da un vecchio capitano e da pochi soldati, non si curava di loro, se non per portare i rifornimenti prelevati dai magazzini militari: patate, rape, orzo, carne, sale. Il pane arrivava già pronto da un forno requisito, ma le operazioni di cucina dovevano essere svolte sul posto, e attrezzi nella scuola non ce n' erano né i russi ne avevano forniti. Gedale ne fece regolare richiesta, il capitano promise, e non arrivò niente. _ Andiamo in città e ce li procuriamo, _ disse Gedale. L' impresa si rivelò più facile del previsto. La cittadina era deserta e sinistra; doveva essere stata bombardata, e poi saccheggiata più volte, ma sempre con fretta. Nelle case smozzicate, nelle cantine, nei solai, nei rifugi antiaerei, si trovava di tutto. Non solo le marmitte, ma sedie, coperte imbottite, materassi, mobili di ogni tipo. Altri mobili arrivavano ogni giorno sul mercato che si era spontaneamente costituito sulla piazza principale. Cumuli di mobilio mezzo sfasciato venivano venduti come legna da ardere: l' offerta era grande e la quotazione bassa. In breve tempo la scuola venne trasformata in un ricovero abitabile, seppure poco accogliente; ma fornelli non ce n' erano, né nei locali né nelle vicinanze, e la zuppa doveva essere cotta su fuochi all' aperto, nel cortile, accanto alla pista di sabbia per il salto in lungo. In compenso, in una delle aule i gedalisti eressero un maestoso letto matrimoniale per Ròkhele Bianca e Isidor, sormontato da un baldacchino che avevano ricavato da coperte militari. Il capitano russo era un uomo malinconico e stanco. Gedale e Mendel andarono più volte a parlargli, per avere da lui qualche informazione sulle intenzioni delle autorità russe nei loro riguardi. Fu gentile, distratto ed elusivo; lui non sapeva nulla, nessuno sapeva nulla, la guerra non era finita, bisognava aspettare la fine della guerra. In guerra lui aveva perso due figli, e di sua moglie a Leningrado non aveva più notizie. Avevano da mangiare e da scaldarsi: aspettassero, come tutti aspettavano. Anche lui aspettava. Forse la guerra non sarebbe finita così presto; nessuno poteva saperlo, forse sarebbe continuata, chi sa? Contro il Giappone, contro l' America. Un permesso per andarsene? Lui non poteva dare permessi, era un' altra amministrazione; e del resto andarsene dove? Verso dove? C' erano in giro bande di ribelli polacchi e tedeschi, bande di briganti; su tutte le strade i sovietici avevano stabilito posti di blocco. Che non tentassero di uscire dalla città: non sarebbero andati molto lontano, i posti di blocco avevano ordine di sparare a vista. Lui stesso evitava di spostarsi, se non per obblighi di servizio; era già successo che i soldati sovietici si sparassero fra loro. Ma Gedale sopportava male la clausura. A lui, e non solo a lui, quel modo di vivere sembrava vuoto, umiliante e ridicolo. Uomini e donne svolgevano a turno le operazioni di cucina e di pulizia, e rimanevano valanghe di tempo libero; paradossalmente, con una città intorno, un tetto sul capo e una tavola attorno a cui mangiare, provavano un disagio indefinito, che era la nostalgia per la foresta e per la libera strada. Si sentivano inetti, stranieri: non più in guerra, non ancora in pace. A dispetto delle raccomandazioni del capitano, uscivano spesso, a piccoli gruppi. A Wolbrom la guerra era finita, ma continuava accanita non molto lontano. Attraverso la cittadina, e sulla strada di circonvallazione in terra battuta, passavano senza sosta, di giorno e di notte, i reparti militari sovietici diretti al fronte slesiano. Di giorno, piuttosto che un esercito moderno sembrava che passasse un' orda, una migrazione: uomini di tutte le razze, giganti vichinghi e lapponi atticciati, caucasici abbronzati e siberiani pallidi, a piedi, a cavallo, su autocarri, su trattori, su grandi carri trainati da buoi, alcuni perfino a dorso di cammello. C' erano militari e borghesi, donne vestite in tutti i modi possibili, vacche, pecore, cavalli e muli: a sera, le squadre si fermavano dove si trovavano, piantavano le tende, macellavano le bestie e arrostivano la carne su fuochi improvvisati. Questi bivacchi estemporanei brulicavano di bambini, infagottati in panni militari fuori misura; alcuni portavano pistole e coltelli alla cintura, tutti avevano la stella rossa appuntata sull' enorme berretto di pelliccia. Chi erano? Da dove venivano? Mendel e i suoi compagni si soffermarono a interrogarli: parlavano russo, ucraino, polacco, alcuni anche jiddisch, altri rifiutavano di parlare. Erano restii e selvaggi, erano orfani di guerra. L' Armata Rossa, nella sua avanzata attraverso paesi devastati, ne aveva rastrellati a migliaia, tra le macerie delle città, sperduti per i campi e i boschi, affamati e raminghi. I sovietici non avevano tempo di sistemarli nelle retrovie né mezzi per trasferirli più lontano: se li trascinavano dietro, figli di tutti, soldati anche loro, anche loro in cerca di preda. Si aggiravano intorno ai fuochi; alcuni militari davano loro pane, zuppa e carne, altri li cacciavano via infastiditi. Sorprendentemente diverse erano le truppe che attraversavano la città nelle ore buie. Mendel, che conservava il ricordo bruciante dei reparti accerchiati e fatti a pezzi nelle grandi battaglie di annientamento del '41 e del '42, stentava a credere ai suoi occhi. Ecco, era quella la nuova Armata Rossa che aveva spezzato la schiena della Germania; un' altra, irriconoscibile. Una macchina poderosa, ordinata, moderna, che sfilava quasi senza rumore per la via principale della città oscurata. Carri armati giganteschi montati su rimorchi dalle ruote gommate; cannoni semoventi mai visti né sognati prima; le Katijuse leggendarie, coperte da teli che ne nascondevano le fattezze. Frammiste alle artiglierie ed ai reparti corazzati marciavano anche squadre appiedate, in ordine chiuso, cantando. I loro non erano canti bellicosi, anzi melanconici e sommessi; non esprimevano sete di guerra, come quelli dei tedeschi, bensì il lutto accumulato in quattro anni di strage. Mendel, l' artigliere Mendel, assisteva al passaggio con l' animo scosso. Nonostante tutto, nonostante la sconfitta disastrosa e colpevole che lo aveva costretto alla macchia, nonostante il disprezzo e i torti che in altri tempi aveva subiti, nonostante Ulybin, era pure quello l' esercito di cui lui ancora portava addosso l' uniforme logora e stinta. Un "krasnoarmeetz": tale era ancora, anche se ebreo, anche se in cammino verso un altro paese. Quei soldati che passavano cantando, miti in pace e indomabili in guerra, quei soldati fatti come Piotr, erano i suoi compagni. Sentiva il suo petto sollevarsi per una piena di affetti che facevano lite: fierezza, rimorso, risentimento, reverenza, gratitudine. Ma un giorno udì gemiti uscire da una cantina; vi discese con Piotr, e vide dieci militi della Waffen-SS coricati sul ventre e seminudi: alcuni si trascinavano a forza di braccia, tutti avevano un taglio sanguinante a metà della schiena. _ I siberiani fanno così, _ disse Piotr, _ quando li trovano non li uccidono, ma gli tagliano il midollo _. Risalirono in strada, e Piotr aggiunse: _ Non vorrei essere un tedesco. Eh no, nei prossimi mesi non vorrei proprio essere un berlinese. Un mattino si svegliarono e trovarono, tracciata a catrame sulla facciata della scuola, una croce uncinata; sotto stava scritto: "NSZ _ Morte agli ebrei bolscevichi". Poco dopo, dalla finestra del primo piano, videro in strada tre o quattro giovani che parlavano fra loro e guardavano in su. La sera stessa, mentre erano seduti a mangiare, il vetro della finestra volò in schegge, e tra le gambe del tavolo piombò una bottiglia a cui era legata una miccia accesa. Il più pronto fu Piotr: in un lampo acchiappò la bottiglia, che non si era rotta, e la ributtò in strada. Ci fu un tonfo, e sul selciato si formò una pozza accesa che bruciò a lungo; la fiamma fumosa arrivava fino alla loro finestra. Gedale disse: _ Bisogna trovare armi e andare via. Anche trovare armi fu più facile di quanto si erano aspettato: vi provvidero, per vie diverse, Schmulek e Pavel. Nella sua tana c' erano armi, disse Schmulek: non molte ma ben conservate, sepolte sotto la terra battuta. Chiese a Gedale un accompagnatore, partì al tramonto e tornò all' alba con diverse pistole, bombe a mano, munizioni e un mitra. Dopo la morte di Jòzek, Pavel gli era subentrato nella funzione di furiere, e riferì che comperare armi al mercato era più facile che comperare il burro e il tabacco. Ne offrivano tutti, alla luce del sole; i russi stessi, sia i militari di passaggio, sia i civili che seguivano le truppe, vendevano armi leggere tedesche trovate nei depositi o sui campi di battaglia; altro materiale lo offrivano con disinvoltura i polacchi della milizia che i russi avevano frettolosamente messa in piedi. Molti di questi, appena arruolati, disertavano con le armi e raggiungevano bande che si preparavano alla guerriglia; altri vendevano o barattavano le armi al mercato. In pochi giorni i gedalisti si trovarono in possesso di parecchi coltelli e di una dozzina di bocche da fuoco scompagnate; non era molto, ma poteva bastare per tenere lontani i terroristi della destra polacca. A fine febbraio il capitano russo chiamò Gedale a rapporto, e lo tenne a parlare per più di un' ora. _ Mi ha offerto da fumare e da bere, _ riferì Gedale ai compagni. _ Non è così distratto come sembra, e secondo me ha ricevuto un' imbeccata. Ha saputo della bottiglia Molotov, dice che sono tempi difficili e che è preoccupato per noi. Che loro non sono in grado di garantire la nostra sicurezza, e che faremmo bene a proteggerci da soli: in altre parole, si è accorto delle armi e gli sta bene che noi le abbiamo. È naturale, l' NSZ gli deve piacere come a noi. Ha ripetuto che questo è un brutto posto; me lo aveva già detto l' altra volta, ma allora diceva che uscire di città era pericoloso, e invece oggi mi ha chiesto perché restiamo qui. "Potreste andare più avanti, ormai il fronte è lontano: più avanti, incontro agli alleati ...." Io gli ho detto che vorremmo andare in Italia, e di lì cercheremmo di passare in Palestina, e lui ha detto che facciamo bene, l' Inghilterra dalla Palestina se ne deve andare, e così pure dall' Egitto e dall' India: gli imperi coloniali hanno le ore contate. E in Palestina dobbiamo andarci noi, a costruire il nostro stato. Mi ha detto che lui ha molti amici ebrei, e che ha perfino letto il libro di Herzl: ma questo credo che non sia vero, oppure lo ha letto male, perché mi ha detto che in fondo anche Herzl era un russo, mentre invece era ungherese; io però non l' ho contraddetto. In breve: il capitano è uno che la sa lunga; ai russi fa comodo che noi andiamo a dare fastidi agli inglesi; e per noi è ora di partire. Ma niente permessi ufficiali: su questo argomento ha fatto subito macchina indietro. _ Ce ne andremo senza permessi, _ disse Line alzando le spalle. _ Quando mai abbiamo avuto permessi? Si udì la voce nasale di Bella: _ Quelli dell' NSZ sono dei fascisti e dei vigliacchi, ma c' è un punto su cui noi andiamo d' accordo con loro e con i russi: loro ci vogliono mandare via, e noi ce ne vogliamo andare. Pavel aveva preso l' abitudine di uscire dalla scuola di buon mattino e di non farsi più vedere fino a sera. Nel giro di pochi giorni l' atmosfera di Wolbrom era cambiata: adesso, sul flusso delle truppe dirette in Germania prevaleva il flusso inverso, di soldati che tornavano dal fronte. Alcuni andavano in licenza, ma per la maggior parte erano militari feriti o mutilati, appoggiati su stampelle di fortuna, seduti sui mucchi di calcinacci che fiancheggiavano le vie, con pallidi visi imberbi da adolescenti. Dai suoi giri di esplorazione Pavel non rientrava mai a mani vuote: sul mercato nero si trovava ormai di tutto. Portò caffè, latte in polvere, sapone e lamette da barba, polvere per budini, vitamine, tesori che i gedalisti non vedevano da sei anni o non avevano mai conosciuto prima. Un giorno si portò dietro uno spilungone dai capelli color sabbia, che non parlava né russo né polacco né tedesco, e solo qualche parola di jiddisch: lo aveva trovato sulle macerie della sinagoga di Wolbrom che recitava le preghiere del mattino, era un soldato ebreo di Chicago che i tedeschi avevano fatto prigioniero in Normandia e che l' Armata Rossa aveva liberato. Fecero festa insieme, ma l' americano non era bravo ad esprimersi ed ancora meno a bere; dopo il primo giro di vodka finì sotto il tavolo, dormì fino al mezzogiorno seguente, e poi se ne andò senza salutare nessuno. Per le strade vagabondavano ex prigionieri di tutti i paesi e di tutte le razze, e nugoli di prostitute. Il 25 di febbraio Pavel rincasò con cinque paia di calze di seta, e ne nacque un gran brusio eccitato: le donne si affrettarono a provarle, ma erano di misura tollerabilmente giusta solo per Sissl e per Ròkhele Nera; per l' altra Ròkhele, Line e Bella erano troppo grandi. Pavel fece tacere il brusio: _ Niente, non ha importanza, domani le cambio o ne porto delle altre. Ho altro da dirvi, ho trovato un camion! _ Lo hai comperato? _ chiese Isidor. No, non lo aveva comperato. Venne fuori che dietro alla stazione ferroviaria i russi avevano costituito un campo di rottami e di materiale smobilitato, e che qui si poteva trovare di tutto. Pavel non era pratico, bisognava che l' indomani stesso qualcuno andasse sul posto con lui. Chi era pratico di camion? Chi li sapeva guidare? La banda aveva fatto a piedi più di mille chilometri: non era forse ora di viaggiare in camion? _ Bisognerà pure pagarlo, _ disse Mottel. _ Non credo, _ disse Pavel. _ Il campo non è recintato, intorno non c' è che un fosso, e di sentinelle ce n' è una sola. L' importante è sbrigarsi: c' è già una quantità di gente che va e viene, proprio stamattina ho visto due ragazzi che si portavano via una motocicletta. Chi viene con me domani mattina? Avrebbero voluto andare tutti, se non altro per il diversivo. Line ed Arié fecero sapere che avevano guidato trattori; Piotr e Mendel avevano la patente militare, ed in più Mendel al suo paese aveva avuto occasione di riparare trattori ed autocarri. Gedale, con inconsueto abuso di autorità, disse che sarebbe andato lui perché era il capobanda, ma il più insistente era Isidor, che non poteva vantare alcun titolo. Voleva a tutti i costi andare con Pavel: per le macchine, per tutte le macchine, aveva una passione disinteressata ed infantile, e diceva che il camion avrebbe imparato a guidarlo in un momento. Andò Mendel, e vide che Pavel non aveva esagerato: nel campo rottami c' era veramente di tutto, non solo rottami. I russi, riforniti dagli Alleati di materiale militare di tutti i generi, non andavano per il sottile: non appena un' apparecchiatura o un veicolo davano qualche fastidio, lo scartavano e ne prelevavano uno nuovo. Altro materiale danneggiato arrivava giorno per giorno dalla zona di combattimento, su autocarri o per ferrovia; nessuno lo esaminava o controllava, veniva scaraventato nel campo e restava lì ad arrugginire. Nel lugubre cimitero metallico si aggiravano curiosi, esperti, e torme di ragazzini che giocavano a rimpiattino. I camion c' erano: di tutte le marche e in tutti gli stati di conservazione. L' attenzione di Mendel si appuntò su una fila di camion italiani; erano Lancia 3 Ro da trenta quintali, e sembravano nuovi: forse venivano da qualche deposito tedesco. Mentre Pavel cercava di distrarre la sentinella, offrendole tabacco e gomma da masticare, Mendel esaminò i veicoli più da vicino. Avevano addirittura ancora la chiave nel cruscotto e sembravano pronti a partire; Mendel provò a dare il contatto, ma non accadde nulla. Fu presto capito: i camion non avevano batteria, e non l' avevano mai avuta; i capicorda dell' impianto elettrico erano ancora coperti di grasso. Quando Pavel tornò, Mendel gli disse: _ Ritorna dal tuo uomo e tienilo occupato. Io vado a vedere se trovo in giro una batteria carica. _ Ma che cosa gli racconto? _ Arrangiati. Raccontagli di quando facevi l' attore. Mentre Pavel sforzava la sua memoria e la sua fantasia per intrattenere la sentinella senza insospettirla, Mendel prese ad esplorare metodicamente gli altri veicoli. Presto trovò quanto cercava, un autocarro russo della stessa portata dei Lancia, in condizioni relativamente buone: doveva essere arrivato da poco. Aprì il cofano e toccò i poli della batteria con la lama del coltello. Ci fu uno schiocco ed un lampo azzurro, la batteria era carica. Rientrò con Pavel alla scuola, le ore passavano lente, sembrava che la notte non venisse mai. Quando fu buio, presero le armi e tornarono al campo rottami. Della sentinella non c' era traccia, o dormiva nei pressi o era tranquillamente rientrata in caserma. Invece, fra le sagome buie dei veicoli e dei rottami si aggirava una popolazione furtiva: come termiti, smontavano e demolivano tutto quanto potesse dimostrarsi utile o commerciabile: sedili, cavetti, pneumatici, i motorini ausiliari. Alcuni sifonavano via il carburante dai serbatoi; Pavel si fece imprestare un tubo, fece altrettanto e versò un po' di nafta nel serbatoio del primo 3 Ro della fila. Poi Mendel smontò la batteria buona, ed aiutato da Pavel la trascinò all' autocarro. La rimontò, fece la connessione, salirono in cabina e Mendel girò la chiavetta. Cercò a tentoni la levetta dei fari, e i fari si accesero: "... e la luce fu", pensò tra sé. Li spense e fece l' avviamento: il motore partì subito, liscio e rotondo; rispondeva obbediente al pedale del gas. Perfetto. _ Siamo a posto! _ disse Pavel sottovoce. _ Vedremo, _ rispose Mendel. _ Bestioni come questo io ne ho riparati diversi, ma non ne ho mai guidato nessuno. _ Non hai detto che avevi la patente? _ Per averla, ce l' ho, _ disse Mendel fra i denti. _ A quel tempo la davano a tutti, c' erano i tedeschi a Borodinò e a Kaluga, sei mezze ore di lezione e via. Ma poi io ho solo guidato vetture e trattori; e di notte è un' altra faccenda. Adesso stai zitto, per favore. _ Solo ancora una cosa, _ disse Pavel, _ non uscire dalla porta. Lì c' è la garitta, ci potrebbe essere qualcuno. E adesso sto zitto. Con la fronte aggrottata, intento come un chirurgo, Mendel premette il pedale della frizione, ingranò la marcia e sollevò il piede: il camion si avviò con uno strappo selvaggio. Riaccese i fari, e col motore imballato si diresse lentissimo verso il fondo del campo, lungo una corsia sgombra. _ Non sperare che io cambi marcia. Cambio poi domani: per oggi andiamo avanti così. Il camion navigò fino al fossato, si inclinò in avanti e puntò maestosamente verso il cielo. _ Siamo fuori, _ disse Pavel aspirando l' aria piovosa: si accorse che da forse un minuto non aveva più respirato. Una voce gridò alle loro spalle: _ Stòj! Halt! _; Pavel si sporse dal finestrino e sparò una breve raffica verso l' alto, più per allegria anche per intimidazione. Arrivato sulla strada, Mendel raccolse tutto il suo coraggio ed ingranò la seconda ridotta: il ruggito del motore calò di un tono e la velocità aumentò leggermente. Nessuno li inseguì, e raggiunsero la scuola in pochi minuti. Gedale, armato anche lui, li aspettava in strada. Abbracciò Mendel ridendo e recitando la benedizione dei miracoli. Mendel, con la fronte imperlata di sudore a dispetto del freddo, gli rispose: _ Meglio l' altra, quella dello scampato pericolo. Non perdiamo tempo, partiamo subito. Svegliati di soprassalto, i gedalisti portarono giù i bagagli e le armi e si pigiarono nel cassone. Mendel riaccese il motore. _ Verso Zawiercie! _ gli gridò Gedale, che aveva preso posto accanto a lui nella cabina. Seguendo i cartelli indicatori che i russi avevano affissi alle cantonate, Mendel uscì di città e si trovò su una strada secondaria piena di buche e di pozzanghere. A grado a grado, e con parecchie grattate, imparò ad innestare le marce alte, e la velocità divenne discreta. Aumentarono anche gli scossoni, ma nessuno si lamentava. Superò una salita, imboccò la discesa: i freni rispondevano e si sentì rassicurato, ma la tensione della guida lo stravolgeva. _ Non resisto più per molto. Chi mi darà il cambio? _ Vedremo, _ urlò Gedale sul fracasso del motore e delle lamiere. _ Adesso pensa a uscire dall' abitato. A metà discesa incontrarono un posto di blocco: un tronco non sgrossato, appoggiato su due fusti ai lati della strada. _ Che cosa faccio? _ Non fermarti! Accelera! Il tronco volò via come una paglia e si udirono raffiche di mitra; dal cassone qualcuno rispose con colpi isolati. Il camion proseguì la sua corsa nella notte, e Gedale gridò ridendo: _ Se non così, come? E se non ora, quando?

