Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonino

Numero di risultati: 12 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251384
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

E se io vado enumerando queste opere, non è già per metterle in evidenza, e fregiarle di lustro maggiore; per salire in fama, esse non hanno mestieri del plauso mio; io le annovero insieme ai loro autori per viemeglio addimostrare ai giovani, che stoltamente sorridono alla parola classico: che se vogliono vivere lunghi anni e sfidare i secoli con le loro opere, è d'uopo abbandonino i soggetti inconcludenti e triti, e percorrano, studiando le sane teorie, il cammino che ad essi tracciano i viventi grandi maestri, dei quali ho tenuto e terrò ancora parola.

Pagina 25

Manifesti, scritti, interviste

257819
Fontana, Lucio 1 occorrenze

Il barocco ci ha diretti in questo senso, lo rappresentano come grandiosità ancora non superata ove si unisce alla plastica la nozione del tempo, le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati. Questa concezione fu la conseguenza dell’idea dell’esistenza che si formava nell’uomo, la fisica di quell’epoca rivela per la prima volta la natura della dinamica, si determina che il movimento è una condizione emanente alla materia come principio della comprensione dell’universo. Arrivati a questo punto dell’evoluzione la necessità del movimento è tanto importante da non essere più raggiungibile dalle arti plastiche ed allora quella evoluzione è continuata dalla musica e le arti entrano nel neo-classicismo, pericoloso pantano della storia dell’arte. Conquistato il tempo, la necessità del movimento si manifesta pienamente. Gli impressionisti sacrificano il disegno della composizione al colore-luce. Nel futurismo sono eliminati alcuni elementi, altri perdono la loro importanza restando subordinati alla sensazione. Il futurismo adotta il movimento come principio ed unico fine. Lo sviluppo di una bottiglia nello spazio, forme uniche della continuità dello spazio1 iniziano la sola e vera grande evoluzione dell’arte contemporanea (dinamismo plastico) gli spaziali vanno al di là di questa idea: né pittura, né scultura «forme, colore, suono attraverso gli spazi». Coscienti ed incoscienti in questa ricerca, gli artisti non avrebbero potuto raggiungere la finalità senza poter disporre di nuovi mezzi tecnici necessari e di nuove materie. Ciò giustifica l’evoluzione del mezzo nell’arte. Il trionfo del fotogramma, ad esempio, è una testimonianza definitiva per l’indirizzo preso dallo spirito verso il dinamico. Plaudendo a questa trasformazione nella natura dell’uomo, abbandoniamo la pratica delle forme di arte conosciuta ed affrontiamo lo sviluppo di un’arte basata nell’unità di tempo e dello spazio. L’esistenza, la natura, la materia sono una perfetta unità e si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il movimento, la proprietà di evoluzione e di sviluppo è la condizione base della materia; questa esiste ormai in movimento e non in altra forma, il suo sviluppo è eterno, il colore ed il suono sono i fenomeni attraverso il cui sviluppo simultaneo s’integra la nuova arte. Il subcosciente, dove si annidano tutte le immagini, che percepisce l’intendimento, adotta l’essenza e le forme di queste immagini, accetta le nozioni che informano la natura dell’uomo. Il subcosciente plasma l’individuo, lo completa e lo trasforma, gli dà l’indirizzo che riceve dal mondo e che l’individuo di volta in volta adotta. La società tende a sopprimere la separazione fra le due forze per riunirle in una sola forma maggiore, la scienza moderna si basa sull’unificazione progressiva fra i suoi elementi. Da questo nuovo stato della coscienza sorge un’arte integrale nella quale l’essere funziona e si manifesta nella sua totalità.

Pagina 28

Pop art

261567
Boatto, Alberto 1 occorrenze

Divisa fra la suspense e lo spreco dei colpi di scena, la continuità del fumetto traccia un crescendo di tensione; mentre qui è indispensabile che l’ansia e la sorpresa abbandonino il frammento e che esso appaia immobile, perfino quando una mano si affretta ad estrarre la rivoltella (La pistola più veloce, 1963).

Pagina 141

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267833
Dorfles, Gillo 1 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Il barocco ci ha diretti in questo senso, lo rappresentano come grandiosità ancora non superata ove si unisce alla plastica la nozione del tempo; le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati. Questa concezione fu la conseguenza dell'idea dell’esistenza che si formava nell’uomo, la fisica di quell’epoca rivela per la prima volta la natura della dinamica, si determina che il movimento è una condizione immanente alla materia come principio della comprensione dell'universo. Arrivati a questo punto dell’evoluzione la necessità del movimento è tanto importante da non essere più raggiungibile dalle arti plastiche ed allora quella evoluzione è continuata dalla musica e le arti entrano nel neo-classicismo, pericoloso pantano della storia dell’arte. Conquistato il tempo, la necessità del movimento si manifesta pienamente. Gli impressionisti sacrificano il disegno della composizione al colore-luce. Nel futurismo sono eliminati alcuni elementi, altri perdono la loro importanza restando subordinati alla sensazione. Il futurismo adotta il movimento come principio ed unico fine. Lo sviluppo di una bottiglia nello spazio, forme uniche della continuità dello spazio iniziano la sola e vera grande evoluzione dell’arte contemporanea (dinamismo plastico). Gli spaziali vanno al di là di questa idea: né pittura, né scultura "forme, colore, suono attraverso gli spazi." [Da Lucio Fontana, con opere dal 1931 al 1959, Edizioni della Conchiglia, Milano, 1959: Manifesto tecnico dello spazialismo.]

Pagina 195

Il cuoco sapiente

282532
1 occorrenze
  • 1871
  • Enrico Moro Editore
  • Firenze
  • cucina
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Mondate e tagliate a fette alcune rape, ponetele in un piatto, spargetevi sopra un poco di sale, copritele con altro piatto e lasciatele così per circa due ore, affinchè abbandonino alquanta acqua, la quale getterete via facendola scolare dal piatto. Mettete allora le rape in una casseruola con un pezzo di burro; fatele rosolare un poco, avendo cura di non lasciarle attaccare al fondo; aggiungetevi del sugo dì carne, se ne avete, o sugo di pomidori, e dopo pochi minuti di cottura versate il tutto nel brodo bollente, in cui farete allora cuocere il riso.

Pagina 063

La regina delle cuoche

308094
Prof. Leyrer 1 occorrenze

Mondate e tagliate a fette alcune rape, ponetele in un piatto, spargetevi sopra un poco di sale, copritele con altro piatto e lasciatele così per circa due ore, affinchè abbandonino alquanta acqua, la quale getterete via facendola scolare dal piatto. Mettete allora le rape in una casseruola con un pezzo di burro; fate rosolare un poco, avendo cura di non lasciarle attaccare al fondo; aggiungetevi del sugo di carne, o sugo di pomidori, e dopo pochi minuti di cottura versate il tutto nel brodo bollente, in cui farete allora cuocere il riso.

