Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

È assioma che la mano, la quale pudicamente rialza o abbassa un velo, fa pensare assai più a ciò che essa vuol nascondere che al pudore che nasconde. Nondimeno se ciò paresse strano a qualche lettore, che si ricorda come Nanà quando a Parigi Labordette le aveva detto ch'ella avrebbe posato per la testa e per le spalle dinanzi allo scultore che doveva modellarle la Notte pel suo nuovo letto avesse risposto: "Je me fiche pas mal du sculpteur qui me prendra" Se quel moto di pudore, ripeto, paresse strano al lettore io non saprei dargli torto, giacchè egli non conosce ancor nulla della piccola trasformazione morale che Nanà aveva subita nei pochi giorni di sua dimora a Milano. Nell'ambiente serio e sconosciuto nel quale s'era messa "la bonne fille" subiva un cambiamento ne' suoi istinti di donna, la quale non sarebbe apparsa tanto corrotta neppur a Parigi se il cinismo degli uomini non l'avesse resa tale. - Che c'è? - domandò Aldo Rubieri. Mattia distaccò a stento gli sguardi dal tesoro di formosità, che dall'anca in su gli si presentava di contro e rispose con voce commossa: - Forestieri... seccature che vorrebbero parlare con lei. Ecco il biglietto di visita d'una signora. Aldo lo prese: - Leopoldina Rickherwenzel! - sclamò con grandissimo stupore. - Chi vedo! Che fosse colei? A Milano? Possibile! Dimmi Mattia, che figura ha? - Bionda..., magra, alta.... - È lei, è lei! - Che età? - Io le darei dai trenta ai trentaquattro anni.... - È lei! Non c'è dubbio! - Dev'essere stata bella, da ragazza - aggiunse Mattia coll'aria d'un conoscitore. - Dovrò io riceverla? - pensava intanto lo scultore. - Chi è questa donna che cerca di voi? - domandò Nanà in discreto italiano. - Oh, una vecchia conoscenza di Vienna. - Una antica amante? - Pressapoco. E qui successe un poco di silenzio. - Se io vi pregassi di non ricevere questa vostra antica fiamma, cosa direste di me? - fece Nanà questa volta in francese. - Davvero? - sclamò Rubieri con una punta di ironia nella voce e nello sguardo. - Chi l'avrebbe detto! - Chi l'avrebbe detto? - ripeto Nanà. - Sapete che questo mi ha l'aria di una impertinenza? - No - rispose lo scultore - è semplicemente un'esclamazione. - Ebbene - ripigliò Nanà - senza tanti discorsi, ditemi francamente se mi fate o se non mi fate il sagrificio che vi chiedo. - È impossibile! - Perchè? - Ma perchè la sarebbe una specie di furfanteria se rifiutassi di rivedere una donna alla quale tra le altre cose ho promesso di sposarla e che è venuta a Milano, dopo dieci anni, per rivedermi. - Ma tanto più! - sclamò Nanà ridendo - Assolutamente mio caro Aldo, se voi la rivedete potete star certo che io non metterò più il piede in questo studio. Lo scultore fu colpito vivamente da questa uscita così perentoria di Nanà. La guardò con malcelato stupore. Poi le si accostò e le prese la mano. - Nanà - disse - spiegatevi allora. Questo vostro capriccio ha bisogno di un poco di luce. - Ecco gli uomini! - gridò Nanà sempre ridendo. I suoi denti, eran tali da non permetterle di parlare sul serio. - Non si può avere un suggerimento dei nervi senza che essi subito ci vogliano vedere un capriccio di... tutt'altra cosa. Rubieri vedendo di essere stato capito al di là di quello che supponeva e che desiderava, abbandonò la mano di Nanà e restò un pochino interdetto. Nanà continuò: - Voi non mi conoscete Aldo, che da otto giorni, e sta bene; se staremo insieme da buoni amici come spero per un pezzo vi toccherà di udirne e di vederne di quelle anche più strane e non per mia colpa, ve lo giuro. Persuadetevi di una cosa sola, ed è che in fondo io sono una buona figliuola, che non faccio apposta, che non è un partito preso il mio di sembrare qualche volta stravagante, ma è una cosa più forte di me stessa. Io vi sembrerò fors'anche una matta gloriosa. Chissà? M'han creata così. È la qualità del legno - proseguì in italiano- come diceva la Sarah, a Firenze. È la colpa del fattore, come diceva Bigio Diotallevi. - Dunque che cosa dovrò dire ai forestieri? - si permise di interrogare Mattia Corvino che, aspettava da cinque minuti la risposta. - Dì loro che se ne vadano pe' fatti loro - rispose Nanà. - No aspetta - interruppe Aldo. Poi voltosi alla donna, - Via non siate irragionevole. Vorreste che quegli Austriaci pensassero di me che son diventato un mascalzone? - Gli Austriaci pensino di voi, quello che loro più pare e piace, ma io non voglio che voi riceviate quella donna. Ve l'ho detto; non sono io che comando sono i miei nervi. - Bene bene - disse Aldo accostandosi a Mattia. - Dirai loro che io non posso riceverli. - E più sottovoce soggiunse - dille che andrò io al suo albergo domani. Nanà si lamentò di quella frase detta a bassa voce. - Ho capito. Gli avrete detto che tornino domani quand'io non ci sarò. - No - disse Aldo. - Che cosa gli avete detto dunque sottovoce? - Nulla. - Bugiardo. Nulla non è una risposta. Rubieri ascoltatemi - diss'ella seria se io so che voi, mi avete disobbedita non mi vedete più nè viva, nè morta, e anche la Venere resterebbe a mezzo. - Ah questo è proprio assolutamente troppo. - Mi promettete di non andarla a trovare? - Ma che v'importa, Nanà, che v'importa? - domandava ansiosamente lo scultore che non giungeva ancor a spiegar a sè stesso quel fenomeno. - Nulla, ma non voglio. È un puntiglio. Voi dovete cedere. Io non sono avvezza a non veder cedere. Sono otto giorni che noi ci conosciamo. Se non cedete nei primi otto giorni, quand'è che vorreste cominciare? Me lo promettete? E fra sè pensava "Ces fichus d'Italiens" d'Italiens"- Bene ve lo prometto - disse Aldo per troncare il diverbio. In quella, Mattia rientrò. - Il signor conte sindaco è in salotto che avrebbe a dirle due parole. - Il sindaco benvenuto - sclamò Rubieri deponendo gli utensili del lavoro. Per oggi basta Nanà. Ci rivedremo domani. Addio. E uscì. Dal canto suo, la dilettante di nudo, calzate sui piedini le pianelle, se ne andò a vestirsi dietro certi arazzi che formavano in un angolo l'appartamentino per le modelle. Che cosa veniva a fare da Rubieri il conte sindaco? Chi era il conte sindaco? Egli era un ometto, così; nè bello, nè brutto, fra i cinquanta e i sessant'anni, grassottello e nello stesso tempo arzillo e svelto come un pesce; il che implica una certa contraddizione, che invece non esiste. O se la esiste, si può dire che questa contraddizione fisica sia appunto la caratteristica del nuovo personaggio. Tutto infatti, nel conte sindaco, sentiva di contraddizione lontano un miglio. Nato povero, era ricco; nato plebeo, era stato fatto conte; aveva degli istinti liberali ed era un gran conservatore; aveva dello spirito, ed era senatore; aveva sortito da natura le inclinazioni del viveur e del barzellettista e come senatore, banchiere, sindaco e conte, gli toccava di essere l'uomo più lavoratore e più serio dell'universo. A chi gli avesse fatta osservare quest'ultima contraddizione - e cioè, ch'egli fosse sortito da natura per essere piuttosto quello che i Francesi chiamano un homme de loisir che un gran lavoratore - egli avrebbe recisamente negato, e gli avrebbe risposto che nessuno forse, a questo mondo, s'era meno divertito di lui, e nessuno poteva vantarsi di avere lavorato più di lui. E bisognava credergli. Ma è da notare che, prima la spinta della necessità, poi quella dell'interesse, poi l'ambizione, poi il dovere gli avevano messa indosso fin dalla puerizia un'abitudine di lavoro a tal segno, che fugando la nativa spensieratezza, era divenuta in lui una seconda natura e poteva esser tenuta da lui stesso in conto di vera inclinazione. Ma in fondo in fondo, no; perchè il nostro ometto era nato scansafatica, e questo lo si poteva arguire dalla sensualità e dalla voluttà ch'egli metteva in tutte le azioni, minori della sua vita. Quando parlava, per esempio e che poteva ridere di qualche sconsigliato consigliere del Municipio, egli godeva mezzo mondo. Mangiava poco, ma avrebbe dato dei punti a Brillat Savarin, come buon gustaio, anzi come buon gustatore. E fra le ballerine del palcoscenico del teatro della Scala come si sgranavano que' suoi occhietti verdognoli e arguti alla vista della grazia di Dio. Come era eloquente il suo sorriso, pur restando sempre un sorriso da sindaco, da conte, da banchiere e da senatore! Nella sua qualità di capo dell'amministrazione comunale, egli era indubbiamente tenuto come uno dei meno peggio d'Italia, così ricca di sindaci balordi. Dove diamine, lui, così poco istruito in gioventù e lontano dal mondo diplomatico, avesse attinta quella finezza moderna, quell'arte del barcamenare, quella dissimulazione preziosa, che sono indispensabili a chiunque si trovi nella di lui posizione, nessuno lo saprebbe dire. Egli non aveva avuto maestri di tali discipline. Pochi uomini possedevano come lui quella dote utilissima ai governanti, la quale consiste nel non dimostrare mai al prossimo nè troppa simpatia, nè troppa antipatia. Anche lui le provava talvolta fierissime in cuor suo, ma sapeva dissimularle così bene, sapeva reprimere con tanta disinvoltura i moti del proprio animo, sapeva far tacere così costantemente ogni eccitazione personale, sapeva dividere in così giusta misura le proprie inclinazioni e le proprie declinazioni, da meritarsi da ambe le partì il soprannome di sindaco trampolino, il quale sembra un'offesa, mentre è il brevetto della sua più grande imparzialità. Riusciva dunque difficile il dire se egli fosse un conservatore o un liberale. Egli non aveva preferenze pei due partiti, in cui - come in politica - si divideva il Municipio della sua città. Stando a cavallo, ei si serviva ora della opposizione dei conservatori, ora di quella dei rompicolli, a seconda ch'egli aveva bisogno di questa o di quella, e ne usciva sempre ilare e trionfante, ch'era un piacere a vederlo. - Sono venuto io stesso - diss'egli a Rubieri, che si scusava di riceverlo in abito da lavoro - sono venuto io stesso a darle una buona notizia. Ella è nominato assessore, e io sono certo che ella accetterà. - Oh! - sclamò il Rubieri, fingendo una grande sorpresa. - Non si potrebbe dispensarmi? - No, no, tutti lo desiderano - rispose il sindaco. - C'è bisogno d'un artista in Consiglio. - La avverto caro signor sindaco che io sono corpisantino e che mi metterò nell'opposizione. - Non lo credo! Io non gliene darò mai l'appiglio. Io conosco il di lei criterio abbastanza, per sapere che invece noi andremo perfettamente d'accordo. - Se lei mi parla così a me tocca d'accettare - disse Aldo al sindaco stringendogli la mano. - Bravo! Così mi piace, senza tante smorfie. Del resto - soggiunse tosto - io non credo che lei avrebbe ugualmente la possibilità di farmi l'opposizione ancorchè si mettesse colla montagna. Io sono proprio stanco, e non per convenzionalismo, come si usa ormai di dirlo da tutti gli uomini, ma stanco di buono e vedrei di buon occhio un successore. Provino, provino quanto sia facile far il sindaco di Milano! Il dialogo tra il sindaco e Rubieri andò per le lunghe e divagò poi in cento argomenti. Ma noi crediamo di far bene ad arrestarci avendo riferito di esso quello che importa alla nostra storia. Ora sarà bene che vediamo in che modo c'entrassero con Aldo Rubieri gli Austriaci che erano venuti a trovarlo prima del conte sindaco. Bisogna dunque sapere che il padre di Aldo Rubieri era stato colonnello di stato maggiore al servizio dell'Austria. Nel 1850, quando Aldo non aveva che dodici anni, ed era accasato con suo padre a Vienna, il rinnegato italiano godeva settemila fiorini annui come impiegato nel ministero della guerra. Suo padre aveva sposato una baronessa polacca. Si capisce facilmente quale potesse essere stata l'educazione politica e patriottica del giovinetto Aldo fino al 1859. Sua madre gli era morta in quell'età. Quand'egli cominciò a provar nel cuore il bisogno di voler bene a una creatura di diverso sesso, gli capitò di innamorarsi come si usa a 19 anni, di una fanciulla di famiglia borghese, ch'egli aveva veduta per la prima volta al Prater. Una di quelle lunghe occhiate reciproche dalle quali i fisiologi dicono emani del fluido magnetico, era corsa fra loro; e due giorni dopo, mentre entrambi stavano credendo di udire la messa nella cattedrale, una seconda occhiata ancora più lunga e più reciproca aveva suggellato il loro amore. L'effetto di quello sguardo era stato decisivo per entrambi. Poco stante era cominciata la corrispondenza. In tre pagine di quelle proteste e di quei giuramenti senza fine, che scaturiscono tanto spontanei dalla punta di una penna di 19 anni, Aldo parlava alla sua Leopoldina di futuro matrimonio. Leopoldina aveva allora 21 anni, tre o quattro più del giovanetto. Pochi giorni dopo la signorina viennese e il figlio del rinnegato Italiano, s'abboccavano al passeggio e si giuravano anche a voce eterno amore. - Mio padre non mi permetterebbe certamente di sposarti ora; - disse Aldo - avrai tu pazienza di aspettare che io sia uscito di minor età? - Oh te lo giuro, Aldo - rispondeva la bionda figlia del Danubio, alzando i suoi occhi grigi e innamorati in viso del bell'Italiano. - Io non sarò che tua o della morte! Quando fu soddisfatto, Aldo trovò di non avere più voglia di sposare la Leopoldina. Essa non gli era stata crudele; il matrimonio, ai desideri di Aldo, compariva superfluo. Ma quando il padre di Leopoldina s'accorse dello scapuccio di sua figlia, manovrò come manovrano tutti i padri viennesi in tale circostanza. Egli era un furbo matricolato. Capì che da quel giovinetto avrebbe potuto cavare, un giorno o l'altro, molto profitto e aveva lavorato a questo scopo. Il Rubieri s'era lasciato andare a firmare un atto di donazione alla figlia Leopoldina, nel caso che avesse mancato alla promessa di sposarla. Una bagatella di venti mila fiorini in testa al nascituro. Poco dopo venne il 1859. Aldo Rubieri non era certo da giovinetto, quel fino calcolatore, che coll'età e coll'esperienza s'era fatto poi; ma aveva fin d'allora l'istinto delle proprie convenienze. Egli sentiva tutta la umiliazione d'essere figlio di un rinnegato, sospetto, malveduto in paese straniero e nemico, senza avvenire possibile; sognava in nube la probabilità della riabilitazione. In questa idea l'amore di patria c'entrava fino a un certo punto; l'amore di sè stesso in gran parte. Egli andava pensando che se il figlio del generale italiano al servizio dell'Austria fosse disceso in Italia con grande fracasso ad arrolarsi, tutta Milano ne avrebbe parlato e la sua sorte sarebbe stata fatta senza grandi sforzi. La imprudente promessa di quella somma, strappatagli dal padre di Leopoldina in un momento di abberrazione, lo decise sempre più. Fece la risoluzione di lasciar Vienna, di abbandonare la Leopoldina e suo padre, e di venir in Italia per entrar volontario nelle regie truppe. Raccolse quanto più potè di danaro e un bel giorno partì nascostamente e venne a Milano; fece la campagna del 1859, poi mise studio di scultore e si fece nome. Aldo Rubieri si ricordava benissimo di avere lasciato alla Leopoldina di Vienna quell'atto di donazione; temendone le conseguenze, andò a trovarla, mancando di parola a Nanà. Come fosse ricevuto cordialmente e gioiosamente si può imaginarlo. La prima cosa che Leopoldina gli confidò fu che il loro figlio era morto, e Rubieri tirò un lungo fiato. Quando la fase sentimentale del richiamo delle memorie fu cessata, e Rubieri si disponeva già a congedarsi, colla speranza che gli Austriaci avessero deposto ogni altro pensiero, il buon babbo, accostatoglisi colla grazia un po' grifagna che si direbbe tutti gli Austriaci abbiano ereditata dalla loro acquila bicipite, gli disse sottovoce col più tedesco dei sorrisi possibili: - Per l'affare poi che lei sa, e che riguarda mia figlia, potremo parlare più tardi... un'altra volta... n'è vero. - Che affare? - domandò Aldo Rubieri come uomo che caschi dalle nuvole. - Come! Ma la scrittura... di donazione... alla mia Leopoldina nel caso... che non fosse accaduto il suo matrimonio. - Ah, bene, bene - disse Aldo per pigliar tempo. - Più tardi, ci rivedremo. E s'accomiatò. Gli Austriaci lo aspettarono al domani, poi al posdomani, tre, otto giorni, finchè il padre risolvette di ritornare lui stesso in cerca di Rubieri. Naturalmente non fu ricevuto. Ma la sera istessa la signora Leopoldina ebbe una lettera nella quale il suo ex-innamorato le diceva chiaro e tondo come egli non volesse più essere importunato e le ricordava senza complimenti come in tutti i codici della terra esista la legge che dichiara non valida la promessa di matrimonio, nè di un qualsiasi indennizzo.... I tre Austriaci, testardi come sono gli Austriaci quando hanno ragione, fissarono di spuntarla. Leopoldina avrebbe rinunciato. Ma il padre e lo zio erano feroci, e la persuadettero che si doveva ricorrere alla legge per farlo pagare per forza. Risolvettero di consultare un avvocato per sapere se l'atto fosse in piena regola e se con esso si potesse sperar di vincere una causa. L'albergatore indicò loro il primo avvocato che gli si parò alla mente. Ed essi andarono difilati dall'avvocato Delguasto. Quando furono sul pianerottolo dinanzi all'uscio il padre e lo zio ristettero per rifiatare e per consultarsi. Il primo poi stava per tirar il cordone del campanello, quando Leopoldina gli trattenne il braccio, additando ciò che stava, scritto sull'uscio: - Che c'è? - domandò il padre in tedesco. - Avanti - disse la zitellona, che sapeva un poco di italiano. - Avanti, vuol dire: Allora spinsero l'uscio ed entrarono. Nell'anticamera, seduto dinanzi ad una scrivania stava un giovinetto, dalla faccia di furfantello, che s'avrebbe detto fosse stato messo là dall'avvocato per schizzare la caricatura a tutti i clienti che entravano. Lo zio, vedendo quel piccolo Mefistofele, disse a suo fratello una frase in tedesco. Quello smaliziato d'uno scritturale, che stava col capo sullo scrittoio, intento, l'alzò repente, aggrottò le ciglia, e con un accento pieno di ironia e di insolenza, fingendo che quelle parole esotiche fossero state dirette a lui, disse: - Non potrebbero farmi la finezza di parlare in italiano? - disse - La sua lingua a Milano, signori belli, non è di moda. È antipatica. - Parlare noi molto malissimo - rispose il babbo, che non aveva capita la portata dell'insolenza di quel monello seduto allo scrittoio. - Non fa niente. Capirò lo stesso. Per quanti strafalcioni lei dica in italiano farà sempre più bel sentire che a parlarmi benissimo il suo tedesco. - Mia figlia parlare piccolo poco. - Tanto meglio. Allora ho l'onore di domandar alla signora a che cosa il signor avvocato dovrà aver la fortuna della loro visita? Non è da credere che Ernesto Cantis, galloppino dell'avvocato Delguasto, trattasse con tanta disinvoltura tutti i clienti del suo padrone. Guai a lui se così fosse stato. Ma egli aveva udito farlinzottare in tedesco, s'era accorto dall'aspetto che quei tre signori dovevano esserlo puro sangue, e non aveva potuto trattenersi dalla smania di mostrar loro la sua innata antipatia. Egli amava i Tedeschi in genere come... l'olio di ricino, e gli Austriaci in ispecie come il tartaro emetico. - Noi voler parlare con herr avvocato - disse Leopoldina. - È impedito. Si accomodino pure. E senza dir altro, abbassò la testa sullo scrittoio e si rimise a scrivere. Ecco che cosa stava scrivendo Ernesto Cantis, mentre i tre Tedeschi si accomodavano per aspettare l'avvocato. "Signora. "Io credo che una donna non debba mai essere offesa nel sapere che c'è un uomo al quale il cuore batte per lei cento battute al minuto di più di quello che gli batteva prima di averla veduta. Ieri al teatro Milanese lei mi apparve per la seconda volta, e il fascino de' di lei occhi posati ne' miei fu tale che a costo di diventar ridicolo io non ho potuto trattenermi dal farglielo sapere. A me parve, sarà forse superbia, ma a me parve di non esserle riuscito antipatico. Lei ebbe la bontà di rivolgere verso di me spesse volte que' suoi occhi immensamente belli, ed io sono in un tale stato di esaltazione da non poterlo descrivere. Io non ho che vent'anni, e non sono ricco. Ma se malgrado ciò lei credesse che io non debba gettare lontano da me ogni più lontana speranza io la scongiuro me lo faccia capire questa sera o quella sera che a lei parrà tempo di vedermi il suo schiavo più affezionato e più fedele. Io sarò anche questa sera al Milanese e avrò nell'occhiello del mio abito un garofano. Quando la vedrò porterò il mio fazzoletto alla bocca, deh, faccia altrettanto per dimostrarmi che io non debbo disperare affatto. "ERNESTO CANTIS." Riletto il foglio, lo piegò accuratamente, lo mise in una busta su cui scrisse l'indirizzo di Nanà. Avvolse la lettera in un foglio di nitida carta, poi si alzò e andò ad una sedia su cui stava un manicotto di martora e, come se i tre stranieri non fossero stati, presenti a quell'operazione, vi infilò la sua letterina. Comparve l'avvocato accompagnando una signora fin sulla soglia dell'anticamera. Il giovane balzò all'uscio impallidendo visibilmente. La signora era Nanà, la quale aveva posato il suo manicotto su quella sedia poco prima di entrare nello studio. - A rivederla, dunque, caro Delguasto; noi siamo intesi - disse Nanà - poi volse il capo come cercando qualche cosa intorno. - Il suo manicotto è qui - disse il giovinetto precedendola all'uscio della anticamera. Nanà strinse la mano all'avvocato ed uscì. Ernesto, quand'ella gli ebbe volte le spalle, si fe' sentir a dire: che angelo! - In che cosa posso servirli? - disse l'avvocato ai tre Austriaci, che s'erano levati in piedi duri come stoccafissi in estate... - Noi essere fenuti da voi per avere bisogno di vostri consigli - rispose Leopoldina. - Restino serviti. E li fece entrare nel suo studio. - Loro sono dunque venuti? - cominciò l'avvocato. - Ecco herr avvocato... Tocca parlare io, perchè mio padre e mio zio non conoscere italiano. - Dica pure... dica pure, tanto meglio! - sclamò con una punta di galanteria l'avvocato. - Lei dovere sapere che io avere un documento con promessa di donazione di un uomo che doveva sposare me, e che poi non ha sposato per sua colpa. - Una promessa di donazione? - ripetè l'avvocato. - In regola? - Noi credere essere perfettamente in regola. - Si può vederla? - Certamente. Ecco. - E la signora Leopoldina cavò di tasca una carta la quale, col lungo passar di mani in mani austriache, non si poteva dire del certo gareggiasse per candidezza colla neve caduta di fresco. L'avvocato gettò gli occhi su quel pappiè e sclamò sorridendo: - Ma questo è in tedesco! - Lei, herr avvocato non conosce nostro bello linguaggio neanche in scrittura? - Io no, signora. Ne faccio senza, e non ho mai pensato ad impararlo. - Posso io tentare traduzioni! - domandò la zitellona. - Sicuro! Leopoldina cominciò: "In questo giorno, 6 novembre, dell'anno di grazia 1864, io sottoscritto, di mia piena e spontanea volontà, nè spinto da altri riguardi se non da quelli di una sincera affezione per la signorina Leopolda Ernesta Federica, la quale trovasi in istato interessante per mia colpa, prometto di farle donazione di fiorini trentamila, nel caso che giunto all'età di ventiquattro anni io non dovessi mantenere la parola data a lei di essere suo sposo. "Per fede "ALDO RUBIERI. "Vienna, 6 novembre, 1864." - Aldo Rubieri! - sclamò con una certa sorpresa l'avvocato. - Il nostro bravo scultore? - Ya mein herr, ya - rispose il babbo che aveva capito a lume di naso naso- Sarebbe ella compiacente di spiegarmi come e in quali circostanze sia avvenuta questa donazione? Leopoldina con molta fatica e con molto rossore cominciò a raccontare all'avvocato quello che noi già sappiamo. - E quanti anni aveva il signor Aldo Rubieri quando la fece? - Come italiano egli era maggiorenne o quasi. - Suo padre era italiano o austriaco? - Suo patre non aveva perduta sua nazionalità italiana, quando stare in Vienna colonello di Stato Maggiore. - Allora si può benissimo far causa - disse l'avvocato. - Essere noi fenuti per questo. - Hanno già parlato loro col signor Aldo Rubieri? - Sì, otto o dieci giorni fa. - E che cosa ha detto? - Detto nulla, ma avere scritto di non essere intenzionato mantenere suo promesso. E gli porse da leggere la lettera con cui Aldo si schermiva di pagare la somma promessa. - Herr avvocato - disse la zitellona - Credere lei che vinceremo? Negli occhi dell'uomo di legge passò un lampo d'ironia. - Sicuro che vinceremo. Sono loro pronti a fare le spese necessarie? - Quanto volere? - Il deposito da farsi subito è di tremila franchi non un quattrino di meno. I tre Austriaci si guardarono in viso esterefatti. - Tremila franchi! Senti? Più di mille fiorini soltanto di deposito? - sclamò in tedesco lo zio. - Non si può far a meno. La giustizia costa assai in Italia - osservò ridendo sotto i baffi l'avvocato che godeva di veder gli Austriaci in ansia. - Bene - disse il padre a Leopoldina - spiega all'avvocato che vogliamo avere il tempo di pensarci sopra. Ma poi ravvisandosi: - No. Prima domandagli quanto verrà poi a costare la causa finita. Leopoldina tradusse questa domanda all'avvocato. - Ma secondo che la si vinca o che la si perda. Vincendola può darsi ch'io riesca ad affibbiar le spese all'avversario. Può darsi anche che il tribunale dichiari di far a metà le spese. In caso contrario, sta il viceversa. - Domandagli ora - ripigliò il padre dopo che Leopoldina gli ebbe tradotta la risposta dell'avvocato - quanto ci potrebbe toccar di spese nel caso che vincessimo, ma che dovessimo pagare a metà. - Dai dieci a dodicimila franchi colle mie competenze - rispose l'avvocato con grande franchezza. - Farflucter - sclamò lo zio, che aveva capita la cifra. - Pene, pene, allora gli comunicherai quello che ti dicevo - conchiuse il padre. - Come vogliono! Io sarò sempre ai loro comandi. Quando loro si saranno decisi, non avranno che a ritornare da me. E così s'accomiatarono. Il giovinetto scritturale non s'alzò questa volta ad aprir loro gli usci come aveva fatto con Nanà.

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

La bambina abbassa il capo tirandosi indietro. Così esposta, i capelli a trecciole che scoprono una faccia larga nelle stanghette, con quello strumento sul naso sembra vittima d'una immeritata vergogna. La madre ha l'aria di attribuire questo difetto da gente istruita, di cui la sua razza è immune, appunto allo studio. Essa è analfabeta. Non nega di possedere casa e un po' di terra, il cubo di pietre soprammesse e le terricciole tutte sassi delle nostre parti, che se paghi la fondiaria e ti si aggiunge un'altra disgrazia, una malattia, non riesci più a comprare il sale. Si fa per dire, una volta il sale era l'unica spesa viva del contadino. Oggi magari si vestono ai magazzini in città, i tempi cambiano. Ricordo quando dalla stessa contrada scendevano a vendere cicoria e more di siepe, calzando polacche di vacchetta imbullettata che pulivano col nerofumo. Per venire, si viene sempre a piedi. M'informo se hanno avuto la luce elettrica e risponde che non ancora ma i giornali ne parlano. Certo i tempi sono cambiati. Vedremo se sarà possibile far concedere gli occhiali nuovi. Vada intanto dall'oculista per la visita. Ci ritroviamo un'ora dopo in farmacia, occorrono anche ricostituenti. Uscendo la donnetta cerca di rimanere qualche passo indietro per riguardo, ma capisce che voglio parlare e si mette a lato. Tiene però indietro la bimba, rasente le gonne con una mano come si reprime un cucciolo. Eh no, non mangia, rifiuta la minestra. A lei necessiterebbe la carne, ma noi giornalmente si fa minestra. E pane. La bimba mangia il pane. Frutta no non ne abbiamo, è terra dura che porta mandorli e le mandorle si vendono ci pasticcieri. Anche qualche uovo si vende al mercato. Dall'ottico la commessa ci riconosce, o forse riconosce i suoi occhiali. Prende il fogliettino giallo con la misurazione della vista e si stupisce essa stessa di undici diottrie. Anche la montatura in un anno s'è fatta piccola. La bambina che annaspa viene messa su uno sgabello. A occhi nudi sembra cieca davvero, non legge ai tabelloni la prima fila in basso di lettere così corpose, non vede niente. Poi col susseguirsi, cambiare e sovrapporre dei vetrini tondi in prova, comincia ad acquistare un'espressione, vaga e ansiosa. A mano a mano che riesce a mettere a fuoco, si rischiara, s'illumina, muta fisionomia. O meglio recupera la sua. Senza più timidezza, attenta tranquilla sicura, pronuncia i sì e i no. Con le lenti giuste legge bene le lettere più grandi. Nella scelta della montatura, benché non osi far sentire la voce, interviene alla cieca, tutta protesa al banco con un ditino puntato verso ciò che maggiormente lustra. Sono stata ad aspettare _usciamo di nuovo insieme _ avendo incarico di avvertire la donna che un altr'anno non ripeta la richiesta. È talmente felice che non sembra aver udito. Rosi, dice a ogni passo, Rosi hai la luce. Ma poi risponde grazie e un "Dio provvede" gentile e sereno. So che, lasciandoci, tenterà di baciarmi la mano come l'altra volta, com'è antica usanza contadina di ringraziamento. Io, o l'ufficio, chiunque o comunque, per lei impersona la Provvidenza. Sulla quale non si fanno ipoteche perché interviene sempre al momento giusto, ne un istante prima ne uno dopo. Mi piace questa donnetta fiduciosa dagli occhi vivi di gioia e di buona vista. Si è rimessa a lato, pronta a soddisfare ogni domanda. Cinque figli, sì, il maggiore di tredici anni. E comincia ad aiutare, sì, porta le pecore al pascolo. Due pecore e un pecorino, dice dolcemente. (Esprime più tenero e più riccio, quel pecorino.) Già, pure l'agnello è fuori stagione, al mondo si nasce. Il suo ultimo ha pochi mesi. Allattava il bimbo di un anno e mezzo _ per tirarlo un po' più avanti senza spese _ quando s'accorse di essere incinta. Non domanda, come tante altre, rimedi per evitare o sconciare le gravidanze. Mi viene fatto, quasi senza volerlo, di pronunciare le parole che si dicono nei paesi da queste parti: i figli sono provvidenza. Ma forse è un uso comune nelle campagne, o meglio una fede consolatoria. Essa racconta che negli uffici gli uomini sono bruschi, ti rinfacciano sempre ma perché ne fai tanti. E ride confusa, è una confusione mentale. Capisco quando aggiunge: A noi ne vengono tanti e ai signori no. Una semplice constatazione. L'ha detto, per inverosimile che possa sembrare, con assoluta semplicità e credulità. Davvero è convinta che Dio li mandi. Ha continuato a reprimere un po' indietro la bimba, che sguscia da sotto la mano materna per lanciarmi qualche sguardo. Ora ci vede, ha la luce. Un bei paio di occhiali, buona misura, non le stanno male. E non ha più quell'aria d'innocenza offesa. Esortata a mangiare la minestra, annuisce rossa rossa. È una bambina graziosa, sveglia e precocemente sensibile come tutte le creature umane provate da qualche infelicità. E anche questo, se lo sapesse pensare, sua madre chiamerebbe provvidenza.