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Si limitò a dire che lui e i suoi compagni non avevano nulla contro Stalin, anzi, gli erano grati per aver abbattuto Hitler; ma che le loro case erano distrutte, avevano il vuoto alle spalle, e speravano di trovare una casa in Palestina. La signora tradusse, e Mendel ebbe l' impressione che la traduzione fosse più lunga del testo; Francesco fece una faccia poco convinta e si allontanò. A Mendel, neppure le facce degli italiani erano chiare; le loro espressioni, le loro smorfie, non riusciva a leggerle, o temeva di leggerle in modo sbagliato. Francesco. Un partigiano, un commilitone. Quanto tempo hai combattuto, Francesco? Sedici mesi, diciotto: da quando la radio di Venjamìn in riva al Dnepr ha raccontato che Mussolini era in prigione, da quando Dov ha saputo che l' Italia aveva capitolato. Quanto hai camminato Francesco? Quanti amici hai perduto? Dov' è la tua casa? A Milano, forse, o su quelle montagne dal nome che non so ripetere; ma una casa tu ce l' hai, la casa per cui hai combattuto, oltre che per le tue idee. Una casa, una terra sotto i piedi, un cielo sopra la testa che è tuo ed è sempre lo stesso. Una madre e un padre; una ragazza o una moglie. Hai qualcuno e qualcosa per cui ti piace vivere. Se parlassi la tua lingua potrei cercare di spiegarti. Alle sue spalle, la signora Adele stava parlando con Line: _ ... ma adesso sono loro quelli che ci aiutano di più. Le armi vengono da loro, attraverso la Cecoslovacchia. È il Partito Comunista italiano che decide sugli scioperi; quando gli inglesi cercano di fermare una nave di profughi, tutti gli operai del porto entrano in sciopero, e gli inglesi la devono lasciare partire .... Mendel si sentiva disorientato: in un salotto pieno di cose belle e di persone gentili, e insieme una pedina di un gioco gigantesco e crudele. Forse da sempre, una pedina da sempre, da quando era rimasto disperso, da quando aveva incontrato Leonid: credi di prendere una decisione e invece segui il destino che qualcuno ha già scritto. Chi? Stalin, o Roosevelt, o il Dio degli Eserciti. Si volse a Gedale: _ Andiamo via, Gedale: congediamoci. Questo non è il nostro luogo. _ Come? _ chiese Gedale stupito: forse temeva di non aver capito, o stava seguendo un altro filo di idee. In quel momento suonò il telefono nell' angolo in cui sedeva Bella, e la signora andò a rispondere. Poco dopo depose la cornetta e disse a Mendel: _ È Zvi, dalla fattoria. La vostra compagna, quella che chiamate la Bianca, non sta bene. Hanno dovuto portarla in città; è in una clinica, non lontano di qui. Arrivarono alla clinica ostetrica tutti e cinque, stipati nell' automobile dell' avvocato Longo. Era una clinica privata, ordinata e pulita, ma molti vetri delle finestre erano sostituiti con pannelli di legno compensato, e sugli altri erano incollate strisce di carta incrociate. Ròkhele era in una camera con tre altre donne; era pallida, tranquilla e si lamentava debolmente: forse le avevano dato un calmante. Nel corridoio, davanti alla porta della camera, c' era Isidor, nervoso ed aggrondato, insieme con Izu, il pescatore a mani nude, ed altri tre compaesani di Blizna, i più ruvidi della banda. Isidor passeggiava in su e in giù, e aveva una pistola infilata nella cintura. Due dei suoi compagni erano seduti sul pavimento e sembravano ubriachi; gli altri due parlavano fra loro nel vano della finestra. Mendel riconobbe attraverso il cuoio dei loro stivali consunti il rigonfio del manico del coltello. Sul davanzale della finestra c' era una bottiglia di vino rosso e due pagnotte contadine. _ Come sta? _ sussurrò Bella a Isidor. Senza abbassare la voce, Isidor rispose: _ Non sta bene. Ha male, prima gridava. Adesso le hanno fatto una puntura _. In fondo al corridoio fecero capolino due suore, si scambiarono poche parole e subito sparirono. _ Venite via, è in buone mani, _ disse Mendel. _ Cosa state a fare qui? _ Io non mi muovo, _ disse Isidor. Gli altri quattro non dissero nulla; si limitarono a volgere su Mendel e gli altri uno sguardo ostile. _ Non servite a niente e date fastidio, _ disse Line. _ Io non mi muovo, _ ripeté Isidor. _ Io sto qui: io non mi fido. I cinque si appartarono. _ Che facciamo? _ chiese Gedale. _ Qui siamo in troppi, _ disse Mendel. _ Io resto a vedere cosa succede; proverò a calmarli. Voi scendete e tornare alla fattoria: l' avvocato è sotto che aspetta. Se si mette male vi chiamo al telefono. _ Resto anch' io, _ disse Line inaspettatamente. _ Una donna può essere utile _. Gedale, Bella e Pavel se ne andarono; Line e Mendel sedettero sulle poltrone della sala d' aspetto. Attraverso la porta socchiusa potevano sorvegliare i cinque uomini accampati nel corridoio. _ È ubriaco anche Isidor? _ chiese Line. _ Non mi pare, _ rispose Mendel. _ Fa il bravaccio perché ha paura. _ Paura per il parto? Per Ròkhele? _ Sì, ma forse non solo per questo. È un ragazzo, e ha bisogno di sentirsi importante. Ha fatto male Gedale a fargli guidare il camion. Line, negli inconsueti abiti femminili, sembrava cambiata anche interiormente. Rispose sommessa: _ Quando è stato? A febbraio, vero? C' era ancora la neve. _ Era ai primi di marzo, quando siamo usciti da Wolbrom; sì, doveva proprio essere il primo di marzo. _ È difficile mettere ordine nei ricordi, vero? Non capita anche a te? Mendel accennò di sì col capo, senza parlare. Venne un' infermiera, disse loro qualcosa in italiano; Line e Mendel non capirono, l' infermiera alzò le spalle e se ne andò. Line entrò nella camera di Ròkhele e ritornò subito: _ Dorme, _ disse; _ sembra tranquilla, ma ha il polso rapido. _ Forse è così per tutte le donne che partoriscono? _ Non lo so, _ rispose Line. Tacque, poi riprese: _ Non siamo fatti nel modo giusto. Ti pare giusto che un uomo diventi padre a diciassette anni? _ Forse non è giusto diventare padri mai, _ disse Mendel. _ Taci, Mendel. Scaccia questi pensieri. Stanotte deve nascere un bambino. _ Tu credi che i nostri pensieri lo possano toccare? Farlo nascere diverso? _ Chi sa? _ disse Line. _ Un bambino che nasce è una cosa tanto delicata! Dove è stato concepito? Mendel calcolò mentalmente: _ Quando eravamo con Edek, vicino a Tunel. A novembre. Sarà un bambino polacco? O ucraino come Ròkhele? O italiano? _ Narische bucher, vos darfst du fregen? _ disse Line ridendo, e citando la canzone che aveva segnato il passaggio del fronte: _ Ragazzo sciocco, come puoi domandare? Stranamente, Mendel non fu per nulla offeso a sentirsi chiamare così: anzi, intenerito. Questa nuova Line non era più Raab, ma la "meidele" pietosa-arguta della canzone. _ Come puoi domandare? _ riprese Line, appoggiando la mano sull' avambraccio di Mendel: _ Un bambino è un bambino; diventa qualche cosa solo dopo. Perché ti preoccupi? Infine, non è neppure nostro figlio. _ Già. Non è neppure nostro figlio. _ Anche noi siamo stati partoriti, _ uscì a dire Line ad un tratto. Mendel la interrogò con lo sguardo, e Line cercò di precisare il suo pensiero: _ Partoriti, espulsi. La Russia ci ha concepiti, ci ha nutriti, ci ha fatti crescere nel suo buio, come in una matrice; poi ha avuto le doglie, si è contratta e ci ha gettati fuori, e adesso eccoci qui, nudi e nuovi, come bambini appena nati. Non è così anche per te? _ Narische meidele, vos darfst du fregen? _ ritorse Mendel, sentendosi sulle labbra un sorriso affettuoso e un velo leggero davanti agli occhi. Ci fu movimento nel corridoio, passi, bisbigli. Mendel si alzò e andò a guardare dallo spiraglio: la Bianca respirava pesantemente e gemeva a intervalli. A un tratto si contorse e gridò forte, due, tre volte. I quattro di Blizna balzarono in piedi, bellicosi e insonnoliti; Isidor si inginocchiò accanto al letto, poi uscì nel corridoio a gran passi. Tornò dopo un minuto, trascinandosi dietro una suora e il medico di guardia. Erano tutti e tre spaventati, per motivi diversi; Isidor gridava in jiddisch: _ Questa donna non deve morire, signor dottore, mi capisce? È mia moglie, siamo venuti dalla Russia fin qui, abbiamo combattuto, abbiamo camminato. E il bambino è mio figlio, deve nascere. Non deve morire, capito? Guai se la donna o il bambino muoiono: noi siamo partigiani. Avanti, signor dottore, faccia quello che deve, e stia attento a quello che fa. Line si avvicinò a Isidor per calmarlo e rassicurarlo, ma Isidor, che teneva la mano sull' impugnatura della pistola infilata nella cintura, la mandò via con un urtone. Il dottore non capiva il jiddisch, ma capiva che cosa voleva dire una pistola in mano a un ragazzo terrorizzato; parlò rapido con la suora, poi fece un passo verso il telefono all' angolo del corridoio, ma Isidor gli sbarrò la strada. Allora lui e la suora presero la lettiga a rotelle che stava poco lontano, vi trasferirono la Bianca che continuava a gridare e si avviarono verso la sala parto. Isidor fece un cenno ai suoi e li seguì; Mendel e Line seguirono Isidor. Isidor non osò forzare l' ingresso alla sala parto. I sette si sedettero davanti alla porta, ed incominciarono a passare le ore. A diverse riprese Mendel cercò di acquietare Isidor e di farsi consegnare la pistola. Avrebbe anche tentato di strappargliela se non si fosse visto alle spalle i quattro compaesani. Non riuscì a nulla: Isidor gli stava davanti senza sentirlo, dapprima arrogante, poi tutto teso ai rumori attutiti che provenivano dalla sala. Seduto accanto a Line, Mendel guardava le sue ginocchia che sporgevano dalla gonna. Era la prima volta che le vedeva: mai prima, se non con le dita veggenti, tremule dal desiderio, nell' oscurità dei loro giacigli ogni notte diversi, o attraverso il panno opaco dei pantaloni. Non cedere. Non cederle. Non ricominciare, sii savio, resisti. Non vivresti una vita accanto a lei, non è una donna per la vita, e tu non hai ancora trent' anni. A trent' anni la vita può ricominciare. Come un libro, quando hai finito il primo volume. Ricominciare da dove? Da qui, da oggi, da quest' alba milanese che sorge dietro i vetri smerigliati: da stamattina. Questo è un buon luogo per cominciare a vivere. Forse avresti dovuto fare come loro, hanno avuto ragione loro, i due nebech; non hanno fatto come te con Line, hanno chiuso gli occhi e si sono abbandonati e il seme dell' uomo non si è disperso e una donna ha concepito. Passò una suora spingendo un carrello. Line, che sonnecchiava stanca, si riscosse e disse: _ Era un pezzo che non passavamo una notte bianca. _ Era un pezzo che non passavamo una notte insieme, _ rispose Mendel. No, non vivrei una vita insieme con Line, ma non posso lasciarla e non voglio lasciarla. Me la porterò dentro sempre, anche se saremo divisi, come sono stato diviso da Rivke. Si sentiva la città risvegliarsi, stridere i tram, alzarsi le saracinesche dei negozi. Dalla sala uscì un' infermiera, poi uscì il medico stesso e rientrò poco dopo. Isidor, non più arrogante ma supplichevole, fece domande che furono comprese a dispetto della lingua: il medico fece gesti rassicuranti, mostrò l' orologio da polso, fra due ore, fra un' ora. Si udirono grida ripetute, ronzare un motore, poi silenzio. Finalmente, a giorno pieno, uscì un' infermiera dal viso allegro, reggendo un fagottino. _ Maschio, maschio, _ rideva. Nessuno capì, lei si volse in giro, si trovò sottomano Izu l' irsuto, e gli dette uno strattone alla barba: _ Maschio, come lui! Tutti si alzarono in piedi. Mendel e Line abbracciarono Isidor, i cui occhi, arrossati dalla veglia, erano divenuti lucidi. Uscì anche il dottore, batté la mano sulla spalla di Isidor e si avviò per il corridoio, ma si imbatté in un collega che stava avanzando col giornale spiegato e si fermò a discutere con lui. Intorno ai due si raggrupparono altri medici, suore, infermiere. Si avvicinò anche Mendel, e riuscì a vedere che il giornale, costituito da un solo foglio, portava un titolo in corpo molto grande, di cui non capì il significato. Quel giornale era del martedì 7 agosto 1945, e recava la notizia della prima bomba atomica lanciata su Hiroshima.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue ricco, e fu espulso. Si sciolse per tre volte nell' acqua del mare, una volta nell' acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell' avventura organica. Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il carbonio è l' elemento chiave della sostanza vivente: ma la sua promozione, il suo ingresso nel mondo vivo, non è agevole, e deve seguire un cammino obbligato, intricato, chiarito (e non ancora definitivamente) solo in questi ultimi anni. Se l' organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque affiori il verde di una foglia, le spetterebbe di pieno diritto il nome di miracolo. L' atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell' anno 1.4., lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di sole. Se qui il mio linguaggio si fa impreciso ed allusivo, non è solo per mia ignoranza: questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, dell' anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato finora descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto esso è diverso da quell' altra chimica "organica" che è opera ingombrante, lenta e ponderosa dell' uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata "inventata" due o tre miliardi d' anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell' ambiente in cui vivono. Se comprendere vale farsi un' immagine, non ci faremo mai un' immagine di uno happening la cui scala è il milionesimo di millimetro, il cui ritmo è il milionesimo di secondo, ed i cui attori sono per loro essenza invisibili. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una varrà l' altra: valga quindi la seguente. Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili) molecole di azoto ed ossigeno. Aderisce ad una grossa e complicata molecola che lo attiva, e simultaneamente riceve il decisivo messaggio dal cielo, sotto la forma folgorante di un pacchetto di luce solare: in un istante, come un insetto preda del ragno, viene separato dal suo ossigeno, combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla temperatura e pressione dell' atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare altrettanto saremo "sicut Deus", ed avremo anche risolto il problema della fame nel mondo. Ma c' è di più e di peggio, a scorno nostro e della nostra arte. L' anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vita, la scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell' aria, bensì un rimasuglio ridicolo, un' "impurezza", trenta volte meno abbondante dell' argon di cui nessuno si accorge. L' aria ne contiene il 0,03 per cento: se l' Italia fosse l' aria, i soli italiani abilitati ad edificare la vita sarebbero ad esempio i 15000 abitanti di Milazzo, in provincia di Messina. Questo, in scala umana, è un' acrobazia ironica, uno scherzo da giocoliere, una incomprensibile ostentazione di onnipotenza-prepotenza, poiché da questa sempre rinnovata impurezza dell' aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia, le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. Del resto, la nostra stessa presenza sul pianeta diventa risibile in termini geometrici: se l' intera umanità, circa 250 milioni di tonnellate, venisse ripartita come un rivestimento di spessore omogeneo su tutte le terre emerse, la "statura dell' uomo" non sarebbe visibile ad occhio nudo; lo spessore che si otterrebbe sarebbe di circa sedici millesimi di millimetro. Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. È una bella struttura ad anello, un esagono quasi regolare, che però va soggetto a complicati scambi ed equilibri con l' acqua in cui sta sciolto; perché ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa della vite, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le sostanze che sono destinate a (stavo per dire "desiderano") trasformarsi. Se poi qualcuno volesse proprio sapere perché un anello, e perché esagonale, e perché solubile in acqua, ebbene, si dia pace: queste sono fra le non molte domande a cui la nostra dottrina sa rispondere con un discorso persuasivo, accessibile a tutti, ma fuori luogo qui. È entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara: un destino né carne né pesce, mediano, che lo prepara ad un primo contatto col mondo animale, ma non lo autorizza alla responsabilità più alta, che è quella di far parte di un edificio proteico. Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perché non la sapremmo ridurre in parole) alla fermentazione alcoolica, e giunse al vino senza mutare natura. È destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere ossidato. Ma non fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel fegato per più d' una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a fare la domenica seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato. Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomitolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trascinato dalla corrente del sangue fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e qui brutalmente spaccato in due molecole d' acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo più tardi, qualche minuto dopo, l' ansito dei polmoni poté procurare l' ossigeno necessario ad ossidare con calma quest' ultimo. Così una nuova molecola d' anidride carbonica ritornò all' atmosfera, ed una parcella dell' energia che il sole aveva ceduta al tralcio passò dallo stato di energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nella ignava condizione di calore, riscaldando impercettibilmente l' aria smossa dalla corsa ed il sangue del corridore. "Così è la vita", benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell' energia, dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all' ingiù, che conduce all' equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un' ansa e ci si annida. Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio obbligato, anche questo; se ne possono immaginare o inventare altri, ma sulla terra è così. Di nuovo vento, che questa volta porta lontano: supera gli Appennini e l' Adriatico, la Grecia l' Egeo e Cipro: siamo sul Libano e la danza si ripete. L' atomo di cui ci occupiamo è ora intrappolato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tronco venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene, come il grano di un rosario, ad una lunga catena di cellulosa. Non è più la fissità allucinante e geologica della roccia, non sono più i milioni di anni, ma possiamo bene parlare di secoli, perché il cedro è un albero longevo. È in nostro arbitrio abbandonarvelo per un anno o per cinquecento: diremo che dopo vent' anni (siamo nel 1.6.) se ne occupa un tarlo. Ha scavato la sua galleria fra il tronco e la corteccia, con la voracità ostinata e cieca della sua razza; trapanando è cresciuto, il suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, ha ingoiato ed incastonato in se stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in primavera sotto forma di una brutta farfalla grigia che ora si sta asciugando al sole, frastornata ed abbagliata dallo splendore del giorno: lui è là, in uno dei mille occhi dell' insetto, e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. L' insetto viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo cadavere giace nel sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una "cosa", ma la morte degli atomi, a differenza dalla nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili ed invisibili becchini del sottobosco, i microrganismi dell' humus. La corazza, coi suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l' ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente preso il volo. Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed a giustificazione di questo intervallo così lungo rispetto alla misura umana faremo notare che esso è invece assai più breve della media: questa, ci si assicura, è di duecento anni. Ogni duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta della fotosintesi. Esistono altre porte? Sì, alcune sintesi create dall' uomo; sono un titolo di nobiltà per l' uomo-fabbro, ma finora la loro importanza quantitativa è trascurabile. Sono porte ancora molto più strette di quella del verde vegetale: consapevolmente o no, l' uomo non ha cercato finora di competere con la natura su questo terreno, e cioè non si è sforzato di attingere dall' anidride carbonica dell' aria il carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per riscaldarsi, e per i cento altri bisogni più sofisticati della vita moderna. Non lo ha fatto perché non ne ha avuto bisogno: ha trovato, e tuttora trova (ma per quanti decenni ancora?), gigantesche riserve di carbonio già organicato, o almeno ridotto. Oltre al mondo vegetale ed animale, queste riserve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosintetiche compiute in epoche lontane, per cui si può bene affermare che la fotosintesi non è solo l' unica via per cui il carbonio si fa vivente, ma anche la sola per cui l' energia del sole si fa utilizzabile chimicamente. Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere: tutte letteralmente vere, nella natura dei trapassi, nel loro ordine e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che, da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato; di altri che raggiungono invece una decorosa semi-eternità nelle pagine ingiallite di qualche documento d' archivio, o nella tela di un pittore famoso; di quelli a cui toccò il privilegio di fare parte di un granello di polline, e lasciarono la loro impronta fossile nelle rocce per la nostra curiosità; di altri ancora che discesero a far parte dei misteriosi messaggeri di forma del seme umano, e parteciparono al sottile processo di scissione duplicazione e fusione da cui ognuno di noi è nato. Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l' umiltà e il ritegno di chi sa fin dall' inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza. È di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte. È inserito in una lunga catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono accetti dal corpo umano. Viene ingoiato: e poiché ogni struttura vivente alberga una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, ed i frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l' atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli d' energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sul finire dell' estate, Danuta s' imbatté un mattino in un faggio abbattuto: non poteva essere stato il fulmine, perché splendeva il sole da molti giorni, e Danuta era sicura di non averlo urtato lei stessa inavvertitamente. Si avvicinò, e vide che era stato reciso con un taglio netto, si vedeva a terra il disco biancastro del ceppo, largo come due delle sue dita. Mentre guardava stupita, sentì un fruscio, e vide, dall' altra parte della valle, un altro faggio che crollava a terra, sparendo fra gli alberi vicini. Discese e risalì, e scorse un animaletto che fuggiva a tutta forza verso la balza delle caverne. Era diritto e correva con due gambe; buttò a terra un arnese lucente che lo impacciava nella corsa, e s' infilò nella caverna più vicina. Danuta sedette lì accanto con le mani tese, ma l' animaletto non accennava ad uscire. Le era sembrato grazioso, e doveva anche essere abile se da solo era riuscito ad abbattere un faggio; Danuta fu subito sicura che il ponte l' aveva costruito lui, voleva fare amicizia, parlargli, non farselo scappare. Infilò un dito nell' apertura della grotta, ma sentì una puntura e lo ritirò subito di scatto con una gocciolina di sangue sul polpastrello. Aspettò fino a buio, poi se ne andò, ma a Brokne non raccontò niente. Il piccolino doveva avere una gran fame di legno, perché nei giorni seguenti Danuta ne rinvenne le tracce in vari punti della valle. Abbatteva di preferenza i faggi più grossi, e non si capiva come avrebbe fatto per portarseli via. In una delle prime notti fredde Danuta sognò che la foresta era in fiamme e si svegliò di soprassalto; l' incendio non c' era ma l' odore dell' incendio sì, e Danuta vide sull' altro versante un chiarore rosso che palpitava come una stella. Nei giorni seguenti, quando Danuta tendeva l' orecchio, sentiva un ticchettio minuto e regolare, come quando i picchi perforano le cortecce, ma più lento. Cercò di avvicinarsi a vedere, ma appena lei si muoveva il rumore cessava. Venne finalmente un giorno in cui Danuta ebbe fortuna. Il piccolino si era fatto meno timido, forse si era abituato alla presenza di Danuta, e si mostrava di frequente fra un albero e l' altro, ma se Danuta accennava ad avvicinarsi scappava svelto a rintanarsi fra le rocce o in mezzo al fitto del bosco. Danuta lo vide dunque avviarsi verso la radura dell' abbeveratoio; lo seguì di lontano cercando di non fare troppo rumore, e quando lo vide allo scoperto con due lunghi passi gli fu addosso e lo intrappolò fra i cavi delle mani. Era piccolo ma fiero: aveva con sé quel suo arnese lucente, e tirò due o tre colpi contro le mani di Danuta prima che lei riuscisse a pizzicarlo fra l' indice e il pollice ed a buttarglielo lontano. Adesso che l' aveva catturato, Danuta si rese conto che non sapeva assolutamente che cosa farsene. Lo sollevò da terra tenendolo fra le dita: lui strideva, si dibatteva e cercava di mordere; Danuta, incerta, rideva nervosamente e tentava di calmarlo carezzandolo con un dito sulla testa. Si guardò intorno: nel torrente c' era un isolotto lungo pochi passi dei suoi; si sporse dalla sponda e vi depose il piccolino, ma questo, appena libero, si buttò nella corrente, e sarebbe certo annegato se Danuta non si fosse affrettata a ripescarlo. Allora lo portò da Brokne. Neppure Brokne sapeva che farsene. Brontolò che lei era proprio una ragazza fantastica; il bestiolino mordeva, pungeva e non era buono da mangiare, che Danuta gli desse il largo, altro da fare non c' era. Del resto, stava scendendo la notte, era ora di andare a dormire. Ma Danuta non volle sentire ragione, l' aveva preso lei, era suo, era intelligente e carino, voleva tenerselo per giocare, e poi era sicura che sarebbe diventato domestico. Provò a presentargli un ciuffo d' erba, ma lui girò la testa dall' altra parte. Brokne sogghignò che tanto domestico non era e che in prigionia sarebbe morto, e si stese in terra già mezzo addormentato, ma Danuta scatenò un capriccio d' inferno, e tanto fece che passarono la notte col piccolino in mano, a turno, uno lo teneva e l' altro dormiva; verso l' alba però anche il piccolino era addormentato. Danuta ne approfittò per osservarlo con calma e da vicino, ed era veramente molto grazioso: aveva viso, mani e piedi minuscoli ma ben disegnati, e non doveva essere un bambino, perché aveva la testa piccola e il corpo snello. Danuta moriva dalla voglia di stringerselo contro il petto. Appena si svegliò cercò subito di fuggire, ma dopo qualche giorno incominciò a farsi più lento e pigro. _ Per forza, _ disse Brokne: _ non vuole mangiare _. Infatti il piccolino rifiutava tutto, l' erba, le foglie tenere, perfino le ghiande e le faggiole. Ma non doveva essere per selvatichezza, perché invece beveva avidamente dal cavo della mano di Danuta, che rideva e piangeva dalla tenerezza. Insomma, in pochi giorni si vide che Brokne aveva ragione: era uno di quegli animali che quando si sentono prigionieri rifiutano il cibo. D' altra parte, non era possibile andare avanti così, a tenerlo in mano giorno e notte, un po' l' uno, un po' l' altra. Brokne aveva provato a fabbricargli una gabbia, perché Danuta non aveva accettato di tenerlo nella grotta: lo voleva avere sotto gli occhi e temeva che al buio si ammalasse. Aveva provato, ma senza concludere nulla: aveva divelto dei frassini alti e diritti, li aveva ripiantati in terra a cerchio, ci aveva messo in mezzo il piccolino e aveva legato insieme le chiome con dei giunchi, ma le sue dita erano grosse e maldestre, e ne era venuto fuori un brutto lavoro. Il piccolino, benché indebolito dalla fame, si era arrampicato in un lampo su per uno dei tronchi, aveva trovato una lacuna ed era saltato a terra all' esterno. Brokne disse che era tempo di lasciarlo andare dove voleva; Danuta scoppiò a piangere, tanto che le sue lacrime rammollirono il terreno sotto di lei; il piccolino guardò in su come se avesse capito, poi prese la corsa e scomparve fra gli alberi. Brokne disse: _ Va bene così. Lo avresti amato, ma era troppo piccolo, e in qualche modo il tuo amore lo avrebbe ucciso. Passò un mese, e già le fronde dei faggi volgevano al porporino, e di notte il torrente rivestiva i macigni di un sottile strato di ghiaccio. Ancora una volta Danuta fu svegliata in angoscia dall' odore del fuoco, e subito scosse Brokne per ridestarlo, perché questa volta l' incendio c' era. Nel chiarore della luna si vedevano tutto intorno innumerevoli fili di fumo che salivano verso il cielo, diritti nell' aria ferma e gelida: sì, come le sbarre di una gabbia, ma questa volta dentro erano loro. Lungo tutta la cresta delle montagne, sui due lati della valle, bruciavano fuochi, ed altri fuochi occhieggiavano molto più vicini, fra tronco e tronco. Brokne si levò in piedi brontolando come un tuono: eccoli dunque all' opera, i costruttori di ponti, i piccoli e solerti. Afferrò Danuta per il polso e la trascinò verso la testata della valle dove pareva che i fuochi fossero più radi, ma poco dopo dovettero tornare indietro tossendo e lacrimando, l' aria era intossicata, non si poteva passare. Nel frattempo, la radura si era popolata di animali di tutte le specie, anelanti ed atterriti. L' anello di fuoco e di fumo si faceva sempre più vicino; Danuta e Brokne sedettero a terra ad aspettare.