Pagina 122

Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile

631048
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Non è già con questo che essi abbandonino una parte della equità; mentre è coll' animo cioè con una vera volontà che essi sono obbligati di seguirla tutta. Se malgrado di questa loro piena volontà, per mancanza di cognizione o di potere, avviene che in qualche sua parte esternamente non la pratichino e non la realizzino; questa non è che una mancanza materiale, e non già morale; non seguono per questo meno tutta intera la equità. Ma v' ha di più. Siccome nissuno uomo è obbligato moralmente all' impossibile, così nissun uomo ha il diritto di chiedere l' impossibile dall' altro uomo. Se due facendo insieme una convenzione non possono trovare il giusto punto dell' equità, non debbono per questo venire a discordia, ma bensì sono obbligati di stringere la convenzione stessa secondo un' equità approssimativa. Questo è ciò che nasce continuamente nella vita umana. Supponete, che più persone debbano dividersi egualmente una grande eredità: egli sarà tante volte impossibile di fare le parti giuste di una esattezza matematica: le stime dei fondi non possono giammai essere che approssimative, perchè sono l' opera degli uomini; il credito dei debitori della massa anche esso non somministra che un dato di approssimazione; e può cagionare dei gravi sbagli. In somma l' eguaglianza matematica non si ha mai, nè si potrebbe conoscerla avendola: il diritto delle parti adunque non si estende ad esigerla; perocchè i diritti debbono essere sempre ragionevoli, e non possono esigere se non ciò che è possibile: e ciò appunto è quello che propriamente si chiama equità, per distinguerla dalla giustizia, colla quale si vede essere da questo esempio intimamente connessa. L' equità dunque si può dire che non sia se non se la giustizia in pratica; giacchè la giustizia speculativa si può rare volte ottenere nella pratica, e non potendo gli uomini d' altra parte chieder giammai l' impossibile, sono obbligati dalla ragionevolezza che debbe accompagnare i loro diritti, e che è pur essa un principio di giustizia, a restringere i medesimi a tutto ciò che è possibile, che è quanto dire, a cangiare ciò che è giusto in ciò che è equo, mentre il sommo diritto cessa d' esser diritto; ma, secondo il proverbio antico, diventa somma ingiuria. Or come nella giustizia propriamente detta consiste ciò che secondo la legge naturale si può prefiggersi per fine , così nella equità viene indicato quel mezzo onde secondo la legge naturale si debbe ottenere quel fine. Giusto è adunque il fine di una giustizia stretta , giusto è il mezzo di una giustizia che propriamente si chiama equità . Gli uomini sono obbligati da una legge morale di prefiggersi nelle loro convenzioni quel fine giusto; e perchè se lo debbono prefiggere efficacemente per ciò sono obbligati altresì di ottenerlo con questo mezzo giusto: la giustizia stretta nel fine: la equità nel mezzo di ottenerlo, ecco ciò che rende possibili fra gli uomini le convenzioni giuste. Applichiamo questi principŒ alla convenzione più estesa di tutte che possano far gli uomini, ossia alla formazione della civile società. Conviene prima di tutto nella formazione della medesima vedere quale sia il diritto che può reclamare in essa qualunque persona che si assembra e tratta insieme per parteciparne. Giacchè nessuna persona può essere costretta senza ragione a rinunziare ai proprŒ vantaggi, quindi è necessario prima di tutto vedere quali sieno i vantaggi che ciascuno può avere in detta società, quale il posto che ciascuno può convenevolmente occupare. Noi abbiamo fatto questa ricerca ed abbiamo riconosciuto che la parte che si può avere in detta società può essere di due specie che abbiamo contrassegnato coi vocaboli di rappresentazione passiva e di rappresentazione attiva: che la rappresentazione passiva conviene indistintamente a tutti gli uomini; mentre ragione vuole che non partecipino della rappresentazione attiva se non quelli che vivono sopra dei fondi di ricchezza materiale e ciò in proporzione di detti fondi. Questo pertanto è il fine giusto della società; fine nel quale debbono ragionevolmente convenire: e dico fine giusto perocchè nessuno dei membri sociali potrebbe esser costretto senza ragione a rinunziare ai vantaggi che a lui apportano le basi soprafissate: conciossiacchè sono ragionevoli e venienti come conseguenze dai diritti di ciascheduno. Questo fine pertanto debbe ciascun membro della società futura prefiggersi di ottenere nella istituzione della medesima, e non perderlo giammai dallo sguardo. Ma debbe tenersi in esso così costante lo sguardo per ottenersi pienamente? Non già: ma per ottenersi quanto più si può: mentre quand' egli si ottiene nel miglior modo che si può, si ottiene pienamente: giacchè la perfezione morale non consiste se non nell' uso di tutte le proprie forze per la consecuzione di ciò che è giusto, non già nell' ottenimento materiale di ciò che è giusto: questo si potrebbe ottenere senza aver fatto la giustizia. E` dunque un dovere della legge naturale la formazione della Convenzione civile nel caso da noi proposto: è un dovere della legge naturale volerla formare secondo le basi della giustizia di sopra da noi stabilite: finalmente è un terzo dovere della Legge naturale recedere dal proprio diritto in quella parte nella quale non si può ragionevolmente esigerlo dagli altri soddisfatto, perchè ciò sarebbe loro impossibile, come è impossibile esigere la esattezza matematica nella divisione di una possessione, di una casa, di uno stato. Ciò solo adunque che possono esigere scambievolmente gli uomini, che vogliono comporre insieme una civile società, si è che sia adoperata la maggiore esattezza possibile nella divisione del potere civile: ma nulla più: e per la maggiore esattezza possibile non altro debbesi intendere che quella che risultar può dai lumi comunicati di tutti i membri, e messi a profitto mediante l' esame dei SavŒ universalmente reputati per forza di mente, per provetto consiglio, e per integrità. Qualunque adunque sieno per essere nella pratica esecuzione degli articoli sopra esposti le deviazioni dai medesimi , queste debbono essere sempre accordate dalla Assemblea dopo che è stato dimostrato: 1 che esse sono necessarie per l' ottima consecuzione del fine sociale, cioè pel comune vantaggio; 2 ch' esse sono le deviazioni menome che far si possano, dati i lumi suggeriti dalle persone, che concorrono nella società civile da istituirsi. La esecuzione del sopraesposto progetto viene pienamente giustificata, quando avendo tutti i sozŒ ampia facoltà di comunicare i loro lumi nessuno di essi ha saputo suggerire di meglio: suggerire cioè degli espedienti che più dappresso s' avvicinassero all' esecuzione delle basi sopra poste di giustizia, e che diminuissero le deviazioni necessarie dalle medesime. Egli è da questo ragionamento che risulta la consolante verità « che l' uomo amatore della giustizia non debbe punto atterirsi dallo stabilire delle regole difficili all' esecuzione, ma che tutto ciò che è giusto per difficile ch' egli sia debbe essere tratto alla luce, ed ampiamente e coraggiosamente esposto: giacchè, perciò che abbiamo detto, tuttociò che è giusto è altresì possibile: purchè l' equità sia quella che s' interponga quasi mediatrice fra esso e gli uomini nell' esecuzione: quell' equità che consiste nel concedere le menome deviazioni da quelle regole: e che coll' accrescimento dei lumi concede sempre meno; perchè ritrova ognora degli espedienti migliori che minorano indefinitivamente quelle deviazioni, e conducono la pratica sempre più vicina indefinitivamente alla teoria. » Riassumendo le cose dette, la Commissione presentò in un nuovo aspetto quella parte di progetto della società civile da istituirsi, che finora aveva presentato all' Assemblea, e che difendendo passo per passo avea fatto adottare dalla medesima. Fece osservare che le due rappresentazioni proposte, cioè la passiva e l' attiva, la prima delle quali corrispondeva alla specie di diritti che è comune a tutti gli uomini, l' altra a quella specie di diritti che è propria dei benestanti, erano d' un' indole totalmente diversa: la prima aveva per iscopo la sicurezza , o difesa dei diritti; la seconda la ricchezza o l' aumento dei diritti, i quali erano quei due scopi a cui finalmente tendeva ogni civile società. Mostrò come la sicurezza o la difesa dei diritti era cosa partenente alla giustizia , e come la ricchezza o l' aumento dei diritti era cosa appartenente all' utilità : giustizia dunque ed utilità erano i due scopi suddetti della società che si trattava di istituire. Un potere adunque che trovasse o difendesse dove che sia la giustizia, ed un potere che cercasse e procacciasse l' utilità, erano i due perni su cui si volgeva tutta la società civile, a quel modo che la Commissione aveva creduto di progettarla. Questi due scopi erano al tutto necessarŒ da conseguirsi, e per l' umana dignità il primo più necessario ancora del secondo: dunque i due poteri che presiedevano a questi scopi erano supremi tutti due, e tutti due dovevano coesistere. Il potere che presiedeva alla giustizia non poteva avere altra forma che quella d' un Tribunale: il potere che presiedeva all' utilità non poteva avere altra forma che quella di un' Amministrazione: un Tribunale politico adunque ed un' Amministrazione erano i due poteri supremi della società; erano le due parti essenziali del governo della medesima. Questi due poteri, queste due parti essenziali del governo, il Tribunale politico e l' Amministrazione, corrispondono ai due modi dell' esistenza umana, cioè al modo di esistere come essere morale e al modo di esistere come essere sensibile: l' uomo esiste in tutti e due questi modi contemporaneamente: la società dunque degli uomini non può che avere anch' essa due modi di esistere, cioè un modo morale, ed un modo materiale e fisico: essa debbe essere mezzo che armonizzi queste due esistenze dell' uomo, e che nel mentre che essa procaccia di fare la felicità di lui come essere sensibile, non lo deteriori come essere morale. L' esistenza morale dell' uomo riguardo alle cose esterne che possono essere oggetto della civile società, viene conservata nella sua integrità mediante la giustizia, e per ciò mediante un Tribunale politico che a questa presiede; l' esistenza sensibile dell' uomo viene conservata e migliorata da una saggia amministrazione dei suoi beni, e perciò anche da una Amministrazione sociale che regola la modalità dei medesimi. L' esistenza risulta da una forza: come adunque v' ha esistenza morale ed esistenza sensibile dell' uomo, così vi ha una forza morale ed una forza sensibile. La forza morale si manifesta nell' uomo dalla reazione ch' essa fa contro tutto ciò che tenta di deteriorare nell' uomo l' esistenza morale: la forza sensibile si manifesta nella reazione che fa a tutto ciò che tenta di nuocere alla sua esistenza sensibile: nella società giocano le stesse forze, e reagiscono in tutte le direzioni: fa dunque bisogno di regolarizzarle perchè non la turbino, e questa regolarizzazione s' ottiene coll' instituire due centri delle medesime, i quali possano agire regolarmente ed ordinatamente: e questi due centri delle due forze elementari dell' uomo e della società sono le due parti elementarŒ del supremo potere: Tribunale politico, centro della forza morale nella società: Amministrazione, centro della forza sensibile o fisica nella medesima: nel primo si esercita ordinatamente, ma colla sua maggior attività la forza morale; nel secondo si esercita colla sua maggior attività la forza sensibile o fisica. Ecco la società civile corrispondente ai bisogni indeclinabili della natura umana. Da ciò la Commissione ne trasse come conseguenza massima: che la maggior cautela dovesse essere conservata, perchè nel Tribunale, centro della forza morale, non si mescolasse di nulla la forza sensibile e fisica: e finalmente credette venuto il punto da presentare all' Assemblea il Progetto del detto Tribunale già precedentemente apparecchiato (Lib. I) il quale progetto diligentemente esaminato da una Giunta apposita e dall' Assemblea stessa, fu finalmente ammesso. L' articolo delle elezioni per la composizione del Tribunale, che si doveva discutere, tornava più difficile a stabilire, che quello sulle elezioni dei membri dell' Amministrazione, poichè per costituire un membro dell' Amministrazione si aveva un dato materiale, qual' era la ricchezza materiale che bastava verificare: all' incontro per eleggere un membro al tribunale politico, nella cui elezione non si doveva riguardare ad altri dati che alla virtù ed alla scienza, non si aveva nulla di esterno, che potesse prestare una certezza fisica, e che escludesse ogni controversia; per cui anzichè ai dati esterni conveniva rimettersi in tali elezioni all' opinione, o sia all' intimo senso degli elettori. Nulla di meno la ricognizione della ricchezza come titolo del diritto di rappresentazione attiva, o sia come titolo al potere amministrativo, ammetteva naturalmente molte frodi, ed eccitava infinite controversie, mentre tutti i benestanti aspiravano ad acquistar la maggior parte possibile del potere civile. Ciò vedendo la Commissione, e dalle dissensioni che nascevano assai chiaramente scorgendo che non era possibile di farli convenire fra di loro, anzi che avanzandosi le discordie minacciava di sciogliersi l' Assemblea senza far nulla, prese il partito di proporre all' Assemblea la seguente proposizione: « Sieno sospesi tutti i negoziati per instituire l' Amministrazione sociale, e si proceda prima all' instituzione del Tribunale politico, innanzi al quale ognuno potrà poscia presentare le ragioni ch' egli ha di partecipare al potere, o sia lo stato della ricchezza ch' egli possiede, e dietro la ricognizione che farà della medesima il Tribunale, ciascuno prenderà il posto che gli spetta nell' Amministrazione sociale. » Essendosi riconosciuta l' equità della proposizione si rivolse l' animo alla composizione del Tribunale politico, che si realizzò secondo il metodo preso dietro alle successive proposte della Commissione. La sola qualificazione che si richiedeva, secondo i principŒ posti, per essere membro del Tribunale politico, consisteva, dopo la libertà, in un grado universalmente riconosciuto come eminente d' integrità e di scienza. In tal modo l' uomo il più misero poteva essere sollevato a quella parte del supremo potere che consisteva in un tal Tribunale. Nè solo tutti i liberi, proprietarŒ e non proprietarŒ, potevano esser chiamati a questo genere di dignità: ma ben ancora questo Tribunale era fatto per tutti egualmente: proteggeva i diritti di tutti, ed in cospetto a lui tutti erano eguali. 1) Ciò premesso, gli elettori dei membri di questo Tribunale doveano dare il loro voto come uomini, e non come ricchi, o come forniti di qualche accidentale differenza dai loro simili; dovevano darlo come esseri morali, e in stretta coscienza, sotto il più grave giuramento. Ma quali dovevano essere questi elettori? Tutti quelli di lor natura che potevano considerarsi come esseri morali, tutti gli uomini giunti all' uso di ragione. Questa fu l' idea generale seguita dalla Commissione, e suggerita dalla natura del detto Tribunale. Ma nel tradurla in una legge fu cauta di non obbliare le relazioni naturali, che legavano insieme gli uomini, e dalle quali, in qualunque circostanza questi si trovassero, non potevano prescindere: che perciò dovevano conservarle anche nello stato di elettori dei membri al politico Tribunale. La legge adunque proposta dalla Commissione sugli elettori del Tribunale politico fu distinta negli articoli o paragrafi seguenti: 1 I voti sono tanti quanti gl' individui nella società: quelli che non sono in possesso dell' uso della ragione lo danno mediante i genitori, od i tutori, o i curatori. 2 Ciascuno che è ammesso a dare da sè il voto elettivo non può delegare alcun altro a questo ufficio, senza stretta necessità. 3 Tutti i capi di famiglia hanno il diritto e il dovere di dare il voto elettivo. 4 Le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei padri: i mariti danno, oltre al proprio, un voto per la moglie; ed i padri e le madri vedove oltre il proprio danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli di qualunque età sieno. 5 Dopo instituito il Tribunale le mogli ed i figliuoli non emancipati possono essere abilitati dal Tribunale medesimo al diritto di voto, quando ciò esigano per giuste cause contro i mariti ed i padri, o le madri vedove. 6 I servi hanno il diritto ma non il dovere del voto. Discutendosi il primo articolo di tal legge taluno disse che sembrava dover essere necessario negli elettori non solo l' uso della ragione, ma l' età maggiore. La Commissione osservò contro tale obbiezione che nell' uomo non si esigeva già egual grado di ragione per qualunque operazione ch' egli facesse: che coll' età maggiore veniva dichiarato abile ad amministrare il suo patrimonio: il che richiedeva maggiore cognizione e capacità che non sia a dare il voto di cui si tratta; poichè lo scopo di questi voti non è solamente quello di ritrovare le persone più scienziate e virtuose, ma oltre di ciò di trovare in particolare le persone più ben amate, le più benevole, le persone cioè che non abbiano particolari avversioni ed inimicizie: quindi il voto si debbe considerare anche come una dichiarazione, che la persona votata si riguarda come benevola e affezionata: su di che può recar giudizio chi che sia in possesso dell' uso della ragione. Fissandosi l' età maggiore per qualificazione dell' elettore si escluderebbero molti arbitrariamente di quelli che pur avrebbero diritto di votare, e la deviazione dalla rigorosa giustizia non sarebbe la menoma: non sarebbe dunque equa tale arbitraria esclusione. In conferma del secondo articolo la Commissione dimostrò il danno che ne avverrebbe, se si rendesse possibile di accumulare arbitrariamente molti voti in una stessa persona: accumulazione contraria all' intima natura della istituzione; poichè essa è basata sul principio che tutti gli uomini sono giuridicamente eguali; cioè che tutti gli uomini sono egualmente esseri morali. Il voto che si dà è fornito di tre caratteri, e fa tre ufficŒ diversi: 1 rappresenta l' essere morale , ossia i diritti essenziali dell' uomo; 2 esprime un giudizio sulla scienza e virtù dei candidati ed esprime insieme il desiderio , o affezione generale dei candidati: affezione che è il segno della mutua loro benevolenza; 3 finalmente è un atto di autorità e di forza morale, che ha le sue conseguenze esterne, nel modo onde segue l' istituzione. Ora egli è da tenersi qual principio fondamentale « che il perdere alcuno di questi tre effetti del voto senza ragione è dannevole alla società, e rende difettosa l' istituzione. » Ciò posto, se non s' impedisce l' accumulazione arbitraria dei voti, si vanno a perdere i due primi ufficŒ del voto e a guastare il terzo. In fatti il primo suo officio, come diceva, è quello di rappresentare l' essere morale , o sieno i diritti essenziali dell' uomo. Ora in quanto a questo officio egli è assurdo che un uomo possa dare due voti; mentre non è che un solo essere morale. Non è dunque possibile che un uomo deleghi un altro a dare il voto per lui; mentre qualunque voto desse questo secondo non sarebbe che l' espressione del proprio giudizio e non quello dell' altrui; egli è dunque necessario che ciascuno che dà il voto lo dia da se stesso; come è necessario che un uomo che pensa, pensi da sè stesso: e sarebbe assurdo affermare che si pensa per la ragione che v' ha un altro che pensa. Medesimamente il voto per delegazione non supplisce al suo secondo ufficio e in quanto a questo ufficio è pure di natura sua inalienabile. Questo voto riguardo al suo secondo effetto è un giudicio che si dà sui candidati. Ora il giudicio di una persona non può essere che uno. Quando io ho ricevuto da una persona il suo consiglio in un affare, è assurdo il pretendere ch' esso me ne dia un altro; mentre sarebbe pur un consiglio solo ripetuto due volte, e non mai due consigli. I voti adunque degli elettori sono tanti consigli o giudicŒ, e perciò niuno di essi può avere il diritto di darne più che un solo; perchè ha una mente sola, una volontà sola, ed è un uomo solo. Finalmente egli è vero che considerati i voti come meri atti di autorità si possono di loro natura accumulare, ciò che la Legge riconosce riguardo ai padri, ai mariti ed ai tutori. Ma questa accumulazione quando fosse arbitraria porterebbe alterazione nella Costituzione sociale; perocchè i ricchi potrebbero comprare in tal modo i voti dei poveri, e gl' ignoranti sacrificare se stessi alla altrui avidità: in tal caso il Tribunale politico non otterrebbe più il sacro suo scopo di opporre una forza morale agli abusi della forza fisica; di difendere cioè tutto ciò che è debole nella società contro tutto ciò che in essa è forte. Il terzo articolo incontrò opposizione in ciò che parve aggravarsi di un peso i capi di famiglia coll' obbligarli a dare il voto. Ognuno, fu detto, debbe poter rinunziare quand' egli voglia al proprio diritto. Rimane forse offeso qualcheduno perchè altri rinunzia al diritto che possiede? Se alcuno rinunzia al proprio diritto, gli altri lungi dal perdere ne guadagnano; perocchè approfittano del diritto abbandonato. Ma quelli che così parlavano non si accorgevano, come fece osservare la Commissione, che non si trattava di una società civile a quel modo ch' ella si trova instituita presso varŒ popoli, in cui vi fossero già delle persone che s' incaricassero di tutte le incombenze che la società civile porta con sè, sicchè il resto dei cittadini ne rimanesse al tutto scarico. Nella società civile all' incontro che volevasi instituire era necessario, che fosse stabilito parimenti fra i membri un corpo di persone che assumessero sopra di sè, come dovere, le incombenze della medesima, perchè queste non fossero lasciate ad arbitrio, o commesse alla ventura. Che riguardo a quest' incombenza particolare di eleggere il Tribunale politico era necessario di stabilire un corpo di elettori stabile: ed era necessario che questi s' obbligassero a ciò: affinchè per una continua titubanza nel numero e nella qualità degli elettori la società stessa non perisse, o almeno il Tribunale politico riuscisse a non essere più l' espressione della volontà di tutti, ma l' espressione della volontà casuale di pochi. In questo secondo caso egli potrebbe fors' anco esistere il diritto, giacchè col non venire all' elezione di molti, questi si rimetterebbero tacitamente al volere dei pochi, quando ciò fosse da principio accordato: ma egli non esisterebbe veracemente di fatto: egli non potrebb' essere nè amato nè venerato; giacchè per esserlo, tutti i cittadini debbono veder in esso l' opera propria. Finalmente che cosa si cerca in tal' elezione? si cerca forse l' instituzione di un Tribunale solamente? non già, ma si cerca di ottenere l' instituzione del Tribunale il più sapiente, il più integro, il più ben voluto, il più autorevole, il più rispettabile. Questo si può egli ottenere, se non mediante il parere della maggior parte al meno della nazione? se adunque vengono a mancare dei voti dei padri di famiglia, vengono a mancare insieme dei lumi per ciò ottenere: vengono a mancare dei pareri e dei voleri; viene a mancare insomma parte dell' opinione pubblica. Ciò nuoce di certo allo scopo dell' instituzione: si rende adunque necessario che la società non sia privata dei voti dei capi di famiglia, e questo è un obbligo che si debbono assumere dal punto che vogliono unirsi in una società civile equamente ordinata, altrimenti sarebbero in contraddizione con se stessi. Si domandò che cosa dovevasi intendere per capo di famiglia; e dopo varie proposte fu convenuto, di estendere la definizione del capo di famiglia a qualunque persona libera che non fosse soggetta all' autorità paterna o materna, maritale, o tutelare o curatoria. 1) Maggiore dibattimento cagionò il quarto articolo, col quale si escludevano dal dare il loro voto a parte le mogli ed i figliuoli, perchè si consideravano i voti di questi compresi in quelli dei mariti e dei padri; e si dava all' incontro al marito il voto della moglie, al padre i voti dei figliuoli. Le ragioni di questo articolo altre riguardano la prima parte, ed altre la seconda del medesimo. Cominciando dalla seconda parte essa dice, che i mariti « oltre il proprio, danno il voto per la moglie, ed i padri, oltre il proprio, danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli. » Il voto, considerato come un atto d' autorità, spiega questa seconda parte, supposto la prima ammessa: poichè non conveniva che una famiglia numerosa avesse un solo grado di potere (giacchè un atto d' autorità è un grado di potere) come una famiglia formata da una sola o da due persone. Poichè nella famiglia numerosa vi sono tanti più diritti da difendere e da rappresentare quanto è maggiore il numero delle persone che la compongono. Perchè adunque gli uomini fossero trattati con quella eguaglianza che richiede la natura della istituzione conviene che i voti stieno in ragione del numero delle persone componenti la famiglia. Si oppose che i padri poveri, i quali non hanno da alimentare i loro figliuoli, non debbano avere il vantaggio di dare i voti pei medesimi. Ma si osservò ancora che ciò che dava al padre simil diritto era l' esser padre, e non l' esser ricco: e che come la società civile non poteva fare che non fosse padre, così non doveva neppure negare al medesimo ciò che nasceva dalla sua paternità; il pieno diritto sopra i suoi figliuoli. La prima parte dell' articolo quarto diceva: « che le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei genitori. » L' opposizione esagerò il pericolo, che i padri e i mariti abusassero di tale autorità, disse che riunendo nei padri e nei mariti i voti dei figliuoli e delle mogli si privava la società di un maggior numero di consigli; e si accumulava in un solo uomo, cioè nel capo di casa, troppa autorità ed inadatta, perchè il Tribunale doveva essere costituito anche contro gli abusi della potestà paterna, e della maritale; che si deviava con ciò dal principio che rispetto a questo Tribunale tutti gli uomini fossero uguali, giacchè con tale accumulazione di voti si considerava il padre fornito di più voti, ed i figliuoli privi di tutti. Ma la Commissione all' incontro: Non si debbe intendere nel modo degli opponenti il principio che il Tribunale considera gli uomini tutti eguali. Questa uguaglianza comincia solo allora che due parti vengono fra di loro in discordia: prima di questo tempo le persone nulla hanno a fare col Tribunale; ed elle sono rispetto al medesimo come se non fossero. Il Tribunale adunque non altera punto le relazioni naturali fra gli uomini: e se li suppone eguali ciò è nel solo punto della discordia, innanzi cioè che si sappia a cui delle due parti appartenga il diritto conteso. Se dunque il Tribunale non altera punto le relazioni naturali degli uomini, che pacificamente si riconoscono e si conservano; ma solo interviene allorquando accade che qualche punto non sia riconosciuto o venga messo in questione, sarà da vedere quale naturale e riconosciuta relazione soglia trovarsi tra i genitori ed i figli, tra le mogli ed i mariti; e secondo il detto d' un savio antico, ciò che è naturale dovrà cercarsi non già nella depravazione, ma anzi nella integrità della natura. 1) Ora considerata l' indole della famiglia non depravata, noi troveremo la volontà dei figliuoli essere al tutto indivisa da quella dei padri, e la volontà delle mogli essere al tutto indivisa da quella dei mariti. E` l' amore che di più volontà ne forma una sola: e questo amore non solo è naturale, ma ben anche è doveroso. La società civile adunque debbe riconoscerlo, la società civile debbe sancirlo: egli è uno stretto dovere del figliuolo di convenire fino agli estremi della onestà col volere dei suoi genitori, come è un dovere della moglie di uniformarsi al volere del marito. D' altro lato i genitori, come fu già osservato, hanno sopra i loro figli un diritto, non già arbitrario, ma tuttavia illimitato, cioè che dalla parte dei figli non ha coazione reattiva. Se dunque viene istituito il Tribunale per tenere nei suoi doveri gli stessi genitori, questo tuttavia non viene ad istituirsi che mediante la ragionevolezza degli stessi genitori: questi sono quelli che da un prudente timore della propria fragilità sono indotti a sottomettersi a un Tribunale: prendendo nel tempo di calma una tale risoluzione, che può raffrenarli nel tempo dell' agitazione, e contenerli dagli eccessi. Egli è dunque conforme alla natura della cosa che i voti dei figliuoli sieno dati dai padri, il qual discorso, sebbene non si possa applicare con tutto rigore alla condizione dei mariti, perchè le mogli hanno almeno il diritto sulla propria vita, tuttavia può applicarsi in parte per la strettezza del nodo maritale. Che se i padri ed i mariti operando contro la loro naturale relazione tiranneggiassero i figliuoli e le mogli, questi dopo l' instituzione del Tribunale potrebbero secondo il quinto articolo far riconoscere dal medesimo la propria causa ed acquistare il diritto di voto separato: poichè in questo caso di disunione comincierebbe l' azione del Tribunale, e dall' istante che comincia quest' azione le persone legate insieme diventano relativamente alla medesima uguali. Egli è vero che ciò non può aver luogo nella prima instituzione del Tribunale, nel qual tempo il Tribunale ancora non esiste a cui richiamare; ma questa piccola irregolarità, di natura sua inevitabile, non è che una di quelle deviazioni che si fanno dalla rigorosa giustizia per mezzo della equità, la quale, come dicevamo, è la sola giustizia pratica. La proposizione all' incontro fatta dagli opponenti, che i padri raccogliessero i voti dei loro figliuoli ed i mariti quel delle mogli, costituirebbe e autorizzerebbe legalmente una falsa posizione dei padri rispetto a' figliuoli, e dei mariti rispetto alle mogli: perocchè i figliuoli che vedono costantemente il padre aver bisogno de' loro voti, si formerebbero e con ragione, un' idea di eguaglianza fra sè ed il padre, e la moglie fra sè ed il marito, mentre l' idea che i figliuoli debbono avere del padre è, come dicevamo, quella di una superiorità, arbitraria no, ma sì illimitata: cioè tale che non vi sia nessun caso in cui essi credano: d' avere all' esterno qualche diritto, qualunque egli sia, indipendentemente dal padre: e così pure l' idea che la moglie debbe formarsi del marito si è di un' autorità amorevole, dalla quale essa non avvenga che mai dissenta in nessuna delle esterne relazioni. Coll' introdurre adunque nella famiglia un tal simbolo di eguaglianza fra il padre ed i figliuoli, la moglie ed il marito, si altererebbe la costituzione naturale della famiglia, si introdurrebbe in essa una eguaglianza costitutiva in luogo dell' eguaglianza giuridica: e l' elemento democratico, che nel Tribunale politico debbe apparire soltanto in quel punto che nascendo una discussione o dissensione fra due parti, queste debbono comparire al suo cospetto per riceverne la sentenza, ciò che è quanto dire, che debbe comparire soltanto nelle accidentali irregolarità, si trasporterebbe e pianterebbe nello stesso corso regolare alterando in tal modo l' ordine legittimo e naturale. A mal grado di tutto questo ragionamento il principio che fosse meglio prevenire i disordini anzichè emendarli dopo avvenuti, faceva impressione sull' Assemblea, e la inclinava dalla parte degli opponenti; giacchè pareva che col dare a' figliuoli ed alle mogli un voto separato, si evitasse l' abuso che potevano fare i mariti ed i padri della loro autorità. Per il che la Commissione, movendo da più alti principŒ il suo discorso: Pretenderete voi, disse, di esser più savŒ o più potenti dell' autore della natura, il quale stabilendo l' autorità paterna e la maritale le ha fatte di una tanta estensione di quanta voi essere la scorgete? si è egli trattenuto dal concedere ai padri ed ai mariti tanta autorità quanta essi hanno pel timore che ne facessero abuso? E se a malgrado del pericolo che v' era di questo abuso, tale e tanta la diede loro, non è ciò segno che doveva più giovare assai questo forte grado di autorità, che non nuocere tutta quanta la possibilità degli abusi? sì, nuocono gli abusi: ma nuoce anche diminuire il grado dell' autorità di cui s' abusa: conviene ricercare quale più nuoca. Dio l' ha deciso: ha permesso gli abusi anzi che togliere l' autorità. Questa l' ha lasciata in tutta la forza del suo diritto: quelli li ha raffrenati con una legge morale, ma non giuridica. Imitate dunque l' autore della natura. Potrete anzi non imitarlo? avrete autorità di derogare a ciò che egli ha stabilito? Non sapete voi che contro alla legge naturale tutta la legislazione umana è nulla e irrita per sè stessa? Orsù accingetevi della vostra autorità, e fate se potete, che il padre non sia padre, e il marito non sia marito. Se voi convenite insieme di dichiararli decaduti dai loro diritti, la vostra dichiarazione arbitraria varrà al più al più fino che voi vivrete: i padri ed i mariti che succederanno dopo di voi, riprenderanno il loro potere, e non si crederanno, con ragione a dir vero, obbligati ad una disposizione arbitraria dei loro precessori. Introducendo adunque una tale disposizione contro natura nella costituzione della società, non fareste che render fragile questa costituzione, e di una esistenza momentanea, come è momentaneo l' arbitrio degli uomini, mentre dovete procacciare di renderla ferma e stabile quanto è stabile la natura. Non gettate adunque nella costituzione sociale quei semi che fruttano la dissensione fra i vostri posteri e le turbazioni dello Stato. Per quello che voi dite, che i mali si debbono anzi prevenire che emendare dopo avvenuti, questo è vero fino che si può: ma havvi un limite oltre al quale non si può. Vorreste voi prevenire i mali col fare voi stessi dei mali, o almeno coll' occasionarne degli altri in futuro? Ecco il limite che aver debbe la vostra proposizione, che sia meglio prevenire colle istituzioni i mali, che emendarli dopo avvenuti. Le istituzioni sociali, che non hanno di lor natura altro scopo che di prevenire i mali, sono eccellenti; perchè lo scopo loro è lodevolissimo, e tali sono le leggi, ed i Tribunali criminali. Ma quando si vuol piegare al fine di prevenire i mali quelle istituzioni che di loro natura hanno anche un altro scopo, allora si va bene spesso a pericolo, che volendo con queste ottener due fini, non se ne ottenga nè pur uno, e che lusingato l' autore di quella instituzione da questo fine accessorio di evitare tutti i mali che l' instituzione può nel suo andamento produrre, perda interamente di vista lo scopo stesso della instituzione. Le instituzioni civili di questo secondo genere sono tutte quelle che si propongono di regolare i diritti scambievoli degli uomini pel massimo vantaggio possibile dei medesimi. Il maggior vantaggio possibile che ciascuno può trarre dai suoi diritti è lo scopo naturale di tale instituzione. Ora se il legislatore troppo minuto o troppo materiale in luogo di tener sempre fisso col pensiero questo scopo si ferma ad ogni istante a considerare tutti i pericoli possibili che l' instituzione trae seco, e se vuole a tutti mettervi un riparo, egli avverrà indubitatamente che un poco alla volta leghi i diritti di tutti gli uomini, ed anzi continuamente li diminuisca e li distrugga; perocchè non v' è nè pure un diritto che non porti seco il pericolo del suo abuso. Le instituzioni di un tale legislatore riescono tutte false: alterano tutta la naturale posizione degli uomini, e la società civile acquista un organizzazione complicata, e tutta angustiata da vincoli inesplicabili; le leggi si moltiplicano immensamente senza necessità; perocchè ciascuna legge ne chiama delle altre all' infinito, giacchè nel mentre ch' essa vuol rimediare ad un disordine, contorce il naturale stato delle cose, e ne produce infiniti altri. Questo disordine nell' organizzazione sociale, questa falsità nelle istituzioni si scorge da per tutto dove la società sia caduta in una grande corruzione. In tal caso la corruzione sociale strascina lo stesso legislatore, per quanto avveduto egli sia, a delle instituzioni totalmente false; perocchè non v' ha uomo d' ingegno, che posto in una posizione falsa, non sia costretto di fare dei passi falsi. Nella società corrotta gli abusi che gli uomini fanno dei loro diritti si rendono assai frequenti, sì che chiamano con gran forza a sè il legislatore; la loro frequenza arriva a segno che se non viene compressa, minaccia di sovvertire la stessa società, ed è allora il caso che richiama a sè la principale sollecitudine del legislatore: allora è il caso in cui il legislatore concentra il suo studio nel prevenire mediante le sue instituzioni gli abusi, e crede di aver toccato l' apice della sapienza politica, quando è arrivato a persuadersi che il suo ingegnoso ritrovato soddisfi a questo fine. Egli è però impossibile che vi soddisfi pienamente; perciocchè quel mezzo ingegnoso con cui egli ha pensato di ovviare ai disordini, quelle sue instituzioni, che ha tutte ad un simile fine ordinate, sebbene partano dal principio che gli uomini per cui sono fatte sieno cattivi, tuttavia non possono mai supporre una perversità illimitata; tutta la loro lode consiste nell' esser formate da un uomo esperimentato che ha saputo ben conoscere fino al fondo gli uomini del suo tempo, e che ha vedute e calcolate tutte le loro malizie. Non poteva però vedere né immaginare quelle malizie che gli uomini non avevano ancora inventate, giacché il germe che produce tali frutti è di una fecondità inesausta. Egli è per questo che non v' ha istituzione o legge che non possa essere ben presto elusa da un maggior grado di corruzione. Ed egli è da attribuirsi a questa crescente corrutela in gran parte il continuo assottigliarsi dei politici dei nostri tempi, ed il continuo mutar di sistema, condotti da una speranza che continuamente gl' inganna, di giungere all' invenzione di un' organizzazione sociale, che antivegga e preoccupi tutta l' umana perversità. I sistemi politici foggiati su tale principio relativi al tempo in cui sono fatti, ed al grado di corruzione di cui sono arrivati i loro autori a formarsi l' idea, durano un breve tempo, cioè fino che subentra una politica ancora più diffidente, la quale o si rende odiosa, se gli uomini prendendo un andamento favorevole alla moralità trovino infine di vivere sotto instituzioni che li superano nella malignità, ovvero diventa inutile se procedendo gli uomini nella malizia lasciano a dietro in questo miserabile corso la legge che li governa. Ma intanto, come diceva, che le leggi e le istituzioni politiche sono unicamente occupate nel prevenire i mali eventuali che può opporre contro di esse la umana perversità, insensibilmente si snaturano e perdono di vista totalmente lo scopo sostanziale della loro esistenza. Vorrete voi rimediare ai mali eventuali dell' unione maritale? Se soverchiamente siete di ciò solleciti, stabilirete il divorzio, ecco snaturata l' unione maritale. Volete voi prevenire tutti i mali dell' abuso dell' autorità paterna? legherete le mani al padre: ed ecco snaturata la relazione fra padre e figlio. Se un Maestro insegna ai suoi discepoli una scienza, v' è il pericolo ch' essi deferendo troppo alla autorità del maestro apprendano più colla memoria che coll' intelletto. Voi eviterete questo male se ordinerete che ciascuno debba imparare da se stesso senza maestro; ma nello stesso tempo renderete ignoranti tutti gli uomini. Vi dà soverchio timore che il Generale abusi del suo potere sull' esercito? Se voi farete un' instituzione che metta disunione o diffidenza delle armate verso i loro generali distruggerete l' effetto delle militari ordinanze. Il ricco può abusare delle sue ricchezze: prescrivetegli l' uso ch' ei ne debbe fare: voi avete violato il diritto di proprietà: si può dire la stessa cosa analizzando tutti i diritti grandi e piccoli, che sono in mano degli uomini, perchè non ve n' ha alcuno di cui essi non possono abusare. E` dunque da osservare diligentemente qual sia la natura delle instituzioni sociali. Sono esse tali che determinano in se stesse la relazione che hanno gli uomini fra di loro, e determinandola la corroborano, ed è egli questo il loro scopo? In tal caso non si debbono esse contorcere e guastare per ovviare agli abusi a cui sono soggette tali relazioni per altro naturali degli uomini: esse si debbono lasciare intatte, sicchè sieno espressioni fedeli di dette relazioni naturali, e non si alterino punto: e quando ci sia il caso per levare gli abusi delle medesime, si debbono attorniare di altre instituzioni rivolte a questo fine particolare senza che guastino quelle e le contraffacciano. Generalmente parlando adunque sono da distinguere le instituzioni sociali, le quali contengono un' espressione fedele dei diritti naturali, ed hanno per iscopo la prosperità dei medesimi, dalle instituzioni sociali, che sono rivolte unicamente a prevenire i disordini: questi due scopi di far fiorire i naturali diritti fra gli uomini e di prevenirne i disordini, non si debbe congiungerli insieme, non si debbe pretendere di conseguirli con un solo genere di instituzioni, mentre è ben raro che un' instituzione sola possa conseguire ambidue questi scopi, e di solito conviene proporsi di conseguire il primo scopo, cioè quello che sostiene e fa fiorire i diritti naturali degli uomini con un genere di instituzioni, le quali si potrebbero nominare stabilitive: e di conseguire il secondo scopo, cioè di evitare gli abusi dei diritti umani, con un altro genere a parte d' instituzioni le quali si potrebbero chiamare preventive e repressive , che sono d' un carattere totalmente diverso dalle prime. Le instituzioni false dunque nascono allorquando si contorcono le instituzioni stabilitive 1) dal naturale scopo di far fiorire e di dar risalto, anzichè di reprimere i diritti degli uomini, ad ottenere lo scopo proprio delle instituzioni preventive o repressive; cioè a prevenire i delitti degli uomini. Egli è vero, come diceva, che quando la società trovasi estremamente corrotta, il legislatore è costretto di fare delle instituzioni false; 1) è costretto di confondere quei due generi d' instituzioni in un solo: quei due scopi delle medesime in un solo; cioè in quello tendente colla repressione degli abusi a salvare la società. Egli è costretto a ciò perciocché le instituzioni stabilitive sono di loro natura non solo inutili per una tale società, ma ben ancora nocevoli: conciossiacchè esse danno risalto ai diritti degli uomini, e dando risalto ai loro diritti non fanno che accrescer loro le occasioni di abusarne. In una tanto deplorabile posizione gli uomini vengono ad essere giovati coll' esser privati dei loro beni: ed è il tempo in cui la tirannia si proclama come la benefattrice del genere umano! Le instituzioni false esprimono o suppongono che gli uomini sieno in relazioni false fra loro: se gli uomini non hanno fra loro queste false posizioni, le instituzioni false a poco a poco ve le introducono; se queste relazioni false già vi sono fra gli uomini, esse producono a vicenda le false instituzioni e le false leggi. La schiavitù antica era una falsa relazione fra gli uomini: essa doveva produrre tutte quelle false leggi e quelle false instituzioni, che si rendevano necessarie per farla fiorire e per invigorirla: quelle che mettevano in salvo il padrone dalla disperazione dei suoi schiavi: quelle ancora che dalla morte degli schiavi autorizzavano di cavare dei giuochi e delle pubbliche ricreazioni. Non v' ha nessun falso diritto, o sia nessuna falsa relazione degli uomini fra di loro che non abbia portato in conseguenza delle false instituzioni e delle false leggi. All' incontro delle false leggi e delle false instituzioni producono sempre delle relazioni false fra gli uomini, se essi vivono per lungo tempo soggetti alle medesime; ma rare volte sono durevoli, mentre quando la instituzione non va d' accordo colle relazioni fra gli uomini, se questi hanno qualche energia nel loro carattere, si ribellano alle medesime e le distruggono: ed è questo che vi diceva quando avvertiva, che portando voi l' eguaglianza costitutiva nelle famiglie colla legge proposta fareste una instituzione che non poteva durare a lungo, e che avrebbe portato il turbamento nella società, giacchè nissuna instituzione fondamentale viene mutata senza scossa: ma la società stessa vien tirata nella rovina della instituzione che si vuol distruggere fino che sulle proprie rovine di bel nuovo si costruisca. Egli è vero, lo ripeto, che i legislatori sono costretti a delle istituzioni false, allorquando la società è estremamente corrotta; in tal caso tutta l' attenzione del legislatore viene tratta a difendere la società dal suo esterminio, e non a costruirla a norma della sua naturale perfezione: a quello stesso modo che la regola di vita migliore per la salute dell' uomo, nel suo stato naturale, non può esser già quella che si usa con un uomo corroso in più parti da fare cancrene. Ma, se tali instituzioni, che si possono dir false ogni qualvolta si applicano a regolare una società di uomini nel suo stato naturale e non nello stato di corruzione, sono in quest' ultimo stato necessarie, esse però non possono giammai essere che temporanee, cioè fin che dura il morbo della società, il quale nelle nazioni cristiane non è incurabile giammai, conciossiacchè il carattere proprio di queste nazioni è quello di essere sanabili. 1) Ora io spero che non si tratti di fare fra di voi una instituzione temporanea, ma costante com' è l' umana natura. Lo stato di questa gente che si vuole insieme associare non è già quello di corruzione sociale; ma è uno stato di natura in cui gli uomini non sono legati insieme per falsi vincoli: in cui la ragione non è ottenebrata da vizŒ, o non è per una somma ignoranza impotente: 2) in cui finalmente l' onestà e la giustizia non sono voci vane che si usino come mezzi ad ingannare od a tradire, ma sono voci che parlano al cuore di tutti, mediante le venerande idee che in quelli risvegliano. Se adunque i mariti ed i padri abusano della loro autorità, questi abusi non possono essere che accidentali e minori di numero dei casi in cui non abusano: questi casi dunque particolari di abuso non danno diritto alla società civile di legare la stessa autorità (ciò che d' altronde far non potrebbe validamente) ma lasciando quella sussistere, danno il solo diritto di ovviare gli abusi con delle instituzioni particolari ed a tal fine appositamente ordinate. Se delle instituzioni costituissero l' autorità dei padri e dei mariti in un modo diverso da quello che tale autorità è costituita dalla natura, queste sarebbero instituzioni false: cioè sarebbero instituzioni, stabilitive , ossia che stabiliscono una relazione fra gli uomini, le quali si rivolgerebbero ad un altro scopo diverso da quello della loro natura, allo scopo vale a dire di ovviare gli abusi della detta relazione fra gli uomini e così si snaturerebbero, mentre per ottenere un tal fine verrebbero a stabilire la detta relazione fra gli uomini in un modo diverso da quello che la stabilisce la natura: si allontanerebbero in tal modo dal fine proprio per conseguire il fine delle instituzioni di un altro genere cioè delle instituzioni preventive e repressive . Ad ovviare dunque gli abusi dell' autorità paterna e maritale debbono rivolgersi delle instituzioni apposite, le quali non apportino un colpo sopra dette autorità, la cui natura in somma consiste appunto nell' essere preventive e repressive, senza essere stabilitive, o almeno senza stabilire nissuna relazione falsa fra gli uomini, e queste nel caso nostro sarebbono il diritto dato ai figliuoli ed alle mogli di richiamarsi dei loro torti al Tribunale ogni qualvolta li soffrono, e più ancora tutte quelle instituzioni morali che rendendo buoni i padri ed i mariti, li mettono in istato di usare bene il loro potere, seguendo con ciò l' indicazione della natura che ha lasciato questo potere in tutta la sua pienezza dalla parte delle persone soggette, ed all' incontro ha dato ai padri ed ai mariti la legge naturale per moderarlo. Egli è dunque inconveniente e contro la natura delle cose stabilire che il padre abbia il dovere di raccogliere i voti dai proprŒ figliuoli, ed il marito di prenderlo dalla moglie: poichè la natura dei figliuoli richiede che la volontà loro sia quella del padre, e la congiunzione maritale rende il marito capo della moglie: tutto ciò che succede contro queste relazioni non può formare l' ordine, ma non sono che eccezioni dell' ordine. Nè per questo debbesi ridurre ad un voto solo tutti i voti della famiglia, perocchè le famiglie verrebbero costituite con una sproporzione fra di loro; sproporzione cioè di forza politica, mentre il voto, come dicevamo, è anche di sua natura un atto di autorità e quindi un mezzo di difesa. Egli è per questo che si è stabilito il principio, che tanti sieno i voti quante sono le persone componenti la società: al quale coll' articolo che discutiamo non si deroga punto; ma anzi questo articolo non fa che stabilire il modo onde convenevolmente si riduca alla pratica il detto principio: modo che fa sì che si consideri ciascun membro della famiglia compreso virtualmente nel padre, e che perciò in tempo che si riconosce nell' unica volontà del padre tutte le volontà dei membri della famiglia, si fa sì che quest' unica volontà si ripeta per dire così in tanti atti autorevoli, o sia in tanti voti, quanti sono i membri nella famiglia. Dileguate le difficoltà intorno all' articolo quarto, l' articolo quinto dovea venire ammesso come una conseguenza od un perfezionamento del medesimo. Ma diede occasione di maggior dibattimento l' articolo sesto, le ragioni del quale erano le seguenti: Non si potea dare ai padroni il voto dei servi, come si era dato ai padri quello dei figliuoli, o ai mariti quello delle mogli; perocchè mentre questi due vincoli, cioè il paterno ed il maritale, avevano per loro base essenzialmente l' amicizia, il vincolo all' incontro di mera servitù non aveva di sua natura altra base che la utilità: quindi non portava per conseguenza della sua natura che la volontà del servo ordinariamente fosse inchiusa in quella del padrone; anzi piuttosto che fossero due volontà opposte. Oltre di ciò la società paterna e maritale è così stretta che di più esseri se n' ha uno solo, mentre la società che ha il padrone col servo non consiste essenzialmente in alcuna comunanza d' interessi, ma piuttosto in una contrarietà dei medesimi: il vincolo paterno e maritale è tanto fondato in natura che dopo fatto la volontà umana nol può più rompere, il padre nè pur volendo può cessar d' essere padre; mentre il vincolo signorile dipende dall' umana volontà, e il padrone può emancipare quand' egli vuole il suo servo che si rimane d' esser servo. Se dunque è assurdo che l' autorità umana intervenga nei diritti fra padre e figlio, non è ugualmente assurdo ch' ella intervenga nei diritti fra padrone e servo, mentre la volontà dell' uomo può mutare questi, ma non quelli. Le ragioni adunque dell' articolo quarto dove si tratta dei padri e dei mariti non possono applicarsi all' articolo sesto dove si tratta di padroni; e la società debbe ammettere i servi stessi a votare, e se sono mariti anche per le mogli, se sono padri anche per li figliuoli. Non è però necessario che i servi sieno obbligati a dare il loro voto, sì perchè può essere che per essi sia più vantaggioso il non darlo, giacchè tale funzione consuma loro un tempo prezioso se l' hanno in libertà, sì perchè se non l' hanno in libertà, ma l' hanno obbligato a loro padroni, essi non possono disporne, ne possono con facilità aver chi li rappresenti. Finalmente essi non sono necessarŒ, giacchè la società ha un numero di elettori costante e determinato nei padri di famiglia liberi. D' altro lato il caso dei servi non può essere che temporaneo in una società civile cristiana; ed una delle prime cure della medesima, quando sarà instituita, debb' essere di pensare ai modi prudenti onde far passare i servi gradatamente dalla condizione servile a quella di mercenari. Prevedendo la Commissione che in quelli, nelle cui mani veniva a riporsi la pubblica autorità, potevano facilmente entrare dei falsi principŒ per non conoscere ben a fondo le basi su cui si veniva erigendo la civile società, si avvisò di fare adottare il principio del diritto politico imperscrittibile , consistente in questa proposizione: « La rappresentazione politica dei diritti è imperscrittibile. » Essa ben conosceva che ciò che poteva turbare l' ordine sociale si era l' alterazione che poteva esser fatta nella rappresentazione politica dei diritti, non già tanto per prepotenza dei più forti, quanto per un sofisma che facilmente illude le menti dei governanti, e che consiste appunto nella troppa sollecitudine di ovviare ai disordini possibili la quale come era stato dimostrato nella sessione antecedente conduce a fare delle false instituzioni. E che cosa è altro questo sofisma che quello studio che tanto riscalda le menti dei politici per trovare un equilibrio fra i poteri dello Stato? Questo problema che così posto è insolubile, e quando anche fosse solubile non sarebbe che per un istante, per l' istante cioè che dura l' artificioso equilibrio; non ha importanza se non supposto che il principio che debbe determinare la costituzione sociale debb' essere unicamente quello di ovviare a tutti i possibili disordini della medesima: ma la costituzione appartiene alle instituzioni stabilitive, ed il fine proprio delle instituzioni stabilite non è già quello di evitare i disordini ch' esse stesse producono, ma bensì di stabilire le vere relazioni fra gli uomini. Ed in vero, se si vuole che una istituzione si cauteli contro la propria azione, la propria azione dunque è diversa dall' azione con cui si cautela, e questa viene dopo di quella: questa perciò non debbe nè mutar nè distrugger quella. Se dunque volendo dare la costituzione ad uno Stato si propone per iscopo principale di evitare i disordini ch' essa stessa genera, si cade in una specie di contraddizione, e in uno strano circolo; e si va ad alterare l' indole naturale della costituzione facendo ch' essa invece di una instituzione stabilitiva qual debb' essere, diventi una costituzione preventiva o repressiva, quello che non debbe essere, ed in tal modo essa riesce la più mostruosa cosa, e non ottiene il suo fine, nè il fine che si è usurpato, appartenente ad altre instituzioni al tutto d' altra natura dalla sua. Il falso principio adunque che quella sia la costituzione migliore della società, la quale prevenga tutti i mali della propria azione, è quello che produce tante assurde costituzioni degli Stati, ed è quello da cui la Commissione temette con ragione che potesse venir alterata quella forma di società ch' essa avea disegnata, come la più equa e la più perfetta. Condotta da questo timore fece osservare all' Assemblea che conveniva fino d' allora determinarsi a seguire, nel ripartimento dell' autorità politica, l' uno o l' altro dei due principŒ, cioè o seguire il principio della rappresentazione de' diritti, il quale d' altro lato era stato abbracciato dall' Assemblea; o vero lasciando al tutto simigliante principio costituire un governo sopra questo altro principio che fosse quello la cui forza per la divisione ingegnosa della medesima in diverse persone ovviasse al maggior segno gli abusi possibili di se stessa. Noi siamo persuasi, disse la Commissione, che lo scopo di questo secondo principio non si può conseguir meglio che conservandosi perpetuamente fedeli al primo; ma non a tutti parrà così. A costoro pertanto sembrerà che talora possa esser più utile se si devia dalla più rigorosa rappresentazione di tutti i diritti, e che senza badar alla medesima, il solo principio dell' equilibrio dei poteri debba servir di regola a fare od a riformare la costituzione dello Stato. Voi dunque dovete esaminare con diligenza l' opinione di questi Signori, che tali due principŒ sieno diversi fra loro, e che convenga meglio tenere per unica regola il secondo anzi che il primo, affinchè dopo costituito lo Stato non siate forse condotti a fare delle riforme che alterino le prime basi su cui è costituito, o per dir meglio non siate costretti a distruggere ciò che avete edificato, e ad edificare di nuovo. Vi faccio pertanto osservare che l' applicazione del principio dell' equilibrio dei poteri o sia quello d' una costruzione della società, che antiveda tutti gli abusi, non può dipendere che da un calcolo conghietturale di quegli uomini politici ai quali fosse commessa la formazione della società dietro tali principŒ. Il loro calcolo poi è conghietturale, tanto più che precede l' esperienza, e solo questa potrebbe dare al medesimo una prova di qualche valore. Già che dunque si tratta d' un calcolo di estrema difficoltà per li molti elementi, che in sè racchiude, e per la mancanza dell' esperimento, questo non può che riuscire vario, secondo le diverse menti calcolatrici. Havvi però di più. La estrema difficoltà di un tal calcolo debbe far conoscere a priori ch' egli non può essere che adattato a pochi ingegni, e non, di certo, argomento in cui si possa esercitare con isperanza di riuscita la maggior parte degli uomini. Ciò posto ne verrà che nella costruzione della Società civile la maggior parte degli uomini non potrà proferire veruna sentenza; ma dovrà sottomettersi ciecamente a ciò che determinano i pochi sapienti, che sono co' loro intelletti al livello dell' argomento. Nel caso adunque che vorreste adottare un tal principio egli è certo che la maggior parte di voi dovrebbe ritirarsi al tutto dalla deliberazione, ed abbandonare al giudizio dei pochi ingegni più eminenti tutti i vostri interessi. Ma siccome io credo che non v' indurreste giammai a farlo, così pure io non vedo in qual modo si potrebbe convenire nel definire quali sieno questi ingegni più eminenti, mentre ognuno vorrebbe forse esserlo od apparire. E tuttavia supponiamo che l' ingegno si potesse misurare colla canna, e fosse fissata una misura per la menoma grandezza degl' ingegni prescelti a tant' opera: questi ingegni, come dicevamo, non converrebbero fra loro od almeno non avrebbero dovere di convenire, perocchè essendo il calcolo puramente congetturale, nissuno potrebbe dimostrare all' altro con evidenza, che il proprio calcolo va bene e il suo è errato. Il perchè rimarrebbe indeciso quale dei diversi progetti di società si dovesse seguire; e volendone pur seguire alcuno, non si potrebbe che chiamare giudice la sorte. Nondimeno quando ancora questi sapienti convenissero nell' abbracciare un progetto solo, non si avrebbe, come diceva, che un tal risultato di cui nessuno saprebbe il vero valore pratico; mentre nè l' esperienza lo ha provato, nè v' ha ragione di credere, come cosa certa, che l' ingegno di quei politici sia d' una forza proporzionata alla difficoltà dell' argomento; mentre che gl' ingegni sono al tutto accidentali, ed i più o meno forti nascono a caso, e non dipendono punto dalla volontà degli uomini. Ma ciò che merita più osservazione in tale ipotesi si è, che quando ancora ottenuto s' avesse che la maggiorità sottomettesse il proprio giudizio nella instituzione della Società civile, che è quanto dire sopra tutti i proprŒ interessi, alla opinione di alcuni pochi uomini di ingegno, il che non sarà mai; allora si potrebbe dire, che essa si sarebbe già di fatto sottomessa a quei legislatori; e nelle loro mani abbandonata. Quegli uomini, a cui è commesso il progetto di società, non sono solamente forniti di un forte ingegno pel quale certo sarebbero più atti degli altri a trovare la verità; ma sono ancora circondati da tutte le passioni umane: non sono pure menti, sono anch' essi uomini forniti degli stessi interessi degli altri, che desiderano le stesse cose e subiscono le stesse tentazioni. Oltre dunque il dubbio che può ragionevolmente cadere sul grado di forza dei loro ingegni, la comunanza degli uomini dovrebbe assicurarsi della loro volontà. E chi la assicura che nel progetto di società che propongono alla medesima, non abbiano provveduto almeno altrettanto al bene di sè stessi, che a quello della società? Dall' istante che la comunanza degli uomini nell' instituire la Società civile prende una strada così difficile, ch' essa stessa non può seguire quei pochi che la percorrono, essa si è interamente abbandonata all' arbitrio dei medesimi. Ma di più, nel caso che voleste organizzare la Società civile secondo questo principio, quale disposizione d' animo non dovreste voi tutti avere? Voi dovreste esser disposti a commettervi interamente all' altrui direzione. Nel caso che seguiate il principio della rappresentazione politica, siete voi stessi quelli che vi governate; perocchè ognuno di voi ritiene, se l' ha, trapassando alla Società civile, la modalità dei proprŒ diritti, e non fa che amministrarla in comune, mentre prima l' amministrava in separato. Nel caso all' incontro che abbandoniate questo principio, molti di voi debbono spropriarsi della modalità dei proprŒ diritti per metterla in mano di quelli che fossero scelti al governo, costruito secondo il progetto della utilità o dell' equilibrio dei poteri. Io vorrei sapere in tal caso chi di voi dovrà essere spogliato della modalità e chi dovrà ritenerla: vorrei sapere come vi accorderete