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

"Abbassa almeno la voce!" egli pregava. "Perché tua madre non senta? Ma dovrà sentirmi, lo voglio; voglio che mi dica: "T'odio per questo!". E sarò conten- ta. Così non può durare." "Oh Dio! oh Dio!" smaniava Patrizio. "Sono stata paziente, troppo. Il vaso era colmo fino all'orlo; una goccia è bastata per farlo traboccare. Non è colpa mia. Volevo risparmiarti questo dolore. Ormai! ... Dimmelo dunque, dimmelo: Perché m'odia? Perché?" "La tua immaginazione ti fa travedere" diceva Patrizio. "Persuaditene. Te lo giuro! La mamma è buona, incapace d'odiare una persona come te, che non le hai fatto niente di male. Dovrei dire lo stesso per conto mio, se guardassi sol- tanto ai suoi modi; sarebbe assurdo. È stata inasprita dalle sventure, povera donna, e dalle malattie. Tu sai la vita che vive: cupa, silenziosa, tra il letto e una poltrona. L'ho vista sempre così; non ha mai sorriso, mai! Non ne ha mai avuto occasione, povera donna, dopo la morte del babbo e la rovina della nostra casa!" "E che c'entro io?" "È per spiegarti ..." "Non spieghi nulla. Lasciami, non mi stringere così!" Egli se la stringeva forte al petto" l'accarezzava per rabbonirla, per farle intendere che non si trattava d'odio, no. E, sentendola tremare tra le braccia, scossa da fremito convulso, addolciva ancora più l'accento, accostava la fronte a quel- la di lei con amoroso abbandono, come raramente soleva, mormorandole su la faccia: "E poi, che te n'importa? Non t'amo io? Che te n'importa?" "Ah!" ella esclamò, svincolandosi con vivacissimo sforzo. "Ecco perché me ne importa!" La sua voce era piena di singhiozzi e gli occhi di lagrime che le solcavano le gote, senza che ella badasse ad asciu- garle. "Ecco perché me n'importa! Sento qualcosa di duro, d'impenetrabile, che si è già frammesso tra noi due, contro di cui urto con la testa e non riesco a spezzarlo. Picchio e non mi senti. Chiamo e non mi rispondi. Il tuo cuore è invasato da sentimenti che non intendo. Oh! Tu hai paura di lei. Non negarlo. Hai paura!" "Paura di mia madre?" "Sì! Sì! Sì!" Patrizio rimase interdetto. Colei che si vedeva davanti, altera e bella nel disordine dei capelli, nel turbamento dell'aspetto e della voce, nella durezza insolita della parola, non gli pareva più la sua dolce, la sua sommessa, la sua quasi timida Eugenia. Quel non so che di fanciullesco, di spensierato, di allegro, di verginale che ne formava l'incanto era sparito. Tutti i lineamenti di lei parevano cambiati di punto in bianco, con quelle sopracciglia aggrottate, con quegli occhi dallo sguardo incerto, con quelle labbra aride e contratte, con quella persona che pareva ingrandita, tanto il busto si ergeva fiero in quell'istante, elevando la testa e il collo gonfio dallo spasimo. "Sì" continuava fissandolo "hai paura di lei! Ebbene, che pretende tua madre? Ora sei mio. Sei suo figlio, ma sei mio! Mio, perché ti voglio bene quanto lei, anzi più di lei. Ella ti ama come madre, io come moglie; ed è diverso. Ella ti ha dato il latte ... Io, il mio amore, l'anima mia, tutta me stessa! ... Ti appartengo, come tu mi appartieni." E l'afferrò tra le braccia furiosamente, quasi fosse là qualcuno che volesse rapirglielo. "Mi appartieni ... Sei mio! Non sei più suo! No! ... Non sei più suo! No! No! ..." E, al balbettio di queste ultime parole, Patrizio sentì irrigidire tutto il corpo di lei, che si stirava con le braccia tese in avanti e i pugni stretti. "Eugenia! Eugenia! ... Mamma! ..." La sollevò, l'adagiò sul letto, cercando di frenare il dibattito di tutte le membra nella convulsione crescente, e tornò a chiamare più forte: "Mamma! Mamma!" Eugenia si agitava, mugolando, svincolandosi a scatti. La signora Geltrude picchiò ripetutamente dietro l'uscio di comunicazione delle due camere. Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato: - Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí! Milano, 15@ 15 febbraio 1879@. 1879.

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 1 occorrenze

La si figuri, che a fargli una carezza, abbassa subito gli orecchi e mette fori certi dentoni, che paiono manichi di coltello." "E corre dimolto?" "Gli è uno scappatore peggio di un berbero. Se l'avessi a montar io! ... Neanche se mi ci cucissero sopra con lo spago." "Non ti vergogni di esser tanto pauroso?" "No". "Hai torto: un ragazzo della tua età dovrebbe avere molto più coraggio ... " "Lo so anch'io: ma per aver coraggio, bisognerebbe non aver paura." "Quando avevo la tua età, non c'era cavallo che mi mettesse in soggezione: anzi quanto più erano scappatori e focosi, e più ci avevo piacere." "Mi levi una curiosità", rispose Cecco, guardando il padroncino con un'aria un po' canzonatoria, "che ne ha montati dimolti lei dei cavalli?" "Te lo lascio immaginare! ... " "Per esempio ... quanti?" "Ci vorrebb'altro a contarli tutti! ... " "Dunque lei monterebbe anche il matto ?" "Chi è il matto?" "Gli è appunto quel cavallaccio, che abbiamo nella stalla." "E perché lo chiamate il matto?" "Perché è una bestia, con la quale non si può ragionare." "Mi conduci a vederlo?" "La si figuri!" I due ragazzi, senza far altre parole, si alzarono dalla panchina dove stavano seduti e si avviarono verso la stalla. Giunti alla porta, Gigino disse a Cecco: "Mena fuori il matto!" Cecco ubbidì. Quando Gigino ebbe visto l'animale, disse scrollando il capo in atto di compassione: "Questo, caro mio, non è un cavallo: questa è una pecora." "Eppure scommetto che lei ... " "Io? ... Io per tua regola ho cavalcato certi cavalli, che tu non te li sogni nemmeno." (Si capisce bene che Gigino, parlando così, diceva un sacco di bugie: ma le diceva per la sua solita smania di farsi credere un giovinotto.) "Vuol provare a montarci sopra, a bisdosso?" "A bisdosso? cioè?" "Vale a dire, senza sella." "Volentieri. Va' a prendermi una sedia." "Che cosa ne vuol fare?" "Ora lo vedrai." "Ma che un cavallerizzo, come lei, ha bisogno della sedia? Io, quando voglio montare a cavallo, mi attacco ai peli della criniera, spicco un bel salto, e in men che si dice, mi trovo con una gamba di qui e una di là ... " "Ognuno ha le sue opinioni: io, senza una sedia, non posso montare a cavallo." Cecco portò una seggiolaccia tutta sgangherata: Gigino vi si arrampicò, e inforcando il cavallo con la gamba sinistra, invece che con la destra, si trovò col viso e con tutta la persona voltata verso la coda dell'animale. Allora Cecco, sbellicandosi dalle risa, cominciò a gridare: "No, sor Gigino, no, l'ha sbagliato uscio: la si rigiri di lì; perché la testa del cavallo è da quell'altra parte". "Lo so, lo so" rispose Gigino con molta disinvoltura "ma per tua regola quando io monto a cavallo, ho la precauzione di voltarmi prima dalla parte della coda ... " "Perché?" "Perché, caro mio, le precauzioni non sono mai troppe." "Ora ho capito", disse Cecco, che non aveva capito nulla. Intanto, a furia di sforzi inauditi, Gigino si rivoltò con tutta la persona verso la testa del cavallo: e compiuta appena questa difficile manovra, sarebbe sceso volentieri: ma gli mancò il tempo. L'irrequieto animale, senza aspettare l'invito del cavaliere staccò subito un mezzo galoppo. Figuratevi Gigino! lui, che non aveva cavalcato mai altri cavalli, che un bellissimo puledro di legno, compratogli dalla sua mamma per regalo del Capo d'anno! Quanti salti e quanti balzelloni sulla groppa secca del Matto ! Il povero figliuolo ora dondolava da una parte, ora dondolava dall'altra ... e Cecco! Quella birba di Cecco, a gambe larghe in mezzo alla strada, godendosi la scena del suo padroncino, che da un momento all'altro era lì lì per fare un gran capitombolo, si mandava a male dalle grandi risate. E il momento del capitombolo arrivò pur troppo. Gigino cadde, come un fagotto di cenci, fra la polvere della strada, e il cavallo, senza darsene per inteso, andò a mangiar erba nel campo vicino. "S'è fatto molto male?" gli domandò Cecco, che era corso a gran carriera per aiutarlo. "E perché mi dovrei esser fatto male?" "È stata una brutta cascata!" "Povero grullo! Che credi che sia cascato? Neanche per sogno. Volevo scendere, e nello scendere ho messo un piede in fallo e sono sdrucciolato. È una disgrazia che può accadere a tutti." "Davvero! L'altro giorno, per esempio, sdrucciolai anch'io ... " "Scendendo da cavallo?" "No: mettendo un piede sopra una buccia di fico. E questo corno, che gli è venuto qui sulla fronte? ... " Gigino si toccò la fronte con la mano, e sentito che c'era davvero un piccolo gonfio, disse con la solita disinvoltura: "Si vede che, nello scendere, ho battuto un ginocchio. Basta che io batta un ginocchio, perché mi venga subito un corno nella testa. Ho la pelle così delicata! ... ".