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IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ho tormentato invano tutta la notte il mio cervello, - rispose Tremal-Naik che sembrava assai abbattuto. - Non vi sarebbe che un solo tentativo da fare, un tentativo disperato. - Quale? - Di aprirci il passo attraverso le file degli assedianti coi parangs in pugno. - E farci probabilmente massacrare, - rispose Yanez. - Trenta contro trecento, avendo ormai dieci o dodici uomini feriti che non varranno gran che in una lotta corpo a corpo; brutto affare. - Non ho trovato altro di meglio. - Di quanti vasi di bram disponi? - chiese bruscamente Yanez. - A che cosa potrebbe servirci quel liquore? - chiesero ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri guardandolo con sorpresa. - Per farci scappare, amici miei. - Scherzi, Yanez. - No, Tremal-Naik. D'altronde il momento sarebbe male scelto. Sei ben provvisto? - Le mie cantine sono piene, provvedendo io tutte le tribù dei dintorni. - I dayaki sono buoni bevitori, vero? - Come tutti i popoli selvaggi. - Se trovassero sui loro passi un centinaio di vasi di quel liquore, a loro disposizione, credi tu che si fermerebbero per vuotarli? - Non glielo impedirebbe nemmeno il cannone, - rispose Tremal-Naik. - Allora, miei cari amici, il pellegrino è giocato, - disse Yanez. - Non ti comprendiamo. - Il kampong è diviso in due dalla palizzata interna? - Sì, l'ho fatto appositamente costruire per opporre maggiore resistenza nel caso che il nemico avesse potuto forzare la saracinesca, - rispose Tremal-Naik. - L'idea è stata buona, amico mio, e ci servirà magnificamente in questo momento. Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bengalow e le tettoie. - Come! - esclamò Tremal-Naik. - Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa? - Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza, - rispose Yanez. - Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki. - La palizzata interna non è molto solida. - Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, - disse Yanez ridendo. - Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra. - Si ubriacheranno, ne sono certo. - È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore. - Tippo Sahib, il Napoleone dell'India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano. - Quella non era una tigre di Mompracem, - disse Yanez con comica serietà. - Cadranno nel laccio i dayaki. - Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