insieme su questo punto: vorrei sapere come potrà essere utile l' introdurre arbitrariamente questa disuguaglianza nella Società civile: vorrei sapere qual garanzia verrebbe data a quelli che venissero spogliati della modalità dei proprŒ diritti da quelli che la ricevessero da amministrare; e perciò vorrei sapere come si possa progettare un governo capace di ovviare agli abusi, dall' istante che questo governo si diparte dalla rappresentazione politica, il quale dipartirsi è per se stesso un aprire il varco agli abusi, mentre si spoglia una porzione degli uomini della modalità dei proprŒ diritti, per accumularla in mano d' un' altra porzione; mentre in somma molti membri della società si rendono debili, e si danno in balìa di altri resi forti col pretesto di renderli utili. In somma dall' istante che nell' instituzione della Società civile si abbandona il principio della rappresentazione politica , la Società civile non si instituisce più sullo stato di natura; ma si dà agli uomini uno stato arbitrario per instituire sopra il medesimo la civile società pure arbitraria: in tal caso il principio delle instituzioni sociali è l' arbitrio. Egli è vero che si dice, che un tale arbitrio è sapiente e rivolto all' utilità; ma quando anche ciò potesse essere, non si potrebbe provare: un' asserzione sarebbe quella che farebbe passare questo arbitrio per sapiente; una negazione egualmente lo renderebbe stolto: poichè non è ingiuria negare gratuitamente ciò che gratuitamente si afferma. Intanto il principio dell' arbitrio è fecondo, come dimostra l' esperienza, di infinite costituzioni, le quali hanno la vita d' un giorno, cioè durano fino che sorga un altro uomo che abbia l' audacia di spacciarsi per saggio, di negare la precedente costituzione, e di asserirne una seconda. Non vale già il dire, che la massima di fare una costituzione immune dagli abusi è un principio evidentemente buono. Certo: e noi non lo neghiamo. Diciamo solo, che questo non è un principio fecondo se non di chimere: diciamo che egli non è un principio determinato; diciamo che l' adottare questo per unico principio determinante la costruzione sociale è lo stesso, che abbandonare la formazione della medesima all' arbitrio degli uomini; mentre tal principio non può dare che dei risultati congetturali o almeno dei risultati, le prove dei quali non sono a portata del comune degli uomini, intorno ai quali perciò questi bisognerebbe che credessero all' asserzione altrui, il che è propriamente commettersi all' altrui arbitrio. Diciamo perciò ch' egli è necessario per formare la società ricorrere ad un principio più determinante, e capace della necessaria pubblicità, capace d' essere inteso e discusso da tutti, mentre tutti hanno degli interessi da difendere in tale società, e mentre nessuno di quelli che ha degli interessi può essere obbligato dalla legge morale ad entrare ad occhi chiusi nella convenzione la più importante di tutte quale è la convenzione sociale civile, la quale diventerebbe impossibile se gli uomini che vi debbono entrare non fossero in caso d' intenderne le condizioni. Finalmente diciamo che è appunto il principio della rappresentazione politica quel principio luminoso suscettibile della maggiore pubblicità, perchè nissun uomo mediante di esso fa una convenzione inintelligibile, ma sa ciò che fa; e perchè esclude l' arbitrio determinando la parte che tocca a ciascuno del civile potere. Infatti il principio dell' utilità pubblica o dell' equilibrio dei poteri è difficile, perchè mette a calcolo tutte le forze sociali tutte insieme prese, senza aver riguardo alle individualità: il principio all' incontro della rappresentazione politica è facile, perchè nella sua applicazione non racchiude già un calcolo del tutto, ma piuttosto risulta da altrettanti calcoli quanti sono gl' individui. Ciascun individuo che entra nella società, secondo tal principio costituita, non ha già da pensare al tutto, ma solo alla convenzione particolare che egli fa cogli altri uomini; egli vede subito se tal convenzione è giusta od ingiusta, se gli è utile o gli è dannosa: sa ciò che mette e sa ciò che riceve. All' incontro nella società costituita secondo il principio dell' utilità l' individuo che vi entra sa ciò che mette, ma non sa ciò che riceve: egli vede che è spropriato della modalità dei proprŒ diritti; ma egli non è in caso di calcolare il vantaggio che gli viene promesso in compenso; perocchè questo vantaggio gli è promesso come un effetto di tutta la macchina ingegnosamente composta; macchina che va senza di lui, e che è così complicata per la moltitudine delle sue parti che gli riesce impossibile di calcolarne l' azione; ma che però vede essere quest' azione di una forza irresistibile quando prendesse una direzione contro di lui. Finalmente la società civile instituita mediante il principio della rappresentazione politica, edifica senza distruggere: la società civile costruita col principio della utilità distrugge prima, come vi diceva, lo stato di natura in cui siete presentemente, per edificare tal cosa di cui nessuno può prevedere con sicurezza le conseguenze. Or via s' ammetta, che sì coll' uno che con l' altro principio s' instituisca la civile società: lo scopo è il medesimo: mediante quale dei due sistemi s' ottiene tale scopo con una azione minore? Certo con quello della rappresentazione politica: poichè le mutazioni che voi andate a subire per questo sistema le vedete tutte entro confini determinati. All' incontro dove sono i confini del sistema dell' utilità? egli non ne ha veruno. La sua azione è infinita come l' arbitrio: egli suppone, che far si possa una riforma dopo l' altra nella società fino all' infinito, senza però mai sapere di certo se si sia andati avanti o indietro. Dovendo dunque voi fare una mutazione di cui l' esito vi fosse incerto per ottenere un fine, qual' è l' instituzione della società, non sceglierete voi quella che contenga il minor pericolo? E quale conterrà il minor pericolo se non quella che esige una mutazione minore, e che ottiene lo scopo con una azione minore? Tutti s' accordarono pertanto a queste ragioni, che non era prudente d' introdurre una grande alterazione nelle cose, mentre l' esito non poteva esser certo. Che d' altro lato nessuno nè voleva nè poteva esser costretto di rinunziare alla modalità dei proprŒ diritti, e alla parte che questa gli dava diritto di avere nella civile autorità: quindi si confirmava, che la rappresentazione politica già precedentemente adottata, era irrevocabilmente il principio secondo cui doveva la società stessa instituirsi. Quando sia così, proseguì la Commissione, egli è necessario altresì di riconoscere come questo principio sia il più sacro di tutti quelli che esistono nella società civile come tale, perocchè è il principio che determina il modo di esistere della medesima. Siccome la società civile non può esistere che in un dato modo, così il suo modo proprio d' esistere è altrettanto rispettabile quanto la sua esistenza: ed è solamente ciò che indica il modo onde la società civile può esistere quello che dà la esistenza alla società. Ora il principio della rappresentazione politica non è altro che un' attribuzione di diritti ai membri della società, cioè consiste in quella massima « che ogni diritto abbia nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. » Dunque un tal diritto che ricevono i membri della società civile mediante la sua istituzione è così necessario, come è la società stessa, e sarebbe al tutto contradditorio, che si volesse la società, e che si riconoscesse nel tempo stesso potervi aver un caso in cui un diritto dei suoi membri venisse privato della rappresentazione che a lui sarebbe conveniente e possibile. E` necessario adunque dichiarare che la rappresentazione politica è un diritto imperscrittibile ed inalienabile: cioè a dire che chi possiede nello stato di natura la modalità dei diritti debba anche possedere il corrispondente potere: e non debba verificarsi verun caso in cui il potere civile sia scompagnato dal possesso naturale della modalità. L' obbiezione che alcuni fecero, che prima di dichiararsi un tal diritto imprescrittibile bisognava fare la dichiarazione dei diritti dell' uomo naturali, diede occasione alla Commissione di stabilire la distinzione fra il diritto politico ed il diritto naturale, e fra l' imprescrittibilità politica e la imprescrittibilità naturale. La Commissione dimostrò che la comunanza degli uomini, o la civile società dopo instituito il governo, poteva bensì dichiarare validamente i diritti politici imprescrittibili: ma non poteva all' incontro dichiarare validamente i diritti naturali imprescrittibili, ma solo riconoscerli. Supponiamo disse, che la comunanza degli uomini facesse una dichiarazione de' diritti naturali imprescrittibili. Che forza avrebbe tale dichiarazione? quella stessa che avrebbe una carta su cui un uomo qualunque, od anche un fanciullo, avessero scritti quelli che fossero secondo la loro opinione diritti naturalmente imprescrittibili. L' essere scritti o non scritti non toglie né aggiunge autorità a tali diritti, poichè essi ne hanno tanta che non ne possono aver di più; è così ferma che non può essere diminuita. Se la carta riferisce i diritti quali sono, sarà una buona memoria per chi l' ha scritta: se non riferisce i diritti quali sono, non vale nulla: e quando venisse a sostenerla la forza, ciò non sarebbe che un atto di tirannia. La dichiarazione dunque dei diritti naturali dell' uomo fatta dall' autorità civile è inutile, ma bensì l' autorità civile debbe riconoscere i detti diritti e dirigere secondo i medesimi la sua condotta. La differenza fra il riconoscerli e il dichiararli si è che nel primo caso ella fa un atto di sommissione e nel secondo di autorità: e per ciò le conseguenze di questi due atti sono diverse: nel primo caso, ciascun uomo che sia in grado di farlo può recare in mezzo dei lumi che rischiarino la natura di tali diritti: nel secondo caso, sarebbe un delitto parlare contro diritti dichiarati già dalla società; giacchè la dichiarazione di diritti suppone i diritti certi, e l' autorità, che li ha dichiarati, infallibile. Il potere civile dunque non debbe già arrogarsi di essere l' autorevole maestro degli uomini: non debbe innalzarsi ad una sfera che a lui non appartiene; ma lasciare il magisterio della verità morale ad una società morale, ad una società di diversa natura dalla sua, cioè alla Chiesa cristiana, che è la maggiore autorità in simil genere di cose. Egli è vero che le disposizioni civili della società s' appoggiano sui principŒ morali e sui diritti naturali; ma è vero altresì che questi sono anteriori a lei, e da lei indipendenti; essa dunque, rispetto a questi debb' essere discepola e soggetta, non maestra e sovrana. Se poi per dichiarazione di diritti s' intende un promemoria mutabile che si fa da sè ciascuno dei suoi membri o un promemoria di ciò in cui tutti convengono, non contendo di parole: questa dichiarazione sarebbe ciò che io intendo per ricognizione, sarebbe ancora la scienza modesta di un discepolo, e non la sentenza di un' autorità. Dove adunque comincia il magisterio, dove l' autorità del civile potere? Comincia con se stesso: egli ha l' intrinseca autorità e necessità di parlare di se stesso, di dichiarare che sia, e quali diritti e doveri provengano da lui agli uomini. Or egli appunto esiste con un diritto che vien dato agli uomini. Dal momento che questi convenuti insieme dicono: I nostri diritti abbiano una rappresentazione conveniente e possibile, la società civile è formata: questo è quel fiat che la crea. Dunque essa è in necessità di dichiarare imprescrittibile questo primo diritto della rappresentazione politica, tanto quanto è in necessità di esistere, ed ecco quale sia la dichiarazione dei diritti che può fare la comunanza, o la società civile degli uomini; ecco qual sia il diritto politico, dal quale comincia il civile potere. Dopo ciò la Commissione, riassumendo quanto fin qui aveva fatto l' Assemblea, propose alla medesima la seguente Dichiarazione dei diritti politici imprescrittibili dei membri della Società civile. «Il diritto imprescrittibile consiste nella rappresentazione politica dei diritti conveniente e possibile. Art. 1 Ogni uomo ha diritto di dare il voto nella elezione del Tribunale politico. Art. 2 Ogni uomo ha diritto di ricorrere al medesimo. Art. 1 I mercenarŒ hanno diritto d' essere rappresentati nell' Amministrazione sociale in corpo. Art. 2 I benestanti hanno diritto d' essere rappresentati individualmente. Art. 3 La rappresentazione è in ragione della ricchezza materiale, fissando il menomo a quel tanto che è necessario pel mantenimento d' un uomo. La proposta dichiarazione fu ammessa ad unanimità. » Gli elettori stabiliti dalla dichiarazione dei diritti politici (Tit. I art. I) formarono il Tribunale politico a maggioranza di voti. La forma di questo Tribunale, per non dilungare qui il leggitore dall' idea generale della società civile regolare, fu da noi anticipata e descritta nel Libro Primo di quest' opera; dalla quale descrizione apparisce maggiormente la reale possibilità del medesimo. Intanto anche le basi qui dettate sono tali, pare a noi, a cui non si può ripugnare, perchè dedotte dalla rettitudine, e non possono aver contro di esse se non se quella ripugnanza, e quasi incredibilità, che gli uomini portano a cosa che loro par nuova: ma ciò che abbiamo detto all' Art. XI debbe provare a qualunque uomo sia ragionevole, che il piano che proponiamo non è una chimera; mentre v' ha un modo di eseguirlo con quell' approssimazione che ivi abbiamo descritto, che è ciò che richiede appunto quella equità che si può dire a giusto titolo la perfezionatrice della giustizia. Proseguiamo dunque lo sviluppo del medesimo piano, torniamo all' ipotesi della nostra Assemblea, ed alla instituzione che supponiamo fatta dalla medesima, secondo gli ordini voluti dall' equità. Il primo lavoro adunque del Tribunale politico si fu di preparare la via alla formazione dell' Amministrazione sociale, coll' instituzione della quale si compiva l' instituzione della società. Giacchè per la dichiarazione dei diritti politici (Tit. II articolo 3) la rappresentazione amministrativa doveva essere in ragione della ricchezza materiale, il Tribunale politico passò a riconoscere successivamente lo stato di tutti gli individui e di tutte le famiglie, e a tal fine fece le seguenti operazioni. 1 Fece un ruolo di tutte le persone, le quali non potevano dimostrare di possedere dei fondi nè esercitare verun' arte mercenaria. 2 Fece un ruolo di tutte le persone che non avendo fondi esercitavano però un' arte mercenaria che dava loro un sufficiente mantenimento, e fornì le medesime di un brevetto, che le collocava nella classe dei mercenarŒ, e dava loro i diritti politici annessi a questa classe. 3 Finalmente rilevò la sostanza in fondi di tutti i benestanti sulle prove da loro offerte, e consegnò loro pure il brevetto della ricognizione di ciò che possedevano. 1) Con queste tre operazioni fatte dal Tribunale politico venivano determinati i diritti politici di tutti i membri della società. Si trovarono distinti quelli che non possedevano altri diritti politici se non la rappresentazione dei diritti dell' uomo; quelli che oltre la rappresentazione dei diritti dell' uomo avevano ancora la rappresentazione dei diritti reali, ma non essendo questi diritti in fondi, ma nell' opera delle loro mani, l' avevano solo in corpo, e non in individuo quali erano i mercenarŒ; e finalmente quelli, che possedendo dei fondi avevano la rappresentazione dei diritti reali completa quali erano i benestanti. Or dovendo venire alla reale formazione dell' amministrazione, s' incontravano necessariamente molti ostacoli, ed i principali erano i seguenti: 1 Se l' amministrazione avesse ricevuto realmente nel suo seno tutti i benestanti, i quali avevano diritto di entrarvi e di più i delegati del corpo dei mercenarŒ, essa sarebbe divenuta così numerosa che non avrebbe potuto senza confusione, o almeno senza una dannosa tardità, spacciare gli affari. 2 Di poi, ciò supposto, non si vedrebbe modo di rendere il peso dei voti di ciascheduno proporzionale alla ricchezza posseduta. La Commissione, per non confondere l' Assemblea, si restrinse a far osservare alla medesima solo la prima delle due difficoltà sopraddette, e in conseguenza di essa a dimostrare la necessità di restringere il numero degli amministratori. Di che venendo riconosciuto il bisogno evidente, propose come unico mezzo di evitare sì grave inconveniente, che i benestanti ed il corpo dei mercenarŒ non amministrassero già da sè stessi, ma mediante dei loro abili ministri o delegati forniti dei loro poteri e delle loro instruzioni, i quali potevano essere ridotti a quel numero discreto che meglio convenisse alla più spedita ed alla più utile amministrazione degli affari. La proposta di un' Amministrazione delegata ricevuta da principio con favore, aveva poscia eccitato le più gran difficoltà nell' Assemblea, la quale s' era disciolta senza ammetterla nella sessione precedente. Tali difficoltà nascevano perchè sembrava generalmente impossibile, che delegandosi un piccolo numero di persone rispetto a tutti quelli che avevano diritto di entrare nella amministrazione, potesse conservarsi la proporzione fra la forza del voto e la ricchezza. In che modo, si diceva, un delegato il quale rappresenta per necessità molti proprietarŒ di diversa fortuna potrà sostenere così la piccola proprietà come la grande? egli è costretto di trattare la causa di tutto il corpo che rappresenta: nella collisione perciò delle grandi colle piccole proprietà egli non abbandonerà mai quelle per sostener queste; mentre se fossero due i rappresentanti l' uno per esempio piccolo proprietario e l' altro grande, le due cause sarebbero trattate in separato; e sebbene il voto del piccolo proprietario sarebbe più debile, tuttavia unito ad altri piccoli proprietarŒ potrebbe sostenersi anche contro i proprietarŒ più forti, laddove se sì l' uno che l' altro vien rappresentato da un solo delegato questi non potrà giammai essere in contrasto con se stesso, e non potranno perciò formarsi quelle alleanze che sono appunto ciò che garantisce il piccolo contro il grande della società. Tali ragioni erano forti ed erano state prevedute dalla Commissione, la quale nel suo progetto si era proposta di evitare tutte le due summenzionate difficoltà, e s' era riservata di rispondere ai timori dell' Assemblea col progetto che avrebbe presentato nella prossima sessione. Venuta adunque la sessione presente, cominciò dallo stabilire un limite ossia una somma menoma di rendita, la quale considerar si potesse come l' unità nella rappresentazione amministrativa; e ciò a tenore della dichiarazione dei diritti politici. (Tit. II art. 3). Dimostrò che bisognava prendere per quest' unità un termine basso più che si poteva; poichè dovendosi trascurare tutte le frazioni, cioè tutto ciò che era minor di quel termine; questa deviazione dalla rigorosa giustizia doveva esser la minima che si potesse, e l' Assemblea convenne di fissare questo termine alla somma di lire cento. 1) Dimostrò in secondo luogo che ciascun mercenario, qualunque fosse il suo guadagno, si doveva supporre che portasse a lui nè più nè meno di lire cento annuali; perocchè essendo questa la somma menoma, onde si stimi che possa un uomo ordinariamente vivere, qualunque cosa il mercenario guadagna, nulla più guadagna del vitto, che viene ad essere appunto rappresentato nella somma di lire cento. Infatti qualunque sia il guadagno d' un mercenario o lo consuma nel proprio mantenimento o lo mette in fondi. Se lo mette in fondi, egli trapassa ben presto alla classe di benestante; giacchè qualunque suo fondo che gli renda più di cento lire, lo rende anche benestante. Se all' incontro ciò che guadagna lo consuma, egli è alla stessa condizione di quello, rispetto alla ricchezza materiale, che vive con cento lire di entrata; mentre alla fine della giornata, del mese, o dell' anno, ciascuno ha consumato tutto, e sì dell' uno che dell' altro si può dire egualmente, che il loro avanzo è nullo: e che il loro fondo produce il puro vitto senza crescere nè calare. Ciò premesso, la Commissione passò ad indicare il modo, ond' ella credeva che si potesse passare alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la prenotata difficoltà. Disse che conveniva che si congregassero in altrettante Assemblee separate secondo i gradi della ricchezza; che questi gradi potevano essere determinati così: Tutti quelli che possedevano dalle cento fino alle lire mille d' entrata formavano un' Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle lire mille di entrata fino alle dieci mila formavano la seconda Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle dieci mila lire fino alle cento mila lire d' entrata formavano una terza Assemblea. I possessori di cento mila lire d' entrata fino ai possessori d' un milione, formavano una quarta Assemblea. I possessori d' un milione fino ai dieci milioni di lire d' entrata formavano la quinta Assemblea; e così via, se vi fossero persone individuali o morali che possedessero maggior somma. Nella prima Assemblea ogni cento lire si aveva un voto; e il più che una persona potesse avere erano nove voti; tali erano quelle che possedevano dalle novecento fino alle mille lire. Nella seconda Assemblea le mille lire davano un voto; e il maggior numero di voti, che una persona aver potesse era quello di nove; tali erano le persone possidenti dalle nove mila fino alle dieci mila lire d' entrata. Similmente nelle tre altre Assemblee un voto corrispondeva sempre a maggior somma; nella terza a diecimila, nella quarta a centomila, nella quinta a un milione di lire d' entrata, e il maggior numero di voti che una persona in tutte queste Assemblee potesse avere, era medesimamente nove: tali erano le persone che nella terza Assemblea avessero un' entrata dalle novanta fino alle cento mila lire; nella quarta quelle che avessero un' entrata dalle novecento mila lire fino a un milione, nella quinta quelle la cui entrata fosse dai nove fino ai dieci milioni. Ora vedete a che poco nell' ordinamento di tali Assemblee si riduca la irregolarità o deviazione dalla teoretica giustizia; cioè quanto poca sia la proprietà che rimanga senza rappresentazione; ed anche quella poca vi rimane, perchè non è veramente capace del diritto di essere rappresentata. Osservate in fatti che in qualunque fortuna anche enorme, la ricchezza che rimane senza rappresentazione è sempre minore delle lire cento. Supponete in fatti un proprietario di mille e cinquecento lire d' entrata: questi apparterebbe alla seconda Assemblea. Egli è bensì vero che non può avervi che un voto; poichè i voti in tale Assemblea equivalgono a mille lire; ma egli colle sue cinquecento lire ha diritto ancora di farsi rappresentare nella prima Assemblea e di farsi rappresentare con cinque voti; perchè in essa il numero dei voti equivale al numero delle centinaia di lire. Laonde questi non resta senza rappresentazione se non per quella frazione che avesse fra le mille cinquecento e le mille seicento lire. Così parimenti colui che avesse un' entrata di 12 .350 lire entrerebbe nella terza Assemblea con un voto, nella seconda con due voti, e nella prima con tre voti, e ciò che resterebbe senza rappresentazione non sarebbero che le cinquanta lire, le quali non sono rappresentabili, perchè non arrivano a formare il mantenimento di un uomo. Nel medesimo modo ancora colui che avesse d' entrata 123 .450 lire, egli entrerebbe con un voto nella quarta Assemblea, con due nella terza, con tre nella seconda, e con quattro nella prima; e ciò che rimarrebbe anche qui non rappresentato sarebbero le sole lire cinquanta. Finalmente supponiamo che una persona traesse annualmente d' entrata dai suoi fondi 1 .234 .550 lire: questa comparirebbe con un voto nella quinta Assemblea, con due nella quarta, con tre nella terza, con quattro nella seconda, con cinque nella prima e di tutta la sua grande fortuna rimarrebbero necessariamente sole cinquanta lire non rappresentate; giacchè formano una frazione dichiarata irrappresentabile. Distribuiti in tal modo tutti i cittadini che hanno diritto all' amministrazione rappresentativa in altrettante decurie secondo i loro beni di fortuna, e secondo questi assegnato loro il numero proporzionato di voti, ecco in qual modo si potrebbe procedere alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la difficoltà che l' Assemblea ha saviamente preveduto. La prima Assemblea ogni dieci voti, ossia ogni decina di centenaio elegge un delegato alla seconda Assemblea. In fatti dieci voti nella prima Assemblea suppongono la corrispondente somma di mille lire: e mille lire equivalgono ad un voto della seconda Assemblea. La seconda Assemblea parimenti ogni dieci voti elegge un delegato della terza Assemblea; perocchè dieci voti della seconda Assemblea rappresentano dieci mila lire; che equivalgono appunto ad un voto della terza Assemblea. Allo stesso modo ogni dieci voti della terza Assemblea essa ha diritto di eleggere un delegato alla quarta Assemblea; poichè dieci voti della terza Assemblea rappresentano cento mila lire, e cento mila lire è appunto un voto nella quarta. Finalmente ogni dieci voti che la quarta Assemblea abbia in sè medesima, essa manda un delegato nella quinta; perocchè dieci voti della quarta Assemblea, supponendo un milione d' entrata, danno appunto il diritto di aver un voto nella quinta. Vediamo adesso un poco quanta sia l' irregolarità dalla giustizia teoretica, che ammette un tal piano in tale esecuzione pratica quale da noi fu descritta. Ciò che nell' ultima Assemblea rimane privo di voto è tutto ciò che rimane al di sotto di un milione; ma egli è da osservarsi che la somma al di sotto di un milione esercitò però la sua forza nella quarta Assemblea; come nella terza influì quanto stava al di sotto di cento mila; nella seconda quanto stava al di sotto di diecimila e nella prima quanto stava al di sotto di mille. Così parimenti se noi imaginiamo una sesta Assemblea, nella quale ciascun voto rappresenti dieci milioni: egli è vero che rimarrebbero nove e più milioni nella nazione senz' essere rappresentati direttamente in essa: ma questi sono stati tuttavia rappresentati quando si trattò dell' elezione di quest' ultima Assemblea, ed hanno esercitata tutta l' azione che potevano esercitare. D' altro lato la non rappresentanza nell' ultima Assemblea di questi nove milioni non porta nissuna disuguaglianza politica fra i cittadini; poichè questi nove milioni non appartengono già a questa o a quella famiglia determinata, ma solo a tutta la nazione, e perciò in questi nove milioni, non rappresentati, ciascun cittadino ha una rata per così esprimermi proporzionata, sicchè, nessuno sconcio ne nasce alla politica proporzione. Stabilite queste basi, noi vedremo subito quanti saranno i componenti dell' ultima Assemblea, cioè della Delegazione dell' Amministrazione sociale , che viene ad essere la suprema magistratura della nazione. Suppongo che la somma di tutta la rendita rilevata dal Tribunale Politico ascenda a quattro miliardi di lire. Or questi darebbero quattrocento delegati nazionali, ciascuno dei quali rappresenterebbe dieci milioni di lire di rendita. Ecco pertanto formata l' Amministrazione delegata, esistendo la quale sarebbe già instituita la civile società, o sia ridotta alla sua attuale esistenza. Ora considerate di grazia come la formazione di una tale Amministrazione delegata eviti lo scoglio da voi temuto, che le piccole fortune sieno dalle grandi oppresse senza che abbiano nella società alcuna voce distinta. Nel piano proposto le fortune sono tutte distinte l' una dall' altra secondo la loro grandezza mediante i voti. I componenti la prima Assemblea, o sia i voti della medesima, rappresentano tanti proprietarŒ tutti eguali di cento lire l' uno. Il delegato che questi mandano alla seconda Assemblea non rappresenta già fortune di diverse specie, ma rappresenta fortune tutte eguali, giacchè rappresenta una decina di voti della prima Assemblea. Così il delegato che la seconda Assemblea manda alla terza non rappresenta allo stesso modo che fortune eguali, cioè dieci stati tutti di mille lire l' uno: parimenti non vi ha delegato nella quarta, nella quinta, e finalmente nella sesta Assemblea ch' egli rappresenti contemporaneamente grandi e piccole fortune, ma tutte d' una stessa misura le rappresenta. Rimane solo da avvertire primamente che se egli v' avesse taluno nell' ultima assemblea il quale possedesse egli solo i fondi necessari per ritrarre l' entrata dei dieci milioni, egli sarebbe membro della medesima, come rappresentante il proprio, e non come delegato delle Assemblee antecedenti. In tal caso l' Assemblea dei quattrocento, cioè quella che amministra realmente la società, verrebbe ad esser mista, cioè composta parte di rappresentanti di beni proprŒ, parte dei delegati delle Assemblee precedenti, i quali non sono che ministri delle Assemblee stesse. La Commissione propose « che ciascuna Assemblea fosse riconosciuta nelle proprie attribuzioni indipendente dall' altra. » Questa era una conseguenza della imprescrittibilità politica già adottata. In fatti l' imprescrittibilità politica consisteva nel riconoscere annesso ad ogni diritto posseduto dall' uomo nello stato di natura un diritto di rappresentazione nella società civile, il quale doveva essere inviolabile come la stessa società e qualunque attentato contro di lui diventava un delitto di lesa sovranità. Perciò ognuno nel modo di farsi rappresentare nell' Amministrazione rimaneva perfettamente libero a differenza della rappresentazione passiva, il primo diritto della quale, cioè il diritto di elettore al Tribunale, era nello stesso tempo un dovere a cui si obbligavano i padri di famiglia. Nella rappresentazione all' incontro attiva, essendo questa un diritto che non aveva nessuna relazione colla giustizia verso gli altri, ma che conteneva solo una utilità propria, ognuno rimaneva libero di esercitarlo o non esercitarlo, sebbene nessuno poteva alienarlo, appunto perchè l' alienazione sarebbe un contratto invalido trattandosi d' un diritto imprescrittibile. Le Assemblee adunque dovevano rimaner libere nella elezione dei deputati da mandarsi alle Assemblee più elevate, sebbene l' Assemblea più elevata potesse citare al Tribunale politico l' Assemblea meno elevata per negligenza nel mandare i deputati, ogni qualvolta potesse provare che ciò fosse nocevole ai suoi membri: non ammettendo il Tribunale petizioni quando non fossero presentate da un accusatore interessato nella causa. Ciascuna Assemblea inferiore dunque aveva essenzialmente ed imprescrittibilmente i seguenti diritti: 1 Di mandare il numero di delegati, che a lei apparteneva secondo la legge, all' Assemblea prossimamente superiore: e questi delegati poteva sceglierli a suo piacimento, a quel modo stesso che un padrone può scegliere i suoi servi. 2 Di fare il contratto con questi delegati secondo le condizioni da convenirsi fra essa e il delegato, e da esprimersi nel mandato del medesimo: condizioni che potevano riguardare: a) Le istruzioni date al medesimo intorno al modo di eseguire il suo ufficio; b) Il tempo della delegazione in quanto può stare in arbitrio dell' Assemblea; c) Lo stipendio da assegnarsi al delegato. Le cause fra il delegato e le Assemblee sono di competenza del Tribunale politico. Così pure ciascuna persona (morale ed individuale) che potesse dimostrare d' essere realmente danneggiata dal delegato, come sarebbe nel caso, in cui si potesse provare o la intenzione di nuocere col suo potere o il tradimento contro l' Assemblea nell' esercizio del potere ricevuto, può richiamarsi al Tribunale politico ed ottenere la mutazione del delegato. Ogni Assemblea inferiore debbe eleggersi un Ministro, le cui attribuzioni sono le seguenti: 1 di convocare l' Assemblea nei casi prescritti dalla legge; 2 di essere l' organo permanente dell' Assemblea medesima. La Commissione propose, che conveniva stabilire i casi in cui le Assemblee inferiori si dovessero convocare, e fu adottata sopra di ciò la legge seguente: 1 L' Assemblea debb' essere convocata ogni qualvolta muore un suo delegato all' Assemblea superiore per rieleggerne un altro. L' Assemblea superiore è obbligata di dar la notizia della morte al Ministro dell' Assemblea inferiore, il quale appena ricevuta debbe proclamarne la convocazione. 2 Il Ministro debbe pure convocare l' Assemblea ogni qualvolta spira il tempo della delegazione assegnato ad un delegato, perchè sia fatta una nuova elezione. 3 Debbe convocarla ancora ogni qualvolta gli sia dimandata da una maggiorità de' voti componenti l' Assemblea. 4 Finalmente è obbligato di convocarla ogni qualvolta un membro della medesima ottiene dal Tribunale politico, per cagione dei proprŒ interessi, un decreto di convocazione. I membri invitati dal Ministro all' Assemblea, che non compariscono, dichiarano con ciò di assentire ai comparenti: e tuttavia possono essere citati al Tribunale politico se la loro assenza sia pregiudicievole. Rimanevano le difficoltà sull' instabilità dei rappresentanti nelle Assemblee, giacchè il diritto di rappresentazione nelle medesime doveva sempre conservarsi in equilibrio colla ricchezza materiale: la quale è soggetta a continui mutamenti. Ma la Commissione aveva indebolita anche questa difficoltà col principio stabilito, che la giustizia teoretica doveva nelle sue applicazioni pratiche dar luogo all' equità; e tutti gli uomini erano obbligati dalla stessa giustizia a declinare alquanto dal proprio diritto rigoroso, quando ciò era necessario, perchè i diritti di tutti potessero avere contemporaneamente luogo. Essa dunque credette, che si potessero ottenere le deviazioni menome mediante una legge sui mutamenti del numero dei voti a ciascuno appartenenti, esposta nel modo seguente: 1 Ognuno al quale scemino le sue fortune può ricorrere quand' egli voglia al Tribunale politico, perchè gli sia scemata la rappresentazione politica corrispondente. 2 Ogni persona morale o individuale può far una causa simile verso un' altra persona, a cui sieno scemati i beni di fortuna. 3 Ciò che è detto nei paragrafi precedenti per lo scemamento delle fortune, vale anche per il loro aumento; e perciò ciascuno, dato quest' aumento, può domandare per sè o per altri l' aumento corrispondente di rappresentazione politica. 4 L' Assemblea ha diritto e dovere di domandare una nuova ricognizione delle fortune di quelli che sono negligenti nel pagare le imposizioni. 5 I lavori del Tribunale e delle Assemblee sono indipendenti, e quelli dell' uno non possono rallentare quelli dell' altro, per modo che, pendente la causa, ognuno rimane a suo luogo; e nella sentenza è fissato il tempo preciso in cui s' intende cominciata la mutazione. Dopo aver data un' idea del Tribunale politico e dell' Amministrazione, che sono le due parti del Potere Supremo della società civile, mi resterebbe a parlare della Magistratura che è il terzo corpo che forma parte della organizzazione sociale, sebbene egli non sia parte del Supremo Potere. Ma prima di passare a descrivere la Magistratura della società civile, che fingo d' erigere da' suoi fondamenti, mi sembra necessario di chiamar l' attenzione del leggitore sulle traccie del Progetto fin quì da me descritto, sia che si ritrovino negli scrittori antecedenti, o sia nelle costituzioni delle nazioni che fin quì sulla terra sono esistite. Questa digressione, ben comprendo, che travia qualche poco il leggitore dal diritto cammino, e gli ritarda di poter concepire tutta intera l' idea di Società che io prendo a descrivere: ma questo interrompimento, che nuoce invero al filo delle idee, sarà forse compensato da un maggior avvicinamento che prenderà la Teoria esposta alla pratica, e quindi ella forse gli diverrà più reale nella sua mente, e l' indurrà a prestare più agevolmente fede alla possibilità della medesima. In fatti la prima difficoltà che si presenta alla mente, di chi sente proporsi un' astratta teoria si è la seguente. Com' è possibile che ciò non abbiano mai veduto gli uomini precedenti? come sfuggì a tutte le nazioni e a tutti i loro savŒ, che pure hanno posto i più profondi pensieri ad escogitare tutto ciò che giovar potea l' uman genere, se egli fosse cosa possibile od utile? Io non risponderò già, che dove tale obbiezione dovesse aver luogo in tutta la sua estensione, ella supporrebbe, che non fosse oggimai possibile verun ulteriore progresso al genere umano; perocchè io non penso che uomo me la possa proporre a tempi nostri con tanta estensione. Risponderò piuttosto che anch' io concedo dover incontrare con ragione una prevenzione sfavorevole quella istituzione così nuova, di cui nessuna traccia si rinvenga esser stata prima dei tempi nostri nelle menti e nei costumi degli uomini; ma non essere all' incontro ragionevole di credere che ogni egregia cosa dagli uomini traveduta e cominciata nell' opera sia stata già altresì perfettamente conosciuta e in tutta la sua perfezione eseguita. Ed or questo io credo che sia avvenuto del Supremo Potere della società civile da me descritto. Parmi ch' egli sia stato sempre più o meno chiaramente dagli uomini avvertito; parmi che sempre l' abbiano desiderato, come cosa di cui la natura umana provava il bisogno; parmi che egli sia stato lo scopo d' infinite ricerche politiche, d' infiniti sforzi ed agitazioni della società tendente di conformarsi a quella forma regolare. Parmi insomma che tanto la natura delle cose, quanto le menti degli uomini ci si sieno aggirate d' intorno: queste per formarsene l' idea compiuta, quella per trovare in essa la propria naturale posizione e quiete: ma che sì le menti che la natura non abbiano perfettamente asseguito il termine dei loro sforzi; perchè è legge fermissima, a cui le umane forze soggiacciono, che non ottengano la perfezione dello scopo se non dopo gran tempo, grandi errori, grandi urti: dopo una molteplice insomma e dolorosa esperienza. Del Tribunale politico sono minori le traccie istoriche che dell' Amministrazione. La ragione di ciò si è, che egli si può dire l' ultima perfezione della società, e suppone gli uomini già pervenuti a un grado assai grande di coltura. Oltracciò l' ultima riflessione che fa l' uomo è quella sopra sè stesso: egli è di prima giunta portato a pensare agli altri; questa è la direzione naturale della sua mente: il ritorcersi sopra di sè è una conversione difficile: egli opera senza dubitare di sè, senza pure pensare a sè operante. Perciò vi dovevano essere prima le Amministrazioni della società che il Tribunale politico. Poichè il Tribunale politico non può venire che allorquando l' Amministrazione è arrivata a riflettere sopra sè stessa, a dubitare dei suoi proprŒ giudizŒ; sia che questo dubbio ella giunga a fare spontanea per propria sapienza, sia che ella sia costretta di farlo per le scosse che ella riceve dalle reazioni che ritruovano le sue ingiustizie. Così in fatto troviamo nella storia. Questa ci presenta da per tutto Amministrazioni che operano con gran franchezza e fidanza del proprio fatto, che non dubitano punto di errare, che procedono come fossero infallibili; e che sostengono per gran tempo di esserlo, quando viene loro contrastata questa infallibilità. E se un tale contrasto singolare dura per molto tempo, non è già da credersi che ciò nasca dall' opera sola delle passioni degli uomini: egli si prolunga anzi per l' imbecillità umana come per l' umana malizia: perocchè quella è che impedisce agli amministratori della società di riflettere sulla propria incapacità, e sulla fallacità dei loro giudizŒ e delle loro operazioni. Se noi veniamo osservando la storia delle nostre moderne monarchie, cominciando dalle loro origini nei secoli di mezzo, e giù venendo dietro i loro passi; noi veggiamo come il loro potere si sia venuto rendendo sempre più assoluto, ed indipendente: e veggiamo ancora che ciò è avvenuto per opera di molti abili uomini di Stato, che affezionati ai loro Principi gli hanno serviti del loro avvedimento e della loro destrezza nel maneggio delle pubbliche cose. Si grida contro alla costoro improbità: ma, per quanto io sono persuaso, al tutto senza ragione. Io credo in quella vece, che a questa concentrazione del regio potere abbiano contribuito degli uomini sommamente probi, e forniti delle più pure intenzioni. - Ma essi, si dice, hanno rinserrate le catene dell' uman genere. - A bell' agio! Tornate su loro passi: esaminate le intenzioni dei loro fatti, e muterete opinione. Il potere supremo non era fissato; egli ondeggiava in varie mani: lo Stato era per cadere ogni istante nell' anarchia: la morte del principe, l' ambizione offesa di un nobile, l' ardire di un condottiero, un accidente impreveduto, bastava per rovesciare col trono la società. Questi mali cadevano sotto gli occhi, come cadono sotto gli occhi tutti i disordini delle amministrazioni di più persone, sieno grandi o sieno piccole: sieno le sette, nascenti all' elezione di un sovrano, sieno i tumulti dell' elezione popolare di un curato, ed i piccoli partiti, le discussioni, e gli stravizi, che la accompagnano. L' Amministrazione della società, che si credeva incaricata di difendere la società da tutte le turbolenze e da tutti i mali, ai quali può soggiacere, era ben naturale che si credesse ancora, non dirò autorizzata, ma in dovere di riparare a tutte quelle inquietudini. Ora quale era la strada più breve che a questo fine si presentasse? Quella di far guerra a tutte le amministrazioni collettive, e stabilire un sistema di centralizzazione dei poteri; perocchè ridotto il potere nelle mani di uno, e ridottovi così forte a cui nessuno possa resistere, tutti quei disordini son tolti via, che nascevano prima dall' ondeggiar egli incerto nelle mani di più. Ecco pertanto un esempio luminoso dello scambiare che fanno gli uomini le istituzioni stabilitive colle istituzioni preventive e repressive . Quand' essi nell' istituzione che ha una natura stabilitiva scuoprono alcun abuso, non pensano già di metter a lato della medesima un' altra istituzione preventiva o repressiva che corregga quel difetto; ma si mettono piuttosto ad alterare e snaturare la istituzione stessa stabilitiva perch' ella non si presti all' abuso osservato; non accorgendosi in ciò che l' abuso non nasce da essa stessa, ma è alla medesima estrinseco, cioè nasce dalla malvagità degli uomini che di essa abusano, il perchè a questa si dee por rimedio, e non guastare l' istituzione per sè buona e retta. Ma or ecco come il potere dell' Amministrazione sociale andò per mancanza di lumi rinforzandosi, e tendendo alla maggior possibile indipendenza, anzichè pensare di sottomettersi ad un Tribunale; e ciò fece, pensando forse fare cosa necessaria e buona, credendo eseguire la sua missione, quella di difendere la società. - Ma si ripete, chi tolse via quei mali dalla società, rendendo più fermo ed indipendente il poter supremo, rese questo più arbitrario e più insopportabile. - Appunto: ma ciò senza accorgersi. - In che modo? - Perchè l' Amministrazione nel tempo ch' ella vedeva i disordini, che si credeva in debito di torre via; non sospettava menomamente di sè stessa: non rifletteva sulla propria fallacità; gli amministratori insomma della umana società non pensavano d' essere uomini, ma solo d' essere amministratori. - Ma non è questa stessa una colpevole ignoranza? - Piuttosto un inganno della stessa natura umana, che ha bisogno d' essere scossa replicatamente e fortemente prima che dubiti di sè stessa. Gli amministratori della società accorrono a porre rimedio ai mali che veggono cagionarsi da' soggetti, all' incontro i soggetti si lamentano con altrattenta prontezza dei falli degli amministratori. E` facile ai soggetti lamentarsi degli amministratori, appunto perchè essi sono collocati in luogo da vederne i vizŒ altrettanto quanto poco sono in istato da vedere i proprŒ. Per quella stessa ragione che dicevo l' uomo non portare lo sguardo sopra di sè per dubitare di ciò che fa, se non tardi e trattovi quasi a forza. Il perchè è al tutto indiscreta la severità con cui si giudica dei superiori; esigendo ch' essi veggano i proprŒ errori altrettanto come li vede chi è da loro diviso: perocchè ciò è contro le leggi della umana natura. Egli è da ciò stesso che si spiega il seguente fatto. Il soggetto si lamenta dell' amministratore sociale. L' amministratore riguarda questo lamento come una colpa, come un' insubordinazione. Ma il lamento non è già portato contro l' autorità dell' amministratore, ma contro il male ch' egli fa colla medesima. Tuttavia l' amministratore non è disposto a considerarlo sotto questo aspetto, per quella stessa ragione, che non è disposto a considerare sè stesso come un uomo fallibile, essendo per accidente amministratore; ma è anzi disposto a considerarsi solo come amministratore. Qualità questa che astrattamente presa non annette già l' idea di imperfezione e di fallibilità, che resta tutta propria dell' uomo che amministra. Egli è inclinato a considerarsi piuttosto nella sua qualità d' amministratore che nella sua natura di uomo, perchè l' amministrazione è cosa esterna, che termina fuori di lui, per vedere la quale non ha bisogno, dirò così, che di uno sguardo del suo occhio in direzione naturale. Mentre a considerare sè stesso come uomo amministrante ha bisogno di ritorcere lo sguardo quasi contro natura, ed a fissarlo in sè stesso. Il perchè nel lamento dei soggetti contro di lui egli vede più facilmente e più naturalmente una opposizione ed una reazione alla sua autorità, che non sia un' avvertenza dell' errore ch' egli prende come uomo soggetto a fallire. Egli è vero, che le passioni umane, l' amor proprio, e l' avidità si mescolano da per tutto; ma non si può negare che le stesse leggi dello spirito umano conducano l' uomo a dubitare anzi di altrui che di sè stesso. Ed è perciò, che un amministratore della società nello stato naturale può essere inclinato di tutta buona fede ad aumentare ed afforzare l' autorità nelle proprie mani, persuaso di tor via in tal modo molti disordini con un' autorità piena ed assoluta, senza accorgersi nè sospettare de' mali ch' egli stesso per ignoranza o per passione, e quelli che a lui subentreranno nell' Amministrazione, possono produrre colla detta autorità. Vedete quello che nasce nel caso di una rivoluzione: prescindendo dai secondi fini che operano nella medesima. Si dice che il Sovrano era colpevole, che la sua Amministrazione era pessima. Se ne instituisce dunque un' altra, ma ben presto, atterrata anche questa, ne sorge una terza per vendicare i delitti della seconda. Nel fermento delle opinioni e nella prontezza e temerità dei giudicŒ si condanna ben presto la terza, come si condannò le due prime, per instituirne una quarta; e si succedono incessantemente i riformatori della nazione agitata. Ora onde viene questo gioco e questa vicenda, se non da un simile corso d' idee che fa lo intendimento umano, per cui l' uomo assai prima di giudicare di sè stesso giudica degli altri, e trovando sempre i difetti in quelli che amministrano la società non sa neppure dubitare ch' egli stesso trovandosi nel loro posto potrebbe cader negli stessi errori; ma anzi si lusinga che tutte le sue idee sull' Amministrazione sociale sieno giuste, che porterebbero la felicità nazionale, e che corrisponderebbero ai doveri dell' Amministrazione? Si sono veduti sempre quelli che prima di arrivare all' Amministrazione sociale gridavano contro il dispotismo e gli sforzi degli amministranti per aumentare il grado di potere nelle loro mani, pervenuti essi stessi all' Amministrazione aver fatto assai di più, non avere il menomo dubbio di far bene a tirare nelle proprie mani la più gran potenza, ed a comprimere colla più gran forza arbitraria che aver potessero tutti quei movimenti che venissero fatti contro all' Amministrazione. Egli non debbe adunque far meraviglia se si è quasi sempre veduto nelle società cercare da quelli che avevano in mano il potere la più piena indipendenza, mentre ciò non solo è conforme alla passione di dominare, tanto propria dell' uomo; ma all' indole stessa dell' umana natura, per cui l' uomo crede non esserci niente da temere da parte sua, ma solo da parte degli altri; e così gli amministratori nulla credono che vi sia da temere se l' Amministrazione è forte. I Principi nulla credono che vi sia da temere se la loro potenza sempre più si rende indipendente; anzi non la riguardano se non come un mezzo di fare un bene maggiore, senza pensare neppure alla possibilità che essa potesse essere istrumento di male. Per venire a quest' ultima riflessione, che può solo dar luogo al Tribunale politico, si esige dunque non solo che i Principi sieno retti e buoni, ma ben ancora che sieno ammaestrati da una lunga esperienza, la quale li faccia pensare sopra sè stessi. E non fa però meraviglia, se fino a qui solo delle incerte traccie si ravvisino essere state di consimile instituzione. Ed anche queste poche ed incerte traccie dalla parte del popolo si osservano. E così doveva essere, perchè il Tribunale politico è per il popolo; egli è necessario unicamente per difendere il debile contro il forte, la minorità contro la maggiorità. Prego il leggitore di considerare come tutto si trovi legato nel sistema da me proposto, e come i principŒ sieno conformi alla natura delle cose. Io ho cercato un sintomo che ci faccia conoscere quando venga leso il diritto in un uomo; e l' ho trovato nel risentimento morale; il quale risentimento quando gli uomini sono nello stato di natura porta la pretesa di risarcimento, cui l' offeso verifica per le vie di fatto se l' offensore non si muove spontaneamente a dargli soddisfazione. Il risentimento adunque, sintomo del diritto violato, è la ragione per cui gli uomini vogliono che sia resa loro giustizia; egli è dunque la causa movente della giustizia privata nello stato di natura, e della giustizia pubblica o sia dell' istituzione dei Tribunali nello stato di società civile. Applichiamo il risentimento al Tribunale politico; e veggiamo se il popolo risentitosi delle offese degli amministratori abbia chiesto e resosi com' ha potuto contro di essi ragione. Egli è evidente che questa è la cagione vera o pure il pretesto di tutte le ribellioni: queste nascono perchè il popolo si risente delle offese che vengono a lui fatte dagli amministratori della società, o che gli si dà ad intendere che gli vengono fatte: egli chiede giustizia; ma non trovando alcun Tribunale che gliela renda fa al modo stesso che fanno gli individui fra loro fino che si trovano nello stato di natura; decide e si rende ragione da sé. Esiste adunque sempre nel fatto e per la natura delle cose un Tribunale per gli affari politici, come esiste sempre per la natura delle cose un Tribunale per gli affari privati. La sola differenza fra il Tribunale politico istituito appositamente, e il Tribunale politico naturale, per dir così, si è quella che passa fra il Tribunale per gli affari privati nello stato di natura, e lo stesso Tribunale nello stato civile: nel primo stato è l' individuo o la famiglia quella che giudica in propria causa e che eseguisce la sentenza, mentre nel secondo stato il giudice è distinto dall' offeso, è comune a tutti, e dell' esecuzione della sentenza s' incarica la forza comune. Così pure fino che il Tribunale politico non è istituito, il popolo è il giudice di fatto, egli è giudice in propria causa ed esecutore della sentenza: quando s' instituisce un Tribunale politico apposito, allora il giudizio è dato ad un terzo a cui di concordia le parti si rimettono. Un tribunale adunque sempre esistette di fatto, come mostrano tutte le storie per gli affari pubblici; come sempre esistette un Tribunale per gli affari privati, mentre sì l' uno che l' altro è fondato nell' umana natura come in essa è fondato il risentimento all' offesa , risentimento che è un effetto immediato dell' idea di giustizia , così necessaria dell' umana natura come necessaria è ad essa la ragione . Ho già osservato che il governo preso nella sua nozione astratta, è un benificio comune, e non un aggravio, che perciò ciascuno può prenderne il possesso se trova il posto vacuo, alla stessa guisa come ciascuno può occupare un disoccupato terreno. Ma riducendo questo principio alla pratica difficilmente si verifica, perchè nella pratica vi si mescolano le ignoranze e le passioni umane. Perciò sono assai rari i casi di popoli sottomessi all' occupante, senza che questi abbia avuto bisogno della forza. Questa difficoltà a lasciarsi governare, in popoli non guasti ancora da idee filosofiche, ma forniti solo della filosofia della natura, è il risentimento , sintomo dell' offesa ricevuta. Ho ancora osservato nella prima parte la cagione per cui l' antichità amava tanto le Repubbliche. Non si era giunto a distinguere la modalità dei diritti dai diritti stessi: non si conosceva adunque il preciso oggetto del governo: governare la società non era per essi regolare la modalità di tutti i diritti, ma era regolare i diritti di tutti: o almeno queste due cose si confondevano nel fatto; e contribuiva a tale confusione l' estensione che prendeva la modalità stessa dei diritti 2) in un tempo, che il fine delle guerre ognor minacciate era l' esistenza, o la distruzione di un popolo. [...OMISSIS...] Anzi perciò appunto era Sovrano e Legislatore perchè estendendosi tanto la sovranità, 2) questa sarebbe stata insopportabile, concentrata nelle mani di un solo, ad un popolo che ritenesse qualche vita morale: il risentimento morale adunque questo naturale giudice delle offese era quello che determinava la stessa forma repubblicana di governo, e colla forza comune realizzava nel fatto la sua sentenza. Quando un uomo solo si fece arbitro dell' imperio romano, si può dire che la virtù era per annientarsi e con essa la luce della verità. La mancanza della prima rendeva gli uomini atti alla schiavitù, e non erano più suscettibili, si può dire, di offese morali, ma solo di offese fisiche poco diversamente da' bruti. Perduta colla morale la intelligenza, in luogo di un Tribunale e di un giudizio politico, si vede un' atroce irritazione di tutti gli elementi della società, che non tendono nè di fare altrui nè di rendersi a sè giustizia, ma di distruggersi scambievolmente. Ricomparisce il Tribunale politico ancora in uno stato naturale, cioè unito al risentimento della società offesa, all' uscire che fanno dal caos del medio evo le moderne società. Ma la religione ha diminuite le passioni dei governanti, e ha dato, sì ad essi come al popolo, idee più esatte di giustizia. In tal modo diventa possibile la Monarchia: il Cristianesimo solo rese questa forma di governo tollerabile non solo, ma carissima alle nazioni. In che consiste questa mutazione della Monarchia, la quale era tanto odiosa all' età pagana nella sua parte più colta, e tanto cara all' età cristiana nella colta Europa? Un grand' uomo n' ha notata la differenza con gran verità: « « I re abdicavano il potere di giudicare da per se stessi. »1) » Fu questa l' opera della Religione divina. Ed il principio che adoperò questa Religione per operare un tanto mutamento di cose fu quella massima: « « Per me regnano i re: »2) » la massima che fa conoscere avervi sopra tutti i re della terra un Tribunale, una giustizia, un Monarca, a cui rendere il conto delle arbitrarie sentenze. Conviene concedere in fatti che questo è un principio fondamentale della Religione cristiana, che questo principio lo fa sentire incessantemente: che l' ha già impresso in tutti gli uomini di Europa. Ma saremmo assai lontani dal vero, credendo che questo fecondo principio abbia ricevuto tutto il suo sviluppamento, che la sua influenza abbia ottenuto tutto ciò che egli può ottenere. Si può ben dire ch' esso sia ridotto quasi interamente nella pratica dei negozŒ civili, ma siamo ben lontani da ciò nei politici; questo è quanto gli rimane di fare. L' autore citato dopo aver indicato il carattere della presente Monarchia europea nell' abdicazione che fecero i re del potere di giudicare per sè stessi, osserva che i popoli in contracambio dichiararono i re infallibili ed inviolabili. Così è in fatto. E sarà pienamente, quando pienamente i Re avranno abdicato un potere che esclude essenzialmente l' arbitrio; e che è tanto venerabile e divino quant' è più sicuro interprete e sacerdote della giustizia un potere che è augusto non pel ministro che lo esercita, ma per sè stesso. I popoli non avendo da temere più nulla dai re, abdicano anch' essi naturalmente il potere di giudicare da sè e di farsi giustizia: in tal modo i re ed i popoli pienamente cristiani eseguiranno il precetto: «Non giudicate e non sarete giudicati. 1) » Ma giova vedere il lento corso pel quale la società cristiana tende a tanta perfezione. Il primo passo fu quello di rendere possibile la Monarchia fondandola sulla giustizia, e restringendola per conseguente a non disporre che della Modalità dei diritti. Ma questa Monarchia ancor bambina doveva essere educata, e fino che nol fosse, doveva ritenere degli antichi costumi. La società parimenti doveva nella stessa ragione tenere presso di sè il Tribunale politico. Vediamo come ne faceva uso nei casi ordinari. Le parti del popolo, dice il Sismondi parlando delle forme di governo dei popoli settentrionali del medio evo « « erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni. »2) » Ecco il passo dall' antica alla nuova forma di governo: nell' antica non poteva essere legislatore che il popolo: nella nuova il popolo non è più legislatore ma il Monarca, egli si riserva solo di approvare le instituzioni se sono tali che non suscitino in lui il risentimento morale; e se all' incontro sono tali che il suscitino, di manifestarlo e di riprovarle. Ed ecco la Monarchia europea nella sua prima età: essa non è propriamente limitata nel suo potere di regolare la modalità dei diritti, che è ciò che forma la sua natura; ma vi intervengono gli abusi; le passioni e le ignoranze operano ancora e spingeranno talora il sovrano a passare il suo confine: il popolo adunque dovea risentirsene. Alcuni teoristi crederebbero che tale costituzione fosse concertata. Niente affatto. Ella nasceva dalla natura della cosa. La società si lascia governare (quand' ella non sia corrotta da false dottrine) ma non si lascia offendere: la sua reazione, adunque, o sia l' esercizio dei giudizŒ politici, è tanto maggiore quanto essa viene più frequentemente offesa; e l' autorità del governante per conseguente è più libera ed indipendente quanto meno offende, e più rigorosamente opera la giustizia. Egli è anche inutile ricercare se la società ha il diritto di reagire contro chi la governa: perchè basta sapere come sta la cosa nel fatto; e si potrà conoscere che così fu sempre, e che sarebbe contro la natura delle cose supporre il contrario. In fatti la natura si risente quando viene offesa: potrebbe egli darsi il caso che un popolo venisse tutto intero distrutto senza ch' egli mostrasse il minimo risentimento? Or non è già questo un caso ipotetico: un popolo naturalmente sta quieto quando può vivere, ma si risente per buttare da sè quelle leggi, e quegli ordini sotto dei quali egli non potrebbe vivere: per quanto possa essere grande il suo eroismo nella tolleranza, quando non possono più andar le cose, debbono cadere. Le modificazioni adunque della Monarchia assoluta cristiana sono tutte da ripetersi dalla sua propria imperfezione; la sua natura rimane sempre la medesima cioè quella di essere un potere supremo ed universale, e per ciò stesso illimitato fino che non esce dal suo oggetto, ed i temperamenti che si trovano posti alla medesima nel medio evo non consistono che nel giudizio popolare ecclesiastico dato in diverse forme; cioè o tumultuosamente o in Assemblee stabilite, o da tutto il popolo, o dalla classe dei Nobili. Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre acattoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiar nei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un' eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avvanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non proprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un' origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè così universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua Storia del Parlamento d' Inghilterra . Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli AssassinŒ e Furti politici . In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei bruti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portano sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: [...OMISSIS...] E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' Imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già ci si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto ci si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco com' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. [...OMISSIS...] Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre. E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare di sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loro autorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma né pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che è la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, è appunto quella che si è francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al di fuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Filosofia politica naturale