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 2 occorrenze

Ora, scrisse il grande pensatore testè citato, egli è certo che gli allettamenti e gli stimoli al mal fare sono maggiori, dove le plebe è disperata per miseria, o cresce ineducata e brutale, o i magistrati non vegliano a scoprire i delitti, o il braccio di una debole giustizia si abbassa dinanzi ai protetti del potente. Nè ciò basta, perchè dove gli uomini sono onesti solo entro il limite della paura, e nella società non circola uno spirito largo e vigoroso di morale e di probità, il fragile edificio delle pene non regge al peso morto della corruzione universale. Perocchè bisogna coltivare negli uomini quell'impulso d'onore che non solo rattiene dal delitto, ma ne rende insopportabile il minimo sospetto; bisogni infliggere quanto più raramente si può l'ignominia, e far quasi economia delle erubescenze del popolo; bisogna promuovere fra gli uomini i vincoli dell'azienda civile, perchè sentano il bisogno della mano altrui e della buona opinione .... Le leggi al presente puniscono ma non prevengono il delitto; e correrà gran tempo ancora prima che la società pensi al miglioramento dei membri che la compongono, e tuttavia seguiterà a colpire in egual modo gl'infelici ed i colpevoli. Giacchè moltissimi operai sono dalla miseria tratti al delitto, e molti fra essi ignari del valore assoluto e relativo di un'azione criminosa. La maggior parte dei delinquenti sono analfabeti; essi non hanno altra guida delle opere loro che l'istinto, poichè nessuno s'è curato di ridestare in essi il sentimento morale, epperò trovansi quasi alla condizione di bruti. Per costoro le leggi sono lettera morta, sanno che esistono delle leggi, perchè tratto tratto vengono dal rigore di esse colpiti, ma non sanno il perchè queste leggi esistano, nè da chi siano state fatte, meno poi se ve n'ha qualcuna che favorisca i miserabili. Tratto tratto questi vengono arrestati, poscia rilasciati per essere indi a poco arrestati di nuovo, tanto che trovandosi sempre in carcere sono costretti a dire tra loro che quelli che vanno in carcere sono sempre gli stessi; quelli che vanno all'ospitale sono sempre gli stessi detti questi che non si riducono ad altro che a varianti del vecchio adagio: Sono sempre gli stracci che vanno alla folla I pensatori assai di leggieri s'accorsero che la mescolanza dei detenuti era dannosa alla morale e che la prigione invece di correggere i tristi, pervertiva i buoni. Si pensò di imporre il silenzio a tutti i carcerati, e questo sistema punitivo dalla città di Auburn, in America, che prima l'applicò, trasse il proprio nome. Ma il sistema di Auburn non raggiunse lo scopo, perchè, se soppresse la voce, non potè sopprimere le relazioni tra i carcerati, i quali acuirono sempre più il loro ingegno, affine di communicare tra loro, e studiarono e studiano tutti i mezzi per eludere la vigilanza dei loro,custodi. Che più? I dolori stessi, la stessa severità della pena ritemprano l'animo di que' disgraziati, i quali s'avvezzano a sopportare con alliera indifferenza persino le sferzate, per non dare spettacolo a' compagni della loro timidezza ed è naturale che talora pensino a reagire. Nel che bene spesso sono eccitati da qualche anima ribelle e determinata a tutto osare, la quale fa nascere all'impensata terribili ribellioni. E lo spettacolo della crudeltà della pena e la smania di reazione distruggono e sviano il carcerato dal meditare sulla propria colpa e lo allontanano dal pentimento: e il lavoro impostogli quale aggravio di pena, gli riesce disamabile anzi odioso. Queste cose ben videro le Autorità preposte alle carceri, e perciò studiarono il modo, affinchè fosse tolta questa infame comunanza. Si cominciò dal dividere i detenuti, oltrechè per sesso, per età, per delitti, per disciplina, ma questa divisione non è sempre possibile, perchè ad attuarla occorrerebbero carceri assai grandiosi, giacchè si verrebbero ad avere in tal guisa circa quaranta classi di prigionieri, i quali difficilmente poi potrebbero ancora essere invigilati. Inoltre perchè la divisione sia ragionevole, bisogna particolareggiare sempre più nella scelta dei prigionieri destinati a restare insieme, e a forza di suddividerle è facile capire che si è obbligati di concludere che il sistema più logico è quello di tenere i detenuti separati ad uno ad uno, che è appunto ciò che fa il sistema segregante o di Filadelfia detto anche di Pensilvania oppure di Cherry-Hill Questo regime è il più opportuno pei condannati, il più provvido o il più giusto pe' giudicandi. Quelli possono riflettere alle loro colpe o mettersi sulla via del bene, questi non soffrono l'avvilimento di trovarsi con tristi, prima ancora che i tribunali abbiano pronunciata sopra di loro una sentenza di reità o d'innocenza, nel quale ultimo caso essi ritornano alla libertà incontaminati, come quando per soddisfare alle gelose ricerche della giustizia furono gettati in carcere. Il condannato poi trova nel sistema segregante il modo di ottenere il proprio miglioramento morale. Abbandonato a sè nella solitaria cella (nota Carlo Cattaneo), a prima giunta per lo più si abbandona al furore, agita pensieri di vendetta, e sfoga la sua rabbia in maledizioni. Ma alla violenza succede l'esaurimento e la stanchezza; il silenzio che segue ai vani suoi clamori, a poco a poco gli fa intendere quanto siano infruttuosi e insensati; egli vede tutta la sua impotenza e la sua nullità in faccia alla legge che senza percosse, senza catene, senza insulti, con mano invisibile lo assedia e lo stringe. L'idea della sua colpa, ch'egli fuggiva, ch'egli sommergeva nel tumulto della vita e delle passioni gli s'affaccia da ogni parte, e a poco a poco si allarga nel suo pensiero, e dilegua tutte le vanità che lo ingombravano. Tra il rimorso e l'impazienza e il tedio, per sottrarsi agli odiosi pensieri e dissiparsi pure in qualunque modo che gli è possibile, egli afferra rabbiosamente la proposta d'un qualsiasi lavoro. Ben pochi hanno la forza di resistere a quattro o tutt'al più ad otto giorni di forzata inazione. E lavoro non viene inflitto come un supplicio, nè imposto col bastone o colla fame; ma vien concesso come un'indulgenza, come un ristoro, che solo può rendere sopportabile quella noiosa vita. La disciplina non è sollecita di comandarlo: essa aspetta tranquilla il prigioniero, ben certa che tosto o tardi s'arrenderà. I signori De Tocqueville e De Beaumont dicono: Visitando il Penitenziale di Filadelfia ci siamo trattenuti con tutti i singoli carcerati; nessun d'essi che non parlasse del lavoro quasi con riconoscenza e non palesasse la persuasione, che, senza il conforto di una continua occupazione, non avrebbe potuto resistere al peso della vita. Che avverrebbe del prigioniero nelle lunghe ore di solitudine, se, senza questo rifugio, fosse lasciato a' suoi rimorsi, ed ai terrori della sua mente? Il lavoro dà interesse alla solinga cella; affatica il corpo ma conforta la mente. È singolare che costoro, giunti al delitto per la via della dissipazione e dell'ozio, siano ridotti ad abbracciare come unica loro consolazione la fatica; e costretti a sentire tutto il peso dell'ozio, imparino ad aborrire quella primiera causa d'ogni loro calamità. Il confronto tra il lavoro e l'inazione ha tanta forza, che molti di quei meschini dissero, che la domenica era per loro insopportabilmente lunga e che non avrebbero potuto vivere senza lavoro. Questo bisogno si palesa in tal modo, che non avvenne mai di doverlo imporre colla forza. Il condannato, intento al suo lavoro, respira dal tedio, dalla oppressiva idea della passata vita, e con ardor quasi puerile non ha per qualche tempo altro oggetto alla sua mente; e vi si dedica con solerzia e con amore, perchè gli è una difesa dai pensieri che gli rodono l' anima. L'imperturbato raccoglimento e la dura necessità gli aprono la mente ad imparare; l'istruttore, che viene a interrompere la sua solitudine con modi placidi e caritatevoli non può a lungo riuscirgli sospetto ed odioso. Le parole che questi prudentemente lascia cadere tratto, rammentate poi nel silenzio, quando l'uniformità del lavoro lascia errar la mente, penetrano l'anima più rozza e selvaggia. La profonda monotonia della cella dà peso e consistenza ad ogni giusto pensiero che fortuitamente si svegli. E una volta che il prigioniero ha potuto rivolgersi sopra di sè, il lavoro non arresta più la sua riflessione. E spesso, una repentina visita lo sorprese immobile sul suo lavoro, tutto chiuso nel profondo della sua memoria, pensando forse alla carriera perduta, alla casa, ai congiunti, ai genitori afflitti e disonorati, alla moglie, ai bambini lasciati nell'abbandono e nell' abbiezione. I più sciagurati che non hanno affetti, che sono intrisi di sangue, che nulla hanno in cuore che non sia tristo e perverso, nella mollezza di quella vita reclusa, tra il lungo silenzio e le parole caritatevoli, e la coscienza che ricalcitra e si spaventa, a poco a poco sentono venir meno l'antica ferocia. E non v'è a lato del prigioniero alcun essere malvagio, che ostenti una atroce indifferenza, o lo guardi con ironia, e con osceni e atroci scherni rimescoli la feccia delle sue passioni. Tutto ciò che lo circonda gli rammenta il suo delitto. Non v'è intorno a lui nemmeno il fremito d'un' industria comune, nè l'affacendata disciplina d'un carcere popoloso: il rumore stesso delle battiture e delle catene gli risonerebbe gradito in quella vita di sepolcro. Il lavoro delle sue mani gli allevia bensì il tedio e il rimorso e lo rattiene sull'orlo dell'avvilimento, e della disperazione; ma non basta a dividerlo affatto dai suoi pensieri e fermare la corsa fatale che lo trascina verso il pentimento. Nel silenzio degli uomini e nel senno delle passioni, i consigli tante volte derisi, le parole che sembravano non aver toccata la sua memoria, i terrori religiosi, tutte le imagini e tutte le rimembranze del bene e del male, risorgono innanzi alla colpevole coscienza, e si fanno ogni giorno più potenti e irresistibili. Tutte le illusioni sono sparite; in faccia a una triste e severa realtà, nel profondo d'un silenzio di morte, dove nessuno lo vede e lo ascolta, una sola parola viva gli suona all'orecchio, ed è una parola di verità, che va dritta e irresistibile al secreto della sua coscienza. Il momento giunge alfine, in cui l'anima già nauseata dell'ozio, si nausea pure della durezza e dell'importanza, e si sente in balia d'insolite emozioni. Allora le alte verità della morale, insinuate con religioso affetto, possono ritemprare e rifondere l'anima più ostinata; i sentimenti dei pentito sono come un metallo squagliato, che scorre dovunque un'arte salutare lo guida. Chi passò per una siffatta prova, potrà, ritornato alla vita libera, precipitarsi in nuovi traviamenti; ma porta nel cuore una tale debolezza, che il solo nome del carcer basta a fermarlo ed avvilirlo in mezzo all'ebbrezza del delitto. La fiera domata non è più la fiera selvatica. E quella stessa potenza che arresta le ricadute nel liberato, annunciata e divulgata da loro alla moltitudine dei malvagi, potrà render terribile anche l'idea d'una prima colpa e formidabile la minaccia della legge. La prigione non sarà più per essa un piccolo mondo, dove se vi sono i dolori della reclusione e dei flagelli, vi sono anche i piaceri della compagnevole fratellanza e le distrazioni d'una disciplina spettacolosa; il carcere solitario è più disgustoso e amaro per essi, quanto più assidua e profonda è la sua calma. Pur troppo le incompiute riforme che introdusse nel carcere la moderna umanità, avevano tolto a questo unico strumento di pena ogni terrore. Il malvagio scioperato vi trovava ricovero e letto, e pane certo, e lavoro mite, e compagnia quale egli poteva desiderarla: e a molti onesti operai carichi di famiglia, a molti giornalieri scalzi e famelici in mezzo ad ubertose campagne, il soggiorno del carcere era pur troppo una seduzione. Ma posto il regime d'un severa segregazione quand'anche la cella sia spaziosa, netta, chiara, ventilata, riscaldata, provvista di tutto ciò che un modesto vivere richiede, il vero malfattore preferirà sempre il lezzo e il disagio d'un sotterraneo, il pavimento nudo, la catena, il bastone, poichè tutte queste cose non giungono a domargli l'animo, e gli lasciano il tranquillo possesso della sua scelleratezza. Quando le antiche leggi inventavano con atroce poesia ogni modo di strazii pel corpo umano, ommettevano, senza curarlo, un tormento più squisito e potente, che piomba con tutto il peso sull'animo. La solitaria riflessione, la quale allora si apprezzava così poco, che a richiesta d'un tutore impaziente o d'un padre iracondo, si applicava a' giovinetti svogliati o loquaci, si palesò una pena di tale intensità, che alcuni già la gridano soverchia a qualsiasi più nero misfatto e sproporzionato alle forze dell'umana ragione. Gli antichi avevano insegnato che il silenzio è fomite di sapienza e di virtù; ma non si sapeva che fosse un terribile punitore del delitto. Una filosofia severa che trae tutto dalla riflessione, trovò anche nella riflessione la forza penale, e con una vasta esperienza accertò la profonda sua induzione. Sdegnando il corpo del malfattore lasciandogli pure tutti gli agi della vita materiale, essa assale di fronte l'anima sua, la sua coscienza, il principio della vita. Il patibolo con tutto il sanguinoso suo fasto si spiritualizza nel silenzio della cella. Il mero dolore animale non è più la suprema difesa di una società minacciata e vessata, ma un dolore, ch'è tutto dell'uomo, anzi tutto dell'anima, una pena sociale per eccellenza, perchè consiste nel negare le dolcezze del consorzio sociale a coloro che ne turbarono la pace. Eppure in mezzo ad una irresistibile efficacia, questa pena così temuta dal malvagio non offende per nulla i diritti dell'umanità; essa non accorre ad ogni istante col ferro e col fuoco, nè contrista di dolorose strida, nè contamina di sangue la città. I custodi, sicuri di sè, non feroci, nè sospettosi, possono mostrar sempre tutti la calma e la dolcezza; il cordoglio, che abbatte il prigioniero, viene tutto dalla legge, non inasprito dalla loro collera, nè aggravato dal loro arbitrio. Egli soggiace da sè all'onnipotenza della legge, e riceve il trattamento che risponde a' tristi suoi meriti, perchè lo riceve dalle opere della sua coscienza. Gli ufficiali non appaiono mai al suo cospetto, se non per interrompere il cruccio della sua solitudine, e provvedere ai suoi bisogni, e dirgli quelle parole che lo riconciliano col misero suo stato, e lo preparano ad uscire da quel fatale recinto con altr'animo ch'egli non vi entrava. Il regime solitario si riduce a due fini : togliere il prigioniero dal dannoso consorzio dei suoi pari, e costringerlo a rientrare in sé, perchè l'esperienza dimostra, che senza questo ritorno, la pena s'infligge senza frutto e senza esempio. Non s'intende però che il prigioniero debba restar derelitto nella disperazione d'una tomba; poichè oltre alla caritatevole provvisione de' suoi bisogni fisici in una comoda cella, egli ottiene il conforto del lavoro, del consiglio, dell'istruzione e della lettura. Gli si interdice la compagnia de' malvagi; ma gli si concede quella d'uomini onorati e pietosi. Ed è un fatto che la disciplina isolante gravita tremendamente sul malfattore inferocito, ma quando il tempo, il silenzio e le ammonizioni hanno vinto la sua durezza e l'hanno, ridotto a sentire la stoltezza della passata sua vita, il tormento del suo carcere s'allevia e i suoi custodi e governatori trovano in lui una inattesa docilità e un assoluto abbandono. Dopo un primo doloroso intervallo, l'abitudine a poco a poco induce l'animo alla quiete ad alla pazienza; dimodochè , il malvivente, condannato a breve pena, ne sente tutta la gravezza e ne porta fuori un salutare spavento; ma il malfattore condannato a molti anni di solitudine, può comporsi gradatamente a quella tranquillità, che riduce a riflessione anche le anime più burrascose. Non vi è in quella disciplina alcun risalto, alcun arbitrio, alcuna acerbità che accenda le sue male passioni: l'odio, la vendetta. Quindi nessun pericolo che l'irritazione mentale sconvolga la ragione. Solo questi argomenti possono consigliare il regime segregante, il quale è però sempre una gravissima pena. A Torino nei primi mesi dell'attivazione del carcere cellulare, molti delinquenti volgari non ressero alla solitudine e si uccisero Si notò però che da quella città i ladruncoli emigrarono in massa, e sarebbe stato un bel vantaggio, se questo fatto si fosse verificato anche in Milano. Nella nostra città venne pure costrutto un grandioso carcere cellulare, che torreggia severamente entro la cerchia dei bastioni fra Porta Genova e Porta Magenta. Questo edificio, il disegno del quale devesi al compianto ingegnere Francesco Lucca, si eleva sopra un'area di metri quadrati 49,695, della forma di un pentagono, perfettamente isolato e chiuso da una grossa muraglia munita di cinque torri agli angoli, e del fabbricato di fronte della lunghezza di metri 204,50. Lo stile adottato fu quello del medio evo, che risponde assai all'indole della fabbrica, di carattere grave e solenne. Il muro di cinta porta alla sua sommità un ballatoio contenuto da parapetti di pietra per il servizio di guardia, facendo servire da garretta per le sentinelle le cinque torri. Il carcere è diviso in tre distinti corpi di fabbrica. Il corpo anteriore; la cui fronte è disposta sul lato del muro di cinta, che prospetta il Macello, quantunque faccia parte dello stabilimento, non è considerato come carcere essendo destinato agli uffici, alle abitazioni, al corpo di guardia, al servizio di magazzino e ad altri scopi. Esso ha l'aspetto di un castello severo, le cui parti centrale e laterali sono munite di merlatura. Il secondo corpo di fabbrica, parallelo a questo è distante venti metri dal precedente e collegato col medesimo a mezzo di un andito a semplice piano terreno in continuazione al vestibolo d'ingresso. È elevato a due piani fuori terra, meno un breve tratto dove si praticò un ammezzato che soverchia il tetto. Questo si suddivide in due parti, ciascuna fornita di uno spazioso cortile; la destra costituisce il comparto riservato alle donne carcerate ed è diviso in sessanta celle, più quattordici altri locali di maggior ambiente per servizio d'infermeria. Nella parte sinistra a terreno si trovano i locali per le guardie, il parlatorio speciale pei detenuti di passaggio, per quelli appena entrati nel carcere, i bagni, i locali destinati alla visita ed alla iscrizione dei detenuti al loro entrare nel carcere, i locali per la disinfezione degli abiti e pei guardiani. Al primo piano nel lato verso oriente v'ha un portico di disimpegno di vari locali che potrebbero essere destinati ai condannati ad una pena di breve durata; al lato meridionale vi è un corridoio centrale con doppio ordine di celle in numero di venti. Ad occidente il cortile, un altro portico di disimpegno e dall'opposta parte altri locali di servizio. Nel secondo piano sono notevoli due celle per quei reclusi che danno o simulano segni di pazzia. Queste celle sono disposte in modo che per appositi spiragli abilmente mascherati, praticati nella vôlta e nelle pareti, un guardiano può, non veduto, vigilare il detenuto. Il terzo corpo di fabbrica ha nel suo centro una grande rotonda, da cui si diramano sei braccia equidistanti fra loro; ognuna di esse è costituita di un grande corridoio centrale che si eleva senz'alcuna divisione dal piano terreno sino al tetto; lateralmente sono disposti tre ordini di celle, disimpegnati da ballatoi che corrono lungo i lati dei vasto corritoio. La lunghezza di ciascun braccio di fabbrica è di metri 62,50 a partire dalla periferia interna della rotonda. A ciascun lato di tali braccia e per ogni piano sono disposte sedici celle, per cui si hanno novantasei celle per ogni braccio e quindi i sei raggi daranno complessivamente il numero di 576 celle, senza contare ventiquattro celle di punizione, cioè quattro per ogni braccio. Le celle dell'altro corpo di fabbricato sono larghe metri 2,40, lunghe metri 4, alte metri 3,40 circa; quelle del fabbricato a raggi misurano la larghezza di metri 2,20 per 4,30 di lunghezza e 3 di altezza. Si accede alle celle per una piccola porta munita di un apposito spiatoio, affine di poter invigilare il detenuto, senza ch'egli se n'avveda. A tale scopo lo spiatoio è mascherato da un vetro colorato e si apre e si rinchiude a mezzo di un movimento a vite silenzioso. Tutte le celle sono fornite di un richiamo ad un campanello elettrico, come ve ne sono alcune provvedute di un apparecchio per l'illuminazione a gas. Mediante il campanello ogni detenuto può, in caso di urgente bisogno, chiamare un guardiano, e perciò mediante un semplicissimo congegno, mentre suona il campanello discende davanti alla porta della cella una piccola bandiera in ferro, che indica esservi in quella cella il prigioniero che ha chiamato. Il mobilio delle celle, secondo venne stabilito dal Ministero, è costituito da un letto, il quale di notte è spiegato trasversalmente alla cella e di giorno trovasi arrotolato; di due ripiani piani o sgabelli situati in uno degli angoli della cella e di un ripostiglio. Serve di tavola il ripiano infisso nel muro e da sedile lo sgabello mobile. Affinchè i guardiani possano durante la notte, portarsi ad ispezionare le inferriate, fu proposto dal Ministero di infliggere nel muro una manetta, appoggiandosi alla quale può il guardiano far entrare una gamba nello spazio che si lascia, dalla parte de' piedi, tra la estremità della branda distesa ed il muro e passare all'altro lato della cella. Ogni cella oltre all'avere un cesso inodoro è eziandio provvisto d'acqua a sufficienza. Questa viene fornita da serbatoi collocati nei sottotetti e che vengono giornalmente riempiuti col mezzo di semplici pompe a mano. Da questi serbatoi si diramano dei tubi, che vanno a riempiere tanti recipienti, della capacità ciascuno di litri sei, quante sono le celle. Tali i recipienti sono posti tra i rinfianchi del nascimento di ciascuna vôlta e specialmente nelle praticate smussature degli angoli delle celle, e conformati in modo che nel mentre si riempiono con un tubo comune, sono però gli uni dagli altri indipendenti, sicchè quando un detenuto per inavvertenza o studiatamente lasciasse aperto il suo rubinetto in modo da disperdere tutta l'acqua del recipiente a lui destinato, ciò non vada a scapito di altri detenuti e perciò si castiga esso stesso col privarsi per quel giorno del beneficio dell'acqua, oltre a che mette in avvertenza il guardiano, coll'effettuato disperdimento dell'acqua per la cella, in una quantità però che non può mai riuscire a danno del fabbricato, essendo appunto limitata a sei litri, ma bastante per farlo punire. Stannovi apposite bacinelle per ricevere l'acqua da ogni rubinetto, e che ponno servire per far rinnovare da ogni detenuto l'acqua nel sifone della latrina dopo essersene servito per la propria pulizia. Le finestre che danno aria e luce alle celle sono fatte a strombo e disposte in modo, che, mentre queste restano sufficientemente illuminate e che il detenuto può godere della vista del cielo, egli non può vedere di fronte in linea orizzontale, essendo il piano del parapetto all'esterno più alto di quattro centimetri della parte inferiore del volto verso l'interno della cella. Inoltre, affinchè i detenuti possano giornalmente respirare aria più libera e passeggiare, pur mantenendosi la più severa segregazione, si disposero otto passeggi. Essi sono formati da tanti piccoli scomparti raggiali divisi da muricciuoli alti metri 2,40, disposti secondo la direzione del raggio e fanno prendere allo scomparto stesso la forma trapezia. La parte centrale si eleva su tutto il resto, ed è disposta a terrazzo coperto, dal quale il guardiano può con facilità invigilare i detenuti in tutti gli scomparti che sono interamente scoperti; meno per un breve tratto in aderenza alla parte centrale, ricoperta da un piccolo tetto, affine di difendere il detenuto dalla pioggia e dai cocenti raggi solari. Infine, la disposizione poligonale e sporgente data alla estremità di ogni tramezza, impedisce che i detenuti possano, allungando le braccia fra i vani del cancello, comunicare fra loro, come pure l'essere tutti questi passeggi coperti da una sottile rete di ferro, toglierà il pericolo che i detenuti possano gettarsi l'un l'altro degli scritti. Il numero totale delle celle a carcere è di 762. Al quale aggiungendo i locali destinati a infermerie, si ha una capacità totale di celle per 800 detenuti. Eccovi descritto il carcere cellulare che la città nostra con grande dispendio ha innalzato. Se esso era davvero un bisogno universalmente sentito, rimarrà come monumento delle deplorevoli condizioni morali di Milano a' giorni nostri. Stringiamo i conti. Una pulitissima cella, fresca d'estate, riscaldata d'inverno, con un letto discreto, sei litri d'acqua al giorno, vitto, bucato, servizio, tutto ciò si dà a chi commette un delitto; mentre il povero che voglia vivere da galantuomo è costretto ad abitare una stamberga fredda d'inverno, calda e soffocante d'estate, mangiare peggio di moltissimi cani, infine stentare la vita. È proprio scabra ed ingombra di spine la via del Paradiso, .... fin troppo. Appio Claudio, irridendo alla miseria della plebe romana, disse che il carcere è l'albergo della plebe. Or bene, per costrurre un tale albergo che i lôcch già battezzarono per Grand Hôtel Roncoroni o anche Pio Albergo Roncoron (dal nome di un formidato Ispettore di Pubblica Sicurezza poscia divenuto Questore), in Milano si sono spese due milioni e centoventitrè mila lire. Aggiungansi i denari che si pagano per gli stipendii del personale direttivo e di custodia, per il mantenimento dei carcerati, e poi dicasi che la società non si prende cura della plebe. Chi però mi saprebbe dire quanto spende la società per migliorare la plebe? per prevenire certe cadute morali, per le quali un uomo onesto od una donna onesta trovansi precipitati in cotesto abisso senza uscita? Eppure questo carcere segna un gran progresso in confronto di quello a sistema di famiglia. In quest'ultimo la sopraeccitazione dello spettacolo impedisce la riflessione e quindi la riabilitazione morale dell'individuo. Eccovi un giovinetto operaio arrestato, mentre nell'impeto dell'ira ha ferito un suo compagno. Vien tratto al carcere e consegnato al custode ed ai guardiani. Lo sdegno ed il dispetto ancora lo agitano, risponde con poca buona grazia alle interrogazioni del capo guardiano, il quale per punirlo della sua sgarbatezza lo fa mettere dove stanno i ribaldi più facinorosi. Appena il giovanetto pone il piede sulla soglia del carcere, tosto l'uscio gli si richiude alle spalle, ed egli si sente soffocare sotto una coperta e si trova gettato a terra. E perchè? mi domanderà il lettore. È una brutta consuetudine, che ebbe sempre vigore nelle nostre prigioni, e che non si è potuto far scomparire, se non colla abolizione del carcere a sistema di famiglia. Quel giovanetto è stato atterrato dai corsari. Sì, signori, vi erano i corsari nelle nostre carceri, e vi sono ancora dove non fu ancora applicato il sistema cellulare. Sono questi due prigionieri incaricati dal capo-stanza (che è il più anziano tra i rinchiusi in una stessa camera, e bene spesso il più ribaldo e il più manesco) a fare gli onori del ricevimento al nuovo venuto. Al suo ingresso, tutti si radunano nell'angolo della stanza il più lontano dall' entrata, tranne i due corsari, che sì mettono l'uno da una parte e l'altro dall'altra della porta, tenendo distesa una coperta di lana, colla quale imbaccuccano il poveretto che entra, e lo trascinano a terra. Allora tutti gli corrono addosso e chi gli toglie il moccicchino, chi il cappello, infine, quanto ha di meglio sopra di sè, tutto gli vien portato via. La preda si consegna al capo della cella, il quale pensa a farne spiccioli. Immaginiamo alcune di queste scene nelle carceri soppresse di San Vittore. Il derubato si rialza infuriato se è coraggioso, avvilito se è timido; in quest'ultimo caso va a rannicchiarsi in un angolo della cella in mezzo alle più sconcie risate dei concaptivi, nell'altro invece s'avventa alla cieca sul primo che incontra, e, mentre con costui sta per venire alle prese, gli saltano addosso gli altri a trattenerlo, finchè interviene colla propria autorità il capo-stanza a sedare il tumulto e a ristabilire l'ordine. Intanto questi ha già pensato a fa foraggià la scelpa ossia a far scomparire la preda. Nel carcere di San Vittore il negozio si conchiudeva tra le due celle attigue, separate dal muro, che le divideva imperfettamente, giacchè non raggiungeva la volta. Il commercio si fa tra i due capi-stanza. Il venditore prende un pezzetto di carta, vi scrive sopra la proposta di vendita, poi mette in uno zoccolo il vigliettino che in gergo è detto lasagnin al plurale lasagnitt), si pianta nel mezzo della prigione e grida: Casci? Si ode una voce che risponde dall'altra cella: Cascia Allora il venditore lancia lo zoccolo, che supera il muro e va a cadere nell'altra cella. Ma come ha potuto colui scrivere il bigliettino? Un pezzettino di carta e un piccolissimo pezzetto di matita posseggono tutti i frequentatori delle carceri, nè v'ha occhio per quanto esperto che giunga a scoprire i mille nascondigli, che sa trovare o creare intorno a sè il prigioniero. Intanto l'altro capo-stanza ha radunato i carcerati, che hanno con sè denaro o ne hanno depositato presso il guardiano per fondo di sussidio, e ha esibita la merce. Se v'è alcuno, che si offre di comperarla, il capo-stanza rimanda la risposta. La merce insieme colla domanda viene spedita sempre per la stessa via. La si esamina si tira il prezzo, infine s'impiega una intiera giornata per concludere un affare di due lire. È questa una gradita occupazione per chi è condannato all'ozio. Se il compratore ha seco il denaro, questo viene dato al capo della cella, il quale lo spedisce al venditore detraendone una parte per tassa di mediazione. Se poi il compratore ha il denaro depositato per fondo di sussidio, allora l'affare si fa diversamente. Allora è necessaria la girata delle parti.Il compratore chiama un guardiano; questi apre el sfiandrin finestretta tagliata nella porta stessa della carcere; il compratore gli ordina di porre a credito del capo dell'attigua cella la somma stabilita, sulla quale il mediatore ha sempre diritto di prelevare a proprio vantaggio una parte determinata. In altre carceri gli affari si fanno mediante la colomba, pezzo di cordicella, della quale si servono i prigionieri di una cella per comunicare con quelli d'un'altra. Nessuno dei concaptivi s'attenterebbe di impedire o di porre ostacolo a siffatte comunicazioni, quando non avvengono per conto proprio, anzi sono in ciò d'un mirabile accordo e con gran premura si prestano talora a mettere fra loro in comunicazione due individui l'uno dall'altro discostissimi. Fa passà el bastiment è la frase tecnica che significa partecipare una notizia. E questo si fa, quando è possibile, in gergo, oppure battendo colla nocca delle dita, contro la parete del carcere vicino, un certo numero di colpi, che qualcuno s'incarica di ripetere sul muro opposto e così via, finchè il rumore giunge all'orecchio di chi capisce il segnale e che risponde. E così rifanno la stessa strada i rintocchi di risposta con una scrupolosa esattezza e con una premurosa prontezza. Nelle carceri di Cherry-Hill per evitare questo ultimo modo di comunicazione, si è pensato a dividere le celle mediante due tramezzi, in modo che il suono s'ammorza e si perde nel vano delle pareti. E dal fondo del carcere si commettono le più orribili ingiustizie, le più nefande sevizie, coll'audacia e la brutalità che solo può ispirare la sicurezza del silenzio della vittima. Non solo i più poveri sono condannati dal capostanza a fare i servizi i più umilianti del carcere, ma i più giovani sono talora trascelti a sfogo di sozze passioni. Nè giova che uno per sottrarsi mantenga un contegno severo. Nei primi giorni vien lasciato a sè, e schernito con semplici appellativi, poi qualcuno lo punzecchia con parole di famigliare scherzo ma dette in tono benevolo, e quando l'altro annoiato della sua volontaria solitudine sente il bisogno di parlare, attratto dal vortice dell'allegria chiassosa, che regna in un carcere a sistema dì famiglia, allora è costretto a prendere parte ai giuochi che vi si fanno, ed egli è quasi sempre la vittima degli scherzi più umilianti e atrocemente vergognosi. Il giuoco del sarto, del ladro, del soldato, sono tali oscenità, che non mi è lecito neppure il descrivere. La narrazione vicendevole delle proprie gesta serve a compiere l'educazione del prigioniero, il quale se ha posto il piede nel carcere, traviato da una malvagia tendenza, ne esce corrotto nel fondo dell' anima, abbiettamente cinico e pressochè abbrutito dai vizii. A petto delle gravissime colpe, di cui ode il racconto, il suo piccolo fallo gli appare meschino e ridicolo, sente il bisogno di elevarsi fino al livello de' suoi compagni, e, come un poeta cerca di emulare i grandi poeti, ed un negoziante cerca di gareggiare co' suoi colleghi, nè questi pensa punto di acquistare stima tra quelli, nè il poeta si sogna di agognare al credito di negoziante, così anche il lôcch non aspira alla fama di galantuomo, ma si sforza di guadagnarsi tra' suoi nomea di briccone matricolato. L'ambiente, in cui vive, lo costringe a ciò, nè può sottrarsi alla dura necessità che lo trascina. Quando uno non è affatto furfante, simula di essere tale per guadagnarsi il rispetto degli altri concaptivi, o almeno per evitare le loro derisioni; e quando esce dal carcere, siccome non può aspirare a ritornare tra galantuomini, così la compagnia ch'ebbe là dentro, diventa la sua necessaria compagnia, alla quale lo avvince un tacito obbligo di solidarietà nel delitto. Quand'ei volesse, uscito di carcere, abbandonare i suoi compagni, non rispondere più al loro saluto, egli si buscherebbe il titolo di aristocratico e peggio di tira, che in gergo significa spia, o peggio ancora gli toccherebbero delle busse, perchè tutti i bricconi di questo mondo hanno per propria divisa, che chi non è con loro è contro di loro. Si consideri ora quale debba essere l'angoscia d'un poveretto, che, accomunato per molto tempo con siffatta genìa, venga liberato per sentenza dei tribunali con dichiarazione d'innocenza. Nè questo caso avviene raramente, perchè la giustizia umana è pur troppo spesse volte fallace. Questo per quanto risguarda le carceri dove s'accolgono gli uomini. Nè minore corruzione riscontrasi nelle carceri delle donne, ove gli amori e le gelosie tra esse fornirebbero il tema a migliaia di romanzi, del genere di quello del Belot, Mademoiselle Giraud ma femme. Il chiasso e il ciarlìo in un carcere a sistema di famiglia, è, come ognuno può argomentare, grandissimo, ma su d'una sola cosa si serba da tutti il più geloso silenzio. Nessuno parla della colpa, per cui venne l'ultima volta arrestato. Se pende la procedura, un gran lavoro mentale pel prigioniero è quello di prepararsi agli interrogatorii, e siccome è tradizionale nel carcere il dubbio di poter aver a fianco dei tira, che rivelino ai giudici i discorsi, così ciascun carcerato è su questo proposito d'una eccessiva, ma non irragionevole diffidenza. Ad una domanda anche innocente, ma un cotal poco indiscreta vien subito risposto secco secco: Ogni detenuu el tira el so d'on carr Tra i coimputati vi è un grande studio a non contraddirsi vicendevolmente, a non ismentirsi, a non iscoprirsi e vi sono non iscarsi esempi di uomini, che affrontarono la galera, piuttosto che pronunciare una parola che poteva valere a propria discolpa, ma che sarebbe stata un'accusa pel proprio compagno, la condizione del quale sarebbesi naturalmente peggiorata. Ma se v'è in moltissimi questo generoso coraggio del silenzio, manca però in tutti il coraggio di accusarsi, e nessuno si farebbe innanzi ad assumersi la responsabilità di un delitto, di cui è realmente colpevole per salvare anche il più caro amico. La perdita della libertà è per tutti troppo dolorosa e tutti cercano di evitarla. Quando il compagno, punito invece d'un altro, rimproverasse a quest'ultimo d'essersi sottratto alla meritata pena e d'aver lasciato lui nei guai, il compagno risponderebbegli domandando: Te me disarisset on stuped? A cui l'altro dopo breve riflessione aggiungerebbe: Te ghe reson. Incoeu a mì diman a tì. Paghen on mezz e che la sia fenida. Evviva nun e porchi i sciori, che è il brindisi con cui i lôcch risugellano la loro amicizia. Ma questa solidarietà va scomparendo a poco a poco tra' detenuti. Una volta questi si soccorrevano l'un l'altro, si assistevano fraternamente se malati, si scambiavano gli abiti affine di recarsi decentemente vestiti dinanzi ai magistrati, per gl'interrogatorii o pel dibattimento finale. Oggi, tranne i vecchi frequentatori del carcere, che ancora mutuamente si sostengono, i giovani sono egoisti, e l'uno verso l'altro indifferenti; sono capaci di rubarsi tra loro il pane, il che avviene spesso, e si diedero persino casi, in cui detenuti vecchi, avendo prestati a detenuti giovani i pagn de libertaa affinchè non si presentassero ai giudici coi pagn del loeugh, essendo stati assolti o rimandati per, mancanza di prove, non restituirono gli abiti avuti in prestito; nè li tennero neppure per ritornare nel mondo, ma appena liberi li scambiarono con altri cenciosi e logori per ricavarne tanto da bere qualche decilitro d'acquarzente. A tanto può giungere la depravazione morale in siffatta gente, quantunque anche tra coloro, che si chiamano comunemente galantuomini, lo sconfessare od il tradire un benefattore non sia cosa tanto rara, che faccia inarcare le ciglia per istupore. Però alcuni frequentatori del carcere in mezzo al rumore dei compagni pigliano sul serio il vivere in prigione e si danno a lavori, che pur troppo non sono da essi continuati, quando vengono restituiti a libertà. Abbiamo visto dei magnifici lavori a maglia fatti con cannuccie da granata in luogo di ferri da calze, e quei lavori eseguiti secondo un disegno capriccioso a trafori, ci parvero degni veramente di lode, anzi di ammirazione. Da un carcerato ci venne mostrato un lavoro plastico fatto colla mollica di pane. Era un gruppetto di tre individui, un uomo, una donna e un bambino negri posti su uno scoglio all'ombra di una palma che intendevano gli sguardi nell'orizzonte, per iscorgervi lontano lontano la patria perduta. V'era in quel gruppo tanto sentimento artistico, tanta verità e tanta poesia, che profondamente ci commosse. Ma questi tentativi isolati vengono dai prigionieri fatti per passare la noia. Un lavoro serio, utile, intelligente, era stato organizzato nelle carceri giudiziarie di Milano dall' ex direttore delle carceri stesse Pietro Fassa. Egli invitò e poscia incoraggiò alcuni intraprenditori, perchè volessero istituire degli opifici nelle carceri. Abbiamo visitate (era il 1873) l'officina da fabbro ferraio e la rilegatoria di libri nelle carceri di San Vittore, abbiamo veduta la calzoleria delle carceri di Sant' Antonio, ma l'officina che ci maravigliò più di tutte le altre fu quella di stipettaio esistente nelle carceri del Palazzo di Giustizia. Abbiamo osservati i lavori d'intaglio per la fabbricazione di mobili di lusso e ci sorprese la precisione, la finezza, il buon gusto, con cui quei lavori erano eseguiti. Non è un lavoro rozzo e materiale cotesto e perciò diverte e nobilita lo sventurato che a tale lavoro si dedica; e infatti in quelle carceri abbiamo notato fronti, sulle quali il vizio e la colpa avevano impresse rughe profonde, spianarsi, e diremmo quasi rasserenarsi a un raggio di speranza nell'udire le parche lodi, che loro dava l'egregio signor Leonardo Virillio, allora vice direttore delle carceri di Milano, promosso poscia a direttore di quelle di Messina, il quale ci fu cortesissima guida in questa nostra escursione. I lavori che si facevano in quelle carceri oltre al vantaggio morale, che arrecano al prigioniero, gli porgono un utile materiale e arrecano non picciola utilità e all'imprenditore, e al compratore, ed infine allo stabilimento carcerario istesso. Peccato che molti all'uscire di carcere non continuino le abitudini acquistatesi; e si diano invece nuovamente al mal fare (1). E nelle carceri il Fassa aveva istituito pure una biblioteca educativa e morale, ed oltreché eranvi maestri che pazientemente istruivano gli analfabeti, e i cappellani che vi diffondevano massime di religiosa pietà, le commissioni per la visita dei carcerati porgevano a costoro sussidi e conforti. (1) Giova però tener conto che alcuni liberati, i quali non vogliono o non possono entrare nel Patronato, trovansi ancora a contatto coi tristi loro compagni, che li trascinano al male; alcuni poi vengono respinti dai capi fabbrica non senza ragione diffidenti, e trovansi costretti a commettere cattive azioni per vivere, ed infine altri diconsi impediti dalla sorveglianza della Pubblica Sicurezza troppo gravosa e, alcuna volte, per parte di certi esecutori, un pochino vessatoria. Però taluni membri di queste commissioni, per eccessivo amore del bene e per eccessiva filantropia, prodigano siffattamente la loro protezione ai carcerati da rendere difficile ed odioso l'ufficio di chi è deputato a mantenere tra essi la disciplina ed il buon ordine, sicchè i detenuti bene spesso abusano delle loro benefiche parole e giuocano l'uno contro l'altro, l'autorità della Commissione e quella de'guardiani, ridendosi dell'indulgenza soverchia dei signori che compongono quella, e ribellandosi alla legittima vigilanza di questi. Abbiamo sentito da alcuni carcerati a deridere l'operato della Commissione e a dire che i membri di essa prestano l'opera loro per pura vanità, per far parte dell'autorità ed essere menzionati con parole di lode nei diarii e negli annuarii. Ed uno conchiuse con queste parole: « Questi signori ci schiverebbero domani, quando ci vedessero liberi per le strade, ci scaccerebbero se ci presentassimo a domandar loro del lavoro, come un ricco industriale scacciò me dalla sua fabbrica la prima volta che mi vi recai ubbriaco. Sorreggere e non rialzare, questo è il dovere dei signori, tener buoni i buoni operai, e di noi caduti lasciare la cura alla Provvidenza ». Queste parole d'amara censura contengono tanta parte di una dura, ma pur troppo importantissima verità, che non abbiamo creduto doversi passare sotto silenzio. Non crediamo neppure inutile di dire che vi fu eziandio un editore filantropo, che pensò alla pubblicazione di un giornale pe' carcerati, giornale che morì nascendo, ma che trovò scrittori, scrittrici, lodatori e lodatrici. E mentre si fa tutto questo pe' carcerati, non possiamo tralasciare di ripetere che nulla si fa per coloro che appena si reggono barcollando sul sentiero della virtù; per quelli gli agi, i sussidi, i conforti, l'istruzione, per questi la miseria, il disprezzo, l'abbandono, l'ignoranza. Quanti operai, non ci stancheremo di ripetere, desidererebbero avere a un prezzo modesto una cella del carcere cellulare ben illuminata, asciutta, ariosa nell'estate, riscaldata nell'inverno, mentre invece sono costretti a rifugiarsi nelle locande tra il lezzo, i cenci e il sudiciume? Quanti galantuomini desidererebbero in compenso del proprio lavoro aver assicurato giornalmente per sè e per la propria famiglia la minestra e il pane che quotidianamente si distribuisce ai prigionieri? Invece tutti questi agi non si possono acquistare col lavoro onesto, bisogna guadagnarseli col delitto. Eppure la libertà fa parere meno triste la paglia trita e infestata dagl'insetti, su cui il miserabile riposa la notte, meno duro il tozzo di pane di granoturco che gli serve di nutrimento, del pulito saccone e del cibo igienico che si danno al carcerato. Il lôcch suoi definire con un tragico motto la vita del carcere. La paia la mangia la carna ci dice, volendo con ciò significare che il carcere distrugge la vita. Così pure dice che la giura la sgonfia cioè che la minestra dei carcere gonfia; satolla cioè ma non nutre. Egli distingue inoltre con diverso nome il pane della prigione dal pane di libertà e chiama quello marocch o con vocabolo del gergo ungherese chigna e questo denomina boffettôs. Curiose e degne di nota sono certe abitudini speciali al vecchio detenuto. Egli ha cura che la cella sia sempre pulita, ma prima di scopare adacqua il suolo, affinchè la polvere non si sollevi. La polvere, egli dice, smangia i polmoni, il qual detto fa risovvenire la polvere rodente dell'ottimo Parini. Il vecchio detenuto fuma, quando può, perchè a suo dire, il fumare leva l'umidità Un'altra sua abitudine è quella di coricarsi presto e di alzarsi prestissimo, e quantunque, procuri sempre di cenare un paio d'ore almeno prima di coricarsi, pure egli va facilissimamente soggetto a sogni per il desiderio, da cui è posseduto o di essere condannato a breve tempo, o di andarne in libertà, od anche per la speranza che il processo prenda quell'indirizzo, che a lui possa essere più favorevole, Epperò qualunque sogno ha pel prigioniero un significato o riferentesi direttamente al sognatore o a qualcuno di coloro, che gli sono compagni di sventura nell'istessa camera. Ecco l'interpretazione di alcuni sogni, quale un detenuto ce l'ha fornita. « Sognare orologi ha significato di movimento: il che nel gergo dei detenuti significa essere chiamato ad esame, o a dibattimento, oppure essere restituito a libertà, se il sogno vien fatto la notte precedente all'udienza finale. Sognare carta; se è scritta, significa citazione ad esame o lettera in arrivo se bianca, soccorso di biancheria. Sognare maschere vuol dire subire confronti nel processo Sognare penne, cioè uccelli o pollame, significa condanna. Notisi che in dialetto milanese penn plurale di penna, e penn plurale di pena si pronuncia allo stesso modo. Sognare uova indica essere condannati a tanti anni pari al numero delle uova sognate. Sognare denti significa disgrazia domestica. Sognare di riversare olio o sale presagisce pure disgrazia. Sognare d'un cavallo nero vale novità. Sognare d'un cavallo bianco vale notizia triste Sognare d' un soldato che fa fuoco indica buona nuova Sognare di escrementi, d'uva nera oppure di vino è presagio di prossimo soccorso Sognare oro od uva bianca significa rabbia o tristezza. Sognare argento dinota allegria. Sognare pezze di lino significa soccorso in denari Sognare pane vale dover esercitare la pazienza. Sognare scarpe predice vicino un viaggio». E il detenuto che ci fornì tali dati aggiunse queste testuali parole: « Ed è tanta la convinzione che il prigioniero ha della veridicità dei sogni, che ci crede fermamente; e bisogna pur dirlo, che se il più delle volte si avvera la profezia, è perchè questa è in correlazione coll'esito che, malgrado gli sforzi che fa per illudersi, il detenuto stesso sa che devo avere la procedura contro di lui incoata ». Un altro presagio i prigionieri traggono pure dalla minestra. Quando vien loro presentato il piatto, che la contiene, tosto la rimescolano per vedere se v'è qualche pezzettino di lardo. Dicono essi che ogni pezzetto di lardo, che si trova nella minestra, significa un anno di cattività da subire. Quale può essere la ragione,di questa credenza? Può essere ironia, può essere astuzia. Ironia, se colui che prima divulgò siffatta opinione, voleva accennare allo scarso condimento che si mette nella minestra del prigioniero; e voleva significare che è sì difficile trovare un pezzetto di lardo in quella minestra, che chi ve lo trovasse poteva di buon grado sottomettersi alla pena d'un anno di carcere, tanto tale cosa gli pareva miracolosa e quasi impossibile. Astuzia, se, chi fu l'autore di tale sentenza, approfittando della superstizione, mirò collo spauracchio d'un triste presagio a porre un freno alla ghiottornia del capo-stanza, il quale ripartisce la minestra fra i detenuti della propria cella. Vogliasi o non vogliasi un pezzetto di lardo nella minestra di un prigioniero è sempre qualcosa di ghiotto, e il capo-stanza s'impadronirebbe senz'altro di tutti i pezzetti di lardo nuotanti nella broda, senza l'incubo del triste augurio che il soddisfacimento della propria golosità trarrebbe seco; tanto la prima che la seconda interpretazione, ci conducono a ritenere un uomo di spirito chi imaginò e primo divulgò siffatta diceria. Un ultimo pronostico. Se alcuno degli effetti di vestiario del detenuto, appesi alle pareti, senza causa visibile cade a terra, si presagisce da questo fatto la libertà per qualcuno, dei reclusi in quella camera e di ciò si suole menare gran festa. Ma vien finalmente il sospirato giorno della libertà. Colui che deve andare in libertà ed ha denari sul fondo di sussidio, li fa dal guardiano convertire in vino, che beve co' suoi camerata. È il bicchiere della staffa, nè un detenuto di qualche conto vorrebbe privarsi del piacere di festeggiare la propria uscita dal carcere. Un bel mattino si schiude l'uscio della segreta, si chiama quel detenuto, che deve essere rilasciato, tutti gli si fanno attorno a pregarlo di commissioni di ambasciate; egli esce, adempie ad alcune formalità, poi se non deve ricevere ammonizioni dall'autorità di pubblica sicurezza, gli si apre il cancello della guardinna ed eccolo libero. Mi diceva un truffatore avvezzo ad uscire dal carcere per rientrarvi poco appresso: « È però sempre una bella emozione. A me fa un certo effetto ... Quando sono in istrada mi pare di essere piccino piccino ... ». Un altro dello stesso stampo mi diceva invece: « In generale nel primo giorno di libertà non si conclude mai nulla. Si va a zonzo, si guarda in aria, si cercano le piazze più larghe per respirare a pieni polmoni, poi si eseguiscono le commissioni date dai camerata, perchè bisogna fare agli altri quello che piacerebbe che gli altri facessero a noi ... poi si va a trovare l'amante ...». « Ma perchè non correte prima a rivedere la vostra famiglia? » l'interruppi io. « Perchè alcuni di noi non ne hanno mai avuta, altri l'ebbero per loro danno, perchè in famiglia trovarono i primi cattivi esempi, i primi eccitamenti al male, altri perchè le loro famiglie, chiuderebbero loro l'uscio in faccia ». « E l'amante? « L'amante nostra, che in generale è una femmina da conio, ci ama centuplicatamente quando siamo in carcere, e se anche fosse capace di farci qualche torto, non ce lo farebbe per tutto l'oro del mondo durante la nostra prigionia. Sono le amanti che si ricordano di noi, e mettono tutta la loro compiacenza nel venirci a trovare, portandoci un abbondante soccorso. Andà a fà visita col brasc tiraa è la frase di cui si servono le nostre amanti per significare « visitare l'amante prigioniero e portargli dei copiosi soccorsi in vivande, biancherie e denari ». Dei resto mi si disse, e facilmente prestai fede, non esservi gerarchia, determinata dalla maggiore o minore gravità del delitto, ed inoltre potei constatare che detenuti vecchi rimproverarono dei giovinetti caduti in colpa per la prima volta e perciò stati arrestati. « È una vergogna, diceva un vecchio peccatore ad un ragazzotto arrestato per vagabondaggio, tu sei giovane e puoi lavorare e l'ozio non ti ha ancora affatto guasto. Se incomincerai a rubare, non potrai più correggerti; e poi, notato per ladro una volta, sarai ladro per tutta la vita. S'io potessi tornare della tua età!... ». Questi consigli vengono però dati una volta, sola, nè vengono ripetuti mai più per lo stesso, individuo, quand'anche ritornasse cento volte tra piedi a quel genio del buon consiglio incarnato in un veterano della colpa. Un'ultima osservazione. La statistica c'insegna che le classi più corrotte della nostra popolazione sono i manovali, i camerieri, i prestinai, i gridatori di giornali, i facchini, i quali forniscono il maggior contingente alle prigioni. La media delle colpe contemplate dalla legge che vengono denunciate ogni giorno è di trenta per ciascun giorno. I reati più in voga in Milano sono la truffa e l'appropriazione indebita; vengono in seguito in ordine di frequenza il ferimento, il furto, il borseggio, i reati contro il buon costume. I delitti, che vanno diminuendo continuamente. sono le aggressioni e le rapine. Rarissimi sono tra noi i casi di ricatto e di estorsione. Ci siamo dilungati assai su questo tema, perchè ci parve che ne valesse la pena. Infatti il carcere in Italia inghiotte annualmente una grandissima quantità di gente, di cui la società s'impadronisce e che rinserra fra quattro mura; ma essa non pensa in nessun modo a migliorarla o almeno a prevenirne le cadute. Per non essere tacciati di esagerazione, diamo la statistica del movimento delle carceri italiane nell'anno 1871: EntratiUscitiNelle carceri giudiziarie342,476337,328Nelle case di pena5,1444.960Nei Bagni di pena3,6622,633Nelle case di custodia661617Negli Istituti di ricovero1,054641 In statistiche più recenti queste cifre sono aumentate notevolmente. Quante vittime dell'imprevidenza sociale! Asili notturni.