L'emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè costui? - Sì, signor ... - Chiamatemi semplicemente "il capitano". - Un capitano russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o del Volga. Un sorriso enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano. - Parlo il russo come il francese, l'italiano, il tedesco, l'inglese e anche il cinese. Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini? - No, capitano. - Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista! - Signore - rispose una voce. - Rallenta un po'. Voglio godermi questo meraviglioso panorama. Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito: - La mia testa! La mia testa! Il cosacco si era precipitato verso l'amico, frenando a malapena una risata. - L'hai ancora a posto, Fedoro! - esclamò. - Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela. Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello "Sparviero". - Rokoff! - esclamò. - Dove siamo noi? - Al sicuro dai cinesi, amico mio. - E quel signore? Ah! Mi ricordo! L'uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore! - Io non sono che il capitano dello "Sparviero" - rispose il comandante, tendendogli la mano. - Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.

L'aria fredda delle vostre montagne mi ha abbattuto e mio padre, il grande Buddha, non mi ha inviato ancora la medicina che gli ho fatto chiedere. Onde però non privare i pellegrini del loro giusto desiderio, mio fratello mi surrogherà. - Nessuno però comprende il suo linguaggio, signore - disse il monaco. - Egli parla la lingua usata nel nirvana, ma quantunque non compresa, entrerà nel cuore dei pellegrini. Andate a dirlo al grande Bogdo-Lama. Udendo quelle parole, una profonda costernazione si era dipinta sul volto dei monaci, nondimeno salutarono rispettosamente e uscirono, facendo cenno al cosacco di seguirli. - Bada, Rokoff - disse Fedoro. - Non temere - rispose l'ex-ufficiale. - Farò stupire tutti, anche se non capiranno niente. Cinque minuti dopo Rokoff si trovava in presenza del Bogdo-Lama, a cui i monaci avevano narrato dell'improvvisa malattia che aveva colto Fedoro. Anche il vecchio pareva assai contrariato. Era bensì vero che Rokoff era il fratello di Fedoro, che al pari di lui era sceso dal Cielo, che aveva pure un aspetto più imponente e anche una magnifica barba rossa che doveva destare l'ammirazione generale dei pellegrini e che parlava la vera lingua usata nel paradiso di Buddha che nessuno, disgraziatamente o meglio fortunatamente, poteva comprendere. Vi fosse stato almeno qualcuno, fra i mille monaci che avesse potuto tradurre il discorso! ... Questa idea aveva però colpito il Bogdo-Lama. Possibile che nessun essere terrestre potesse capire quel maestoso figlio del grande Illuminato? Che parlasse proprio una lingua assolutamente ignota? Rokoff, che pareva indovinasse i pensieri che turbavano il cervello della Perla dei sapienti, cominciava adiventare inquieto. Sentiva per istinto che quella testa pelata doveva maturare qualche cosa di pericoloso. E non si era ingannato. Mentre i gong e i tam-tam e i campanellazzi delle torri e dei tetti strepitavano senza posa, e in lontananza echeggiavano sempre più rumorosamente i colpi di fucile dei montanari, con sua viva sorpresa vide la sala riempirsi di monaci. Tutti gli sfilavano dinanzi rivolgendogli qualche parola ed inchinandosi. Ne erano già passati tre o quattrocento quando, con suo vivo stupore, udì uno di costoro salutarlo in lingua russa. - Tu parli la lingua del nirvana! - esclamò, involontariamente. - Non so se questa sia la lingua che si usa nel paradiso dell'Illuminato - aveva risposto il monaco. - Io l'ho appresa da un tartaro e son ben felice di conoscerla, perché mi permette di farmi comprendere da un figlio del cielo. Il Bogdo-Lama, che assisteva alla sfilata a fianco di Rokoff, udendoli parlare, aveva fatto un gesto di gioia. Il cosacco però era rimasto tutt'altro che contento e aveva mandato in cuor suo a casa del diavolo quel monaco che veniva a guastargli i progetti. - Se costui mi capisce, che cosa dirò ora su Buddha? - si era chiesto, con angoscia. - Me lo appiccicheranno ai fianchi perché traduca alle turbe tutte le mie corbellerie. Che s'affoghino Buddha, i pellegrini, il Lama e quell'imbecille di tartaro che ha insegnato il russo a questo monaco. Se potessi trovare un mezzo qualsiasi per rifiutarmi di parlare? Se dicessi di essere diventato improvvisamente muto? Era troppo tardi ormai per ritirarsi o per cercare dei pretesti per rinunciare alla famosa predica. I fedeli erano già entrati a centinaia e centinaia nel monastero, impazienti di vedere i figli di Buddha, che si erano degnati di scendere sulle sante acque del Tengri-Nor e di udire la loro parola divina. - Venite - disse il monaco che parlava il russo, prendendolo per una mano e traendolo con dolce violenza. Il tempio è pieno. Rokoff si sentì gelare il sangue. - Datemi prima da bere - disse, tergendosi alcuni goccioloni di sudore che gl'imperlavano la fronte, nonostante il freddo intenso che regnava in quella sala. - Avrete tutto ciò che desiderate. - Dell'acquavite e molta per ispirarmi meglio e acquistare un po' di coraggio - mormorò il disgraziato cosacco. Seguì il monaco attraverso parecchi androni, insieme a una dozzina di preti, incaricati probabilmente di sorvegliarlo e d'impedirgli qualsiasi tentativo di fuga e venne condotto in un gabinetto dove si trovava una tavola imbandita. Con mano nervosa afferrò un fiasco d'argento pieno di acquavite tiepida e senza preoccuparsi della presenza dei monaci, lo vuotò più di mezzo senza staccarlo dalle labbra. Era forse una grave imprudenza, essendo quel liquore fortissimo, del sciam-sciù cinese estratto dal riso fermentato, che doveva produrre una semiubriachezza quasi fulminante, ma Rokoff ne aveva proprio bisogno, in quel momento, per affrontare coraggiosamente la terribile prova. E quella bevuta fenomenale fece davvero un buon effetto. Il cosacco, mezzo stordito, si sentì tutto d'un tratto acquistare un'energia straordinaria. - Andiamo - disse con voce risoluta. Il monaco che doveva servirgli da interprete gli fece percorrere un ultimo corridoio, poi aprì una porticina e Rokoff, stupito, si trovò su una specie di palco coperto da un ricco baldacchino di seta gialla a frange d'argento e dinanzi a un mare di teste. Era entrato nel tempio del monastero, una immensa sala sorretta da sessanta colonne di legno dipinte in rosso e con ornamenti d'oro, capace di contenere due o tremila persone. Nel mezzo, sotto un lucernario, troneggiava un Buddha di proporzioni gigantesche, seduto colle gambe incrociate, su un enorme blocco di pietra staccato probabilmente da una delle più sante montagne del Tibet, forse dalla famosa Tisa, la grande piramide dei Hano-dis-ri, il Mera degli antichi indiani. Tutto all'intorno, centinaia e centinaia di pellegrini, giunti da tutte le parti del lago, si pigiavano, conservando però un religioso silenzio. Erano tutti montanari dalle facce poco rassicuranti e colle cinture riboccanti d'armi, fanatici pericolosissimi, che potevano far passare un brutto quarto d'ora al povero cosacco se li avesse ingannati, anche se si trovavano nel tempio dedicato al grande Illuminato. Vedendolo comparire sul palco, i pellegrini erano caduti in ginocchio, battendo la fronte sulle pietre del pavimento e borbottando delle preghiere. Nessuno aveva avuto il coraggio di guardarlo. Rokoff, già stordito da quell'abbondante bevuta che gli faceva ronzare gli orecchi e girare la testa, era rimasto come inebetito dinanzi a quella folla in adorazione, colla bocca aperta e gli occhi dilatati da un terrore invincibile. - Devo confessare che ho paura - aveva mormorato. - Che cosa sta per succedere? Mi sento mancare il coraggio e paralizzare la lingua. Si era voltato per vedere se la porta era aperta. Se non fosse stata chiusa sarebbe certamente fuggito, precipitando la catastrofe. - I birbanti! - esclamò. - M'hanno chiuso nel palco. Coraggio, mio caro Rokoff: si tratta di salvare la mia pelle e anche quella di Fedoro. Alzando gli sguardi aveva veduto di fronte al suo palco, presso la statua di Buddha, il Bogdo-Lama assiso su un divano circondato da un numeroso stuolo di monaci e con a fianco il prete che doveva servire d'interprete. Il barbuto pontefice non staccava i suoi sguardi dal cosacco e cominciava a dar segni d'impazienza, meravigliandosi forse che il figlio di Buddha tardasse tanto a trovare la parola. Già due volte aveva alzato il braccio, facendogli cenno di principiare il sermone e anche i pellegrini cominciavano ad alzare la testa e a lanciare sguardi verso il palco. Rokoff, comprendendo che ormai non poteva più indugiare senza compromettere gravemente la sua posizione di uomo celeste, fece appello a tutto il suo coraggio e alla sua fantasia, e tossì rumorosamente tre o quattro volte per richiamare su di sé l'attenzione dei fedeli. Cosa strana però, l'eterno chiacchierone non riusciva a trovare la parola, né da qual parte cominciare. E poi si sentiva girare sempre più la testa e montare in volto delle fiammate ardenti. Certamente aveva bevuto troppo. Finalmente si decise. - Buddha! ... Il grande Buddha! - gridò con voce tonante e picchiando il pugno sul parapetto del palco con tale violenza, da far scricchiolare le tavole - Era il grande Illuminato! ... Un Dio ... il più possente Dio che regna sopra le nuvole, fra il sole e la luna ... Si era interrotto mentre il monaco traduceva ai fedeli, silenziosi e raccolti, le sue parole. Dopo quell'esordio, certamente di grande effetto quantunque assolutamente vuoto, il buon cosacco non si era più sentito in grado di continuare. Che cosa dire? Non lo sapeva assolutamente e poi nel suo cervello cominciava a regnare una tale confusione che nessuna idea voleva uscire. Doveva essere quel maledetto sciam-sciù che lavorava. Quella tregua però non poteva durare delle ore. Gli sguardi del Bogdo-Lama dicevano abbastanza che era giunto il momento di riprendere il sermone, e Rokoff, che vedeva dipingersi sui visi dei pellegrini una certa meraviglia per quel lungo e inaspettato silenzio, dovette ricominciare. - Buddha ... era Buddha ... un uomo ... ma che dico, un Dio ... più scintillante del sole e più dolce della luna! ... Un'orribile smorfia che fece il Bogdo-Lama e un gesto d'impazienza, lo rese avvertito che era tempo di lasciare in pace il sole e anche la luna, che nulla avevano a che fare con Buddha e di venire a qualche cosa di più concreto. Disgraziatamente le idee del cosacco si annebbiavano sempre più e anche le gambe cominciavano a piegarglisi sotto. Che cosa disse allora? Non lo seppe di certo nemmeno lui. Preso da una subitanea foga oratoria, una foga da ubriaco, il cosacco si era messo a predicare all'impazzata, tuonando spaventosamente e picchiando pugni formidabili sul palco. Parlava di santi, di religioni, confondendo Cristo con Buddha, tirando in campo Brahma, Siva e Visnù, il diavolo, le stelle, le nuvole, le macchine volanti, i cinesi, i tibetani e perfino gli asini che popolavano il nirvana dell'Illuminato e tante altre bestie che i veri credenti dovevano rispettare e amare invece di mangiarle. Il monaco, soffocato da quel torrente di parole, si era più volte interrotto, dimenticandosi di tradurre buona parte di quella massa di corbellerie. Guardava con spavento Rokoff chiedendosi se non capiva più quello che diceva o se il figlio di Buddha era diventato improvvisamente pazzo. Che cosa c'entravano gli asini, le divinità indiane, le macchine volanti, ecc., col grande Illuminato? Anche i pellegrini sembravano stupefatti di quel sermone sconclusionato, che il monaco aveva in parte tradotto. Il Bogdo-Lama invece era diventato furioso e guardava ferocemente il cosacco che continuava a parlare come un vero demente, tirando pugni a manca e a dritta, minacciando di sfasciare il palco e tentando di sfondare la porta. No, non era un figlio del cielo, costui! ... Era un energumeno, un ignorante, un buffone che minacciava uno scandalo enorme. Finalmente, non potendo più trattenersi, il Lama si era alzato.col pugno teso, gridando con voce sibilante: - Mentitore! Rokoff, che era completamente ubriaco in quel momento e che parlava delle steppe del Don e della guerra russo-turca, ebbe un barlume. Aveva compreso il pericolo. Tutti i pellegrini si erano alzati urlando a loro volta: - Mentitore! Non sei un buddista! Era una catastrofe completa. Rokoff intuì che stava per succedere qualche cosa di grave. Il baccano era diventato assordante e la confusione al colmo. Tutti lo minacciavano e delle armi luccicavano nelle mani dei più fanatici. Con una spinta irresistibile, il disgraziato predicatore sfondò la porta, mandò a gambe levate i monaci che gli stavano dietro, passando sui loro corpi a corsa sfrenata e fuggì a rompicollo attraverso i corridoi, mentre nel tempio scoppiavano rumori terribili. Un momento dopo, senza sapere il come, Rokoff piombava come una bomba nell'appartamento di Fedoro. Questi, vedendolo entrare ansante, col volto congestionato, colla tonaca raccolta attorno ai fianchi e gli sguardi smarriti, si era gettato giù dal letto, chiedendo: - Rokoff ... che cosa è accaduto? - Non lo so ... disastro completo ... mi vogliono accoppare ... fuggiamo! ...