633282
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Non è già con questo che essi abbandonino una parte della equità; mentre è coll' animo cioè con una vera volontà che essi sono obbligati di seguirla tutta. Se malgrado di questa loro piena volontà, per mancanza di cognizione o di potere, avviene che in qualche sua parte esternamente non la pratichino e non la realizzino; questa non è che una mancanza materiale, e non già morale; non seguono per questo meno tutta intera la equità. Ma v' ha di più. Siccome nissuno uomo è obbligato moralmente all' impossibile, così nissun uomo ha il diritto di chiedere l' impossibile dall' altro uomo. Se due facendo insieme una convenzione non possono trovare il giusto punto dell' equità, non debbono per questo venire a discordia, ma bensì sono obbligati di stringere la convenzione stessa secondo un' equità approssimativa. Questo è ciò che nasce continuamente nella vita umana. Supponete, che più persone debbano dividersi egualmente una grande eredità: egli sarà tante volte impossibile di fare le parti giuste di una esattezza matematica: le stime dei fondi non possono giammai essere che approssimative, perchè sono l' opera degli uomini; il credito dei debitori della massa anche esso non somministra che un dato di approssimazione; e può cagionare dei gravi sbagli. In somma l' eguaglianza matematica non si ha mai, nè si potrebbe conoscerla avendola: il diritto delle parti adunque non si estende ad esigerla; perocchè i diritti debbono essere sempre ragionevoli, e non possono esigere se non ciò che è possibile: e ciò appunto è quello che propriamente si chiama equità, per distinguerla dalla giustizia, colla quale si vede essere da questo esempio intimamente connessa. L' equità dunque si può dire che non sia se non se la giustizia in pratica; giacchè la giustizia speculativa si può rare volte ottenere nella pratica, e non potendo gli uomini d' altra parte chieder giammai l' impossibile, sono obbligati dalla ragionevolezza che debbe accompagnare i loro diritti, e che è pur essa un principio di giustizia, a restringere i medesimi a tutto ciò che è possibile, che è quanto dire, a cangiare ciò che è giusto in ciò che è equo, mentre il sommo diritto cessa d' esser diritto; ma, secondo il proverbio antico, diventa somma ingiuria. Or come nella giustizia propriamente detta consiste ciò che secondo la legge naturale si può prefiggersi per fine , così nella equità viene indicato quel mezzo onde secondo la legge naturale si debbe ottenere quel fine. Giusto è adunque il fine di una giustizia stretta , giusto è il mezzo di una giustizia che propriamente si chiama equità . Gli uomini sono obbligati da una legge morale di prefiggersi nelle loro convenzioni quel fine giusto; e perchè se lo debbono prefiggere efficacemente per ciò sono obbligati altresì di ottenerlo con questo mezzo giusto: la giustizia stretta nel fine: la equità nel mezzo di ottenerlo, ecco ciò che rende possibili fra gli uomini le convenzioni giuste. Applichiamo questi principŒ alla convenzione più estesa di tutte che possano far gli uomini, ossia alla formazione della civile società. Conviene prima di tutto nella formazione della medesima vedere quale sia il diritto che può reclamare in essa qualunque persona che si assembra e tratta insieme per parteciparne. Giacchè nessuna persona può essere costretta senza ragione a rinunziare ai proprŒ vantaggi, quindi è necessario prima di tutto vedere quali sieno i vantaggi che ciascuno può avere in detta società, quale il posto che ciascuno può convenevolmente occupare. Noi abbiamo fatto questa ricerca ed abbiamo riconosciuto che la parte che si può avere in detta società può essere di due specie che abbiamo contrassegnato coi vocaboli di rappresentazione passiva e di rappresentazione attiva: che la rappresentazione passiva conviene indistintamente a tutti gli uomini; mentre ragione vuole che non partecipino della rappresentazione attiva se non quelli che vivono sopra dei fondi di ricchezza materiale e ciò in proporzione di detti fondi. Questo pertanto è il fine giusto della società; fine nel quale debbono ragionevolmente convenire: e dico fine giusto perocchè nessuno dei membri sociali potrebbe esser costretto senza ragione a rinunziare ai vantaggi che a lui apportano le basi soprafissate: conciossiacchè sono ragionevoli e venienti come conseguenze dai diritti di ciascheduno. Questo fine pertanto debbe ciascun membro della società futura prefiggersi di ottenere nella istituzione della medesima, e non perderlo giammai dallo sguardo. Ma debbe tenersi in esso così costante lo sguardo per ottenersi pienamente? Non già: ma per ottenersi quanto più si può: mentre quand' egli si ottiene nel miglior modo che si può, si ottiene pienamente: giacchè la perfezione morale non consiste se non nell' uso di tutte le proprie forze per la consecuzione di ciò che è giusto, non già nell' ottenimento materiale di ciò che è giusto: questo si potrebbe ottenere senza aver fatto la giustizia. E` dunque un dovere della legge naturale la formazione della Convenzione civile nel caso da noi proposto: è un dovere della legge naturale volerla formare secondo le basi della giustizia di sopra da noi stabilite: finalmente è un terzo dovere della Legge naturale recedere dal proprio diritto in quella parte nella quale non si può ragionevolmente esigerlo dagli altri soddisfatto, perchè ciò sarebbe loro impossibile, come è impossibile esigere la esattezza matematica nella divisione di una possessione, di una casa, di uno stato. Ciò solo adunque che possono esigere scambievolmente gli uomini, che vogliono comporre insieme una civile società, si è che sia adoperata la maggiore esattezza possibile nella divisione del potere civile: ma nulla più: e per la maggiore esattezza possibile non altro debbesi intendere che quella che risultar può dai lumi comunicati di tutti i membri, e messi a profitto mediante l' esame dei SavŒ universalmente reputati per forza di mente, per provetto consiglio, e per integrità. Qualunque adunque sieno per essere nella pratica esecuzione degli articoli sopra esposti le deviazioni dai medesimi , queste debbono essere sempre accordate dalla Assemblea dopo che è stato dimostrato: 1 che esse sono necessarie per l' ottima consecuzione del fine sociale, cioè pel comune vantaggio; 2 ch' esse sono le deviazioni menome che far si possano, dati i lumi suggeriti dalle persone, che concorrono nella società civile da istituirsi. La esecuzione del sopraesposto progetto viene pienamente giustificata, quando avendo tutti i sozŒ ampia facoltà di comunicare i loro lumi nessuno di essi ha saputo suggerire di meglio: suggerire cioè degli espedienti che più dappresso s' avvicinassero all' esecuzione delle basi sopra poste di giustizia, e che diminuissero le deviazioni necessarie dalle medesime. Egli è da questo ragionamento che risulta la consolante verità « che l' uomo amatore della giustizia non debbe punto atterirsi dallo stabilire delle regole difficili all' esecuzione, ma che tutto ciò che è giusto per difficile ch' egli sia debbe essere tratto alla luce, ed ampiamente e coraggiosamente esposto: giacchè, perciò che abbiamo detto, tuttociò che è giusto è altresì possibile: purchè l' equità sia quella che s' interponga quasi mediatrice fra esso e gli uomini nell' esecuzione: quell' equità che consiste nel concedere le menome deviazioni da quelle regole: e che coll' accrescimento dei lumi concede sempre meno; perchè ritrova ognora degli espedienti migliori che minorano indefinitivamente quelle deviazioni, e conducono la pratica sempre più vicina indefinitivamente alla teoria. » Riassumendo le cose dette, la Commissione presentò in un nuovo aspetto quella parte di progetto della società civile da istituirsi, che finora aveva presentato all' Assemblea, e che difendendo passo per passo avea fatto adottare dalla medesima. Fece osservare che le due rappresentazioni proposte, cioè la passiva e l' attiva, la prima delle quali corrispondeva alla specie di diritti che è comune a tutti gli uomini, l' altra a quella specie di diritti che è propria dei benestanti, erano d' un' indole totalmente diversa: la prima aveva per iscopo la sicurezza , o difesa dei diritti; la seconda la ricchezza o l' aumento dei diritti, i quali erano quei due scopi a cui finalmente tendeva ogni civile società. Mostrò come la sicurezza o la difesa dei diritti era cosa partenente alla giustizia , e come la ricchezza o l' aumento dei diritti era cosa appartenente all' utilità : giustizia dunque ed utilità erano i due scopi suddetti della società che si trattava di istituire. Un potere adunque che trovasse o difendesse dove che sia la giustizia, ed un potere che cercasse e procacciasse l' utilità, erano i due perni su cui si volgeva tutta la società civile, a quel modo che la Commissione aveva creduto di progettarla. Questi due scopi erano al tutto necessarŒ da conseguirsi, e per l' umana dignità il primo più necessario ancora del secondo: dunque i due poteri che presiedevano a questi scopi erano supremi tutti due, e tutti due dovevano coesistere. Il potere che presiedeva alla giustizia non poteva avere altra forma che quella d' un Tribunale: il potere che presiedeva all' utilità non poteva avere altra forma che quella di un' Amministrazione: un Tribunale politico adunque ed un' Amministrazione erano i due poteri supremi della società; erano le due parti essenziali del governo della medesima. Questi due poteri, queste due parti essenziali del governo, il Tribunale politico e l' Amministrazione, corrispondono ai due modi dell' esistenza umana, cioè al modo di esistere come essere morale e al modo di esistere come essere sensibile: l' uomo esiste in tutti e due questi modi contemporaneamente: la società dunque degli uomini non può che avere anch' essa due modi di esistere, cioè un modo morale, ed un modo materiale e fisico: essa debbe essere mezzo che armonizzi queste due esistenze dell' uomo, e che nel mentre che essa procaccia di fare la felicità di lui come essere sensibile, non lo deteriori come essere morale. L' esistenza morale dell' uomo riguardo alle cose esterne che possono essere oggetto della civile società, viene conservata nella sua integrità mediante la giustizia, e per ciò mediante un Tribunale politico che a questa presiede; l' esistenza sensibile dell' uomo viene conservata e migliorata da una saggia amministrazione dei suoi beni, e perciò anche da una Amministrazione sociale che regola la modalità dei medesimi. L' esistenza risulta da una forza: come adunque v' ha esistenza morale ed esistenza sensibile dell' uomo, così vi ha una forza morale ed una forza sensibile. La forza morale si manifesta nell' uomo dalla reazione ch' essa fa contro tutto ciò che tenta di deteriorare nell' uomo l' esistenza morale: la forza sensibile si manifesta nella reazione che fa a tutto ciò che tenta di nuocere alla sua esistenza sensibile: nella società giocano le stesse forze, e reagiscono in tutte le direzioni: fa dunque bisogno di regolarizzarle perchè non la turbino, e questa regolarizzazione s' ottiene coll' instituire due centri delle medesime, i quali possano agire regolarmente ed ordinatamente: e questi due centri delle due forze elementari dell' uomo e della società sono le due parti elementarŒ del supremo potere: Tribunale politico, centro della forza morale nella società: Amministrazione, centro della forza sensibile o fisica nella medesima: nel primo si esercita ordinatamente, ma colla sua maggior attività la forza morale; nel secondo si esercita colla sua maggior attività la forza sensibile o fisica. Ecco la società civile corrispondente ai bisogni indeclinabili della natura umana. Da ciò la Commissione ne trasse come conseguenza massima: che la maggior cautela dovesse essere conservata, perchè nel Tribunale, centro della forza morale, non si mescolasse di nulla la forza sensibile e fisica: e finalmente credette venuto il punto da presentare all' Assemblea il Progetto del detto Tribunale già precedentemente apparecchiato (Lib. I) il quale progetto diligentemente esaminato da una Giunta apposita e dall' Assemblea stessa, fu finalmente ammesso. L' articolo delle elezioni per la composizione del Tribunale, che si doveva discutere, tornava più difficile a stabilire, che quello sulle elezioni dei membri dell' Amministrazione, poichè per costituire un membro dell' Amministrazione si aveva un dato materiale, qual' era la ricchezza materiale che bastava verificare: all' incontro per eleggere un membro al tribunale politico, nella cui elezione non si doveva riguardare ad altri dati che alla virtù ed alla scienza, non si aveva nulla di esterno, che potesse prestare una certezza fisica, e che escludesse ogni controversia; per cui anzichè ai dati esterni conveniva rimettersi in tali elezioni all' opinione, o sia all' intimo senso degli elettori. Nulla di meno la ricognizione della ricchezza come titolo del diritto di rappresentazione attiva, o sia come titolo al potere amministrativo, ammetteva naturalmente molte frodi, ed eccitava infinite controversie, mentre tutti i benestanti aspiravano ad acquistar la maggior parte possibile del potere civile. Ciò vedendo la Commissione, e dalle dissensioni che nascevano assai chiaramente scorgendo che non era possibile di farli convenire fra di loro, anzi che avanzandosi le discordie minacciava di sciogliersi l' Assemblea senza far nulla, prese il partito di proporre all' Assemblea la seguente proposizione: « Sieno sospesi tutti i negoziati per instituire l' Amministrazione sociale, e si proceda prima all' instituzione del Tribunale politico, innanzi al quale ognuno potrà poscia presentare le ragioni ch' egli ha di partecipare al potere, o sia lo stato della ricchezza ch' egli possiede, e dietro la ricognizione che farà della medesima il Tribunale, ciascuno prenderà il posto che gli spetta nell' Amministrazione sociale. » Essendosi riconosciuta l' equità della proposizione si rivolse l' animo alla composizione del Tribunale politico, che si realizzò secondo il metodo preso dietro alle successive proposte della Commissione. La sola qualificazione che si richiedeva, secondo i principŒ posti, per essere membro del Tribunale politico, consisteva, dopo la libertà, in un grado universalmente riconosciuto come eminente d' integrità e di scienza. In tal modo l' uomo il più misero poteva essere sollevato a quella parte del supremo potere che consisteva in un tal Tribunale. Nè solo tutti i liberi, proprietarŒ e non proprietarŒ, potevano esser chiamati a questo genere di dignità: ma ben ancora questo Tribunale era fatto per tutti egualmente: proteggeva i diritti di tutti, ed in cospetto a lui tutti erano eguali. 1) Ciò premesso, gli elettori dei membri di questo Tribunale doveano dare il loro voto come uomini, e non come ricchi, o come forniti di qualche accidentale differenza dai loro simili; dovevano darlo come esseri morali, e in stretta coscienza, sotto il più grave giuramento. Ma quali dovevano essere questi elettori? Tutti quelli di lor natura che potevano considerarsi come esseri morali, tutti gli uomini giunti all' uso di ragione. Questa fu l' idea generale seguita dalla Commissione, e suggerita dalla natura del detto Tribunale. Ma nel tradurla in una legge fu cauta di non obbliare le relazioni naturali, che legavano insieme gli uomini, e dalle quali, in qualunque circostanza questi si trovassero, non potevano prescindere: che perciò dovevano conservarle anche nello stato di elettori dei membri al politico Tribunale. La legge adunque proposta dalla Commissione sugli elettori del Tribunale politico fu distinta negli articoli o paragrafi seguenti: 1 I voti sono tanti quanti gl' individui nella società: quelli che non sono in possesso dell' uso della ragione lo danno mediante i genitori, od i tutori, o i curatori. 2 Ciascuno che è ammesso a dare da sè il voto elettivo non può delegare alcun altro a questo ufficio, senza stretta necessità. 3 Tutti i capi di famiglia hanno il diritto e il dovere di dare il voto elettivo. 4 Le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei padri: i mariti danno, oltre al proprio, un voto per la moglie; ed i padri e le madri vedove oltre il proprio danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli di qualunque età sieno. 5 Dopo instituito il Tribunale le mogli ed i figliuoli non emancipati possono essere abilitati dal Tribunale medesimo al diritto di voto, quando ciò esigano per giuste cause contro i mariti ed i padri, o le madri vedove. del voto. Discutendosi il primo articolo di tal legge taluno disse che sembrava dover essere necessario negli elettori non solo l' uso della ragione, ma l' età maggiore. La Commissione osservò contro tale obbiezione che nell' uomo non si esigeva già egual grado di ragione per qualunque operazione ch' egli facesse: che coll' età maggiore veniva dichiarato abile ad amministrare il suo patrimonio: il che richiedeva maggiore cognizione e capacità che non sia a dare il voto di cui si tratta; poichè lo scopo di questi voti non è solamente quello di ritrovare le persone più scienziate e virtuose, ma oltre di ciò di trovare in particolare le persone più ben amate, le più benevoli, le persone cioè che non abbiano particolari avversioni ed inimicizie: quindi il voto si debbe considerare anche come una dichiarazione, che la persona votata si riguarda come benevola e affezionata: su di che può recar giudizio chi che sia in possesso dell' uso della ragione. Fissandosi l' età maggiore per qualificazione dell' elettore si escluderebbero molti arbitrariamente di quelli che pur avrebbero diritto di votare, e la deviazione dalla rigorosa giustizia non sarebbe la menoma: non sarebbe dunque equa tale arbitraria esclusione. In conferma del secondo articolo la Commissione dimostrò il danno che ne avverrebbe, se si rendesse possibile di accumulare arbitrariamente molti voti in una stessa persona: accumulazione contraria all' intima natura della istituzione; poichè essa è basata sul principio che tutti gli uomini sono giuridicamente eguali; cioè che tutti gli uomini sono egualmente esseri morali. Il voto che si dà è fornito di tre caratteri, e fa tre ufficŒ diversi: 1 rappresenta l' essere morale , ossia i diritti essenziali dell' uomo; 2 esprime un giudizio sulla scienza e virtù dei candidati ed esprime insieme il desiderio , o affezione generale dei candidati: affezione che è il segno della mutua loro benevolenza; 3 finalmente è un atto di autorità e di forza morale, che ha le sue conseguenze esterne, nel modo onde segue l' istituzione. Ora egli è da tenersi qual principio fondamentale « che il perdere alcuno di questi tre effetti del voto senza ragione è dannevole alla società, e rende difettosa l' istituzione. »Ciò posto, se non s' impedisce l' accumulazione arbitraria dei voti, si vanno a perdere i due primi ufficŒ del voto e a guastare il terzo. In fatti il primo suo officio, come diceva, è quello di rappresentare l' essere morale , o sieno i diritti essenziali dell' uomo. Ora in quanto a questo officio egli è assurdo che un uomo possa dare due voti; mentre non è che un solo essere morale. Non è dunque possibile che un uomo deleghi un altro a dare il voto per lui; mentre qualunque voto desse questo secondo non sarebbe che l' espressione del proprio giudizio e non quello dell' altrui; egli è dunque necessario che ciascuno che dà il voto lo dia da se stesso; come è necessario che un uomo che pensa, pensi da sè stesso: e sarebbe assurdo affermare che si pensa per la ragione che v' ha un altro che pensa. Medesimamente il voto per delegazione non supplisce al suo secondo ufficio e in quanto a questo ufficio è pure di natura sua inalienabile. Questo voto riguardo al suo secondo effetto è un giudicio che si dà sui candidati. Ora il giudicio di una persona non può essere che uno. Quando io ho ricevuto da una persona il suo consiglio in un affare, è assurdo il pretendere ch' esso me ne dia un altro; mentre sarebbe pur un consiglio solo ripetuto due volte, e non mai due consigli. I voti adunque degli elettori sono tanti consigli o giudicŒ, e perciò niuno di essi può avere il diritto di darne più che un solo; perchè ha una mente sola, una volontà sola, ed è un uomo solo. Finalmente egli è vero che considerati i voti come meri atti di autorità si possono di loro natura accumulare, ciò che la Legge riconosce riguardo ai padri, ai mariti ed ai tutori. Ma questa accumulazione quando fosse arbitraria porterebbe alterazione nella Costituzione sociale; perocchè i ricchi potrebbero comprare in tal modo i voti dei poveri, e gl' ignoranti sacrificare se stessi alla altrui avidità: in tal caso il Tribunale politico non otterrebbe più il sacro suo scopo di opporre una forza morale agli abusi della forza fisica; di difendere cioè tutto ciò che è debole nella società contro tutto ciò che in essa è forte. Il terzo articolo incontrò opposizione in ciò che parve aggravarsi di un peso i capi di famiglia coll' obbligarli a dare il voto. Ognuno, fu detto, debbe poter rinunziare quand' egli voglia al proprio diritto. Rimane forse offeso qualcheduno perchè altri rinunzia al diritto che possiede? Se alcuno rinunzia al proprio diritto, gli altri lungi dal perdere ne guadagnano; perocchè approfittano del diritto abbandonato. Ma quelli che così parlavano non si accorgevano, come fece osservare la Commissione, che non si trattava di una società civile a quel modo ch' ella si trova instituita presso varŒ popoli, in cui vi fossero già delle persone che s' incaricassero di tutte le incombenze che la società civile porta con sè, sicchè il resto dei cittadini ne rimanesse al tutto scarico. Nella società civile all' incontro che volevasi instituire era necessario, che fosse stabilito parimenti fra i membri un corpo di persone che assumessero sopra di sè, come dovere, le incombenze della medesima, perchè queste non fossero lasciate ad arbitrio, o commesse alla ventura. Che riguardo a quest' incombenza particolare di eleggere il Tribunale politico era necessario di stabilire un corpo di elettori stabile: ed era necessario che questi s' obbligassero a ciò: affinchè per una continua titubanza nel numero e nella qualità degli elettori la società stessa non perisse, o almeno il Tribunale politico riuscisse a non essere più l' espressione della volontà di tutti, ma l' espressione della volontà casuale di pochi. In questo secondo caso egli potrebbe fors' anco esistere il diritto, giacchè col non venire all' elezione di molti, questi si rimetterebbero tacitamente al volere dei pochi, quando ciò fosse da principio accordato: ma egli non esisterebbe veracemente di fatto: egli non potrebb' essere nè amato nè venerato; giacchè per esserlo, tutti i cittadini debbono veder in esso l' opera propria. Finalmente che cosa si cerca in tal' elezione? si cerca forse l' instituzione di un Tribunale solamente? non già, ma si cerca di ottenere l' instituzione del Tribunale il più sapiente, il più integro, il più ben voluto, il più autorevole, il più rispettabile. Questo si può egli ottenere, se non mediante il parere della maggior parte al meno della nazione? se adunque vengono a mancare dei voti dei padri di famiglia, vengono a mancare insieme dei lumi per ciò ottenere: vengono a mancare dei pareri e dei voleri; viene a mancare insomma parte dell' opinione pubblica. Ciò nuoce di certo allo scopo dell' instituzione: si rende adunque necessario che la società non sia privata dei voti dei capi di famiglia, e questo è un obbligo che si debbono assumere dal punto che vogliono unirsi in una società civile equamente ordinata, altrimenti sarebbero in contraddizione con se stessi. Si domandò che cosa dovevasi intendere per capo di famiglia; e dopo varie proposte fu convenuto, di estendere la definizione del capo di famiglia a qualunque persona libera che non fosse soggetta all' autorità paterna o materna, maritale, o tutelare o curatoria. 1) Maggiore dibattimento cagionò il quarto articolo, col quale si escludevano dal dare il loro voto a parte le mogli ed i figliuoli, perchè si consideravano i voti di questi compresi in quelli dei mariti e dei padri; e si dava all' incontro al marito il voto della moglie, al padre i voti dei figliuoli. Le ragioni di questo articolo altre riguardano la prima parte, ed altre la seconda del medesimo. Cominciando dalla seconda parte essa dice, che i mariti « oltre il proprio, danno il voto per la moglie, ed i padri, oltre il proprio, danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli. » Il voto, considerato come un atto d' autorità, spiega questa seconda parte, supposto la prima ammessa: poichè non conveniva che una famiglia numerosa avesse un solo grado di potere (giacchè un atto d' autorità è un grado di potere) come una famiglia formata da una sola o da due persone. Poichè nella famiglia numerosa vi sono tanti più diritti da difendere e da rappresentare quanto è maggiore il numero delle persone che la compongono. Perchè adunque gli uomini fossero trattati con quella eguaglianza che richiede la natura della istituzione conviene che i voti stieno in ragione del numero delle persone componenti la famiglia. Si oppose che i padri poveri, i quali non hanno da alimentare i loro figliuoli, non debbano avere il vantaggio di dare i voti pei medesimi. Ma si osservò ancora che ciò che dava al padre simil diritto era l' esser padre, e non l' esser ricco: e che come la società civile non poteva fare che non fosse padre, così non doveva neppure negare al medesimo ciò che nasceva dalla sua paternità; il pieno diritto sopra i suoi figliuoli. La prima parte dell' articolo quarto diceva: « che le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei genitori. » L' opposizione esagerò il pericolo, che i padri e i mariti abusassero di tale autorità, disse che riunendo nei padri e nei mariti i voti dei figliuoli e delle mogli si privava la società di un maggior numero di consigli; e si accumulava in un solo uomo, cioè nel capo di casa, troppa autorità ed inadatta, perchè il Tribunale doveva essere costituito anche contro gli abusi della potestà paterna, e della maritale; che si deviava con ciò dal principio che rispetto a questo Tribunale tutti gli uomini fossero uguali, giacchè con tale accumulazione di voti si considerava il padre fornito di più voti, ed i figliuoli privi di tutti. Ma la Commissione all' incontro: Non si debbe intendere nel modo degli opponenti il principio che il Tribunale considera gli uomini tutti eguali. Questa uguaglianza comincia solo allora che due parti vengono fra di loro in discordia: prima di questo tempo le persone nulla hanno a fare col Tribunale; ed elle sono rispetto al medesimo come se non fossero. Il Tribunale adunque non altera punto le relazioni naturali fra gli uomini: e se li suppone eguali ciò è nel solo punto della discordia, innanzi cioè che si sappia a cui delle due parti appartenga il diritto conteso. Se dunque il Tribunale non altera punto le relazioni naturali degli uomini, che pacificamente si riconoscono e si conservano; ma solo interviene allorquando accade che qualche punto non sia riconosciuto o venga messo in questione, sarà da vedere quale naturale e riconosciuta relazione soglia trovarsi tra i genitori ed i figli, tra le mogli ed i mariti; e secondo il detto d' un savio antico, ciò che è naturale dovrà cercarsi non già nella depravazione, ma anzi nella integrità della natura. 1) Ora considerata l' indole della famiglia non depravata, noi troveremo la volontà dei figliuoli essere al tutto indivisa da quella dei padri, e la volontà delle mogli essere al tutto indivisa da quella dei mariti. E` l' amore che di più volontà ne forma una sola: e questo amore non solo è naturale, ma ben anche è doveroso. La società civile adunque debbe riconoscerlo, la società civile debbe sancirlo: egli è uno stretto dovere del figliuolo di convenire fino agli estremi della onestà col volere dei suoi genitori, come è un dovere della moglie di uniformarsi al volere del marito. D' altro lato i genitori, come fu già osservato, hanno sopra i loro figli un diritto, non già arbitrario, ma tuttavia illimitato, cioè che dalla parte dei figli non ha coazione reattiva. Se dunque viene istituito il Tribunale per tenere nei suoi doveri gli stessi genitori, questo tuttavia non viene ad istituirsi che mediante la ragionevolezza degli stessi genitori: questi sono quelli che da un prudente timore della propria fragilità sono indotti a sottomettersi a un Tribunale: prendendo nel tempo di calma una tale risoluzione, che può raffrenarli nel tempo dell' agitazione, e contenerli dagli eccessi. Egli è dunque conforme alla natura della cosa che i voti dei figliuoli sieno dati dai padri, il qual discorso, sebbene non si possa applicare con tutto rigore alla condizione dei mariti, perchè le mogli hanno almeno il diritto sulla propria vita, tuttavia può applicarsi in parte per la strettezza del nodo maritale. Che se i padri ed i mariti operando contro la loro naturale relazione tiranneggiassero i figliuoli e le mogli, questi dopo l' instituzione del Tribunale potrebbero secondo il quinto articolo far riconoscere dal medesimo la propria causa ed acquistare il diritto di voto separato: poichè in questo caso di disunione comincierebbe l' azione del Tribunale, e dall' istante che comincia quest' azione le persone legate insieme diventano relativamente alla medesima uguali. Egli è vero che ciò non può aver luogo nella prima instituzione del Tribunale, nel qual tempo il Tribunale ancora non esiste a cui richiamare; ma questa piccola irregolarità, di natura sua inevitabile, non è che una di quelle deviazioni che si fanno dalla rigorosa giustizia per mezzo della equità, la quale, come dicevamo, è la sola giustizia pratica. La proposizione all' incontro fatta dagli opponenti, che i padri raccogliessero i voti dei loro figliuoli ed i mariti quel delle mogli, costituirebbe e autorizzerebbe legalmente una falsa posizione dei padri rispetto a' figliuoli, e dei mariti rispetto alle mogli: perocchè i figliuoli che vedono costantemente il padre aver bisogno de' loro voti, si formerebbero e con ragione, un' idea di eguaglianza fra sè ed il padre, e la moglie fra sè ed il marito, mentre l' idea che i figliuoli debbono avere del padre è, come dicevamo, quella di una superiorità, arbitraria no, ma sì illimitata: cioè tale che non vi sia nessun caso in cui essi credano: d' avere all' esterno qualche diritto, qualunque egli sia, indipendentemente dal padre: e così pure l' idea che la moglie debbe formarsi del marito si è di un' autorità amorevole, dalla quale essa non avvenga che mai dissenta in nessuna delle esterne relazioni. Coll' introdurre adunque nella famiglia un tal simbolo di eguaglianza fra il padre ed i figliuoli, la moglie ed il marito, si altererebbe la costituzione naturale della famiglia, si introdurrebbe in essa una eguaglianza costitutiva in luogo dell' eguaglianza giuridica: e l' elemento democratico, che nel Tribunale politico debbe apparire soltanto in quel punto che nascendo una discussione o dissensione fra due parti, queste debbono comparire al suo cospetto per riceverne la sentenza, ciò che è quanto dire, che debbe comparire soltanto nelle accidentali irregolarità, si trasporterebbe e pianterebbe nello stesso corso regolare alterando in tal modo l' ordine legittimo e naturale. A mal grado di tutto questo ragionamento il principio che fosse meglio prevenire i disordini anzichè emendarli dopo avvenuti, faceva impressione sull' Assemblea, e la inclinava dalla parte degli opponenti; giacchè pareva che col dare a' figliuoli ed alle mogli un voto separato, si evitasse l' abuso che potevano fare i mariti ed i padri della loro autorità. Per il che la Commissione, movendo da più alti principŒ il suo discorso: Pretenderete voi, disse, di esser più savŒ o più potenti dell' autore della natura, il quale stabilendo l' autorità paterna e la maritale le ha fatte di una tanta estensione di quanta voi essere la scorgete? si è egli trattenuto dal concedere ai padri ed ai mariti tanta autorità quanta essi hanno pel timore che ne facessero abuso? E se a malgrado del pericolo che v' era di questo abuso, tale e tanta la diede loro, non è ciò segno che doveva più giovare assai questo forte grado di autorità, che non nuocere tutta quanta la possibilità degli abusi? sì, nuocono gli abusi: ma nuoce anche diminuire il grado dell' autorità di cui s' abusa: conviene ricercare quale più nuoca. Dio l' ha deciso: ha permesso gli abusi anzi che togliere l' autorità. Questa l' ha lasciata in tutta la forza del suo diritto: quelli li ha raffrenati con una legge morale, ma non giuridica. Imitate dunque l' autore della natura. Potrete anzi non imitarlo? avrete autorità di derogare a ciò che egli ha stabilito? Non sapete voi che contro alla legge naturale tutta la legislazione umana è nulla e irrita per sè stessa? Orsù accingetevi della vostra autorità, e fate se potete, che il padre non sia padre, e il marito non sia marito. Se voi convenite insieme di dichiararli decaduti dai loro diritti, la vostra dichiarazione arbitraria varrà al più al più fino che voi vivrete: i padri ed i mariti che succederanno dopo di voi, riprenderanno il loro potere, e non si crederanno, con ragione a dir vero, obbligati ad una disposizione arbitraria dei loro precessori. Introducendo adunque una tale disposizione contro natura nella costituzione della società, non fareste che render fragile questa costituzione, e di una esistenza momentanea, come è momentaneo l' arbitrio degli uomini, mentre dovete procacciare di renderla ferma e stabile quanto è stabile la natura. Non gettate adunque nella costituzione sociale quei semi che fruttano la dissensione fra i vostri posteri e le turbazioni dello Stato. Per quello che voi dite, che i mali si debbono anzi prevenire che emendare dopo avvenuti, questo è vero fino che si può: ma havvi un limite oltre al quale non si può. Vorreste voi prevenire i mali col fare voi stessi dei mali, o almeno coll' occasionarne degli altri in futuro? Ecco il limite che aver debbe la vostra proposizione, che sia meglio prevenire colle istituzioni i mali, che emendarli dopo avvenuti. Le istituzioni sociali, che non hanno di lor natura altro scopo che di prevenire i mali, sono eccellenti; perchè lo scopo loro è lodevolissimo, e tali sono le leggi, ed i Tribunali criminali. Ma quando si vuol piegare al fine di prevenire i mali quelle istituzioni che di loro natura hanno anche un altro scopo, allora si va bene spesso a pericolo, che volendo con queste ottener due fini, non se ne ottenga nè pur uno, e che lusingato l' autore di quella instituzione da questo fine accessorio di evitare tutti i mali che l' instituzione può nel suo andamento produrre, perda interamente di vista lo scopo stesso della instituzione. Le instituzioni civili di questo secondo genere sono tutte quelle che si propongono di regolare i diritti scambievoli degli uomini pel massimo vantaggio possibile dei medesimi. Il maggior vantaggio possibile che ciascuno può trarre dai suoi diritti è lo scopo naturale di tale instituzione. Ora se il legislatore troppo minuto o troppo materiale in luogo di tener sempre fisso col pensiero questo scopo si ferma ad ogni istante a considerare tutti i pericoli possibili che l' instituzione trae seco, e se vuole a tutti mettervi un riparo, egli avverrà indubitatamente che un poco alla volta leghi i diritti di tutti gli uomini, ed anzi continuamente li diminuisca e li distrugga; perocchè non v' è nè pure un diritto che non porti seco il pericolo del suo abuso. Le instituzioni di un tale legislatore riescono tutte false: alterano tutta la naturale posizione degli uomini, e la società civile acquista un organizzazione complicata, e tutta angustiata da vincoli inesplicabili; le leggi si moltiplicano immensamente senza necessità; perocchè ciascuna legge ne chiama delle altre all' infinito, giacchè nel mentre ch' essa vuol rimediare ad un disordine, contorce il naturale stato delle cose, e ne produce infiniti altri. Questo disordine nell' organizzazione sociale, questa falsità nelle istituzioni si scorge da per tutto dove la società sia caduta in una grande corruzione. In tal caso la corruzione sociale strascina lo stesso legislatore, per quanto avveduto egli sia, a delle instituzioni totalmente false; perocchè non v' ha uomo d' ingegno, che posto in una posizione falsa, non sia costretto di fare dei passi falsi. Nella società corrotta gli abusi che gli uomini fanno dei loro diritti si rendono assai frequenti, sì che chiamano con gran forza a sè il legislatore; la loro frequenza arriva a segno che se non viene compressa, minaccia di sovvertire la stessa società, ed è allora il caso che richiama a sè la principale sollecitudine del legislatore: allora è il caso in cui il legislatore concentra il suo studio nel prevenire mediante le sue instituzioni gli abusi, e crede di aver toccato l' apice della sapienza politica, quando è arrivato a persuadersi che il suo ingegnoso ritrovato soddisfi a questo fine. Egli é però impossibile che vi soddisfi pienamente; perciocchè quel mezzo ingegnoso con cui egli ha pensato di ovviare ai disordini, quelle sue instituzioni, che ha tutte ad un simile fine ordinate, sebbene partano dal principio che gli uomini per cui sono fatte sieno cattivi, tuttavia non possono mai supporre una perversità illimitata; tutta la loro lode consiste nell' esser formate da un uomo esperimentato che ha saputo ben conoscere fino al fondo gli uomini del suo tempo, e che ha vedute e calcolate tutte le loro malizie. Non poteva però vedere né immaginare quelle malizie che gli uomini non avevano ancora inventate, giacché il germe che produce tali frutti é di una fecondità inesausta. Egli é per questo che non v' ha istituzione o legge che non possa essere ben presto elusa da un maggior grado di corruzione. Ed egli é da attribuirsi a questa crescente corrutela in gran parte il continuo assottigliarsi dei politici dei nostri tempi, ed il continuo mutar di sistema, condotti da una speranza che continuamente gl' inganna, di giungere all' invenzione di un' organizzazione sociale, che antivegga e preoccupi tutta l' umana perversità. I sistemi politici foggiati su tale principio relativi al tempo in cui sono fatti, ed al grado di corruzione di cui sono arrivati i loro autori a formarsi l' idea, durano un breve tempo, cioè fino che subentra una politica ancora più diffidente, la quale o si rende odiosa, se gli uomini prendendo un andamento favorevole alla moralità trovino infine di vivere sotto instituzioni che li superano nella malignità, ovvero diventa inutile se procedendo gli uomini nella malizia lasciano a dietro in questo miserabile corso la legge che li governa. Ma intanto, come diceva, che le leggi e le istituzioni politiche sono unicamente occupate nel prevenire i mali eventuali che può opporre contro di esse la umana perversità, insensibilmente si snaturano e perdono di vista totalmente lo scopo sostanziale della loro esistenza. Vorrete voi rimediare ai mali eventuali dell' unione maritale? Se soverchiamente siete di ciò solleciti, stabilirete il divorzio, ecco snaturata l' unione maritale. Volete voi prevenire tutti i mali dell' abuso dell' autorità paterna? legherete le mani al padre: ed ecco snaturata la relazione fra padre e figlio. Se un Maestro insegna ai suoi discepoli una scienza, v' é il pericolo ch' essi deferendo troppo alla autorità del maestro apprendano più colla memoria che coll' intelletto. Voi eviterete questo male se ordinerete che ciascuno debba imparare da se stesso senza maestro; ma nello stesso tempo renderete ignoranti tutti gli uomini. Vi dà soverchio timore che il Generale abusi del suo potere sull' esercito? Se voi farete un' instituzione che metta disunione o diffidenza delle armate verso i loro generali distruggerete l' effetto delle militari ordinanze. Il ricco può abusare delle sue ricchezze: prescrivetegli l' uso ch' ei ne debbe fare: voi avete violato il diritto di proprietà: si può dire la stessa cosa analizzando tutti i diritti grandi e piccoli, che sono in mano degli uomini, perchè non ve n' ha alcuno di cui essi non possono abusare. E` dunque da osservare diligentemente qual sia la natura delle instituzioni sociali. Sono esse tali che determinano in se stesse la relazione che hanno gli uomini fra di loro, e determinandola la corroborano, ed è egli questo il loro scopo? In tal caso non si debbono esse contorcere e guastare per ovviare agli abusi a cui sono soggette tali relazioni per altro naturali degli uomini: esse si debbono lasciare intatte, sicchè sieno espressioni fedeli di dette relazioni naturali, e non si alterino punto: e quando ci sia il caso per levare gli abusi delle medesime, si debbono attorniare di altre instituzioni rivolte a questo fine particolare senza che guastino quelle e le contraffacciano. Generalmente parlando adunque sono da distinguere le instituzioni sociali, le quali contengono un' espressione fedele dei diritti naturali, ed hanno per iscopo la prosperità dei medesimi, dalle instituzioni sociali, che sono rivolte unicamente a prevenire i disordini: questi due scopi di far fiorire i naturali diritti fra gli uomini e di prevenirne i disordini, non si debbe congiungerli insieme, non si debbe pretendere di conseguirli con un solo genere di instituzioni, mentre è ben raro che un' instituzione sola possa conseguire ambidue questi scopi, e di solito conviene proporsi di conseguire il primo scopo, cioè quello che sostiene e fa fiorire i diritti naturali degli uomini con un genere di instituzioni, le quali si potrebbero nominare stabilitive: e di conseguire il secondo scopo, cioè di evitare gli abusi dei diritti umani, con un altro genere a parte d' instituzioni le quali si potrebbero chiamare preventive e repressive , che sono d' un carattere totalmente diverso dalle prime. Le instituzioni false dunque nascono allorquando si contorcono le instituzioni stabilitive 1) dal naturale scopo di far fiorire e di dar risalto, anzichè di reprimere i diritti degli uomini, ad ottenere lo scopo proprio delle instituzioni preventive o repressive; cioè a prevenire i delitti degli uomini. Egli è vero, come diceva, che quando la società trovasi estremamente corrotta, il legislatore è costretto di fare delle instituzioni false; 1) è costretto di confondere quei due generi d' instituzioni in un solo: quei due scopi delle medesime in un solo; cioè in quello tendente colla repressione degli abusi a salvare la società. Egli è costretto a ciò perciocché le instituzioni stabilitive sono di loro natura non solo inutili per una tale società, ma ben ancora nocevoli: conciossiacchè esse danno risalto ai diritti degli uomini, e dando risalto ai loro diritti non fanno che accrescer loro le occasioni di abusarne. In una tanto deplorabile posizione gli uomini vengono ad essere giovati coll' esser privati dei loro beni: ed è il tempo in cui la tirannia si proclama come la benefattrice del genere umano! Le instituzioni false esprimono o suppongono che gli uomini sieno in relazioni false fra loro: se gli uomini non hanno fra loro queste false posizioni, le instituzioni false a poco a poco ve le introducono; se queste relazioni false già vi sono fra gli uomini, esse producono a vicenda le false instituzioni e le false leggi. La schiavitù antica era una falsa relazione fra gli uomini: essa doveva produrre tutte quelle false leggi e quelle false instituzioni, che si rendevano necessarie per farla fiorire e per invigorirla: quelle che mettevano in salvo il padrone dalla disperazione dei suoi schiavi: quelle ancora che dalla morte degli schiavi autorizzavano di cavare dei giuochi e delle pubbliche ricreazioni. Non v' ha nessun falso diritto, o sia nessuna falsa relazione degli uomini fra di loro che non abbia portato in conseguenza delle false instituzioni e delle false leggi. All' incontro delle false leggi e delle false instituzioni producono sempre delle relazioni false fra gli uomini, se essi vivono per lungo tempo soggetti alle medesime; ma rare volte sono durevoli, mentre quando la instituzione non va d' accordo colle relazioni fra gli uomini, se questi hanno qualche energia nel loro carattere, si ribellano alle medesime e le distruggono: ed è questo che vi diceva quando avvertiva, che portando voi l' eguaglianza costitutiva nelle famiglie colla legge proposta fareste una instituzione che non poteva durare a lungo, e che avrebbe portato il turbamento nella società, giacchè nissuna instituzione fondamentale viene mutata senza scossa: ma la società stessa vien tirata nella rovina della instituzione che si vuol distruggere fino che sulle proprie rovine di bel nuovo si costruisca. Egli è vero, lo ripeto, che i legislatori sono costretti a delle istituzioni false, allorquando la società è estremamente corrotta; in tal caso tutta l' attenzione del legislatore viene tratta a difendere la società dal suo esterminio, e non a costruirla a norma della sua naturale perfezione: a quello stesso modo che la regola di vita migliore per la salute dell' uomo, nel suo stato naturale, non può esser già quella che si usa con un uomo corroso in più parti da fare cancrene. Ma, se tali instituzioni, che si possono dir false ogni qualvolta si applicano a regolare una società di uomini nel suo stato naturale e non nello stato di corruzione, sono in quest' ultimo stato necessarie, esse però non possono giammai essere che temporanee, cioè fin che dura il morbo della società, il quale nelle nazioni cristiane non è incurabile giammai, conciossiacchè il carattere proprio di queste nazioni è quello di essere sanabili. 1) Ora io spero che non si tratti di fare fra di voi una instituzione temporanea, ma costante com' è l' umana natura. Lo stato di questa gente che si vuole insieme associare non è già quello di corruzione sociale; ma è uno stato di natura in cui gli uomini non sono legati insieme per falsi vincoli: in cui la ragione non è ottenebrata da vizŒ, o non è per una somma ignoranza impotente: 2) in cui finalmente l' onestà e la giustizia non sono voci vane che si usino come mezzi ad ingannare od a tradire, ma sono voci che parlano al cuore di tutti, mediante le venerande idee che in quelli risvegliano. Se adunque i mariti ed i padri abusano della loro autorità, questi abusi non possono essere che accidentali e minori di numero dei casi in cui non abusano: questi casi dunque particolari di abuso non danno diritto alla società civile di legare la stessa autorità (ciò che d' altronde far non potrebbe validamente) ma lasciando quella sussistere, danno il solo diritto di ovviare gli abusi con delle instituzioni particolari ed a tal fine appositamente ordinate. Se delle instituzioni costituissero l' autorità dei padri e dei mariti in un modo diverso da quello che tale autorità è costituita dalla natura, queste sarebbero instituzioni false: cioè sarebbero instituzioni, stabilitive , ossia che stabiliscono una relazione fra gli uomini, le quali si rivolgerebbero ad un altro scopo diverso da quello della loro natura, allo scopo vale a dire di ovviare gli abusi della detta relazione fra gli uomini e così si snaturerebbero, mentre per ottenere un tal fine verrebbero a stabilire la detta relazione fra gli uomini in un modo diverso da quello che la stabilisce la natura: si allontanerebbero in tal modo dal fine proprio per conseguire il fine delle instituzioni di un altro genere cioè delle instituzioni preventive e repressive . Ad ovviare dunque gli abusi dell' autorità paterna e maritale debbono rivolgersi delle instituzioni apposite, le quali non apportino un colpo sopra dette autorità, la cui natura in somma consiste appunto nell' essere preventive e repressive, senza essere stabilitive, o almeno senza stabilire nissuna relazione falsa fra gli uomini, e queste nel caso nostro sarebbono il diritto dato ai figliuoli ed alle mogli di richiamarsi dei loro torti al Tribunale ogni qualvolta li soffrono, e più ancora tutte quelle instituzioni morali che rendendo buoni i padri ed i mariti, li mettono in istato di usare bene il loro potere, seguendo con ciò l' indicazione della natura che ha lasciato questo potere in tutta la sua pienezza dalla parte delle persone soggette, ed all' incontro ha dato ai padri ed ai mariti la legge naturale per moderarlo. Egli è dunque inconveniente e contro la natura delle cose stabilire che il padre abbia il dovere di raccogliere i voti dai proprŒ figliuoli, ed il marito di prenderlo dalla moglie: poichè la natura dei figliuoli richiede ca volontà loro sia quella del padre, e la congiunzione maritale rende il marito capo della moglie: tutto ciò che succede contro queste relazioni non può formare l' ordine, ma non sono che eccezioni dell' ordine. Nè per questo debbesi ridurre ad un voto solo tutti i voti della famiglia, perocchè le famiglie verrebbero costituite con una sproporzione fra di loro; sproporzione cioè di forza politica, mentre il voto, come dicevamo, è anche di sua natura un atto di autorità e quindi un mezzo di difesa. Egli è per questo che si è stabilito il principio, che tanti sieno i voti quante sono le persone componenti la società: al quale coll' articolo che discutiamo non si deroga punto; ma anzi questo articolo non fa che stabilire il modo onde convenevolmente si riduca alla pratica il detto principio: modo che fa sì che si consideri ciascun membro della famiglia compreso virtualmente nel padre, e che perciò in tempo che si riconosce nell' unica volontà del padre tutte le volontà dei membri della famiglia, si fa sì che quest' unica volontà si ripeta per dire così in tanti atti autorevoli, o sia in tanti voti, quanti sono i membri nella famiglia. Dileguate le difficoltà intorno all' articolo quarto, l' articolo quinto dovea venire ammesso come una conseguenza od un perfezionamento del medesimo. Ma diede occasione di maggior dibattimento l' articolo sesto, le ragioni del quale erano le seguenti: Non si potea dare ai padroni il voto dei servi, come si era dato ai padri quello dei figliuoli, o ai mariti quello delle mogli; perocchè mentre questi due vincoli, cioè il paterno ed il maritale, avevano per loro base essenzialmente l' amicizia, il vincolo all' incontro di mera servitù non aveva di sua natura altra base che la utilità: quindi non portava per conseguenza della sua natura che la volontà del servo ordinariamente fosse inchiusa in quella del padrone; anzi piuttosto che fossero due volontà opposte. Oltre di ciò la società paterna e maritale è così stretta che di più esseri se n' ha uno solo, mentre la società che ha il padrone col servo non consiste essenzialmente in alcuna comunanza d' interessi, ma piuttosto in una contrarietà dei medesimi: il vincolo paterno e maritale è tanto fondato in natura che dopo fatto la volontà umana nol può più rompere, il padre nè pur volendo può cessar d' essere padre; mentre il vincolo signorile dipende dall' umana volontà, e il padrone può emancipare quand' egli vuole il suo servo che si rimane d' esser servo. Se dunque è assurdo che l' autorità umana intervenga nei diritti fra padre e figlio, non è ugualmente assurdo ch' ella intervenga nei diritti fra padrone e servo, mentre la volontà dell' uomo può mutare questi, ma non quelli. Le ragioni adunque dell' articolo quarto dove si tratta dei padri e dei mariti non possono applicarsi all' articolo sesto dove si tratta di padroni; e la società debbe ammettere i servi stessi a votare, e se sono mariti anche per le mogli, se sono padri anche per li figliuoli. Non è però necessario che i servi sieno obbligati a dare il loro voto, sì perchè può essere che per essi sia più vantaggioso il non darlo, giacchè tale funzione consuma loro un tempo prezioso se l' hanno in libertà, sì perchè se non l' hanno in libertà, ma l' hanno obbligato a loro padroni, essi non possono disporne, ne possono con facilità aver chi li rappresenti. Finalmente essi non sono necessarŒ, giacchè la società ha un numero di elettori costante e determinato nei padri di famiglia liberi. D' altro lato il caso dei servi non può essere che temporaneo in una società civile cristiana; ed una delle prime cure della medesima, quando sarà instituita, debb' essere di pensare ai modi prudenti onde far passare i servi gradatamente dalla condizione servile a quella di mercenari. Prevedendo la Commissione che in quelli, nelle cui mani veniva a riporsi la pubblica autorità, potevano facilmente entrare dei falsi principŒ per non conoscere ben a fondo le basi su cui si veniva erigendo la civile società, si avvisò di fare adottare il principio del diritto politico imperscrittibile , consistente in questa proposizione: « La rappresentazione politica dei diritti è imperscrittibile. » Essa ben conosceva che ciò che poteva turbare l' ordine sociale si era l' alterazione che poteva esser fatta nella rappresentazione politica dei diritti, non già tanto per prepotenza dei più forti, quanto per un sofisma che facilmente illude le menti dei governanti, e che consiste appunto nella troppa sollecitudine di ovviare ai disordini possibili la quale come era stato dimostrato nella sessione antecedente conduce a fare delle false instituzioni. E che cosa è altro questo sofisma che quello studio che tanto riscalda le menti dei politici per trovare un equilibrio fra i poteri dello Stato? Questo problema che così posto è insolubile, e quando anche fosse solubile non sarebbe che per un istante, per l' istante cioè che dura l' artificioso equilibrio; non ha importanza se non supposto che il principio che debbe determinare la costituzione sociale debb' essere unicamente quello di ovviare a tutti i possibili disordini della medesima: ma la costituzione appartiene alle instituzioni stabilitive, ed il fine proprio delle instituzioni stabilite non è già quello di evitare i disordini ch' esse stesse producono, ma bensì di stabilire le vere relazioni fra gli uomini. Ed in vero, se si vuole che una istituzione si cauteli contro la propria azione, la propria azione dunque è diversa dall' azione con cui si cautela, e questa viene dopo di quella: questa perciò non debbe nè mutar nè distrugger quella. Se dunque volendo dare la costituzione ad uno Stato si si propone per iscopo principale di evitare i disordini ch' essa stessa genera, si cade in una specie di contraddizione, e in uno strano circolo; e si va ad alterare l' indole naturale della costituzione facendo ch' essa invece di una instituzione stabilitiva qual debb' essere, diventi una costituzione preventiva o repressiva, quello che non debbe essere, ed in tal modo essa riesce la più mostruosa cosa, e non ottiene il suo fine, nè il fine che si è usurpato, appartenente ad altre instituzioni al tutto d' altra natura dalla sua. Il falso principio adunque che quella sia la costituzione migliore della società, la quale prevenga tutti i mali della propria azione, è quello che produce tante assurde costituzioni degli Stati, ed è quello da cui la Commissione temette con ragione che potesse venir alterata quella forma di società ch' essa avea disegnata, come la più equa e la più perfetta. Condotta da questo timore fece osservare all' Assemblea che conveniva fino d' allora determinarsi a seguire, nel ripartimento dell' autorità politica, l' uno o l' altro dei due principŒ, cioè o seguire il principio della rappresentazione de' diritti, il quale d' altro lato era stato abbracciato dall' Assemblea; o vero lasciando al tutto simigliante principio costituire un governo sopra questo altro principio che fosse quello la cui forza per la divisione ingegnosa della medesima in diverse persone ovviasse al maggior segno gli abusi possibili di se stessa. Noi siamo persuasi, disse la Commissione, che lo scopo di questo secondo principio non si può conseguir meglio che conservandosi perpetuamente fedeli al primo; ma non a tutti parrà così. A costoro pertanto sembrerà che talora possa esser più utile se si devia dalla più rigorosa rappresentazione di tutti i diritti, e che senza badar alla medesima, il solo principio dell' equilibrio dei poteri debba servir di regola a fare od a riformare la costituzione dello Stato. Voi dunque dovete esaminare con diligenza l' opinione di questi Signori, che tali due principŒ sieno diversi fra loro, e che convenga meglio tenere per unica regola il secondo anzi che il primo, affinchè dopo costituito lo Stato non siate forse condotti a fare delle riforme che alterino le prime basi su cui è costituito, o per dir meglio non siate costretti a distruggere ciò che avete edificato, e ad edificare di nuovo. Vi faccio pertanto osservare che l' applicazione del principio dell' equilibrio dei poteri o sia quello d' una costruzione della società, che antiveda tutti gli abusi, non può dipendere che da un calcolo conghietturale di quegli uomini politici ai quali fosse commessa la formazione della società dietro tali principŒ. Il loro calcolo poi è conghietturale, tanto più che precede l' esperienza, e solo questa potrebbe dare al medesimo una prova di qualche valore. Già che dunque si tratta d' un calcolo di estrema difficoltà per li molti elementi, che in sè racchiude, e per la mancanza dell' esperimento, questo non può che riuscire vario, secondo le diverse menti calcolatrici. Havvi però di più. La estrema difficoltà di un tal calcolo debbe far conoscere a priori ch' egli non può essere che adattato a pochi ingegni, e non, di certo, argomento in cui si possa esercitare con isperanza di riuscita la maggior parte degli uomini. Ciò posto ne verrà che nella costruzione della Società civile la maggior parte degli uomini non potrà proferire veruna sentenza; ma dovrà sottomettersi ciecamente a ciò che determinano i pochi sapienti, che sono co' loro intelletti al livello dell' argomento. Nel caso adunque che vorreste adottare un tal principio egli è certo che la maggior parte di voi dovrebbe ritirarsi al tutto dalla deliberazione, ed abbandonare al giudizio dei pochi ingegni più eminenti tutti i vostri interessi. Ma siccome io credo che non v' indurreste giammai a farlo, così pure io non vedo in qual modo si potrebbe convenire nel definire quali sieno questi ingegni più eminenti, mentre ognuno vorrebbe forse esserlo od apparire. E tuttavia supponiamo che l' ingegno si potesse misurare colla canna, e fosse fissata una misura per la menoma grandezza degl' ingegni prescelti a tant' opera: questi ingegni, come dicevamo, non converrebbero fra loro od almeno non avrebbero dovere di convenire, perocchè essendo il calcolo puramente congetturale, nissuno potrebbe dimostrare all' altro con evidenza, che il proprio calcolo va bene e il suo è errato. Il perchè rimarrebbe indeciso quale dei diversi progetti di società si dovesse seguire; e volendone pur seguire alcuno, non si potrebbe che chiamare giudice la sorte. Nondimeno quando ancora questi sapienti convenissero nell' abbracciare un progetto solo, non si avrebbe, come diceva, che un tal risultato di cui nessuno saprebbe il vero valore pratico; mentre nè l' esperienza lo ha provato, nè v' ha ragione di credere, come cosa certa, che l' ingegno di quei politici sia d' una forza proporzionata alla difficoltà dell' argomento; mentre che gl' ingegni sono al tutto accidentali, ed i più o meno forti nascono a caso, e non dipendono punto dalla volontà degli uomini. Ma ciò che merita più osservazione in tale ipotesi si è, che quando ancora ottenuto s' avesse che la maggiorità sottomettesse il proprio giudizio nella instituzione della Società civile, che è quanto dire sopra tutti i proprŒ interessi, alla opinione di alcuni pochi uomini di ingegno, il che non sarà mai; allora si potrebbe dire, che essa si sarebbe già di fatto sottomessa a quei legislatori; e nelle loro mani abbandonata. Quegli uomini, a cui è commesso il progetto di società, non sono solamente forniti di un forte ingegno pel quale certo sarebbero più atti degli altri a trovare la verità; ma sono ancora circondati da tutte le passioni umane: non sono pure menti, sono anch' essi uomini forniti degli stessi interessi degli altri, che desiderano le stesse cose e subiscono le stesse tentazioni. Oltre dunque il dubbio che può ragionevolmente cadere sul grado di forza dei loro ingegni, la comunanza degli uomini dovrebbe assicurarsi della loro volontà. E chi la assicura che nel progetto di società che propongono alla medesima, non abbiano provveduto almeno altrettanto al bene di sè stessi, che a quello della società? Dall' istante che la comunanza degli uomini nell' instituire la Società civile prende una strada così difficile, ch' essa stessa non può seguire quei pochi che la percorrono, essa si è interamente abbandonata all' arbitrio dei medesimi. Ma di più, nel caso che voleste organizzare la Società civile secondo questo principio, quale disposizione d' animo non dovreste voi tutti avere? Voi dovreste esser disposti a commettervi interamente all' altrui direzione. Nel caso che seguiate il principio della rappresentazione politica, siete voi stessi quelli che vi governate; perocchè ognuno di voi ritiene, se l' ha, trapassando alla Società civile, la modalità dei proprŒ diritti, e non fa che amministrarla in comune, mentre prima l' amministrava in separato. Nel caso all' incontro che abbandoniate questo principio, molti di voi debbono spropriarsi della modalità dei proprŒ diritti per metterla in mano di quelli che fossero scelti al governo, costruito secondo il progetto della utilità o dell' equilibrio dei poteri. Io vorrei sapere in tal caso chi di voi dovrà essere spogliato della modalità e chi dovrà ritenerla: vorrei sapere come vi accorderete insieme su questo punto: vorrei sapere come potrà essere utile l' introdurre arbitrariamente questa disuguaglianza nella Società civile: vorrei sapere qual garanzia verrebbe data a quelli che venissero spogliati della modalità dei proprŒ diritti da quelli che la ricevessero da amministrare; e perciò vorrei sapere come si possa progettare un governo capace di ovviare agli abusi, dall' istante che questo governo si diparte dalla rappresentazione politica, il quale dipartirsi è per se stesso un aprire il varco agli abusi, mentre si spoglia una porzione degli uomini della modalità dei proprŒ diritti, per accumularla in mano d' un' altra porzione; mentre in somma molti membri della società si rendono debili, e si danno in balìa di altri resi forti col pretesto di renderli utili. In somma dall' istante che nell' instituzione della Società civile si abbandona il principio della rappresentazione politica , la Società civile