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Il brigadiere, che ci è compagno, prende lo scartafaccio, lo scorre coll'occhio, in certi punti arriccia il naso, in certi altri corruga la fronte, in altri infine alza ed abbassa la testa con moto uniforme e sorride con compiacenza, come chi dicesse: Pur t'ho colto finalmente. - Abbiamo ordine di visitare la locanda - dice il brigadiere. A questo frequente desiderio dell'autorità, la locandiera risponde affermativamente con un cenno del capo, si reca dondolando a chiuder l'uscio che dà sul cortiletto, va in un angolo della stamberga, verso una mensola di legno, impugna una bottiglia di birra vuota, ma dal collo della quale esce un moccolo di sego, l'accende con cautela, poi si mette alla testa della schiera dei visitatori. Su, su, su per una scaletta di legno ripidissima; il buio e la fretta con cui si sale non lasciano sentir altro che gli effetti degli scalini contro gli stinchi delle nostre povere gambe, però ci dispensiamo dal descriverla di che il lettore ci saprà grado. Eccoci sopra un pianerottolo. La locandiera schiude un uscio, avanza il braccio armato del lume e attraverso al riscontro veggonsi dei lettucci disposti con un certo ordine, nulla scorgesi che meriti d'essere notato. - Questi pagano venti centesimi per notte - dice la padrona e richiude. A un secondo piano vediamo la stessa cosa, e ad un terzo altrettanto: finalmente eccoci al piede di una scala a piuoli. Arrampichiamoci sopra quest'ordigno più atto a far rompere il collo, che ad agevolare la salita a chicchessia. Ogni gradino scricchiola, e tale scricchiolio potrebbe essere paragonato ad un gemito, che ci avverte che il tarlo ha scavato la sua dimora in quei piuoli, i quali minacciano di cedere sotto la pressione che sovr'essi facciamo coi nostri corpi. Su, su, su, finalmente eccoci in cima. La locandiera schiude la porta ..... Cielo, che puzzo orribile! Siamo in un abbaino, angusto, basso, il soffitto del quale declina da due parti secondo i due pioventi del tetto. Non vi è alcuna finestra. Luce e aria quest'abbaino dovrebbe ricevere dall'uscio, ma di notte rimane chiuso a chiave che vien serrata per di fuori. Coraggio, ed osserviamo. Dei pagliericci (prendi, o lettore, questa parola nello stretto senso etimologico) stanno l'uno accanto all'altro, e sovra ognun d'essi giaciono due individui a capo e piedi. Non tutti dormono. Al nostro apparire v'è chi dorme davvero, chi invece finge di dormire. I fisionomisti potrebbero quivi far studi di non lieve importanza; gli entomologi vi troverebbero di che provvedere un museo; giacchè la famiglia degli apteri è qui largamente rappresentata. Ci prese ribrezzo in veder accucciati in quella guisa uomini sui volti dei quali avevano impressi solchi indelebili, vizii, passioni, sventure; uomini che passano su questa terra senza aspirazioni, senza scopo; incapaci talora di acquistarsi persino la triste riputazione del male. - Se non ci fossimo noi - mi diceva un giorno uno di questi infelici - quanta gente rimarrebbe disoccupata! Giudici inquirenti, procuratori del re, avvocati criminalisti, agenti di pubblica sicurezza, carcerieri . . . È questo un sofisma degno d'un cinico matricolato, eppure per molti di questi poveracci e la scusa della grama vita che essi conducono, o per meglio dire è la ragione d'essere, il perchè della loro esistenza. Se non vi fossero i topi, a che servirebbero i gatti? In quest'angusta cella contai quindici ospiti. Gli abiti loro spenzolavano da chiodi infissi nelle sgretolate pareti, notai certe bluse forse un tempo vestite da onesti operai, che l'ubbriachezza e l'ozio ridussero a mal partito. I lôcch indossano spesso di queste bluse corte di rigatino bianco e azzurro, nella speranza di essere dagli agenti di pubblica sicurezza scambiati per operai. - Questa locanda non è delle peggiori - mi susurra all'orecchio la mia cortese guida. Uscii di là nauseato e col cuore stretto da profonda tristezza; scesi la scaletta, che in quel punto non mi sembrò tanto cattiva, e appena posto il piede sul pianerottolo, la locandiera ci domandò se volevamo salire su per un'altra scala, in tutto simile a questa, conducente ad un'altra soffitta che fa degno riscontro a quella testè visitata. Saputo però che non vi avrei potuto trovare alcun che di maggior rilievo, mostrai desiderio di andarmene, e, fatte le opportune scuse alla locandiera pel disturbo arrecatole, questa ci accompagnò col lume fino alla porticina che mette sulla via, e Quindi uscimmo a riveder le stelle. Nello stesso Corso di Porta Garibaldi, una diecina di case più in là da quella testè descritta, vidi un'altra locanda, che segna un notevole crescendo nel lezzume e nella schifezza. Ne è proprietaria una certa vecchierella, la quale parve turbata dalla nostra visita, ma pure ci mostrò con ossequiosa premura ogni più riposto angolo del suo meschino covile. Ma una casa d'alloggio tristissima e schifosissima mi fu dato di visitare in via Arena. Quivi è una casa di assai meschino aspetto, e che già dal di fuori rivela la miseria che accoglie nel suo interno. Non griglie difendono alcuni buchi, i quali nel concetto architettonico del costruttore vogliono dire finestre; muri sgretolati, che non furono mai imbiancati e chiazzati di macchie segnatevi dall'umidità, tale presentasi la facciata di questa casa. Una portaccia nana permette di entrarvi, ma due tavole antichissime, su cui Mosè scrisse la mala copia del Decalogo pare che ne difendano, mentre per vero dire non fanno che ingombrare l'ingresso. Per un andito si giunge ad un cortile abbastanza vasto, a sinistra del quale una scaletta di pietra conduce ad un corridoio. Apresi un usciale mediante un saliscendi e si entra in una stanzaccia, non iscialbata chi sa da quant'anni, anzi le pareti sono gregge, nerastre ed umide; un'afa intollerabile vi si respira, perchè quella stanza non può ricevere aria che dalla porta d'ingresso, quando è aperta. Da una grossa trave, che sta nel mezzo della soffitta, pende una lucerna fatta con una lamina di ferro ricurvata all'intorno, riempiuta d'olio, con un lucignolo inzuppatovi, il quale spande in gran copia fumo e puzza insieme con una fioca e fosca luce che si rifrange nelle goccie d'umidità che scolano lungo le pareti e ben si potrebbero paragonare queste goccie a gemme che cadono ad incoronare il popolo sovrano che s'ammucchia in questa locanda. Appena entrati, il lucignolo mandò una luce più viva che ci lasciò vedere dei corpi sdraiati qua e colà, ma il soffio dell'aria, che penetrò là dentro all'improvviso, spense quella povera fiammella, per cui restammo immersi nel buio. Indarno si tentò di accendere dei fiammiferi soffregandoli contro l'umido muro, e intanto si sentiva il russare dei dormienti, il muoversi di coloro ch'erano desti, o che in quel punto si erano svegliati, il fruscìo della paglia, e un ronzìo confuso di animaletti che attivamente si movevano nel buio secondo la loro abitudine. Finalmente si potè accendere un fiammifero di cera, col quale potemmo veder chiaramente quanto ci stava dintorno. E già accosto al limitare dell'uscio un saccone ci sbarrava il passo, vi stavano distesi due miserabili, un facchino e un taglialegna; scavalcammo quell'ostacolo, ed uno dei miei compagni accese di nuovo il lumicino e potemmo così osservare con maggior nostro agio. In un angolo una vecchierella era distesa sopra un altro saccone. Essa poteva contare un settant'anni d'età. Facile era il dirla una mendicante; nessuna traccia le si scorgeva sul volto di quello che poteva essere stata un giorno; era il viso di lei crespo, gli occhi infossati, aveva le ossa zigomatiche sporgenti, il naso adunco il mento aguzzo e prominente, il colorito terreo, tutto insomma contribuiva a renderla orribile, mostruosa. Stava rannicchiata sotto i suoi abiti, che le servivano di coperta, ma che abiti! una gonnella di cotone una volta a righe bianche e cineree, ora tutta a strappi e rappezzata qua e là con cenci di altro colore; dormiva, emettendo certi rantoli ferini, che accennavano un sonno irrequieto, forse rotto da sogni paurosi, turbato da reminiscenze o da previsioni dolorose. Chi era? Lessi il nome di lei sul registro della locanda; era una bergamasca, sensale di nutrici (marosséra), non aveva nè casa, nè tetto; quei suoi cenci erano l'unico suo avere; quale vita avesse fin qui condotta, quale quella che le era riserbata tutto era oscuro intorno a lei; non s'era mai distinta nel male, forse aveva fatto anche un po' di bene a questo mondo, ma siccome di quello non si era accorta l'autorità, e di questo nessuno è incaricato di tener calcolo, così quella donna uscì dall'ignoto passato, viveva ignoto il presente, per rientrare nell'ignoto, come i miliardi d'atomi umani che sono dannati a pullulare e sparire sulla crosta di questo povero globo. Eppure quella femminuccia sarà stata un giorno un'innocente bambina, avrà avuto un padre o almeno una madre che l'avranno amata; giovinetta simpatica, se non avvenente, avrà vagato sui colli verdeggianti del bergamasco, avrà destato qualche passione, qualche affetto, o forse per sua sventura qualche capriccio; poi caduta, reietta, disprezzata, calò alla città per nascondere la propria colpa e per trovare i mezzi di trascinare la sua miserabile esistenza; eppure anch'essa ne' suoi sogni di vergine avrà desiderato uno sposo, una casa, de' figliuoli, nei quali rivivere, avrà precorso l'avvenire colla facile immaginazione giovanile e l'avrà fantasticato assai diverso di quello ch'esser doveva per lei, avrà sognato una vita di tranquillità, di pace, d'amore una vecchiezza onorata, rispettata, nè avrebbe mai più pensato di dover passare le sue notti aggirandosi di locanda in locanda, sola nel mondo, cenciosa, esosa agli altri ed a sè stessa, tale infine da non destar altro sentimento che dì compassione misto tuttavia a schifo e ribrezzo. Vedi in questa stanzaccia quattro altri sacconi ravvicinati e su di essi cinque uomini, uno di questi affatto nudo; i suoi abiti penzolano dalla parete e consistono in una camicia e in un paio di calzoni. Dalla prima alla seconda stanza s'accede per un'apertura non munita munita di uscio; anche qui pareti sgretolate e umide; trave che divide in due campi il soffitto; correnti, correntini, una scala a piuoli, attaccata lungo la parete; dei cesti sulla soffitta un'accetta, una falce, dei cenci distesi sopra una corda, ecco l' aspetto della stanza. Una finestruola semi-aperta lascia penetrare un filo d' aria che alita sulla fronte di due donne di mezza età che dormono, sopra un lettuccio posto sotto la finestra; la padrona della locanda giace in un letto vicino alla parete, che divide la seconda dalla prima stanza; essa s'è rizzata a sedere sul letto, ha nelle mani un candelliere di legno contenente un moccolo di sego acceso, augura la buona notte alle mie guide, che tosto riconosce ed alle quali dice che nulla v'è di nuovo, cioè degno di essere notato. Tuttavia diamo uno sguardo alle undici persone che là dentro dormono: sola cosa che merita d'essere osservata è una famiglia di saltimbanchi. Sopra una tavola giaciono un uomo e una donna, e al di sotto della tavola, stesi sopra un po' di paglia, un ragazzino ed una ragazzina. I due piccini sono vestiti di maglia incarnatina con nastri di lustrini; sono belli, dormono tranquilli, hanno un non so che di angelico che fa uno strano contrasto colla luridezza e col laidume circostanti. Notisi che l'uomo non è il marito di quella donna, che questa non è la madre dei due fanciulli, e che questi non sono fratelli e sorella, e che nessuno dei due, è figlio nè di quell'uomo nè di quella donna, a cui si sono associati. Questi quattro esseri si trovarono nel mondo, s'accomunarono e però la loro famiglia è più che altro una società anonima, tendente ad impedire che uno di loro muoia digiuno. L'emissione delle azioni è a zero, non hanno spese d'amministrazione, riscuotono e spendono quotidianamente i loro dividendi ed esercitano ogni industria. Per loro tutti i generi sono buoni, eccetto quello che lascia un uomo morir di farne. Torniamo nella prima stanza, ma prima di abbandonare questa locanda ficchiamo lo sguardo nella stamberga a mano destra. Anche qui buio e fetore. È un sottoscala e vi stanno tre uomini, due dormono sopra una coperta di lana ed uno sulla nuda terra. Accendiamo un fiammifero e vediamo che uno tiene appoggiata la testa sull' avambraccio, fa coll'altra mano visiera agli occhi e sogguarda. Viene interrogato e risponde essere un facchino che viene dalla Valtellina e va a Genova. Il vicino si desta anch'esso, viene interrogato, è un suonatore d'organetto; è di Magadino e va a Corno. Non si conoscono, nè conoscono il loro terzo camerata che è un fruttivendolo di Monluè. Torniamo a scavalcare il saccone, eccoci nel cortile illuminato dal più bel chiarore di luna, che mai possa desiderare un poeta arcadico.. Ripassiamo l'andito, usciamo dallo sportello, eccoci in via Arena, tranquilla, silente, illuminata direi quasi gaiamente dalla luna. Respiro tre o quattro volle a pieni polmoni, mi pare di rivivere, la mia guida cortese mi domanda: - Che le pare? - Non lo avrei creduto, se quanto vidi me lo avesse narrato chiunque, fosse pure la persona più rispettabile del mondo. - Che lezzo, che schifo, che sudiciume! - Ebbene, pensi che queste locande erano assai peggiori negli anni andati. - È impossibile imaginarsi di peggio. Anzi, ripensandoci, mi pare d'aver detto una ridicolaggine marchiana, quando manifestai l'idea di passare la notte in una di codeste locande, nel caso non avessi potuto trovare altro mezzo per poterla visitare. - Creda che questa poveraglia sta di gran lunga meglio in prigione. Questo è appunto ciò che mi riserbo di vedere. Haec olim. . . otto anni or sono. Vediamo ora alcune delle locande più famose oggi esistenti. Siccome tutto muta in questo maledetto mondo sublunare dovevano quindi mutare anche le locande di Milano. Ed invero di qualche poco hanno mutato. Le mie notizie sono recentissime. Eccone la data: 27 e 29 giugno 1882. Nè le mie notizie potranno essere da alcuno smentite. Quanto narro , io stesso ho potuto vedere, grazie alla cortesia delle autorità di pubblica sicurezza. I 96 locandieri del 1874 hanno disseminato degli allievi ed oggi 153 sono gli affittaletti con licenza debitamente iscritti sui registri della questura. La locanda mantiene abbondantemente molti insetti parassiti, pulci, cimici, pidocchi, blatte, e .... i locandieri. Questi sono miserabili che trovano modo di vivere della miseria altrui. Non descriverò locanda per locanda, perchè mi vincerebbe lo schifo; non citerò i nomi degli affittaletti e i numeri delle loro locande, perchè mi parrebbe di commettere una mala azione, le mie accuse saranno generiche, ma perchè vere, dovranno indurre l'autorità a prendere in proposito qualche provvedimento. In questi giorni, o per parlare più esattamente in queste notti, ho rivisitate alcune locande da me già studiate nel 1874 e ne ho vedute parecchie di nuove. I campi delle mie esplorazioni furono il Corso Garibaldi, la Via Anfiteatro, la Via Vetraschi, la Via Pioppette, la Via Fabbri, la Via Vittoria, la Via Scaldasole, la Via Arena. Locande orribili! Scene nauseanti In una locanda di Via Anfiteatro non abbiamo potuto penetrare pel contegno ostile del proprietario. Ma da esatte informazioni da noi raccolte, possiamo dire che in quella notte, che noi volevamo visitare quella locanda, essa era piena di prostitute e di pregiudicati, pei quali il proprietario ha dei delicatissimi riguardi. Il cancello che chiude l'imboccatura della scala, la quale conduce ai piani superiori dà una curiosa caratteristica di prigione a quella locanda. E il fetore delle latrine e del mondezzaio si fa sentire con tanta prepotenza anche da chi si ferma soltanto nel cortile, che si può dire essere questa locanda una succursale della ditta Colera-morbus e compagni Ed ora tiriamo di lungo. Nelle locande ho dovuto notare un miglioramento. In nessuna di quelle da me or ora visitate si dorme o sulla paglia o sopra un saccone posto sul suolo. I pagliericci sono tutti collocati sopra lettucci o sopra cavalletti, il che non era ancora nel 1874. Si è quindi progredito ma piuttosto nella apparenza che nella realtà. E per vero dire mancano di finestre moltissime stanze e in ciascuna d'esse vi sono troppi letti e vi dorme un numero soverchio di persone, cosicchè queste non hanno aria respirabile sufficiente. Un fetore orribile è dovunque. Raramente si trovano letti forniti di lenzuoli,e dove questi vi sono, sembrano cotti in broda di fagiuoli, come quelli di cui parla il Berni nel Capitolo al Fracastoro. Dormono due o più persone in un letto, e promiscuamente abbiamo veduto ancora dormire uomini e donne; anzi in una locanda in Via Fabbri abbiamo trovato un uomo, che giaceva in compagnia di due donne. A cagione del caldo soffocante tutti dormono nudi, sicchè entrando in uno di questi covili con un lume acceso, si vedono risvegliarsi e muoversi lentamente e quasi inconsapevolmente e quella confusione di membra contorcentisi ne dà l'imagine di un gigantesco lombricaio. In Via Scaldasole abbiamo trovato cinque uomini coricati in un piccolo andito dal soffitto inclinato e rivelante l'ossatura delle travi reggenti il tetto. Un uomo non vi può stare in piedi ritto, e bisogna cammini curvo per non dar di capo nelle travi. V'era una finestretta sola ed era aperta, ma l'aria vi portava dentro l'ammorbante puzzo di una latrina e di un magazzino di galline e di capponi. Quella casa appartiene ad un pollivendolo, il quale ha certo più cura della salute de' suoi polli che non di quella de'suoi inquilini. In una locanda in Via Pioppette da' miei compagni di escursione furono riconosciuti tra gli alloggiati ben nove tra ammoniti e sorvegliati. Ora se tre bastano a comporre ciò che in gergo legale si chiama un'Associazione di malfattori, quivi c'era triplicata e coloro, che la miseria e il bisogno di riposo involontariamente aveva associati, erano della specie più pericolosa. Ma dormivano, ed un vecchio proverbio dice: Chi dorme non pecca. Tralasciamo di descrivere le scene poco edificanti, sulle quali c'è caduto lo sguardo in queste nostre visite. Non scriviamo a provocare la corruzione, ma ad eccitare in chi può e in chi deve il desiderio e la volontà di porre rimedio a questi orrori. I quali non sono del resto più deplorevoli di quelli che riscontransi in tutte le grandi città e che anche noi abbiamo avuto occasione di vedere in Parigi. Ma siccome parlando della capitale della Francia, della capitale del mondo, si potrebbe credere, che uno stolto chauvinisme ci inducesse a sparlarne, così a dare valore al nostro dire ci gioveremo dell'autorità di uomini, che hanno parlato per vero dire, non per odio d'altrui nè per disprezzo

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CENERE

663041
Deledda, Grazia 1 occorrenze

Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

Demetrio Pianelli

663132
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"Quando mi vede fuori dei gangheri, abbassa subito le arie, diventa un agnello. Bisogna fare cosí cogli uomini. Non mostrare mai d'aver paura. È perché noi donne non andiamo d'accordo; ma, se ci mettessimo, non sai che in ventiquattro ore cambiamo la legge del mondo?" Beatrice stava a sentire incantata, quasi impaurita di queste famose massime. Il coraggio e lo spirito di Palmira l'intimidivano. Non capiva come vi potessero essere donne cosí temerarie, da tentare la pazienza e le furie di un povero uomo a quel modo. "Scrive che, finita la stagione di quaresima, tornerà in Italia ... Oh, bravo! ... " Palmira agitò nell'aria il foglio e se lo portò alla bocca. "Sí, sí, va bene, ma tu sei troppo ... " provò di nuovo a dire con lento accento di rimprovero la buona Beatrice, che faceva con Palmira la parte del buon Angelo. "Troppo che cosa?" saltò su la Palmira, guardandola cogli occhi socchiusi. "Cara la mia innocentina! non tutte hanno l'arte di spennacchiare la gallina viva senza farla gridare. O che tu sei diversa dalle altre?" "Che cosa credi?" esclamò Beatrice, arrossendo. "Io non voglio saper niente, non sono il tuo confessore. Lasciami vedere se non è giú ancora a far la guardia." Palmira andò a spiare dietro le gelosie socchiuse e guardò a destra e a sinistra. Quando fu certa che Melchisedecco non c'era, stracciò in cento pezzetti la lettera, che seminò per la stanza, e soggiunse: "Vado intanto che ho la furia addosso. Son passata di qui anche per dirti una cosa che ti riguarda. Ieri ho trovato il cavaliere, che mi ha detto di dirti che ha visto l'avvocato, che la causa è a buon punto, che tuo padre ha cento ragioni, che ha bisogno di parlarti." "Davvero?" esclamò Beatrice con un piccolo grido e con un saltino di gioia. "Questa è una bella notizia." "Verrebbe egli da te, ma ha paura di trovare qui quel tuo, come si chiama?.. quel del redingotto. Che cosa fa quella tua bellezza?" "Dove posso trovarlo?" "A casa sua, forse ... Sai dove sta? in via Velasca, nella porta dei bagni. Se ci vai domenica, lo trovi certo. Ci sarà anche l'avvocato ... ." Palmira era già a mezzo della scala, ricacciata dalla furia che l'aveva condotta. Uscí nella via nel momento che passava il tram di Porta Genova. Fece segno colla mano al conduttore, saltò su svelta come una gatta, sedette a sinistra, e trasse il portamonete per pagare. Quando alzò le palpebre si trovò seduta in faccia al signor Melchisedecco Pardi, fabbricante di nastri con ditta al ponte dei Fabbri, che in una posa di Napoleone a Sant'Elena la divorava cogli occhi. Palmira aveva ragione di dire che suo marito le faceva la guardia. Dal giorno che Cesarino Pianelli, o per leggerezza o per vendetta, aveva buttata fuori la prima parolina ironica, il buon Pardone non era stato cogli occhi chiusi. Conosceva le tendenze di sua moglie e non s'illudeva. Egli l'aveva levata da un telaio di nastri col vestito di cotone, coi piedi negli zoccoli; l'aveva sposata, l'aveva vestita di seta, coperta d'oro e l'amava ancora dopo dieci anni di matrimonio, colla forza lenta, costante, vigorosa dei temperamenti linfatici. Palmira non negava mica che il suo Secco fosse buono: anzi in certi momenti guai a toccarglielo! non amava il male in sé, ma per la varietà, colpa dell'argento vivo che aveva indosso e della sua nessuna educazione di famiglia. Il buon Pardone portava pazienza, la compativa fin dove può arrivare un marito. Lasciava che andasse in maschera, che gettasse i coriandoli dal balcone, che ridesse, scherzasse pure cogli uomini; andava anche lui a divertirsi, quando avrebbe preferito dormire nel suo letto. Non rifiutava nemmeno di infilare il frac e di dormire in piedi alle feste da ballo dove Palmira faceva il diavolo ... Ma, ohe! non voleva che la gente dicesse che il signor Pardi dormiva troppo della grossa. Scherzare, fare il diavolo, fin che si vuole: ma il signor Pardi era lui ... Se bisognava, c'erano anche dei buoni pugni ... Queste cose all'incirca scattavano fuori da quel paio d'occhi, con cui cercava di divorare sua moglie, se la signora Palmira avesse avuta la compiacenza di lasciarsi divorare. Egli sapeva che c'era un tenore di mezzo. Lo aveva visto alla festa a far le smorfie del Trovatore a Palmira, e fin qui, pazienza! è il loro mestiere di far le smorfie. Ma egli aveva ogni ragione di credere che tra Barcellona e la via dei Fabbri continuasse una corrispondenza segreta. Una volta sulla scala aveva trovato per caso una fascetta di giornale con un bollo spagnuolo ... o almeno gli parve spagnuolo. Certo non era dei nostri. Seppe poi da un impresario, a cui aveva garantita una cambiale, che il signore "di quella pira" mandava in visibilio gli spagnoli col suo famoso do . Niente di male, era questo il suo mestiere; ma corrispondenze segrete, no, per Dio!, non ne voleva di corrispondenze segrete. Anzi l'amico impresario era incaricato d'avvertirlo nel caso che l'altro passasse da queste parti: piacere per piacere, siamo al mondo per aiutarci. Ma il buon Pardone si fidava ancora piú degli occhi suoi. A tempo perso pedinava la moglie, alla lontana, senza farsi scorgere, e la colse proprio sul punto che usciva dal portone della Posta. Che cosa andava a fare alla Posta la signora Pardi? e non ci sono i portalettere pagati per questo? C'era una lettera, l'aveva vista cogli occhi suoi, c'era ... Doveva essere in una di quelle due tasche. E ingrossava ancora di piú gli occhi, come se volesse guardare sotto i panni. Palmira, rigida, fredda, indifferente, colse il momento che il tram rallentò la corsa per ingombro, si alzò, non aspettò che la carrozza fosse ferma, con un salto andò giú, e infilò subito una via a sinistra, verso casa, mentre il signor Melchisedecco andava sonando e risonando il campanello per farlo fermare. Non era uomo da far salti; del resto non c'era bisogno di correre. Forse era meglio che gli passasse un poco la scalmana ... , ma sentiva che questa volta erano pugni. Non ne voleva di corrispondenze. Per la corrispondenza di fabbrica bastava lui. Palmira capí che il temporale era grosso: affrettò il passo, s'infuriò piú che poté, corse su per la scala, passando in mezzo al frastuono dei duecento telai che lavoravano al primo piano, spinse l'uscio, entrò come una bomba, facendo trasalire la donna di servizio, passò in camera e cominciò a spogliarsi, strappandosi di dosso la roba come se si facesse a brani colle mani e, quando il signor Pardi, con comodo, comparve sull'uscio e cominciò a guardarla ancora con quegli occhioni di bove, non gli lasciò il tempo di aprire la bocca, ma, già quasi mezza svestita e spettinata, attraversò la stanza, trascinandosi dietro la roba, e lo investí con tale uragano di ignominie, che Pardone chiuse gli occhi e si appoggiò colle grosse spalle all'uscio, quasi volesse impedir alla voce di uscire. Il rumore dei duecento telai non riusciva a coprire quella voce irritata di furia francese. Essa gli buttò sul viso un guanto, lasciò cadere e passeggiò sul vestito, lo fulminò senza pietà con quei suoi grandi occhi di carbone, pieni di scintille e di sangue, finché, disfatta quasi dalla sua stessa convulsione, si aggrappò colle braccia nude al collo del suo buon Pardone, rovesciò tutta la testa indietro col gran volume dei capelli lisci e neri sciolti sulle spalle, e sospirò, atteggiandosi a vittima. "Son qui, ammazzami, ma dimmi prima che cosa ti ho fatto. Ammazzami qui, in casa tua, ma non voglio che tu mi faccia delle figure in istrada. Se non vuoi che io esca di casa, legami alla gamba del letto, chiudimi dentro a chiave, ma non rendermi ridicola in faccia alla gente. Sono stufa, stufa, stufa; e se dura un pezzo ancora questa vita, mi butto nel Naviglio. Non sono una stupida per non capire che tu mi vieni dietro ad ogni passo ... Ebbene, parla ... chi è il mio amante?" "Quella lettera…?" chiese il povero uomo, soffiando la sua grossa emozione e tremando in tutto il corpo. "Vedi, come sei stupido? è tutto qui? eccola la famosa lettera. To', leggila, c'è ancora il bollo fresco. È arrivata ieri, guarda ... Modena ... Leggi e guarda come sei imbecille colla tua gelosia." Il buon Melchisedecco voltò e rivoltò la letterina, che Palmira trasse dalla tasca del suo vestito rimasto in terra in mezzo alla stanza. Era una lettera di Eloisa, una cugina, maritata a un tenente di guarnigione a Modena, una lettera di complimenti e di piccole commissioni. Melchisedecco chinò il capo e stette un momento pensoso. Poi, dissimulando la sua incredulità e il suo profondo affanno, soggiunse con un tono raddolcito di tenerezza e d'indulgenza: "Se anche sono un poco geloso, non ti faccio torto. Se mi volessi bene ... ." "E non te ne voglio forse? senti, adesso ... cose da far piangere di rabbia. E non sono sempre qui in casa con te come un cagnolino, a fare i conti dei rocchetti e delle matasse? e quando mi lamento io di questa vita? e non dico sempre che il Signore mi ha voluto bene e che sono stata fortunata? e non conservo forse sempre per memoria l'ultimo paio di zoccoli che ho lasciato ai piedi della scala quella notte che tu mi hai detto che mi volevi bene? Ti ricordi? tua madre non voleva che tu mi sposassi, e noi ci siamo sposati lo stesso ... ti ricordi? quella notte, in quella stessa stanza ... Oh no! non meriti nemmeno che io te ne parli. Allora sí mi volevi bene; ora perché sono diventata vecchia, sono la vespa, la biscia, l'ingrata, l'infame ... Oh, è troppo! io morirò di crepacuore ... ." E la povera Palmira piangeva davvero un fiume torrenziale di lagrime, ingannando quasi sé stessa. Le spalle, il collo, il viso s'infiammarono sotto la violenza di quel piangere dilagato, a cui il buon Melchisedecco non sapeva come porre un argine. Egli mormorò qualche parola, cercò di giustificare ancora una volta piú dolcemente la sua condotta, promise di non farlo piú, docile, mortificato come un bambino, e tornò in fabbrica col corpo rotto dal pentimento. "Mi sarò ingannato" diceva dentro di sé, "ma corrispondenze non ne voglio." Il frastuono dei duecento telai in mezzo ai quali egli cercava un sollievo all'affanno che gli gonfiava il polmone, non valse a rompere nella sua testa lo stampo di quella frase imperativa ch'egli seguitava suo malgrado a ripeter coi denti stretti. Dovette dare degli ordini, scrivere una fattura, ma i denti dopo quasi un'ora vibravano ancora della scossa ricevuta, e della frase rotta e stritolata egli masticava ancora, dopo quasi un'ora, qualche estremo monosillabo. "Non ne voglio io delle ... ."