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Hostrup è diventato pensieroso e di umore nero; perfino il capitano Weimar, che pur ha dato tante prove di ardire e di grande fiducia, è abbattuto. I loro sforzi per mantenere vivo lo spirito dell'equipaggio, non riescono più. Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell'abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili. Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere. L'acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l'eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l'aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l'alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri! Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio. Una luce biancastra prodotta dall'"ice-blink" e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40o sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14o. L'equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d'olio di balena. Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce. - Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano? - Sì, sì! - risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. - Solennizzeremo il Natale con un banchetto. - E pianteremo anche l'albero. - Con dei regali per tutti. - Sì, con dei regali. In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il "Danebrog". Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri. La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi "iceberg" di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma. Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie. - Siamo proprio accerchiati, e come! - esclamò il tenente. - Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via. - Fortunatamente la nave resiste sempre! - disse il capitano. - Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò. - Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi. - E i nostri magazzini avranno sofferto? - interrogò Koninson, guardando a babordo. - Non mi sembra - disse il capitano. - La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo. - Sì, domani! - affermò il tenente. - Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale. - E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup. - Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti. - Mi metterò io alla loro testa! - disse il fiociniere. - Ehi, mastro Widdeak, al lavoro! I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina. Alle 4 pomeridiane il ponte del "Danebrog" offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine. Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione. Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie. - A tavola! - s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente. Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi. - Evviva al sig. Hostrup! - urlò l'equipaggio. - Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, - disse il tenente - e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco. I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe. Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò. - Capitano, un brindisi - gridò. - A chi? - domandarono i marinai. - Al nostro valoroso "Danebrog"! Amici, capitano, evviva al "Danebrog"! Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono. Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito. - Cosa succede? - chiese il tenente che nulla aveva avvertito. - La nave si è mossa! - disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni. - Ed io ho udito un sordo boato - aggiunse Koninson. - Forse le pressioni? - chiesero i marinai. Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio. - Sono le pressioni! - esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. - E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci! - Zitti tutti! - comandò il capitano. - Udite! Udite! Ognuno prestò orecchio. In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee. D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia. - Fuori, fuori tutti! - disse il capitano. I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio. Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave. Gli "iceberg", le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni. Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli "iceberg" che venivano dietro di loro. - Corriamo qualche pericolo? - chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata. - Chi può dirlo? - rispose Weimar. - Temo però che passeremo una brutta notte. - Cosa dobbiamo fare? - chiese Koninson. - Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta. - Perchè mai? - chiesero alcuni. - Perchè potrebbe darsi che la nave ... . Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni "icebergs". L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore, - Presto, presto, - gridò il capitano - portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe. I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta. Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, "icebergs", "hummocks", piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi. Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano. La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci. L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno. Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di "icebergs" e di "hummocks" e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini. Il "Danebrog", che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare: - Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il "Danebrog"! Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe. Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando: - Indietro, fermi tutti! Il banco si apre! Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare. - Indietro - ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. - Volete farvi stritolare dai ghiacci? - Ma la nave affonda! - disse un gabbiere. - Non ancora! - gridò il tenente. - Tutti a poppa! Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa. - Signor Hostrup, - gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci - scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani. Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte. - Ebbene? - chiesero i marinai correndo verso di lui. - È finita per il "Danebrog"? - Non ancora! - rispose egli. - Non affondiamo? - No, almeno per ora. - Cos'è che ha ceduto? - chiese il capitano. - I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva. Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava. - Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani? - Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave. - L'acqua entra? - L'ho udita precipitare nella sentina. - Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini? - Lo tenterò, capitano, se è necessario. - È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