non si instituisce più sullo stato di natura; ma si dà agli uomini uno stato arbitrario per instituire sopra il medesimo la civile società pure arbitraria: in tal caso il principio delle instituzioni sociali è l' arbitrio. Egli è vero che si dice, che un tale arbitrio è sapiente e rivolto all' utilità; ma quando anche ciò potesse essere, non si potrebbe provare: un' asserzione sarebbe quella che farebbe passare questo arbitrio per sapiente; una negazione egualmente lo renderebbe stolto: poichè non è ingiuria negare gratuitamente ciò che gratuitamente si afferma. Intanto il principio dell' arbitrio è fecondo, come dimostra l' esperienza, di infinite costituzioni, le quali hanno la vita d' un giorno, cioè durano fino che sorga un altro uomo che abbia l' audacia di spacciarsi per saggio, di negare la precedente costituzione, e di asserirne una seconda. Non vale già il dire, che la massima di fare una costituzione immune dagli abusi è un principio evidentemente buono. Certo: e noi non lo neghiamo. Diciamo solo, che questo non è un principio fecondo se non di chimere: diciamo che egli non è un principio determinato; diciamo che l' adottare questo per unico principio determinante la costruzione sociale è lo stesso, che abbandonare la formazione della medesima all' arbitrio degli uomini; mentre tal principio non può dare che dei risultati congetturali o almeno dei risultati, le prove dei quali non sono a portata del comune degli uomini, intorno ai quali perciò questi bisognerebbe che credessero all' asserzione altrui, il che è propriamente commettersi all' altrui arbitrio. Diciamo perciò ch' egli è necessario per formare la società ricorrere ad un principio più determinante, e capace della necessaria pubblicità, capace d' essere inteso e discusso da tutti, mentre tutti hanno degli interessi da difendere in tale società, e mentre nessuno di quelli che ha degli interessi può essere obbligato dalla legge morale ad entrare ad occhi chiusi nella convenzione la più importante di tutte quale è la convenzione sociale civile, la quale diventerebbe impossibile se gli uomini che vi debbono entrare non fossero in caso d' intenderne le condizioni. Finalmente diciamo che è appunto il principio della rappresentazione politica quel principio luminoso suscettibile della maggiore pubblicità, perchè nissun uomo mediante di esso fa una convenzione inintelligibile, ma sa ciò che fa; e perchè esclude l' arbitrio determinando la parte che tocca a ciascuno del civile potere. Infatti il principio dell' utilità pubblica o dell' equilibrio dei poteri è difficile, perchè mette a calcolo tutte le forze sociali tutte insieme prese, senza aver riguardo alle individualità: il principio all' incontro della rappresentazione politica è facile, perchè nella sua applicazione non racchiude già un calcolo del tutto, ma piuttosto risulta da altrettanti calcoli quanti sono gl' individui. Ciascun individuo che entra nella società, secondo tal principio costituita, non ha già da pensare al tutto, ma solo alla convenzione particolare che egli fa cogli altri uomini; egli vede subito se tal convenzione è giusta od ingiusta, se gli è utile o gli è dannosa: sa ciò che mette e sa ciò che riceve. All' incontro nella società costituita secondo il principio dell' utilità l' individuo che vi entra sa ciò che mette, ma non sa ciò che riceve: egli vede che è spropriato della modalità dei proprŒ diritti; ma egli non è in caso di calcolare il vantaggio che gli viene promesso in compenso; perocchè questo vantaggio gli è promesso come un effetto di tutta la macchina ingegnosamente composta; macchina che va senza di lui, e che è così complicata per la moltitudine delle sue parti che gli riesce impossibile di calcolarne l' azione; ma che però vede essere quest' azione di una forza irresistibile quando prendesse una direzione contro di lui. Finalmente la società civile instituita mediante il principio della rappresentazione politica, edifica senza distruggere: la società civile costruita col principio della utilità distrugge prima, come vi diceva, lo stato di natura in cui siete presentemente, per edificare tal cosa di cui nessuno può prevedere con sicurezza le conseguenze. Or via s' ammetta, che sì coll' uno che con l' altro principio s' instituisca la civile società: lo scopo è il medesimo: mediante quale dei due sistemi s' ottiene tale scopo con una azione minore? Certo con quello della rappresentazione politica: poichè le mutazioni che voi andate a subire per questo sistema le vedete tutte entro confini determinati. All' incontro dove sono i confini del sistema dell' utilità? egli non ne ha veruno. La sua azione è infinita come l' arbitrio: egli suppone, che far si possa una riforma dopo l' altra nella società fino all' infinito, senza però mai sapere di certo se si sia andati avanti o indietro. Dovendo dunque voi fare una mutazione di cui l' esito vi fosse incerto per ottenere un fine, qual' è l' instituzione della società, non sceglierete voi quella che contenga il minor pericolo? E quale conterrà il minor pericolo se non quella che esige una mutazione minore, e che ottiene lo scopo con una azione minore? Tutti s' accordarono pertanto a queste ragioni, che non era prudente d' introdurre una grande alterazione nelle cose, mentre l' esito non poteva esser certo. Che d' altro lato nessuno nè voleva nè poteva esser costretto di rinunziare alla modalità dei proprŒ diritti, e alla parte che questa gli dava diritto di avere nella civile autorità: quindi si confirmava, che la rappresentazione politica già precedentemente adottata, era irrevocabilmente il principio secondo cui doveva la società stessa instituirsi. Quando sia così, proseguì la Commissione, egli è necessario altresì di riconoscere come questo principio sia il più sacro di tutti quelli che esistono nella società civile come tale, perocchè è il principio che determina il modo di esistere della medesima. Siccome la società civile non può esistere che in un dato modo, così il suo modo proprio d' esistere è altrettanto rispettabile quanto la sua esistenza: ed è solamente ciò che indica il modo onde la società civile può esistere quello che dà la esistenza alla società. Ora il principio della rappresentazione politica non è altro che un' attribuzione di diritti ai membri della società, cioè consiste in quella massima « che ogni diritto abbia nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. » Dunque un tal diritto che ricevono i membri della società civile mediante la sua istituzione è così necessario, come è la società stessa, e sarebbe al tutto contradditorio, che si volesse la società, e che si riconoscesse nel tempo stesso potervi aver un caso in cui un diritto dei suoi membri venisse privato della rappresentazione che a lui sarebbe conveniente e possibile. E` necessario adunque dichiarare che la rappresentazione politica è un diritto imperscrittibile ed inalienabile: cioè a dire che chi possiede nello stato di natura la modalità dei diritti debba anche possedere il corrispondente potere: e non debba verificarsi verun caso in cui il potere civile sia scompagnato dal possesso naturale della modalità. L' obbiezione che alcuni fecero, che prima di dichiararsi un tal diritto imprescrittibile bisognava fare la dichiarazione dei diritti dell' uomo naturali, diede occasione alla Commissione di stabilire la distinzione fra il diritto politico ed il diritto naturale, e fra l' imprescrittibilità politica e la imprescrittibilità naturale. La Commissione dimostrò che la comunanza degli uomini, o la civile società dopo instituito il governo, poteva bensì dichiarare validamente i diritti politici imprescrittibili: ma non poteva all' incontro dichiarare validamente i diritti naturali imprescrittibili, ma solo riconoscerli. Supponiamo disse, che la comunanza degli uomini facesse una dichiarazione de' diritti naturali imprescrittibili. Che forza avrebbe tale dichiarazione? quella stessa che avrebbe una carta su cui un uomo qualunque, od anche un fanciullo, avessero scritti quelli che fossero secondo la loro opinione diritti naturalmente imprescrittibili. L' essere scritti o non scritti non toglie ne aggiunge autorità a tali diritti, poichè essi ne hanno tanta che non ne possono aver di più; è così ferma che non può essere diminuita. Se la carta riferisce i diritti quali sono, sarà una buona memoria per chi l' ha scritta: se non riferisce i diritti quali sono, non vale nulla: e quando venisse a sostenerla la forza, ciò non sarebbe che un atto di tirannia. La dichiarazione dunque dei diritti naturali dell' uomo fatta dall' autorità civile è inutile, ma bensì l' autorità civile debbe riconoscere i detti diritti e dirigere secondo i medesimi la sua condotta. La differenza fra il riconoscerli e il dichiararli si è che nel primo caso ella fa un atto di sommissione e nel secondo di autorità: e per ciò le conseguenze di questi due atti sono diverse: nel primo caso, ciascun uomo che sia in grado di farlo può recare in mezzo dei lumi che rischiarino la natura di tali diritti: nel secondo caso, sarebbe un delitto parlare contro diritti dichiarati già dalla società; giacchè la dichiarazione di diritti suppone i diritti certi, e l' autorità, che li ha dichiarati, infallibile. Il potere civile dunque non debbe già arrogarsi di essere l' autorevole maestro degli uomini: non debbe innalzarsi ad una sfera che a lui non appartiene; ma lasciare il magisterio della verità morale ad una società morale, ad una società di diversa natura dalla sua, cioè alla Chiesa cristiana, che è la maggiore autorità in simil genere di cose. Egli è vero che le disposizioni civili della società s' appoggiano sui principŒ morali e sui diritti naturali; ma è vero altresì che questi sono anteriori a lei, e da lei indipendenti; essa dunque, rispetto a questi debb' essere discepola e soggetta, non maestra e sovrana. Se poi per dichiarazione di diritti s' intende un promemoria mutabile che si fa da sè ciascuno dei suoi membri o un promemoria di ciò in cui tutti convengono, non contendo di parole: questa dichiarazione sarebbe ciò che io intendo per ricognizione, sarebbe ancora la scienza modesta di un discepolo, e non la sentenza di un' autorità. Dove adunque comincia Œl magisterio, dove l' autorità del civile potere? Comincia con se stesso: egli ha l' intrinseca autorità e necessità di parlare di se stesso, di dichiarare che sia, e quali diritti e doveri provengano da lui agli uomini. Or egli appunto esiste con un diritto che vien dato agli uomini. Dal momento che questi convenuti insieme dicono: I nostri diritti abbiano una rappresentazione conveniente e possibile, la società civile è formata: questo è quel fiat che la crea. Dunque essa è in necessità di dichiarare imprescrittibile questo primo diritto della rappresentazione politica, tanto quanto è in necessità di esistere, ed ecco quale sia la dichiarazione dei diritti che può fare la comunanza, o la società civile degli uomini; ecco qual sia il diritto politico, dal quale comincia il civile potere. Dopo ciò la Commissione, riassumendo quanto fin qui aveva fatto l' Assemblea, propose alla medesima la seguente Dichiarazione dei diritti politici imprescrittibili dei membri della Società civile. «Il diritto imprescrittibile consiste nella rappresentazione politica dei diritti conveniente e possibile. Art. 1 Ogni uomo ha diritto di dare il voto nella elezione del Tribunale politico. Art. 2 Ogni uomo ha diritto di ricorrere al medesimo. Art. 1 I mercenarŒ hanno diritto d' essere rappresentati nell' Amministrazione sociale in corpo. Art. 2 I benestanti hanno diritto d' essere rappresentati individualmente. Art. 3 La rappresentazione è in ragione della ricchezza materiale, fissando il menomo a quel tanto che è necessario pel mantenimento d' un uomo. La proposta dichiarazione fu ammessa ad unanimità. » Gli elettori stabiliti dalla dichiarazione dei diritti politici (Tit. I art. I) formarono il Tribunale politico a maggioranza di voti. La forma di questo Tribunale, per non dilungare qui il leggitore dall' idea generale della società civile regolare, fu da noi anticipata e descritta nel Libro Primo di quest' opera; dalla quale descrizione apparisce maggiormente la reale possibilità del medesimo. Intanto anche le basi qui dettate sono tali, pare a noi, a cui non si può ripugnare, perchè dedotte dalla rettitudine, e non possono aver contro di esse se non se quella ripugnanza, e quasi incredibilità, che gli uomini portano a cosa che loro par nuova: ma ciò che abbiamo detto all' Art. XI debbe provare a qualunque uomo sia ragionevole, che il piano che proponiamo non è una chimera; mentre v' ha un modo di eseguirlo con quell' approssimazione che ivi abbiamo descritto, che è ciò che richiede appunto quella equità che si può dire a giusto titolo la perfezionatrice della giustizia. Proseguiamo dunque lo sviluppo del medesimo piano, torniamo all' ipotesi della nostra Assemblea, ed alla instituzione che supponiamo fatta dalla medesima, secondo gli ordini voluti dall' equità. Il primo lavoro adunque del Tribunale politico si fu di preparare la via alla formazione dell' Amministrazione sociale, coll' instituzione della quale si compiva l' instituzione della società. Giacchè per la dichiarazione dei diritti politici (Tit. II articolo 3) la rappresentazione amministrativa doveva essere in ragione della ricchezza materiale, il Tribunale politico passò a riconoscere successivamente lo stato di tutti gli individui e di tutte le famiglie, e a tal fine fece le seguenti operazioni. 1 Fece un ruolo di tutte le persone, le quali non potevano dimostrare di possedere dei fondi nè esercitare verun' arte mercenaria. 2 Fece un ruolo di tutte le persone che non avendo fondi esercitavano però un' arte mercenaria che dava loro un sufficiente mantenimento, e fornì le medesime di un brevetto, che le collocava nella classe dei mercenarŒ, e dava loro i diritti politici annessi a questa classe. 3 Finalmente rilevò la sostanza in fondi di tutti i benestanti sulle prove da loro offerte, e consegnò loro pure il brevetto della ricognizione di ciò che possedevano. 1) Con queste tre operazioni fatte dal Tribunale politico venivano determinati i diritti politici di tutti i membri della società. Si trovarono distinti quelli che non possedevano altri diritti politici se non la rappresentazione dei diritti dell' uomo; quelli che oltre la rappresentazione dei diritti dell' uomo avevano ancora la rappresentazione dei diritti reali, ma non essendo questi diritti in fondi, ma nell' opera delle loro mani, l' avevano solo in corpo, e non in individuo quali erano i mercenarŒ; e finalmente quelli, che possedendo dei fondi avevano la rappresentazione dei diritti reali completa quali erano i benestanti. Or dovendo venire alla reale formazione dell' amministrazione, s' incontravano necessariamente molti ostacoli, ed i principali erano i seguenti: 1 Se l' amministrazione avesse ricevuto realmente nel suo seno tutti i benestanti, i quali avevano diritto di entrarvi e di più i delegati del corpo dei mercenarŒ, essa sarebbe divenuta così numerosa che non avrebbe potuto senza confusione, o almeno senza una dannosa tardità, spacciare gli affari. 2 Di poi, ciò supposto, non si vedrebbe modo di rendere il peso dei voti di ciascheduno proporzionale alla richezza posseduta. La Commissione, per non confondere l' Assemblea, si restrinse a far osservare alla medesima solo la prima delle due difficoltà sopraddette, e in conseguenza di essa a dimostrare la necessità di restringere il numero degli amministratori. Di che venendo riconosciuto il bisogno evidente, propose come unico mezzo di evitare sì grave inconveniente, che i benestanti ed il corpo dei mercenarŒ non amministrassero già da sè stessi, ma mediante dei loro abili ministri o delegati forniti dei loro poteri e delle loro instruzioni, i quali potevano essere ridotti a quel numero discreto che meglio convenisse alla più spedita ed alla più utile amministrazione degli affari. La proposta di un' Amministrazione delegata ricevuta da principio con favore, aveva poscia eccitato le più gran difficoltà nell' Assemblea, la quale s' era disciolta senza ammetterla nella sessione precedente. Tali difficoltà nascevano perchè sembrava generalmente impossibile, che delegandosi un piccolo numero di persone rispetto a tutti quelli che avevano diritto di entrare nella amministrazione, potesse conservarsi la proporzione fra la forza del voto e la ricchezza. In che modo, si diceva, un delegato il quale rappresenta per necessità molti proprietarŒ di diversa fortuna potrà sostenere così la piccola proprietà come la grande? egli è costretto di trattare la causa di tutto il corpo che rappresenta: nella collisione perciò delle grandi colle piccole proprietà egli non abbandonerà mai quelle per sostener queste; mentre se fossero due i rappresentanti l' uno per esempio piccolo proprietario e l' altro grande, le due cause sarebbero trattate in separato; e sebbene il voto del piccolo proprietario sarebbe più debile, tuttavia unito ad altri piccoli proprietarŒ potrebbe sostenersi anche contro i proprietarŒ più forti, laddove se sì l' uno che l' altro vien rappresentato da un solo delegato questi non potrà giammai essere in contrasto con se stesso, e non potranno perciò formarsi quelle alleanze che sono appunto ciò che garantisce il piccolo contro il grande della società. Tali ragioni erano forti ed erano state prevedute dalla Commissione, la quale nel suo progetto si era proposta di evitare tutte le due summenzionate difficoltà, e s' era riservata di rispondere ai timori dell' Assemblea col progetto che avrebbe presentato nella prossima sessione. Venuta adunque la sessione presente, cominciò dallo stabilire un limite ossia una somma menoma di rendita, la quale considerar si potesse come l' unità nella rappresentazione amministrativa; e ciò a tenore della dichiarazione dei diritti politici. (Tit. II art. 3). Dimostrò che bisognava prendere per quest' unità un termine basso più che si poteva; poichè dovendosi trascurare tutte le frazioni, cioè tutto ciò che era minor di quel termine; questa deviazione dalla rigorosa giustizia doveva esser la minima che si potesse, e l' Assemblea convenne di fissare questo termine alla somma di lire cento. 1) Dimostrò in secondo luogo che ciascun mercenario, qualunque fosse il suo guadagno, si doveva supporre che portasse a lui nè più nè meno di lire cento annuali; perocchè essendo questa la somma menoma, onde si stimi che possa un uomo ordinariamente vivere, qualunque cosa il mercenario guadagna, nulla più guadagna del vitto, che viene ad essere appunto rappresentato nella somma di lire cento. Infatti qualunque sia il guadagno d' un mercenario o lo consuma nel proprio mantenimento o lo mette in fondi. Se lo mette in fondi, egli trapassa ben presto alla classe di benestante; giacchè qualunque suo fondo che gli renda più di cento lire, lo rende anche benestante. Se all' incontro ciò che guadagna lo consuma, egli è alla stessa condizione di quello, rispetto alla ricchezza materiale, che vive con cento lire di entrata; mentre alla fine della giornata, del mese, o dell' anno, ciascuno ha consumato tutto, e sì dell' uno che dell' altro si può dire egualmente, che il loro avanzo è nullo: e che il loro fondo produce il puro vitto senza crescere nè calare. Ciò premesso, la Commissione passò ad indicare il modo, ond' ella credeva che si potesse passare alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la prenotata difficoltà. Disse che conveniva che si congregassero in altrettante Assemblee separate secondo i gradi della ricchezza; che questi gradi potevano essere determinati così: Tutti quelli che possedevano dalle cento fino alle lire mille d' entrata formavano un' Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle lire mille di entrata fino alle dieci mila formavano la seconda Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle dieci mila lire fino alle cento mila lire d' entrata formavano una terza Assemblea. I possessori di cento mila lire d' entrata fino ai possessori d' un milione, formavano una quarta Assemblea. I possessori d' un milione fino ai dieci milioni di lire d' entrata formavano la quinta Assemblea; e così via, se vi fossero persone individuali o morali che possedessero maggior somma. Nella prima Assemblea ogni cento lire si aveva un voto; e il più che una persona potesse avere erano nove voti; tali erano quelle che possedevano dalle novecento fino alle mille lire. Nella seconda Assemblea le mille lire davano un voto; e il maggior numero di voti, che una persona aver potesse era quello di nove; tali erano le persone possidenti dalle nove mila fino alle dieci mila lire d' entrata. Similmente nelle tre altre Assemblee un voto corrispondeva sempre a maggior somma; nella terza a diecimila, nella quarta a centomila, nella quinta a un milione di lire d' entrata, e il maggior numero di voti che una persona in tutte queste Assemblee potesse avere, era medesimamente nove: tali erano le persone che nella terza Assemblea avessero un' entrata dalle novanta fino alle cento mila lire; nella quarta quelle che avessero un' entrata dalle novecento mila lire fino a un milione, nella quinta quelle la cui entrata fosse dai nove fino ai dieci milioni. Ora vedete a che poco nell' ordinamento di tali Assemblee si riduca la irregolarità o deviazione dalla teoretica giustizia; cioè quanto poca sia la proprietà che rimanga senza rappresentazione; ed anche quella poca vi rimane, perchè non è veramente capace del diritto di essere rappresentata. Osservate in fatti che in qualunque fortuna anche enorme, la ricchezza che rimane senza rappresentazione è sempre minore delle lire cento. Supponete in fatti un proprietario di mille e cinquecento lire d' entrata: questi apparterebbe alla seconda Assemblea. Egli è bensì vero che non può avervi che un voto; poichè i voti in tale Assemblea equivalgono a mille lire; ma egli colle sue cinquecento lire ha diritto ancora di farsi rappresentare nella prima Assemblea e di farsi rappresentare con cinque voti; perchè in essa il numero dei voti equivale al numero delle centinaia di lire. Laonde questi non resta senza rappresentazione se non per quella frazione che avesse fra le mille cinquecento e le mille seicento lire. Così parimenti colui che avesse un' entrata di 12 .350 lire entrerebbe nella terza Assemblea con un voto, nella seconda con due voti, e nella prima con tre voti, e ciò che resterebbe senza rappresentazione non sarebbero che le cinquanta lire, le quali non sono rappresentabili, perchè non arrivano a formare il mantenimento di un uomo. Nel medesimo modo ancora colui che avesse d' entrata 123 .450 lire, egli entrerebbe con un voto nella quarta Assemblea, con due nella terza, con tre nella seconda, e con quattro nella prima; e ciò che rimarrebbe anche qui non rappresentato sarebbero le sole lire cinquanta. Finalmente supponiamo che una persona traesse annualmente d' entrata dai suoi fondi 1 .234 550 lire: questa comparirebbe con un voto nella quinta Assemblea, con due nella quarta, con tre nella terza, con quattro nella seconda, con cinque nella prima e di tutta la sua grande fortuna rimarrebbero necessariamente sole cinquanta lire non rappresentate; giacchè formano una frazione dichiarata irrappresentabile. Distribuiti in tal modo tutti i cittadini che hanno diritto all' amministrazione rappresentativa in altrettante decurie secondo i loro beni di fortuna, e secondo questi assegnato loro il numero proporzionato di voti, ecco in qual modo si potrebbe procedere alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la difficoltà che l' Assemblea ha saviamente preveduto. La prima Assemblea ogni dieci voti, ossia ogni decina di centenaio elegge un delegato alla seconda Assemblea. In fatti dieci voti nella prima Assemblea suppongono la corrispondente somma di mille lire: e mille lire equivalgono ad un voto della seconda Assemblea. La seconda Assemblea parimenti ogni dieci voti elegge un delegato della terza Assemblea; perocchè dieci voti della seconda Assemblea rappresentano dieci mila lire; che equivalgono appunto ad un voto della terza Assemblea. Allo stesso modo ogni dieci voti della terza Assemblea essa ha diritto di eleggere un delegato alla quarta Assemblea; poichè dieci voti della terza Assemblea rappresentano cento mila lire, e cento mila lire è appunto un voto nella quarta. Finalmente ogni dieci voti che la quarta Assemblea abbia in sè medesima, essa manda un delegato nella quinta; perocchè dieci voti della quarta Assemblea, supponendo un milione d' entrata, danno appunto il diritto di aver un voto nella quinta. Vediamo adesso un poco quanta sia l' irregolarità dalla giustizia teoretica, che ammette un tal piano in tale esecuzione pratica quale da noi fu descritta. Ciò che nell' ultima Assemblea rimane privo di voto è tutto ciò che rimane al di sotto di un milione; ma egli è da osservarsi che la somma al di sotto di un milione esercitò però la sua forza nella quarta Assemblea; come nella terza influì quanto stava al di sotto di cento mila; nella seconda quanto stava al di sotto di diecimila e nella prima quanto stava al di sotto di mille. Così parimenti se noi imaginiamo una sesta Assemblea, nella quale ciascun voto rappresenti dieci milioni: egli è vero che rimarrebbero nove e più milioni nella nazione senz' essere rappresentati direttamente in essa: ma questi sono stati tuttavia rappresentati quando si trattò dell' elezione di quest' ultima Assemblea, ed hanno esercitata tutta l' azione che potevano esercitare. D' altro lato la non rappresentanza nell' ultima Assemblea di questi nove milioni non porta nissuna disuguaglianza politica fra i cittadini; poichè questi nove milioni non appartengono già a questa o a quella famiglia determinata, ma solo a tutta la nazione, e perciò in questi nove milioni, non rappresentati, ciascun cittadino ha una rata per così esprimermi proporzionata, sicchè, nessuno sconcio ne nasce alla politica proporzione. Stabilite queste basi, noi vedremo subito quanti saranno i componenti dell' ultima Assemblea, cioè della Delegazione dell' Amministrazione sociale , che viene ad essere la suprema magistratura della nazione. Suppongo che la somma di tutta la rendita rilevata dal Tribunale Politico ascenda a quattro miliardi di lire. Or questi darebbero quattrocento delegati nazionali, ciascuno dei quali rappresenterebbe dieci milioni di lire di rendita. Ecco pertanto formata l' Amministrazione delegata, esistendo la quale sarebbe già instituita la civile società, o sia ridotta alla sua attuale esistenza. Ora considerate di grazia come la formazione di una tale Amministrazione delegata eviti lo scoglio da voi temuto, che le piccole fortune sieno dalle grandi oppresse senza che abbiano nella società alcuna voce distinta. Nel piano proposto le fortune sono tutte distinte l' una dall' altra secondo la loro grandezza mediante i voti. I componenti la prima Assemblea, o sia i voti della medesima, rappresentano tanti proprietarŒ tutti eguali di cento lire l' uno. Il delegato che questi mandano alla seconda Assemblea non rappresenta già fortune di diverse specie, ma rappresenta fortune tutte eguali, giacchè rappresenta una decina di voti della prima Assemblea. Così il delegato che la seconda Assemblea manda alla terza non rappresenta allo stesso modo che fortune eguali, cioè dieci stati tutti di mille lire l' uno: parimenti non vi ha delegato nella quarta, nella quinta, e finalmente nella sesta Assemblea ch' egli rappresenti contemporaneamente grandi e piccole fortune, ma tutte d' una stessa misura le rappresenta. Rimane solo da avvertire primamente che se egli v' avesse taluno nell' ultima assemblea il quale possedesse egli solo i fondi necessari per ritrarre l' entrata dei dieci milioni, egli sarebbe membro della medesima, come rappresentante il proprio, e non come delegato delle Assemblee antecedenti. In tal caso l' Assemblea dei quattrocento, cioè quella che amministra realmente la società, verrebbe ad esser mista, cioè composta parte di rappresentanti di beni proprŒ, parte dei delegati delle Assamblee precedenti, i quali non sono che ministri delle Assemblee stesse. La Commissione propose « che ciascuna Assemblea fosse riconosciuta nelle proprie attribuzioni indipendente dall' altra. » Questa era una conseguenza della imprescrittibilità politica già adottata. In fatti l' imprescrittibilità politica consisteva nel riconoscere annesso ad ogni diritto posseduto dall' uomo nello stato di natura un diritto di rappresentazione nella società civile, il quale doveva essere inviolabile come la stessa società e qualunque attentato contro di lui diventava un delitto di lesa sovranità. Perciò ognuno nel modo di farsi rappresentare nell' Amministrazione rimaneva perfettamente libero a differenza della rappresentazione passiva, il primo diritto della quale, cioè il diritto di elettore al Tribunale, era nello stesso tempo un dovere a cui si obbligavano i padri di famiglia. Nella rappresentazione all' incontro attiva, essendo questa un diritto che non aveva nessuna relazione colla giustizia verso gli altri, ma che conteneva solo una utilità propria, ognuno rimaneva libero di esercitarlo o non esercitarlo, sebbene nessuno poteva alienarlo, appunto perchè l' alienazione sarebbe un contratto invalido trattandosi d' un diritto imprescrittibile. Le Assemblee adunque dovevano rimaner libere nella elezione dei deputati da mandarsi alle Assemblee più elevate, sebbene l' Assemblea più elevata potesse citare al Tribunale politico l' Assemblea meno elevata per negligenza nel mandare i deputati, ogni qualvolta potesse provare che ciò fosse nocevole ai suoi membri: non ammettendo il Tribunale petizioni quando non fossero presentate da un accusatore interessato nella causa. Ciascuna Assemblea inferiore dunque aveva essenzialmente ed imprescrittibilmente i seguenti diritti: 1 Di mandare il numero di delegati, che a lei apparteneva secondo la legge, all' Assemblea prossimamente superiore: e questi delegati poteva sceglierli a suo piacimento, a quel modo stesso che un padrone può scegliere i suoi servi. 2 Di fare il contratto con questi delegati secondo le condizioni da convenirsi fra essa e il delegato, e da esprimersi nel mandato del medesimo: condizioni che potevano riguardare: a) Le istruzioni date al medesimo intorno al modo di eseguire il suo ufficio; b) Il tempo della delegazione in quanto può stare in arbitrio dell' Assemblea; c) Lo stipendio da assegnarsi al delegato. Le cause fra il delegato e le Assemblee sono di competenza del Tribunale politico. Così pure ciascuna persona (morale ed individuale) che potesse dimostrare d' essere realmente danneggiata dal delegato, come sarebbe nel caso, in cui si potesse provare o la intenzione di nuocere col suo potere o il tradimento contro l' Assemblea nell' esercizio del potere ricevuto, può richiamarsi al Tribunale politico ed ottenere la mutazione del delegato. Ogni Assemblea inferiore debbe eleggersi un Ministro, le cui attribuzioni sono le seguenti: 1 di convocare l' Assemblea nei casi prescritti dalla legge: 2 Di essere l' organo permanente dell' Assemblea medesima. La Commissione propose, che conveniva stabilire i casi in cui le Assemblee inferiori si dovessero convocare, e fu adottata sopra di ciò la legge seguente: 1 L' Assemblea debb' essere convocata ogni qualvolta muore un suo delegato all' Assemblea superiore per rieleggerne un altro. L' Assemblea superiore è obbligata di dar la notizia della morte al Ministro dell' Assemblea inferiore, il quale appena ricevuta debbe proclamarne la convocazione. 2 Il Ministro debbe pure convocare l' Assemblea ogni qualvolta spira il tempo della delegazione assegnato ad un delegato, perchè sia fatta una nuova elezione. 3 Debbe convocarla ancora ogni qualvolta gli sia dimandata da una maggiorità de' voti componenti l' Assemblea. 4 Finalmente è obbligato di convocarla ogni qualvolta un membro della medesima ottiene dal Tribunale politico, per cagione dei proprŒ interessi, un decreto di convocazione. I membri invitati dal Ministro all' Assemblea, che non compariscono, dichiarano con ciò di assentire ai comparenti: e tuttavia possono essere citati al Tribunale politico se la loro assenza sia pregiudicievole. Rimanevano le difficoltà sull' instabilità dei rappresentanti nelle Assemblee, giacchè il diritto di rappresentazione nelle medesime doveva sempre conservarsi in equilibrio colla ricchezza materiale: la quale è soggetta a continui mutamenti. Ma la Commissione aveva indebolita anche questa difficoltà col principio stabilito, che la giustizia teoretica doveva nelle sue applicazioni pratiche dar luogo all' equità; e tutti gli uomini erano obbligati dalla stessa giustizia a declinare alquanto dal proprio diritto rigoroso, quando ciò era necessario, perchè i diritti di tutti potessero avere contemporaneamente luogo. Essa dunque credette, che si potessero ottenere le deviazioni menome mediante una legge sui mutamenti del numero dei voti a ciascuno appartenenti, esposta nel modo seguente: 1 Ognuno al quale scemino le sue fortune può ricorrere quand' egli voglia al Tribunale politico, perchè gli sia scemata la rappresentazione politica corrispondente. 2 Ogni persona morale o individuale può far una causa simile verso un' altra persona, a cui sieno scemati i beni di fortuna. 3 Ciò che è detto nei paragrafi precedenti per lo scemamento delle fortune, vale anche per il loro aumento; e perciò ciascuno, dato quest' aumento, può domandare per sè o per altri l' aumento corrispondente di rappresentazione politica. 4 L' Assemblea ha diritto e dovere di domandare una nuova ricognizione delle fortune di quelli che sono negligenti nel pagare le imposizioni. 5 I lavori del Tribunale e delle Assemblee sono indipendenti, e quelli dell' uno non possono rallentare quelli dell' altro, per modo che, pendente la causa, ognuno rimane a suo luogo; e nella sentenza è fissato il tempo preciso in cui s' intende cominciata la mutazione. Dopo aver data un' idea del Tribunale politico e dell' Amministrazione, che sono le due parti del Potere Supremo della società civile, mi resterebbe a parlare della Magistratura che è il terzo corpo che forma parte della organizzazione sociale, sebbene egli non sia parte del Supremo Potere. Ma prima di passare a descrivere la Magistratura della società civile, che fingo d' erigere da' suoi fondamenti, mi sembra necessario di chiamar l' attenzione del leggitore sulle traccie del Progetto fin quì da me descritto, sia che si ritrovino negli scrittori antecedenti, o sia nelle costituzioni delle nazioni che fin quì sulla terra sono esistite. Questa disgressione, ben comprendo, che travia qualche poco il leggitore dal diritto cammino, e gli ritarda di poter concepire tutta intera l' idea di Società che io prendo a descrivere: ma questo interrompimento, che nuoce invero al filo delle idee, sarà forse compensato da un maggior avvicinamento che prenderà la Teoria esposta alla pratica, e quindi ella forse gli diverrà più reale nella sua mente, e l' indurrà a prestare più agevolmente fede alla possibilità della medesima. In fatti la prima difficoltà che si presenta alla mente, di chi sente proporsi un' astratta teoria si è la seguente. Com' è possibile che ciò non abbiano mai veduto gli uomini precedenti? come sfuggì a tutte le nazioni e a tutti i loro savŒ, che pure hanno posto i più profondi pensieri ad escogitare tutto ciò che giovar potea l' uman genere, se egli fosse cosa possibile od utile? Io non risponderò già, che dove tale obbiezione dovesse aver luogo in tutta la sua estensione, ella supporrebbe, che non fosse oggimai possibile verun ulteriore progresso al genere umano; perocchè io non penso che uomo me la possa proporre a tempi nostri con tanta estensione. Risponderò piuttosto che anch' io concedo dover incontrare con ragione una prevenzione sfavorevole quella istituzione così nuova, di cui nessuna traccia si rinvenga esser stata prima dei tempi nostri nelle menti e nei costumi degli uomini; ma non essere all' incontro ragionevole di credere che ogni egregia cosa dagli uomini traveduta e cominciata nell' opera sia stata già altresì perfettamente conosciuta e in tutta la sua perfezione eseguita. Ed or questo io credo che sia avvenuto del Supremo Potere della società civile da me descritto. Parmi ch' egli sia stato sempre più o meno chiaramente dagli uomini avvertito; parmi che sempre l' abbiano desiderato, come cosa di cui la natura umana provava il bisogno; parmi che egli sia stato lo scopo d' infinite ricerche politiche, d' infiniti sforzi ed agitazioni della società tendente di conformarsi a quella forma regolare. Parmi insomma che tanto la natura delle cose, quanto le menti degli uomini ci si sieno aggirate d' intorno: queste per formarsene l' idea compiuta, quella per trovare in essa la propria naturale posizione e quiete: ma che sì le menti che la natura non abbiano perfettamente asseguito il termine dei loro sforzi; perchè è legge fermissima, a cui le umane forze soggiacciono, che non ottengano la perfezione dello scopo se non dopo gran tempo, grandi errori, grandi urti: dopo una molteplice insomma e dolorosa esperienza. Del Tribunale politico sono minori le traccie istoriche che dell' Amministrazione. La ragione di ciò si è, che egli si può dire l' ultima perfezione della società, e suppone gli uomini già pervenuti a un grado assai grande di coltura. Oltracciò l' ultima riflessione che fa l' uomo è quella sopra sè stesso: egli è di prima giunta portato a pensare agli altri; questa è la direzione naturale della sua mente: il ritorcersi sopra di sè è una conversione difficile: egli opera senza dubitare di sè, senza pure pensare a sè operante. Perciò vi dovevano essere prima le Amministrazioni della società che il Tribunale politico. Poichè il Tribunale politico non può venire che allorquando l' Amministrazione è arrivata a riflettere sopra sè stessa, a dubitare dei suoi proprŒ giudizŒ; sia che questo dubbio ella giunga a fare spontanea per propria sapienza, sia che ella sia costretta di farlo per le scosse che ella riceve dalle reazioni che ritruovano le sue ingiustizie. Così in fatto troviamo nella storia. Questa ci presenta da per tutto Amministrazioni che operano con gran franchezza e fidanza del proprio fatto, che non dubitano punto di errare, che procedono come fossero infallibili; e che sostengono per gran tempo di esserlo, quando viene loro contrastata questa infallibilità. E se un tale contrasto singolare dura per molto tempo, non è già da credersi che ciò nasca dall' opera sola delle passioni degli uomini: egli si prolunga anzi per l' imbecillità umana come per l' umana malizia: perocchè quella è che impedisce agli amministratori della società di riflettere sulla propria incapacità, e sulla fallacità dei loro giudizŒ e delle loro operazioni. Se noi veniamo osservando la storia delle nostre moderne monarchie, cominciando dalle loro origini nei secoli di mezzo, e giù venendo dietro i loro passi; noi veggiamo come il loro potere si sia venuto rendendo sempre più assoluto, ed indipendente: e veggiamo ancora che ciò è avvenuto per opera di molti abili uomini di Stato, che affezionati ai loro Principi gli hanno serviti del loro avvedimento e della loro destrezza nel maneggio delle pubbliche cose. Si grida contro alla costoro improbità: ma, per quanto io sono persuaso, al tutto senza ragione. Io credo in quella vece, che a questa concentrazione del regio potere abbiano contribuito degli uomini sommamente probi, e forniti delle più pure intenzioni. - Ma essi, si dice, hanno rinserrate le catene dell' uman genere. - A bell' agio! Tornate su loro passi: esaminate le intenzioni dei loro fatti, e muterete opinione. Il potere supremo non era fissato; egli ondeggiava in varie mani: lo Stato era per cadere ogni istante nell' anarchia: la morte del principe, l' ambizione offesa di un nobile, l' ardire di un condottiero, un accidente impreveduto, bastava per rovesciare col trono la società. Questi mali cadevano sotto gli occhi, come cadono sotto gli occhi tutti i disordini delle amministrazioni di più persone, sieno grandi o sieno piccole: sieno le sette, nascenti all' elezione di un sovrano, sieno i tumulti dell' elezione popolare di un curato, ed i piccoli partiti, le discussioni, e gli stravizi, che la accompagnano. L' Amministrazione della società, che si credeva incaricata di difendere la società da tutte le turbolenze e da tutti i mali, ai quali può soggiacere, era ben naturale che si credesse ancora, non dirò autorizzata, ma in dovere di riparare a tutte quelle inquietudini. Ora quale era la strada più breve che a questo fine si presentasse? Quella di far guerra a tutte le amministrazioni collettive, e stabilire un sistema di centralizzazione dei poteri; perocchè ridotto il potere nelle mani di uno, e ridottovi così forte a cui nessuno possa resistere, tutti quei disordini son tolti via, che nascevano prima dall' ondeggiar egli incerto nelle mani di più. Ecco pertanto un esempio luminoso dello scambiare che fanno gli uomini le istituzioni stabilitive colle istituzioni preventive e repressive . Quand' essi nell' istituzione che ha una natura stabilitiva scuoprono alcun abuso, non pensano già di metter a lato della medesima un' altra istituzione preventiva o repressiva che corregga quel difetto; ma si mettono piuttosto ad alterare e snaturare la istituzione stessa stabilitiva perch' ella non si presti all' abuso osservato; non accorgendosi in ciò che l' abuso non nasce da essa stessa, ma è alla medesima estrinseco, cioè nasce dalla malvagità degli uomini che di essa abusano, il perchè a questa si dee por rimedio, e non guastare l' istituzione per sè buona e retta. Ma or ecco come il potere dell' Amministrazione sociale andò per mancanza di lumi rinforzandosi, e tendendo alla maggior possibile indipendenza, anzichè pensare di sottomettersi ad un Tribunale; e ciò fece, pensando forse fare cosa necessaria e buona, credendo eseguire la sua missione, quella di difendere la società. - Ma si ripete, chi tolse via quei mali dalla società, rendendo più fermo ed indipendente il poter supremo, rese questo più arbitrario e più insopportabile. - Appunto: ma ciò senza accorgersi. - In che modo? - Perchè l' Amministrazione nel tempo ch' ella vedeva i disordini, che si credeva in debito di torre via; non sospettava menomamente di sè stessa: non rifletteva sulla propria fallacità; gli amministratori insomma della umana società non pensavano d' essere uomini, ma solo d' essere amministratori. - Ma non è questa stessa una colpevole ignoranza? - Piuttosto un inganno della stessa natura umana, che ha bisogno d' essere scossa replicatamente e fortemente prima che dubiti di sè stessa. Gli amministratori della società accorrono a porre rimedio ai mali che veggono cagionarsi da' soggetti, all' incontro i soggetti si lamentano con altrattenta prontezza dei falli degli amministratori. E` facile ai soggetti lamentarsi degli amministratori, appunto perchè essi sono collocati in luogo da vederne i vizŒ altrettanto quanto poco sono in istato da vedere i proprŒ. Per quella stessa ragione che dicevo l' uomo non portare lo sguardo sopra di sè per dubitare di ciò che fa, se non tardi e trattovi quasi a forza. Il perchè è al tutto indiscreta la severità con cui si giudica dei superiori; esigendo ch' essi veggano i proprŒ errori altrettanto come li vede chi è da loro diviso: perocchè ciò è contro le leggi della umana natura. Egli è da ciò stesso che si spiega il seguente fatto. Il soggetto si lamenta dell' amministratore sociale. L' amministratore riguarda questo lamento come una colpa, come un' insubordinazione. Ma il lamento non è già portato contro l' autorità dell' amministratore, ma contro il male ch' egli fa colla medesima. Tuttavia l' amministratore non è disposto a considerarlo sotto questo aspetto, per quella stessa ragione, che non è disposto a considerare sè stesso come un uomo fallibile, essendo per accidente amministratore; ma è anzi disposto a considerarsi solo come amministratore. Qualità questa che astrattamente presa non annette già l' idea di imperfezione e di fallibilità, che resta tutta propria dell' uomo che amministra. Egli è inclinato a considerarsi piuttosto nella sua qualità d' amministratore che nella sua natura di uomo, perchè l' amministrazione è cosa esterna, che termina fuori di lui, per vedere la quale non ha bisogno, dirò così, che di uno sguardo del suo occhio in direzione naturale. Mentre a considerare sè stesso come uomo amministrante ha bisogno di ritorcere lo sguardo quasi contro natura, ed a fissarlo in sè stesso. Il perchè nel lamento dei soggetti contro di lui egli vede più facilmente e più naturalmente una opposizione ed una reazione alla sua autorità, che non sia un' avvertenza dell' errore ch' egli prende come uomo soggetto a fallire. Egli è vero, che le passioni umane, l' amor proprio, e l' avidità si mescolano da per tutto; ma non si può negare che le stesse leggi dello spirito umano conducano l' uomo a dubitare anzi di altrui che di sè stesso. Ed é perciò, che un amministratore della società nello stato naturale può essere inclinato di tutta buona fede ad aumentare ed afforzare l' autorità nelle proprie mani, persuaso di tor via in tal modo molti disordini con un' autorità piena ed assoluta, senza accorgersi nè sospettare de' mali ch' egli stesso per ignoranza o per passione, e quelli che a lui subentreranno nell' Amministrazione, possono produrre colla detta autorità. Vedete quello che nasce nel caso di una rivoluzione: prescindendo dai secondi fini che operano nella medesima. Si dice che il Sovrano era colpevole, che la sua Amministrazione era pessima. Se ne instituisce dunque un' altra, ma ben presto, atterrata anche questa, ne sorge una terza per vendicare i delitti della seconda. Nel fermento delle opinioni e nella prontezza e temerità dei giudicŒ si condanna ben presto la terza, come si condannò le due prime, per instituirne una quarta; e si succedono incessantemente i riformatori della nazione agitata. Ora onde viene questo gioco e questa vicenda, se non da un simile corso d' idee che fa lo intendimento umano, per cui l' uomo assai prima di giudicare di sè stesso giudica degli altri, e trovando sempre i difetti in quelli che amministrano la società non sa neppure dubitare ch' egli stesso trovandosi nel loro posto potrebbe cader negli stessi errori; ma anzi si lusinga che tutte le sue idee sull' Amministrazione sociale sieno giuste, che porterebbero la felicità nazionale, e che corrisponderebbero ai doveri dell' Amministrazione? Si sono veduti sempre quelli che prima di arrivare all' Amministrazione sociale gridavano contro il dispotismo e gli sforzi degli amministranti per aumentare il grado di potere nelle loro mani, pervenuti essi stessi all' Amministrazione aver fatto assai di più, non avere il menomo dubbio di far bene a tirare nelle proprie mani la più gran potenza, ed a comprimere colla più gran forza arbitraria che aver potessero tutti quei movimenti che venissero fatti contro all' Amministrazione. Egli non debbe adunque far meraviglia se si è quasi sempre veduto nelle società cercare da quelli che avevano in mano il potere la più piena indipendenza, mentre ciò non solo è conforme alla passione di dominare, tanto propria dell' uomo; ma all' indole stessa dell' umana natura, per cui l' uomo crede non esserci niente da temere da parte sua, ma solo da parte degli altri; e così gli amministratori nulla credono che vi sia da temere se l' Amministrazione è forte. I Principi nulla credono che vi sia da temere se la loro potenza sempre più si rende indipendente; anzi non la riguardano se non come un mezzo di fare un bene maggiore, senza pensare neppure alla possibilità che essa potesse essere istrumento di male. Per venire a quest' ultima riflessione, che può solo dar luogo al Tribunale politico, si esige dunque non solo che i Principi sieno retti e buoni, ma ben ancora che sieno ammaestrati da una lunga esperienza, la quale li faccia pensare sopra sè stessi. E non fa però meraviglia, se fino a qui solo delle incerte traccie si ravvisino essere state di consimile instituzione. Ed anche queste poche ed incerte traccie dalla parte del popolo si osservano. E così doveva essere, perchè il Tribunale politico è per il popolo; egli è necessario unicamente per difendere il debile contro il forte, la minorità contro la maggiorità. Prego il leggitore di considerare come tutto si trovi legato nel sistema da me proposto, e come i principŒ sieno conformi alla natura delle cose. Io ho cercato un sintomo che ci faccia conoscere quando venga leso il diritto in un uomo; e l' ho trovato nel risentimento morale; il quale risentimento quando gli uomini sono nello stato di natura porta la pretesa di risarcimento, cui l' offeso verifica per le vie di fatto se l' offensore non si muove spontaneamente a dargli soddisfazione. Il risentimento adunque, sintomo del diritto violato, è la ragione per cui gli uomini vogliono che sia resa loro giustizia; egli è dunque la causa movente della giustizia privata nello stato di natura, e della giustizia pubblica o sia dell' istituzione dei Tribunali nello stato di società civile. Applichiamo il risentimento al Tribunale politico; e veggiamo se il popolo risentitosi delle offese degli amministratori abbia chiesto e resosi com' ha potuto contro di essi ragione. Egli è evidente che questa è la cagione vera o pure il pretesto di tutte le ribellioni: queste nascono perchè il popolo si risente delle offese che vengono a lui fatte dagli amministratori della società, o che gli si dà ad intendere che gli vengono fatte: egli chiede giustizia; ma non trovando alcun Tribunale che gliela renda fa al modo stesso che fanno gli individui fra loro fino che si trovano nello stato di natura; decide e si rende ragione da sé. Esiste adunque sempre nel fatto e per la natura delle cose un Tribunale per gli affari politici, come esiste sempre per la natura delle cose un Tribunale per gli affari privati. La sola differenza fra il Tribunale politico istituito appositamente, e il Tribunale politico naturale, per dir così, si è quella che passa fra il Tribunale per gli affari privati nello stato di natura, e lo stesso Tribunale nello stato civile: nel primo stato è l' individuo o la famiglia quella che giudica in propria causa e che eseguisce la sentenza, mentre nel secondo stato il giudice è distinto dall' offeso, è comune a tutti, e dell' esecuzione della sentenza s' incarica la forza comune. Così pure fino che il Tribunale politico non è istituito, il popolo è il giudice di fatto, egli è giudice in propria causa ed esecutore della sentenza: quando s' instituisce un Tribunale politico apposito, allora il giudizio è dato ad un terzo a cui di concordia le parti si rimettono. Un tribunale adunque sempre esistette di fatto, come mostrano tutte le storie per gli affari pubblici; come sempre esistette un Tribunale per gli affari privati, mentre sì l' uno che l' altro è fondato nell' umana natura come in essa è fondato il risentimento all' offesa , risentimento che è un effetto immediato dell' idea di giustizia , così necessaria dell' umana natura come necessaria è ad essa la ragione . Ho già osservato che il governo preso nella sua nozione astratta, è un benificio comune, e non un aggravio, che perciò ciascuno può prenderne il possesso se trova il posto vacuo, alla stessa guisa come ciascuno può occupare un disoccupato terreno. Ma riducendo questo principio alla pratica difficilmente si verifica, perchè nella pratica vi si mescolano le ignoranze e le passioni umane. Perciò sono assai rari i casi di popoli sottomessi all' occupante, senza che questi abbia avuto bisogno della forza. Questa difficoltà a lasciarsi governare, in popoli non guasti ancora da idee filosofiche, ma forniti solo della filosofia della natura, è il risentimento , sintomo dell' offesa ricevuta. Ho ancora osservato nella prima parte la cagione per cui l' antichità amava tanto le Repubbliche. Non si era giunto a distinguere la modalità dei diritti dai diritti stessi: non si conosceva adunque il preciso oggetto del governo: governare la società non era per essi regolare la modalità di tutti i diritti, ma era regolare i diritti di tutti: o almeno queste due cose si confondevano nel fatto; e contribuiva a tale confusione l' estensione che prendeva la modalità stessa dei diritti 2) in un tempo, che il fine delle guerre ognor minacciate era l' esistenza, o la distruzione di un popolo. [...OMISSIS...] Anzi perciò appunto era Sovrano e Legislatore perchè estendendosi tanto la sovranità, 2) questa sarebbe stata insopportabile, concentrata nelle mani di un solo, ad un popolo che ritenesse qualche vita morale: il risentimento morale adunque questo naturale giudice delle offese era quello che determinava la stessa forma repubblicana di governo, e colla forza comune realizzava nel fatto la sua sentenza. Quando un uomo solo si fece arbitro dell' imperio romano, si può dire che la virtù era per annientarsi e con essa la luce della verità. La mancanza della prima rendeva gli uomini atti alla schiavitù, e non erano più suscettibili, si può dire, di offese morali, ma solo di offese fisiche poco diversamente da' bruti. Perduta colla morale la intelligenza, in luogo di un Tribunale e di un giudizio politico, si vede un atroce irritazione di tutti gli elementi della società, che non tendono nè di fare altrui nè di rendersi a sè giustizia, ma di distruggersi scambievolmente. Ricomparisce il Tribunale politico ancora in uno stato naturale, cioè unito al risentimento della società offesa, all' uscire che fanno dal caos del medio evo le moderne società. Ma la religione ha diminuite le passioni dei governanti, e ha dato, sì ad essi come al popolo, idee più esatte di giustizia. In tal modo diventa possibile la Monarchia: il Cristianesimo solo rese questa forma di governo tollerabile non solo, ma carissima alle nazioni. In che consiste questa mutazione della Monarchia, la quale era tanto odiosa all' età pagana nella sua parte più colta, e tanto cara all' età cristiana nella colta Europa? Un grand' uomo n' ha notata la differenza con gran verità: « « I re abdicavano il potere di giudicare da per se stessi. »1) » Fu questa l' opera della Religione divina. Ed il principio che adoperò questa Religione per operare un tanto mutamento di cose fu quella massima: « « Per me regnano i re: »2) » la massima che fa conoscere avervi sopra tutti i re della terra un Tribunale, una giustizia, un Monarca, a cui rendere il conto delle arbitrarie sentenze. Conviene concedere in fatti che questo è un principio fondamentale della Religione cristiana, che questo principio lo fa sentire incessantemente: che l' ha già impresso in tutti gli uomini di Europa. Ma saremmo assai lontani dal vero, credendo che questo fecondo principio abbia ricevuto tutto il suo sviluppamento, che la sua influenza abbia ottenuto tutto ciò che egli può ottenere. Si può ben dire ch' esso sia ridotto quasi interamente nella pratica dei negozŒ civili, ma siamo ben lontani da ciò nei politici; questo è quanto gli rimane di fare. L' autore citato dopo aver indicato il carattere della presente Monarchia europea nell' abdicazione che fecero i re del potere di giudicare per sè stessi, osserva che i popoli in contracambio dichiararono i re infallibili ed inviolabili. Così è in fatto. E sarà pienamente, quando pienamente i Re avranno abdicato un potere che esclude essenzialmente l' arbitrio; e che è tanto venerabile e divino quant' è più sicuro interprete e sacerdote della giustizia un potere che è augusto non pel ministro che lo esercita, ma per sè stesso. I popoli non avendo da temere più nulla dai re, abdicano anch' essi naturalmente il potere di giudicare da sè e di farsi giustizia: in tal modo i re ed i popoli pienamente cristiani eseguiranno il precetto: «Non giudicate e non sarete giudicati. 1) » Ma giova vedere il lento corso pel quale la società cristiana tende a tanta perfezione. Il primo passo fu quello di rendere possibile la Monarchia fondandola sulla giustizia, e restringendola per conseguente a non disporre che della Modalità dei diritti. Ma questa Monarchia ancor bambina doveva essere educata, e fino che nol fosse, doveva ritenere degli antichi costumi. La società parimenti doveva nella stessa ragione tenere presso di sè il Tribunale politico. Vediamo come ne faceva uso nei casi ordinari. Le parti del popolo, dice il Sismondi parlando delle forme di governo dei popoli settentrionali del medio evo « « erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni. »2) » Ecco il passo dall' antica alla nuova forma di governo: nell' antica non poteva essere legislatore che il popolo: nella nuova il popolo non è più legislatore ma il Monarca, egli si riserva solo di approvare le instituzioni se sono tali che non suscitino in lui il risentimento morale; e se all' incontro sono tali che il suscitino, di manifestarlo e di riprovarle. Ed ecco la Monarchia europea nella sua prima età: essa non é propriamente limitata nel suo potere di regolare la modalità dei diritti, che è ciò che forma la sua natura; ma vi intervengono gli abusi; le passioni e le ignoranze operano ancora e spingeranno talora il sovrano a passare il suo confine: il popolo adunque dovea risentirsene. Alcuni teoristi crederebbero che tale costituzione fosse concertata. Niente affatto. Ella nasceva dalla natura della cosa. La società si lascia governare (quand' ella non sia corrotta da false dottrine) ma non si lascia offendere: la sua reazione, adunque, o sia l' esercizio dei giudizŒ politici, è tanto maggiore quanto essa viene più frequentemente offesa; e l' autorità del governante per conseguente è più libera ed indipendente quanto meno offende, e più rigorosamente opera la giustizia. Egli è anche inutile ricercare se la società ha il diritto di reagire contro chi la governa: perchè basta sapere come sta la cosa nel fatto; e si potrà conoscere che così fu sempre, e che sarebbe contro la natura delle cose supporre il contrario. In fatti la natura si risente quando viene offesa: potrebbe egli darsi il caso che un popolo venisse tutto intero distrutto senza ch' egli mostrasse il minimo risentimento? Or non è già questo un caso ipotetico: un popolo naturalmente sta quieto quando può vivere, ma si risente per buttare da sè quelle leggi, e quegli ordini sotto dei quali egli non potrebbe vivere: per quanto possa essere grande il suo eroismo nella tolleranza, quando non possono più andar le cose, debbono cadere. Le modificazioni adunque della Monarchia assoluta cristiana sono tutte da ripetersi dalla sua propria imperfezione; la sua natura rimane sempre la medesima cioè quella di essere un potere supremo ed universale, e per ciò stesso illimitato fino che non esce dal suo oggetto, ed i temperamenti che si trovano posti alla medesima nel medio evo non consistono che nel giudizio popolare ecclesiastico dato in diverse forme; cioè o tumultuosamente o in Assemblee stabilite, o da tutto il popolo, o dalla classe dei Nobili. Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre accatoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiarnei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non poprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene. che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè cosí universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua « Storia del Parlamento d' Inghilterra . » Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli « AssassinŒ e Furti politici . » In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei brutti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portono sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Il quarto fatto è il seguente: [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; rse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: « « Le città d' Orleans e di Parigi troncavano il corso a questi malandrini, sicchè non potevano inoltrarsi nè per la Senna, nè per la Loira. Ugo Capeto, che queste due città possedeva, teneva in mano le due chiavi degli sventurati avanzi del regno: se gli conferì una corona ch' egli solo era in grado di difendere. In questa guisa appunto venne dippoi conferito l' Imperio alla famiglia che è capace di custodire le frontiere dei Turchi. » » E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già si si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto si si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco co m' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. « « Al tempo di Carlo Magno era altri obbligato sotto gravissime pene di recarsi alla convocazione per qualsivoglia guerra: non si ammettevano scuse, ed il conte stesso che n' avesse esentato alcuno sarebbe stato punito. Ma il trattato dei tre fratelli (anno .47) pose sopra di ciò tal restrizione che tolse per dir così dalle mani del re la nobiltà: altri non fu più tenuto a seguire il re alla guerra se non quanto questa fosse difensiva, nelle altre era libera o seguire il suo signore, o accudire a' suoi affari. Questo trattato si riferisce ad un altro fatto cinque anni prima fra i due fratelli Carlo il Calvo e Luigi re di Germania: in vigor del quale dispensarono questi due fratelli i loro vassalli ove avvenisse che l' uno contro l' altro tentasse alcuna impresa: cosa che giurarono i due principi, e che giurar fecero ai due eserciti. » « La morte di centomila francesi fece pensare a quella nobiltà, che ancora restava, che per le private risse de' suoi re intorno alla lor divisione sarebbesi alla perfine distrutta, e che la loro ambizione e gelosia farebbe versare tutto quel sangue che pur rimaneva. Fu fatta questa legge che la nobiltà non verrebbe astretta a seguire i principi alla guerra se non se quando si trattasse di difendere lo stato da una straniera invasione. »2) » Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre, E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare dì sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loroautorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma nè pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che é la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, é appunto quella che si é francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero. ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al difuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Principio supremo della metodica