Malombra

670418
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Non abbassa la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece gli spiriti vitali dei fiori, l'aria pura, la conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà cens urarmi? Ecco sciolto, signori, l'enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra." Il pranzo incominciò. I commensali di donna Marina tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente: raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si guardava cautamente attorno, impar ava a memoria le dracene e le azalee, le cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli dicevano che lo spettacolo non era finito. Il dottore studiava continuamente Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Mari na, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto. "Che silenzio" diss'ella finalmente. "Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?" "Oh!" rispose il commendatore storditamente. "Lei farebbe risuscitare i morti." Subito gli venne in mente l'uomo sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse un brivido nelle ossa. "Pure" replicò Marina "i miei ospiti sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux" diss'ella al vecchio cameriere che serviva solo, più lugubre ancora dei convitati. "Anche a questi signori." Il cameriere obbedì. Devoto al povero conte da lui servito per ventidue anni, gli pareva d'essere alla tortura. Versava con mano tremante, facendo tintinnare il collo della bottiglia sull'orlo dei calici. "Vi prego di assaggiar questo vino" disse Marina. "Pensatelo, adesso. Non vi trovate un lontano sapore d'Acheronte?" Il commendatore alzò il calice, lo sperò, vi posò ancora le labbra e disse: "Ha qualche cosa d'insolito." "Supponga dunque, commendatore Radamanto" disse Marina con voce commossa, contraendo nervosamente gli angoli della bocca "che per certe mie ragioni io abbia pensato..." Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, porgendo le labbra, facendo con la mano l'atto di chi butta via sdegnosamente una cosa spregevole. "Sa" diss'ella "questa vita è così vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando muore il sole, in mezzo ai fiori, portando meco alcuni amici di spirito pel caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux..." Il Vezza trasalì, guardò il cameriere ritto presso la porta di sinistra, impassibile. "Oh!" esclamò Marina "come mi crede subito!" Si fe' versare dell'altro vino e si recò il calice alla bocca. "Sapore insolito?" diss'ella. "Se è puro, questo Bordeaux, come un'Ave Maria! È stato uno scherzo di Proserpina. - Bevete" proseguì concitata "cavalieri dalla triste figura. Provvedetevi di cuore e di spirito" Il dottore non bevve. Sentiva venire una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò il suo bicchiere. "Bravo!" diss'ella facendosi pallida. "Si ispiri per una risposta difficile." "Di Proserpina in Sfinge, marchesina?" "In Sfinge, sì, e vicina a diventar di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parlerà, dirà tutto. Dunque..." Ell'era andata diventando sempre più pallida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltello, ne ficcò rabbiosamente la punta nel tavolo. "Quieta, quieta" disse il medico pigliandole una mano gelata, piegandosi sopra di lei. Ella si era già vinta, respinse la mano del medico e si alzò. "Aria!" diss'ella. Passò con impeto fra il tavolo suo e quello del dottore, e si slanciò alla balaustrata verso il lago. Il dottore le fu addosso d'un salto per afferrarla, trattenerla. Ma ella si era già voltata e piantava in viso al Vezza due occhi scintillanti. "Dunque" esclamò affrettandosi di parlare, di far dimenticare un momento di debolezza "crede Lei che un'anima umana possa vivere sulla terra più di una volta?" E perché il Vezza, smarrito, sgomento, taceva, gli gridò: "Risponda!" "Ma no, ma no!" diss'egli. "Sì, invece! Lo può!" Nessuno fiatò. Il giardiniere, il cuoco, Fanny, avvertiti dal cameriere, salirono frettolosi le scale per venire ad origliare, a spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè dei muri: "Udite! udite!". E nel silenzio vibrò da capo la voce di Marina. "Sessant'anni or sono, il padre di quel morto là" (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) "ha chiuso qui dentro come un lupo idrofobo la sua prima moglie, l'ha fatta morire fibra a fibra. Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha comandato qui fino a stanotte!" Teneva gli occhi fissi sulla porta a destra, ch'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina. "Marchesina!" le disse il dottore con accento di blando rimprovero. "Ma no! Perché dice queste cose?" In pari tempo le pigliò il braccio sinistro con la sua mano di ferro. "Là c'è gente!" gridò Marina. "Avanti, avanti tutti." Fanny e gli altri fuggirono, per tornar poi subito in punta di piedi a spiare, nascondendosi da lei. Silla venne sulla porla del salotto. Di là non poteva veder Marina, ma la intendeva benissimo. Adesso diceva: "Avanti! egli non viene perché la sa la storia. Ma non la sa tutta, non la sa tutta; bisogna che gli racconti la fine. Tornata dal sepolcro, e questo è il mio banchetto di vittoria!" La voce, subitamente, le si affiochì. Ell'abbracciò la colonna presso cui stava, vi appoggiò la fronte scotendola con veemenza come se volesse cacciarvela dentro, mise un lungo gemito rauco, appassionato, da far gelare il sangue a chi l'udiva. "L'infermiera, la donna di stanotte!" disse forte il medico verso la porta, e si voltò poi a Marina, di cui teneva sempre il braccio. "Andiamo, marchesina" diss'egli dolcemente "ha ragione, ma sia buona, venga via, non dica queste cose che le fanno male." Ell'alzò il viso, si ravviò con la destra i capelli arruffati sulla fronte, trapassando ancora con l'occhio avido la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e saliva, pareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla porta. Ella le accennò violentemente, con il braccio libero, di farsi da banda, e disse al medico parlando più con un gesto che con la voce: "Sì, andiamo via, andiamo nel salotto." "E nella Sua camera non sarebbe meglio?" "No, no, nel salotto. Ma mi lasci!" Ella disse quest'ultime parole in atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedì, e si accontentò di seguirla. A lui premeva sopra tutto, in quel momento, allontanarla dalla balaustrata. Marina s'incamminò lentamente, tenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la guardarono passare, allibiti. Il dottore che la seguiva, si fermò un momento per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta. Fanny, il cuoco e il giardiniere s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate. Silla stava sulla soglia del salotto. Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di lui, disse "Oh, buon viaggio" e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlando, il dottore saltò in sala, gridò agli uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezza, il cameriere, l'altra donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco vocifera vano, si eccitavano l'un l'altro a trattener Marina, che voltasi indietro, passò in mezzo a tutti, con la pistola fumante in pugno, senza che alcuno osasse toccarle un dito, attraversò la loggia, ne uscì per la porta opposta, la chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due minuti. Il giardiniere e il cameriere, vergognandosi di sé irruppero sulla porta, la sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era vuoto. Si fermarono incerti, aspettando un colpo, una palla nel petto, forse. "Avanti, vili!" urlò il dottore slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoio, stette in orecchi. Nessun rumore. "Fermi lì, voi" diss'egli e saltò nella camera del conte. Vuota. Le candele vi ardevano quiete. Entrarono, egli nella camera da letto, gli altri due in quella dello stipo. Vuote. Il dottore si cacciò le mani nei capelli, esclamò rabbiosamente: "Maledetti vili!" "In biblioteca!" disse il giardiniere. Saltarono giù per le scale, il dottore primo. Toccato il corridoio, udì un urlìo, distinse la voce del commendatore che gridava: "La barca! la barca!" Corse in loggia, s'affacciò al lago. Marina, sola nella lancia, passava lì sotto, pigliava il lago piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la pistola. "Al battello!" disse il dottore. Il Vezza gli gridò dietro: "Per la scaletta segreta!" Scesero per la scaletta segreta. Il dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedi, a tempo di udire una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala. "Il battello non c'è" diss'egli. "L'ha mandato via col Rico prima di pranzo." "Sarà tornato!" disse il dottore e spinse palpitando l'uscio della darsena. Vuota. Le catene del battello e della lancia pendevano sull'acqua. Fu per stramazzare a terra. Lì vicino, lo sapeva bene, non vi erano altre barche. "Giardiniere!" diss'egli. "Al paese! Una barca e degli uomini." Il giardiniere sparve per la porticina del cortile. "Dio, Dio, Dio!" esclamò il dottore alzando le braccia. Gli altri continuavano a gridare dalla loggia "Presto! Presto!" Ed ecco il giardiniere tornare di corsa. "Occorre anche il prete?" diss'egli. Il dottore gli mise i pugni al viso. "Stupido, non vedi che sono venuto via io?" Colui non capì bene, ma tornò via, e il dottore corse di sopra. Una finestra dell'ultimo piano si aperse, una voce debole domandò: "Cosa c'è? Cos'è accaduto?" Era la Giovanna. Qualcuno rispose dal cortile: "È succeduto che hanno ammazzato il signor Silla." "Oh Madonna Santa!" diss'ella. Si udì il giardiniere gridare da lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosi, avvertiti da una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente. De' ragazzi passarono il cancello del cortile, scivolarono in casa essi pure, saliron le scale. Volevano entrare nel salotto, sapevano che l'uomo era là. Ne uscì il dottore entratovi un momento prima. "Via" diss'egli con voce terribile. I ragazzi fuggirono. Quegli parlò a qualcuno ch'era rimasto dentro. "Fino a che non venga il pretore, nessuno!" Poi chiuse l'uscio. Il Vezza e gli altri si strinsero attorno affannati. "Euh?" diss'egli. "Non ve l'ho detto prima? Passato il cuore." Una finestra della sala era stata spalancata. Egli vi accorse e dietro a lui, in silenzio angoscioso, tutti: il Vezza, la gente di servizio, i due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra. Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi tranquillo. Marina si vedeva bene, si vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il Vezza, ch'era miope, disse: "È ferma." Intatti non pareva avanzasse. "No, no" risposero gli altri. Uno dei contadini, soldato in congedo, ch'era salito sopra una sedia per veder meglio, disse: "Con una carabina la butterei giù." Fanny andò via singhiozzando, poi tornò a guardare. "Ma, per Dio, dove va?" esclamò il dottore. Nessuno rispose. Un minuto dopo, il contadino ch'era in piedi sulla sedia, disse: "Va in Val Malombra. È dritta in mira alla valle." Fanny ricominciò a strillare. Il dottore l'abbrancò per un braccio, la trascinò via e le impose di star zitta. "Perché in Val Malombra?" diss'egli. "C'è un sentiero che passa la montagna" rispose l'altro "e mena poi giù sulla strada grossa." "Non si può prenderlo quel sentiero dalla riva di Val Malombra" osservò il secondo contadino. "Si può sì. Basta andar su al Pozzo dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti." "Eccoli!" gridò la moglie del giardiniere. Un battello a quattro remi usciva rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia. Il dottore si accostò le palme alla bocca, urlò a quella volta: "Presto!" "La prenderanno?" chiese il commendatore. "In acqua, no" si rispose. "La lancia in quattro colpi è a terra: per quelli là ci vogliono dieci minuti." Saetta si avvicinava al piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono di prora gridando, non s'intendeva che. "Una barca!" esclamò il dottore. "Ferma!" urlò con quanto fiato aveva. "Ferma la lancia!" Poi si volse ai due contadini. "È il pretore. In fondo al giardino voialtri! E gridate!" Urlò ancora, spiccando le sillabe: "Assassinio! Ferma la lancia!" Infatti un'altra barca veniva da levante verso il Palazzo, passava allora a un tiro di fucile da Saetta. Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzo, quella barca seguiva sempre, tranquillamente, la sua via. "Non sentono" disse il dottore. "Gridate tutti, per Dio!" Egli stesso fece uno sforzo supremo. Il Vezza, i domestici, le donne gridarono con voce strozzata, impotente: "Ferma la lancia!" La barca veniva sempre avanti. Saetta scomparve.

FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

è il marmo che si muove, è il macigno da cui sembra svanito il cinico sogghigno, è il Fauno che si abbassa sulla testa di Steno, e par dica : - Per piangere, ora ho un compagno almeno!

Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto. La ragazza del laboratorio si chiamava Alida. Assisteva ai miei entusiasmi di neofita senza condividerli; ne era anzi sorpresa e un po' urtata. La sua presenza non era sgradevole. Veniva dal liceo, citava Pindaro e Saffo, era figlia di un gerarchetto locale del tutto innocuo, era furba ed infingarda, e non le importava nulla di nulla, e meno che mai dell' analisi della roccia, che dal Tenente aveva imparato meccanicamente ad eseguire. Anche lei, come tutti lassù, aveva interagito con varie persone, e non ne faceva alcun mistero con me, grazie a quella mia curiosa virtù confessoria a cui ho accennato prima. Aveva litigato con molte donne per vaghe rivalità, si era innamorata un poco di molti, molto di uno, ed era fidanzata di un altro ancora, un brav' uomo grigio e dimesso, impiegato all' Ufficio Tecnico, suo compaesano, che i suoi avevano scelto per lei; anche di questo non le importava nulla. Che farci? Ribellarsi? Andarsene? No, era una ragazza di buona famiglia, il suo avvenire erano i figli e i fornelli, Saffo e Pindaro cose del passato, il nichel un astruso riempitivo. Lavoricchiava in laboratorio in attesa di quelle nozze così poco agognate, lavava svogliatamente i precipitati, pesava la nichel-dimetilgliossima, e mi ci volle impegno per farla persuasa che non era opportuno maggiorare il risultato delle analisi: cosa che lei tendeva a fare, anzi mi confessò di aver fatto sovente, perché, diceva, tanto non costava niente a nessuno, e faceva piacere al Direttore, al Tenente e a me. Che cos' era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient' altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no, anche lì il grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata. Niente scampo per Alida. Ascoltava con devozione compunta, ed insieme con scetticismo italiano, i miei resoconti di vita torinese: erano resoconti assai censurati, perché sia lei, sia io, dovevamo pure stare al gioco del mio anonimato, tuttavia qualcosa non poteva non emergere: se non altro, dalle mie stesse reticenze. Dopo qualche settimana mi accorsi che non ero più un senza nome: ero un Dott. Levi che non doveva essere chiamato Levi, né alla seconda né alla terza persona, per buona creanza, per non far nascere imbrogli. Nell' atmosfera pettegola e tollerante delle Cave, lo sfasamento fra la mia indeterminata condizione di fuoricasta e la mia visibile mitezza di costumi saltava agli occhi, e, mi confessò Alida, veniva lungamente commentata e variamente interpretata: dall' agente dell' Ovra al raccomandato d' alto livello. Scendere a valle era scomodo, e per me anche poco prudente; poiché non potevo frequentare nessuno, le mie sere alle Cave erano interminabili. Qualche volta mi fermavo in laboratorio oltre l' ora della sirena, o ci ritornavo dopo cena a studiare, o a meditare sul problema del nichel; altre volte mi chiudevo a leggere le Storie di Giacobbe nella mia cameretta monastica del Sottomarino. Nelle sere di luna facevo sovente lunghe camminate solitarie attraverso la contrada selvaggia delle Cave, su fino al ciglio del cratere, o a mezza costa sul dorso grigio e rotto della discarica, corso da misteriosi brividi e scricchiolii, come se veramente ci si annidassero gli gnomi indaffarati: il buio era punteggiato da lontani ululati di cani nel fondo invisibile della valle. Questi vagabondaggi mi concedevano una tregua alla consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed insomma della trappola aperta, che stava per scattare: facevano nascere in me un legame nuovo, più sincero della retorica della natura imparata a scuola, con quei rovi e quelle pietre che erano la mia isola e la mia libertà, una libertà che forse presto avrei perduta. Per quella roccia senza pace provavo un affetto fragile e precario: con essa avevo contratto un duplice legame, prima nelle imprese con Sandro, poi qui, tentandola come chimico per strapparle il tesoro. Da questo amore pietroso, e da queste solitudini d' amianto, in altre di quelle lunghe sere nacquero due racconti di isole e di libertà, i primi che mi venisse in animo di scrivere dopo il tormento dei componimenti in liceo: uno fantasticava di un mio remoto precursore, cacciatore di piombo anziché di nichel; l' altro, ambiguo e mercuriale, lo avevo ricavato da un cenno all' isola di Tristan da Cunha che mi era capitato sott' occhio in quel periodo. Il Tenente, che prestava servizio militare a Torino, saliva alle Cave solo un giorno alla settimana. Controllava il mio lavoro, mi dava indicazioni e consigli per la settimana seguente, e si rivelò un ottimo chimico ed un ricercatore tenace ed acuto. Dopo un breve periodo orientativo, accanto alla routine delle analisi quotidiane si andò delineando un lavoro di volo più alto. Nella roccia delle Cave c' era dunque il nichel: assai poco, dalle nostre analisi risultava un contenuto medio dello 0,2 per cento. Risibile, in confronto ai minerali sfruttati dai miei colleghi-rivali antipodi in Canadà e in Nuova Caledonia. Ma forse il greggio poteva essere arricchito? Sotto la guida del Tenente, provai tutto il provabile: separazioni magnetiche, per flottazione, per levigazione, per stacciatura, con liquidi pesanti, col piano a scosse. Non approdai a nulla: non si concentrava nulla, in tutte le frazioni ottenute la percentuale di nichel rimaneva ostinatamente quella originale. La natura non ci aiutava: concludemmo che il nichel accompagnava il ferro bivalente, lo sostituiva come un vicario, lo seguiva come un' ombra evanescente, un minuscolo fratello: 0,2 per cento di nichel, . per cento di ferro. Tutti i reattivi d' attacco pensabili per il nichel avrebbero dovuto essere impiegati in dose quaranta volte superiore, anche a non tener conto del magnesio. Un' impresa economicamente disperata. Nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea: al confronto, gli alberi della valle, ormai già vestiti di primavera, erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore, spande polline nel vento, segue oscuramente il sole nel suo giro. La pietra no: non accoglie energia in sé, è spenta fin dai primordi, pura passività ostile; una fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione per mettere le mani sul folletto nascosto, sul capriccioso nichel-Nicolao che salta ora qui ora là, elusivo e maligno, colle lunghe orecchie tese, sempre attento a fuggire davanti ai colpi del piccone indagatore, per lasciarti con un palmo di naso. Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono "le due esperienze della vita adulta" di cui parlava Pavese, il successo e l' insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all' intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. I miei colloqui settimanali col Tenente sembravano piani di guerra. Fra i molti tentativi che avevamo fatti, c' era anche stato quello di ridurre la roccia con idrogeno. Avevamo disposto il minerale, finemente macinato, in una navicella di porcellana, questa in un tubo di quarzo, e nel tubo, riscaldato dall' esterno, avevamo fatto passare una corrente d' idrogeno, nella speranza che quest' ultimo strappasse l' ossigeno legato al nichel e lo lasciasse ridotto, cioè nudo, allo stato metallico. Il nichel metallico come il ferro, è magnetico, e quindi, in questa ipotesi, sarebbe stato facile separarlo dal resto, solo o col ferro, semplicemente per mezzo di una calamita. Ma, dopo il trattamento, avevamo dibattuto invano una potente calamita nella sospensione acquosa della nostra polvere: non ne avevamo ricavato che una traccia di ferro. Chiaro e triste: l' idrogeno, in quelle condizioni, non riduceva nulla; il nichel, insieme col ferro, doveva essere incastrato stabilmente nella struttura del serpentino, ben legato alla silice ed all' acqua, contento (per così dire) del suo stato ed alieno dall' assumerne un altro. Ma se si provasse a sgangherare quella struttura? L' idea mi venne come si accende una lampada, un giorno in cui mi capitò casualmente fra le mani un vecchio diagramma tutto impolverato, opera di qualche mio ignoto predecessore; riportava la perdita di peso dell' amianto delle Cave in funzione della temperatura. L' amianto perdeva un po' d' acqua a 150äC, poi rimaneva apparentemente inalterato fin verso gli .00ä+; qui si notava un brusco scalino con un calo di peso del 12 per cento, e l' autore aveva annotato: "diventa fragile". Ora, il serpentino è il padre dell' amianto: se l' amianto si decompone a .00äC, anche il serpentino dovrebbe farlo; e, poiché un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli, mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole sulla carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato fra le loro maglie, e poi le stesse dopo lo sconquasso, ridotte a corti mozziconi, col nichel scovato dalla sua tana ed esposto all' attacco; e non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l' antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell' indomani fosse fortunata. Le cerimonie propiziatorie non durarono a lungo: il Tenente non c' era, ma poteva arrivare da un' ora all' altra, e temevo che non accettasse, o non accettasse volentieri, quella mia ipotesi di lavoro così poco ortodossa. Me la sentivo prudere su tutta la pelle: capo ha cosa fatta, meglio mettersi subito al lavoro. Non c' è nulla di più vivificante che un' ipotesi. Sotto lo sguardo divertito e scettico di Alida, che, essendo ormai pomeriggio avanzato, guardava ostentatamente l' orologio da polso, mi misi al lavoro come un turbine. In un attimo, l' apparecchio fu montato, il termostato tarato a .00äC, il riduttore di pressione della bombola regolato, il flussimetro messo a posto. Scaldai il materiale per mezz' ora, poi ridussi la temperatura e feci passare idrogeno per un' altra ora: si era ormai fatto buio, la ragazza se n' era andata, tutto era silenzio sullo sfondo del cupo ronzio del Reparto Selezione, che lavorava anche di notte. Mi sentivo un po' cospiratore e un po' alchimista. Quando il tempo fu scaduto, estrassi la navicella dal tubo di quarzo, la lasciai raffreddare nel vuoto, poi dispersi in acqua la polverina, che di verdognola si era fatta giallastra: cosa che mi parve di buon auspicio. Presi la calamita e mi misi al lavoro. Ogni volta che estraevo la calamita dall' acqua, questa si portava dietro un ciuffetto di polvere bruna: la asportavo delicatamente con carta da filtro e la mettevo da parte, forse un milligrammo per volta; perché l' analisi fosse attendibile, ci voleva almeno mezzo grammo di materiale, cioè parecchie ore di lavoro. Decisi di smettere verso mezzanotte; di interrompere la separazione, voglio dire, perché a nessun costo avrei rimandato l' inizio dell' analisi. Per quest' ultima, trattandosi di una frazione magnetica (e quindi presumibilmente povera di silicati) e condiscendendo alla mia fretta, studiai lì per lì una variante semplificata. Alle tre del mattino il risultato c' era: non più la solita nuvoletta rosa di nichel-dimetilgliossima, ma un precipitato visibilmente abbondante. Filtrare, lavare, essiccare, pesare. Il dato finale mi apparve scritto in cifre di fuoco sul regolo calcolatore; 6 per cento di nichel, il resto ferro. Una vittoria: anche senza una ulteriore separazione, una lega da mandare tal quale al forno elettrico. Ritornai al "Sottomarino" che era quasi l' alba, con una voglia acuta di andar subito a svegliare il Direttore, di telefonare al Tenente, e di rotolarmi per i prati bui, fradici di rugiada. Pensavo molte cose insensate, e non pensavo alcune cose tristemente sensate. Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, neppure in Canadà né in Nuova Caledonia, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore. Non pensavo che, se anche il metodo di estrazione che avevo intravvisto avesse potuto trovare applicazione industriale, il nichel prodotto sarebbe finito per intero nelle corazze e nei proiettili dell' Italia fascista e della Germania di Hitler. Non pensavo che, in quegli stessi mesi, erano stati scoperti in Albania giacimenti di un minerale di nichel davanti a cui il nostro poteva andarsi a nascondere, e con lui ogni progetto mio, del Direttore o del Tenente. Non prevedevo che la mia interpretazione della separabilità magnetica del nichel era sostanzialmente sbagliata, come mi dimostrò il Tenente pochi giorni dopo, non appena gli ebbi comunicato i miei risultati. Né prevedevo che il Direttore, dopo aver condiviso per qualche giorno il mio entusiasmo, raffreddò il mio ed il suo quando si dovette rendere conto che non esisteva in commercio alcun selettore magnetico capace di separare un materiale in forma di polvere fine, e che su polveri più grossolane il mio metodo non poteva funzionare. Eppure questa storia non finisce qui. Nonostante i molti anni passati, la liberalizzazione degli scambi ed il ribasso del prezzo internazionale del nichel, la notizia dell' enorme ricchezza che giace in quella valle, sotto forma di detriti accessibili a tutti, accende ancora le fantasie. Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c' è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. Il fascino della ricchezza sepolta, dei due chili di nobile metallo argenteo legati ai mille chili di sasso sterile che si getta via, non si è ancora estinto. Neppure sono scomparsi i due racconti minerali che allora avevo scritti. Hanno avuto una sorte travagliata quasi quanto la mia: hanno subito bombardamenti e fughe, io li avevo dati perduti, e li ho ritrovati di recente riordinando carte dimenticate da decenni. Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Se il mio vascello si abbassa (e ciò avverrà senza dubbio tutte le notti, poiché con lo scemare del calore l'idrogeno si restringe, diminuendo considerevolmente la forza ascensionale), io lascio pendere le mie tre funi. Immergendosi, esse perdono una parte del loro peso specifico e alleggeriscono i palloni d'un peso non piccolo. Non bastano? Senza sacrificare la zavorra, calo i miei barili d'acqua, che sono chiusi ermeticamente nei loro recipienti di alluminio, e mi scarico due o trecento chilogrammi. Un'ora di sole basta a dilatare l'idrogeno e noi, a giorno fatto, risaliamo in alto, portando con noi i nostri barili e le nostre guide-ropes, sacrificando forse poche decine di chilogrammi di zavorra." "E se ancora ciò non bastasse e i nostri palloni scendessero per mancanza d'idrogeno?" "Mi resta la scialuppa. Da aeronauti diverremo marinai e cercheremo di raggiungere la costa più vicina, o di incontrare qualche nave." "Ma voi avete eliminato tutti i pericoli." "Tutti no, O'Donnell. Un uragano può lacerarci i palloni, o un fulmine incendiarli, e noi precipitare in fondo all'oceano." "Speriamo di scendere sani e salvi in Europa, Mister Kelly." "Confidiamo in Dio e nel nostro Washington. Simone, versaci un bicchiere di whisky. Quassù fa freddo assai, e una sorsata di liquore ci farà bene e forse ci eviterà un raffreddore." Il negro non si mosse: sempre rannicchiato a poppa della scialuppa, con gli occhi strabuzzati, la pelle bigia, le mani convulsivamente strette attorno alle funi, pareva inebetito dallo spavento. Cercò di rispondere alla domanda del padrone; ma il solo rumore che gli uscì dalle labbra contratte fu uno stridìo di denti. "Orsù, poltrone," disse l'ingegnere. "Hai paura di precipitare nell'oceano? Bel compagno che ho scelto." "Ho ... ho ... paura massa (padrone).." balbettò il negro con voce rotta. L'irlandese proruppe in una fragorosa risata. "Siete comico, mastro Simone," disse. "Non sareste stato voi di certo a tenere allegra compagnia al vostro padrone. Con vostro permesso, Mister Kelly, metto le zampe io sulla vostra cantina." L'irlandese che conservava il suo inalterabile buon umore, stappò una bottiglia e riempì tre bicchieri. "Hurrah per il Washington" gridò. Stava per accostare il bicchiere alle labbra, dopo aver toccato quello dell'ingegnere, quando un'acuta detonazione risuonò sotto l'aerostato. "Per San Patrick!" urlò, "cosa scoppia?" "Una granata," rispose Kelly, con voce tranquilla. "Pare che agli inglesi prema assai di catturarvi. Bah! sarà polvere sprecata!"