I PIRATI DELLA MALESIA

682419
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Una fiammata era balenata a prua della nave che entrava nella vasta baia e una palla aveva abbattuto un pezzo di recinto. - Il Realista! - esclamò Sandokan. Infatti quella nave che accorreva in aiuto degli assalitori era lo schooner del rajah Brooke, lo stesso che alla foce del Sarawak aveva attaccato e mandato a picco l'Helgoland. - Maledetto - ruggì Sandokan, guardandolo con due occhi che mandavano fiamme. - Ah! Perché non ho un praho anch'io? Ti farei vedere come sanno battersi all'arma bianca i tigrotti di Mompracem! ... Un nuovo colpo di cannone rimbombò sul ponte del legno nemico e una nuova palla venne ad aprire un nuovo foro. La Tigre della Malesia mandò un urlo di dolore e di rabbia. - Tutto è finito! - esclamò. Si precipitò giù dal tetto della capanna, seguito da tutti i suoi compagni, mentre un nembo di mitraglia spazzava la sommità del forte, salì sulla barricata che chiudeva l'entrata del fortino gridando: - Fuoco, tigrotti di Mompracem, fuoco! Mostriamo al rajah come sanno battersi i pirati della Malesia! ... La battaglia prendeva allora proporzioni spaventevoli. Le truppe del rajah, che fino allora si erano tenute nascoste sotto i boschi, si erano spinte verso la spiaggia e di là facevano un fuoco infernale; la flottiglia, tenutasi sempre ad una rispettabile distanza, vedendosi appoggiata dai cannoni del legno, aveva ora fatto una mossa innanzi, risoluta, a quanto pareva, ad approdare all'isola. La posizione dei pirati divenne ben presto disperata. Combattevano con rabbia estrema, ora tirando sulla nave, ora tirando sulla flottiglia, ora sparando sulle truppe ammassate sulla spiaggia della baia, entusiasmati dalla voce della Tigre della Malesia; ma erano troppo pochi per tener testa a tanti nemici! Le palle cadevano fitte, entrando per le feritoie e le fessure della cinta, e facevano cadere a due, a tre alla volta i pirati che sparavano dall'alto della palizzata. E spesso non erano semplici palle, ma granate che i cannoni del Realista vomitavano e che, scoppiando con terribile violenza, aprivano brecce enormi, per le quali il nemico, una volta sbarcato, poteva penetrare nel fortino. Alle tre del mattino un nuovo soccorso giungeva agli assalitori. Era uno svelto yacht armato di un solo ma grosso cannone, il quale aprì subito il fuoco contro le ormai cadenti palizzate del forte. - È finita! - disse Sandokan dall'alto della barricata, mentre con le dita arse, la faccia stravolta, tirava contro la flottiglia che continuava ad avanzare. - Fra dieci minuti bisognerà arrendersi. Alle quattro del mattino, nel fortino non rimanevano che sette persone: Sandokan, Yanez, Tremal-Naik, Ada, Sambigliong, Kammamuri e Tanauduriam. Avevano lasciato la cinta che non offriva più riparo alcuno e si erano ritirati nella gran capanna, una parte della quale era stata già distrutta dalle cannonate del Realista e dello yacht. - Sandokan - disse Yanez ad un certo momento, - non possiamo più resistere. - Finché abbiamo polvere e palle non dobbiamo arrenderci - rispose la Tigre della Malesia, guardando la flottiglia nemica che, respinta sei volte di seguito, tornava alla carica per sbarcare i suoi uomini. - Noi siamo soli, Sandokan. Abbiamo con noi una donna, la vergine della pagoda. - Possiamo ancora vincere, Yanez. Lasciamo che i nemici sbarchino e gettiamoci a corpo perduto contro di loro. - E se una palla cogliesse la Vergine? Guarda, Sandokan, guarda! ... Una granata lanciata dal Realista era in quel momento scoppiata, sfondando un lungo tratto della parete. Alcuni frammenti di ferro entrarono nel camerone, fischiando sopra il gruppo dei pirati. - Ammazzano la mia fidanzata! ... - esclamò Tremal-Naik che si era prontamente gettato dinanzi alla vergine della pagoda. - Bisogna arrendersi o prepararsi a morire - disse Kammamuri. - Arrendiamoci, Sandokan - gridò Yanez. - Si tratta di salvare la cugina di Marianna Guillonk. Sandokan non rispose. Dinanzi ad una delle finestre col fucile fra le mani, gli occhi fiammeggianti, le labbra semiaperte, i lineamenti alterati da una rabbia violenta, guardava il nemico che si avvicinava rapidamente all'isola. - Arrendiamoci, Sandokan - ripeté Yanez. La Tigre della Malesia rispose con un rauco sospiro. Una seconda granata entrò da un foro e cadde contro la parete opposta dove scoppiò, scagliando all'intorno schegge infuocate. - Sandokan! ... - gridò per la terza volta Yanez. - Fratello - mormorò la Tigre. - Bisogna arrendersi. - Arrendersi! ... - gridò Sandokan con un accento che più nulla aveva di umano. - La Tigre della Malesia arrendersi a James Brooke! ... Perché non ho un cannone da opporre a quelli del rajah? Perché non ho qui i tigrotti lasciati nella mia Mompracem? ... Arrendermi! ... Arrendersi la Tigre della Malesia! ... - Hai una donna da salvare, Sandokan! ... - Lo so ... - E questa donna è la cugina di tua moglie. - È vero! è vero! - Arrendiamoci, Sandokan. Una terza granata scoppiò nella stanza mentre due palle di grosso calibro, colpendo la sommità della capanna, facevano rovinare buona parte del tetto. La Tigre della Malesia si volse e guardò i suoi compagni. Avevano tutti le armi in pugno ed erano pronti a continuare la lotta; in mezzo ad essi la vergine della pagoda. Sembrava tranquilla, ma nei suoi occhi si leggeva la più viva ansietà. - Non vi è più speranza alcuna - mormorò con voce cupa il pirata. - Fra dieci minuti nessuno di questi prodi rimarrà in piedi. Bisogna arrendersi. - Si prese il capo fra le mani e parve volesse schiacciarsi la fronte. - Sandokan! - disse Yanez. Un urrah fragoroso coperse la sua voce. I soldati del rajah avevano attraversato il braccio di mare e si dirigevano verso il forte. Sandokan si scosse. Impugnò la sua terribile scimitarra e fece l'atto di slanciarsi fuori della capanna per contrastare il passo ai vincitori, ma si trattenne. - L'ultima ora è suonata per le tigri di Mompracem! - esclamò con dolore. - Sambigliong, issa la bandiera bianca. Tremal-Naik con un gesto arrestò il pirata che stava legando uno straccio bianco sulla canna di un fucile, e si avvicinò a Sandokan tenendo per mano la sua fidanzata. - Signore - gli disse, - se vi arrendete, io, Kammamuri e la mia fidanzata saremo salvi, ma voi, che siete pirati e perciò odiati a morte dal rajah, verrete senza dubbio tutti impiccati. Voi ci avete salvati: noi mettiamo nelle vostre mani la vita di noi tutti. Se avete ancora la speranza di vincere, comandate l'assalto e noi ci slanceremo contro il nemico al grido di: Viva la Tigre della Malesia! Viva Mompracem! - Grazie, miei nobili amici - disse Sandokan con voce commossa, stringendo vigorosamente le mani della giovinetta e dell'indiano. - Ormai il nemico ha approdato e noi non siamo che sette. Arrendiamoci. - Ma voi? - chiese Ada. - James Brooke non mi appiccherà, signora - rispose il pirata. - La bandiera bianca, Sambigliong - disse Yanez. Il pirata s'arrampicò sul tetto della capanna e agitò lo straccio bianco. Subito s'udì uno squillo di tromba echeggiare sul ponte del Realista, seguito da strepitosi urrah. Sandokan con la scimitarra in pugno uscì dalla capanna, attraversò il piazzale del forte ingombro di rottami e di cadaveri, di armi e di palle di cannone, e si fermò presso la barricata sfondata. Duecento soldati del rajah erano sbarcati e stavano allineati sulla spiaggia con le armi in mano, pronti a slanciarsi all'assalto. Una scialuppa montata dal rajah Brooke, da lord Guillonk e da dodici marinai si era staccata dal fianco del Realista e si avvicinava rapidamente all'isola. - Lui è mio zio - mormorò Sandokan con voce triste. Incrociò le braccia sul petto, dopo aver ringuainata la scimitarra, e aspettò tranquillamente i suoi due più acerrimi nemici. L'imbarcazione, vigorosamente spinta innanzi, in pochi minuti approdò presso il fortino: James Brooke e lord Guillonk sbarcarono, e, seguiti a breve distanza da un forte drappello di soldati, s'avvicinarono a Sandokan. - Chiedete una tregua o vi arrendete? - chiese il rajah salutando con la sciabola. - Mi arrendo, signore - disse il pirata restituendo il saluto. I vostri cannoni ed i vostri uomini hanno domato le tigri di Mompracem. - Lo sapevo che avrei finito col vincere la indomabile Tigre della Malesia - disse. - Signore, io vi arresto. Sandokan, che fino allora non si era mosso, nell'udire quelle parole rialzò fieramente la testa, gettando sul rajah uno sguardo che lo fece fremere. - Rajah Brooke - disse con voce sibilante. - Ho dietro di me cinque tigri di Mompracem, cinque sole, ma capaci di sostenere ancora una lotta contro tutti i vostri soldati. Ho dietro di me cinque uomini capaci di scagliarsi ad un mio cenno contro di voi e di stendervi a terra senza vita. Mi arresterete quando a quegli uomini avrò dato l'ordine di deporre le armi. - Non vi arrendete? - Mi arrendo, ma ad un patto. - Signore, vi faccio notare che le mie truppe son già sbarcate; che voi siete in sei e noi duecentocinquanta; vi faccio notare che basta un mio cenno per farvi fucilare. Mi sembra strano che la Tigre della Malesia vinta voglia dettare ancora delle condizioni. - La Tigre della Malesia non è ancora vinta, rajah Brooke disse Sandokan con fierezza. - Ho ancora la mia scimitarra e il mio kriss. - Devo comandare l'assalto? - Quando vi avrò detto ciò che io chiedo. - Parlate. - Rajah Brooke, io, il capitano Yanez de Gomera e i dayachi Tanauduriam a Sambigliong, tutti appartenenti alla banda di Mompracem, ci arrendiamo alle seguenti condizioni: "Che ci si giudichi alla Corte Suprema di Calcutta e che si accordi ampia libertà di andarsene dove meglio crederanno a Tremal-Naik, al suo servo Kammamuri e a miss Ada Corishant! ... " - Ada Corishant! Ada Corishant! - esclamò lord Guillonk, slanciandosi verso Sandokan. - Sì, Ada Corishant - rispose Sandokan. - È impossibile che sia qui! - E perché, milord? - Perché ella fu rapita dai thugs indiani e non se ne udì più parlare. - Eppure è in questo forte, milord. - Lord James - disse il rajah. - Avete conosciuto miss Ada Corishant? - Sì, Altezza - rispose il vecchio lord. - La conobbi pochi mesi prima che fosse rapita dai settari di Kalì. - Vedendola, la riconoscereste? - Sì, e sono certo che anch'ella mi riconoscerebbe, quantunque siano trascorsi da quell'epoca funesta ben cinque anni. - Ebbene, signori, seguitemi - disse Sandokan. Fece loro varcare la palizzata e li condusse nella gran capanna, in mezzo alla quale stavano, riuniti attorno alla vergine della pagoda, coi fucili in mano e il kriss fra le labbra, Yanez, Tremal-Naik, Kammamuri, Tanauduriam e Sambigliong. Sandokan prese Ada per mano e, presentandola al lord, gli disse: - La riconoscete? Due grida gli risposero: - Ada! - Lord James! Poi il vecchio e la giovanetta si abbracciarono con effusione, baciandosi. Entrambi si erano riconosciuti. - Signore - disse il rajah volgendosi verso Sandokan, - come mai miss Ada Corishant si trova nelle vostre mani? - Ve lo dirà ella stessa - rispose Sandokan. - Sì, sì, voglio saperlo! - esclamò lord James che continuava ad abbracciare e baciare la giovanetta, piangendo di gioia. - Voglio sapere tutto. - Narrategli tutto, dunque, miss Ada - disse Sandokan. La giovanetta non se lo fece ripetere e narrò brevemente al lord e al rajah la sua storia, che i lettori già conoscono. - Lord James - diss'ella, quando ebbe finito - la mia salvezza la devo a Tremal- Naik e a Kammamuri; la mia felicità alla Tigre della Malesia. Abbracciate questi uomini, milord. Lord James si avvicinò a Sandokan che, con le braccia incrociate sul petto e il volto lievemente alterato, guardava i suoi compagni. - Sandokan - disse il vecchio con voce commossa. - Mi avete rapito mia nipote, ma mi ridonate un'altra donna che io amavo quanto l'altra. Vi perdono; abbracciatemi, nipote, abbracciatemi! ... La Tigre della Malesia si precipitò nelle braccia del vecchio e quegli accaniti nemici, dopo tanti anni, si baciarono in viso. Quando si separarono, grosse lacrime cadevano dagli occhi del vecchio lord. - È vero che tua moglie è morta? - chiese egli con voce rotta. A quella domanda la faccia della Tigre della Malesia si alterò spaventevolmente. Chiuse gli occhi, se li coprì con le dita contratte e mandò un rauco gemito. - Sì, è morta - disse la Tigre con un gemito straziante. - Povera Marianna! Povera nipote! - Tacete, tacete - mormorò Sandokan. Un singhiozzo soffocò la sua voce. La Tigre della Malesia piangeva! Yanez si avvicinò all'amico e, mettendogli una mano sulla spalla: - Coraggio, fratellino mio - gli disse. - Dinanzi allo sterminatore dei pirati, la Tigre della Malesia non deve mostrarsi debole. - Sandokan si terse quasi con rabbia le lacrime e rialzò il capo con fiero gesto. - Rajah Brooke, sono a vostra disposizione. Io e i miei compagni ci arrendiamo. - Quali sono questi vostri compagni? - chiese il rajah con la fronte abbuiata. - Yanez, Tanauduriam e Sambigliong. - E Tremal-Naik? - Come! ... Voi osereste ... - Io non oso nulla - disse James Brooke. - Obbedisco e niente più. - Che cosa volete dire? - Che Tremal-Naik rimarrà prigioniero al pari di voi. - Altezza! ... - esclamò lord Guillonk. - Altezza! ... - Mi rincresce per voi, milord, ma non sta a me accordare la libertà a Tremal- Naik. Io l'ho avuto in consegna e devo restituirlo alle autorità inglesi, le quali non mancheranno di reclamarlo. - Ma voi avete udito tutta la storia di questo mio nuovo nipote. - È vero, ma non posso trasgredire gli ordini ricevuti dalle autorità Anglo- Indiane. A giorni un vascello di deportati toccherà Sarawak ed io dovrò consegnarlo a quel comandante. - Signore! ... - esclamò Tremal-Naik con voce rotta - voi non permetterete che mi separino dalla mia Ada e che mi conducano a Norfolk. - Rajah Brooke - disse Sandokan, - voi commettete una infamia. - No, obbedisco - rispose il rajah. - Lord Guillonk potrà recarsi a Calcutta, spiegare le arti codarde dei thugs e fargli ottenere la grazia ed io prometto, da parte mia, di appoggiarlo. Ada, che fino allora era rimasta muta, oppressa da un'angoscia mortale, si fece innanzi: - Rajah - diss'ella con voce commovente, volete dunque che ritorni pazza? ... - Riavrete presto il fidanzato, miss. Le autorità Anglo-Indiane rivedranno il processo e non indugeranno a rimettere in libertà Tremal-Naik. - Allora lasciate che m'imbarchi con lui. - Voi! ... Eh via! ... Scherzate, miss? ... - Voglio seguirlo. - Su di un vascello di forzati! ... In una simile bolgia infernale! ... - Vi dico che voglio seguirlo - ripeté ella con esaltazione. James Brooke la guardò con una certa sorpresa. Pareva che fosse impressionato della suprema energia di quella giovanetta. - Rispondetemi - disse Ada, vedendo che rimaneva muto. - È impossibile, miss - disse poi. - Il comandante della nave non vi accetterebbe. Sarà meglio per voi che seguiate vostro zio in India per ottenere la grazia del vostro fidanzato. La vostra testimonianza basterà per fargli rendere la libertà. - È vero, Ada - disse lord Guillonk. - Seguendo Tremal-Naik io rimarrei solo e mi mancherebbe il testimonio principale per salvare il tuo fidanzato. - Ma volete che l'abbandoni ancora! ... - esclamò ella scoppiando in singhiozzi. - Ada! ... - disse Tremal-Naik. - Altezza - disse Sandokan avanzandosi verso il rajah. - Mi accorderete cinque minuti di libertà! - Che cosa volete fare? - chiese James Brooke. - Voglio persuadere miss Ada a seguire lord James. - Fate pure. - Ma la vostra presenza non è necessaria: voglio parlare libero, senza che altri odano. Uscì dalla semi-diroccata capanna e condusse i suoi amici nella cinta del forte. - Vi accordo ciò che chiedete. Vi acerto però, che se sperate di fuggire v'ingannate, perchè la baia è tutta circondata. - Lo so. Seguitemi, amici. - - Ascoltatemi, amici - diss'egli. - Io possiedo ancora tali mezzi da far impallidire il rajah se potesse conoscerli. Miss Ada, lord James ... - Non lord James, chiamatemi zio, Sandokan - osservò l'inglese.- Siete pur voi mio nipote. - È vero, zio mio - disse la Tigre con voce commossa. - Miss Ada, non insistete oltre e rinunciate all'idea di seguire il vostro fidanzato all'isola di Norfolk. Cerchiamo invece di ottenere dal rajah che trattenga in Sarawak Tremal-Naik fino a che le autorità di Calcutta avranno riveduto il processo e deciso della sua sorte. - Ma sarà una lunga separazione - disse Ada. - No, miss, sarà breve, ve l'assicuro. Cerco di ottenere ciò dal rajah per guadagnare tempo. - Cosa volete dire? - chiesero Tremal-Naik e lord Guillonk. Un sorriso sfiorò le labbra di Sandokan. - Ah! - diss'egli. - Credete che io ignori la sorte che mi attenderebbe anche a Calcutta? ... Gli inglesi mi odiano ed ho fatto loro una guerra troppo aspra e feroce per sperare che mi lascino la vita. Voglio ancora essere libero, scorrere il mare e rivedere la mia selvaggia Mompracem. - Ma che cosa vuoi fare? Su chi speri? - chiese lord Guillonk. - Sul nipote di Muda-Hassin. - Del sultano spodestato da Brooke? - chiese lord James. - Sì, zio. Io so che sta congiurando per riacquistare il trono e che mina, lentamente ma incessantemente, la potenza di Brooke. - Che cosa possiamo fare? - chiese Ada. - A voi devo la mia salvezza e dovrò la libertà di Tremal-Naik. - Andare a trovare quell'uomo e dire a lui che le tigri di Mompracem sono pronte ad aiutarlo. I miei pirati sbarcheranno qui, si porranno alla testa degli insorti e verranno ad assalire prima di tutto la nostra prigione. - Ma io sono inglese, nipote - disse il lord. - E nulla esigo da voi, zio mio. Voi non potete cospirare contro un compatriota. - Ma chi agirà? - Miss Ada e Kammamuri. - Oh, sì, signore - disse la giovanetta. - Parlate. Che cosa devo fare? Sandokan si slacciò la casacca e trasse dalla fascia che teneva sopra la camicia di seta una borsa rigonfia. - Vi recherete dal nipote di Muda-Hassin e gli direte che Sandokan, la Tigre della Malesia, gli regala questi diamanti, che valgono due milioni, per affrettare la rivolta. - E io che cosa devo fare? - chiese Kammamuri. Sandokan si levò un anello, d'una forma speciale, adorno d'un grosso smeraldo e glielo porse dicendogli: - Tu andrai a Mompracem e farai vedere ai miei pirati questo anello, dirai loro che io sono prigioniero e che si imbarchino per aiutare l'insurrezione del nipote di Muda-Hassin. Ritorniamo: il rajah è sospettoso. Rientrarono nella capanna diroccata dove Brooke li aspettava, circondato dai suoi ufficiali che erano già sbarcati. - Ebbene? - chiese brevemente. - Ada rinuncia all'idea di seguire il fidanzato, a condizione che voi, Altezza, tratteniate prigioniero in Sarawak Tremal-Naik fino a che la Corte di Calcutta avrà riveduto il processo disse il lord. - Sia - disse Brooke dopo alcuni istanti di riflessione. Allora Sandokan si avanzò e, gettando a terra la scimitarra e il kriss, disse: - Sono vostro prigioniero. Yanez, Tanauduriam e Sambigliong gettarono pure le loro armi. Lord James, con gli occhi umidi, si gettò fra il rajah e Sandokan. - Altezza - disse, - che cosa farete di mio nipote? - Gli accordo ciò che mi ha chiesto. - Cioè? - Lo manderò in India. La Corte Suprema di Calcutta s'incaricherà di giudicarlo. - E quando partirà? - Fra quaranta giorni, col postale proveniente da Labuan. - Altezza ... è mio nipote, ed io ho cooperato alla sua cattura. - Lo so milord. - Ha salvato Ada Corishant, Altezza. - Lo so, ma nulla può fare colui che si chiama lo sterminatore dei pirati. - E se mio nipote vi promettesse di lasciare per sempre questi mari? ... E se mio nipote vi giurasse di non rivedere più Mompracem? - Fermatevi, zio - disse Sandokan. - Né io né i miei compagni abbiamo paura della giustizia umana. Quando l'ultima ora sarà suonata, le tigri di Mompracem sapranno morire da forti. - S'avvicinò al vecchio lord che piangeva in silenzio e lo abbracciò, mentre Tremal-Naik abbracciava Ada. - Addio, signora - disse poi, stringendo la mano alla giovanetta che singhiozzava. - Sperate! ... Si volse verso il rajah che lo attendeva presso la porta e, alzando fieramente il capo, gli disse: - Sono ai vostri ordini, Altezza. I quattro pirati e Tremal-Naik uscirono dal fortino e presero posto nelle imbarcazioni. Quando queste presero il largo dirigendosi verso il Realista, volsero gli sguardi verso l'isolotto. Sulla porta del recinto stava il lord con Ada a destra e Kammamuri a sinistra. Tutti e tre piangevano. - Povero zio, povera miss - esclamò Sandokan, sospirando. - Fatalità! ... Fatalità! ... Ma la separazione sarà breve, e tu, James Brooke, perderai il trono! ...