639218
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Senonchè, come egli è di pochi e rari saper pesare l' importanza di quelle trite sentenze che reggono il senso comune degli uomini, così avviene, che le primarie verità, benchè notissime, poco si adoperino a norma dei pensieri e delle azioni, s' adoperino, voglio dire, con poca costanza ed efficacia; e incontanente che si sono ravvisate, s' abbandonino in cerca d' altre più nuove e più speciali; le quali, fornite di minor luce, per ciò appunto si tengono più care, come più peregrine. Nel che si rinviene facilissima la ragione del come essendosi conosciuto da tanti secoli, che il metodo del ben insegnare e del ben esporre è quello che deve procedere dal piccolo al grande, dal facile al difficile, dal noto all' ignoto con insensibile gradazione; ciò nonostante anche oggidì, in questa luce di scienze, sì raramente e difficilmente si trovino de' libri formati ad ammaestramento de' giovani che procedan fedeli secondo quell' ordine naturale e soave, e sì di rado s' odano dalle cattedre i maestri accompagnarsi agl' ingegni de' loro discepoli conducendoli per mano dal piano all' arduo, quasi per fiorita e dolcemente inclinata pendice, che insensibilmente s' innalza fino alle regioni del gelo e del perpetuo sereno. Il metodo manca ne' testi prescritti da chi governa l' educazione, e nelle lezioni de' precettori, perchè ognun contento di sapere quella bella regola del metodo che accennammo, e di approvarla verissima, la mette da parte allora appunto che, esponendo le sue lezioni, avrebbe bisogno di tenersela innanzi e di consultarla, siccome infallibile oracolo, benchè plebeo, fino sopra ogni periodo che detta o pronuncia. Ma la sdegnano quelli che da troppo più si tengono del volgo, onde per ambizioso amor della scienza scappa loro di mano assai sovente il comun senso; e la gioventù, che essi guidar dovrebbero all' alto, si rimane a giocolare in fondo alla valle, o la parte più generosa giace colle gambe rotte in su qualche dirupo. Vero è, che l' applicazione d' un principio sì semplice non è punto semplice, e che non poca meditazione esige e, soprattutto, un' inflessibile costanza nell' applicarla a ogni menoma parte del discorso che s' adopera a istruire la gioventù, acciocchè non solo un periodo, come dicevo innanzi, ma or dirò meglio, nè pur una parola, nè pur un apice da quella legge di metodo si discosti. Ed è in questa perseverantissima ingegnosa applicazione, che si compiaciono i più valenti intelletti che giungono a scrivere cose egregie ad uso dell' età giovanile, e che si rendono valenti istitutori. Se non che le loro nobili fatiche nel conformare costantemente le parole, ch' essi volgono ai loro discepoli, al detto principio, rendono bensì fecondi di grande utilità i loro travagli, e recano grande giovamento ai loro allievi; ma l' arte loro per lo più va perduta rispetto agli altri maestri e istitutori, a cui non trasmettono le osservazioni da essi fatte nel giungere al detto scopo e le regole da essi praticamente trovate, per le quali poterono ridurre in atto quel principio di metodo, conformando ad esso ciò che scrissero o dissero ai loro alunni. Egli è per ciò che rimane a desiderarsi tuttavia, che alcuno apra a tutti la strada, battendo la quale ognun possa pervenire a comunicare alla gioventù ciò che dice così ordinatamente, come prescrive la sentenza surriferita dal greco filosofo, sicchè i teneri ingegni possano dolcemente e dilettevolmente ascendere ai più elevati ammaestramenti. Ed è questo appunto, che noi ci proviamo di fare o di tentare; e per farlo più speditamente ci consigliammo di proporci a dirittura il problema seguente: « Qual è il principio supremo della Metodica: »ovvero: « Qual è quella norma sicura, osservando la quale, l' istitutore della gioventù conosca quali sieno le cose che egli deve dire innanzi, e quali quelle che egli deve dire da poi, acciocchè il fanciullo che le ode venga condotto, per gradi sempre proporzionati alle sue forze, da quanto conosce a quanto ancor non conosce e che gli si vuole insegnare ». La qual ricerca manifestamente esige, che si stabilisca e dichiari: che cosa sia facile ad intendere alla gioventù e cosa difficile; e si dia un indizio e quasi uno strumento misuratore accurato di tutti i gradi di facilità e di difficoltà, che possono avere le varie parti d' una qualsiasi disciplina. Nel che si prescinde dalle doti e virtù diverse degl' ingegni, i quali assai più che in altro, si distinguono nella prontezza maggiore o minore di passare da un' idea all' altra, o viceversa dalla torpidezza colla quale si movono a questo passaggio; onde i più torpidi si rimangono addietro il più delle volte, non perchè le idee che loro si vogliono comunicare sieno superiori in se stesse alla loro capacità, ma perchè giungono tardi, e intanto che essi si travagliano per ascendere qualche gradino, il maestro, che non li aspetta, passa innanzi, ed essi restano senza il filo e come colui che in lungo viaggio non vede la guida frettolosa di soverchio da lui dilungata. Accade adunque assai di sovente, per non dir sempre, che gl' intelletti che si dicono più piccoli e deboli siano tali unicamente perchè non possono seguire la serie delle idee colla celerità comune, ma perdendo un anello della catena, si fermano unicamente, perchè loro vien meno l' idea di mezzo, senza la quale sono come a chi manca un ponte da trapassare sopra un fiume o sopra un vallone. Il qual fatto dà poi luogo all' erronea opinione che v' abbiano delle dottrine superiori a certe capacità intellettive, quando il vero si è che quelle intelligenze non arrivano ad esse unicamente perchè vien loro tolta dinanzi o sia interrotta la strada, non perchè, se fosse loro dato di fare agiatamente tutti i passi necessari nella via che a quelle conducono, giungere non potessero ad afferrarle. Tutto sta adunque nello stabilire: qual sia la gradazione naturale delle idee, come lo spirito passi dall' una all' altra, quali sieno quelle idee che si legano e attengono, per così dire, immediatamente, e quali quelle che si attengono immediatamente a queste, e così via fino alle più remote. Ognuno si accorge, che ci troviamo sul terreno dell' ideologia, e che è da questa scienza che dipende la soluzione lucida e feconda del problema propostoci. Io dovrei adunque cominciare dal supporre, che il lettore precedentemente conoscesse le dottrine ideologiche da me pubblicate, alle quali s' aggiunge e continua questo scritto come uno sviluppo e un' applicazione. Ma acciocchè quelli a cui mancassero tali notizie possano seguirci, io verrò qua e colà intromettendo le nozioni ideologiche principali, riassumendo quanto ho detto nelle opere d' ideologia, da per tutto dove il voglia la chiarezza del ragionare. Entriamo adunque nella mente umana e veggiamo quale sia la legge invariabile del suo andamento, qual sia quella scala naturale di pensieri pei quali ella ascende. Questa legge deve venire adempita da tutti gl' intelletti, perchè è intrinseca alla natura della intelligenza umana. Questa scala deve venir percorsa da tutti gl' ingegni e grandi e piccoli, senza che a nessuno sia conceduto di trasaltare un solo gradino, benchè l' uno salisca più celere su per quei gradini, e l' altro più tardo. Affine di trovare più facilmente questa legge, partiamo da un pensiero qualsiasi di cui la mente nostra possa essere occupata: analizziamolo, e dalle parti elementari che lo compongono induciamo da quali altri pensieri egli debba essere preceduto, da quali seguito; per tal modo verremo conoscendo qual gradino egli costituisca della scala intellettiva, qual altro gradino inferiore si congiunga a lui, e a qual altro gradino superiore egli stesso si congiunga. Qualunque sia il pensiero della nostra mente, che noi prendiamo ad esaminare, egli avrà un oggetto; nè il pensiero sarà quest' oggetto, nè quest' oggetto solo sarà il pensiero. - Cosa è dunque il pensiero? Egli è l' atto col quale il nostro spirito fissa la sua attenzione intellettiva sopra qualche cosa, p. e., sopra un fiore; o la trasporta d' una cosa all' altra, per esempio, la trasporta dal fiore alla sua specie o classe, pensando che quella è una rosa centofoglie, ovvero una rosa del Bengala, o di Damasco o di Portland; ovvero che quel fiore appartiene ad una specie o classe più ampia, quella delle rose, o alla famiglia più ampia ancora de' rosacei. Cos' è l' oggetto del pensiero? E` il termine di questo atto, la cosa su cui l' attenzione si pone; e nel caso nostro, il fiore in genere, e poi la rosa centofoglie o bengalese o damaschina o portlandica; e poi la rosa senz' altre distinzioni, e poi la famiglia delle piante rosacee. Chi direbbe che questi oggetti, che possono essere sì vari, siano l' atto dello spirito? Non potrebbe dirlosi con minore assurdità di chi dicesse, che gli oggetti visibili, che trapassano dinanzi all' occhio, siano l' atto dell' occhio immobile a riguardarli. Egli è dunque indubitato che ogni pensiero risulta da due elementi distinti, cioè dall' azione dello spirito che pensa (nel che sta propriamente la natura del pensiero) e dagli oggetti a cui lo spirito pensa, che sono la condizione data allo spirito, acciocchè possa pensare; perocchè senza oggetti lo spirito non pensa. Ora l' atto dello spirito è sempre un atto di attenzione intellettiva, che si posa sopra un oggetto, ovvero sopra un altro: ma questi all' incontro possono variare indefinitamente. Se dunque v' ha una legge fissa, secondo la quale lo spirito ascende d' un oggetto del suo pensiero all' altro, questa si dovrà trovare negli oggetti, nella maniera cioè, colla quale questi successivamente allo spirito si rappresentano. Cerchiamo dunque come gli oggetti si facciano innanzi allo spirito, e quali innanzi e quali dopo; e con ciò avremo trovato anco l' ordine naturale e necessario dei pensieri che noi cerchiamo. Se io veggo una rosa bianco7gialla, io non potrei primieramente classificarla tra le piante7fiori, se non avessi prima distinto le piante7fiori da tutte le altre. Quel mio pensiero adunque, col quale classifico la rosa tra le piante7fiori, non poteva presentarmisi alla mente, se non a condizione che io prima avessi fatto un altro pensiero, quello onde ho separato nella mia mente i fiori da tutte le altre piante. Se io poi dico di più meco stesso, che quel fiore appartiene alla famiglia delle piante rosacee, io dimostro con ciò che oltre all' aver distinto i fiori dalle altre piante, ho anco distinto i rosacei tra i fiori. Questo nuovo pensiero non suppone adunque più un pensiero solo fatto già prima dalla mia mente; ma almeno due, due pensieri di distinzioni, uno col quale ho distinto i fiori dalle altre piante, e un altro col quale ho distinto i rosacei dagli altri fiori. Se la mia mente non avesse già prima avuti que' due pensieri, ella non sarebbe stata idonea a fare il terzo e non avrebbe mai detto « questo fiore appartiene alla famiglia de' rosacei ». Ma se tra i rosacei io passo a distinguere le rose egli è evidente, che devo aver fatto almeno tre pensieri prima di ciò; perocchè io non posso distinguere le rose dai rosacei, se non ho distinto prima i rosacei dai fiori e i fiori dalle altre piante. Con un somigliante discorso si trova, che io non posso affermare meco stesso, che quella sia una rosa del Bengala se non fo una distinzione di più, che suppone tutte le altre precedenti; nè posso finalmente riconoscere che la rosa, che io vedo, sia tra le bengalesi quella che chiamasi da' giardinieri Adelaide di Como, se non fo due distinzioni di più oltre le precedenti. Si noti bene che io parlo di pensieri chiari e che non si fermano a saper solo il nome ignorando la cosa nominata; perocchè certo, che io posso sapere come il bianco oggetto che io vedo si chiami Adelaide di Como senza sapermi che egli sia una rosa bengalese, nè tampoco che egli sia una rosa, anzi ne manco che egli sia un rosaceo, un fiore, una pianta. All' incontro non posso affermare, con chiara intelligenza di ciò che affermo, che quello che mi diletta la vista sia un Adelaide di Como senza sapere ch' egli prima di tutto è pianta di fiori, della famiglia dei rosacei, e propriamente una rosa bengalese, e di più quella tra queste rose, che così capricciosamente fu nominata da' giardinieri, perocchè tutto ciò significa Adelaide di Como come denominazione di quell' oggetto. Ora facciamo venire un fanciulletto nel giardino coll' intendimento d' insegnargli tutto ciò, e conduciamolo al rosaio dell' Adelaide. Onde comincerò io la lezione che intendo dargli, supponendolo tenerissimo e non mai stato nel giardino, nè veduti fiori, nè piante? Io posso prender tre vie per insegnargli a far tutte le indicate distinzioni. 1 Posso cominciare a dirgli il nome di quella rosa che vede, e poi farlo salire dall' individuo alla specie o classe minore, e poi a una classe sempre maggiore, fino che lo conduco a conoscere il genere delle piante. 2 Posso tenere la via contraria, cioè fargli prima conoscere la rosa, che vede come una pianta, e poi dal genere condurlo alla specie o classe maggiore facendol discendere a una minore, fino a fargli osservare l' individualità di quella pianta. 3 Posso finalmente, senza tenere alcuna graduazione, nè ordine, parlare al fanciullo di rose, di piante e delle altre distinzioni, come mi vengono impensate sulle labbra. Egli è evidente, che quest' ultimo metodo è pessimo, o piuttosto è l' assenza di ogni metodo. Il fanciullo sarebbe costretto di saltare colla sua mente or da una classe più stretta ad una più larga, ora da una classe più larga ad una più stretta, quando ancora non conosce le classi e molto meno ha indizio a conoscere le loro larghezze o strettezze rispettive. Quanto alle altre due vie, paragoniamole insieme in prima semplicemente a vedere quali differenti operazioni debba fare la mente del nostro fanciullo per tener dietro colla sua intelligenza alle lezioni, che noi gli diamo; di poi per conoscere quali delle due maniere o serie di operazioni sia a lui più comoda, più agevole a farsi. Se io voglio condurlo dall' individualità alla generalizzazione, prima gli dirò, che il bell' oggetto che vede si chiama Adelaide di Como ; poi gli dirò che è una rosa bengalese, poi che è una rosa, poi che è un rosaceo, poi che è una pianta di fiori, poi che è una pianta. Se poi mi piace condurlo dalla generalità all' individualizzazione, io comincerò a dirgli che quell' individuo è una pianta, poi che è una pianta di fiori, poi che è un rosaceo, poi che è una rosa, poi che è una bengalese, poi che è una Adelaide di Como. A percorrere la prima serie di idee la mente del giovanetto è obbligata di porre la sua attenzione prima alle dissomiglianze delle cose e poi alle somiglianze; perchè l' individuo non è individuo, se non perchè dissomiglia da tutti gli altri, e l' individuo d' una classe speciale non è individuo di questa specialità, se non perchè dissomiglia dalle altre specialità che formano il genere. Dalle dissomiglianze poi passa alle somiglianze andando dalle somiglianze più ristrette alle somiglianze più ampie, perocchè egli non può ascendere dagli oggetti chiamati Adelaidi al concetto degli oggetti chiamati rose7bengalesi; se non avvertendo: 1 che vi sono delle note simili in alcuni di quegli oggetti, onde avviene che si chiamano tutti rose7Adelaidi; 2 che vi sono delle altre note simili non solo in tutti quei primi oggetti, ma in molti altri ancora, onde avviene che si chiamino tutti insieme rose7bengalesi. Acciocchè ascenda al concetto delle rose semplicemente deve osservare una terza serie di altre note pure simili e comuni ad un numero molto maggiore di oggetti, le quali note simili danno il fondamento a questa terza più ampia classificazione. Una quarta serie di note simili egli dee osservare, acciocchè ascenda al concetto de' rosacei e lo distingua da' concetti precedenti. Una quinta, acciocchè pervenga alle piante7fiori, ed una sesta finalmente, acciocchè arrivi al concetto più generale tra quelli, che gli vogliamo inserire nella mente, al concetto cioè di piante. A percorrere la seconda serie d' idee, che è la prima nel senso inverso, la mente del giovanetto è obbligata a porre la sua attenzione prima nelle somiglianze che nelle dissomiglianze, e deve considerar queste come limiti di quelle, sicchè da somiglianze più ampie viene di mano in mano ad altre meno ampie. Prima dunque apprende la somiglianza estesissima, che forma il genere, e poi le dissomiglianze o differenze, che restringono e spezzano sempre più quel genere in classi minori. Conosciute che egli abbia le somiglianze amplissime, che sono fondamento alla classe delle piante in generale, egli deve apprendere i limiti di quelle somiglianze, e però la differenza, che rende le piante di fiori dissomiglianti dalle altre, poi nelle piante stesse di fiori deve notare la differenza che costituisce la classe dei rosacei, poi quella che costituisce tra rosacei la classe minore delle rose, poi la differenza tra le rose bengalesi e le altre, e finalmente l' ultima differenza che separa le Adelaidi di Como da tutte le altre bengalesi. Vedute così le due serie di operazioni che deve fare il fanciullo, qual sarà quella ch' egli farà più agiatamente? E` a lui più facile trovare le similitudini delle cose o le differenze? L' operazione mentale, colla quale si avverte che due o più cose sono simili, è ella più semplice ovvero è più complicata di quella, colla quale si avverte che due o più cose sono tra lor differenti? - Ecco il quesito. A trovarne la risposta conviene, che continuiamo a studiare quelle due maniere di operazioni, che fa la mente fanciullesca, e che con un' accurata analisi di esse troviamo qual sia più e qual meno moltiplice e complicata. Se io dico al mio fanciullo (che suppongo come dicevo a primordŒ del suo sviluppo) che il bell' oggetto da lui veduto chiamasi Adelaide di Como , egli non può certamente a prima giunta affiggere a questa denominazione il significato, che vi aggiungono i giardinieri, i quali esprimono con esso una delle ultime e più strette classi delle rose. Pel fanciullo adunque quella denominazione non suona che un nome proprio arbitrariamente imposto a quell' oggetto: egli non fa che associare la sensazione visiva dell' oggetto colla sensazione di quel suono che vien pronunciato a' suoi orecchi. Ma quando io vo innanzi colla mia lezione e gli dico di più, che delle Adelaidi ce ne sono molte e gliele mostro nel giardino, egli allora è costretto di cangiare entro l' animo suo il significato, che attribuì da prima a quella voce, di cassare l' atto della sua mente, col quale egli prese quel nome per segno dell' unico individuo da lui veduto e sostituirgli un altro atto, mediante il quale stabilisce, che Adelaide di Como non è nome proprio, ma è un nome comune a molti oggetti simili. Che, se dopo di ciò io gli mostro un' altra rosa denominato Saffo, è ben probabile che egli la indichi come un' Adelaide di Como, perocchè quantunque diversa al colore, ha le fattezze simili. Io gliela farò distinguere additandogli il vivo colore di porpora di quest' ultima, a cui impongo il nome di Saffo, in confronto del colore bianco7giallo della prima. Gli farò anche conoscere, che il vocabolo Saffo non indica un oggetto solo, ma una classe di oggetti simili conducendolo a vedere molte Saffo nel giardino, nel che avverrà che egli dopo aver preso Saffo per nome d' un individuo si corregga un' altra volta e lo prenda pel nome indicante una classe di cose. Di più egli deve emendare, prima di venire a un altro passo, un terzo errore preso dalla sua mente. Perocchè prima, che io gli mostrassi la Saffo egli non conosceva che delle Adelaidi, e però riteneva, che la classe delle Adelaidi fosse unica, quindi al primo vedere delle Saffo, le applicò lo stesso nome di Adelaide. Udendo poi, che quella Saffo, e non Adelaide, si chiama, vide d' aver preso errore e restrinse la classe delle Adelaidi a de' confini, che prima non ci poneva. Veniamo ora al terzo passo; io m' ingegnerò di fargli capire che tanto le Adelaidi, come le Saffo, hanno una denominazione comune, cioè sono rose7bengalesi . Acciocchè il mio fanciullo giunga a intendere questo mio discorso, egli deve fare nell' interno della sua mente alcune operazioni, ed ecco quali: Primieramente egli deve riconoscere, che le Adelaidi e le Saffo , che aveva prima distinte con tali nomi al tutto diversi, hanno delle note comuni, per le quali esse sono suscettibili di un nome comune. Questo è quanto dire, che egli deve correggere e mutare per la quarta volta il significato, che aveva attribuito nella sua mente alle due parole l' Adelaide e la Saffo . Perocchè come prima di conoscere la Saffo egli opinava, che non ci avesse, che la sola classe delle Adelaidi, e però ripose tra queste anche la rosa porporina; così dopo avere egli imparato a chiamarla con un nome al tutto differente, separò siffattamente le Adelaidi dalle Saffo, che non riflettè punto a quanto avessero di comune. Or poi il nome comune, che io gl' insegno di rose7bengalesi, richiama la sua attenzione a riflettere, che i vocaboli Adelaide e Saffo non sono adoperati, com' egli si persuadeva, a significar questi oggetti assolutamente, ma solo a significarli in quanto hanno delle note, che li distinguono in fra di loro, là dove a significar quegli stessi oggetti, in quanto hanno delle note comuni, vi ha un altro nome che è comune a entrambi, e che è quello di rose7bengalesi. Io voglio condurlo a conoscere una classe ancora più estesa di que' vaghi oggetti, che non sia quella delle rose7bengalesi: voglio cioè condurlo a conoscere la classe delle rose in genere. A tal fine seguendo la via intrapresa, io devo ricominciare a fargli conoscere allo stesso modo, com' ho fatto delle due varietà delle rose7bengalesi, l' Adelaide e la Saffo, due altre varietà delle rose Damaschine, per esempio quella che i giardinieri chiamano l' Ammirabile colle foglie bianche orlate di rosso, e quella che chiamano la Graziosa di color rosa. Da queste due varietà farò salire la mente del mio fanciullo alla specie delle Rose7damaschine . Ma in tutto questo lavoro dovrà prima prendere, e poi correggere in se stesso quattro errori, com' è avvenuto, quando il condussi al conoscimento delle rose7bengalesi, anzi di più un quinto, che è il seguente: Quando dopo aver io mostrato l' Ammirabile , e la Graziosa al mio tenero discepolo, io gli domando: « quale sarà il loro nome comune, »egli tosto mi risponderà: quello di rose7bengalesi , perocchè egli ignora fin ora, che v' abbiano altre specie, e però egli crede, che l' Adelaide e la Saffo, l' Ammirabile e la Graziosa siano quattro varietà della stessa classe. Io lo aiuto a correggere questo suo errore collo svelargli, che le due ultime varietà non sono rose7bengalesi , ma rose7damaschine , e col fargli osservare le note, che distinguono le bengalesi dalle damaschine . Solamente giunto a questo punto io posso fargli osservare che tanto le bengalesi , quanto le damaschine , sono egualmente rose , sollevando così la sua mente a concepire una classe più ampia che abbraccia la specie del Bengala non meno che la specie di Damasco. Ma la menticina del mio fanciullo non potrebbe a tanto sollevarsi, se non correggesse un nuovo errore circa la significazione delle rose7bengalesi e delle rose7damaschine; denominazioni, che da prima nella sua mente valgono a significare quelle due specie, come al tutto separate, e non come aventi delle note comuni. Egli pone attenzione a queste note solo allora che sente, che le une e le altre hanno un nome comune, quello di rose (1). Passo innanzi, e mostro al mio fanciullo nel giardino uno Spinalba fiorito, o un Azzeruolo nel tempo pure di fioritura. Egli prenderà tosto i fiori di quegli arboscelli per delle rose. Ma vi ingannate, io gli dico, fanciullo mio; quelli oggetti che voi vedete non sono rose , ma sono bensì de' rosacei . Povero fanciullo! egli deve ancora riformare il concetto che s' era formato delle rose , cioè deve restringere il significato che egli dava alla parola rosa , e intendere che non tutto ciò, che rassomiglia alla rosa, è rosa. Allora egli in virtù della parola rosacei , che io gli fo suonare all' orecchio, porrà attenzione a ciò che distingue le rose da lui conosciute da rosacei , che ora io gli mostro; e così correggerà per la decima volta gli sbagli della sua mente; ma ignora ancora il vero significato della parola rosacei , ignora che con una tale denominazione si vuol significare un' ampia classe di cose, nella quale si comprendono ancora le rose: ignora per conseguente, che tutte le rose sono rosacei, ma non tutti i rosacei sono rose. Io devo dunque tornar da capo cominciando dall' individuo dello Spinalba da lui veduto, e fargli intendere che quella denominazione non segna solo l' individuo che egli osserva, ma tutta una specie distinta in molte varietà, al che egli deve emendare, come fece prima, quattro volte l' errore che prende la sua mente intorno al significato della parola. Poi devo far lo stesso col fiore dell' Azzeruolo facendo cadere e poi cavando il fanciullo da altri cinque errori. Finalmente devo condurlo a raffrontare il fiore dello Spinalba col fiore dell' Azzeruolo , e dopo fattagliene vedere la differenza, devo fargli anco osservare quello che hanno di simile tra loro, e quello che hanno di simile pure colle rose , onde intenda finalmente che lo Spinalba , l' Azzeruolo e la rosa sono tre classi di rosacei . Ma in facendo questo successivamente egli prende e corregge due errori, l' uno quello pel quale piglia l' Azzeruolo per uno Spinalba o per una rosa , il secondo quello pel quale piglia le denominazioni di Spinalba e di Azzeruolo come assolute e non come significanti oggetti da alcune note dissimili, avendo poi il nome di rosacei comune alle rose, alle spinalbe e agli azzeruoli, significante questi oggetti da alcune note loro comuni. Solo dopo di ciò egli comincia a intendere il significato della parola rosacei . Fin qui la mente del fanciullo condotta per questa via incespicò nell' errore per ventidue volte almeno, e dall' errore altrettante si rilevò. Andiamo innanzi. Io devo far distinguere al mio fanciullo i rosacei dagli altri fiori. Se io gli mostro un giglio o il gelsomino, e gli domando cosa egli sia, risponderà verosimilmente un rosaceo, perchè non conosce ancora alcuna classe più estesa di questa. Io devo dunque dirgli, che ciò che vede non è un rosaceo, ma che è un giglio, ovvero che si chiama un gelsomino. Venuto a questa nuova cognizione egli restringe il significato del vocabolo rosacei , il quale non è più per lui la classe generale degli oggetti veduti nel giardino, ma già una classe speciale anch' essa, che non abbraccia tutti gli oggetti del giardino. Così commette, e poi corregge un suo sbaglio nel significato della parola rosacei ; che è il ventesimo terzo. Ma se io volessi poi fargli intendere che le parole giglio e gelsomino non significano solo gl' individui che gli mostro, ma delle famiglie simili a quelle de' rosacei, le quali si dividono di nuovo in classi o specie, e queste specie in varietà, dovrei fargli rinnovare il cammino pien di cadute e di rialzamenti, che gli ho fatto fare per arrivare alla famiglia dei rosacei. E pure se non fo così, non potrei condurlo al chiaro concetto delle piante7fiori, come mi sono proposto; concetto più esteso che non quelli delle famiglie, specie, e varietà di fiori fin qui mostrategli. Supponendo aver fatto tutto ciò per non annoiare il lettore con inutile ripetizione, basti osservare, che a fornir tale viaggio il mio fanciullo replica almeno i ventidue errori indicati per ogni famiglia, a conoscer la quale io lo conduco; sicchè sommando tutti gli errori pei quali egli passa colla sua mente, se vuol giungere al conoscimento delle tre famiglie de' rosacei, de' gigli e de' gelsomini, ne avremo sessantasette o in quel torno. Quand' io gli dico che tanto i rosacei, quanto i gigli, come pure i gelsomini sono de' fiori, io gli emendo con questa denominazione comune a quelle tre famiglie tre errori nel capo, coi quali egli prendeva i vocaboli rosacei, gigli e gelsomini, come indicanti sommi generi o classi, quando ora intende che esprimono classi sottordinate al genere, o sia alla classe de' fiori, il qual nome di fiori conduce il suo intendimento a porre attenzione a delle note comuni alle tre famiglie da lui conosciute, alle quali note non aveva fin qui posto l' occhio. Giunto il mio fanciullo a questo grado d' istruzione, già lo conduco al luogo delle piante fruttifere e gli mostro incontanente un bel pesco rosseggiante di pesche mature. Domandandogli io come si chiama, egli mi dice un fiore , perocchè non conosce altre classi dove collocare l' oggetto che vede. - « No, mio caro, egli non è un fiore, ma un fruttare. » - Con questo solo egli corregge il suo errore circa il significato delle parole per la settantunesima volta, e intende che il genere de' fiori non abbraccia tutto. E ciò non ostante sta ancor lontano dall' intendere la parola fruttare per ciò che veramente significa nell' uso comune; perocchè ella nell' uso non significa un individuo, nè una varietà, nè la classe più stretta, nè una classe maggiore, ma significa una classe assai ampia che abbraccia sotto di sè classi di varie larghezze. Dovrei dunque fargli intendere che de' fruttari ve ne son di più specie: di quelli che fanno le frutta dal nocciolo, di quelli che le fanno dalle granella, altri dagli acini, altri le fanno a spighe, a ciocche, a pannocchie, altri molli del tutto, e così via; devo fargli intendere che quello che vede è un fruttare, che fa le frutte dal nocciolo, ma che di questi ve ne son molti, i quali si chiamano altri peschi, altri ciliegi, altri ulivi eccetera; e che il fruttare che vede, è un de' peschi; ma degli stessi peschi ve n' ha di più qualità, come que' che fanno le pesche duracine, e quelli che le fanno spaccarelle, eccetera; e quello che vede è un di que' che fanno le pesche duracine, e non è quel solo che le fa, ma molti altri parimente le fanno. Ora a insegnargli tutto ciò per la via contraria, cioè cominciando dall' individuo, e sollevandolo alle pesche duracine, e poi alle pesche senza più, e poi alle frutta del nocciolo, e poi a fruttari in genere; egli è chiaro, che io dovrò fargli entrare nella mente altri settantun concetti torti, facendogli poi cangiare il pensier suo ed emendare altrettante volte. Ma finalmente venuto così a conoscere i fruttari come una gran classe degli oggetti che vede nel giardino, distinta da un' altra gran classe da lui prima conosciuta, quella de' fiori; io potrò innalzarlo al concetto delle piante in generale, recandolo a sottomettere a questa nuova più ampia classificazione, come classi ad essa sottordinate, tanto le piante de' fiori, come le piante fruttifere, il che farò a condizione che egli emendi ancora le significazioni, che in sua mente egli dava alle due parole piante7fiori e fruttari , riducendole da classi somme, che per lui significavano prima di conoscere la classe massima delle piante , a classi a questa sottoposte. Tale è il lungo cammino pel quale il giovane giunse a formarsi qualche chiaro concetto della parola pianta e di quella di vegetabile , che ad essa risponde. E` egli questo il buon metodo? è la via più facile e più spedita? Per conoscerlo convien confrontare questa via coll' altra inversa che va dal più generale al meno; ma prima di questo devo fare due osservazioni, affine di giustificare e chiarir meglio quanto ho detto fin qui. La prima osservazione si è, che quello che io supposi, prendere cioè il fanciullo la prima classe di cose ch' egli conosce per la più ampia di tutte, e però trovarsi poi ingannato quando egli scuopre che delle cose vi hanno delle classi maggiori, non è supposizione da me fatta in aria, ma sì un vero conosciuto coll' esperienza che feci su bambini, i quali cominciano costantemente il loro sviluppo intellettivo dall' apprendere i due elementi estremi delle umane cognizioni, cioè l' individuo mediante la percezione , e la classe (se così si potesse chiamare) universalissima, quella di cose (di enti ); dalla classe universalissima poi di cose scendono a formarsi il concetto di classi più limitate, benchè inclinando a trovarle più larghe che possono, e venendo sol gradatamente alle più strette (1). La seconda osservazione si è che tutti gli errori annoverati, pei quali è trapassata la mente del nostro fanciullo, si volgono principalmente sul significato ch' egli attribuisce alle parole che ode; e ciò perchè è delle parole che egli si serve a classificarsi gli oggetti, essendo il vocabolo quel segno al quale egli lega colla sua mente certe note comuni, che sono il fondamento delle sue classificazioni (1). Venendo ora al confronto delle due vie riflettiamo in primo luogo essere una verità d' esperienza riconosciuta anco da' filosofi di scuole direttamente opposte, che l' uomo è più inclinato a osservare le somiglianze delle cose, che le dissomiglianze , a trovar quelle prima di queste (2), e il bambino procedere dal credere facilmente le cose esser simili tra loro al notarne poi più tardi le loro differenze. Io ho spiegato questo fatto incontrastabile nei miei scritti d' Ideologia (3). Ciò stabilito, risulta esser più conforme alla natura della mente umana, e allo spontaneo procedere dell' intendimento fanciullesco, il condur questo per la scala delle somiglianze, anzi che per quella delle differenze, cioè il cominciare a sottoporre all' attenzione del bambino mediante i vocaboli delle somiglianze molto ampie delle cose, facendolo poi discendere a notare delle somiglianze minori; il che è quanto dire recandolo a limitare gradatamente quelle somiglianze ampiissime mediante delle differenze, o dissomiglianze fatte a lui notare tra quelle cose sotto certo aspetto tra loro simili. Ora il metodo che mena il fanciullo da' generali a' particolari è appunto quello che sottomette alla sua attenzione le somiglianze prima più ampie, e poi le differenze, quai confini delle somiglianze stesse; laddove il metodo che mena il fanciullo da' particolari a' generali fa l' opposto, trae cioè la mente del fanciullo a considerar prima ciò che è dissomigliantissimo, e poscia ciò che è men dissomigliante, introducendosi le somiglianze quai confini delle dissomiglianze. Dunque il primo è manifestamente il metodo alla natura conforme, il secondo la oppugna e contrasta. E veramente, se io mostro prima al mio fanciullo che tutti gl' individui che vede nel giardino si chiamano piante; sentendomi egli a ripetere sempre la voce pianta a ogni individuo che gli mostro, facilissima gli riuscirà questa cotale classificazione che non gli domanda alcuna attenzione alle differenze particolari e a cui basta che in sua mente egli si disegni un cotale abbozzo all' ingrosso d' un oggetto unico, il qual disegno egli si fa con que' soli tratti grossi per così dire, che sono a tutte le piante comuni. Fatto questo disegno a pochi e grandi tratti nella sua mente, gli resta solo da contornarlo meglio e finirlo in diverse maniere; il che egli fa successivamente. Perocchè, quando io vengo poi mostrandogli la differenza tra le piante di adornamento e diletto, quali sono i fiori, e le fruttifere; egli non ha che a riprendere l' abbozzo che gli sta in mente, e dargli due altri colpi di mano, se mi lice così esprimermi, pe' quali colpi dall' una parte egli ne trae il tipo ossia il concetto delle piante a fiori, e dall' altra ne cava il tipo ossia il concetto delle piante a frutta. Egli in questo fatto non ha a correggere il lavoro primitivo come errato; perocchè questo sempre è vero, e gli giova a conoscere le piante in genere: non ha dunque, che a servirsi di lui per lavorarne anche i disegni più finiti delle piante speciali a fiori e a frutta. Il medesimo si dica di tutte le altre classificazioni che vien facendo con questo metodo la mente del fanciullo, e colle quali ella formasi i concetti anco più finiti delle piante rosacee, e di quelle che dan frutto da osso, de' rosai e de' peschi; de' rosai che dan rose di Bengala, e de' peschi che danno pesche duracine; delle Adelaidi di Como e delle pesche duracine, lanuginose, eccetera. In tutto questo lavoro il fanciullo si fabbrica de' concetti sempre più determinati senza che egli commetta un errore nè circa l' estensione della classe, nè circa il significato de' vocaboli che egli apprende. E tutti i concetti pe' quali egli passa sono giusti ed è un lavoro fatto che non deve più rifare nè mutare nella sua mente, che gli serve in avvenire e che è graduato e tutto ben commesso insieme (1). Laonde il vero e naturale metodo, pel quale si deve insegnare al fanciullo la classificazione delle cose, si è quello che comincia a mostrargli e nominargli la classe più generale, e i varii individui di essa, poi a mano a mano le classi sempre minori e gli individui che loro appartengono, fino che si giunge alla specie minore di tutte, che è quella che io ho chiamata Specie piena (2). Noi abbiam trovato fin qui la graduazione che tiene la mente umana nella formazione delle classi delle cose; ma ciò che noi cerchiamo è qualcosa di più universale. Non vogliamo saper solamente per quali passi la mente arrivi a classificare gli oggetti da lei conosciuti, ma in generale la legge del suo graduato andamento in qual sia foggia di pensieri per cavarne una regola generale, secondo la quale condurre i giovanetti al sapere. Quello che abbiamo detto del classificare ci fa tuttavia strada a vedere in generale l' ordine che segue la mente nelle altre sue operazioni, il qual ordine noi non possiamo discoprire con maggiore sicurezza che osservandolo attentamente nelle speciali materie, circa le quali l' attività della mente si occupa, e riducendolo poi in una formola generale. Poniamoci adunque ancora un poco attenti osservatori di ciò che suol fare la mente fanciullesca. Nel classificare abbiamo veduto che l' operazione della mente consiste in trovare ch' ella fa i rapporti di somiglianza e di dissomiglianza tra le cose. Vediamo ora come la tenera mente dopo questi scopra degli altri rapporti, per esempio, quelli di località rispettiva. A Felice furono già mostrate tutte le piante del giardino e insegnato come si classificano tenendo il metodo sopraindicato, ed or egli distingue ogni albero, ogni arbusto, ogni erba, ogni fioretto, e sa nominarle assai facilmente col nome più o men generico, più o meno speciale. Ma il giardino, dove queste notizie egli apprese, era male ordinato, le famiglie e le generazioni delle piante confuse insieme. Felice avrebbe voluto veder distinte in tre aiuole diverse le piante d' ornamento, le fruttifere e le medicinali, e in ciascun' aia osservate le suddivisioni proprie di quelle piante. Poniamo che ne richiedesse un dì il suo precettore, il quale assai contento della riflessione del suo alunno gli ottenesse in premio dal padre un campicello, dove potesse ordinare un suo picciol giardino a tutto suo gusto. A qual condizione poteva venir nella mente di Felice il pensiero di doversi ordinare il giardino secondo la classificazione delle piante da lui appresa? - A condizione che egli avesse prima appresa quella classificazione; come quella classificazione stessa non poteva apprendersi dal fanciullo, se non ad un' altra condizione, cioè quella di conoscere prima gl' individui da classificarsi. Qui si vede che un pensiero è condizione necessaria d' un altro pensiero, il quale viene nella mente dopo del primo, nè può prevenirlo. Nel caso nostro i pensieri degl' individui precedettero quelli delle somiglianze tra loro, i pensieri delle somiglianze precedettero quelli delle classi, i pensieri delle classi precedettero quelli della disposizione locale degli oggetti classificati. Quest' ordine negli oggetti de' pensieri è necessario, ad esso ubbidiscono tutte le menti, sieno perspicaci quanto si voglia. In qual maniera adunque si potrebbe far conoscere ad un fanciullo la convenienza di una data distribuzione locale di oggetti secondo certe classi, se prima non gli si avessero fatte conoscere le classi stesse? Le quali conosciute, il pensiero della distribuzione locale viene spontaneo a mettersi nella sua mente, e per ciò facilissimamente lo intende, tosto che gli si proponga. Ecco un ordine di pensieri rispetto alla distribuzione locale degli oggetti e insieme una regola metodica d' insegnamento suggerita dalla natura: prima si mostri al fanciullo il fondamento, la ragione secondo la quale può aver luogo una data distribuzione locale di oggetti, e incontanente egli intenderà, con poco aiuto che gli si dia, la loro distribuzione, gliene verrà il pensiero, ne sentirà la convenienza, ne vedrà il modo. Ma poniamo ancora che Felice desse opera a formarsi il giardinetto a modo suo, disposto secondo la classificazione da lui appresa delle piante. Ecco che, dopo avere pressochè tutto regolato, s' accorge che il terreno destinato alle piante medicinali e a quelle da fiori era soverchio; troppo scarso all' incontro era quello che rimaneva per le piante da frutto. Onde conchiuse che il terreno doveva essere compartito con più esatta proporzione al numero e alla grandezza delle piante di ciascun genere. Questa era una nuova riflessione, una cognizione nuova datagli dall' esperienza. Poteva Felice giungervi colla sua mente prima di questo tempo? Certo che non sarebbe assurdo il pensare che Felice prima di trasportare le piante nel suo giardino avesse considerato che gli conveniva ripartire debitamente il terreno secondo il numero e la grandezza delle sue piante. Ma quand' anche egli avesse pensato a tutto ciò prima di por mano all' opera, senza aspettare che l' esperienza gliene mostrasse la necessità, sarebbe ciò nonostante sempre vero che l' ordine de' pensieri venuti nella sua mente doveva essere ed era il seguente: 1 La riflessione, ancora in generale, che le piante dovevano essere disposte in luoghi diversi, secondo le classi a cui appartenevano; 2 La riflessione sopra il modo di disporre le piante acconciamente, secondo le classi. Nel qual ordine si scorge la legge toccata nel capitolo antecedente, cioè che prima v' ha nella mente il generale, poscia il particolare; prima un pensiero, quasi direbbesi, in abbozzo, poscia il contorno, il finimento, la perfezione di quel pensiero; prima la necessità del compartimento, poscia la forma da dare al medesimo. E circa questo modo o questa forma troppe sono le riflessioni successive che l' esperienza, e non il semplice prevedere della mente eziandio che perspicace, deve far fare al fanciulletto, ora mostrandogli la necessità di disporre le piante in modo che le alte e frondose non aduggino le basse e minori, ora indicandogli il bisogno che alcune sieno più riparate dal freddo, o da' venti, o dal secco, o dall' umido, ora rendendogli palese che queste domandano esser poste là dove il terreno sia magro, quelle dove sia grasso, altre dove sia sabbionoso, altre dove sia compatto, domandano altre terriccio da bosco e altre terra da canapaia, e così va discorrendo. Egli anco s' accorge che vi sono piante d' ogni stagione, sicchè gli restano vuote le aiuole con scapito del bell' aspetto, onde non potendo aver tutte le piante in ogni tempo, trova meglio di surrogare quelle di state a quelle di primavera, e quelle d' autunno a quelle d' estate; apprende poi che altre vogliono essere vicine alle mura per distendervisi in ispalliera, altre cercano il fitto bosco, altre di starsi sole; onde per li nuovi e nuovi pensieri viene dopo gran tempo a conoscere che l' acconcia distribuzione delle piante nel suo giardinetto non è quella che gli si rappresentava così facile e semplice in sul principio; che anzi è un' arte lunga, e richiede lunga prova di operazioni, di esperienze e succedenti pensieri. I quali miglioramenti, chi non vede che nella sua mente si rappresentano a grado a grado, e che quelle riflessioni hanno un ordine fra loro, sicchè le une s' aggruppano alle altre, le une dalle altre derivano, e che non vi possono essere le figlie se non vi son prima le madri? Vero è che il maestro già ricco dell' esperienza sua propria potrà comunicare al fanciullo quant' egli già sa; ma chi non vede che anco in questa comunicazione il maestro stesso, qualor sia savio, si farà interprete e seguace della natura conducendo la mente del giovinetto per que' gradi medesimi, pei quali da sè giungerebbe, quantunque per via più lunga, qual è quella dell' esperienza, a conoscere il vero? Vediamo ancora un altro progresso di quelli che suol fare la mente nella distribuzione locale degli oggetti. Un bel mattino Felice, uscito secondo il solito nel suo giardino, vedendo i bellissimi fiori d' ogni maniera che il tappezzavano, gli venne il pensiero di coglierne alcuni, legarli in un mazzetto e recarli in dono a sua madre. Da quell' ora ogni mattina per tempo le faceva il gentil presente. Trovò poi da sè di poterli anche intrecciare in ghirlande da adornarsene il capo; nè molto andò, che s' accorse come le forme e i colori diversi più o meno tra loro armonizzavano; e dilettandolo quest' esercizio d' assortire le qualità de' suoi fiori, imparò in breve tempo ad unire graziosissimi mazzetti e ghirlande bellissime. Nel qual progresso del suo spirito egli è pur facile di vedere che avvi qualcosa di necessario. Perocchè 1 non poteva riflettere al bello de' fiori, se prima non avesse i fiori conosciuti; 2 non poteva riflettere a unirli in mazzetto, se prima non ne avesse conosciuti molti e non un solo; 3 non poteva riflettere che alla madre sua sarebbero stati grati se non avesse riflettuto prima e alla vaghezza de' fiori e alla madre e al piacer di questa; 4 non poteva riflettere al bello di farne ghirlande, opera più complicata, se prima non avesse pensato a unirli a mazzo, unione più semplice; 5 non poteva venire al pensiero di assortirli per cavarne vaghezza maggiore senza aver prima osservato che l' unione dei colori e delle forme porta vaghezza; 6 nè poteva trovar l' arte del più vago assortimento, se non n' avesse fatto ben molte prove componendoli e intrecciandoli in varie guise. Chi volesse far andare l' intendimento per cammino contrario a questo, gli farebbe violenza e, lungi dall' aiutarlo a svolgersi, lo combatterebbe e impedirebbe nel suo svolgimento. Un altro esempio ci porrà in chiaro la verità che vogliamo stabilire, che cioè l' umano intendimento ha un corso nel suo sviluppo prestabilitogli dalla natura, ed egli non può andare che facendo quel corso e non altro. Perocchè quand' anco paresse all' imperito maestro di poter ricacciare l' intendimento per una via non sua, come un fiume contr' acqua, egli prenderebbe abbaglio solo da questo, che l' intelletto del fanciullo da sè colla propria potenza va bene spesso disfacendo il viluppo del maestro, e la imbrogliata matassa ricevuta nella memoria e disvoltala da se stesso, ma con infinito suo travaglio e noia, ordinatamente la rifarebbe. La qual fatica, che devono fare i fanciulli, di accogliere in mente cose male ordinate e rimutar loro l' ordine per poter intendere, non solo rende i loro studi lunghissimi, ma, quel che è più, affaticanti e tormentosissimi, come contraria alle leggi della loro intelligenza. I due esempi, ne' quali abbiamo veduto questo vero, son tolti dalle operazioni mentali del classificare e del distribuire localmente con qualche ordine le cose; vedremo la stessa necessità che certe idee succedano a certe idee e non le prevengano, se considereremo l' incatenamento intrinseco a un ragionamento qualsiasi. Chi sa così poco di logica, che non conosca che un ragionamento è una serie di proposizioni esprimenti altrettanti giudizi, altrettanti pensieri, altrettante cognizioni le une dipendenti dalle altre come conseguenze da' loro principŒ? Da questo apparisce che l' intendimento non possa in modo alcuno giungere a una data proposizione se prima non ha percorse tutte le precedenti, dalle quali ella viene ingenerata. Piglisi qualsivoglia teorema della geometria di Euclide, si vedrà sempre condotta la dimostrazione mediante un richiamo dei teoremi precedenti che hanno, per così dire, in corpo il teorema che si vuol dimostrare. Potrebbe dunque la mente intendere l' ultimo teorema saltando via tutti gli antecedenti? Chi non ne sente l' impossibilità? E qui vorrei che ognuno conoscesse la ragione onde deriva che vien considerato per eccellente il metodo de' matematici. La eccellenza di questo metodo non istà in altro che nel giusto ordine nel quale vengono collocate le varie proposizioni, delle quali la geometria si compone. E perchè non si potrebbe osservare il medesimo ordine rigoroso anche nell' insegnamento di ogni altra scienza? Anzi perchè non si dovrebbe? Rimane piuttosto a cercarsi solamente la ragione per la quale i matematici tutti osservano quel metodo rigoroso, qual viene richiesto dalla natura dell' intendimento, e quelli che trattano le altre scienze non ne fanno caso, e riescono per conseguenza troppo lontani dal seguire il metodo della verità e della natura dell' intelligenza. La ragione si trova in questo, che nelle matematiche la mente è costretta a dedurre l' una cosa dall' altra, il che far non potrebbe al tutto se non mandasse avanti le premesse e deducesse le proposizioni l' una dall' altra; senza di questo la mente s' accorgerebbe di non far nulla, di nulla intendere, ed ella ricusa di camminare alla cieca. All' incontro, nelle altre dottrine la mente si persuade d' intendere anche là dove nulla intende, e così prende la prima proposizione che ode e a cui attribuisce un cotal senso a capriccio, e la ripone nel tesoro della memoria come una cognizione acquistata, e così fa di tutte le altre. La memoria ed il linguaggio in questo fatto l' inganna, come abbiamo veduto accadere al fanciullo, a cui si faceva conoscere la classificazione delle piante andando dal basso all' alto della classificazione; nel qual viaggio credeva sempre d' aver inteso il vocabolo indicante la classe, e sempre l' aveva sbagliata e doveva correggersene. Ben è vero che la mente se ne corregge: ma qual tempo perduto! Nè se ne corregge sempre sì presto. Avviene il più spesso che l' uomo già vecchio trovi nella sua memoria accumulate senz' ordine molte proposizioni che apprese da giovinetto, e che, quantunque senza senso e senza vita, stannogli in mente annesse a de' vocaboli, a ciascun de' quali egli dava qualche peso. Ora risvegliandosi a caso queste memorie che già coesistono nella sua mente, egli comincia a vedere che le une spiegano le altre, e comincia quindi ad intendere, perchè da se stesso le ordina come la lor natura richiede. Egli fa ciò cogli anni un poco alla volta; ed è questa la ragion principale perchè solo coll' età l' uomo diviene intelligente e amante di sapere. L' educazione fin qui usata non mirò quasi ad altro che ad imporre alla memoria de' fanciulli un fardello immenso d' inintelligibili parole. Il povero loro cervello si traccia tuttodì e si solca di cifre e di note arcane che non possono essere intese se prima non sono scritte tutte, perocchè quella che è la chiave dell' altra, ed è chiave per sè, si è scritta l' ultima, quando doveva scrivervisi la prima. Ma questo non può avvenire nella Matematica, la quale non si contenta d' insegnare le proposizioni che la formano, se non dà di ciascuna il perchè, la dimostrazione. Chi ammaestrando i fanciulli si facesse una legge di dar loro sempre la dimostrazione di ciò che loro dice, sarebbe costretto altrettanto, quanto il matematico, di ordinare le dottrine che comunica a' fanciulli e di procedere col metodo più rigoroso. Ma egli è tempo che riassumiamo quanto abbiamo detto sull' ordine naturale delle operazioni della mente e de' loro oggetti. Tre furono le maniere di oggetti, intorno ai quali osservammo la mente occupata, e tre le maniere delle sue operazioni: il classificare le cose secondo le loro somiglianze, il distribuirle con cert' ordine locale, finalmente l' astratto ragionamento. Nella prima maniera di operazioni abbiam veduto che se la mente non si fa andare innanzi secondo l' ordine suo naturale, ella fa bensì qualcosa, ma questo far qualcosa è un camminar continuo per una strada piena d' errori che deve successivamente correggere. Nella seconda maniera d' operazioni se la mente, limitata com' ella è, si fa andare innanzi contro l' ordine naturale, ella fa ben qualcosa ancora, ma qualcosa di confuso e d' inesatto: le sue idee s' avviluppano, nè prendono tal consistenza da produrre in essa delle persuasioni efficaci che la facciano operare con certa costanza. Nella terza maniera finalmente di operazioni la mente non può del tutto andare contro l' ordine naturale, e il cacciarnela sarebbe indarno; chè s' arresterebbe, nè apprenderebbe mai cosa alcuna. I quali sono appunto i tre principali inconvenienti che nascono dall' ammaestrare la gioventù senza quel vero metodo che mantiene l' ordine progressivo delle idee e di cui noi andiamo cercando i principii: 1 far cadere la mente in errori; 2 farle avere delle idee oscure e confuse; 3 renderla immobile e per poco stupida. Or quando attentamente si consideri in che consista quest' ordine naturale e necessario degli oggetti mentali che noi abbiamo ravvisato ne' tre casi analizzati più sopra, si trova facilmente potersi quest' ordine così dichiarare. « Un pensiero è quello che serve di materia o che somministra la materia ad un altro pensiero ». Ecco la legge. Egli è evidente che se un pensiero serve di materia o somministra la materia ad un altro pensiero, questo secondo pensiero non può nascere in modo alcuno se non dopo che quel primo è nato e gli ha somministrata la materia di cui bisogna. Ora da qui l' ordine naturale e necessario di tutti i pensieri umani si manifesta. Tutti i pensieri, che in qualsivoglia tempo caddero nella mente degli uomini o che vi posson cadere, si distribuiscono e classificano in tanti ordini diversi secondo la legge indicata, i quali ordini sono: 1 Ordine di pensieri: pensieri che non prendono la loro materia da pensieri anteriori ad essi. 2 Ordine di pensieri: pensieri che prendono la loro materia da pensieri del 1 ordine e non da altri. 3 Ordine di pensieri: pensieri che prendono la loro materia da pensieri del 2 ordine. 4 Ordine di pensieri: pensieri che prendono la loro materia da pensieri del 3 ordine. 5 Ordine di pensieri ecc.. - Allo stesso modo si enumerino successivamente gli altri ordini, caratterizzandosi ciascuno dal prendere che egli fa la sua materia da pensieri dell' ordine immediatamente precedente. Or questa serie di ordini non ha fine: indi l' infinito sviluppamento a cui è ordinata l' umana intelligenza, al termine del quale ella non può giunger giammai. Che poi questa ordinazione di tutte le intellezioni umane sia naturale egli è chiaro da sè, perocchè la natura della mente è tale ch' ella non può moversi ad alcuna sua intellezione se non gliene sia precedentemente stata data la materia, l' oggetto. Che quest' ordine sia necessario e immutabile si vede per la ragione stessa; giacchè nessuno intelletto potrebbe mai pensare nè intendere, senza avere un che, un oggetto da pensare, da intendere. Scoperto così l' ordine immutabile delle intellezioni umane, noi abbiamo scoperto altresì in esse il solido fondamento su cui possiamo erigere il Metodo d' insegnamento . Questo metodo diventa naturale e invariabile, come naturale e invariabile è il fondamento su cui si appoggia, cioè la legge indicata costitutiva dell' umana intelligenza. Questo metodo è preciso e chiarissimo; egli è unico, perocchè tutti i buoni metodi fin qui inventati si riducono a lui, non sono che viste parziali di lui o mezzi da metterlo in atto, e tutti i metodi che al nostro si oppongono sono cattivi. La formola che esprime il metodo d' insegnamento in generale e che forma il principio supremo della Metodica è dunque la seguente: « Si rappresentino alla mente del fanciullo (e si può dire in generale dell' uomo) primieramente gli oggetti che appartengono al primo ordine d' intellezioni; di poi gli oggetti che appartengono al second' ordine d' intellezioni; poi quelli del terzo e così successivamente », di maniera che non avvenga mai che si voglia condurre il fanciullo a fare un' intellezione di second' ordine senz' essersi prima assicurati che la sua mente fece le intellezioni, a quella rispettive, del primo ordine, e il medesimo si osservi colle intellezioni del terzo, del quarto e degli altri ordini superiori. Vedesi adunque da quanto è detto, che il primo lavoro necessario a farsi per poter istituire il vero metodo della natura negli studi privati o pubblici ne' quali s' ammaestra la gioventù, si è quello di una esatta classificazione di tutte le intellezioni umane ne' loro varii ordini naturali di sopra distinti. Questo è quello che non si è mai fatto, che non si è mai pensato di proposito a fare; la cui necessità direttamente non si è veduta. Per lo contrario questo è ancor quello che tutti i migliori educatori della gioventù hanno cercato, quello che hanno raggiunto in parte senza saperlo dire a se stessi, quello che l' esperienza ne' casi particolari ha rivelato, rimanendosi nondimeno loro nascosto nella sua universalità (1). Io recherò a provarlo qualche esempio pigliandolo dalle più piccole cose, giacchè il principio da noi posto deve regolare lo istitutore in tutte le sue parole, e dove egli se ne sottraesse, foss' anco in una sola frase, avrebbe commesso un errore contro il buon metodo. Il primo autore in Italia che scrivesse delle buone letture pei fanciulli della più tenera età (2) dettò per essi delle sentenze staccate, ommettendo per lo più le congiunzioni. Mi si permetta di riferire la ragione di questa ommissione colle sue stesse parole: [...OMISSIS...] . Ecco un uomo che vide in un caso particolare colla guida dell' esperienza, e, quasi direi di profilo, il principio nostro. Egli è verissimo che il fanciulletto s' applica ad intendere il senso di ciascuna sentenza, ma non pone mente alle congiunzioni che nel discorso insieme le legano, di modo che queste pel tenero fanciullo sono perdute. Ma perchè ciò? - La ragione netta si trova nel principio nostro: i nessi del discorso significano intellezioni d' un ordine più elevato delle semplici sentenze che quelli insieme congiungono; e per ciò non possono essere raggiunti dalle menti de' fanciulli che non ricevettero ancora in sè le intellezioni espresse nelle singole sentenze. Il che si capirà tosto che si osservi che il pensiero d' un nesso o d' una relazione tra due cose è tale, che non può nascere se non preceduto da' pensieri delle due cose singolari. I pensieri dunque delle cose singolari sono quelli che somministrano la materia necessaria al pensiero delle relazioni che passano tra queste cose, e perciò sono d' un ordine anteriore. Ma avanti all' ordine delle sentenze non vi è qualche altro ordine d' intellezioni pel giovanetto? Sì certamente: vi ha quello di semplici concezioni, le quali sono espresse da vocaboli isolati. Questo fu rivelato dall' esperienza a Vitale Rosi (1), e perciò cominciò il suo eccellente « Manuale di scuola preparatoria » dagli esercizi che conducono il giovanetto a conoscere i nomi delle cose, sottoponendo alla mente di lui il significato di un vocabolo alla volta, considerato come segno di un oggetto e non come elemento di proposizioni. Applaudì a questo pensiero l' abate Lambruschini, il quale parlandone dice così: [...OMISSIS...] . Or dunque, perchè i fanciulli troppo si stancano a porger loro proposizioni da analizzare? - Perchè si pretende con ciò che facciano due operazioni mentali ad un sol tratto, due operazioni che di loro natura sono successive e non possono essere contemporanee. L' una di queste due operazioni comprende quelle intellezioni colle quali il fanciullo viene a conoscere il significato de' singoli vocaboli; l' altra comprende quelle colle quali il fanciullo deve annodare tra loro i vocaboli per farne riuscire il senso della proposizione. Or non è chiaro che il sentimento di tutta la proposizione è un pensiero che non può esser fatto dall' uomo se non prendendo la sua materia da altri pensieri più elementari, cioè da quelli co' quali s' abbraccia il sentimento delle singole parole? Le intellezioni adunque che non hanno per loro scopo se non l' intendere una voce alla volta appartengono ad un ordine anteriore a quelle intellezioni che mirano a far intendere tutta una proposizione; e perciò queste intellezioni non possono esser fatte dal fanciullo se non lasciandogli il tempo necessario a compir prima quelle. L' osservazione dell' abate Rosi è simile a quella fatta prima dall' abate Taverna. Questi aveva osservato che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro le sentenze; quegli osservò di più che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro i vocaboli, dal qual legamento riescono le sentenze. L' una e l' altra osservazione non sono che casi particolari del principio nostro generale. Or, quantunque noi non intendiamo di prendere a classificare in questo trattato le intellezioni umane secondo i loro ordini, il che non può essere l' opera nè di un libro nè di un uomo, ma il lavoro de' secoli che verranno; nulladimeno dobbiamo dirne tanto che basti, affine che il concetto nostro s' intenda e n' apparisca l' importanza, e si vegga ancora la via per la quale convenga indirizzarsi a ridurlo ad effetto. A tal fine vediamo quali sieno le intellezioni che appartengono al primo ordine. La forza o virtù generale, colla quale lo spirito attualmente conosce, si chiama attenzione . L' istruzione tende a far sì che la gioventù attualmente conosca, e perciò si può chiamare un' arte di dirigere acconciamente l' attenzione dello spirito de' giovani. Prima ancora che si ecciti l' attenzione nello spirito dell' uomo, vi hanno in lui due principŒ delle future sue cognizioni, il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere . A provare l' esistenza di questi due principŒ originari nell' uomo sono principalmente volti gli scritti ideologici da me prima d' ora pubblicati (1) e però non vi spendo parole. Ma, quantunque esista nello spirito dell' uomo il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere , fino a tanto che manca in esso l' attenzione (1), que' principŒ non possono formare delle attuali cognizioni propriamente dette. Nè manco, quando si suscita per la prima volta l' attenzione nell' uomo, essa ha per suo oggetto que' due principŒ congeniti, anzi si porta sugli stimoli nuovi che violentemente, mediante piacere o dolore, mutano lo stato sensibile dello spirito. Questi stimoli sono le sensazioni accidentali. Le sensazioni accidentali sono reali modificazioni del sentimento fondamentale, ma non sono intellezioni; e per ciò colle sole sensazioni non comincia lo sviluppo intellettuale dell' uomo. Quando l' uomo si muove ad applicare la sua virtù intellettiva a ciò che sente, allora è il momento nel quale il suo sviluppo, come essere intelligente, incomincia. Convien dunque esaminare diligentemente l' indole di questa prima applicazione che l' uomo fa della sua virtù intellettiva alle sensazioni, affine di poter bene determinare qual sia il primo ordine delle umane intellezioni. Questo esame presenta tre questioni; la prima: cosa sia lo stimolo che muove da principio l' attenzione intellettiva dell' uomo; l' altra: quale sia l' oggetto delle prime intellezioni; finalmente la terza: qual sia la natura di queste prime intellezioni. Quanto alla prima, sembrami probabile che non tutte le sensazioni accidentali abbiano virtù di tirare a sè l' attenzione dell' uomo; non quelle che gli nascono continuamente in conseguenza delle ben ordinate funzioni della vita, nè pur forse molte sensazioni piacevoli che soddisfano intieramente la natura del bambino che non richiede più in là di esse. Egli pare adunque che le sensazioni, che eccitano da prima l' attività umana, sieno quelle che contengono un sentimento di bisogno e che per conseguenza danno il movimento agl' istinti e alla spontaneità (1). Laonde l' attività intellettiva non si eccita per nulla, ma ella si mette in movimento quando l' uomo ha bisogno di essa; l' uomo la chiama in suo soccorso, come chiama in suo soccorso tutte l' altre potenze, quando tende o a rimovere da sè una molestia o a procacciarsi la soddisfazione di un bisogno. Quanto poi alla seconda questione, gli oggetti dell' attenzione intellettiva devono certamente essere gli oggetti di quei bisogni che la mossero. Ma per non confondere anche qui l' ordine del senso coll' ordine dell' intelligenza, conviene osservare ciò che fa l' istinto animale e poi aggiungervi ciò che fa l' intendimento. L' istinto animale dunque muove sempre da un gruppo di sensazioni: questo gruppo di sensazioni mette in movimento l' animale: l' attività animale così mossa cerca un altro gruppo di sensazioni, che è il termine del bisogno animale: questo secondo gruppo di sensazioni in parte completa il primo gruppo, in parte lo fa cessare e ad ogni modo soddisfa al bisogno. Qui non ci sono ancora oggetti: non ci sono che sensazioni che si associano: è sempre un sentimento che opera a tenore di sue proprie leggi (1). Ma l' attività intellettiva accorre ad aiutare l' uomo che come animale brama quel gruppo di sensazioni. Quest' attività non può spiegarsi in volizioni se non a condizione che prima ella percepisca e conosca; perchè la volontà è un movimento dello spirito che si porta in un oggetto conosciuto. L' intendimento dunque prima di tutto percepisce, poi l' uomo opera, cioè vuole dietro le sue percezioni. Ma cosa è questa operazione della percezione? Con questa operazione lo spirito, il soggetto, oppone a se stesso degli oggetti. Ma questi oggetti cosa sono? Sono anch' essi gruppi di sensazioni? Eccoci entrati nella terza questione, colla quale dimandavamo: quale doveva essere la natura delle prime intellezioni. Dopo ciò che si è detto facilmente viene alla mente, che avendo il bisogno animale, che ci muove a operare, ne' primi istanti per suo termine e scopo un certo gruppo di sensazioni, questo gruppo di sensazioni, e non più, debba essere il termine della percezione. E nel primo aspetto ciò non sembra ripugnare. Ma, ove si consideri che quando noi parliamo di quel gruppo di sensazioni, nello stato in cui ora siamo pervenuti di grande sviluppamento intellettivo, quel gruppo non è più un mero complesso di sensazioni, ma un complesso di sensazioni percepito e inteso coll' intendimento nostro, vediamo allora che c' illudiamo. Perocchè, se noi parliamo di sensazioni senza aggiunger loro nulla d' ideale, esse, così nude e sole nel loro essere meramente reale, non sono peranco oggetto della mente, chè questa ancora non le contempla. Or come dunque potrà la mente passare a contemplarle e intuirle? Col renderle a se stessa oggetto , ciò che prima non erano. Ma cosa vuol dire un oggetto? Qual è la nozione comune di tutti gli oggetti della mente? La nozione comune di tutti gli oggetti della mente si è quella di essere enti ; nè oggetto vuol dire altro che ente . Col percepirsi adunque dalla mente le sensazioni, esse si trasformano in altrettanti enti, perocchè quest' è la propria indole dell' operazione intellettiva; l' oggetto è parola che si riferisce a lei, e l' ente è parola che significa nella maniera più generale l' oggetto; l' ente dunque non può esistere senza una mente, nè una mente può contemplare e percepire altro che enti. Ma se le sensazioni non sono enti, come possono adunque venir concepite? Le sensazioni non sono enti, ma sono certe attualità di enti. Analizzando le sensazioni, noi abbiamo trovato che in esse vi hanno due elementi; un elemento soggettivo e un elemento extra7soggettivo. Considerate nel loro elemento soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è il soggetto: esse sono atti7passivi di quell' ente. Considerate nel loro elemento extra7soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è un ente diverso dal soggetto (extra7soggettivo), di cui esse sono atti7attivi. L' intendimento adunque, il quale non percepisce che enti, non può percepire le sensazioni se non a condizione di percepirle negli enti a cui appartengono. Ma esse appartengono a due enti: al soggetto e al corpo extra7soggettivo; ora, qual è di questi due enti quello che forma l' oggetto delle prime intellezioni? Io sono stato gran tempo dubbioso in che modo risolvere questa questione; ma finalmente mi sono persuaso che colle prime intellezioni l' uomo percepisce le sue sensazioni avveniticce come appartenenti agli enti extra7soggettivi, cioè a' corpi esteriori. La ragione che m' ha inclinato a questa risoluzione fu la seguente. L' attenzione , come abbiam veduto, è quella forza dello spirito, che dirige l' intendimento a questi piuttosto che a quelli oggetti: l' attenzione stessa poi è diretta da bisogni sensibili. Ora il bisogno dell' uomo ne' primi istanti, ne' quali egli esiste, risguarda interamente verso i corpi esteriori, da' quali solamente egli cerca le grate sensazioni, di cui è vago, e di cui abbisogna. Egli non pone adunque la sua attività intellettuale nella sensazione in quanto ella è una passività sua propria, ma in quanto ella è un' attività degli oggetti esterni, verso i quali egli, per così dire, si protende per averne sempre di nuove e di maggiori. La sensazione come passività è già finita, nè gli bisogna l' intelletto e la volontà per gustarla; ma la sensazione come azione veniente da' corpi esterni al suo è quella, ch' egli presente, e che preimagina, ed a cui va incontro prima d' averla, bastando a tutto ciò che ne prenda sentore e che sia ad essa mosso dalle leggi del suo istinto e della sua spontaneità. Come adunque tutte le altre potenze dell' uomo corrono agli oggetti esterni, che gli apportano grate sensazioni, verbigrazia il bambino alla poppa della madre, così anche l' attività intellettiva deve essere mossa a quella stessa volta, e perciò le prime intellezioni, che fa l' uomo, vogliono essere le percezioni de' corpi esteriori. Nelle stesse percezioni nondimeno de' corpi esteriori vi ha una gradazione: non è un lavoro, che il bambino compisca in un istante. Egli è vero, che la percezione, come percezione, è un atto semplice dello spirito, che si fa in un istante, perocchè ciò che è essenziale alla percezione si riduce a un atto, col quale lo spirito pone un diverso da sè, e propriamente un oggetto, a quell' atto dico, col quale egli s' accorge, che sussiste un qualche cosa . Vi ha dunque percezione tosto che lo spirito ha detta questa parola interiore a sè stesso. Nondimeno questa parola interiore, colla quale l' uomo afferma un ente, ammette diversi modi e varietà non in sè stessa, cioè in quanto ella è un atto soggettivo dello spirito, ma in rispetto al suo oggetto, il quale può variare, potendo lo spirito affermare degli enti diversi, o per dir meglio delle entità diverse. Queste entità , che si fanno oggetti delle affermazioni interne dello spirito, ammettono variazione per due cagioni: 1 Perchè sebbene il senso presenti le entità allo spirito intellettivo, tuttavia questo non dirige pienamente ad esse la sua attenzione per mancanza di stimolo a ciò fare, e perciò non le afferma in tutte le loro particolarità e qualità, ma solo in un modo più o meno perfetto, più o meno determinato; 2 Perchè il senso stesso allo spirito non le presenta (1) d' un tratto con tutte le loro attività, ma parzialmente e successivamente, attesa la limitazione de' sensi e organi particolari. Di qui è che per lo contrario la percezione si va perfezionando più e più in due maniere, cioè: 1 In ragione, che lo spirito intellettivo ha degli stimoli, che l' obbligano a porre la sua attenzione a ciò, che v' ha di più determinato negli oggetti, che il senso gli presenta; 2 In ragione che il senso stesso gli presenta successivamente più facce, o sia più proprietà e attività dell' ente. Diciamo alcune parole sopra tutt' e due queste maniere di graduata perfezione, che ricevono le percezioni , perocchè senza por mente a questa perfettibilità delle percezioni, non si può giungere a conoscere ciò, che succede nella mente del bambino da' primi momenti della sua esistenza fino alla riflessione più libera. Cominciamo dunque dal considerare il primo modo di perfezionamento, che ricevono le percezioni intellettive, e innanzi ogni altra cosa domandiamo: qual è lo stato di massima imperfezione, in cui esse si trovano? Conosciuto questo estremo, potremo salire a considerare i gradi di perfezione, che vengono acquistando successivamente nel fanciullo. La prima parola adunque, che dice interiormente il fanciullo e la più imperfetta, si è quella che formolata da noi in parole, che egli non conosce, risponderebbe a questa « un ente io sento nel mio senso ». Con questa parola egli non determina nulla delle qualità dell' ente da lui sentito, ma fa consistere tutta la determinazione , ch' egli dà a quell' ente, nella relazione di esso coll' attuale sua sensazione, nella quale ella tiene il modo di agente . Ente e agente è dunque il medesimo in questa prima parola, in questa prima percezione; ma il modo dell' azione, che determina quell' azione, rimane nel senso, senza che egli si faccia scopo all' attenzione dell' intendimento, il quale è contento di una cognizione quasi del tutto negativa; perocchè la sua cognizione fin qui appena è nulla più che ideale7negativa; non contenendo essa che unicamente l' affermazione di un agente senza altra determinazione espressa; ma con solo una determinazione di relazione a ciò che il soggetto sente (1). Ed ella è appunto questa mirabile connessione del senso e dell' intendimento, che riesce sommamente difficile a intendersi a molti, ond' avviene, che rifiutino la nostra filosofia, perchè non pervengono a superare questa non piccola difficoltà. Desidereremmo assai, che costoro meditassero molto sull' unità e identità del soggetto sensitivo e intellettivo; compresa la quale, ogni difficoltà disparisce. Perocchè colui, che giunge colla sua mente a vedere questa identità, vede ancora incontanente come il soggetto (lo spirito umano) possa trovare nel senso la determinazione di di quell' ente che vede e afferma coll' intendimento. Ma di queste cose abbiamo parlato altrove e non dobbiamo ripeterci di continuo. Quello adunque, che l' intendimento percepisce nella prima sua e più imperfetta percezione di un oggetto, si è l' azione, che un ente diverso dal soggetto fa nel soggetto, ma nulla più; non pensa al modo di quest' azione, che vien fatta nel senso; e rimanendo questo modo fuori dell' attenzione intellettiva, rimane pur fuori della cognizione dell' oggetto ogni sua qualità o proprietà speciale. Il soggetto sa solamente, che ci è un ente agente, e sente , ma non sa , come agisca. Ben avviene più tardi, che il soggetto stimolato da' suoi bisogni vien ponendo la sua attenzione non pur sull' ente agente, ma sul modo ancora col quale agisce; ed è allora che egli perfeziona la percezione sua dell' ente, la quale diventa gradatamente più positiva. In fatti è dall' osservazione sul modo , onde un ente agisce sopra di noi e dagli effetti, che egli in noi produce, che noi veniamo rilevando le sue proprietà e qualità e tutta la sua condizione. Or questo appunto è il travaglio successivo dello spirito. Qui comincia quell' arte di osservare, che uscendo dalla culla del bambino si fa gigante nello spirito di un Galileo, e rivela ogni dì all' uomo novi segreti della natura. Questa è la prima maniera, onde cresce la percezione; cresce e si perfeziona a misura, che l' attenzione dello spirito si applica a tutte le parti delle sensazioni e tutte l' una dopo l' altra le trasporta, per così dire, dal senso nell' intendimento: voglio dire tutte, l' una dopo l' altra, le percepisce intellettivamente, le afferma distintamente con questa parola interiore. Ma l' attenzione intellettiva dopo di ciò non può osservare, se non ciò che il senso le porge. Ecco un' altra sua limitazione: ecco la seconda maniera di progresso, che è dato alla percezione: questa acquista un campo sempre maggiore, quanto maggiori sono le sensazioni, che le presentano la materia, ossia il termine della sua operazione. E l' oggetto percepito dal bambino la prima volta gli si varia d' innanzi al percepirlo, ch' egli fa altre e altre volte. Cioè, sebbene il bambino percepisca sempre quell' oggetto agente su di sè e producentevi la sensazione, tuttavia nol percepisce agente allo stesso modo nè allo stesso grado, nol percepisce producente la sola prima sensazione, ma altra e altre successivamente. Da principio adunque percepisce una semplice forza, che gli produce, poniamo, una data sensazione, per esempio, al tocco della mano; ma poi egli soffre molte e molte sensazioni, che gli discoprono molte azioni venienti da degli agenti da sè; diversi da sè; e poi anche infine trova (mediante l' identità dello spazio (1)) che tutte quelle sensazioni gli vengono da un agente unico, o che egli prende per unico, cioè da un corpo. Così da principio egli colle sensazioni del tatto, dell' odorato, dell' udito e del gusto percepirà altrettante forze e perciò enti diversi; ma ben presto egli verrà poscia accorgendosi e persuadendosi, che tutti quegli enti non sono, che un corpo solo, da cui tutte quelle azioni diverse su lui promanano, e così perfezionerà la sua percezione di quel corpo. Successivamente egli farà anche un altro lavoro col suo spirito, cioè metterà in armonia la vista col tatto. Da prima colla vista non percepirà se non un oggetto solo, una forza sola; conciossiachè tutti gli oggetti veduti sono insieme nel suo occhio, formanti una sola tavola variopinta. Ma ben presto mediante l' esercizio del tatto e dell' occhio associati imparerà a prendere i diversi colori, che nel suo spirito gli si presentano, siccome segni di soggetti distinti, non superficiali, ma solidi: e così viene a percepire coll' occhio, mediante un giudizio, i corpi esteriori. Le percezioni de' corpi esteriori adunque, che costituiscono il primo ordine d' intellezioni, si compiono mediante le seguenti operazioni dello spirito: 1 Lo spirito a ciascuna sensazione s' avvede dell' esistenza d' un agente, oggetto alla contemplazione dell' anima, nel che sta l' essenza della percezione intellettiva. 