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682225
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Il grande stendardo di Spagna non si abbassa per ora dinanzi agli sguardi del figlio del Corsaro Rosso, o meglio, del conte di Ventimiglia ... Signori, siete liberi! A me però il segretario del marchese di Montelimar! Il vecchio capitano del galeone, che non aveva ancora lasciato cadere la spada, fece atto di gettarla a terra, ma il conte con un rapido gesto lo fermò dicendogli: - Conservatela per altre battaglie piú fortunate, signore: io non sono, come tanti filibustieri, un nemico giurato della vostra razza. A me basta compiere la mia missione e niente piú. - Quale? - È un segreto che non posso confidare a voi. Signor Barquisimeto, volete seguirmi o no? Dalla vostra risposta dipende la salvezza del galeone. Il segretario del marchese di Montelimar ebbe una breve esitazione, poi disse: - Piuttosto che la bandiera della mia patria scenda dall'albero, eccomi, signor conte. Affido però la mia vita alla vostra lealtà. Il signor di Ventimiglia non rispose. Il segretario fece alcuni passi innanzi. - Eccomi, signor conte, - disse. - A bordo, amici - rispose il corsaro. I filibustieri e i bucanieri lasciarono la barricata e si ritrassero lentamente a bordo della fregata, ma tenendo sempre, per precauzione, gli archibugi puntati contro gli spagnuoli. Il segretario del marchese di Montelimar, quantunque pallidissimo, li aveva seguiti. Quando il figlio del Corsaro Rosso lo vide attraversare il bompresso e mettere i piedi sul castello di prora della Folgore, gridò con voce tonante: - Ritirate i grappini d'arrembaggio e contrabbracciate le vele! La manovra fu eseguita in un momento dai corsari di servizio sulla tolda, mentre i cannonieri, temendo una sorpresa, si precipitavano nelle batterie. Il conte, ritto sulla prora altissima della fregata, si levò nuovamente il cappello e, dopo aver alzato la spada, l'abbassò gridando ai suoi corsari: - Salutate i colori della vecchia Spagna! È il nipote del Corsaro Nero e del Corsaro Verde che ve l'ordina! Salutate i valorosi! Mentre la fregata indietreggiava lentamente, essendo ormai stati tolti i grappini di arrembaggio, i bucanieri fecero una scarica di archibugi, sparando in alto, con non poco stupore degli spagnuoli, i quali erano rimasti raccolti sul castello di prora del galeone. Gli hidalghi, da veri cavalieri andalusi, non furono da meno dei filibustieri, di quei terribili uomini che avevano giurato la distruzione completa di tutte le colonie spagnuole, colla scusa di vendicare gl'indiani, e non a torto, dei tanti delitti efferati commessi dai primi conquistadores, e spararono anch'essi in alto, gridando: - Buon viaggio al figlio del Corsaro Rosso! La fregata, ormai libera, veleggiava lungo la poppa del galeone. Le due bandiere, quella del conte di Ventimiglia e il grande stendardo di Spagna, scesero per tre volte fino sul cassero e per altrettante si alzarono, poi le due navi si separarono. La fregata aveva ripresa la sua rotta verso ponente, mentre il galeone, che era uscito dalla lotta assai maltrattato, metteva la prora verso la costa di San Domingo per cercare un rifugio in qualche porto. - Centomila fulmini del mar di Biscaglia! - esclamò il guascone, quando le due navi furono lontane un tre o quattrocento metri. - Questi si chiamano combattimenti! ... e con tanta fatica, sí e no ho guadagnato il doblone che quel basco fortunato ancora mi deve. Se io fossi stato al posto del signor di Ventimiglia, non avrei lasciata nemmeno una piastra a quel galeone del malanno. Venti morti per avere un misero segretario! ... Quello non valeva nemmeno una carica per la pipa! Si era voltato verso Mendoza il quale, non meno avaro di lui, stava contando i dobloni che il conte, da uomo di parola, gli aveva subito versati, mentre il luogotenente faceva distribuire all'equipaggio le mille e cinquecento piastre che avrebbe potuto ricavare dal saccheggio del galeone. - Ohé, compare, - gli disse. - Siete stato pagato, mi pare. - Il conte è un galantuomo, - rispose Mendoza. - Una vera parola d'oro. Parla e cola oro! - Non ho mai avuto bisogno di occhiali io! ... Un guascone colle lenti sarebbe ridicolo. - E cosí? - Dimenticate, compare, quel doblone che abbiamo scommesso nella cantina della marchesa di Montelimar. Era Alicante o Xeres? - Xeres. - I baschi sarebbero meno gentiluomini dei guasconi? Vivaddio! Era Alicante! ... Di vini spagnuoli io me ne intendo. - I baschi sono galantuomini, - rispose gravemente Mendoza, ridendo. - Riconosco il mio torto, ma pel momento voi, don Barrejo, non avrete quel doblone, perché avendolo scommesso in una cantina dovremo berlo in un'altra cantina. Vi pare? Fuori del mar di Biscaglia! - Non ho mai trovato un compare cosí furbo! - gridò don Barrejo. - Credevo che i guasconi fossero i piú furbi dell'orbe terracqueo ed ora m'accorgo che i baschi sono ... - Che cosa? - chiese Mendoza, ridendo. - Fiori di canaglie! - Volete provocarmi, don Barrejo? Lo sappiamo già che i guasconi sono spadaccini e anche attaccabrighe. - E i baschi? - Testardi. - Una parola molto sonora e che non dice nulla, - disse il guascone. - Perdinci! ... Vuol dire che quando un basco ha detto una cosa, vivo o morto, sarà sempre quella. - Ah! ... Ho capito! ... Come quella di bere il doblone. - Ecco i guasconi che ridiventano furbi. - Che il diavolo vi porti all'inferno, - disse l'avventuriero, ridendo. - Me l'avete ben giuocato quel doblone. - State sicuro: andremo a berlo in qualche cantina dell'America centrale. Mentre i due compari discutevano sul doblone e la fregata riprendeva la sua corsa verso ponente, riparando alla meglio i danni subiti durante quell'accanito combattimento, il signor di Ventimiglia aveva pregato cortesemente il segretario del marchese di Montelimar di seguirlo nel salotto del quadro. - Sedetevi, cavaliere, - disse il conte, quand'ebbe chiusa la porta, indicandogli una sedia. - Abbiamo molto da discorrere fra noi. - Ciò mi stupisce molto, - rispose il segretario del marchese, il quale appariva assai pallido e molto inquieto. - È la prima volta che io vi vedo, signore. - Ne sono convinto, perché solamente da qualche mese mi trovo nelle acque del Golfo del Messico. - Per quale motivo? - Per cercare voi, prima di tutto, - rispose il conte, sedendosi di fronte al segretario. - Sono dunque un uomo cosí prezioso? - L'avete veduto or ora. Per avervi nelle mie mani, ho messo in pericolo la mia fregata e anche la vita mia e quella del mio valoroso equipaggio. Sapete già chi sono? - Il figlio del Corsaro Rosso. - Avete conosciuto mio padre? Il segretario del marchese di Montelimar diventò livido, ma non rispose. - Cavaliere, - disse il conte con voce un po' aspra - non dimenticate che siete completamente in mia balia e che, se anche sono un gentiluomo, ho nelle vene il sangue dei formidabili corsari che devastarono le colonie spagnuole del grande Golfo. Rispondete alle mie domande. - Ebbene, sí, l'ho conosciuto - rispose il segretario del marchese. - Dove? - A Maracaibo. - Quando? - Il giorno antecedente al suo supplizio. Questa volta fu il conte che divenne pallidissimo, mentre un lampo d'ira illuminava i suoi occhi. - Sapevano d'impiccare un gentiluomo? - chiese con voce sorda, stringendo i denti. - Io credo di sí. - Chi pronunciò la sentenza di morte contro mio padre e contro tutti i suoi marinai sfuggiti al naufragio? - Non lo so. - È inutile che cerchiate d'ingannarmi! - disse il signor di Ventimiglia balzando in piedi. - È stato il marchese di Montelimar, vostro signore. - Perché chiedermelo allora? - disse il cavaliere. - Volevo essere sicuro della cosa. Il conte girò due o tre volte intorno alla tavola che occupava il centro del salotto; poi, fermandosi bruscamente dinanzi al segretario, il quale lo guardava con terrore, gli disse: - Mio padre ed i miei due zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero, erano venuti in America per vendicare la morte del loro fratello maggiore ucciso a tradimento dal duca Wan Guld e non già per corseggiare, come fanno tutti gli altri filibustieri della Tortue. I Ventimiglia hanno ancora nel Piemonte terre e castelli, quanti forse non ne possiedono i vostri grandi di Spagna o i vostri conquistadores arricchitisi con le spoglie dei disgraziati cacichi del Messico o del Perú. - L'avevamo saputo dal nostro ambasciatore, accreditato presso la corte dei duchi di Savoia - rispose il segretario del marchese di Montelimar. Il conte fece un gesto con la destra, come per allontanare qualche lontano ricordo, poi riprese: - Torniamo al nostro discorso, cavaliere. Mio padre, prima di partire per l'America insieme con i suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il Corsaro Verde, aveva sposato una principessa del Brabante che morí dandomi alla luce. Io non so in quale epoca egli sposò qui la figlia del grande cacico Hara, re del Darien, dalla quale ebbe una figlia. Ne avete udito parlare? - Sí, vagamente. - Quando la nave di mio padre naufragò sulle coste di Maracaibo, quella bambina si trovava fra i superstiti, non è vero? - Chi ve lo disse? - Un giorno, frugando fra le carte di mio padre, appresi che io avevo una sorellina in America. Morgan, che è oggi il governatore di Giamaica e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, mi ha confermato, or non è molto, che la notizia era vera. Che cosa ne ha fatto il marchese di Montelimar di quella fanciulla? Parlate, cavaliere! Perché se un'infamia fosse stata commessa, guai al vostro signore! Un Ventimiglia non perdona! Il figlio del Corsaro Rosso, cosí parlando, era diventato terribile. I suoi lineamenti si erano alterati, assumendo una espressione selvaggia ed i suoi occhi mandavano lampi sinistri. - Mi avete capito, cavaliere? - gridò, battendo fortemente il pugno sul tavolino. - Che cosa ne avete fatto di mia sorella? Io sono venuto appositamente in America per cercarla, risoluto a mettere sottosopra il gran Golfo, pur di trovarla! Ho nelle mie vene, ve lo ripeto, il sangue di gente di guerra e di corsari e farò vedere ai vostri compatriotti, al balenar delle mie artiglierie, lo stemma dei Ventimiglia. - Calmatevi, signor conte - disse il segretario. - È morta o viva mia sorella? - È viva. - Me lo giurate? - Sul mio onore! - Con questa affermazione voi avete salvata la vita al vostro signore. - Volevate ucciderlo? - Sí, con un buon colpo di spada - rispose il conte. - Dove si trova mia sorella? - Non ve lo saprei dire, signor conte sul mio onore. - Che sia un onore dubbio? - chiese il signor di Ventimiglia, facendo un gesto di minaccia. - Dovrò andare dal vostro signore a chiedere notizie di mia sorella? Ditemelo. Il cavaliere impallidí, poi divenne rosso. - Signor conte, - disse, con voce fremente, - quando un hidalgo spagnuolo giura sul suo onore, non vi è gentiluomo di Europa che possa stargli di fronte, perché innanzi a tutto noi siamo cavalieri, ci abbia creato Filippo secondo o Carlo quinto. Se dubitate, io sono pronto ad incrociare la mia spada contro di voi. I gentiluomini della vecchia Castiglia muoiono, ma non si arrendono! ... Mi avete capito, signor conte? Il signor di Ventimiglia lo aveva guardato con viva sorpresa. Per qualche istante strinse l'impugnatura della sua spada, poi disse: - No, cavaliere. Ho avuto torto a offendervi e da buon gentiluomo vi faccio le mie scuse. Voi dunque non sapete dove si trova mia sorella? - Io ho udito dire una sera dal marchese di Montelimar che l'aveva affidata ad un mayoral della costa del Pacifico. A Panama o dove? Questo non lo so; ve lo affermo solennemente, signor di Ventimiglia. - Ad un mayoral? Che cos'è? Io non conosco perfettamente la vostra lingua. - Ad una specie d'intendente - rispose il cavaliere. - Che voi non conoscete? - No. - Sicché sarà necessario che io vada a scovare il vostro signore. - Se riuscirete a sapere dove si trova. - Lo so di già - rispose il conte. - È impossibile! - Allora vi dirò che il vostro signore si trova ora a Pueblo-Viejo. Il segretario del marchese ebbe uno scatto e fece un gesto d'ira. - Chi ve lo ha detto? - chiese con i denti stretti. - La marchesa Carmen di Montelimar, non è vero? Oh! ... lo so che ha sempre odiato suo cognato, come so pure che ha favorito la vostra fuga da San Domingo. - V'ingannate, signore! - rispose il conte. - Lo avevo saputo prima da mio cugino Morgan. - L'uomo nefasto che ci ha rovinato Panama e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. - Precisamente, signor Barquimiseto. Il segretario del marchese di Montelimar si morse le labbra a sangue. - E voi andate a trovare il mio signore? - chiese. - Vi ho detto che sono venuto in America per cercare prima di tutto mia sorella! - E poi? - Ah! ... Il resto non vi riguarda, signore. - Ma s'indovina: voi siete venuto qui per vendicare vostro padre. - Io non ho ancora detto questo. Voi dunque non sapete dove si trova la nipote del grande cacico del Darien? - No, ve l'ho già detto, È stata affidata ad un mayoral e non ne so di piú. - Me lo dirà il marchese - disse il conte, alzandosi impetuosamente. - Vi avverto intanto che voi rimarrete mio prigioniero fino a che la mia missione non sarà finita; e due uomini vigileranno, giorno e notte, su di voi. Non contate quindi su di un possibile tentativo di fuga, poiché i miei filibustieri sono d'una fedeltà a tutta prova e non esiterebbero un solo istante ad uccidervi. D'altronde io farò quanto posso per rendervi meno pesante la prigionia, perché pranzerete alla mia tavola e sarete trattato c on tutti i riguardi ai quali ha diritto un cavaliere spagnuolo. Addio, signore; potete andare a riposarvi nella cabina che sta di fronte a noi: siete mio ospite. Ciò detto il conte uscí dal salotto e salí in coperta dove l'attendevano con viva impazienza il suo luogotenente, Mendoza e il terribile guascone. - Dunque? - chiese il signor Verra. - Ho finalmente la certezza che mia sorella è viva - rispose il signor di Ventimiglia. - Voi non potete immaginare quale desiderio abbia io di vedere quella fanciulla color cioccolata o rame finissimo. Farà furore alla corte dei duchi di Savoja, i quali già non ignorano la storia dei tre formidabili corsari. Poi, volgendosi verso Mendoza, gli domandò: - Tu che sei uno dei piú vecchi filibustieri e che hai combattuto con mio padre e con i miei zii, credi che io possa da solo condurre a fine una tale impresa? - No, signor conte - rispose il marinaio, tirandosi la barba. Non si ripete due volte la fortuna di Morgan, e gli spagnuoli sono formidabili nell'America centrale. Chi rifiuterà però un aiuto al figlio del Corsaro Rosso, al nipote dei corsari Verde e Nero? Forse che i piú famosi filibustieri non operano di là dell'istmo? David, Pusley e Grogner sono là! Andiamo a trovarli, e nessuno di loro si rifiuterà di mettere le sue navi, i suoi uomini, le sue spade e i suoi pezzi a disposizione d'un conte di Ventimiglia. - Potremo noi trovarli? - Io so di positivo che, dopo la loro disastrosa crociera verso lo stretto di Magellano, hanno conquistato l'isola di San Giovanni e che là meditano chi sa quali formidabili imprese ai danni della Spagna! - San Giovanni, hai detto? - Sí, una piccola terra che dista appena cinque leghe dal continente. Andiamo a trovare quei leoni, signor conte, e faremo cadere il marchese di Montelimar e anche un'altra volta Panama. Il filibustiere non ha mai avuto paura e lo troverete sempre pronto a qualsiasi cimento. - Sono i moderni guasconi. - disse don Barrejo. - Che gente meravigliosa! ... Il conte stette un momento immerso nei suoi pensieri, poi disse: - Credo anch'io che non si possa fare diversamente. L'aiuto di quei terribili filibustieri mi è necessario per lottare col marchese di Montelimar. Ma sei proprio certo, Mendoza, che si trovino sulle coste del Pacifico? Morgan mi aveva detto che erano partiti verso il sud, per aggirare la Terra del Fuoco e tornare nel Golfo da quella parte. - È vero, signor conte; ma la loro impresa è fallita e sono tornati verso il settentrione ancora in buon numero. Si dice che abbiano con loro non meno di ottocento uomini e che si propongono di mettere a sacco tutta l'America centrale. - Eh, con una simile forza non mi stupirei! So quanto valgono quegli uomini. E dove lasceremo noi la fregata? - La rimanderemo alla Tortue, signore - disse il luogotenente. Voi sapete bene che mai gli spagnuoli oserebbero assalire la rocca dei filibustieri. Volete affidare a me l'incarico? Lasciatemi una trentina di uomini ed io m'impegno di sfuggire alle crociere dei galeoni e delle caravelle spagnuole. - E poi, non avete vostro cugino? - chiese Mendoza. - La Giamaica ha porti sicuri, ed il signor Morgan è un uomo da difendere la vostra fregata contro tutti gli attacchi. - E sarà meglio! - disse il signor di Ventimiglia. - Signor Verra, date la rotta ai vostri piloti e andiamo a scovare, prima di tutto, il marchese di Montelimar a Pueblo-Viejo. Se non mi dirà dove si trova mia sorella, guai a lui! ... Sarò implacabile come mio zio, il Corsaro Nero!