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"Io ero stato abbattuto da un colpo di lancia, la cui punta mi aveva trapassato la spalla," disse il moro. "Quando tornai in me, dopo molte ore, la signora Tinnè era già morta." "Ed è rimasto impunito quell'assassinio infame?" chiese Ben. "Furono arrestati i servi, ai quali i Tuareg avevano dato alcuni cammelli perché tornassero a Murzuk, ma gli altri scorrazzano ancora il deserto," disse il marchese. "Anzi il dottor Bary incontrò più tardi l'uccisore della Tinnè nell'oasi di Ghat e lo udì ancora vantarsi di quel delitto." "E il tunisino?" chiese Esther. "Di quel miserabile, che osò perfino spogliare la Tinnè mentre era ancora agonizzante, non si seppe più nuova." "Che canaglie!" esclamò Ben. "Ah! Non è il solo delitto rimasto impunito," disse il marchese. "Anche l'assassinio dei signori Dournaux Duperrè e di Joubert non è stato vendicato." "Chi erano costoro?" chiesero Ben ed Esther. "Due coraggiosi francesi che si erano proposti di esplorare il Sahara al sud dell'Algeria e che furono vigliaccamente assassinati dai Tuareg. "Avevano già visitato felicemente parecchie oasi del Sahara, Dournaux studiando e Joubert negoziando, perché era un abile trafficante, quando ebbero la malaugurata idea di prendersi una guida tuarik, certo Macer-Ben-Tahar, un traditore forse peggiore del tunisino della signora Tinnè. "Si erano già molto inoltrati nel deserto, quando s'accorsero che quella guida cercava d'ingannarli e che per meglio riuscire nei suoi disegni cercava di allontanare la loro seconda guida. Amed-Ben-Herma, la quale invece aveva dato prove di fedeltà non dubbia. "Decisero quindi di sbarazzarsene e giunti a Ghedames la denunciarono al cumacan. Fu un'imprudenza di certo ed il magistrato, che conosceva l'animo vendicativo dei Tuareg, non mancò di avvertirli del pericolo. "Macer aveva infatti giurato di vendicarsi dei suoi ex padroni e non mancò alla promessa. "I signori Dournaux e Joubert si erano allontanati da Ghedames di alcune giornate, quando si videro raggiungere da sei tuarik che parevano affamati e miserabilissimi. "Avendo chiesto ai due francesi ospitalità con pianti e lamenti, furono ricevuti nel campo e provvisti di cibi. Erano sei assassini mandati dal vendicativo Macer. Di notte, mentre i due francesi dormivano, quei miserabili invasero la tenda e li trucidarono barbaramente a colpi di pugnale." "E nemmeno quei disgraziati furono vendicati?" "I loro assassini scomparvero nell'immensità del deserto e più nessuno si occupò di loro." "Abbiamo fatto bene a dare loro quella severa lezione," disse Rocco. "Se avessi saputo, ciò prima, invece che sui cammelli avrei sparato contro gli uomini. Forse quei bricconi avevano preso parte all'assassinio dei signori Dournaux e Joubert e fors'anche a quello della missione Flatters e ... " Rocco si era bruscamente interrotto. I suoi sguardi si erano incontrati a caso con quelli del sahariano, ed era rimasto stupito dal lampo terribile che balenava negli occhi di costui. "Che cosa avete, El-Melah?" chiese. "Perché mi guardate così?" Tutti si erano voltati verso il sahariano e rimasero colpiti dall'espressione cupa del suo volto. "È nulla," disse El-Melah, ricomponendosi. "Udendo questi racconti sanguinosi, ho avuto un'impressione sinistra." "Comprendo," disse il marchese. "Avete assistito troppo di recente a una simile strage." "È vero, signore," disse il sahariano. "Vado a riposare, se me lo permettete." S'alzò quasi a fatica e uscì dalla tenda con passo malfermo. "Flatters!" mormorò coi denti stretti, gettando all'intorno uno sguardo smarrito. "Che non lo sappiano mai, almeno fino a Tombuctu." Alle tre del mattino, dopo un riposo di sei ore, il marchese faceva suonare la sveglia, desiderando giungere ai pozzi di Marabuti prima che il sole, che fra poco doveva mostrarsi, tornasse a scomparire. Durante la notte nessun allarme era stato dato dagli uomini di guardia. Alle quattro la carovana, dopo una leggera colazione, si rimetteva in cammino scendendo una immensa pianura che, in tempi certo antichissimi, doveva essere stata il fondo d'un vasto serbatoio d'acqua salata, a giudicare dalle masse di sale che si vedevano sparse fra le sabbie. Il marchese e Ben si erano ricollocati alla retroguardia e Rocco come sempre all'avanguardia a fianco di El-Haggar. Le vicinanze dell'oasi di Marabuti s'indovinavano facilmente pel numero considerevole d'animali che si vedevano correre in mezzo alle dune. Di quando in quando, ma a grande distanza, e quindi fuori di portata dai fucili, si vedevano fuggire bande di struzzi e di grosse ottarde. Talora invece erano truppe di sciacalli dalla gualdrappa, specie di cani selvaggi colla testa da volpe, gli orecchi grandissimi, gli occhi grossi, le code lunghissime, ed il pelame rossastro, fitto e morbido, che diventava giallognolo sotto il ventre, col dorso coperto da una specie di gualdrappa nera a strisce bianche, del più curioso effetto. Al pari dei caracal questi sciacalli non sono pericolosi per gli uomini, tuttavia non mancano d'audacia e osano entrare perfino nei duar onde mangiare ai poveri montoni la grossa coda, un boccone squisito e molto apprezzato dai sahariani. Anche qualche iena striata di quando in quando si mostrava sulla cima delle dune, facendo udire il suo riso sgangherato; ma all'appressarsi della carovana subito s'allontanava al galoppo. A mezzodì El-Haggar, che si era spinto innanzi alcune centinaia di metri, segnalò una linea di palme, la quale spiccava vivamente sul purissimo orizzonte. "L'oasi!" gridò, con voce giuliva. "Presto! là avremo acqua fresca e selvaggina!" Anche i cammelli avevano fiutato la vicinanza dell'acqua. Quantunque stanchissimi, affrettarono il passo, mentre i mehari non si trattenevano che a grande stento. "Ben," disse il marchese, "precediamo la carovana. Sono impaziente di godermi un pò d'ombra e di bere una buona tazza d'acqua." "Sono con voi, marchese," rispose l'ebreo. Spronarono i cavalli, lanciandoli a corsa sfrenata. Le palme ingrandivano a vista d'occhio, spiegandosi in forma d'un vasto semicerchio. L'effetto che produceva quel verde in mezzo alle aride ed infuocate sabbie del deserto era così strano, che il marchese stentava a credere d'aver dinanzi a sé delle vere piante e dubitava che si trattasse invece d'uno dei soliti giuochi del miraggio. "Si direbbe che quell'oasi sia un'isola perduta sull'oceano," disse a Ben. "Ed è anche popolata, marchese," rispose l'ebreo, rattenendo violentemente il cavallo. "Vedo dei cammelli, in mezzo a quelle piante." "Che appartengano a qualche carovana proveniente dalle regioni meridionali?" "O che siano i nostri Tuareg? Possono averci preceduti e senza difficoltà, avendo tutti dei buoni mehari." "Se sono essi daremo battaglia e questa volta non saranno gli animali che cadranno." Ben non si era ingannato. Parecchi cammelli e mehari, montati da uomini vestiti di ampi caic bianchi e coi volti quasi interamente nascosti da pezzuole legate dietro la nuca, si erano schierati dinanzi ai gruppi di datteri e di palme che formavano l'oasi. Non dovevano essere quelli che li avevano inseguiti, perché erano tre volte più numerosi e per la maggior parte armati di lance. Anche gli uomini della carovana si erano accorti della presenza di quegli stranieri. Rocco ed El-Haggar accorrevano in aiuto del marchese e di Ben, l'uno col mehari e l'altro montato sull'asino. Dieci Tuareg, preceduti da un uomo di alta statura che portava un turbante verde, un capo di certo, s'avanzavano tenendo le lance in pugno. Quando giunsero a cento passi dal marchese, l'uomo dal turbante. verde lo salutò con un "Salam-alek" molto cortese. Poi, assumendo improvvisamente un'aria spavalda, gridò: "I pozzi sono occupati da noi e per ora ci appartengono: che cosa volete quindi voi, figli del sultano del Marocco?" "Noi siamo assetati, desideriamo bere," rispose El-Haggar. "L'acqua del deserto appartiene a tutti ed i pozzi sono stati costruiti dai nostri padri." "I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare." "Che cosa chiedi?" "Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli." "Ladro!" gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. "Ecco la mia risposta!" Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo. Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando: "Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!"

"Voi sapete che i leoni hanno l'abitudine di ritornare là dove hanno abbattuto una preda." "Sì, per divorarsela, quando le iene e gli sciacalli la lasciano." "Trasciniamo l'asino fuori del campo e aspettiamo il ritorno dell'assassino. Oh! Non tarderà a mostrarsi, ve lo assicuro." "Mettiamo in esecuzione la tua idea," disse il marchese. Chiamò i beduini ed il moro e diede l'ordine di trascinare l'asino a centocinquanta metri dall'accampamento, presso un gruppetto di cespugli. Mentre obbedivano, egli, aiutato da Rocco e da Ben, accumulò parecchi grossi rami verso uno dei fuochi, in modo da formare una specie di barricata alta un buon metro e solidissima. "Ci nasconderemo qui dietro," disse. "I leoni, non vedendoci, ci crederanno addormentati e non tarderanno a venire per portarsi via la preda." "Signorina Esther, potete prendere un pò di riposo. Quando si mostreranno, vi sveglieremo." Fece sdraiare i due beduini ed il moro presso i cammelli, poi si nascose dietro la barricata assieme con Ben Nartico e con Rocco. La foresta era tornata silenziosa. Pareva che i due leoni, scoraggiati dalla mala riuscita del loro primo assalto, si fossero allontanati. Nondimeno né il marchese, né i suoi compagni ne erano convinti. "È un'astuzia vecchia," aveva detto il signor di Sartena. "Sono certo che ci spiano." Checché sia stato detto e scritto, il leone dell'Africa settentrionale, molto più grosso e più forte di quello dell'Africa meridionale, non rinuncia mai alla sua preda, anche quando sa di essere insidiato. Possiede un'audacia incredibile e non teme l'uomo, sia arabo o europeo, soprattutto quando ha cominciato ad assaggiare la carne umana. In ciò rassomiglia alle tigri dell'India. Anche queste, dopo che hanno divorato la prima vittima umana, diventano eccessivamente sanguinarie e affrontano risolutamente qualsiasi pericolo, pur di provvedersene altre. Generalmente il leone che vive di animali sorpresi nelle foreste sfugge quasi sempre il cacciatore. Se per caso ne atterra uno e prova ad assaggiarlo, allora diventa estremamente pericoloso. Osa entrare di notte nei duar per rapire i beduini o gli arabi addormentati, e non lo trattengono né i fuochi accesi attorno ai campi, né le siepi spinose e nemmeno le palizzate che varca con facilità, possedendo uno slancio incredibile. Per citare un caso dell'audacia di questi animali, basterà narrare un aneddoto. A Tsavo, nell'Uganda inglese, si stava costruendo un tronco ferroviario. Una notte due operai cinesi scomparvero. Erano stati portati via da un leone, il quale aveva avuto l'audacia di andarli a rubare in mezzo ad un accampamento difeso da trincee, da siepi e da fuochi e abitato da centinaia di persone. Poche sere dopo quell'animale, che aveva preso molto gusto alla carne umana, ritornava in quel medesimo accampamento e si portava via un indiano di cui aveva lasciato intatta la sola testa. Il signor Patterson, uno dei direttori del tronco in costruzione, spaventato dal crescente numero delle vittime, prepara un'imboscata; ma il leone sfugge con un'abilità incredibile, entra nell'accampamento dalla parte opposta e rapisce un altro lavorante. Si raddoppiano le siepi, i fuochi e le sentinelle, ma tutto è invano. Il formidabile mangiatore d'uomini due sere dopo salta la cinta, sventra la tenda che serviva da ospedale, ferisce mortalmente due malati, atterra un infermiere e se ne porta via un altro che va a divorarsi tranquillamente nella foresta. Il signor Patterson prepara un nuovo agguato presso l'ospedale, ed al mattino s'accorge che il leone ha ucciso uno dei portatori d'acqua, non lasciando che un pezzo di cranio ed una mano. Soltanto dopo parecchi agguati venne finalmente ucciso insieme ad un compagno, quando aveva già divorato, in poche settimane, una cinquantina d'operai fra negri, indiani e coolies cinesi. Il marchese di Sartena poteva quindi essere certo che i due leoni sarebbero ritornati per riprendersi la preda o fare qualche nuova vittima. Ed infatti non era ancora trascorsa un'ora quando Rocco s'accorse che un'ombra scivolava cautamente dietro i cespugli, cercando d'avvicinarsi all'accampamento. "Marchese, vengono," disse. "Me lo immaginavo," rispose il corso. "Ci sono tutti e due?" "Non ne ho veduto che uno." "Dove sarà l'altro? Stiamo in guardia onde non ci piombi addosso da qualche altra parte. "Lasciate che faccia fuoco solamente io, per ora; voi serbate i vostri colpi per l'altro." "Eccolo, marchese guardatelo!" esclamò Ben Nartico. "Che animale superbo," disse il corso. "Non ne ho veduto di così grossi, nemmeno nella Cabilia." Il leone era uscito dai cespugli e si era piantato dinanzi al primo fuoco, percuotendosi i fianchi colla lunga coda. Era un animale veramente splendido, uno dei più grossi e dei più maestosi della famiglia leonina. Doveva misurare non meno di due metri ed aveva una criniera abbondantissima, molto oscura, che gli dava un aspetto maestoso. I suoi occhi, che mandavano cupe fiamme, s'erano fissati sull'ammasso formato dai rami, come se già avesse indovinato che colà si nascondevano i suoi avversari. Nondimeno si teneva ritto, colla testa alta, il corpo raccolto, come se si preparasse a slanciarsi e ad impegnare risolutamente la lotta. Il marchese passò silenziosamente la canna del suo Martini in una fessura fra due rami e mirò attentamente quel terribile nemico. Già stava per far partire il colpo, quando un ruggito terribile, assordante, seguito dalle urla dei beduini e del moro e dai nitriti dei cavalli, risuonò dietro di lui. "Il leone! ... Il leone! ... " urlavano i carovanieri. Il marchese ritirò prontamente l'arma e si volse. Il secondo leone era piombato improvvisamente in mezzo all'accampamento, varcando i fuochi con un salto immenso. Spaventato forse dalle grida dei beduini e del moro, era rimasto un momento immobile, probabilmente anche sorpreso dalla propria audacia. "Occupatevi dell'altro, marchese!" gridò Rocco, facendo fuoco contemporaneamente a Ben Nartico. Ai due spari aveva fatto eco un nuovo ruggito, più formidabile del primo. La belva era caduta, ma poi si era subito risollevata. Con un salto abbatté la tenda di Esther, poi varcando nuovamente i fuochi si slanciò fuori dall'accampamento. Quasi nel medesimo istante le barricate rovinavano addosso al marchese, atterrate da un urto irresistibile, ed il secondo leone piombava a sua volta nel campo. Vedendosi vicino un cammello, gli balzò sulle gobbe, ruggendo spaventosamente, mentre Ben Nartico e Rocco si gettavano dinanzi alla tenda, fra le cui pieghe si dibatteva Esther, cercando d'uscire. Il marchese però non aveva perduto il suo sangue freddo. Quantunque intontito dal rovinio delle casse, si era prontamente rialzato col fucile in mano. "A me!" gridò. Il leone non era che a dieci passi e si sforzava di tenere al suolo il cammello, che faceva sforzi disperati per sbarazzarsi di quello strano cavaliere. "Badate!" gridò Ben, che ricaricava precipitosamente il fucile, mentre Rocco aiutava Esther a liberarsi dalla tenda che la soffocava. Il marchese muoveva intrepidamente contro la fiera, dalla cui gola spalancata uscivano sordi ruggiti che aumentavano rapidamente d'intensità. Aveva puntato il fucile, mirando la belva in pieno petto, onde colpire il cuore. Anche Ben Nartico aveva alzato il fucile e Rocco ed Esther stavano per imitarlo. I beduini ed il moro invece si erano rifugiati dietro un falò. Ad un tratto il leone, dopo aver dilaniato le gobbe al povero cammello, si raccolse su se stesso abbassando la testa e digrignando i denti. Il marchese si trovava allora a solo sei passi. "Sta per slanciarsi!" gridò Rocco. "Fuoco, padrone!" Un colpo di fucile rimbombò. Il leone stramazzò in mezzo ai cammellí, ma subito si rialzò ruggendo spaventosamente. Stava per scagliarsi sul marchese il quale ricaricava l'arma quando Esther, Ben Nartico e Rocco fecero una scarica. Il leone era ricaduto e questa volta per non più rialzarsi. Si dibatté per qualche istante, cercando ancora di lacerare i fianchi al povero cammello, poi si irrigidì. "Perbacco! ... Che pelle dura!" esclamò il marchese con voce tranquilla. "Eppure l'avevo colpito al cuore!"