2 Lo spirito unisce molte sensazioni de' quattro sensi, il tatto, l' odorato, il gusto e l' udito, delle quali ciascuna separatamente l' avevano fatto accorto dell' esistenza d' un agente, in modo che già le attribuisce a un agente solo, comune fonte di esse: così percepisce il corpo, cioè si forma l' idea comune del corpo. 3 Lo spirito distingue nella sensazione unica della vista i diversi colori, che impara a riconoscere per segni di quei corpi stessi tattili, a cui già imparò a riferire molte sensazioni di diversi sensi. Questi sono lavori distinti dello spirito, ma il loro effetto è sempre la percezione intellettiva e perciò non costituiscono diversi ordini d' intellezioni, ma un ordine solo, il primo: è sempre la percezione stessa che lo spirito in tutti questi lavori ripete e migliora (1). Ma lo spirito rimanendosi dentro la sfera del primo ordine d' intellezioni fa ancora diversi altri lavori. E veramente la memoria imaginaria, che rimane nello spirito o si riproduce, delle sensazioni avute, non si può dire che appartenga a un altro ordine d' intellezioni, perchè non varia l' oggetto, il termine, la materia dell' operazione, ma solamente varia la potenza dello spirito operante intorno alla stessa materia. Poichè la percezione, di cui io mi ricordo o che in me riproduco coll' imaginazione, è sempre la stessa quanto al conoscere: io conosco con queste operazioni l' identico oggetto della mente, e non un altro. Parimenti l' associarsi di più percezioni, o memorie imaginarie di percezioni, è un lavoro, che non eccede il primo ordine d' intellezioni, quando trattasi d' una associazione di semplice coesistenza nello spirito, senza che l' intendimento operi alcuna analisi o sintesi tra esse. In terzo luogo gl' istinti e in generale tutta l' attività spontanea, che già si mette in moto nello spirito in conseguenza delle percezioni e delle loro memorie e imaginarie riproduzioni, sono operazioni, che non eccedono ancora i confini del primo ordine d' intellezioni, del primo stadio, in cui si trova l' umana intelligenza. In quarto luogo appartengono a questo stesso stadio ancora le idee specifiche piene, ma imperfette (1). Intendiamo per idee specifiche7piene7imperfette le cose stesse da noi percepite, considerate meramente come possibili, senza aggiungervi il pensiero della loro reale sussistenza. Se io ho percepito una melagrana, mi resta poi la memoria della mia percezione. La memoria della melagrana da me ieri veduta, toccata, assaporata, percepita intellettivamente è più che una semplice idea di essa; perocchè l' oggetto del mio pensiero non è semplicemente l' imagine di quella melagrana considerata come un tipo, una possibilità di melagrane; ma è quell' imagine riferita alla melagrana di ieri, è l' imagine propria di essa; io con quella memoria non penso solo all' imagine, ma penso alla cosa reale. Ma se io dimenticassi interamente la melagrana di ieri, e tuttavia contemplassi nella mia fantasia un' imagine di melagrana, imagine rimastami dalla percezione avutane, ma che io non riferisco più alla percezione, perocchè suppongo essermene del tutto dimenticato; in tal caso la imagine, che io contemplo col mio intendimento, non fa che rappresentarmi una melagrana possibile, non questa o quella, non alcuna melagrana reale. Or l' oggetto di un tal pensiero, che io fo, è un idea, che io chiamo specifica piena7imperfetta. Io chiamo quest' idea specifica , perchè non è legata ad alcun individuo reale, ma è tipo d' infiniti individui possibili: ella determina dunque una classe o specie d' individui. Chiamo quell' idea specifica7piena , perchè io suppongo, che ella conservi tutte le qualità, anche accidentali, della melagrana da me altre volte percepite, sicchè ella non è un' idea astratta, ma una idea che rappresenta individui forniti di tutte le loro particolarità. Finalmente chiamo quell' idea specifica7piena7imperfetta , perchè quel tipo non mi rappresenta la melagrana perfettissima, ma una melagrana, qual era quella che io ho percepita con tutti i suoi difetti o imperfezioni, che avesse potuto avere. Il passaggio, che fa l' intendimento dalla percezione all' idea specifica7piena7imperfetta, chiamasi universalizzazione . Questo passaggio è facilissimo; perocchè sono le percezioni atti dello spirito passaggeri, e però, tosto che l' oggetto vien sottratto al senso esterno, la percezione cessa. Nondimeno ella anche cessando lascia nello spirito umano due vestigi o effetti di sè: l' imagine della cosa percepita, la quale può essere suscitata nel senso nostro fantastico o da noi stessi o da accidente straniero, e la memoria della percezione avuta. I quali due effetti della percezione sono per se diversi, e quantunque fin a tanto che coesistono nello spirito si possa facilmente prender l' una per l' altra, tuttavia al cessar della memoria rimanendo l' imagine, o al cessar della imagine la memoria, o all' illanguidirsi dell' una più che dell' altra, si trovano nello spirito tra se separate. Molto più si separano e si distinguono, quando il fanciullo riceve delle altre percezioni della cosa stessa; perocchè allora l' imagine è la medesima, quando all' opposto ogni percezione ha la sua memoria distinta. Ancora, se il fanciullo riceve percezioni d' altre cose, ma similissime, come sarebbe d' altri aranci non distinguibili tra di loro se non per molta attenzione sulle piccole differenze, di cui il fanciullo nel primo tempo non cura, le memorie tuttavia si moltiplicano, e l' imagine è sempre una sola, alla quale si riscontrano gli oggetti. Per le quali cose facilissimamente avviene, che l' imagine nello spirito si distingua dalle memorie delle percezioni avute, nel quale stato di distinzione ella si fa tosto fondamento all' idea specifica piena imperfetta di cui parliamo, perocchè lo spirito vede incontanente e naturalmente nell' imagine da lui posseduta il ritratto d' una cosa non sussistente, ma possibile. Riassumendo adunque, alle intellezioni del primo ordine appartengono le percezioni, le memorie delle percezioni (le imagini da sè sole prese non sono intellezioni, ma sensazioni interiori), le idee specifiche imperfette aventi per base l' imagine, le associazioni varie di percezioni e memorie e idee specifiche imperfette, e finalmente gl' istinti e operazioni volontarie, che conseguono quel primo grado di sviluppo intellettivo. Il quale sviluppo intellettivo, quando poi comincia nel bambino? Non vi ha forse un istante di vita, nel quale il bambino non abbia delle sensazioni accidentali almeno interne (1), sensazioni che cominciano fin nell' utero materno? Ora s' accompagna egli l' operazione dell' intendimento a tutte le sensazioni, anche alle prime? Inclino a credere di no. Già dissi che le sensazioni semplici non traggono a sè l' attività dell' intendimento; la sensazione, che finisce in sè, è acquetamento piuttosto che suscitamento di nova attività. Quelle sole eccitano l' attenzione intellettiva, nel seno delle quali sorge il sentimento d' un bisogno , certo d' un bisogno d' altre sensazioni. Vero è che questi bisogni fisici, che eccitano l' attività intellettiva del bambino, devono sorgere assai presto, e con essi l' inquietudine e il tentativo di soddisfarli, il quale durerà anche esso qualche tempo prima di riuscire all' intento di chiamare in aiuto l' intelligenza, e io congetturo, che il momento nel quale l' intelligenza si apre alle sue operazioni sia segnato dal primo riso del fanciullo (1). Con questa ineffabile espressione della sua gioia, egli pare, che il bambino saluti l' alba del giorno, che a lui traluce. L' anima sua ragionevole rallegrasi della verità, che ritrova, e a se stringe quasi di slancio. Ah che il primo atto dell' intendimento deve pur essere all' anima umana un grande istante, un istante solenne, il sentimento d' una nova vita ed immensa, la scoperta della propria immortalità! E` egli possibile, che un avvenimento sì stupendo e sì repente nel bambino (quantunque l' adulto non possa formarsene alcuna idea) non si manifesti al di fuori con segni di esuberante letizia? Avete dunque ragione voi, o madri, che aspettate con sì gran desiderio, che provocate, che accogliete con sì gran tremito dei vostri visceri il primo sorridere dei vostri figliuoli. Ah! voi sole siete le interpreti veritiere di quella prima parola infantile, che in forma di riso si espande sulle labbra, e negli occhi, e in tutto il volto di quel piccolo essere intelligente; voi sole ne intendete il mistero; intendete che egli da quell' ora vi conosce, e vi parla; e voi, il primo oggetto dell' intelligenza umana, sapete voi sole rispondere a quel linguaggio d' amore, e rendervi, quasi direi, imagini e tipo della verità, che è intelligibile, e che luce per sè medesima (2). Laonde ammettendo questa conghiettura ne verrebbe che fino dalla prima infanzia del bambino dovrebbe distinguersi due età ben definite. I L' età dello sviluppo meramente sensitivo, che comincia dal primo esistere, e II L' età del primo grado di sviluppo intellettivo, che comincia dal primo riso del fanciullo. Nella prima età come non vi sono nel fanciullo che sentimenti e bisogni animali, così non vi è che un' attività animale (1). Quest' attività parte è congenita nell' animale, e io gli ho dato nome di istinto vitale nell' Opera che ho pubblicato col titolo d' « Antropologia », a cui mi convien rimettere il lettore, che abbia vaghezza di conoscere più addentro questa materia. Ivi anche vedrà come dall' istinto vitale nasca l' istinto sensuale , altro ramo dell' animale attività, di cui noi qui parliamo. Sarebbe difficile il definire se le prime operazioni dell' istinto sensuale comincino nell' utero materno, o appena che l' animale si trova al contatto dell' atmosfera, o qualche tempo dopo (1). Sembra per altro che forse il primo eccitamento a esercitare l' istinto sensuale nasca dal bisogno di nutrirsi (2). La respirazione, questa interna e lenta combustione, che comincia a farsi in lui appena uscito alla luce, consuma l' ossigeno e il carbonio, di cui ha bisogno il suo sangue; di che nasce in lui il bisogno di ripararne le perdite col cibo. Parimente le continue perdite che fa il suo corpo mediante la traspirazione, e altre separazioni, gli producono il bisogno di nutrizione. Il movimento de' labbri, co' quali egli s' attacca al seno materno, è dunque uno de' primi atti del suo istinto sensuale (3). L' istinto sensuale adunque ne' primi suoi atti è mosso dal dolore , anzichè tirato dal piacere, prendendo la parola dolore per ogni specie di molestia, per ogni penoso bisogno. I bisogni penosi rimangono sempre, anche in appresso, stimoli efficacissimi alle operazioni dell' istinto sensuale; ma ben presto questo istinto non è più nel suo primitivo stato; riceve delle modificazioni dalle esperienze che fa; chè, come ho già osservato (1), l' operare di una qualsiasi facoltà dell' uomo, oltre gli atti passaggeri, produce sempre dopo di essi un effetto stabile nell' uomo, uno stato e condizione nova, specialmente della facoltà usata. L' istinto sensuale adunque, che nel primo suo apparire non è mosso che dal dolore, ben tosto viene attratto anche dal piacere; il piacere diventa per lui un bisogno. Dopo dunque che il bambino si procacciò delle sensazioni coll' occasione di soddisfare ai più penosi suoi bisogni, e che trovò queste piacevoli (giacchè la natura benefica aggiunse per sopra più il piacere al soddisfacimento dei bisogni), cerca delle sensazioni per due motivi, per evitare la pena, e anche unicamente per godere. Da questi fonti nasce quel bisogno di sentire che accompagna poi l' uomo per tutta la sua vita, e che divien sì vario, potente e ben anco capriccioso e sregolato. Io ho già accennato che non poco sospetto, che vi abbia una comunicazione tra le anime stesse mediante le sensazioni. Questo sarebbe un fatto degno da verificarsi meglio colle più accurate osservazioni. In tanto mi sia lecito dir di più, sempre in via di conghiettura, che io inclino anche a credere, che non solo il soggetto insieme colle sensazioni, che riceve da una persona, provi un sentimento, che è effetto immediato dell' anima intelligente, che opera nelle sensazioni cagionate, ma che una simile comunicazione avvenga pure tra l' anime meramente sensitive. Quando il gatto giovanetto gioca colla pallottola di carta, o colla fettuccia appesa, io stento a credere, ch' egli vi cerchi solo il mutare delle sue sensazioni materiali, ma anzi sospetto, che egli istintivamente vi cerchi qualche cosa di animale, di vivo, di cosa che si muova da sè; e che egli invecchiando non gioca più, disingannato, perchè oggimai ha imparato a distinguere meglio ciò che è animato da ciò che è inanimato. Mad. Necker fa a questo proposito un' assai fina osservazione sui bambini: ella rende ragione appunto del perchè i bambini s' annoiino dei loro giocarelli, dicendo, che ciò nasce quando hanno esauriti tutti i nuovi aspetti e abbattimenti; giacchè fino che trovano casi nuovi par loro di vedere un moto spontaneo, un' anima nelle cose materiali; ma quando non possono cavar più niente di nuovo, allora la cosa a' lor occhi è morta, e non ha più niuno interesse (1). A questa stessa tendenza verso le cose animate si deve forse attribuire l' attrazione, che esercitano sopra certi animali le cose brillanti: dell' allodola dicesi, che s' appressa allo specchio, dell' usignuolo a tutto ciò che luce, e le gazze si sa che hanno l' istinto di rubare e di nascondere i gioielli (2). Ma lasciando questi ed altrettali fatti, nei quali gli animali s' ingannano nell' aspettar di trovare un animale in ciò che si muove, o che dà delle cangianti sensazioni, egli è indubitato, che vi ha tra gli animali della stessa specie una tutto speciale domestichezza somiglievole all' amicizia. Quanto piacer non provano a giocolar tra loro i cagnolini, i gatti, ecc.? Molti animali vi sono a mandre, a truppe, quasi famiglie e tribù e popoli. Tutto ciò che riguarda la convivenza per cagione della generazione e l' allevamento de' figliuoli pare, che supponga questo principio della comunicazione delle anime. Intanto si può mettere tra i fatti al tutto certi, che le sensazioni, che gli animali si cagionano tra loro, sono tali sensazioni, quali non possono avere da nessuno degli oggetti inanimati. L' affezione che i genitori di tutte le specie mostrano pei loro nati, è un istinto, che troverebbe facilmente la sua spiegazione nella supposizione, che ho avanzata. Una certa affinità sensuale si trova ben anche tra animali di specie diversa: il cane, il cavallo, l' elefante, ecc., prendono fra di loro una scambievole affezione: all' uomo poi si legano con stretti vincoli di domestichezza e fedele servitù molti animali. Al principio stesso di un' azione secreta, scambievole delle anime convien forse attribuire anche le avversioni, e inimicizie di certi animali verso cert' altri, come del gatto verso il topo, ecc.. Or poi data questa comunicazione delle anime sensitive, ella deve aver luogo anche nel fanciullo; ma non penso che ella giochi prima della comunicazione dell' anima intellettiva: nel primo riso adunque parmi, che l' una e l' altra incominci. Un altro principio d' operare appartenente alla sola animalità (benchè un somigliante principio si trovi poi anche nell' ordine dell' intelligenza) si è quello dell' imitazione. Noi crediamo d' averne data sufficiente spiegazione (1). Solo qui aggiungeremo, che i sentimenti animastici (2) rendono ancora più facile e chiara la data spiegazione: l' un' anima sente la sua compagna in un dato stato, a ragion d' esempio in quello di gioia (3): dalla naturale benevolenza nasce la simpatia, cioè il comporsi ai medesimi sentimenti: dalla simpatia l' istinto d' imitazione . La simpatia in tal caso è la operazione passiva, l' imitazione la sua attiva corrispondente. Fra i piaceri, che prova l' animale, e di cui ben presto diviene avido, ci ha quello dell' agire . L' attività porta molti speciali piaceri fisici, giacchè il solo acceleramento della circolazione sanguigna accresce la vita e il suo sentimento. Ma oltre i parziali piaceri fisici, che tengono dietro all' azione conveniente, vi ha un piacere inerente all' azione stessa; perocchè a chi più opera, par di più vivere. Laonde il piacere d' agire nasce e cresce dall' esperienza fino a un certo grado nell' animale, e diviene alle occasioni uno dei principii de' suoi movimenti. Finalmente anche le potenze animali si vestono dell' abitudine . La natura fisica è piena di ordine, ma quest' ordine stesso subisce alcune modificazioni in conseguenza delle abitudini. L' abitudine oltre di ciò facilita certe operazioni e le rende più piacevoli a chi le fa; rende per conseguenza più molesta l' interruzione o la privazione di esse; quindi nascono de' gusti e degli istinti d' abitudine, che in questa maniera diviene nell' animale e nell' infante un nuovo principio di attività. Riassumendo adunque quelle attività del fanciullo, che appartengono all' ordine dell' animalità, esse sono le seguenti: 1 l' istinto nascente dal bisogno di evitare uno stato doloroso; questo è l' istinto nel suo stato primitivo (1); 2 l' istinto nascente dal bisogno di sentire semplicemente e di godere sensazioni piacevoli; 3 l' istinto verso le cose animate, onde si genera la simpatia ; 4 l' istinto d' imitazione nascente dalla simpatia; 5 l' istinto e bisogno di agire semplicemente pel piacere, che trova nell' esercitare le sue forze; 6 l' abitudine. Nella seconda età l' intelligenza comincia il suo movimento: le percezioni e le idee imaginali si formano: e quindi una nuova attività si deve sviluppare: perocchè da ogni passività, l' abbiam detto tante volte, nasce nell' uomo un' attività: dall' intendere dunque deve scaturire un' attività razionale, il moto della volontà. Il primo moto della volontà consiste in quelle volizioni, che abbiamo dette affettive (2), in cui il soggetto sensitivo e volitivo vuole l' oggetto percepito senz' averlo giudicato bono, ma solamente per averlo sentito piacevole: volizioni misteriose e altrettanto difficili a ben intendersi, quanto è difficile la percezione intellettiva. Ma quantunque sappiamo, che pochi sieno quelli, che si formino un chiaro concetto di questa maniera di volizioni, e molti quelli, che sono presti a negarcene l' esistenza; tuttavia noi siamo costretti ad ammetterle appellando a que' pochi, che meditando penetreranno la natura di quelle volizioni, e della loro verace esistenza non dubiteranno. Ora si osservi, che coll' apparire l' attività intellettuale non cessa l' attività sensuale, ma lo sviluppo del fanciullo si complica, e si rende assai più difficile a descriversi per la mutua influenza delle operazioni sensuali e intellettive e per la moltiplicità de' loro atti. Ciò non ostante dobbiamo tentare una breve descrizione di ciò, che avviene nell' uomo in questa sua seconda età. Nell' età prima le prime sensazioni furono di cose inanimate e solamente più tardi ebbe il bambino i sentimenti animastici, di cui abbiamo parlato. Ma nella seconda età, in cui si mette in movimento l' intelligenza avviene l' opposto: il primo passo della facoltà conoscitiva sembra quello, come abbiamo detto, che reca l' uomo a percepire cose animate: percepisce l' anima della madre sul suo volto, e tosto simigliantemente nell' altre cose tutte cerca la vita e l' anima: di maniera che è da credere, che ben tardi il bambino giunga a persuadersi a pieno di questa gran maraviglia, che esistano degli enti inanimati (1). Ora come le sensazioni animastiche producono di lor natura nel bambino l' affezione fisica , e quindi la simpatia; così le percezioni animastiche eccitano immediatamente la benevolenza , che è già una volizione affettiva abituale ed incipiente. Infatti la benevolenza, questo affetto razionale, non si può concepire se non si suppone un essere animato, verso cui si eserciti: perocchè tutto ciò che è inanimato, se veramente lo concepiamo per tale e non associamo al suo concetto imaginariamente qualche elemento di vita, ci può ben essere caro per l' utilità, ma non possiamo amarlo o avergli quell' affetto, che benevolenza si chiama. Ora il bambino pieno di affetto e di benevolenza la trasfonde per così dire verso tutte le cose, e questo è nuova prova di ciò, che dicevamo parere a lui le cose tutte vive e intelligenti. Quando la fanciullina slanciatasi al collo della madre, dopo averla baciata con mille carezze se ne parte e va a baciare e carezzare la tavola o la scranna, ella non accarezza certo questi esseri come inanimati, ma più tosto versa in essi per così dire quell' affetto che ha verso alle cose animate senza fermarsi a considerare che quelle animate non sono. Sì, l' amore della creatura senziente e ragionevole suppone per la sua essenza un oggetto pure senziente e ragionevole, sia questo vero o creduto tale. Ecco quali sieno le prime volizioni affettive. E come la natura pose prima l' affezione sensitiva qual disposizione e principio dell' affezione intellettiva che sola è vero amore; così a fine di disporre l' affezione sensitiva pose nel tenero fanciullo una fisica giocondità degli organi riboccanti di vita, e colmi, per così dire, di piacere, quale disposizione acconcissima all' affezione sensitiva. Laonde tutto si lega e dà mano al mirabilissimo congegno della creatura umana. L' anima sensitiva già piena di dolcezza è convenevolmente disposta a ben sentire un' altra anima pure sensitiva ed affezionarvisi, nell' uomo quella naturale affezione è tosto ritrovata dalla volontà, la quale se ne compiace, e vi genera quasi in proprio nido l' amore, fonte d' altra gioia razionale, che alla primitiva animale si mesce, e con dolce circolo via meglio dispone l' uomo ad affezionarsi e ad amare (1). Certo a questi primi albori dell' intelligenza umana non v' ha nell' uomo nè merito, nè libertà, nè coscienza. Ma chi, attentamente considerando, potrà disconoscere, che vi ha già una moralità? Che cosa è la moralità se non l' atto o l' atteggiamento di una volontà intelligente verso degli esseri pure intelligenti? Se la volontà dà il suo affetto a questi esseri, cioè li ama quanto essi esigono, ella è certamente buona; ma se piglia verso ad essi un contegno di avversione e di odio, ella è cattiva. Le osservazioni adunque sulla naturale benevolenza de' bambini confermano quanto ho affermato nel « Trattato della Coscienza » sull' esistenza d' una moralità anteriore alla coscienza, come pure le teorie ivi esposte illuminano mirabilmente quanto si ritrae dal diligente osservare ciò che avviene nell' età prime. Ma vi ha di più. All' età propria delle volizioni affettive si può assegnare lo spazio di sei mesi. Dopo questa età sembra che nasca un vero giudizio sulla bontà delle cose, il quale dà luogo incontanente alle volizioni apprezzative (1). Egli è difficile a conoscere quando il fanciullo pronunzi un vero giudizio interno trattandosi di cose piacevoli fisicamente ai suoi sensi, perchè essendogli questo piacere comunicato dai sensi stessi, non vi ha necessità d' una operazione dell' intendimento per metterlo in atto. Ma trattandosi di un diletto che nasce da una cosa intesa, egli è uopo che intervenga un' operazione dello intelletto, acciocchè quel diletto si manifesti. Ora dopo sei o sette mesi si rileva già nel fanciullo l' ammirazione verso le cose belle , e però indubitatamente il suo intelletto apprezza le cose in sè, e la sua volontà dietro a un tale apprezzamento fa delle volizioni che apprezzative nominiamo. In questo caso fa una nuova comparsa la moralità , e propriamente qui comincia la stima pratica degli oggetti distinta dalla percezione verso di essi; mentre nelle volizioni affettive la stima pratica era colla prima percezione immedesimata (2). Qui splende anche il disinteresse, che accompagna sempre una stima pratica, che ha per suo regolo la giustizia. Ma veggiamo tutto ciò ne' fatti, e chi ce li raccoglie e testimonia sia la benemerita autrice dell' « Educazione progressiva » che abbiamo più volte citata, e a cui molte altre volte ricorreremo per attignervi e osservazioni diligenti e riflessioni assennate. [...OMISSIS...] Il Cristianesimo accoglie tra le sue braccia amorose il bambino, che entra in questo mondo, e chiude pietosamente gli occhi suoi, quando ne esce. Consolanti non meno che saluberrimi dogmi della Chiesa Cattolica sono i seguenti: 1 GESU` Cristo salva gli uomini mediante una occulta potenza, che esercita sul loro spirito, e che lo ammigliora, la quale si chiama grazia ; 2 Questa grazia fu annessa a certi riti esteriori, di cui è depositaria la Chiesa Cattolica, i quali si chiamano Sacramenti ; 3 Il primo di questi Sacramenti è il battesimo, nel quale l' uomo viene rigenerato , cioè riceve il principio d' una vita morale d' un ordine superiore o sia soprannaturale; 4 La Chiesa Cattolica, oltre la potestà di amministrare questi Sacramenti, ha quella altresì di benedire cose e persone, aggiungendo Dio alle benedizioni della Chiesa le benedizioni proprie, cioè delle grazie e dei favori; 5 La Chiesa prega ne' suoi membri, quando questi in comunione colla Chiesa pregano secondo lo spirito della Chiesa, e tali orazioni sono efficaci; 6 Dio ascolta sempre le preghiere ed accoglie le offerte fatte dagli uomini di buona volontà. Posti questi preziosi dogmi, ne viene, che, se il bambino nelle due prime età non è ancora atto a fare da sè atti di religione, è però ufficio de' suoi genitori il fare molti atti religiosi per lui, derivando da Dio al loro fanciullo, già rinato col battesimo, grazie sempre maggiori, valendosi de' beneficii ed aiuti lasciati agli uomini in terra dal Salvatore. La Religione adunque previene il fanciullo, fa per lui molto, prima che egli possa far nulla per essa. Felici i genitori ricchi di fede! Felice il bambino che cotali gli ha sortiti! Comunemente si crede, che il fanciullo abbia una volontà debole, come la sua natura fisica, e che coll' età si fortifichi l' uso della sua propria volontà. Questa opinione nasce, perchè si considera l' uso libero della volontà, il quale manca da prima interamente nel fanciullo, e quando ha in lui avuto cominciamento esso va stendendosi a gradi: sicchè la libertà sottomette o può sottomettere al suo impero un circolo ognor maggiore di cose. All' incontro nel bambino la volontà opera spontaneamente ed è di questi atti spontanei della volontà, che noi diciamo essere essi più forti, cioè più decisi ed abbandonati nel fanciullo, che in uomo già sviluppato. [...OMISSIS...] Noi non possiamo misurare il grado d' intensità de' piaceri e de' voleri del bambino, perchè la misura di ciò, che proviamo, è la nostra coscienza, la quale non è formata nel bambino; e ci riesce estremamente difficile l' intendere quel misterioso stato di un essere, nel quale vi sia dolore e piacere e niuno conoscimento, niuna coscienza di essi. Pure tale è il modo di essere delle bestie, e molte volte è anco il modo d' essere del sentimento umano (2). Le ragioni poi ond' è che i sentimenti, le volizioni affettive de' bambini sono caldissimi e impetuosissimi, sono due: la prima si è, che gli oggetti di tali volizioni sono semplici, onde la volontà tutta con quanto ha di forza si butta in essi. Già ho osservato, che di natura sua la volontà è infinitamente suscettiva e mobile: or di più aggiungo, che è di una grandissima violenza fornita ove le sue forze non sieno divise e distratte in più oggetti, e questi la tirino a movimenti contrarŒ in modo, che si collidano. Questo dà ancora ragione del perchè la plebe si muova di più impeto che le persone coltivate: massimamente i sentimenti dei contadini, quando pur insorgono in essi, li ho osservati oltremodo forti, o siano essi dolorosi, ovvero aggradevoli. Lo stesso carattere di volizioni decise e calde si manifesta ne' popoli antichi: è in essi vita, entusiasmo, passione appunto alla similitudine de' fanciulli. La seconda ragione della vivezza degli affetti e volizioni fanciullesche si è, che elle si portano immediatamente nell' oggetto percepito; quando gli adulti concepiscono gli oggetti astrattamente e fanno, per così dire, passare l' atto della volontà per una lunga serie di idee generali prima, che pervenga a coglier l' oggetto. Ma mi riserbo altrove lo sviluppare questa ragione degna di essere meditata. Vero è che i sentimenti e le volizioni prime ed ardenti, che dimostrano i bambini, sono facilmente rimutabili nelle contrarie: ma questo non prova, che non sieno vivaci; prova solo, che son celeri, e che la natura de' loro oggetti, per lo più tenui e leggeri, non permette loro una durata consistente, come quella che è labile e volubile. Se dunque il sentimento e la volizione del fanciullo ha tanto più d' intensità e di pienezza, quant' è minore lo sviluppo del suo intendimento, volendo allora il fanciullo con tutto se stesso, tutto il nerbo del suo volere applicando a pochi e semplicissimi oggetti; egli è manifesto, che le madri debbono cavar profitto di questa condizione dell' animo infantile, occupandosi nelle prime età assai più di educare il sentimento e la volontà che la ragione. Conviene dunque fare in modo che l' animo del bambino si empisca per tempo di quella benevolenza, alla quale è sì felicemente formato da natura. Questa benevolenza, quest' affetto universale nasce, come ho toccato, in seno alla giocondità e alla gioia, che si convien mantenere il più che si può nell' animo del bambolino (1). La qual gioia poi non dee essere procellosa, ma calma, abituale e serena. Il conservare la serenità nel fanciullo non giova solamente a formare il suo animo alla dolcezza ed alla benevolenza; ma ben ancora ai progressi del suo intendimento; il quale non può fare le sue operazioni in modo ben ordinato e perfetto, se non si trovi in uno stato sereno e tranquillo, in cui solo il fanciullo può raccogliere la sua attenzione. Il qual documento è tanto più rilevante, quanto più facilmente il fanciullo è soggetto alla distrazione cioè alla mobilità estrema de' suoi organi, de' suoi sentimenti e de' suoi pensieri. Ottimamente osserva M. Necker, [...OMISSIS...] . Le maraviglie della forza unitiva nell' animale, di questo agente che nascendo dall' unità del soggetto produce degli effetti, che emulano quelli della ragione, furono da noi descritte nell' « Antropologia ». Una delle proprietà di questa forza si è quella di far giocare contemporaneamente più potenze nell' animale, passive ed attive, e averne un risultamento unico: tali sono i prodotti dell' istinto di simpatia, di quello d' imitazione e d' altre animali operazioni, nelle quali il moltiplice vedesi ridotto ad unità, l' esteso ad una mirabile semplicità: quindi tutto ciò che sente ed opera l' animale in ciascun istante è mirabilmente ordinato: egli sente ed opera moltissime cose, che per lui sono una cosa sola. Or egli è vero che anche le operazioni dell' intendimento umano ricevono dall' unità perfetta del soggetto sensitivo7intellettivo una loro unità: egli è vero che la forza unitiva domina non meno nell' ordine del senso che in quello dell' intelligenza; anzi ella di questi due ordini ne fa un solo, appunto perchè è forza di un soggetto, nel quale il sentire e l' intendere ugualmente hanno la loro origine. Ma tra quelle operazioni dell' animale e queste dell' intelligente vi ha una gran differenza: quelle avendo l' unità soggettiva hanno tutto ciò che possono avere: queste all' incontro esigono di più un' unità oggettiva , nè senza questa si possono dire ordinate ed unite. La ragione di questa differenza si è che l' ordine animale non si riferisce ad alcun oggetto, e quando le operazioni sono unificate, tutto è unificato. Ma l' ordine intellettivo non consiste in mere operazioni, ma nel possesso di oggetti non solo estranei al soggetto, ma contrapposti al soggetto. Non basta dunque che le operazioni intellettive sieno unificate: l' unità che si domanda è quella de' loro oggetti; e questi nella seconda età del fanciullo sono del tutto slegati per se stessi; giacchè il fanciullo non pensò ancora i rapporti che hanno fra loro: e da' quali vengono uniti e armonizzati. Questa sembrami una di quelle osservazioni che non si debbono trascurare, perchè possono dare non poco lume a chi dirige l' educazione del bambino. L' importanza sua si vedrà, ove si voglia considerare qual sia l' istruzione che solo si può dare al fanciullo nella sua seconda età, e che corrisponde al primo ordine delle sue intellezioni. Ma prima di trattare di questa così elementare istruzione, giova che osservi qui una volta per sempre, che quand' io cerco la qualità d' istruzione che può darsi al fanciullo rispondente al primo ordine d' intellezioni, non intendo d' affermare, col proporre un tal quesito, che quest' istruzione gli si deva dare solo in quel breve periodo, nel quale le intellezioni di primo ordine da se stesse si sviluppano. Intendo solo di stabilire qual sia quella istruzione che si può dare sicuramente in ogni tempo della vita, perchè non chiede nelle facoltà intellettive che il primo grado di sviluppo. Così si deve pure avvertire degli ordini superiori. L' istruzione di un ordine qualsiasi è sempre opportuna nelle età superiori ed è solo inopportuna nelle età inferiori. Dico dunque che alle intellezioni di primo ordine sconnesse risponde l' osservazione sensibile7esteriore sconnessa anch' essa: osservazione pura senza alcuna giunta di ragionamento. L' istruzione di primo ordine consiste adunque nel fare osservare al fanciullo co' suoi propri sensi gli oggetti esterni, e nel fargliene prendere degli sperimenti . Ecco un grande scopo: seguendo la stessa natura formare del fanciullo un osservatore e uno sperimentatore : dirigere soavemente, costantemente, sagacemente la sua attenzione senza però mai forzarla o contrariarla. E` la natura, che conduce il bambino a osservar tutto, a far prove e sperimenti su tutto; ma tutte queste prove e le percezioni che ne riceve sono tra loro slegate, disordinate. Il primo ufficio dunque dell' arte dell' educare consiste: nel « regolare le osservazioni e gli sperimenti fanciulleschi ». Queste osservazioni e questi sperimenti conducono il fanciullo a percepire e a perfezionare le sue percezioni. La percezione, che dalla natura è stata messa a fondamento di tutta la gran piramide dell' umano sapere, dev' essere anche quella che costituisce il fondamento di tutta l' umana educazione. Ora la percezione, l' abbiamo detto, si perfeziona in ragione del numero delle sensazioni, che l' uomo ha dal medesimo oggetto, della vivezza di queste sensazioni, del loro ordine e della loro associazione, e sopra tutto dell' attenzione, che lo spirito pone alle medesime e nelle più minute parti degli oggetti. Ecco un vasto campo, in cui si dee esercitare il fanciullo, campo che non eccede tuttavia il primo gradino dell' insegnamento. Avendosi già nella sfera dell' animalità qualche cosa di complesso e di legato, la natura, che prepara questa materia così bene ordinata all' intendimento infantile, insegna già all' educatore a far presto quello che dee fare: questi dee imitar la natura. Ma quanta pazienza e quanto senno non esige tutto ciò nell' educatore! Esige, che l' adulto s' inchini a quelle cose che per lui non hanno più interesse, ma che pur ne ripiglieranno un nuovo e grandissimo, s' egli avrà cuore e mente. Questa è la dote, che manca nella maggior parte degli educatori; onde di mal animo s' inducono ad accompagnarsi alle operazioni e sperienze fanciullesche; ed anzi sturbano spesso il fanciullo innocente nel suo lavoro di un placido osservare e sperimentare (perchè a osservare e sperimentare si riducono veramente tutti i giocarelli e movimenti fanciulleschi e il gusto che il fanciullo ne prende): essi non ne intendono la sapienza; e vorrebbero occupare il bambino in altre operazioni proprie di sè adulti, nelle quali essi trovassero pur piacere ed importanza. Al qual proposito molte volte io ho considerato e domandato meco stesso, perchè il divino Maestro non abbia mai nulla ripreso nei bambini, e anzi per così dir tutto lodato, quando alla severità de' savi umani sembra pure quella prima età piena di leggerezza, e vuota di serie occupazioni. Non pare, che tale la giudicasse Gesù Cristo. Anzi egli sembra che questi vedesse nelle esercitazioni fanciullesche tutt' altro che un perditempo, un far nulla; ma più tosto un' attività grandissima del loro intendimento, avido, aspirante a conoscere, ad abbracciarsi col vero, un' avidità, per la quale « « l' anima semplicetta che sa nulla » » e che è pur fatta per sapere, buttasi con impeto sul mondo sensibile, per rapirne ovechessia cognizioni e notizie, incessantemente osservando, e in mille maniere esperimentando questi e quegli oggetti, quanti pe' sensi gli si presentano (1). Convien dunque con una somma pazienza farsi compagno al fanciullo in questo gravissimo e continuo studio dell' innocente sua età; ed aiutarlo in esso regolandolo. Non è mio intendimento di determinar qui quale potrebbe esser l' ordine , nel quale venissero posti sotto i sensi al fanciullo gli oggetti sensibili; mi basta di osservare che è buono studiarsi un ordine, e che da un ordine, e più ancora da un ordine buono posto dalla sapienza dell' educatore nelle percezioni del fanciullo, se n' avrebbe di buone conseguenze, le quali preludessero e accelerassero il suo futuro sviluppo. Toccherò solo d' alcuni avvisi, i quali mi sembrano poter dare buono indirizzo a' savi educatori ed educatrici della prima età del fanciullo. Il primo si è di porre, al possibile, regolarità nella vita del bambino. [...OMISSIS...] Or questa regolarità di vita continua ad essere sommamente vantaggiosa anche nelle seguenti età dell' infanzia. Al fanciulletto convien certamente dare in abbondanza oggetti da vedere, da toccare, da farvi intorno prove, esperimenti, in una parola da percepire, e da percepir sempre meglio. Ora a ciò si scelgano quelli che più attraggono la sua attenzione, cioè gli oggetti che possono soddisfare i suoi bisogni, le sue voglie, dargli piacere: perciocchè son questi gli stimoli della sua attenzione. Ancora gioverà di presentare al fanciullo degli oggetti semplici, regolari e ordinati, facendogli vedere per esempio i sette colori della luce l' uno dopo l' altro, come pure il bianco ed il nero, e ancor meglio i colori armonici, nel succedersi dei quali egli troverà gran piacere (2), facendogli parimente udire i sette suoni, prima da sè l' un dopo l' altro, poi gradatamente ne' loro salti armonici e ne' loro accordi; per trastullarsi poi dandogli de' solidi regolari, alle cui forme e misure proporzionate egli avvezzi l' occhio e la mano, e le si scolpiscano nell' imaginazione, ecc.. Dopo di ciò, ma molto dopo, si potrebbe avvezzare il bambino a più colori, a più suoni, a più figure armonicamente disposte; ma sempre gradatamente, non passando ad un altro gioco, se non quando comincia a mostrar noia del primo. Chi non vede che ricevendo nel suo spirito tante imagini ben ordinate, queste, oltre altri vantaggi, prestar debbano acconcia materia alle sue future riflessioni, e agevolare le operazioni intellettive ch' egli è chiamato a fare in appresso? Senonchè il suo animo stesso ne risentirebbe uno squisito vantaggio morale, conformandosi insensibilmente all' ordine ed educandosi al bello. L' intelligenza del fanciullo si apre col riso che segna il principio della seconda età. Come l' opera della prima età del bambino era quella di svegliarsi alla vita e di trarre in comunicazione i propri sensi cogli stimoli e corpi stranieri al proprio; così l' opera che il bambino dovette compiere nella seconda età, si fu quella, quanto all' ordine sensibile, di mettere in armonia le sensazioni del tatto con quelle della vista, e quanto all' ordine intelligibile di dare il primo movimento all' intendimento, mediante le percezioni e le idee imaginali. Egli non arriva ad apprender interamente l' uso della mano e a regolare i movimenti di essa in conformità delle cose vedute, se non in otto mesi all' incirca; ed ha già quasi un anno, allorquando si fa a ciampicare i primi passi ed a balbutire i primi suoni articolati, che sono segni d' una età nuova che gli spunta insieme col secondo anno di sua esistenza. Gli comincia dunque la terza età col linguaggio: l' apprendimento de' segni delle cose è veramente un nuovo e gran passo dell' umana intelligenza: la prima parola che intende e che pronuncia il fanciullo, è un' epoca importante di tutta la sua vita: di questa età sono proprie le intellezioni di second' ordine. Prima di entrare a parlare di queste, io voglio anche qui avere avvertito che, come l' istruzione che appartiene al primo ordine non dee cessare collo spirare della seconda età, ma continuarsi in progresso; così simigliantemente l' istruzione del second' ordine, benchè propria della terza età, riesce sempre utile, e talora necessaria in tutte le età successive. Quando l' attenzione del fanciullo si volge a contemplare le intellezioni del primo ordine ch' egli s' è già procacciate mediante lo sviluppo della prima età, i pensieri che nascono da questa contemplazione si chiamano intellezioni di second' ordine. Le intellezioni del second' ordine sono i rapporti che passano tra le intellezioni del primo ordine. Ma si noti bene, questi sono i rapporti primi e immediati, non già i rapporti de' rapporti. Per conoscere adunque quali sieno le intellezioni del second' ordine, tutta la difficoltà consiste nel ben distinguere quali sieno i rapporti immediati tra le prime intellezioni, separando questi rapporti da tutti quelli che si trovano da poi tra i rapporti primitivi. Conviene adunque osservare che non tutte le intellezioni, che il fanciullo si procaccia nella terza età, sono intellezioni di second' ordine; perocchè sebbene sia impossibile ch' egli si procacci delle intellezioni proprie delle età avvenire, tuttavia è possibile ch' egli si formi di quelle che appartengono alla età precedente. Ch' egli non possa formarsi delle intellezioni proprie delle età avvenire è tanto chiaro, quanto è chiaro ch' egli non può pensare a que' pensieri ch' egli non ha formati; e quant' è chiaro perciò, che le intellezioni di second' ordine non possano in nessuna maniera aver luogo nel fanciullo, che non ha quelle di prim' ordine; perocchè quelle non sono che il pensiero di queste. Che poi durante la terza età si possa formare delle intellezioni proprie dell' età precedente, ed anzi ch' egli le si formi effettivamente, s' intende, quando si abbia fermato chiaramente questo principio, che « l' attività dell' uomo non si muove se non eccitata da stimoli, e solo in tanto, e non più, in quanto questi hanno la potenza di eccitarla ». Di qui avviene, che di ogni passo dello sviluppo intellettivo si dee cercare una ragion sufficiente non già nella supposta attività interiore del fanciullo, ma in un eccitante esteriore. Io ho dimostrato nell' Ideologia essere un errore quello di alcuni, che imaginano esistere nel bambino una attività atta a fare tutto ciò, a cui si estendono le potenze del bambino. Questi non osservano la natura, ma la inventano. A provare quanto sia gratuita la loro supposizione basta il fatto seguente. Di tutte le potenze che si mettono in movimento nell' infanzia, la più attiva di tutte è quella dell' imaginazione. Se vi potesse esser dunque potenza, a cui dovessimo attribuire un movimento indipendente dagli stimoli, sarebbe fuor di dubbio l' imaginazione. Ora il fatto di cui parlo prova il contrario; cioè dimostra costantemente, che l' imaginazione infantile tanto suscettiva alle impressioni è inetta a inventare da sè stessa. [...OMISSIS...] Ora gli stimoli, che eccitano l' attività intellettiva nella prima età, abbiam detto, che non sono altro che i primi bisogni fisici i quali danno moto a tutta l' attività dell' uomo per averne aiuto a soddisfarsi e però muovere anco a ciò l' attività intellettiva, che fa allora quel primo passo, che solo può fare. Ora poi que' bisogni son pochi e soddisfatti nient' altro esigono; onde quelli non ispingono l' intendimento umano a tutte le percezioni ed idee imaginali ecc., che aver potrebbe, ma solo alle necessarie. A ragion d' esempio il sentimento fondamentale e l' idea dell' essere in universale è una materia all' attenzione intellettiva che non manca mai; e pure l' attenzione intellettiva non si porta su quella materia, quando anzi la meditazione, che l' uomo fa sopra il sentimento fondamentale e sopra l' essere in universale, è delle ultime, e come si suol dire delle più difficili. Onde ciò? Non certo perchè considerate le riflessioni da sè l' una sia più difficile a farsi dell' altra: chè non v' è ragione a dir ciò. Ma l' uom riflette tardissimo a questi oggetti, perchè tardissimo ne ha lo stimolo: niente per lungo tempo a ciò lo muove, niun bisogno ne ha, niun desiderio, e non farà mai operazione alcuna senza ragione sufficiente. Ho già osservato altrove (2) che quando l' uomo riflette sopra le riflessioni precedenti, l' atto del riflettere può cadere sopra due cose diverse, cioè sopra gli oggetti conosciuti colle precedenti riflessioni, o sopra le intellezioni stesse, cioè le operazioni dello spirito. Ogni intellezione adunque presta una doppia materia alle riflessioni susseguenti, gli oggetti conosciuti e gli atti, con cui si sono conosciuti. Ora sebbene questa materia sia data al nostro spirito nello stesso tempo, tuttavia le riflessioni, che fa lo spirito sopra gli oggetti conosciuti, sembrano molto più facili, e si fanno molto prima delle riflessioni dello spirito sopra gli atti, co' quali si sono conosciuti. Insomma lo spirito riflette piuttosto sulle proprie cognizioni, che non sopra se stesso conoscente, e sopra i suoi atti conoscitivi. La ragione di ciò è quella che dicevamo: a lui si presentano più presto e più efficaci gli stimoli, che traggono a riflettere sugli oggetti da lui conosciuti, che non siano gli stimoli che rivolgano la sua attenzione sopra se stesso e i suoi atti. Ora non può toccare la sua perfezione il metodo pedagogico, finattantochè non si avrà diligentemente determinato quali intellezioni competano alle età diverse del fanciullo per cagione, che in quella età sola esse hanno la materia e lo stimolo necessario a produrle; e quali intellezioni parimenti competano alle età diverse, per ragione che in quella sola età esse hanno lo stimolo necessario a produrle, quantunque la materia l' avessero già anche in età precedente. Sono adunque due gli sviluppi delle intellezioni umane. Alcune non si formano prima, perchè prima manca loro la materia . Alcune non si formano prima, perchè manca allo spirito lo stimolo , ond' egli non volge la sua attenzione alla materia, che pur avrebbe, e però non le forma. Quelle, a cui manca la materia , sono del tutto impossibili a formarsi. Quelle, a cui manca lo stimolo , non sono veramente impossibili, ma tuttavia non si formano per l' assenza dello stimolo. Il metodo pedagogico sarà dunque perfetto solo allora che: 1 Non esigerà mai, che il fanciullo faccia delle intellezioni prima d' avergliene dato la materia . 2 Non esigerà mai che il fanciullo faccia delle intellezioni, alle quali gli manca lo stimolo . Le materie vengono date successivamente, e questa successione è quella, che forma gli ordini diversi delle intellezioni. Gli stimoli pure vengono dati successivamente, e sono quelli che rendono possibili in ciascun ordine quelle intellezioni, di cui il fanciullo ha già la materia. Ma già ritorniamo a considerare le intellezioni del second' ordine, e prima dimandiamo quale sia lo stimolo, che muove ad esse l' attenzione umana. Riman dunque ancora ad acquistarsi dall' uomo dopo la prima età un gran numero delle intellezioni del primo ordine, le quali egli acquista nelle età succedenti. Onde molte intellezioni, che nella seconda età si sollevano nella umana mente, sono ancora di quelle di primo ordine. Lo stimolo e l' aiuto, onde l' attività dell' intendimento umano passa a formare le intellezioni del second' ordine, è il linguaggio o vocale o composto d' altri segni quali si vogliano. Conviene attendere alla natura di questo stimolo. Acciocchè l' intendimento umano passasse dalle intellezioni di primo ordine a quelle di second' ordine, non basta mica ch' egli torni a mettere l' attenzione su quelle prime; per quante volte egli pensasse alle intellezioni avute, egli non formerebbe delle intellezioni nuove, ma solo risveglierebbe la memoria delle anteriori; se nuovamente contemplandole non traesse delle altre cognizioni, in una parola, se non venisse a conoscere i rapporti , che hanno tra esse; i quali rapporti non poteva scorgerli nel primo ordine d' intellezioni. Ora il linguaggio, che il fanciullo ode dalla società, fa appunto questo: 1 Muove l' intendimento umano a riflettere sulle prime intellezioni; 2 E riflettendo a cavarne cognizioni nuove, cioè le cognizioni di rapporti, che legano insieme le cose conosciute nel primo ordine, le quali cognizioni de' rapporti sono appunto le intellezioni di second' ordine. Noi dobbiamo vedere brevemente, onde venga al linguaggio tanta efficacia. Convien premettere che vi hanno delle predisposizioni nella natura, che inclina l' uomo a parlare. Tutto ciò, che passa nel sentimento dell' uomo, dà un cotal guizzo agli organi della voce, che porta l' uomo, e l' animale in genere, a mandar fuori istintivamente de' suoni. Ma le cognizioni danno all' uomo de' sentimenti, e le voci, che questi producono, sono quelle, che formano la materia del linguaggio (1). Il produrre adunque dei suoni di seguito alle cognizioni è una necessità naturale, un bisogno per l' uomo, quantunque questi suoni non siano ancora linguaggio, come diceva, ma solo materia al linguaggio. Un' altra predisposizione al linguaggio posta dalla natura nell' uomo si è la simpatia e l' istinto d' imitazione (2), onde egli è inclinato a ripetere i suoni uditi; inclinazione, che in grado minore trovasi pure in molti animali (3). Ripetere però i suoni uditi non è ancora parlare, ma solo eseguire la parte materiale del linguaggio. Una terza predisposizione al linguaggio nasce dallo sviluppo intellettivo, che ebbe il bambino durante il breve tempo della sua seconda età. Sono stati i bisogni fisici, che trassero all' atto, come abbiam veduto, l' intendimento, invocandolo qual ausiliare al soddisfacimento delle loro tendenze. L' intendimento accorse, fece tutto quello, che egli potè, e non potè far di più che percepire, universalizzare (4), e volere le cose percepite. Ora i bisogni continuano, e provocano di continuo l' aiuto dell' intendimento: egli è sempre in atteggiamento di far quanto può in lor soccorso, e può far più di prima. Anco nell' ordine unicamente animale, per la forza sintetica (1), l' uomo cerca d' aiutarsi con tutto ciò, che gli sta da presso, cose e persone, fonti a lui di sensazioni. L' uomo adunque volgendo l' attenzione sua intellettiva a tutte le cose sensibili, che lo circondano, per giovarsene, egli la mette, quest' attenzione, anco al linguaggio che ode, e che non è da principio per lui se non una serie di sensazioni dell' udito. Ma egli ben presto si accorge, che può trarre da questi suoni, uditi e scambiati, dei grandi vantaggi, e farsi ubbidire dalle persone, cioè prestar soccorso: ond' è, ch' egli pone tutta l' attenzione ad apprendere come può usarne per giungere a questo suo fine. In questa maniera il linguaggio diviene nuovo stimolo, occasione ed aiuto all' attenzione intellettiva del bambino. Ma veggiamo quali siano le intellezioni nuove, a cui si solleva il fanciullo mediante il linguaggio che egli sente, e gli vien comunicato dalla società (2). Queste intellezioni sono di due maniere. Alcune sono intellezioni di primo ordine, che il fanciullo prima d' ora aver non poteva, perchè mancava lo stimolo necessario alla sua attenzione, acciocchè questa si volgesse a formarsele. Altre sono intellezioni di second' ordine, che il fanciullo non potea aver prima d' ora, perchè gli mancava non solo lo stimolo, ma ben anco la materia. Il fanciullo da prima per la forza unitiva lega insieme la sensazione, che a lui produce un nome, che vien pronunciato, colla sensazione dell' oggetto che quel nome significa (1), sicchè al risuonar di quel nome si risveglia in lui subito la percezione avuta di quell' oggetto o l' idea imaginale. Questo fatto dimostra che il linguaggio deve dare al fanciullo un' attitudine maggiore a richiamarsi le memorie e le idee che ebbe delle cose (2). Quando egli non avesse quest' aiuto del linguaggio, le dette memorie ed idee non si potrebbero in lui risuscitare se non per due cagioni: 1 per ricadergli sotto i sensi le cose stesse o loro parti; 2 o per qualche accidentale movimento delle fibre del suo cervello. Ma il linguaggio l' aiuta non poco in ciò: perocchè o al sentire d' una parola o al rivenirgli alla mente, gli tornano insieme le memorie e le idee degli oggetti. Divien dunque il linguaggio una specie di memoria artifiziale, e giova ad accrescergli l' uso della facoltà della reminiscenza . Le cose assenti adunque, che non potrebbero tornare alla mente del fanciullo se non per accidente, vengono richiamate facilmente coll' uso del linguaggio, e sembra che solo per l' uso del linguaggio egli si possa formare il pensiero dell' assenza delle cose. Conciossiachè le memorie delle percezioni gli mostrano le cose nel luogo e nel tempo, nel quale le percepì, e quindi come presenti; le idee imaginali gli mostrano la cosa possibile. Ma il linguaggio l' avvisa anche che la cosa da lui altre volte percepita esiste tuttavia, ma non è presente. Si accorge allora, che può esistere la cosa stessa tanto alla presenza de' suoi sensi quanto fuori della sua presenza, in luogo nel quale non cade sotto i suoi sensi: il che è già un gran passo; perocchè con questa operazione egli s' avvede che la sostanza dell' oggetto non è l' attività da lui sentita, è qualche cosa che sussiste, eziandio che non sia da lui sentita (1). Questo passo poi spinge lo spirito alla cognizione delle cose invisibili. Or poi le cose assenti sono in numero infinitamente maggiore delle presenti; e però considerato il linguaggio anche sotto questo solo rispetto, egli apre la via al fanciullo d' accrescersi molto più del doppio le sue prime cognizioni. Ma un passo maggiore egli fa quando per l' aiuto che gli presta il linguaggio passa alle intellezioni di second' ordine. Per vedere come ciò avvenga e per trovare le diverse maniere di queste intellezioni di second' ordine dobbiamo analizzare l' operazione che fa il fanciullo quando perviene a segnare le intellezioni coi vocaboli. Da prima il vocabolo non è che una sensazione, la quale egli unisce con delle imagini mediante la seconda funzione della forza unitiva (1), ond' avviene che al prodursi di quella sensazione del suono si risveglino nel bambino le imagini a quelle congiunte. Di poi nasce viceversa, che avendo il bambino già congiunto imagine e suono, al rinnovarglisi la sensazione che risponde all' imagine sia inchinato a completare il sentimento pronunciando il suono che n' è l' altra parte per la quarta funzione della forza unitiva (2). Nasce in terzo luogo che il bambino che vien soccorso alle sue grida unisca il sentimento attivo del suo gridare colle sensazioni passive del soccorso, e però usi quelle istintivamente, perchè per lui le grida diventano una cosa sola colle piacevoli sensazioni che subito gli si porgono, unione che si effettua in ogni animale per la stessa funzione quarta della forza unitiva. In queste tre operazioni non gioca ancora che la sola animalità. Passiamo a considerare il vocabolo come stimolo d' operazioni intellettuali. Ma ben presto il vocabolo è una sensazione che s' associa colla percezione intellettiva , in presenza della quale si pronuncia, e serve ad eccitare su di questa una maggiore attenzione, a rendere più viva la percezione. In questo stato il vocabolo è una parte della percezione stessa complessa ossia accompagnata da diverse sensazioni. Qui gioca l' intelligenza, ma ancor quella di primo ordine; il vocabolo non è percepito egli stesso se non come un elemento sensibile che entra nella percezione. Il vocabolo s' attacca, in primo luogo, a memorie di percezioni e serve a richiamare il pensiero degli oggetti assenti altra volta percepiti: gioca ancora l' intelligenza di prim' ordine, ma un grado più di prima. Il vocabolo qui è una sensazione che richiama una percezione, nella quale esso non entra, e diventa anco in breve tempo una percezione che richiama un' altra percezione. In secondo luogo, il vocabolo s' associa a idee imaginali , di maniera che serve a richiamar queste. In questo caso il vocabolo è una sensazione o anco una percezione, al ricever della quale il bambino volge la sua attenzione intellettiva a quell' idea, e con tanta celerità e unità di azione, che gli sembra di vedere l' idea nel vocabolo, tosto che l' ode. I vocaboli, che richiamano la mente o alle percezioni passate o alle idee imaginali, non si può dire che facciano fare all' intendimento di quelle riflessioni, le quali costituiscono un ordine nuovo d' intellezioni, ma solo di quelle colle quali l' intendimento rivede le intellezioni di primo ordine. Vero è, che passando un rapporto tra il vocabolo e la idea imaginale o la memoria della percezione avuta, questo rapporto appartiene alle intellezioni del secondo ordine, che fu da noi definito « intellezioni, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine ». Ma si deve osservare che il vocabolo può richiamarci l' idea imaginale, senza che noi concepiamo intellettivamente il rapporto tra esso e l' idea; bastando, che vi abbia un nesso fisico, ond' avviene, che l' attenzione scossa dal suono si volga all' idea. Vi ha ancora una terza operazione, che il vocabolo fa fare alla mente, senza però che con essa la mente si formi delle intellezioni di secondo ordine. L' operazione, di cui parlo, somiglia nei suoi effetti all' astrazione, ma non è l' astrazione, quantunque l' astrazione le venga tosto appresso. Quando adunque il bambino sente a nominare con un vocabolo delle cose simili, per esempio, a dir « cavallo »ogni qual volta passa un tale animale per via, non astrae incontanente le note comuni del cavallo (quali egli è in caso di notare); ma crede che il cavallo che passa sia il medesimo di quello che altra volta egli vide e sentì nominare cavallo, perchè non osserva ancora le differenze del cavallo, che vede, e del cavallo che ha veduto. Quel vocabolo adunque gli richiama la percezione e l' idea imaginale del cavallo altre volte veduto: lo prende pel medesimo cavallo veduto altre volte (1). Ora chi sottilmente non considera questa operazione del bambino, vedendo, che il bambino, ad ogni cavallo che passa per via, pronuncia il vocabolo cavallo, crederà facilmente, ch' egli abbia già astratta la specie cavallina da' cavalli individui; ma egli s' ingannerebbe, fino a tanto che non si assicuri, che il bambino abbia notata colla sua mente qualche differenza tra cavalli successivamente da lui veduti, per la quale egli abbia conosciuto, che l' uno non è l' altro, e che ciò non ostante l' uno e l' altro sono cavalli, cioè hanno un che d' uguale, onde portano un egual nome (2). Esercitano adunque tre uffizj i vocaboli, senza che tuttavia si producano ancora con essi delle intellezioni di second' ordine. La produzione di queste è il quarto dei loro uffizi e principalmente l' astrazione, che noi dobbiamo diligentemente analizzare. I soli nomi propri, nell' accettazione degli uomini, segnano percezioni o memorie di percezioni avute: tutti gli altri vocaboli segnano degli universali. Tuttavia i pronomi dimostrativi questo, quello ecc., uniti al nome comune lo applicano, o restringono a significare percezioni cioè oggetti reali percepiti. Se si esamina il resto dei vocaboli che compongono una lingua, lasciati da parte i nomi propri, non se ne trova nemmeno