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Ho notato che il barometro si abbassa rapidamente e che lo "storm-glass" si decompone assai. Vorrei già essere lontano dai pericolosi paraggi dello stretto. - Bah! Il "Danebrog" è un eccellente veliero che se ne infischia degli uragani, capitano. - Non dico di no. Spero che se la caverà bene anche questa volta. - Verso le 10 di sera, la massa delle nubi diventò più densa e il mare cominciò ad alzarsi. Numerose procellarie correvano sopra le spumeggianti creste dei flutti, gettando rauche strida. Si sarebbe detto che quei funesti uccelli invocassero la tempesta che stava per scoppiare. Il capitano, temendo che l'uragano si scatenasse da un momento all'altro, rimase in coperta fino ad ora tardissima, ma vedendo che il vento, quantunque soffiasse irregolarmente, non mutava direzione si ritirò nella sua cabina dopo aver fatto chiudere i pappafichi e i contra e terzarolare le vele basse. La notte infatti passò abbastanza tranquillamente. Non vi furono raffiche violente nè cavalloni molto alti. Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a , fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma. Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati. Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto l'equipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi. Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne d'acqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie. Il "Danebrog", guidato dall'abile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente. Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il "Danebrog" si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo l'aria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nell'acqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità. Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. C'erano certi momenti che tanta era la massa dell'acqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco. Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra. Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento all'altro poteva sfasciarsi. I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati d'acqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru. Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il "Danebrog" che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento. Il capitano Weimar mandò due uomini sulla gran gabbia, affinchè fossero pronti a segnalare le isole Diomede che sorgono in mezzo allo stretto, e contro le quali poteva venire spinto il "Danebrog". Alle 10 una raffica furiosa si rovesciò sulla nave, la quale, presa di traverso, fu violentemente rovesciata su di un fianco. Un immenso grido di spavento echeggiò sulla coperta mescendosi a urli della tempesta. Tutti i marinai credettero che non si risollevasse mai più. Fortunatamente Koninson, che si trovava presso i bracci della vela di maestra con pochi colpi di scure tagliò le manovre. Ciò bastò perchè la nave riprendesse il suo equilibrio prima che le onde si precipitassero sulla tolda. Quasi subito successe una breve calma. Le nubi, violentemente squarciate da quel furioso colpo di vento, mostrarono per alcuni istanti il sole, che in quelle latitudini elevate, nella stagione estiva, si può dire che non tramonta mai. L'effetto prodotto da quella luce dorata sullo sconvolto mare fu stupendo, ma durò pochi istanti. Le nubi richiusero quello strappo, la semi-oscurità tornò a stendersi sui flutti e il vento ricominciò a ruggire con maggior forza, spingendo innanzi a sè la nave, alla quale non restavano più che la vela di trinchetto e la randa dell'albero di mezzana. Ad un tratto si udirono i gabbieri gridare: - Terra a prua! ... Il capitano affidò il timone a mastro Widdeak e si slanciò, nonostante i violenti rollii, a prua dove l'aveva già preceduto il tenente. Ad una distanza di quattro miglia il mare si sollevava a prodigiosa altezza intorno al gruppo delle Diomede formato dall'isola Ratmanoff che è la più grande, dalla Krusenstern che è la mezzana e da Ferway che è un arido scoglio. - Bisogna tenersi al largo assai, capitano! - disse il tenente - Mi metterò io al timone! - rispose Weimar. - Fate preparare alcune vele di ricambio. - Temete che scappino quelle spiegate? - Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo. Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele. Il "Danebrog" era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell'Asia e il capo di Galles dell'America e profondo assai. Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l'una dall'altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi. A mezzanotte il "Danebrog" giungeva dinanzi all'isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini. D'improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì. - Una vela! Una vela o siamo perduti! - gridò. Infatti il "Danebrog", senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l'isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza. Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell'operazione quasi impossibile. Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l'abbattè e con essa gli uomini. Allora un grande spavento si impadronì del l'equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere. Il "Danebrog", semi-rovesciato su un fianco, coperto d'acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla. Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta. Quando si risollevarono il "Danebrog" non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall'isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non ne facciamo tanto una causa di umanità di principio morale quanto ne facciamo una causa di forma: lo stesso atto ci solleva alla gloria o alla fama, o ci abbassa fino al delitto più turpe ed alle punizioni più atroci; può essere eroismo o assassinio, così nella guerra e nelle contese private; può essere coraggio ed onore, così nel duello. Rosen, lungo la via, ritornava colla mente su questi pensieri, e meditava con dolore su quella triste avventura di Dover. - Che ne pensate? diss'egli rivolgendosi a Lamperth che dormicchiava rannicchiato in un angolo della vettura. - Di che cosa? - Del mio duello di ieri. - Male, male; se avete intenzione di farvi uccidere, non dovete però uccidere gli altri; vi sono mille maniere di morire; vi confesso che fui dolorosamente impressionato da questo fatto. - Avete ragione, soggiunse Rosen con aspetto mortificato, non mi cimenterò più in duello, vi è qualche cosa d'istintivo che ci spinge nostro malgrado a difenderci; ma, giacché la natura ci ha dato una sola via al nascere - come a cosa triste - e ce ne ha aperte mille al morire - come a cosa molto più dolce - io approfitterò in altro modo di questa prodigalità della natura. Dite. Credete voi che non mi sarà difficile il morire? Lo sperate? - Speriamolo, sì, disse Lamperth; se il voto di una persona che vi ama può avere qualche influenza sul vostro destino, vi giuro che io faccio voti al cielo perché il vostro desiderio venga esaudito. - Vi ringrazio, rispose Rosen scuotendo la mano che il suo amico gli aveva sporto senza voltarsi, come a meglio rassicurarlo della sincerità del suo voto, vi ringrazio dal più profondo dell'anima: e pronunciò queste parole quasi commosso, e colla più schietta effusione di cuore. In quella sera stessa Rosen e Lamperth giunsero ad Amiens. Alla porta del paese Rosen, essendosi arrestato per contemplare lo spettacolo della città, come è costume d'ogni buon inglese, vide affisso alla parete un ampio cartellone decorato da alcune figure d'animali in inchiostro rosso, e vi lesse queste parole: «Grande serraglio di belve viventi del signor Gustavo Lachard. Due tigri, quattro pantere, una grande varietà di scimmie, un elefante, e due leoni africani. Alle ore otto vi sarà il pasto delle fiere. Mezz'ora prima il rinomato domatore Gustavo Lachard entrerà nella gabbia dei leoni.» Rosen guardò l'orologio, erano le sette ore passate; mancavano pochi minuti alla rappresentazione. Egli si rivolse a Lamperth, e gli disse, indicandogli quel manifesto: - Volete che andiamo a visitare questo serraglio? può essere che vi abbia a trovare qualche avventura favorevole a' miei disegni. - Andiamo, disse Lamperth, e giunsero in breve al recinto. Dopo che il signor Lachard uscì dalle gabbie dei leoni, e la folla si ritirò a poco a poco e si disperse, Rosen disse al suo compagno stringendogli la mano: - Credo, mio caro Lamperth, di aver trovato un modo infallibile per farmi uccidere; permettete che non vi dica altro; andate all'albergo del Ciclope dove fra un paio d'ore o mi rivedrete vivo, o avrete la notizia della mia morte. Vi raccomando la lettera per mia moglie. - Non temete della mia puntualità - e si portò la mano sul cuore - mi dispiace di perdervi sì presto, ma se ciò è inevitabile... Vi auguro buona fortuna. - Rosen, lasciato solo, chiese di parlare col signore Lachard, e trattolo in un angolo del recinto gli disse: - Io sono un barone inglese appassionatissimo del lottare e bramo cimentarmi con qualche lottatore evidentemente più forte di me. Desidero di combattere con uno dei vostri leoni, ma è necessario che ciò rimanga un segreto tra noi; occorre che voi mi lasciate solo in questo serraglio, e che si creda, per vostra e mia giustificazione, che io vi sia entrato senza il vostro consenso, e avendo aperta io stesso la gabbia, come farò, sia stato assalito dalla vostra bestia. Quanto è il prezzo di questo animale? io ve lo pagherò due volte. - Non meno di cinque mila franchi, disse il domatore; parlo di Behemet, il più alto e il più forte: l'ho comprato io stesso a Bourck, sul limite occidentale del deserto; non ha ancora due anni compiuti e non gli manca un pelo. Ma, intendiamoci, io non debbo saper nulla di ciò; io mi ritirerò dal serraglio come faccio tutte le sere, e voi sarete un imprudente che vi sarà entrato senza mia licenza, ecco tutto; se poi voi ucciderete il leone, la cosa rimarrà tra noi, e non avrà altra conseguenza. Rosen gli sborsò dieci mila franchi; e siccome la sera era già molto inoltrata, il domatore licenziò il suo guardiano, e lasciò Rosen nel recinto di cui socchiuse appena la porta, dopo avergli detto: - Vi auguro che abbiate ad uscirne gloriosamente, ma temo che Behemet vi saprà spianar le costure. Rimasto solo Rosen comprese di esser posseduto da un panico indefinibile, e vi fu un istante in cui si sentì tentato di rinunciare a quella specie di morte, e di raggiungere Lamperth all'albergo del Ciclope, per combinare con lui su qualche mezzo di distruzione meno inumano. Ma era troppo tardi. E d'altra parte, giacché era d'uopo morire, conveniva accettare quel mezzo che era più pronto, più sicuro e che non avrebbe lasciato concepire alcun sospetto d'inganno sulla sua fine. Chi sa! Forse il morire tra le zanne d'un leone poteva essere più dolce, più rapido che il morire di ferita o di veleno, o per altra causa qualunque - certo era più verosimile e più ardito. Animato da questo ragionamento, Rosen si avvicinò alla gabbia, e sollevò le tre aste di ferro che né formavano l'uscio. Paralizzato dal timore, colle mani appoggiate sull'orlo dello steccato, in atteggiamento di vittima rassegnata aspettava che Behemet uscisse. Il leone dopo essersi allungato due volte e aver sbadigliato lungamente inarcando la lingua come una bestia che sa di potersi pigliare i suoi comodi, si affacciò allo sportello, guardò con aria d'indifferenza il barone di Rosen cui era venuto, suo malgrado, la pelle di cappone; e discendendo nello spazio riservato agli spettatori, incominciò a passeggiarvi per lungo e per largo, agitando la coda, e mandando un certo suo ruggito prolungato e sommesso in suono di soddisfazione e di gioia. Quando Rosen si avvide che Behemet non si curava di lui, avendo ripreso animo in quel breve intervallo di tempo, discese ed affrontò arditamente il leone, cui percosse d'un colpo di frustino. A quella provocazione, Behemet, come una bestia ubbidiente, si ritirò precipitosamente nella sua gabbia, Rosen lo inseguì, ed essendosi munito d'un asta appuntata di ferro, lo stimolava con quella ad uscirne. Il leone, rannicchiatosi nel fondo del suo covacciolo, ruggiva e spalancava le fauci orribilmente senza avventarsi; Rosen era al colmo dell'impazienza e dell'ira. Dimenticando che egli parlava con un leone - Uscite, gli gridava, uscite da cotesta gabbia, miserabile. Ma tutto era indarno, Behemet, non intendeva questo linguaggio provocatore, e rimaneva quieto come olio. Disperando di potersi misurare con lui, Rosen decise di entrare nella gabbia delle pantere, ma si avvide che Lachard, toltone quel solo, aveva assicurati tutti gli sportelli con due buoni giri di chiave. - Ah! Lachard assassino, esclamava Rosen acciecato dalla bile, egli sapeva che questo era un coniglio, e mi ha arraffato dieci mila franchi senza lasciarmi il compenso d'una scalfittura, ma rivedremo le nostre partite domani. E gettando uno sguardo pieno di disprezzo nella gabbia di Behemet, uscì dal serraglio, e corse difilato all'albergo del Ciclope. * * * Lamperth che stava rivedendo alcune sue carte presso una tavola su cui si scorgevano gli avanzi della sua cena, si mostrò molto meravigliato del ritorno di Rosen, il quale era si acciecato dallo sdegno che a stento potè fargli il racconto di questa sua nuova sventura. - Che domando io? Che voglio? Che spero? Morire, ecco tutto; la cosa più semplice, più facile, più naturale del mondo, diceva Rosen nel conchiudere il suo racconto, e tuttavia eccomi condannato da una desolante fatalità a sopravvivere a tutti i miei sforzi, a tutti i pericoli cui mi espongo per impedirlo. Ahi vi giuro che io affronterei in questo momento qualunque rischio, approfitterei di qualunque circostanza per uscire di questo stato. - Calmatevi, gli rispondeva Lamperth, non ve ne mancheranno mai le occasioni, bisogna aver fede: intanto ordinate la vostra cena, lo stomaco ha le sue esigenze, e credo che voi dobbiate avere appetito. - È vero, disse Rosen, cenerò; l'uomo è il servitore d'uno stomaco, anzi l'uomo è uno stomaco, la credo la definizione meno inesatta fra le tante che si son fatte di questo animale. E ordinò una costoletta di castrato colle patate. Non aveva Rosen addentato la sua costoletta, che un nuovo arrivato entrò nella sala, e venne a sedersi di faccia a lui, dal lato opposto del tavolo. Rosen era tutt'occhi nell'osservare i movimenti di quel suo commensale, e si augurava che la punta d'uno de' suoi stivali venisse a colpire uno de' suoi stinchi per aver ragione di bisticciarsi, quando l'altro cacciando il naso nel suo piatto e indicandolo col dito al cameriere gli disse: - portami una vivanda come quella... è una costoletta di castrato in salsa dolce. - Voi mentite per la gola, o signore, disse Rosen sollevandosi un poco dalla sedia, questa costoletta è in salsa piccante. - Per il cielo, esclamò l'altro un po' turbato da quella sorpresa, voi ci tenete molto al sapore della vostra costoletta e ne fate una questione di onore; del resto non c'è che dire, vi siete servito di una espressione felicissima; trattandosi di sapori, io ho precisamente mentito per la gola. Voi siete inglese? - Di Londra. - E contate di attraversare la Francia? - Precisamente. - Dubito se arriverete al termine del vostro viaggio senza trovare qualcuno che ... - Che cosa? - Che v'abbia a rivedere il pelo. Siete mai stato in Guascogna? - Oh! che voi siete Guascone? - Per l'appunto. - È una provincia che in fatto di millanterie ha delle tradizioni grandiose; spero che saprete farmi conoscere tutta la estensione del pericolo che io avrei corso se vi avessi insultato nel vostro paese. - Voi siete un pazzo o un imbecille, disse l'altro che era tutto sangue di guascone, illividendo fin sulla punta del naso; venite qui dietro le mura, e ci taglieremo due dita di fegato. - Sono a vostra disposizione, rispose Rosen. E si accommiatò da Lamperth che gli diceva all'orecchio: - abbiate giudizio, contenetevi da uomo onesto, lasciatevi ammazzare, pensate a vostra moglie, pensate che quell'uomo fu provocato da voi e che la fortuna non vi regalerà tutti i giorni di queste magnifiche occasioni. - Non dubitate, disse Rosen, spero che mi vedrete tornare in lettiga. Rosen e lo sconosciuto giunsero in breve tempo dietro lo spaldo; alcuni avventori dell'albergo che avevano inteso quel battibecco li seguivano da lontano, e un amico del guascone portava le due sciabole sfoderate sotto il mantello. - Avete i vostri padrini? chiese lo sconosciuto all'inglese. - Non ne ho alcuno. - Non importa, questi signori serviranno come testimonii ad entrambi. Già, non escluderemo i colpi di testa e di punta, e ci batteremo fino a che uno di noi non sia rimasto sul terreno. - Siamo intesi, era la mia intenzione. - Allora possiamo incominciare. - Incominciamo. E il Guascone, senza attender altro, si assicurò bene nel pugno la sua sciabola, e si scagliò furiosamente sul suo avversario. Rosen lo attendeva di piè fermo. La notte era sì buia che l'uno poteva distinguere a stento la direzione dei colpi dell'altro: gli spettatori vedevano nulla o pressoché nulla; distinguevano due masse nere agitarsi, avventarsi; vedevano di quando in quando il lampeggiare delle lame su cui si rifletteva un debole filo di luce che proveniva dal fanale dello spaldo, e sentivano il cozzo frequente delle sciabole senza poter giudicare quale dei due avversarii avesse maggiore perizia nelle armi, e desse indizio di uscirne vincitore. Ma ad un tratto uno di essi si arresta, vacilla, cade: gli spettatori si gettano sopra di lui... era il guascone. Che cosa era avvenuto? Il francese era un pessimo schermitore, Rosen non aveva ancora trovato il tempo di scoprirsi opportunamente, quando avendogli fatta una finta di destra, l'altro vi rispondeva con una parata di sinistra, e, investendo la sua sciabola, si feriva gravemente al collo, senza che il suo avversario avesse alcuna intenzione di farlo. Rosen era rimasto pietrificato dal dolore e dalla meraviglia. Vi era senza dubbio una strana fatalità che pesava sopra di lui, che rendeva vani e funesti tutti i suoi tentativi di morire. Mentre egli stava così appoggiato colle mani riunite sull'elsa della sciabola, intese uno degli spettatori chiedere: Chi è costui che lo ha ferito? E un altro rispondergli: È un inglese. - Bene. Bisogna chiedergli ragione di questo fatto: non si può dirlo un duello questo; non v'erano padrini, non v'era nulla di regolare; è stato un omicidio bello e buono. Guardate, il morto è un francese, è un guascone, e si sono battuti per una costoletta; c'è qui il suo collega Pirolet a confermarlo; non bisogna permettere che questo marrano d'inglese se ne vada via liscio liscio: facciamo le cose per bene, conduciamolo al Commissario di polizia. Rosen che all'intendere da principio quelle parole, aveva sentito discendergli nel cuore un debole raggio di speranza, rabbrividì tutto quando udì discorrere del Commissario di polizia; e conobbe che era necessario l'andarsene quatto quatto, se era ancora possibile, e partire in quella notte stessa da Amiens. Ma egli non aveva fatto ancora questa risoluzione che si vide circondato da tutta quella folla, e udì uno di essi che gli s'era avvicinato più degli altri, imporgli di consegnargli la sciabola, e di seguirlo all'ufficio del dipartimento. Rosen prese allora una grande determinazione. Avendo osservato che alcuni fra loro erano armati di stocco, e che uno di essi teneva tra mano la spada del suo avversario, immaginò che gli sarebbe riuscito agevole il farsi uccidere da tutta quella gente, gettandovisi in mezzo come uomo perduto, e menando botte alla cieca per costringerli a restituirle. Detto fatto - non è che un punto - Rosen impugna la sua sciabola a due mani, e piomba in mezzo a quei malarrivati picchiando a destra e a sinistra, ove gli capita meglio, e gridando con quanto ha di fiato - paltonieri, miserabili, anime di conigli, difendetevi, arrestatemi se ne avete il coraggio. Ma egli conseguisce così uno scopo affatto opposto: tutti quegli uomini spaventati da tanto ardimento si danno alla fuga, e Rosen non ha che il dispiacere di vederne quattro cadere feriti al suo fianco, e la certezza che questo avvenimento va a creargli una terribile responsabilità in faccia alla sua coscienza, e ciò che a lui più importa, una responsabilità non meno fatale in faccia all'autorità governativa. Rosen si decide su due piedi: nessuno lo conosce ad Amiens; non ha detto il suo nome a nessuno; appena ne hanno intravista la figura alla luce del fanale; egli si getta alla campagna e tenta di giungere nella notte a Montdidier, servendosi di qualche cavalcatura che spera acquistare in una fattoria, lungo il viaggio. Un'ora dopo questo avvenimento Lamperth riceve da un contadino un biglietto così concepito: «Caro Lamperth, - Un destino singolare, altrettanto che inesorabile, rende infruttuosi e funesti tutti i miei disegni di morire. Io vivo a dispetto mio, ad onta di tutto e di tutti. Avrete inteso che ho ucciso quel guascone, e ferito quattro o cinque francesi che volevano tradurmi, come un malfattore, all'ufficio di polizia. Questo avvenimento mi costringe a riparare a Montdidier senza esser visto, giovandomi d'un cattivo cavallo che ho acquistato ora in una casa di coloni da cui vi scrivo. Vi aspetto dunque a Montdidier, al Caffè della Pace, dove si beve il miglior fiore di latte che si trovi in tutta la Francia.» * * * Mentre Rosen cavalcava per quelle ridenti campagne che corrono da Neufchatel, fino a Hermont e fino alla riva dell'Oise, pensava a quella sua vita spensierata di Londra, a sua moglie, a' suoi amici, alle sue ricchezze dissipate, e a quello strano capriccio della fortuna che gli aveva indicato per rimediarvi una via sì colpevole e sì singolare. La notte s'era fatta piovosa, e Rosen era triste. Mai, come in quel momento, egli aveva sentito un più vivo desiderio di morire: mai come in quel momento, la fortuna aveva sembrato allontanarlo di più dalla morte. Era cosa sì difficile il morire? Egli sentiva in sé una pienezza di vita straordinaria, un'armonia inusitate in, tutte le, funzioni della sua macchina: un ordine, uno scorrere del sangue sì calmo, sì regolare, sì dolce, che non aveva conservato memoria di aver provato mai un simile stato di benessere, anche negli anni della sua fanciullezza. Quel trotto monotono della sua cavalcatura sembrava cullarlo a guisa di un bambino; l'acqua che gli percoteva a spruzzi leggerissimi e quasi vaporosi sui capelli e sul viso, pareva accarezzarlo come una mano di donna adorata; il vento che spirava leggerissimo, pareva soffiargli sul viso come l'alito profumato d'una fanciulla; oltre a ciò gli alberi erano pieni di usignuoli che cantavano nonostante l'imperversare della pioggia; e vi era nell'aria qualche cosa di sì voluttuoso e sì molle che rendeva impossibile qualunque sentimento che non fosse stato calmo, affettuoso e gentile. Ad onta di questo stato di cose, Rosen pensava in che modo gli sarebbe riuscito domani di morire, giacché egli era intollerante d'indugii, e vagheggiava nuove venture e nuovi progetti. Ad ogni ombra che pareva disegnarsi ai lati della via, ad ogni lieve rumore di passi, il cuore di Rosen batteva più concitato e si riapriva alla speranza e alla gioia. Egli entrò ad arte nelle macchie, e attraversò il piccolo bosco di Cok-sautin trattenendo quasi il respiro tanta era la sospensione d'animo in cui si trovava, e l'impazienza di imbattersi in qualche pericolo, o di dare in una imboscata di malandrini. Ogni gruppo di piante gli pareva un assembramento di ladri, ogni cespuglio un assassino appostato sul suo sentiero, ogni ramo coperto di lichene bianco una lama di coltellaccio, o una canna di trombone. Egli pensava in che modo si sarebbe contenuto con essi. Certo i ladri non sarebbero stati meno di due o di quattro, forse anche di più - che gioia!.... e avrebbero avuto delle buone armi .... E come trattarli?... Colle buone?.. peggio! non si sarebbe fatto nulla: bisognava dir loro - assassini, furfanti, paltonieri, non mi sfuggirete; sono il Commissario generale io, domani sarete arrestati, e giuro al cielo che vi farò impiccare come tanti cani, senza darvi il tempo di fare un esame di coscienza. Rosen si era talmente investito della sua parte che inveiva ad alta voce contro questi assassini immaginarii come se li avesse avuti dinanzi, ed era già uscito dal bosco di Cok-sautin senza avvedersene. Il giorno era sull'albeggiare allorché egli incominciò a scorgere in lontananza i campanili della città, e sentì i rintocchi misurati di una campana che pareva suonare l'allarme. Aguzzando lo sguardo su quella linea bianchiccia dell'orizzonte, sul cui fondo si disegnavano a masse oscure e confuse le case di Montdidier, gli parve distinguere un'ampia colonna di fumo che si sollevava a spire nere e pesanti e si riuniva alle nubi che pendevano ancora fitte ed oscure sulla città. Rosen spronò il suo cavallo, e come fu più dappresso alle mura, distinse delle lingue di fiamme che uscivano dal tetto e dalle finestre d'una casa, e conobbe che si trattava d'un incendio. Rianimato da questa nuova speranza abbandonò le briglie sul collo della sua cavalcatura, le ficcò nel ventre gli sproni e giunse alle porte di Montdidier prima che gli abitanti di quel paese, che hanno fama di essere la gente più dormigliona, e le teste più tarde di tutta la Francia, fossero accorsi a domare in qualche modo l'incendio. Rosen arrivò dunque dei primi, e non aveva ancora avuto agio d'osservare da che parte e con quale pretesto avrebbe potuto gettarsi, nella casa incendiata, che lo colpirono queste voci: - Bisogna salvare papà Caupin, povero papà Caupin! egli deve essere inchiodato sul suo letto dall'artritide... egli morrà soffocato. Non vi è alcuno che voglia salvare papà Caupin? - Sono qua io, disse Rosen, dove è la stanza di questo malato? - O signore, che il cielo ve ne rimuneri; è la prima stanza a sinistra, al secondo piano, vi è l'uscio lì sulla scala; se non vi fosse lo trovereste nel gabinetto appresso. Rosen senza aspettar altro, sicuro che quel mezzo di morte era infallibile, entrò sorridente nel pianerottolo e si avviò risoluto su per le scale, esclamando tra sé stesso: è la provvidenza che mi ha mandato a Montdidier. Ma non aveva salito due gradini che le fiamme lo circondavano da tutte le parti, e gli toglievano il respiro; i capelli e la barba friggevano cagionandogli terribili scottature alle guancie; i suoi abiti incominciavano ad arricciarsi; e fu caso se un sentimento istintivo di umanità e la fermezza sua nel proposito di morire, valsero a spingerlo fino al secondo piano nella stanza di papà Caupin che giaceva svenuto sul pavimento. Sollevarlo, recarselo sulle spalle, ridiscendere a precipizio le scale, fu l'opera d'un istante per Rosen, che si presentò alla folla accolto da una salva di grida e di battimani; e stava per rigettarsi nell'incendio, quando si sentì afferrare l'abito da una giovine donna tutta discinta e coi capelli disciolti a onde giù per le spalle, che gli diceva lacrimando: - Deh? per carità, signore, salvate i miei due bambini, li troverete nella terza stanza a destra, al terzo piano... ma fate presto.... andate... pregherò sempre il cielo per voi! Rosen non aspettava altro, e si ricacciò nell'incendio. Fu visto ricomparire poco dopo, tenendo nelle braccia i due fanciulli che venne a consegnare alla loro madre, ma sì sfigurato dalle bruciature e dalle fatiche, che lo si poteva riconoscere a stento. Nondimeno egli non aveva smarrito ancora la ragione, né dimenticato lo scopo vero e diretto del suo disegno. Benché stordito dal dolore, affannato dall'anelito, e quasi acciecato dal fumo e dalla luce, si gettò una terza volta nelle fiamme. Gli spettatori tentarono invano di trattenerlo, gridando: - Cosa fate? È inutile... non c'è più nessuno da salvare. Povero giovine, non capisce più nulla... già... non discenderà più questa volta. Che eroismo! che cuore! Ed è dei nostri? È di Montdidier? Ma Rosen non aveva inteso o voluto intendere nulla: era suo disegno di raggiungere il piano più elevato, buttarsi sul primo pavimento che minacciasse di sfondare, e farsi travolgere con esso nelle rovine. Era giunto così al quarto piano, sotto l'arco di un uscio che poneva in comunione due stanze; le travi dei due solai crepitavano, e le fiamme ne uscivano qua e là lungo le pareti; egli scelse quello tra i due che pareva sarebbe sfondato più presto, ma vi s'era appena gettato che vide l'altro piegarsi nel mezzo, aprirsi e precipitare scompostamente con un orribil rovinio, mentre quello su cui egli stava distaccatosi soltanto dalle pareti, scendeva dolcemente tutto intero, e senza piegare, sfondando i piani sottostanti che ne ammorzavano l'urto e la rapidità col loro ostacolo. In una parola Rosen si trovò in fondo come se ve lo avessero calato con delle carrucole, e non aveva avuto tempo a meditare sulla sua situazione, che gli spettatori, vistolo dalle finestre del pian terreno, vi penetravano da tutte le parti, e lo estraevano, suo malgrado, da quelle rovine. Rosen era sì sofferente e sì addolorato che svenne. La folla piena di gratitudine e di ammirazione per lui, lo accompagnò, acclamandolo, fino ad un'altra casa del signor Caupin, dove fu portato in lettiga, e posto a letto per essere medicato delle sue ferite. Nella sera di quello stesso giorno Lamperth, giunto a Montdidier, si recò al caffè della Pace, dove Rosen gli aveva dato convegno, e dopo avervi bevuto il fiore di latte, che ha fama di essere il migliore che si beva nella Francia, tolto in mano il giornale della provincia, vi lesse con suo stupore queste parole: «Eroismo. - Un grande incendio si è sviluppato stamane nella casa del signor Caupin. Si avrebbero avuto a deplorare perdite dolorose, - quella dello stesso Caupin impedito nel camminare, e di due piccoli fanciulli - se un viaggiatore inglese arrivato in quel momento nella nostra città, non li avesse tratti a salvamento, gettandosi, senza esitare, nelle fiamme, e riportandone tali ferite che lo costringono al letto nell'altra casa dello stesso signor Caupin dove venne ricoverato. Egli è certo barone Alfredo di Rosen, nativo di Londra. Siamo lieti di annunciare che il comune di Montdidier, in seduta d'oggi, gli ha conferita ad unanimità di voti, la medaglia d'argento al valore civile.» * * * Lamperth, dopo essersi informato del luogo ove era situata la casa del signor Caupin, andò a rendere una visita a Rosen. Lo trovò profondamente abbattuto, e sì trasfigurato dalle scottature e dalla perdita delle sopraciglia, dei capelli e della barba, che durò fatica a riconoscerlo. Lamperth stesso che non aveva un cuore tenero come la giuncata, si sentì tutto rimescolare a quella vista, e stendendogli la mano con atto di pietà e d'interessamento che pareva, ed era certo, sincero, gli chiese: Come state? - Voi vedete in me, gli disse Rosen con aria di abbattimento profondo e senza rispondere direttamente alla sua domanda, voi vedete in me un uomo che è incontrastabilmente il più sventurato fra quanti abbiano patite sventure d'ogni sorta nel mondo. E ciò non di meno sento che questo dolore non ha il potere di uccidermi; e ho non so quale presagio nel cuore che mi dice che io devo vivere, vivere inesorabilmente a dispetto della mia volontà, e de' miei progetti. Ah! domandare soltanto di morire.... e non poter morire! È una cosa orribile! - Che volete? sono travagliato da un'idea fissa, da un dubbio, da un sospetto che mi atterisce. Sarei io mai dotato di una natura immortale? È un pensiero che mi fa rabbrividire, e non di meno non lo posso scacciare dalla mia mente. È un pensiero che se io fossi suscettibile di morire, basterebbe solo ad uccidermi. - Sentite, riprese Rosen dopo qualche intervallo di silenzio, se io potessi morire di veleno, dopo il fatto di ieri, dopo che si conosce a Montdidier la mia qualità di barone, credete che potrei destare sospetto di suicidio? - Non lo credo, disse Lamperth, ma dovete pensare che ne cadrebbe il sospetto sopra persone innocenti. Le cronache giudiziarie registrano a questo proposito dei fatti terribili, e i primi tentativi che avete fatto per morire vi hanno già creata una responsabilità abbastanza grave. - È vero, interruppe Rosen, con accento mortificato, ma la verità verrebbe poi sempre alla luce. E avendo veduto che Lamperth aveva come accennato del capo in atto di adesione, dopo un istante di silenzio, afferrò le sue mani, si sollevò un poco sul guanciale, e gli disse con suono di voce supplichevole: - Lamperth, mio buon amico, ve ne scongiuro, deh! procuratemi un veleno. - Impossibile, rispose Lamperth con aspetto grave e severo; io posso assistere alla vostra morte, posso assecondare fino ad un certo punto i vostri disegni, giacché ho compreso che è impossibile di potervene distogliere; ma non posso procurarvi io medesimo i mezzi di morire, Rivolgetevi ad altri, La mia coscienza m'impedisce di favorirvi, - Bene, bene, disse Rosen, sia come non detto, ma ciò non di meno voi sapete che ho della simpatia per voi…. voi siete incaricato di una lettera per mia moglie... avete ricevute le mie confidenze... ve ne prego, ottimo signor Lamperth, non mi abbandonate sì presto.... Se non posso morire qui, conto di venire con voi in Italia, dove credo che un uomo che non chieda che di morire, possa correre miglior fortuna che in Francia, - Oh! in quanto a questo rassicuratevi, disse Lamperth, io vi seguirò dappertutto, e indugierò a partire da Montdidier fino a che non sarete guarito. Tanto più che si beve realmente dell'ottimo fiore di latte a Montdidier... bisogna dirlo, non è un cattivo soggiorno... - No, no, riprese Rosen, vi ho passati alcuni mesi nella mia infanzia, e non è veramente un soggiorno dispiacevole, ma io non domando che di morirvi. - Speratelo, conchiuse Lamperth stringendogli la mano, e accomiatandosi da lui; la fortuna è capricciosa, e può concedervi domani ciò che vi ha rifiutato oggi; e quando meno state in aspettazione delle sue grazie, colmarvi de' suoi doni e de' suoi favori. Ma rimanete tranquillo; verrò a rivedervi domani; spero trovarvi peggiorato. Appena Lamperth si fu allontanato, ciò che Rosen aspettava con impazienza, egli fece chiedere d'un giovine commesso di farmacia che gli aveva recate alcune medicine, e applicate alcune striscie di taffetà nel giorno antecedente, e gli disse: - Voi dovete essere un ottimo ragazzo, e ho in mente di giovarvi per quanto mi è possibile, combinando l'interesse vostro ed il mio in un affare che vado a spiegarvi in due parole. Il cuore mi dice che noi riusciremo a qualche cosa. Ecco come sta il fatto. Si tratterebbe di un.... bisognerebbe.... ascoltatemi. - Dite, io sono tutto orecchi. - Vado a spiegarmi: io ho un'amante nel mio paese, una ragazza a dovere... figuratevi... una bellezza rara, una bellezza prodigiosa; una di quelle donne che hanno diritto a pretendere in un amante delle attrattive irresistibili.... ora... non dico d'averle avute io, ma certo... voi lo vedete, la mia faccia, i miei lineamenti sono alterati, io sono ora un uomo brutto, diciamolo francamente, brutto, è la parola. Io non ho più il coraggio di farmi rivedere da lei in questo stato, ho preso una risoluzione energica, irremovibile; ho deliberato di... Come vi chiamate signor Tricotèt? - Tricotèt, l'avete detto. - E a che somma ascendono i vostri onorarii? - Oh! ad una somma assai lieve, se volete, ma considerevole sempre per un giovine commesso di farmacia, a venticinque lire mensili. - Bene! riprese Rosen, sappiate adunque che per i motivi che vi ho esposti, io ho deliberato di... morire; e vi darò qui su due piedi venticinque mila franchi se voi mi procurate un veleno per farlo. Un veleno! esclamò Tricotèt alzandosi due spanne dalla sua sedia; ma, signore, se non è che il timore della vostra deformità che vi consiglia questa determinazione, io vi assicuro che voi guarirete: fidatevi di me, sono in grado di accertarvelo, io; studio il terzo anno di farmaceutica; e non sono più di due mesi che colla pomata vergine di Vernicot, ho fatto rinascere le ciglia e i capelli all'illustrissimo signor Verrier, che è l'avvocato generale del dipartimento, e che era raso quanto una guancia... Avete detto venticinque mila franchi? - Venticinque mila. - E che veleno vi occorrerebbe? - Oh! un veleno qualunque..... purché sia potente, pronto, efficace, ma sopratutto potente. - In quanto a questo, non avreste a temere.... credo avervi detto che studio il terzo anno di farmaceutica; queste cognizioni le ho sulle punta delle dita. - Bene, bene, riprese Rosen, pensateci seriamente, ne va della vostra fortuna. - Ci penserò, disse Tricotèt avviandosi verso la porta per uscirne. Ma non aveva ancora chiuso l'uscio dietro di sé, che ritornò nella stanza di Rosen e gli disse: - Signore, ci ho pensato... parmi di poter accettare.... ho a mia disposizione una certa pasta nera, il cui effetto è terribile, è immediato, benché procuri una irritazione intestinale abbastanza sensibile... se voi credete... se persistete nella stessa offerta, io ve la potrei procurare dietro la riscossione della somma su cui abbiamo convenuto. - Non v'è che dire, riprese Rosen, voi mi darete il veleno... la pasta.... ciò che dite, ed io vi sborserò i venticinque mila franchi. - Accettato, rispose Tricotèt con risolutezza, volo a provvedermene: fra due minuti sarò di ritorno. Rosen, sicuro finalmente di morire, si abbandonò tutto alla voluttà di questo pensiero. Un istante dopo Tricotèt ricomparve portando con sé un piccolo vaso ripieno d'una pasta nera che liberò con molta precauzione da cinque o sei fogli di carta in cui era avviluppato, e lo presentò a Rosen dicendogli: - Non avrete tempo a prenderne quattro boccate che sarete freddo. Rosen gli sborsò i venticinque mila franchi che erano tutto ciò che gli rimaneva della sua fortuna. Tricotèt li intascò con tutta l'impassibilità d'un uomo d'affari; ridiscese a saltelloni la scala, e, preso un posto nella diligenza di Lafitte, partì in quella stessa mattina per Parigi - Rosen, rimasto solo, si raccolse tutto in sé stesso, richiamò tutte le sue memorie, ripensò alla sua fanciullezza e a sua moglie, fece un breve esame di coscienza, si pose in pace alla meglio con essa e con sé medesimo, e dato un addio alla vita e alle sue rimembranze, rinchiuse gli occhi e ingoiò in quindici o venti boccate tutto il suo veleno. Era un sapore acre ma dolce, e pareagli d'averlo gustato altre volte; non aveva nulla di disgustoso, nulla di forte, e Rosen stava per dubitare della fede di Tricotèt, quando lo incominciarono ad assalire degli spasimi colici così potenti che non potè trattenere suo malgrado le grida. Erano dolori orribili, insopportabili, atroci. Rosen, come tutte le nature vivaci, ma deboli, era vile dinnanzi al dolore. I suoi lamenti fecero accorrere il