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

e s'abbandonava sopra un banco, spossato, abbattuto, morto. - Perché non siedi a me daccanto, o dolce amor mio? Perché non mi ti accosti? Non temere, non mi appresserò troppo. Sai che t'amo, so che m'ami; so che dobbiamo troppo avvicinarci. E neppure puoi parlarmi: così vuole il destino. Ma io t'amo; tu sei il mio cuore. L'anima mia è fatta di te; non sono io, sono te; se io muoio, tu morrai; se tu muori, io muoio. Come sei bianca, o divina fanciulla! I tuoi occhi sono trasparenti e chiari, non mi guardano; le tue guance hanno appena una trasparenza rosea, le tue labbra sono pallide pallide, le tue mani sono candide come la neve, ed un fiocco di neve è il tuo manto. Hai tu freddo, cuor mio? Non sai che io ho la febbre, che il, sangue schiuma e bolle nelle mie vene, come un'onda impetuosa? Sorridi? Puoi calmarmi così. Quest'ardor che m'infiamma, questo incendio che divampa in me, solo la carezza della tua gelida mano potrebbe domarlo, solo il tocco delle tue gelide labbra potrebbe assopirlo. No! Non allontanarti, resta, resta per pietà di chi t'ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente. Tu leggi in me, vedi che sono puro, che il mio cuore è candido come la tua veste, che non lo macchia desiderio di fango. Non fuggirmi, non rivolgere il, volto celestiale; quando tu m'abbandoni, ecco, la vita declina, in me: tutto diventa buio, tutto diventa muto, ed io piango sul mio sogno distrutto, sul mio cuore desolato. Donde vieni tu? Dove vai, quando mi lasci? E perché mi lasci? T'amo, non lasciarmi. Non parlava la fanciulla nei colloqui i d'amore. Ella ascoltava immobile, bianca, pronta sempre a partire; ogni tanto un sorriso indefinito le sfiorava le labbra, una mestizia le compariva in volto; ma sorriso e mestizia erano spostamento di linee, non corrugamento di fronte o espansione di labbra; era espressione, luce interna, quasi una lampada soave s'accendesse dietro un velo. Non parlava la fanciulla, ma ogni giorno ella restava più a lungo con colui che l'amava. Egli le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La contemplava, estatico. Ella si muoveva per andarsene. - Non partire, non partire! - supplicava lui. Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra, coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche. - Siedi, siedi accanto a me! Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla. - Parlami, parlami - mormorava lui. Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava, s'inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena. Ma in un crepuscolo d'autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria disperazione: batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si trasformasse; dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle, morente di amore, le offerse la sua vita per una parola. - M'ami? - Sì - parve un sussurrìo. Allora, in un impeto di passione, egli l'abbracciò. Un orribile scricchiolìo s'intese e la divina fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida. Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane cominciò un mormorìo, un bisbiglio, un'agitazione. Correvano fremiti da una scansia all'altra, attraverso i cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan l'un contro l'altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu l'Aurora bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui giaceva svenuto accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le ventiquattro fanciulle che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli Amorini, e gli conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i sette re di Francia, bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l'infelice, ed ogni colpo gli rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s'avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo calpestò; ogni tazza fu piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne per lui fiori malefici e crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare l'Olimpo: Giove, seduto sull'aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme sepolcro di massi. Poi ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero immobili. Fu questa la vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la fanciulla immortale. È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi - l'arte si vendica sulla vita - e l'anima muore sotto un immane sepolcro.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Egli piangeva, là, buttato con le braccia e con la testa sopra un tavolino, abbattuto come una misera creatura la cui infelicità è veramente infinita e irrimediabile: mentre ella, raccolta, studiava il gran mezzo della salvazione. Ma, subitamente, col zittìo delle labbra, ella gli impose di tacere. Agnesina, la bambinella, si era svegliata così, dolcemente, come ella soleva, senza piangere e senza gridare; seduta saviamente sulla sua sediolina, guardava sua madre, con gli occhioni spalancati, scintillanti di dolcezza. Luisella si levò dal seggiolone, dove era restata confitta e si chinò a baciare lungamente la sua creatura, quasi che in quel bacio ella ricevesse forza e ricambiasse affetto. La piccina guardava, senza parlare, suo padre che avea il capo abbassato sul marmo del tavolino; poi domandò: - Papà dorme? - No, no, - disse la madre, passando nella retrobottega a prendere la mantellina e il cappello. - Va a dargli un bacio. Va, digli così: papà, non è niente, non è niente. La bimba, obbediente, andò accanto a suo padre e appoggiando gli la testina alle ginocchia gli disse, con la sua bella voce cantante infantile: - Papà, dammi un bacio: non è niente; non è niente. Allora il cuore gonfio del povero giovane si spezzò, e sui neri capelli della sua creaturina, piovvero le lacrime più cocenti che avesse versato nella sua vita. Annodandosi i nastri del cappellino, udendo quei singulti disperati, Luisella fremeva per reprimere le sue lacrime, ma non interveniva, lasciava che quel cuore desolato si sfogasse e si racconsolasse, baciando la piccina: e la piccina, meravigliata, andava ripetendo, sotto quelle lacrime, sotto quei baci: - Papà mio… papà mio.., non è niente. - Andiamo via, - disse Luisella, rientrando nella bottega, mordendosi le labbra, cercando d'impietrarsi il cuore. Ancora commosso, Cesarino tolse in braccio la fanciulletta, come faceva ogni sera, quando ella si addormentava in bottega: le mise il cappuccetto di lana sulla testa, annodandoglielo sotto il mento. Luisella andava mettendo ancora un po' d'ordine nella bottega, levando la chiave dalla cassaforte, sentendo se tutti i cassetti del bancone fossero chiusi, con quell'istinto di ordine che è nelle alacri mani di tutte le donne giovani, sane e buone. Abbassarono il gas, mentre Luisella accendeva un cerino: se ne andarono per la retrobottega e per la piccola porta che metteva nel vicolo dei Bianchi. Pioveva sempre e il caldo vento sciroccale batteva sul volto la pioggia tiepida di estate: ma erano poco lungi dalla casa. Cesarino aprì l'ombrello e la moglie gli si mise sotto il braccio, per ripararsi dalla pioggia: la bambina, raccolta sull'altro braccio, gli appoggiava la testina sulla spalla. E tutti tre andavano chini, sotto la tempesta estiva, senza parlare, stretti stretti, l'uno all'altro, come se solamente l'amore potesse scamparli, nella gran bufera della vita, che li voleva travolgere. Nella notte, sotto l'ira del cielo, pareva che andassero, andassero a un destino di dolore, ma le due creature innocenti che si stringevano affettuosamente al misero colpevole, pareva che chiedessero e portassero salvezza. Niente avevano detto, finché giunsero in casa, su, dove la serva li aspettava con la porta aperta, e stese le braccia a prendere Agnesina, per portarla in camera sua, per spogliarla ed addormentarla. Ma la creaturina, quasi avesse intesa la gravità di quell'ora, volle ancora farsi abbracciare dal padre e dalla madre, dicendo loro, con quel suo dolce linguaggio infantile: - Mammà, beneditemi: papà, beneditemi. Al fine furono di nuovo soli, nella loro stanza, dove la lampadetta di argento ardeva innanzi alla madre di Gesù, la pia, la dolorosa madre. Cesare era accasciato. Ma Luisella schiuse subito la porta a cristallo del suo grande armadio di palissandro, dove chiudeva i suoi oggetti più preziosi, stette un po'a cercare in quella penombra, e ne cavò fuori due o tre astucci di pelle nera. - Ecco, - disse a suo marito, offrendogli i suoi gioielli. - O Luisa, Luisa! - gridò lui, straziato. - Li dò volentieri. Per l'onor nostro. Non oserei tenere queste pietre, queste gioie, inutili, quando siamo in pericolo di mancare all'onestà. Prendi. Ma per tutto quello che è stato di dolce il nostro passato, ma per tutto quello che può essere di terribile il nostro avvenire, per l'amore che mi hai portato, per quello che ti porto, per quella creaturina nostra, sulla cui testa adorata hai pianto, questa sera, Cesare, te ne prego con tutta l'anima, te ne prego come si prega Cristo all'altare, concedimi una promessa… - Luisa, Luisa, tu vuoi farmi morire… - gridò lui, mettendosi le mani nei capelli. - Prometti di lasciare in mia mano tutti gli affari del nostro commercio, debiti e crediti, compera e vendita? - Prometto… - Prometti di dirmi tutto ciò che devi dare, acciò che io possa pensare al rimedio? - Prometto… - Prometti di dare a me tutto il denaro che hai, che puoi avere, e di non cercarne altro, che non sappia io? - Tutto, tutto, Luisa… - Prometti di credere solo a me, di udire solo i miei consigli, di ascoltare solo la mia voce? - Prometto… - Prometti che nessuno varrà più di me, prometti che mi ubbidirai, come a tua madre, quando eri fanciullo? - Come a mia madre, obbedirò. - Giura tutto questo. - Lo giuro innanzi alla Madonna, che ci ascolta. - Preghiamo, adesso. Ambedue, piamente, si inginocchiarono innanzi alla sacra immagine. Ambedue dissero, insieme, sottovoce, il Pater noster, più forte, alla fine, levando gli occhi, ella disse: - Non c'indurre in tentazione… E lui, ripetette, umilissimamente, sconsolatamente: - Non c'indurre in tentazione…

E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

La Stampa e la Politica

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Torelli, Giuseppe 1 occorrenze

Don Davide Albertario ha certamente una fibra giornalistica molto forte: lo si è veduto nel recente scandalo di Viadana, da cui ogni altro prete sarebbe stato abbattuto, e che per lui è stato Leggero soffio di villana auretta D'abbronzato guerriero in su la guancia. E. TORELLI- VIOLLIER.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

Spesso si beve eccessivamente per scuotere lo spirito abbattuto e per soddisfare a la sete dell'eccitamento ; ragioni che non si riscotrano nelle società ove si pensa a la distrazione del popolo ». La Francia , specie prima della rivoluzione , aveva nome di un paese di grande temperanza ; cosa che si spiegava in parte , con la ragione della naturale gaiezza di quel popolo e dell' abitudine di piaceri semplici e innocenti, sopra tutto fra i contadini. Nel secolo XIX il progresso, facilitando i mezzi di trasporto , offerse a tutti, fino a la famiglia più povera, il modo di svagarsi uscendo dalla città a l'aperto, visitando paesi, facendo igieniche escursioni. L'istruzione ha aperto la via, in questo secolo, ad ogni classe di persone a un piacere intimo , squisito e sommamente educativo, quando si sappia scegliere con giudizioso discernimento : il piacere della lettura. E’ propria del secolo XIX la letteratura popolare. Una quantità immensa di libri furono pubblicati per il diletto e per l' educazione del popolo. Vi sono libri per tutte le età , per tutti i gusti ; e la maggior parte di questi hanno per iscopo di educare le facoltà morali, di bene dirigerle , di svegliare nei cuori sentimenti buoni, di far conoscere l'uomo a se stesso, di raffermarlo nell'idea del dovere, di Dio, della patria, della famiglia. Pur troppo, fra la quantità di libri che tutti possono leggere e capire, ve ne sono parecchi che non hanno di mira di insinuare nei vergini cervelli i semi indistruttibili del sano carattere nè di educare ad una vita laboriosa ed onesta, ad una coscienza dignitosa e tranquilla, ad una fede sicura in Dio e nella immortalità dell' anima. Molti libri illeggiadriscono la vita degli istinti e spesso in modo, che il povero e massime la fanciulla, perda l'amore, anzi disdegni l'umile suo ufficio nella famiglia e sbrigli le passioni dal vincolo morale. Altri insinuano idee false e pazze allettando con miraggi bugiardi, che svegliano desideri impossibili, e spingono al male e a la ruina. Un libro può essere la salvezza o la perdizione di una persona. Per questo furono fondate le biblioteche popolari, che raccolgono libri buoni, scritti da spiriti retti e fermi, da veri pensatori, i quali in modo facile e attraente innamorano della virtù, inspirano pazienza, rassegnazione, elevano la mente a la fede, nutrono in cuore l'amore dell'umanità, della patria, della famiglia. E’ difficile misurare il bene, grande immenso, che può fare un buon libro a la società e per conseguenza a la famiglia ! Basta citarne uno, uscito nel 1850 in un giornale di Washington col titolo di Uncle' s Tom Cabin; ibro ispirato dalla pietà, dalla generosità, dal santo desiderio dell'uguaglianza, del diritto di tutti d'avere una famiglia ed in quella poter vivere liberi e sicuri. Il libro, chi non lo sa ? . . . è di una donna, di Enrichetta Beecher- Stowe, che viveva nei tempi del più vivo contrasto contro gli abolizionisti, nel momento della più dura oppressione sopra gli schiavi. I dolori di questi, le persecuzioni contro quelli, ali- mentarono il suo coraggio, infocarono la sua fede. La scrittrice parlava al popolo del quale si guadagnò tosto l'attenzione e la sincera simpatia. Non parlava con linguaggio veemente e sdegnoso, non imprecava agli oppressori, non eccitava gli oppressi a rivolta; ma con sincero accento, ma con spirito di tranquilla verità, con fine osservazione di costumi e di caratteri, poneva in evidenza i patimenti, i dolori, le miserie dello schiavo in casa del ricco coltivatore; e intorno alle angosce degli oppressi, rappresentava gli stessi oppressori, non più sordi, ma già dolenti e deploranti la dura necessità, della schiavitù. E giovavasi del femminile compianto , colorando la bella immagine della gentile Evangelina, a toccare vivamente il cuore dei lettori, a scendere nell' animo del popolo , a suscitarvi commiserazione per gli infelici , vittime della più crudele ingiustizia, che non potevano avere libertà, non famiglia. Il libro si introdusse nelle famiglie e nelle scuole e non invano parlò al commosso sentimento delle donne e dei fanciulli. Il fiero piantatore , sul campo del lavoro, spietato e freddo a la vista dello schiavo flagellato , nel seno della famiglia, non seppe resistere a la mestizia, alle lagrime, ai sospiri della sposa e dei figli, e perdette della sua asprezza. La causa dell'abolizione, che pareva cosa tutta locale di lontani paesi e di altre genti, da non toccare gli estranei , divenne per effetto della emozione e dell' umana simpatia una causa comune di tutte le genti civili. Il nome della scrittrice americana va congiunto con la memoria d' un grande progresso dell' umanità, al cui compimento la sua parola non fu inefficace. L'alto merito suo non deriva dai pregi dell'ingegno, dalla finezza dell'arte ; l'opera sua è semplice e modesta : ha la potenza della spontaneità, il vigore d'una coscienza sicura, lo schietto impulso al conseguimento del bene ; è un'opera del cuore ; è il profondo sentimento della verità che parla in difesa degli oppressi e degli umili con mite parola, con la parola eternamente vera del Vangelo, che vince il cuore indurito dei superbi potenti. La forza della verità espressa da una candida, sicura coscienza , contribuì a dare a tanti e tanti infelici, libertà e famiglia. Per strappare il povero, o meglio il popolano, ai pericoli dell'ozio serale e festivo, nel secolo XIX , si cercò , per mezzo di conferenze pubbliche, di circoli ove si insegnano gratuitamente lingue straniere, i principi della scienza e il disegno, di attirarlo a dilettevole occupazione, che ingentilendolo lo renda capace di meglio comportarsi in famiglia, come padre, marito, figlio e fratello. La coltura intellettuale è, certo, una difesa contro l'intemperanza, poiché dà a lo spirito, forza e elevatura. Persuasi di ciò, i buoni e gli onesti , hanno fatto in modo che la coltura intellettuale fosse una sorgente di diletto , e scrissero libri buoni e fecero che si diffondessero fra il popolo. Il gusto della lettura procura ore deliziose, impedisce l'ozio e la noia, rende disprezzabili i piaceri grossolani. Quanti giovani non sono trattenuti dal gusto della lettura, dal passare le serate fuori di casa e abbrutirsi in piaceri dannosi ! . . . Le conferenze pubbliche, i corsi gratuiti di scienza e letteratura, le biblioteche popolari , sono i primi frutti dell'educazione intellettuale. Quale larga messe di bene non ne deriveranno in avvenire, nelle generazioni portanti in se gli usi tradizionali ?