signor Caupin che, non ostante le sue proteste, si affrettò a mandare pel medico. Rosen nell'entusiasmo del suo sacrificio non aveva preso tutte le precauzioni opportune, e aveva dimenticato sul tavolo il vaso del veleno. Se ne avvide troppo tardi quando il medico se l'era già tolto in mano, e esaminandone le reliquie gli diceva: - Che diavolo avete preso o signore? Chi è quell'asino di dottore che vi ha fatto una simile ordinazione? Oh la scienza! E c'è tanto da vergognarsene... siamo giunti davvero a un bel punto!... Quattr'oncie di conserva di prune coll'emetico! È una cosa orribile, un'ordinazione da cavallo!.... - È il signor Tricotèt, mormorò Rosen tra lo spasimo, un commesso di farmacia che.... - Il signor Tricotèt!.... diamine... ho trovato or ora il suo padrone, il degno farmacista Sapiston, che ne va in cerca per monti e per mari; egli ha ricevuto in questo momento una sua lettera in cui gli annunzia che parte oggi stesso per Parigi, e va ad acquistarvi una delle farmacie meglio avviate della capitale. - Ah Tricotèt scellerato! disse Rosen, tenendosi il ventre colle mani, piccolo malandrino! giuro al cielo che io vo' guarire a posta, rinunciare a tutti i miei progetti per andargli a strappare le orecchie a Parigi. - Via, via, disse il dottore in aria di conciliazione, quel piccolo monello vi ha fatto uno scherzo di cattivo genere, ma la cosa non ha in sé nulla di conseguente, prima di domani sarete perfettamente guarito. Venti giorni dopo questo avvenimento, Rosen ristabilito della sua malattia, prendeva con Lamperth la strada della capitale. Un nuovo campo di avventure doveva aprirsi adesso per Rosen. In quel gran centro che è Parigi dove le statistiche registrano ogni giorno centinaia di furti, di aggressioni, di delitti, di calamità d'ogni genere, non doveva riuscirgli difficile di morire. Almeno Rosen lo sperava; considerava le avversità passate come un brutto giuoco della fortuna, ma nulla più che un giuoco; era impossibile ch'essa potesse contendergli più a lungo la realizzazione di un desiderio sì semplice e sì naturale, il compimento di un destino inevitabile e comune a tutte le cose. Oltre a ciò egli era divenuto triste e soffrente; bisognava aggiungere alle cause che lo eccitavano a desiderare con tanta ostinazione la morte, quel non so che di mesto e di inusitato che gli era provenuto dalla sua infermità, e il dispiacere delle traccie che ella aveva lasciato sulle sue fattezze. Perché Rosen ci teneva alla sua avvenenza, e non aveva totalmente mentito quando aveva detto a Tricotèt che non avrebbe potuto reggere al pensiero di rivedere l'Inghilterra così malconcio. Il più delle volte noi amiamo di essere belli per noi stessi, perché amiamo anzi tutto noi stessi, e consideriamo la bellezza fisica come un riflesso, come un'espressione della bellezza morale. I fanciulli che ignorano ancora tutta l'influenza che la beltà esercita sugli affetti, ambiscono nondimeno di essere leggiadri, ed è questo il primo istinto di vanità che apparisca ordinariamente nell'uomo. Vi furono in ogni tempo delle donne segnalate per avvenenza straordinaria, le quali non amarono alcuno, e furono tuttavia felici, e trovarono nella sola coscienza di questa loro beltà un conforto a mali grandi e reali della vita che non avrebbero saputo tollerare altrimenti. Egli è che esse amavano potentemente e sovra tutto sé stesse; e si è spesso tentati di credere che quell'amore che si dà ad altrui non sia che un'esuberanza, un residuo di quello che si dà a noi medesimi. Si toglie a sé, e si dà ad altri; più amate altrui e meno amate voi stesso: da ciò il sacrificio in amore, e quella legge immutabile di egoismo che lo governa provvidamente e lo frena. Rosen incominciò da quei giorni una nuova serie di tentativi. Risoluto a non ritentare le sorti del duello che non gli avevano fruttato fino allora che dei rimorsi crudeli, immaginò nuove imprese e nuovi disegni: ma non era così agevole l'immaginarne di efficaci e di utili. Ne concepiva molti, e molti ne rigettava come ineffettuabili. Vi era sempre in ciascuno di essi qualche ostacolo, qualche conseguenza probabile che lo distoglieva dall'eseguirla. Perché egli si era fatto saggio dopo quelle prime prove, e la sua coscienza infiacchitasi, come suole nella malattia, gli suggeriva rimedii più cauti e più onesti. In quel primo periodo della sua dimora a Parigi aveva cercato, ma indarno, di morire con qualche mezzo comune; si era buttato tre o quattro volte tra le carrozze che gli attraversavano la via, come persona che ha difetto d'udito, o che non bada molto a sè per distrazione soverchia; ma i cocchieri erano sempre stati troppo avveduti, e s'erano sempre trovati importuni che gli avevano strillato alle orecchie: - Ehi, signore, la si guardi, badi che le viene addosso una carrozza; e talora ne l'avevano sottratto a forza, afferrandolo e trattenendolo violentemente per l'abito. S'era provato a passeggiare lungamente e pazientemente sotto i ponti e sotto le bertesche degli edificii in costruzione, sperando la caduta d'una tavola, d'una pietra, o di un arnese qualunque che avesse potuto ucciderlo, ma indarno: aveva girato tutto il vecchio Parigi, e cercato tra quelle case antiche e tra quei vecchi recinti di giardino qualche muro che minacciasse di sfasciarsi, e vi aveva passato notti intere aspettando che rovinasse, ma non era stato più fortunato in ciò, di quanto lo fosse già stato dapprima. Un destino misterioso altrettanto che strano, governava la vita di Rosen. Spesso nello scorrere per passatempo i giornali della sera, si arrestava con un senso di sdegno e d'invidia a meditare sull'elenco dei morti nella giornata - tre o quattrocento ogni giorno; e tra essi molti più giovani di lui, molti fanciulli che vi avevano diritti infinitamente minori..... E tuttavia egli viveva…. Talora si sentiva sgomentato nello scorgere che la maggior parte di quei morti erano vissuti fino ad una età molto avanzata, fino a settanta, a ottant'anni; ve n'erano spesso alcuni che per poco non avevano toccato il secolo.... Se egli avesse avuto lo stesso destino.... se fosse stato condannato ad una vita sì lunga! In quegli intervalli di scoraggiamento tornavalo ad assalire il sospetto che egli fosse dotato di una natura immortale, che tutti i suoi sforzi sarebbero riusciti vani, eternamente vani... Non poteva reggere al pensiero di una vita che non doveva aver fine; era questo fine che egli voleva affrettare, che egli voleva raggiungere; e quantunque si avvedesse dell'assurdità di un simile sospetto, n'era soventi in timore, e passava giornate angosciose, travagliato, come era, da un pensiero così scoraggiante e terribile. In quei giorni avendo appreso che molti assassinii succedevano la notte nei quartieri più remoti di Parigi, sui boulevards, al bosco di Boulogne, in quelle vecchie e strette viuzze che si trovano dal lato occidentale della città, Rosen vi si cacciava tutte le sere, e vi errava per lunghe ore senza frutto; rientrava a notte inoltrata, e talora, verso il mattino, scoraggiato, prostrato, vinto da quella cieca fatalità che vigilava con tanta costanza sulla sua vita. Oltre a ciò egli doveva struggersi di celare l'entità della sua persona: le sue avventure di Dover e di Amiens avevano messo la polizia sulle sue tracce, e benché egli non avesse palesato a persona il suo nome, bastava un indizio, un sospetto, perché si fosse venuto in chiaro di tutto. Più che di una pubblicità disonorante, Rosen temeva della violazione del suo segreto, dell'inutilità del suo sacrificio, e delle ristrettezze domestiche di sua moglie. Si era creato mille sorgenti di dolori, mille motivi di pene e d'inquietudini, e comprendeva di non potervi rimediare che morendo. Aveva risolto di abbandonare Parigi, quando una sera essendo entrato in una bettola, come soleva fare, per corrervi qualche avventura, e essendosi seduto colle spalle rivolte a un assito che tramezzava la camera, scorse da una fessura delle tavole quattro persone, che sedevano in un angolo della stanza, discutendo a bassa voce circa un complotto di furto che si proponevano di effettuare in quella notte medesima. Quantunque essi parlassero assai piano, non riuscì difficile a Rosen che stava origliando alla fessura, d'intendere queste parole: - Vi ripeto che il teatro dell'Opera non finisce che dopo la mezzanotte. È impossibile che egli ritorni prima di quell'ora. - Ma siete poi sicuro che il signor Meustrier vi vada tutte le sere? - Tutte le sere. Bene! ma io credo ad ogni modo che convenga indugiare fino alle undici. Sapete che al secondo piano la signora Ronson non si corica mai prima di quell'ora, e si ferma spesso sul pianerettolo ad inacquarvi i suoi vasi di basilico. Già, io temo di voi, mio caro amico, perdonatemi, ma siete così smemorato; metterei un occhio della testa che prima che siate partito e tornato per le nostre provviste, avrete dimenticato la strada, la casa, il numero, e perfino la qualità di dottore dell'onorevole signor Meustrier, e lo scopo per cui andiamo a rendergli quella visita. - Via, e lo so a mente come le litanie: vicolo della Chiusa, n. 42, piano terzo, uscio a sinistra, quattro finestre sul vicolo, abitazione del signor Meustrier, dottore in ambo le leggi. Ma a me passano pel capo ben altri timori. - E sarebbero .... - Ve l'ho già detto; voglio dire quella persona che ci spiava alla cantina del Falcone, e che sarebbe stato scambiato per un ispettore di polizia anche da un cieco. Temo che ci abbia uditi. - Voi non vedete che ispettori di polizia. Ma è tempo che andiate per le cose nostre... già non vi dimenticherete del convegno... al tocco delle undici sull'angolo. - E se ... - Cosa? - Se nel discendere e nel salire, incontrassimo il signor Meustrier, se lo trovassimo in casa... - In casa è impossibile, non torniamo sulle questioni già appianate: se lo incontreremo per le scale sarà un altro paio di maniche, bisognerà fargliele ridiscendere a capo fitto. Rosen non volle udire altro, non mancava più alcun dettaglio al suo piano; uscì a precipizio dalla bettola, deciso di rappresentare la parte del signor Meustrier, e di appostarsi sulle scale del suo palazzo. Ma la cosa più difficile era trovare il vicolo della Chiusa; non è sì agevole il trovare un vicolo a Parigi sulla semplice indicazione del suo nome, e Rosen temeva di compromettersi chiedendone notizia a qualche passeggiero. Non erano però le nove, e gli avanzavano due ore per farne ricerca: poteva sperare ragionevolmente di riuscirvi. Fino dal primo momento che aveva sentito i ladri accennare a quel luogo, aveva supposto che non sarebbe stato molto lontano da quel quartiere, perché essi non si sarebbero radunati in un punto opposto della città: era d'uopo passare ad una ad una per tutte quelle vie e leggervi le indicazioni dei viottoli traversali: dopo ciò se tutto fosse stato inutile, richiederne con franchezza qualche persona, e non trovando chi glielo indicasse, cacciarsi in una vettura pubblica e farvisi condurre come a casa propria. Concepito questo piano, Rosen si accinse di buon animo alle sue ricerche. Ma era inutile; il tempo volava con una rapidità spaventosa, e Rosen non era adesso più fortunato di quanto lo fosse stato in quei giorni. Ad ogni breve intervallo di tempo guardava con trepidazione sull'orologio, e vedeva la lancetta affrettarsi a raggiungere l'ora fatale, senza che potesse aver indizio alcuno di quella strada. Erano le dieci e mezzo, mancava mezz'ora al convegno... Risolse allora di chiederne notizia ad alcune persone che gl'inspiravano qualche fiducia, ma nessuna di esse seppe indicarglielo. Si azzardò a interpellarne una guardia di polizia, che lo guardò di traverso come una persona sospetta, ma anche questi non ne sapeva più dei primi. Intanto erano già trascorse le undici, Rosen era sulle spine; conobbe che bisognava tentare rimedii estremi, e aprendo lo sportello d'una vettura pubblica vi si buttò dentro come una persona disperata strillando alle orecchie del cocchiere: vicolo della Chiusa, n. 42, a gran corsa. Il cocchiere dopo essersi raccolto un momento quasi per chiamare a rassegna tutte le sue cognizioni topografiche, fece scoppiettare la sua frusta, e spinse il cavallo in una direzione opposta a quella per cui era venuto Rosen. Si corse per una buona mezz'ora; Rosen era al colmo della desolazione; mancavano pochi minuti alla mezzanotte, e già aveva deliberato seco stesso di rinunciare a quel tentativo e di farsi condurre invece da Lamperth, quando vide la carrozza voltare in una piccola via, e appena girato l'angolo, arrestarsi. Rosen ne discese, guardò in alto e vide il numero 42 illuminato dal fanale della strada che pareva dirgli: questa è la casa, venite. Pagò sontuosamente il cocchiere, e raccogliendo tutto il suo coraggio entrò nell'atrio, e cominciò a salire le scale. Era giunto appena al terzo piano, quando gli parve d'intendere del rumore nell'appartamento del signor Meustrier; e appressandosi all'uscio, conobbe che le imposte ne erano socchiuse, e vide uscirne un filo di luce che le illuminava di dentro. Non v'era dubbio, ladri non ne erano ancora usciti; bisognava usare dell'audacia, far la parte del signor Meustrier, entrarvi, assalirli, e lasciarvisi sgozzare come un agnello. Ma Rosen non aveva ancor messa la mano all'imposta, che udì una voce maschia chiedere di dentro: Chi va là? - Io, disse Rosen, spalancando la porta e precipitandosi nella stanza, io, il dottore Meustrier; chi è che è entrato in mia casa? - Onorevole dottore, rispose una persona che Rosen riconobbe subito per un gendarme, li abbiamo pigliati nella trappola; e aprendo l'uscio della seconda stanza disse: il signor Meustrier è arrivato in questo momento. Rosen guardò, e vide una quantità di gendarmi, intenti ad ammanettare i quattro personaggi che aveva conosciuto alla bettola. L'ispettore di polizia, appena vedutolo, gli si appressò con aria di soddisfazione, e togliendosi rispettosamente il berretto, gli disse: Egregio signor Meustrier, ella ci vorrà perdonare se abbiamo dovuto violare la sua casa, ma la giustizia ha esigenze sulle quali non è possibile transigere ... D'altra parte le abbiamo ricuperati i quaranta mila franchi di deposito che ella incassò stamattina, e che questi galantuomini avevano già fatto passare nelle loro saccoccie. Fu un fatto molto onorevole per la polizia di Parigi, questo; non lo dico per vantarmene, io, ma ... già, tutto il merito è dovuto al nostro agente, il signor Chaperron, che ha saputo scoprire il complotto nella cantina del Falcone, dove questi signori si erano radunati per concertare il loro piano. Aveva fatto cercare di lei, ma non ci è stato possibile di trovarla. Ho sentito in questo momento la sua carrozza, e ho detto tra me stesso: il signor Meustrier è qui, egli rimarrà ben stupito di trovar tanta gente in sua casa. Come fare? E bisognerà ora che ella abbia anche la bontà di accompagnarci all'uffizio della sezione, dove redigeremo il verbale, e le restituiremo il danaro rubato, appena verificata esattamente la somma. - Sono ben grato, disse Rosen, che si sentiva calare il sudore gelato dalla fronte, sono ben grato delle cure che questa benemerita autorità si assume per la tutela della proprietà privata, e mi duole di non poterle offrire che un attestato verbale della mia riconoscenza: del resto, signor ispettore, io mi farò un dovere di far conoscere a tutti la di lei avvedutezza e il di lei zelo, segnalandolo per le stampe alla ammirazione ed alla gratitudine del paese. L'ispettore s'inchinò fino a terra. Rosen, avendo ammiccato dell'occhio ai quattro arrestati, che lo guardarono stupiti, come avesse voluto dir loro: non temete, non mi tradite, non sono il signor Meustrier, io; lo so bene che non mi conoscete, ma sono uno dei vostri, uno che saprà liberarvi, purché abbiate un'oncia di giudizio, riprese: - Signor ispettore, io sono ai di lei ordini, andiamo. E si avviarono all'ufficio di polizia. Quivi Rosen che si sentiva i bordoni alla testa, dovette subire un lungo interrogatorio, declinare il suo nome, la sua qualità, la provenienza del danaro rubato; dopo di che, avendo firmato il verbale che faceva constare del fatto, l'ispettore generale gli disse, consegnandogli i quarantamila franchi, che erano stati tolti a Meustrier: - Signor dottore, ella può ora ritirarsi, ma è necessario che ritorni domani al nostro ufficio per assistere all'interrogatorio degli accusati. Rosen, intascando alla meglio il danaro, si cacciò giù per le scale, leggiero come una rondine, si ficcò in una carrozza da nolo, si fece condurre dal suo amico Lamperth, e gli disse: - Io parto in questo istante per Melun; sono stato costretto a rubare quarantamila franchi, e non potrei rimanere un'ora di più a Parigi; raggiungetemi domani in quella città, dove desidero di giustificarmi con voi di questa appropriazione. - Sta bene, ci rivedremo domani a Melun, rispose Lamperth con freddezza. * * * Quel piccolo gruzzolo del signor Meustrier non era giunto inopportuno per Rosen; egli era stato a un filo dal vedersi senza un quattrino; e d'altra parte considerava quel dono singolare della fortuna, come un compenso alle somme che Lachard e Tricotèt gli avevano arraffate prima del suo arrivo a Parigi. Ciò di cui egli si sgomentava non era tanto il ritardo che tutte quelle mille fatalità frapponevano al raggiungimento del suo scopo, quanto quel non so che di ostinato e di derisorio con cui quelle stesse fatalità tentavano di paralizzarne l'azione. Tuttavia, appena arrivato a Melun, si era avveduto che una nuova serie di avventure le attendeva in quella città. La Senna, ingrossatasi per le pioggie che erano state frequenti in quei giorni, era uscita dal suo letto e aveva allagato buona parte di quelle campagne. Molte case di coloni erano rimaste sepolte a metà dalle acque, senza che le famiglie che le abitavano avessero avuto il destro d'uscirne: non poche di esse mancavano di provvigioni, o erano minacciate in altro modo nelle loro case medesime, che scalzate dal fiume alle fondamenta erano in procinto di rovinare. Ogni giorno si numeravano nuove vittime, e quei pochi generosi che s'erano spinti in loro soccorso ne costituivano la maggior parte. Rosen aveva appreso queste notizie non appena partito da Parigi, ond'è che giunto a Melun, era corso tosto alla riva del fiume per vedere le cose da sé, e confortarsi della certezza di questo avvenimento. Tutta quell'estensione di campagna così allagata presentava uno spettacolo stupendo. Dalla parte di Corbeil, l'occhio non giungeva a distinguere il limite estremo dell'allagazione, e l'orizzonte si chiudeva in una linea confusa e bianchiccia, come avviene in una scena di mare, quando le onde agitate presentano alcune creste di una bianchezza abbagliante sopra un fondo oscuro e verdastro. Dal lato opposto, la via di Fontainebleau, dove le acque si erano arrestate in un declivio, porgeva l'aspetto di un serpente smisurato che stesse per uscire dal fiume. Dappertutto biancheggiavano delle case, quali scoperte in gran parte, quali sepolte fino al tetto, di cui non si scorgevano che i comignoli, simili ad alberi di nave naufragata; le piante investite dalla corrente oscillavano sui loro fusti; e molte di esse sradicate erano travolte impetuosamente dalle onde; in alcuni punti il fiume era limpido e calmo, in alcuni altri scorreva con un fragore spaventoso, e si riversava negli avallamenti, che riempiuti si scaricavano negli altri seni più bassi. Mille altri particolari completavano la scena stupenda di quel quadro. Rosen gioiva dal più profondo del cuore nel contemplarlo. Quanti pericoli non avrebbe egli potuto corrervi domani, e quanti pretesi non avrebbe egli avuto per correrli? Come doveva essere facile il morire in quel luogo! - una barca rovesciata, una riva franata, una casa sfasciata dall'acqua, un naufrago che invoca soccorso .... no, era impossibile che questa volta non riescisse a Rosen di morire. Dopo che egli ebbe passato alcune ore beandosi in quella vista, rientrò nella città che la notte era di molto inoltrata, si gettò sul letto fantasticando, ebbe sogni pieni di voluttà e di visioni. Gli pareva che, essendosi gettato nella Senna, le onde lo avessero travolto e inghiottito senza che egli od altri avessero avuto tempo di opporvi la menoma resistenza; le acque si erano chiuse sopra di lui, egli si sentiva affondare affondare, scendere scendere continuamente senza poter giungere al fondo, la corrente lo portava con impeto e lo faceva girare su sé stesso come una foglia investita dal vento. In quel lungo sommergersi Rosen provava una strana sensazione di piacere, avrebbe voluto scendere così eternamente senza toccare il letto del fiume; ma non avea concepito questo desiderio che ne scorse il fondo tutto coperto di musco e di conchiglie, e non l'ebbe raggiunto che disse a sé stesso con un senso di tranquilla rassegnazione: sono morto sono finalmente morto! Allora una miriade di pesciolini e di piccoli mostri acquatici si precipitarono sopra di lui per divorarlo. A quella vista Rosen si spaventò e destossi. - Sia lodato il cielo, diss'egli, questo sogno è una previsione, andiamo. E vestitosi in fretta si avviò verso il fiume. Appena giunto alla Senna fu lieto di apprendere che si era costituita fra alcuni filantropi di Melun una società di soccorso per le persone che si trovavano chiuse nelle case allagate. Rosen domandò sull'istante di farne parte e lo ottenne. Da lungo tempo egli godeva nel suo paese fama di abile nuotatore, e pensò con piacere che prima di morire avrebbe potuto rendere realmente qualche servigio a quegli sventurati: in fondo in fondo egli non era cattivo, e un istinto di umanità lo aveva tratto sovente a sacrificare per l'utile altrui, il bene proprio, come aveva fatto in occasione dell'incendio di Montdidier. Rosen chiese che gli fosse affidata una barca colla quale avesse potuto trasportare alcune provvigioni nelle fattorie che ne avevano difetto, o tentare di trarre in salvamento gli abitanti di quelle case che minacciavano rovina. Per due giorni fu un prodigio di attività e di fortuna, e rese beneficii immensi alle vittime di quell'innondazione - tutta Melun era occupata di lui e del suo coraggio, il nome di Rosen era sulle bocche di tutti - ma, al terzo giorno, quando appunto prostrato da quelle fatiche e impaziente di morire, aveva risolto di tentare qualche cosa di decisivo, avvenne che guidando egli una barca su cui trasportava alla riva due fanciulle raccolte sopra un piccolo rialzo di terra che era stato circondato dal fiume, questa investì in un albero che scendeva giù trascinato dalla corrente, e n'andò rovesciata. Al momento in cui Rosen incominciava a sommergersi guardò alla riva, vide la folla che assisteva al triste caso; e non potendo più dubitare che la sua morte non potesse venir impedita e non dovesse essere considerata affatto accidentale, provò nel fondo dell'anima una strana gioja, e disse: oh finalmente .... Ma non aveva ciò pensato, che si sentì afferrare da una di quelle fanciulle che si erano sommerse con lui, e che gli s'avvinghiava alla persona con tutta quella disperata tenacità che da l'istinto della vita. Il cuore di Rosen non era eccessivamente pietoso, ma pure ne sentì compassione, e slacciandosi alla meglio dalle sue braccia, e stringendola con una mano alla cintura, incominciò a nuotare verso la riva. V'è un'altra vittima da salvare pensava egli tra sé stesso, mentre lottava disperatamente colle onde, nessuno mi toglierà il pretesto di rituffarmi nel fiume. E messo in pace da questo pensiero continuò ad affrettarsi alla sponda. Rosen vi giunse sì spossato, sì oppresso dalla fatica che appena potè intendere le grida e gli applausi della folla, che stava schierata lungo la riva. Ma non ebbe posata a terra la fanciulla, che, fingendo di voler correre alla salvezza dell'altra, tornò ad immergersi, e prese a nuotare verso il largo della Senna. Intanto alcune barche si erano distaccate dalla sponda; Rosen le vide, e fosse la fatica fosse il timore che potessero venire in suo soccorso, si sentì venir meno, incominciò a perdere la vista dell'orizzonte, a gettare le braccia inerti sull'acqua, a diventare leggiero, nel tempo stesso che si sentiva inghiottire dalle onde; e smarrendo in un istante ogni forza ed ogni coscienza di sé, si sommerse. In quell'intervallo di tempo due barche lo avevano raggiunto, e due francesi si erano già gettati nell'acqua per salvarlo. Rosen non aveva avuto tempo di toccare il letto del fiume, che uno di essi lo aveva afferrato alla cintura e trattolo fuori e coricatolo nella barca, lo aveva ricondotto alla riva. Tutto ciò era avvenuto in istante, e senza che Rosen, che era svenuto, avesse potuto avvedersene. Ma quale non fu la sua maraviglia, quando nel risensare si trovò nella sua stanza, nel suo letto; e vide Lamperth seduto al suo fianco; e richiamando in un istante le sue memorie, potè indovinare agevolmente tutte le particolarità della sua sventura. - Ah! sono ancora vivo, egli disse, sono ancora vivo! ... e si riposò con dolore su questa parola. Egli era sì debole che un istante dopo si pose a piangere e singhiozzare come un fanciullo, esclamando colla voce interrotta dalle lagrime: - Io non morirò più! ... Io non potrò più morire! ... Indarno Lamperth si provò a consolarlo: il suo abbattimento era estremo. - Io morirò di crepacuore, io morirò di angoscia, ripeteva Rosen ad ogni frase del suo amico. E l'altro a soggiungergli: - è il genere di morte più valido dinanzi alla società di assicurazione. Alcuni giorni dopo Rosen guarito aveva detto a Lamperth: - Andiamo via di qui, non fermiamoci più fino a che non saremo giunti in Italia. E stavano per partire, quando una deputazione del municipio di Melun entrò nella stanza recando a Rosen un indirizzo di quel comune, nel quale lo si ringraziava del soccorso prestato durante l'inondazione, e gli si offriva, come unico compenso degno di tanta abnegazione, la cittadinanza di Melun. Rosen volle rispondere, ma provò tale un eccesso di sdegno contro la sua fortuna e contro sé stesso, che si sentì soffocare dalla bile; e non potendo reagire e superare la sua emozione, cadde svenuto sopra una sedia. - Egli è ancora assai debole, disse un membro della deputazione a Lamperth, e questo attestato di onore che ha voluto porgergli la nostra città, lo ha profondamente commosso. - Sì, disse Lamperth, lo ha commosso molto profondamente. * * * Dopo quindici giorni di viaggio, Rosen e Lamperth giunsero a Grenoble, col pensiero di passare le Alpi presso Brianzure, e di passarle a piedi come due buoni inglesi. Rosen era prostrato dalle tante disillusioni sofferte; ma come suole avvenire in tutte le nature immaginose e fantastiche, si confortava di nuove speranze. Gli pareva che in Italia sarebbe riuscito, che anzi sarebbe riuscito alla prima prova, e aveva deciso di non tentare più che avventure serie, avventure utili, nelle quali la sua sensibilità e la sua coscienza non avessero più a distoglierlo dallo scopo immediato dei suoi tentativi. Oltre a ciò sentiva in sé stesso un presagio consolante, il presagio che egli si avvicinava al suo fine, che qualche cosa di solenne, qualche cosa di decisivo doveva accadergli in quei giorni. Gli s'erano già offerte tre o quattro occasioni, ma aveva ricusato di approfittarne, come quelle che non promettevano un esito sicuro, quando, essendo giunto ad un piccolo villaggio alle falde dalle Alpi, e avendo saputo che in una foresta vicina era imboscata una grossa masnada di assassini che vi commettevano delitti inauditi, risolse di andarli ad incontrare. Fino allora non s'era dato esempio di viaggiatori che fossero capitati nelle loro mani e che ne fossero usciti vivi, per quanto danaro avessero lor dato, e per quante preghiere avessero rivolte; era naturale che Rosen, deciso a difendersi e a provocarli, potesse lusingarsi di correre lo stesso destino. Accomiatandosi da Lamperth che sicuro della morte del suo amico lo abbracciò colle lagrime agli occhi, Rosen tolse pretesto di una passeggiata su pel monte, e s'inoltrò arditamente nella foresta. Camminava triste e pensoso, guardando gli alberi che distendevano i loro rami sopra di lui, come un ombrello gigantesco; raccogliendo per distrazione qualche corbezzolo, e compiacendosi di sentire sotto i suoi piedi quel non so che di molle e carezzevole che hanno gli alti strati di foglie così accumulate da anni nelle montagne. Era pensoso, è vero, ma lo era pel timore di non imbattersi nella masnada: oramai Rosen era sì indispettito dei suoi casi trascorsi e della sua triste fortuna, che quasi avrebbe bastato quel suo risentimento, quella specie di amor proprio che lo rendeva incaponito nel suo progetto, a fargli desiderare e affrontare qualunque sorta di morte. Ma i suoi timori erano vani come le sue speranze. Non aveva camminato più di mezz'ora che udì suonarsi all'orecchio un: Chi vive? uscito da un petto così robusto, e pronunciato così d'appresso a lui e con suono di voce così minaccioso, che Rosen, assorto in quell'istante in altro pensiero, si arrestò, e emise, suo malgrado, un leggiero grido di spavento. Nel tempo stesso un uomo uscì fuori da una macchia, e spianando verso di lui il suo fucile, gli disse: - Fermatavi, o siete morto. - Miserabile! disse Rosen; e fingendo di prendere la mira, sparò un colpo di pistola verso l'assassino. La palla passò in aria fischiando; l'assassino dal canto suo sparò il suo fucile, ma sparò in fallo. Rosen si percosse la fronte col pugno. Al rimbombo di quello scoppio, cento masnadieri comparvero da tutte le bande; e Rosen si vide ad un tratto circondato. Pieno di speranza e di gioia, deciso a difendersi per eccitarli ad ucciderlo, impugnò le sue pistole, e avventandosi contro coloro che gli erano più d'appresso sparò i tre colpi che gli rimanevano, evitando di ucciderne alcuno. I masnadieri erano rimasti sì colpiti da tanto ardimento, che nessuno di loro aveva tentato di trattenerlo; e solamente quando lo videro slanciarsi, già disarmato, contro il nucleo maggiore della loro banda, si avventarono per colpirlo coi loro coltelli. A quella vista il capo dei masnadieri accennò loro di arrestarsi, venne incontro a Rosen, ordinò che non gli si torcesse un capello; e afferrandolo per le mani, che gli diedero una stretta simile a quella d'una morsa, gli disse: - Che cosa volete fare? arrendetevi; avete coraggio, ma siete un insensato, credete di poterla spuntare con noi? - Io non mi arrenderò mai, disse Rosen, dovessi combattere a morsi; e tentò di slacciarsi una mano per menargli un colpo alla guancia, ma era impossibile, Il suo avversario riprese con tranquillità: - Voi siete decisamente un uomo coraggioso; acquietatevi, avete nulla a temere da noi; non uccidiamo gli uomini della vostra tempra, noi; uccidiamo quelli che guaiscono come le femmine, che ci ricusano la loro borsa, che non vogliono ammettere il diritto che noi abbiamo sulle sostanze dei ricchi, e la missione che ci siamo imposta di migliorare la società, distruggendo la disparità delle fortune. Voi siete un uomo straordinario: è a deplorarsi che vi sciupiate così miseramente nella vita corrotta della città .... ma sareste ancora in tempo a riabilitarvi; io vi offro uno dei posti più onorevoli nella mia banda; spero che non sarete per ricusare. Il capo dei masnadieri aveva rallentato sensibilmente la stretta delle sue mani nel pronunciare queste parole; Rosen annientato da tanta avversità di fortuna, taceva. Dopo un istante di silenzio, l'altro riprese: - La vostra fisionomia, il vostro coraggio ... sareste voi mai un inglese? - Sì, disse Rosen rianimato dalla speranza. - Oh! permettete che io vi abbracci; ho goduto per quattro anni dell'ospitalità del vostro paese, e ho sempre sentito una simpatia irresistibile per la vostra nazione. L'Inghilterra è l'asilo di tutti gli uomini liberi. Non ci vogliate usare scortesia, aggiunse abbandonando le mani che teneva strette nelle sue - qui vi sono uomini che hanno ammirato il vostro coraggio, e che sanno di dovervi rispettare .... Sono lieto di aver fatto il vostro incontro, e vorrei dimostrarvi in qualche modo la gratitudine che ho pel vostro paese .... Il governo pontificio in Italia mi offre un posto di capobanda con un corpo di quattrocento uomini; io sono disposto a cedervi il comando di questa onesta brigata ... accettate? - No, mormorò Rosen, è impossibile ...; dei legami di famiglia .... dei doveri ... duolmi sinceramente di dover respingere un'offerta così onorevole; anzi io devo accommiatarmi; sono atteso per stassera al villaggio. - Bene, bene, disse l'altro, sia come non detto; aggradite ad ogni modo prima di partire un attestato della mia ammirazione per voi e della mia gratitudine pel vostro paese. Così dicendo si tolse dal dito un anello di molto valore, e lo fece passare nel dito di Rosen; quindi, riconsegnandogli le sue pistole, ordinò a due dei suoi soggetti che lo accompagnassero fuori del bosco per difenderlo da qualunque malvivente; e lo abbracciò con effusione, mentre molti dei masnadieri venivano a stringergli la mano e offrirgli rispettosamente i loro servigii. * * * Rosen, giunto a casa, si pose a letto; era malato, aveva la febbre: ciò che gli era successo era stato superiore a tutte le sue previsioni più scoraggianti. Oramai gli era venuto meno il coraggio di tentare altre vie, e doveva risolversi a tornare in Inghilterra. Dieci giorni dopo stava per riprendere il suo viaggio, quando gli giunse all'orecchio la notizia di un disastro accaduto in quel giorno lungo la via che egli doveva percorrere. Una carrozza, il cui cavallo aveva perduto il freno era precipitata, in un abisso profondissimo che costeggiava la strada, e che era chiamato il Picco del diavolo; non una persona si era salvata. Una nuova luce si fece allora nella mente di Rosen; andò a visitare quell'abisso, e conobbe che era impossibile sopravvivere a quella caduta: risolse sull'istante, uscì solo in vettura, spinse il cavallo alla carriera più concitata, e si precipitò giù dal picco. La carrozza, discendendo orizzontalmente, si impigliò nelle liane che crescevano lungo il fianco dell'abisso, e si rovesciò rimanendovi sospesa, quando non rimaneva più che un terzo della rupe a raggiungere il fondo. Rosen ne fu sbalzato fuori, e cadde sul corpo del cavallo che era morto. Raccolto da alcuni terrieri fu trasportato all'albergo, dove aveva lasciato Lamperth. Da principio fu creduto estinto, ma alcune ore dopo la sua caduta rinvenne; e il chirurgo constatò che si era spezzato il femore sinistro, e che era d'uopo amputare la gamba nello spazio di quattro ore, prima che si sviluppasse la cancrena di cui avrebbe dovuto morire. Quando Rosen, che era già poco meno che morto per la meraviglia di ritrovarsi vivo, udì parlare della cancrena, sentì finalmente che tutto era finito, che tutto era compensato; e rivolgendosi al chirurgo gli disse: - Voi potete ritirarvi .... io non mi farò amputare mai .... io sono vile dinnanzi al dolore .... preferisco morire. - Pensateci, rispose l'altro, ripasserò fra due ore, e mi lusingo che sarete di parere diverso. Partito il chirurgo, Lamperth entrò nella stanza dove Rosen era stato lasciato solo; e levandosi gli occhiali dal naso, ciò che non era solito fare che nelle circostanze solenni, e assumendo un nuovo tuono di voce gli disse: Signor Alfredo di Rosen, è tempo che noi definiamo la nostra posizione, è tempo che io cessi dal rappresentare una parte che mi affligge per quanto sia doverosa, e che io desista da una finzione che è oramai divenuta inutile. Io sono un'agente della Società d'assicurazione. Quando ella è venuta ad assicurare la vita di sua moglie, la nostra società non ignorava la di lei posizione finanziaria e le gravi perdite che ella aveva subite al giuoco nella notte precedente. Si sospettò ciò che era vero, che ella volesse, cioè, ingannare la società con una morte volontaria; e io fui incaricato di seguirla e procurarmi le prove che avessero constatato questa determinazione. Questa è la lettera che ella mi ha incaricato di rimettere alla signora baronessa sua moglie, e nella quale ella dichiara di voler morire spontaneamente per darle diritto all'assegnamento vitalizio. Ancorché ella avesse ora a morire, a questa lettera che i doveri della mia qualità m'impongono di consegnare alla società, priverebbero la signora Rosen di qualunque compenso. Ella intende ora che non le rimane una via più onorevole e più doverosa che quella di sottoporsi a questa amputazione e di tentare di vivere per compiere quei doveri di uomo e di marito che ha troppo trascurato finora. In quanto a me io non ho fatto che obbedire alle esigenze della mia carica. Rosen stette lungo tempo senza poter rispendere, tanto il dolore, lo sdegno e la meraviglia lo avevano reso muto e agghiacciato. Quando fu in grado di pronunciare alcune parole, disse: Oh Lamperth, voi mi avete rovinato .... Un colpo simile in questo momento! ... una rivelazione di questo genere nell'istante in cui io stava per raggiungere la mia felicità! ... ah, voi avete un cuore di tigre, Lamperth! ... fingere in questo modo ... trascinarmi a questo punto ... senza una gamba! ... Ma noi ci batteremo, per l'inferno noi ci batteremo; io vi domanderò conto di questa indegna simulazione. - È inutile, non avrete più che una gamba. - Ci batteremo alla pistola, seduti. - Via, via, disse Lamperth riponendosi gli occhiali; sono un padre di famiglia io, ho sette figli, e ci penso alla mia vita e a miei doveri. Voi avete profusa una fortuna, avete tenuta una condotta riprovevole, avete tentato d'ingannare una società di onesti speculatori, l'avete tentato a costo della vita degli altri; vergognatevi, io sento in questo momento tutta la superiorità morale che ho sopra di voi .... Non costringetemi ad abusare del vostro stato. - Avete ragione, esclamò Rosen piangendo come un fanciullo, oh! avete ragione; voi siete ciò che io non sono più, un uomo onesto ... Io vedo troppo tardi il male che ho fatto. - No, no, non è troppo tardi, riprese in tuono affettuoso Lamperth, tornandosi a levare gli occhiali, e stringendo le mani del malato. Ecco qui, io vi restituisco la lettera che vi accusa dinanzi alla società; voi guarirete, me ne ha accertato il chirurgo; e io vi farò ottenere un posto elevatissimo in questa stessa società di cui avete voluto eludere le disposizioni. Potrete essere ancora felice, perché potrete ancora meritarlo. Due mesi dopo, Rosen amputato e guarito, ritornava in Inghilterra, dove Lamperth che ve lo aveva preceduto, manteneva la sua promessa. La natura che gli aveva ricusato fino allora le gioie della paternità gli diede ora dei figli. Lamperth divenne il suo subordinato e ad un tempo il suo amico. Nulla turbò più da quel giorno la sua vita. Alfredo di Rosen è il più esemplare dei padri e dei mariti.

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