uno che sia istituito o che si adoperi a significare idee imaginali . Quando adunque abbiamo detto che uno dei primi usi che fa il bambino del vocabolo si è quello di richiamare nella sua mente le idee imaginali, allora parlammo d' un uso proprio del solo bambino diverso dall' uso che fanno del vocabolo gli altri uomini, e ciò perchè il bambino non conosce ancora il preciso valore e l' uso comune del vocabolo. E che la cosa sia così, si conoscerà osservando, che sarebbe inutile del tutto inventare dei vocaboli a significare idee imaginali. Perocchè le idee imaginali sono infinite; e differiscono l' una dall' altra per distinzioni così minute, che niente importa agli uomini il notarle, e sarebbero anzi di grandissimo ingombro alla speditezza del parlare e del pensare. Primieramente le percezioni d' una stessa cosa variano nell' uomo stesso, secondo che l' uomo percepisce più o meno della cosa: come le percezioni variano le imagini, e le idee imaginali, che a quelle s' appoggiano. Egli è dunque impossibile l' avere per ciascuna di queste idee un vocabolo. In secondo luogo variano tali idee nei diversi uomini. Laonde se un uomo significar volesse coi vocaboli le proprie idee imaginali, non potrebbe egli essere acconciamente inteso dagli altri uomini, che non hanno quelle idee appunto. In terzo luogo basta considerare quello che dicea Platone « che ogni cosa reale e finita si muta, si strugge e si rigenera di continuo ». Poniamo un cavallo: egli è diverso da sè stesso ogni po' di tempo che trascorra: egli porge dunque una nuova idea imaginale: basterebbe che a quel cavallo incanutisse un sol fiocco di pelo, o s' allungassero d' una linea gli orecchi, perchè dovesse avere un nome nuovo il suo tipo, la sua idea piena. E` dunque impossibile che i vocaboli significhino tali idee imaginali o piene: sebbene il bambino, che non n' ha altre per avventura nella mente, le rinfreschi al suono del vocabolo, per l' analogia che esse hanno colle idee astratte, a significare le quali adoperano i vocaboli gli altri uomini. Non essendo le idee piene contrassegnate da vocaboli, rimangono inosservate: ed i filosofi stessi saltano di piedi pari dalle percezioni alle idee astratte senza accorgersi delle idee piene , che stanno tra le une e le altre, come noi facemmo osservare (1). Convien dunque considerare che non v' ha nè pur un sol vocabolo nella lingua (eccetto i nomi propri, i pronomi dimostrativi, e alcuni avverbi di luogo e di tempo) che non esprima idee astratte (2). Quegli adunque che parlano al bambino, provocano del continuo la sua attenzione a collocarsi non pure in un universale , ma in un astratto , e questa è quell' operazione per lui nuovissima, che lo porta alle intellezioni di secondo ordine, e che noi dobbiamo con somma accuratezza ora esaminare. Quando il bambino sente le tante volte chiamare cane il cane di casa, e sente chiamarlo cane oggi e domani, quand' era piccino e mangiava latte, e quando divenne grande e mangiava pane, quando aveva la coda e gli orecchi, e or che ha mozza quella e questi, e sente chiamar cani tutta la canatteria della strada, sieno cani grandi o piccioli, o di un pelame o d' un altro, e fermi o correnti, e placidi o rabbuffati; allora viene un tempo nel quale la sua mente in tanta varietà di oggetti fissa quell' unica cosa, per la quale a tutti il medesimo nome di cane si addice. Egli in una parola astrae a forza di udire la parola stessa applicata sì diversamente ciò che forma l' elemento comune dei cani (la canina natura) e adopra questo elemento comune (che è un' astrazione) a distinguere poi gli oggetti, a' quali il nome di cane dar si convenga. Non è già che egli sappia rendersi conto di questa sua operazione, o ch' egli si sia formato un concetto giusto della nota distintiva de' cani. Egli ha fatto quest' operazione senza rendersene conto, e si è formato un concetto qualunque di ciò che distingue la specie de' cani dall' altre specie d' animali, o di ciò almeno che egli crede che formi questa distinzione. Gli errori che può prendere giudicando qual sia la nota distintiva del cane, non tolgono punto la verità di ciò che noi diciamo, non impediscono che egli abbia effettuato veramente l' operazione mentale dell' astrarre, eziandio che l' elemento da lui astratto non esista, e sia finto dalla sua imaginazione, o non sia quello che costituisce la natura de' cani. Anzi da prima il bambino non astrae mai quel preciso elemento, a cui dall' uso comune è affisso il vocabolo, ma suole sempre astrarre un elemento più comune, o sia più generico (1). Questi errori si correggono dal bambino collo scoprire nuove differenze che lo fanno accorto avere egli dato al vocabolo un significato troppo esteso verso quello che gli danno gli altri uomini; egli allora restringe questo significato, e restringe insieme l' astrazione che gli annette, e ciò determinando meglio il carattere o elemento astratto, da generico rendendolo specifico, o da un genere più lato formando un genere meno esteso. Convien dunque assicurarsi che il fanciullo, nell' uso de' vocaboli, sia giunto a conoscere che in più oggetti v' ha un elemento comune, e che prende nella sua mente questo elemento, qualunque esso sia, come segno a distinguere quali sieno le cose, a cui quelle denominazioni convengono. Allora solamente lo si può dir pervenuto all' operazione delle prime astrazioni, che sono intellezioni di second' ordine. Se sono presenti più cavalli e a ciascuno di essi dà il nome di cavallo , egli è certo che ha fatta già l' astrazione; perocchè non può essere che prenda l' uno per l' altro. Se dà lo stesso nome anco a cose successivamente a lui presenti, ma disparatissime, come al cane o a un uccello, è ugualmente certo che la sua mente già pervenne all' astrarre, non essendo possibile ch' egli prenda l' una per l' altra, che creda quelle diverse cose una cosa medesima: conosce adunque pluralità d' individui e identità in qualche cosa di essi, che lo persuade a dar loro lo stesso nome. Medesimamente, i nomi plurali delle cose mostrano che la sua mente giunse all' operazione di astrarre (1). In questa mirabile operazione adunque, a cui la mente viene mossa dal bisogno d' intendere e viene aiutata dalla contemporaneità del suono cane colla presenza de' cani e cogli atti de' parlanti, il bambino fa quanto segue: 1 Nelle moltissime idee imaginali ch' egli si è formato in veggendo e sentendo tanti e sì diversi cani, soggiacenti a tante modificazioni (e ad ogni cane modificato risponde un' idea imaginale), egli trascura del tutto di badare alle differenze, e concentra la sua attenzione nella somiglianza, in ciò che tutte quelle idee hanno di comune; 2 Divenuto oggetto del suo esclusivo pensiero quell' elemento comune, egli se ne serve di segno a cui conoscere quali sieno gli oggetti ch' egli deve richiamarsi alla mente ogni qualvolta ode il suono cane (1). E qui si noti, ch' egli non congiunge già il suono cane unicamente con quell' elemento, ma l' unisce con tutti gli oggetti in cui egli ravvisa quell' elemento. Quell' elemento adunque è già astratto nella mente del fanciullo, ma non è ancora nominato . La parola cane non indica meramente quell' astratto, ma indica tutti gli oggetti dove quell' astratto dimora: la parola cane non si può intendere senza che la mente si sia formato l' astratto che ella suppone e che la determina; e tuttavia non si può dire che cane sia un nome astratto, ma un nome comune . Da questo si scorge che gli astratti hanno due forme nella mente: l' una innominata, fondamento dei nomi comuni; l' altra nominata mediante i nomi astratti. Chi dice bianco sostantivamente dice un nome comune , che suppone nella mente l' astratto, ma non lo nomina, perocchè il sostantivo bianco non dice altro se non « un oggetto bianco »: la bianchezza è unita all' oggetto, ma la mente ha l' idea astratta di bianchezza, e se ne serve per intendere la parola bianco . Chi dice bianchezza , dice un nome astratto, pronuncia non più l' oggetto in cui si trova la bianchezza, ma questa qualità sola precisa dall' oggetto, considerata da sè. Quindi al fanciullo riesce prima intelligibile il vocabolo bianco , che quel di bianchezza, benchè questo secondo lo intenda ben presto dopo aver inteso il primo. Per intendere tuttavia il secondo, cioè il vocabolo bianchezza, la mente del fanciullo deve fare un' operazione di più. Nel vocabolo bianco , l' astratto è nella mente, ma vi è unito all' oggetto (sebbene sempre astratto da questo): nel vocabolo bianchezza, l' astratto è affatto diviso dall' oggetto, è divenuto un oggetto mentale egli stesso direttamente espresso nella parola: quando si dice bianco, si dice un oggetto che, oltre la bianchezza , ha delle altre qualità alle quali non si pone una speciale attenzione, ma si sa però che vi sono in generale e che vi devono essere, acciocchè l' oggetto sussista; quando si dice bianchezza , questa qualità semplice esclude qualsiasi altro pensiero. La bianchezza esprime dunque un modo d' astrazione più perfetto del sostantivo bianco . L' astratto può esser preso da ciò che è accidentale nella cosa: tale è quello di bianchezza; e può esser preso da ciò che è sostanziale nella cosa: tale è quello di corporeità . Talora il nome astratto manca nella lingua, e non vi ha che il nome comune; a ragion d' esempio, nella lingua italiana vi ha il nome cane , e manca quello di canità . La mancanza di questi nomi astratti dimostra che sono posteriori ai nomi comuni. Si può provare anche con altri argomenti che i nomi astratti sono stati inventati dopo i comuni: un argomento è quello che somministra l' etimologia; infatti ogni astratto sembra derivato dal comune; bianchezza, per esempio, viene da bianco . Gli antichissimi scrittori ci offrono un' altra prova di ciò che affermiamo. Le lingue che usano sono un acconcio specchio dello sviluppo delle menti nei loro tempi: e si può dirittamente indurre dallo stato di quelle il grado di sviluppo di queste. Negli scrittori antichi orientali, come pure nei greci filosofi, e specialmente in Platone, si suole usare il nome comune sostantivato per indicare l' astratto: si dice il simile , il dissimile, il giusto , il bello, il santo, ecc., per dire la simiglianza , la dissomiglianza, la giustizia, la bellezza, la santità, ecc. (1). Vedesi da ciò chiaramente che quelle parole furono le prime usate, e che quando la mente che si sviluppava, ebbe bisogno di esprimere l' astratto diviso da ogni concreto, invece d' inventare vocaboli nuovi, trasportò quegli che già aveva a significare queste astrazioni: il che è legge costante nelle nazioni, quando queste vanno innanzi col loro intellettivo sviluppo, di maniera che la lingua primitiva loro più non basta; prima di risolversi a coniare nuovi vocaboli, si appigliano al partito di alterare e distendere le significazioni dei vocaboli antichi (2). Or quando il fanciullo si è formato un astratto, egli ha il fondamento di una classe, in cui ridurre gli oggetti. Quando egli è giunto a formarsi, per es., l' idea di ciò che è comune tra gli oggetti che sono denominati cani, allora egli non vede un solo di questi oggetti che non lo collochi subito nella classe dei cani. Senza quell' astrazione egli non poteva fare questa classificazione. La classificazione adunque delle cose è un' operazione della mente che vien dopo l' astrazione, la quale ne è il fondamento; e che però appartiene alle intellezioni di un ordine più elevato del secondo, al quale appartengono le astrazioni , di cui parliamo. Ma chi bene osserva, tuttavia conoscerà che vi hanno certe prime classificazioni, le quali si fanno contemporaneamente e con un medesimo atto dello spirito. Elle non sono distinte, ma implicite. Quando lo spirito s' accorge, mediante la ripetizione che ode farsi del nome cane, che in molti cani vi ha un elemento comune; allora con questo accorgersi fa ad un tempo due cose: 1 osserva in tutti quegli oggetti l' elemento comune, e 2 lo astrae , togliendolo a segno della classe degli oggetti chiamati cani . Ora il riconoscere in tutti quegli oggetti uno stesso elemento è già un cotale classificarli, il che finisce di fare contrassegnandoli con un nome. Laonde quantunque sia vero che un uomo, che ha già formati gli astratti, quando egli vede un oggetto nuovo e lo classifica, fa un' operazione posteriore, che appartiene ad un ordine di intellezioni più elevato di quello delle astrazioni medesime, che danno la base alla sua classificazione; tuttavia non può negarsi che nell' opera dell' astrarre v' abbia qualche cosa che s' assomiglia al classificare. Al second' ordine d' intellezioni appartiene ancora la cognizione dell' esistenza di Dio. Iddio però, con quest' ordine d' intellezioni, non si conosce che come compimento necessario dell' essere e come causa del tutto per una funzione dello spirito che noi nominammo integrazione . Egli è incredibile con quanta facilità e prontezza il nostro spirito s' accorga che tutto ciò che cade sotto i sensi è contingente, e che questo non può stare senza qualche cosa di necessario che gli dia l' origine. Ben pochi sanno rendersi conto esplicito di questa elevazione subitanea della mente (1); ma ella non è men vera: ogni popolo e in ogni sua età riconobbe la necessaria esistenza di un Dio, cioè di un ente necessario, prima causa del tutto, come cosa del tutto patente: l' uomo più idiota vede un tal vero come un vero evidente, non ne cerca la ragione, la sua persuasione è immediata; e chi gli domandasse conto di una tale sua credenza sarebbe a lui occasione di maraviglia, e fors' anche di scherno o di riso, come scempio o beffardo. Quindi è che anco i fanciulli intendono facilissimamente il vocabolo Dio come significante un ente massimo cagione del tutto, ed assentono assai volentieri a chi ne afferma loro l' esistenza. Il qual assenso dei bambini non reputisi ch' egli abbia natura d' una mera credenza gratuita alla parola di chi loro parla. No; in questo fatto essi non credono ciecamente, ma veggono. Se ciò non fosse, per lo meno si maraviglierebbero grandemente del concetto di Dio che gli si vuole imprimere, e questo concetto non riescirebbe loro tanto naturale e tanto facile a riceversi, che, appena concepitolo, già credono che Dio esista. Tuttavia non potrebbero i fanciulli accorgersi da sè della divina esistenza senza il linguaggio. Essendo Iddio invisibile, senza una parola che fermasse la loro attenzione, non potrebbero fissarne il concetto. Ma che cosa è la cognizione di Dio ne' bambini? - Ella è una concezione ed una credenza . - Dico una credenza per distinguerla dalla percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esiste, perchè ne sente in sè l' azione, egli n' ha la percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esista senza sentirne sopra di sè l' azione, benchè ne abbia certo argomento razionale, egli n' ha la credenza . Alle facoltà passive rispondono altrettante facoltà attive (1): allo sviluppo di quelle un grado proporzionale di sviluppo di queste. Quando adunque si abbia ben definita la natura e l' estensione dello sviluppo, che in una data età del fanciullo prese il senso e l' intelletto, si può indurre qual sia la natura ed estensione dell' istinto e della volontà. Se il conoscere il grado di estensione di queste prime facoltà passive è necessario per attemprarvi e commisurarvi l' istruzione da dare al fanciullo; il conoscere il grado di estensione presa da queste facoltà attive è ancora più importante, perocchè è cognizione necessaria per attemprarvi e commisurarvi l' educazione pratica da dare al fanciullo; la quale non può far uso che di quella parte di attività che in esso è già desta e messa in movimento (1). Ora nella terza età il fanciullo, mediante il linguaggio e i bisogni e gl' istinti nuovamente appariti in conseguenza dello sviluppo delle due età precedenti: 1 Accrebbe immensamente e perfezionò le sue percezioni, memorie di percezioni e idee imaginali. - A ciò risponde una estensione corrispondente dell' istinto e di volizioni affettive e apprezzative . 2 In ogni età l' uomo concepisce anche le cose assenti. - Questo dà luogo alla passione del desiderio . Egli è vero che anco verso le cose presenti può esservi il desiderio di goderle, se sono buone; ma io credo probabile che il desiderio di godere le cose presenti venga nell' uomo ben tardi, supplendovi da principio l' appetito e l' istinto naturale , che inclina l' animale ad esse. La memoria delle percezioni avute non è propriamente una concezione di oggetti assenti, e può cagionar solo nel primo tempo un cotal sentimento spiacevole, che la percezione sia passata, ma desiderio no: perchè per esso solo non si ha il pensiero che la percezione possa rinnovarsi. - Ove all' incontro in noi si susciti il pensiero di un oggetto buono e assente, tosto dietro a questo pensiero tiene la spontaneità della volontà col desiderio di esso. - La terza età dunque è altresì quella, nella quale ha la sua nascita il desiderio. 3 Ma un' attività maggiore si suscita nella volontà in virtù delle prime astrazioni. Come l' intendimento applica esclusivamente la sua attenzione ad un elemento comune a più oggetti, così se questo elemento è buono, la volontà lo vuole: se è cattivo, lo abborrisce. - Ora ella è immensa la differenza tra quelle volizioni che hanno per oggetto un individuo sussistente tutto quant' è, o anco una specie7piena d' individui (2), e quelle volizioni che hanno per oggetto un elemento comune a più individui, un astratto. Nel primo caso, la volontà ama un oggetto buono ( bonum ), nel secondo caso, la volontà ama la ragione degli oggetti buoni ( rationem boni ), la loro bontà. Le volizioni che hanno per termine solamente un oggetto buono determinato, si acquetano in esso, e però l' efficienza loro finisce tosto. All' incontro, le volizioni che hanno per termine un elemento comune, nel quale sta la ragione, per la quale quel genere di oggetti son buoni, non si acqueta nel loro oggetto che è un astratto insufficiente ad appagare, ma si serve di questo astratto, primo termine della volizione, come d' un segno al quale conoscere gli oggetti buoni, e discernerli dai cattivi. Quivi dunque l' attività della volontà trova uno spazio immenso dove spiegarsi, perocchè quell' elemento buono che vuole, si realizza in infiniti oggetti, dei quali l' uomo, qui pervenuto, va in cerca senza posa. Indi è che altrove mostrai, la facoltà di astrarre essere quella che somministra all' uomo le regole, colle quali egli giunge a discernere e rinvenire i beni (1). 4 Fra gli astratti primi v' ha la quantità sia continua , sia intensiva delle cose sensibili. Onde avviene che per mezzo di questo astratto il fanciullo conosce ciò che è più grande da ciò che è più piccolo (2), e ciò che produce, a ragion d' esempio, più piacere da ciò che ne produce di meno. Questa conoscenza del quanto delle cose dà luogo in lui ad una nuova classe di volizioni, cioè alle volizioni appreziative (3) ed alle elezioni; che già in quest' età cominciano (4). Un altro de' primi astratti , che separa il fanciullo dalle cose, sommamente importante al suo sviluppo, si è quello dell' animalità . Se il fanciullo potesse riflettere sopra il proprio sentire, e pensare, egli avrebbe dell' anima propria un' immediata percezione; la quale sarebbe un' intellezione di prim' ordine, perciò più elementare di quella che si ha dell' anima considerata come causa di movimento degli esseri animati. - Ma sebben l' anima7sentimento sia oggetto d' una intellezione di prim' ordine, tuttavia egli è ancor troppo difficile a farsi una tale intellezione pel fanciullo; perocchè alla sua attenzione manca lo stimolo, che la diriga sul proprio sentimento e su questo la fermi. La sua attenzione è come un figliuolo che scappa sempre di casa; gli oggetti de' suoi bisogni, e le esterne sensazioni tra le quali il suono dei vocaboli, lo trae dall' interno dell' uomo al di fuori. Nè giungerebbe tuttavia ad argomentare da' movimenti degli animali l' esistenza d' un principio di moto nell' animale, se la lingua non gl' insegnasse a fermarsi dal tutto ad una parte della cosa, dal complesso al suo elemento; nell' animale adunque pensa, mediante la lingua, il carattere della mobilità, e quindi l' astratto dell' animalità, ossia l' animale . Questo fa sì che egli distingua non solo un grande ed un piccolo nelle cose, ma ben anco una differenza di dignità ; egli può oggimai stimare col suo giudizio pratico che gli oggetti animali sono assai più degli oggetti non animali e preferir quegli a questi per una maggiore entità. 6 Finalmente la cognizione dell' esistenza di Dio, come complemento degli enti, eleva l' attività del suo cuore all' oggetto il più sublime e lo mette già in comunicazione col cielo. Ogni idea nuova nel fanciullo è una gioia: per ogni adito, che gli s' apra davanti, la sua intelligenza irruisce precipitosa. Come il primo atto di conoscimento scioglie le labbra del bambino al riso, così si manifesta in lui con molti atti d' esultanza il piacere d' intendere il linguaggio materno, e appena può pronunciare i vocaboli, egli è difficile il farlo più tacere, perchè sarebbe contrariar la natura privandolo dell' uso della loquela, che equivale per lui al nuovo uso da lui acquistato della intelligenza, che è il meglio di sè. Di questa innata e nobilissima inclinazione deve l' istitutore giovarsi: non deve rintuzzarla, chè sarebbe ingiuria fatta al lume divino che nell' anima umana risplende; egli deve saviamente occuparla e dirigerla. Pur questa è arte difficilissima. Gli errori, che si sogliono commettere in questa parte, si riducono a quattro: 1 Talora l' attività intellettiva del fanciullo riesce noiosa e importuna, e però si vuol comprimerla coll' autorità, negandole un pascolo sufficiente. 2 Talora si aggrava la memoria materiale del bambino obbligando l' intelligenza al digiuno: cosa molestissima e gravissima a quel piccolo essere intelligente, che a null' altro aspira che all' intendere: epperò cosa crudele ed inumana. 3 Talora si dà all' intelligenza un pascolo, che non è ad essa adattato, cioè le si propone da fare delle intellezioni d' un ordine superiore a quello, al quale è pervenuta; nel qual caso le è assolutamente impossibile intender nulla, eccetto che parole. Talora anche le intellezioni, che da essa si richieggono, sarebbero alla sua levatura, ma non può farle, perchè la sua attenzione intellettiva non ha lo stimolo, che ad esse la richiami. 4 Finalmente quand' anco si proponessero alla giovane intelligenza disposte assai bene per gradi tutte le intellezioni che da essa si esigono, nè si lasciassero mancare ad essa gli stimoli, si pecca tuttavia, perchè si trapassa da una all' altra cosa senza essersi prima certificati, se quella prima cosa sia stata capita, se la intelligenza del fanciullo segua veramente i passi dell' istruzione; in una parola senza lasciare al fanciullo il tempo necessario a penetrare la cosa, a imprimersela, a riaversi da quel cotale sbigottimento, che mette in lui ogni idea nuova. Queste osservazioni si debbono rammentare in principio di tutti quei capitoli, ne' quali tratteremo dell' istruzione da darsi ai fanciulli nelle loro singole età, ossia ne' successivi periodi della loro età, segnati dai singoli ordini d' intellezioni. Ma quanto non è egli facile dimenticarle? Dobbiamo ora indicare quale debba essere l' istruzione da darsi al fanciullo rispondente al secondo ordine d' intellezioni. Ma prima osserviamo, che in quest' età la mente del fanciullo non ricava ancora tutto il frutto, che le verrà appresso, dalla regolarità colla quale abbiamo accennato doverglisi presentare le cose da percepire ed intendere. Tuttavia tal ordine produce un effetto buono, quantunque difficile ad osservarsi, sulla mente e sull' animo stesso del fanciullo. Nell' uomo vi ha un' unità soggettiva , cioè vi ha un ultimo sentimento unico. Ora, ogni sensazione, percezione od idea porta un suo cotale effetto buono o cattivo in quell' ultimo sentimento. Indi avviene, che ogni qualvolta le sensazioni, le percezioni e le idee sono bene armoniate, ne risulta un miglioramento al fondo dell' uomo, sul qual fondo operano tutte insieme e vi producono un effetto unico, che tiene dell' ordine della sua causa. Sebbene adunque il fanciullo non conosca ancora l' ordine, che è nelle sue sensazioni e intellezioni, tuttavia egli per una legge della sua costituzione ne ricava vantaggio. Or le materie d' istruzione consentanee a questa terza età del fanciullo si deducono dallo stato della sua intelligenza, che noi abbiamo investigato e descritto. Risulta che la prima materia d' istruzione in quest' età deve essere la lingua. Sarà adunque un grandissimo guadagno, se in questo periodo s' insegnerà al fanciullo a nominare il più gran numero possibile d' oggetti, e a parlar bene dentro al circolo delle sue cognizioni. Questa parte era quasi trascurata interamente, e solo adesso sembra doversi sperare assai dalla bellissima invenzione delle scuole infantili. Anco rallegrami il vedere, che si cominciano a scrivere dei libri con questo intendimento d' insegnare ai fanciulli a nominare con proprietà le cose; dei quali libri bastimi avere accennato il citato « Manuale » di Vitale Rosi (1). E nondimeno dissi che conviene insegnare la lingua al fanciullo entro il circolo delle sue cognizioni, cioè in misura conforme alla portata del suo ingegno. La lingua, che si usa coi fanciulli della nostra età, deve esprimere intellezioni di primo e second' ordine, ma non più. Di sua natura la lingua esprime le intellezioni di tutti gli ordini, epperciò è istrumento attissimo allo sviluppamento dell' intelletto in tutte le età della vita umana; ma v' ha una parte di lingua che si conviene e proporziona alla terza età, e solo di questa lingua si deve far uso col nostro fanciullo; perocchè quel di più che si usa sarebbe a lui inintelligibile, graverebbe la sua memoria lasciando vuoto e sterile il suo ingegno; il che sarebbe il secondo ed il terzo degli errori che noi abbiamo poco innanzi accennati. Impari adunque il fanciullo a nominare le percezioni sue, tutti gli astratti che si possono cavare immediatamente dagli oggetti sensibili, le cose assenti, le invisibili e i concetti venutigli dalla sua facoltà d' integrare. Egli è certo che fino da quest' età il fanciullo può imparare due o tre lingue udendole, e senza soverchio aggravio. Se ciò si fa per modo che la favella materna sia la principale, e che ciò che impara delle altre sia una cotal sopraggiunta, un tale esercizio delle due lingue sarà un guadagno di tempo, un passo innanzi fatto dal fanciullo (1). La lingua si deve insegnare al fanciullo con un doppio esercizio naturale e artifiziale . Quanto all' esercizio naturale, in esso si adopera tutte le parti del discorso, e non ve n' ha pur una che sia per sè superiore al secondo grado dell' umana intelligenza, eccetto alcune congiunzioni, perocchè tutte possono esprimere sentimenti, percezioni e astratti di prima astrazione, e i movimenti dell' animo. I sentimenti vengono espressi colle interiezioni, le quali propriamente non sono segni. Le percezioni coi nomi propri, cogli avverbi di luogo e di tempo, coi pronomi personali io, tu , ecc. e dimostrativi questo, quello , ecc.. Gli astratti con tutti gli altri nomi, cogl' infiniti dei verbi, coi participii e certe congiunzioni. I movimenti dell' animo sono indicati dalle inflessioni dei verbi, dalle preposizioni e da certe congiunzioni. L' esercizio naturale col quale s' insegna al fanciullo la lingua, dovrebbe essere ordinato secondo le seguenti regole: 1 Tutto ciò che si parla al fanciullo, come si disse, non dovrebbe superare la portata del suo sviluppo. 2 Non dovrebbe udire il fanciullo, se non una lingua perfetta, parole proprie ed acconce, ottima pronuncia e soprattutto con esatta ortografia. 3 Chi parla al fanciullo dovrebbe parlargli con forme e atteggiamenti di dignità e virtù. Se così si facesse, il fanciullo guadagnerebbe un tempo immenso: nè solo si accelererebbe il suo sviluppo intellettuale, ma ben anco si porrebbero i fondamenti della sua buona riuscita morale. In Italia, noi dobbiamo perdere un tempo prezioso per disimparare nelle scuole quella lingua, che abbiamo appresa nelle nostre case; dopo ciò ancora non appariamo bene l' italiana favella sì perchè l' imbratto del vernacolo che ci ha lordati fin da bambini, e divenuto a noi naturale, difficilmente si può più tergere dal nostro spirito intieramente, e sì perchè i nostri stessi maestri, ai quali la lingua buona è arte e la cattiva natura, non possono darci quel che non hanno. La sola ortografia ci fa logorare gran tempo ad apprenderla; e pure noi la potremmo aver tutta viva negli orecchi, quando fossimo stati avvezzi fino da bambinelli a udir battere colla lingua da chi ci parlava i raddoppiamenti delle lettere dove van posti. Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni preziosissime alle morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte del mondo, se l' Italia divenisse tutta d' una sola favella! Che divisioni fra suoi popoli con ciò solo non si torrebbero! Che maggior fratellanza non crescerebbe tra noi! Che aumento alla carità della patria comune! Laonde mi fa maraviglia come nelle grandi famiglie, in cui si vuol pure dare a' figliuoli la più fina educazione, non si pensi a far sì che succhino, per così dire, col latte una favella pura e nobile, e che le infantili orecchie non odano se non cose buone dette egregiamente. Tale dovrebbe essere il privilegio dei più ricchi; non quello di sdegnare che i loro figliuoli usino alle pubbliche scuole, ma quello che vengano a queste scuole più ben disposti, più sviluppati degli altri, e già in possesso di quella lingua che gli altri debbono faticare ad apprendere. Quanto giustamente in tal modo la sapienza de' genitori, unita a' loro mezzi, otterrebbe il primato nelle scuole a' loro figliuoli! E a questi sopravanzerebbe poi sempre gran tempo, nel quale apprendere una moltitudine di cognizioni assai utili che conserverebbe loro un posto di giusta superiorità agli altri lor simili. E per dire una parola anco dell' esercizio artificiale della lingua da farsi fare al fanciullo, oltre il doversi egli avvertire d' ogni cosa che non dica rettamente, dovrebbe consistere in questa sua età unicamente a fargli apprendere quanto più estesamente sia possibile la materia della lingua. Quanto alla forma della lingua egli non è ancora da ciò; perocchè la forma della lingua, cioè la grammatica, esige delle intellezioni d' un ordine molto superiore al secondo. Ma quanto alla materia, conviene insegnargli a nominar bene tutte le cose, e prima quelle che s' ha d' attorno, poscia le più lontane; onde acquisterà grande ricchezza di favella e perciò stesso grande facilità e proprietà di parlare, che è quanto dire di pensare, e a suo tempo anche di scrivere. A quest' uso può servire grandemente il « Manuale di scuola preparatoria » ed altri libri fatti sullo stesso pensiero. Quest' è dunque il tempo nel quale si può esercitare il giovane a distinguere coi loro nomi tutte le cose sensibili. Il nome , questa è la parte fondamentale della lingua: gli esercizi non si possono ancora stendere ai verbi se non agl' infiniti ed ai participŒ che sono veri nomi che segnano i primi l' azione e i secondi l' agente (1). E qui cade in acconcio tornare a dire alcuna cosa sull' ordine delle astrazioni, per le quali si dee condurre la mente del fanciullo. Vi sono molte astrazioni innominate. A queste non si deve pensar di condurre la mente del fanciullo, perocchè non si può aiutarla col linguaggio, e non avendo in questo dei nomi, è segno manifesto che i popoli non hanno stimato necessario che fossero nominate; come pure è segno che son di quelle che si sottraggono alla osservazione. Ma tra gli astratti nominati dal linguaggio ve ne sono di varia maniera: alcuni sono astratti d' astratti: questi non sono acconci alla mente del nostro fanciullo, che non è arrivata più su dei primi astratti: il nostro fanciullo non potrebbe mai intendere il significato della parola legge, giustizia ecc.. Gli astratti adunque, a cui il nostro fanciullo arriva, sono quelli somministrati dalle cose sensibili. Ma le cose sensibili stesse sono nominate con varŒ nomi comuni indicanti diverso grado di astrazione. I nomi più comuni nominano le cose per un elemento comune a maggior numero di oggetti, e i nomi meno comuni nominano le cose stesse per un elemento comune a minor numero di oggetti: quelli dunque contengono un' astrazione maggiore di questi. Per esempio, volendo nominare un cavallo io posso nominarlo in tre modi, dicendo « questa cosa; questo animale; questo cavallo ». Io gli applico tre nomi che egualmente ben si affanno a quell' oggetto; ma quando gli applico il nome di cosa , io l' appello con un nome comune a un maggior numero di oggetti, che non sia quando gli applico il nome di animale ; e applicandogli quest' ultimo io l' appello con un nome più comune di quello di cavallo . E ciò non ostante il nome cavallo è ancor comune e non proprio: indica un' astrazione, che ha per fondamento la specie astratta , sotto la quale sarebbe un altro astratto, che non ha nome (la specie piena imperfetta), o più altri (1), prima di venire al nome proprio, per esempio, a quello di Rondello, di Vegliantino o di Brigliadoro. Domandasi adunque, se negli esercizŒ artificiali da farsi fare al fanciullo sia più consentaneo alla natura il fargli nominare le cose prima per li nomi più comuni e poi per li meno comuni o viceversa? Noi abbiamo già dichiarato più sopra il nostro sentimento che qui vogliamo rinforzare e chiarire con alcune osservazioni. Ma prima si noti bene, che qui non parlasi degli esercizŒ naturali del parlare, che in questi non devesi attendere ad altro ordine, che a quello del bisogno, che presentano naturalmente le circostanze. In secondo luogo si rifletta, che il nome quant' è più comune, e perciò l' idea più generale, tanto più facilmente si apprende dal fanciullo. Per convincersene basta osservare, come il fanciullo e il volgo, cioè la parte degli uomini meno sviluppata, soglia chiamare gli oggetti co' vocaboli i più comuni, dicendo questa cosa , quella cosa ecc. per dire: questo balocco, quel carruccio, quel giubbone ecc.. Nelle lingue antiche l' uso dei nomi generici, invece che degli specifici, è più frequente che nelle nostre, appunto perchè il mondo antico era meno sviluppato del moderno. Osservisi solamente nella lingua latina, quant' uso solevasi fare della parola res : ella s' applicava a tutto (2). Un' altra osservazione ci convincerà del medesimo. Perchè è un pregio così difficile e così lodato la proprietà dello stile? Perchè è difficile il nominare le cose col vocabolo significante la specie più stretta, e si suole, il più, nominarle largamente col genere. Si dirà forse, che la maggior facilità, che hanno i bambini d' apprendere e di usare i nomi più comuni nasce, perchè questi s' applicano a un maggior numero di oggetti, e però più frequentemente sono da loro uditi. - Ma riman sempre a domandare, perchè si faccia dagli adulti stessi un uso sì frequente de' nomi generici, quando fosse loro più facile l' usare gli specifici, che certamente sono più propri e più acconci al ben favellare? Egli è adunque certo, che più le idee sono generali, più la mente umana le trova a sè conformi e famigliari, purchè però si tratti degli astratti immediati, cioè di quelli, che segnano un elemento comune delle cose sensibili, che vengono da noi percepite. Non sarebbe il medesimo, quando si parlasse di quegli astratti che si formano con una operazione della mente eseguita sopra precedenti astrazioni, e che noi abbiamo detto astratti di astratti (1). Il discendere adunque nel nominare le cose dal nome più generale al meno è un esercizio utilissimo al fanciullo: percorsa molte volte questa scala in varŒ generi di cose, le idee si trovano nella sua mente ordinate; egli ha ricevuta una materia acconcissima alle susseguenti sue riflessioni: la sua mente riesce giusta e logica. Ma conviene osservare le avvertenze sopraindicate; e oltre quelle alcune altre: eccone un cenno. Converrebbe che l' educatore avesse una tavola delle classi più o meno estese, nelle quali si possono dividere le cose tutte concepite: questa dovrebbe essere il fondamento della sua logica: ne porremo qui uno schema: [...OMISSIS...] All' esercizio di cui parliamo non appartengono i nomi indicanti le idee elementari dell' essere (benchè de' più facili) nè quegli indicanti le categorie, nè quelli esprimenti de' generi mentali o nominali: ma solo i vocaboli significanti l' universale, i generi reali, le specie astratte , e le semi7astratte , come pure i sussistenti (nomi proprii). Ora, poichè le specie semi7astratte possono essere innumerabili, rimane a vedere qual norma si deve stabilire per scegliere le più acconce al fanciullo. Qui non vi ha dubbio, che la norma consiste « nello scegliere quelle, che più interessano il fanciullo », e più l' interessano quelle, che hanno più relazione co' suoi bisogni e istinti, e che prima e più vivamente colpiscono i suoi sensi esterni. Conviene dunque, che l' educatore sottilmente consideri lo sviluppo di questi bisogni e istinti del fanciullo e la priorità e la vivacità delle sensazioni, affin di vedere quali sieno quelle qualità accidentali, che più interessino nelle cose il fanciullo; e che secondo una tale gradazione meni per mano la mente del giovanetto a conoscere in ciascuna cosa le specie semi7astratte. E di più conviene osservare, che queste semi7astrazioni devono essere operate non sulle cose, ma sui concetti delle cose, che stanno nella mente del fanciullo: altramente nulla egli ne intenderà. Ora i concetti, che delle cose si forma il fanciullo sono in se stessi giusti (sbagliando solo nell' applicar loro le parole) ma imperfetti; e però si vanno successivamente rimutando e perfezionando. Per esempio: il fanciullo da principio si forma il concetto del vegetabile dal vederlo piantato in terra, dal color verde, dalla forma più comune delle piante, dalla freschezza e umidità delle foglie, ecc.: tutto ciò non è il concetto d' un filosofo, nè si deve pretendere. Devesi dunque prendere quel concetto infantile o per dir meglio proprio di ciascuna età, e rattaccare ad esso la classificazione de' vegetabili. L' astratto specifico del vegetabile per la mente del nostro infante sarà dunque « ciò che è piantato in terra e che cresce ». L' astratto specifico all' incontro del vegetabile stesso per la mente del filosofo sarà « un corpo organizzato privo di senso e di contrattilità, che si sviluppa da un germe ammettendo e assimilando a se, date le esterne condizioni opportune, delle molecole straniere ». Or la classificazione de' vegetali, per la quale si deve far correre la mente del fanciullo, non deve mica essere concepita su questa definizione, che il fanciullo non può conoscere, ma deve essere foggiata sul concetto proprio della mente del fanciullo. Laonde se si classificassero le piante da' semi e germi, non sarebbe questa maniera opportuna; non vuolsi classificar ciò che germina , ma semplicemente ciò, che è piantato in terra e cresce . Di più le qualità astratte, che fondano le classi diverse, devono essere tali, che non pur non trapassino l' ordine delle intellezioni, al quale trovasi a gioco la mente del fanciullo, ma s' abbiano anche in sè lo stimolo , che possa scuotere e tirare la sua attenzione; che è la seconda condizione richiesta, come dicevamo, acciocchè il fanciullo possa intendere quello che noi gli vogliamo insegnare. Il quale stimolo nel caso nostro sono i caratteri sensibili, e tra questi i più grossi e appariscenti: caratteri stampati nel suo senso, nella sua imaginazione, nella sua memoria. I quali caratteri consistenti in qualità sensibili avvicinano il concetto astratto al concetto pieno (universale, non astratto); e però formano quelli, che noi chiamiamo semi7astratti, che sono acconcissimi alle menti de' fanciulli. Tutta la classificazione delle rose che noi abbiamo già recata in esempio è fondata in questi semi7astratti, cioè non è che una classificazione, che ha per idea massima un' idea specifica7semi7astratta (l' idea specifica della rosa). Che anzi se ben si considera tutte le classificazioni, che si possono fare delle cose insensitive (il che è quanto dire tutte le fisiche discipline) hanno per idea massima un' idea specifica astratta, cioè l' idea della sostanza corporea. Tutta l' infinita scala di suddivisioni della sostanza corporea non è che una scala d' idee specifiche semi7astratte, che discende fino al primo gradino, che è l' idea piena (idea dell' individuo universale, ma non astratto), col quale finisce il mondo ideale. Fuori al tutto di esso rimane la sussistenza delle cose, che costituisce il mondo reale. Di che si può conchiudere, che l' ordine, col quale si deve procedere col fanciullo nominando le cose co' nomi più e meno comuni, risguarda, la maggior parte, quella classificazione che dall' idea specifica astratta discende per le semi7astratte fino al sussistente. Una delle cose difficili, che al senno dell' educatore spetta di determinare si è « che cosa in ciascuna età il fanciullo faccia da se stesso e che cosa deva fare l' educatore intorno a lui ». Egli è certo, che la natura nel bambino ha un' azione benefica, la quale deve rispettare l' educatore e ben guardarsi dall' interrompere o dal turbarla. Ora, ella è cosa veramente ardua il conoscere quest' azione della natura e la sapienza dei suoi fini, e pochi sono quelli, che sentano intimamente con quanta religione quest' azione voglia essere rispettata. Si vuole sempre far troppo; la nostra presunzione ci conduce a formarci delle opinioni con precipitazione; e sicuri di noi stessi crediamo di potere con tutta facilità far meglio, che la natura stessa non faccia, insegnare e emendare a bacchetta questa gran madre. La natura che opera nel fanciullo produce incessantemente colle spontanee sue operazioni calma, seremntà, ordine, sviluppo ordinato di tutte le facoltà . A ottenere questi effetti, di cui essa natura ha il segreto, assai sovente è corto l' intendimento dell' educatore; e colla sua azione positiva ottiene il contrario, cioè agitazione, turbazione, disordine, ravviluppo, confusione negli atti delle facoltà, le quali l' una sull' altra s' impediscono e offendono. Questa considerazione importante somministra delle regole generali d' educazione infantile: eccone alcune che, quantunque già note, pur non sono mai abbastanza ripetute. 1 Non toccare il bambino, quando trovasi tranquillo e contento nel suo stato. 2 Per evitare, che sia sturbato nella sua serenità, farlo conversare più colle cose, che colle persone; giacchè quelle prime non sono indiscrete e non intervengono a mutare e alterare l' azione naturale del bambino, come sogliono far queste. 3 Le persone accorrano ad aiutare il bambino, quando è stanco delle cose. 4 Le persone, che trattano il bambino, sieno sinceramente cordiali e benevole (1). 5 Non agitino troppo il bambino nè fisicamente, nè moralmente con troppe carezze o eccitandolo a soverchia gioia; piuttosto lascino che egli giochi con cose passive anzichè attive. Non so se la regola d' educazione inglese di parlar sempre basso a' bambini sia bona. Vedo, che la voce bassa è meno eccitante; ma parmi, che il principio di non sturbare e urtare il bambino sia di soverchio applicato, parmi che si voglia andar al di là della natura stessa in questa parte. Io credo all' incontro, che sarebbe utilissimo l' osservare quest' altre regole « fare in modo che il fanciullo udisse sempre a parlare con voce dolce, ben intonata e ben modulata, trascorra pure per tutti i tuoni ». La voce del fanciullo è fatta acuta da natura, perchè dovrà nuocergli il tuono alto? E` l' aspro, l' ingrato, il falso, lo scordato, il troppo forte che può turbarlo e distrarlo e inasprirlo: non il tuono naturale e mediocre, qualunque egli sia. Anzi io credo dover essere al fanciullo vantaggioso esercizio, come ho toccato innanzi, fargli udire tutti i suoni per ordine, e ordinatamente le loro consonanze. Egli è però certo, che tutta l' educazione non deve essere negativa: l' educatore o l' educatrice deve intervenire anche positivamente. Primieramente tutti quelli, che non vogliono adulare la natura umana, la riconoscono in parte difettosa: ella manifesta assai per tempo delle disposizioni maligne. Di poi la volontà dell' uomo da prima si piega spontaneamente dietro le disposizioni naturali benigne e maligne, onde mostra anch' ella un misto di bene e di male. Non v' ha dubbio, che l' arte deve accorrere ad emendare i difetti della natura e della volontà: a prevenirli: ad allontanare le tentazioni: ad avvicinare le occasioni della virtù. La divina Providenza col far nascere l' uomo nel seno della società, lo consegna a' suoi simili, acciocchè essi lo aiutino nella sua debolezza, dirigano nella ignoranza, correggano nelle sue difettose tendenze. Non vi ha dunque dubbio, che l' educazione deve avere la sua parte positiva; ma qual è questa parte, quanto ella si estende? Qual è la parte positiva dell' educazione in ciascuna delle età dell' uomo? Ecco de' nuovi problemi d' immensa difficoltà a risolversi: de' problemi, che nella pratica ricevono infinite diverse soluzioni secondo le circostanze dell' allievo, circostanze esse stesse difficili a raccogliersi e certificarsi. Si può dire in generale, che la parte positiva dell' educazione intellettuale e morale deve essere minima nella prima età e venirsi estendendo sempre più nelle età successive: ma quale è la legge, secondo la quale si rende sempre maggiore la parte positiva? In una parola quali sono i suoi confini nelle singole età? Ecco ciò che, moltiplicandosi le esperienze e le osservazioni, le quali grazie al cielo si cominciano già a fare (ed è pur tempo, che si tolga ad applicare alla pedagogia l' arte dell' osservare e dell' esperimentare), si potrà giungere a determinare. Intanto contentandoci noi d' additarne la via (perchè di più confessiamo ingenuamente di non sapere), porremo innanzi un principio evidente da se stesso e su questo poi condurremo il ragionamento. Adunque, evidente cosa è, che non si deve pretendere o esigere dal fanciullo l' impossibile, ma ciò solamente, ch' egli può dare. Convien dunque sapere, che cosa il fanciullo possa dare in ciascuna età: ecco il difficile a determinare. Il signor Naville conobbe che qui stava il nodo della questione, trattandosi di educare le facoltà intellettive del fanciullo (1); ma la stessa questione va ugualmente applicata alle facoltà attive e morali. Devesi sempre sapere che cosa possiamo pretendere, che il fanciullo ci dia colla sua volontà, e non esigere da lui di più, ciò che sarebbe ingiustizia. Ora quanto all' intendimento, tutto lo scopo di quest' opera mira a determinare con precisione i passi che fa l' intendimento del fanciullo, affine di venire a conoscere che cosa in ogni età si possa da lui pretendere. La volontà poi tiene dietro ne' suoi passi all' intendimento. Sarebbe dunque cosa irragionevole il pretendere dal fanciullo, che egli volesse un bene che ancor non conosce; o fuggisse un male che pure non conosce. E pure è questo che si pretende il più delle volte dagli educatori: questi vogliono che il fanciullo pensi come essi, che voglia come essi, operi come essi; o per dir meglio vogliono che il fanciullo pensi, voglia, e operi com' essi veggono che si deve pensare, volere, e operare. L' ingiustizia di codesti educatori nasce dalla loro ignoranza. Essi si sono fatte delle regole di operare, e pretendono, che il bambino abbia le stesse regole. Quando non possono pretendere ciò per l' enormità dell' assurdo, allora tutt' al più si riducono a dire, che il bambino non ha punto regole di operare, perchè non è ancora arrivato all' uso della ragione. Così vanno da un estremo all' altro. E infatti il bambino non ha certo le regole di operare dell' adulto, e il pretenderlo è una grossolana ingiustizia. Ma è parimenti un errore il supporre, che il bambino sia sfornito al tutto di regole . Egli ha le sue; e convien dirigerlo non colle nostre ma colle sue. Vero è ch' egli mostra di nulla intendere quando gli proponiamo le regole nostre; ma s' indurrebbe da questo a torto l' assenza di regole nella sua mente: è nostro il torto che non le conosciamo, che non le sappiamo in lui osservare e rilevare: egli non le ha certo in forma astratta; ma ben presto la sua mente gli porge tali regole, la formazione delle quali è ciò che dovrebbe fare l' oggetto dello studio dei pedagogici; ed è ciò in pari tempo che fu fin qui al tutto dimenticato: non si sospettò neppure che tali regole si formassero nelle prime età dell' infanzia. Già abbiamo veduto, che fino dal primo ordine delle sue intellezioni il bambino percepisce l' essere sensitivo e intelligente; come pure percepisce l' oggetto bello agli occhi suoi. Ecco qua la culla delle due prime norme del suo operare: dietro a queste norme dirige le sue affezioni: l' essere sensitivo7intellettivo è tosto da lui amato, l' oggetto bello è da lui ammirato. Egli distribuisce adunque la sua benevolenza e la sua ammirazione dietro a' primi lumi del suo intendimento: l' atto morale nasce incontanente dietro l' atto intellettivo. Gioverà qui anco osservare che questi due effetti della ammirazione e della benevolenza sono meno distinti nel bambino che non paia. Infatti ciò che egli ama propriamente si è il bello; è quello che egli ammira . L' ammira e perciò l' ama: l' ammirazione è quella prima stima, nella quale ha sua culla l' amore. Accordo bene che egli trova una reale differenza tra il volto di sua madre, e un bottone che luce; ma questa differenza non è reale e specifica, se non nella supposizione da noi fatta, che v' abbia qualche operazione delle anime fra di loro, mediante i corpi animati. Per altro noi già vedemmo, che il bambino dà l' anima anche al bottone che luce e a tutte le cose; e però non solo ammira, ma ama anche il bottone. Tanto è vero, che il fanciullo ama ciò che prima ammira, che nella lingua infantile bello significa lo stesso che amabile; e brutto significa lo stesso che disamabile. Queste due parole hanno un' estesissima significazione presso i fanciullini. Lo stesso rimane provato dall' osservazione già fatta prima d' ora, che la compassione ne' bambini si spiega verso le cose belle agli occhi loro, e il loro cuore indurisce, ove si tratti di cose che loro sembrano deformi (1). Nella seconda età le norme dietro le quali il bambino dirige i suoi affetti prendono per lui un' altra forma. Avendo sonato a' suoi orecchi le voci di bello e di brutto, di bene e di male ecc.; egli non segue più co' suoi affetti i soli oggetti buoni e belli, ma già un qualche tipo di bontà e di bellezza si è formato nella sua mente, egli vagheggia quest' astrazione, egli per essa intende e pone amore anco a degli oggetti buoni e belli assenti, li desidera, impara a cercarli; e il contrario si dica dei cattivi. Vero è, che questa sua regola astratta, questo primo tipo del bene è ancor prossimo all' oggetto: da prima non è che il suono del vocabolo associato a diversi oggetti, della cui percezione ha memoria, e di cui ritien l' imagine, ma un po' alla volta diventa una vera idea semi7astratta; cioè composta dalle idee imaginali degli oggetti veduti. Quest' idea semi7astratta, tipo della bellezza e della bontà, è la più prossima delle idee dopo le imaginali agli oggetti: è con una regola così vicina, che non ha che a fare un passo per giungere all' oggetto. Quindi gli affetti, che sono da essa diretti, ritengono ancor molto del primo foco, dell' originale impetuosità de' primissimi (1). Nè il bambino mette fin qui in gioco molti mezzi per giungere all' oggetto bramato, ma si slancia direttamente verso di quello. Or questo tipo ideale del bene, che il fanciullo si forma già fino dal secondo ordine delle sue intellezioni, questa regola del suo operare è diversa in quanto alla forma dalla regola presentatagli dalla natura stessa durante il primo ordine delle sue intellezioni; ma nel fondo è la medesima. Era il bello e il buono ciò, che il fanciullo ammirava e amava, tanto nell' un tempo che nell' altro; ma prima amava e ammirava gli oggetti belli e buoni; dipoi cominciò ad amare il bello e il buono negli oggetti. Il bello e il buono si presentò in novella forma alla sua cognizione: ma la volontà ebbe sempre a suo scopo l' oggetto stesso. Ora questo stesso oggetto, questo buono e questo bello, che forma l' oggetto de' primi affetti del neonato, continua ad esser pure l' oggetto costante degli affetti umani in tutta la vita dell' uomo, nel tempo del suo maggior vigore e sviluppo intellettuale, e quando invecchiando declinano le sue facoltà; egli è l' oggetto, a cui l' uomo volge l' ultimo sospiro morendo e che spera di rinvenire nella eternità. Ma se nel suo fondo l' oggetto è identico, non è identico però il modo, nel quale l' uomo lo concepisce; e quindi gli atti della volontà si modificano anche essi a tenore della forma, nella quale l' intendimento le presenta il bello ed il buono. Questa forma emigra in ogni ordine d' intellezioni. Ma come, oltre quel progresso, che consiste nel passaggio da una intellezione all' altra, avvi un progresso, che si fa entro ciascun ordine d' intellezioni, il qual secondo progresso esige pure non poco tempo; così anco il tipo del bene regolatore della volontà conserva la forza propria d' un dato ordine d' intellezioni, si amplifica e si perfeziona. Il seguire queste mutazioni di forma d' un ordine all' altro, come pure i gradi di perfezione entro l' ordine stesso, è l' arduo lavoro proposto alla meditazione degli istitutori della gioventù. Perocchè questi devono in ogni età del fanciullo servirsi di quel tipo che egli ha in mente, per guidarlo sulla strada della virtù: ed è questo, che essi possono e devono esigere da lui nè più nè meno, ch' egli sia virtuoso secondo quella regola di virtù, che in lui si trova formata dalla natura e non secondo un' altra. Il non esigere dal tenero fanciullo nessuna pratica di virtù è lassismo pedagogico, che nasce da ignoranza; l' esigere che il fanciullo sia virtuoso secondo una regola, che egli ancor non vede, è un rigorismo, un assurdo, una tirannia pedagogica: questa trae dietro di sè la violenza, il mal umore, l' ira cieca del precettore, la sola cosa che impari da lui lo sgraziato discepolo. Il fanciullo devesi dunque sempre considerare come un essere morale, perchè è sempre tale, ma devesi investigare in pari tempo qual sia in ciascuna sua età la forma e la natura della sua moralità: e questo è quel segreto, che non si rapisce alla natura fanciullesca, se non con immensi studi, lunghe osservazioni e profonde meditazioni. Giunti noi al second' ordine d' intellezioni del bambino, abbiamo anco indicato qual possa essere la forma della sua moralità. Egli ha un' idea del bene già divisa dagli oggetti sussistenti, benchè questi or l' uno or l' altro s' associno continuamente ad essa. Quest' idea non solo è divisa dagli oggetti sussistenti, come sono tutte le idee imaginali, ma essa differisce anche da queste. Perocchè le idee imaginali fanno conoscere l' oggetto fedelmente tal quale egli apparì ai sensi; ma l' idea del bene non esprime le parti indifferenti e male dell' oggetto, ma solamente l' elemento buono; come l' idea del male, lasciate pure le parti indifferenti o buone dell' oggetto, non ritiene che l' elemento malo. Quest' idea del bene o del male non è adunque solamente universale, come sono tutte le idee imaginali; ma ell' ha anco dell' astratto in quanto che non richiama l' attenzione se non ad una determinazione, ad una qualità sola dell' oggetto, lasciate le altre. Ma che cosa è il bene e che cosa è il male per un bambino, il quale non eccede nel suo sviluppo il second' ordine d' intellezioni? L' astrazione, che ha esercitata questo fanciullo per giungere a formarsi quelle sue idee di bene e di male, non la potè esercitare se non sulle percezioni delle cose sensibili e sulle loro idee imaginali: perocchè non vi era altro nel suo spirito, che fosse idoneo a trarre a sè l' attenzione. Il linguaggio pure, che gli fu strumento ad eseguire questa grand' opera d' estrarre dagli oggetti percepiti, imaginati, ideati l' elemento buono e il cattivo, guidò sempre la sua attenzione agli oggetti sensibili, perocchè fu di questi, che sentì dirsi dalla madre o dalla nutrice « questo è buono, questo non è buono, questo è malo ». Il bene ed il male adunque, di cui ha l' idea il nostro bambino, è un bene ed un male presentatogli dai sensi. Questo bene e questo male ha in sè un elemento soggettivo ed un elemento oggettivo . L' elemento oggettivo appartiene all' intelletto, ed è quel bello e quell' ammirato, che ammira ed ama tanto il fanciullo. Come ho detto, pare, che l' osservazione più accurata dimostri, che il fanciullo da principio giudichi tutto animato. Ma questo giudizio, col quale il fanciullo giudica animata ogni cosa, non si deve confondere colla congettura che ho fatto di sopra, cioè, che ciò che è veramente animato eserciti sul fanciullo un' azione veniente dall' anima, benchè per mezzo del corpo e fondentesi sull' altr' anima, benchè pure per mezzo del corpo. Se quest' azione, a cui finora i filosofi non hanno fatto attenzione, è un fatto che si verifichi ed accerti, l' effetto di quest' azione nel bambino è un sentimento , e non dee confondersi col giudizio , che fa il fanciullo stesso. Questo può essere erroneo; il sentimento è sempre reale; il fanciullo può operare dietro il sentimento e dietro il giudizio . Il sentimento , fin che non viene percepito dall' intelletto, non ha che una esistenza soggettiva. Vi avrebbe dunque nel bene percepito dal fanciullo un elemento soggettivo doppio, cioè la sensazione corporea e il sentimento animastico . Trovata così l' analisi del bene del fanciullo nasce la domanda, se nell' idea che il fanciullo si fa del bene entri non meno l' elemento oggettivo che il doppio elemento soggettivo. Questa domanda è importante per lo scopo di determinare qual sia lo stato della mente e dell' anima del nostro bambino rispetto al bene. A rispondervi conviene richiamarci alla mente due principii da noi posti: 1 Che i primi stimoli che tirano a sè l' attenzione del bambino sono gli esterni; verso gli esterni oggetti ella va sempre spontanea e non si ripiega sul soggetto se non tardi, costrettavi da cause speciali. 2 Che nelle prime percezioni il soggetto intellettivo non fa che affermare un' entità, ma non le qualità o determinazioni di quelle entità, le quali determinazioni s' appaga d' averle nel sentimento; e sol dopo, un po' alla volta, secondo i bisogni che il movono, egli posa la sua attenzione anche sulle determinazioni sensibili dell' ente. Ora egli è certo che trattandosi di formarsi un' idea di bene, è necessario che quest' idea sia preceduta da delle percezioni del bene; perocchè ogni idea di bene è idea7concetto (1). Le percezioni adunque su cui vien lavorata l' idea del bene (per quantunque questa sia imperfetta) non debbono essere delle pure percezioni, nelle quali si afferma solo l' essere, ma delle percezioni già alquanto perfezionate, in cui si afferma ancora il bene. Ma l' affermare il bene, l' affermare un ente buono è affermare un oggetto; e l' affermare un oggetto senza più è operazione infinitamente più facile e più spontanea allo spirito che non sia l' affermare sè soggetto, cangiando così il soggetto in oggetto dell' intelletto. Fino a questa terza età niente può spingere l' uomo a far prendere alla propria attività un giro così opposto al naturale, niente ricaccia quell' attività intellettiva che ha preso a moversi in linea retta, la ricaccia, dico, indietro sui suoi passi, la fa ricadere sopra se stessa, nel seno di quel soggetto da cui emana. Noi parleremo più innanzi della cognizion di noi stessi e mostreremo quanto tardi ella si manifesti nel bambino. Non avendo adunque il bambino ancora di se stesso notizia, egli non può attribuire a sè l' elemento soggettivo. Ma posto ciò, non potrà egli tuttavia percepirlo? Egli lo percepisce certamente, altramente non potrebbe estrarre l' idea del bene dalla percezione; ma egli non lo riconosce come soggettivo ; lo percepisce come un semplice oggetto . Di qui avviene che gli stessi suoi piaceri, i suoi stessi dolori, che in quanto sono sentimenti esistono nel soggetto in quanto sono osservati e percepiti dall' intendimento del bambino sono oggetti, sono qualità e proprietà degli enti reali che l' intelletto suo percepisce. Onde tutti gli affetti di ammirazione e di benevolenza, di abborrimento e di odio che si manifestano nel bambino non risguardano già i propri piaceri e i propri dolori; ma risguardano gli oggetti piacevoli e i dolorosi: egli vede in questi la sede di quel piacere e di quel dolore che esperimenta. Sebbene adunque ciò che sente il bambino sia in lui pel senso; tuttavia ciò che sente è fuori di lui per l' intelletto; e vi vuole un lungo tempo prima che l' intelletto restituisca al soggetto i suoi piaceri. Quello poi che nasce de' piaceri e de' dolori nasce ugualmente di tutte le sensazioni che l' uomo ha mediante gli organi esterni. L' intelletto che ha per legge di concepire ogni cosa oggettivamente, vede le prime sensazioni, cioè il colore, il sapore, l' odore ecc. negli oggetti da lui affermati colla prima sua percezione, affermati con questa percezione in conseguenza della azione esercitata da essi nel suo senso. Tale è la ragione onde il comune degli uomini risguarda come qualità de' corpi le accennate modificazioni del proprio sentimento, e convien che intervenga una profonda ed assidua meditazione filosofica per disingannarli a pieno, e spogliare le forze esterne delle vesti usurpate, di cui si coprirono fino dalla nostra infanzia, si abbellirono, e per così dire rimpolparono e rinsanguinarono. E veramente quelle forze denudate in tal modo dall' inesorabile pensiero del filosofo si rimangono aridi scheletri, e quasi volevo dire tenui, impercettibili spiriti e nulla più. Da queste osservazioni nasce la singolare conseguenza, che il bambino, che nel suo essere di animale opera al tutto soggettivamente, nel suo essere di uomo cominci ad operare dietro a de' motivi oggettivi, assai prima che il suo intelletto e la sua volontà conosca ed ami ciò che è soggettivo, ciò che si riferisce a sè stesso. Perchè le cose stesse sensibili, che al soggetto propriamente appartengono, quella piccola intelligenza non le vede come tali, ma come altrettanti oggetti li contempla e li ama o li abborrisce. Quindi fu giustamente osservato ne' bambini un mirabile disinteresse anche in quelle cose che fanno tratti dal piacere e dal dolore; ed a torto si pretende da alcuni incapaci di osservare la natura umana, che l' amor proprio sia il primo degli affetti che si manifesta (1). Un' autrice, che noi abbiamo citata sovente, con gran finezza dice che il bambino [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo raccogliere da tutto ciò qual sia la virtù morale del bambino, diciamo che questa consiste tutta nella sua benevolenza, perchè questa benevolenza è oggettiva e però imparziale, fornita di disinteresse, preceduta dalla stima dell' oggetto da lui amato: insomma è quella benevolenza stessa, a cui si riduce finalmente la virtù dell' uomo in qualsiasi altra età, perocchè esser buono è lo stesso che amare (1). Di qui si scorge che la differenza della virtù del bambino e di quella dell' adulto (prescidendo dal merito) non istà nell' essere l' una benevolenza e l' altra no: chè l' una e l' altra è ugualmente benevolenza; ma consiste nell' oggetto diverso di questa benevolenza: perocchè l' oggetto della benevolenza si amplifica in ragione dell' età e del progresso della cognizione. Ora, oggetto della benevolenza, lo dicemmo già, non è che il bene. Qual è dunque il bene che può esser noto al bambino non arrivato più in là del second' ordine delle sue intellezioni? Se queste intellezioni non han per oggetto che le cose sensibili, egli è chiaro che egli amerà ciò che i suoi sensi gli rappresentano come bello e come amabile, il cibo, la luce, il volto ridente d' un altro essere umano: questi e somiglianti sono gli elementi da cui trae quel concetto di bene, che dirige poscia tutti i suoi affetti. Egli dunque ritrova e riconosce il bene in tutto ciò, da cui gli vengono delle sensazioni aggradevoli, e tutto ciò l' ama con effusione di cuore imparzialmente. Ecco la sua regola morale: non è certamente la nostra, ma ella è vera per lui, è l' unica che egli possa avere: se noi non lo disturbiamo ne' suoi interni movimenti, egli la segue con semplicità e con ogni fedeltà: egli è giusto ne' suoi atti benchè non lo sappia: la sua moralità già esiste, quantunque non se ne sia formato ancora alcuna coscienza. Il bambino che giunge col suo intendimento alle intellezioni di second' ordine potrebbe guastare la sua moralità in due modi: 1 Formandosi delle regole false del bene e del male; 2 Non dirigendo i suoi affetti e le sue operazioni fedelmente a seconda delle regole del bene e del male ch' egli si è rettamente fatte. Supponendo che il fanciullo operasse da se stesso senza l' influenza d' altre persone, egli non potrebbe formarsi delle regole false, se non a condizione che nelle sue prime percezioni apprendesse gli oggetti buoni per cattivi, e gli oggetti cattivi per buoni: conciossiachè è da queste sue percezioni, ch' egli trae poscia i concetti del bene e del male, che gli servon di regola. Ora questo è impossibile: conciossiachè le percezioni seguono le sensazioni, e queste non ricevono in sè errore (1). Ma il bambino non fa tutto questo da se stesso: i concetti sono astrazioni e però egli se li forma coll' uso del linguaggio che riceve dalla società. Egli è vero che chi gli parla da principio non può ingannarlo del tutto; perocchè se gli si dicesse sempre che è bene quello che i suoi sensi gli presentano per male, egli finirebbe col persuadersi che il vocabolo bene significasse male, e che il vocabolo male significasse bene; il che non sarebbe errore di cosa, ma sol mutazione di vocaboli. Ma se nel primo imparar della lingua il bambino non può essere ingannato, perchè non potrà egli sottostare all' inganno tosto che ha già conosciuto alcuni vocaboli? Poniamo che al vocabolo bene aggiunga pure il significato d' un giusto concetto (benchè sempre ristretto agli elementi del bene de' quali egli ha sperienza): e lo stesso dicasi del vocabolo male . Ora non può egli cominciare qui tosto a soggiacere alle altrui delusioni? (1) Se altri gli dice che è male quello che è bene, quando egli già intende il vocabolo male, non finirà egli a persuadersi che l' oggetto di cui gli si parla è male? Il suo senso gli dice il contrario: sia pure: ma in questa età è egli vero che creda solo al proprio senso, alla esperienza propria? Egli è certo che oltre le facoltà del senso e dell' intelligenza si risveglia assai per tempo nel bambino la facoltà della persuasione (2) di cui una funzione è la credenza volontaria, la volontaria adesione a ciò che altri ci afferma. Non solo noi possiamo credere arbitrariamente a ciò che altri ci dice, ma noi n' abbiamo altresì l' inclinazione, ed è principalmente per questa inclinazione che riescono tanto dannosi a' fanciulli i mali discorsi: fossero questi anco di cose prave, a cui il fanciullo non sente ancora alcun malo eccitamento, egli tuttavia con facilità vi aderisce pel solo bisogno di credere, di uniformarsi all' altrui sentimento. Ora una tale tendenza già si manifesta assai visibilmente nel bambino il più tenero, ed ella anzi lo aiuta mirabilmente ad apprendere con facilità il linguaggio materno. Di qui ne viene la conseguenza, che la veracità nelle educatrici o negli educatori è una dote necessaria fin dalle prime parole, ch' essi rivolgono ai fanciulli tenerissimi. E veramente se questi educatori non dicono costantemente bene a ciò che è bene pel fanciullo, questi troverà una discrepanza tra ciò che sente col suo senso, e ciò che gli viene affermato dalle persone. Indi le sue due facoltà del sentire e del credere sono poste in contradizione fra di loro, e non vi ha nulla che più ritardi e imbarazzi lo sviluppo del fanciullo di quello che il porre le sue facoltà in lotta tra di loro, sicchè l' una distrugga quello che l' altra tenta di edificare. Il povero infante non sa più a cui attenersi; non sa se sia la facoltà del senso che lo inganni, o la facoltà della credenza ; confuso la mente, egli non ha più l' agio di formarsi delle opinioni ben ferme sul merito delle cose, e fino che non si delibera per l' una facoltà o per l' altra, egli è in uno stato d' inutile incertezza, e violenza: lungi dal fare de' passi innanzi, perde anzi per molto tempo la disposizione della tranquillità, della chiarezza, dell' ordine che gli è indispensabile per avanzarsi nella sua via. Quando poi si deliberi verso l' una delle due opposte facoltà, egli non crederà mai alla prescelta fermamente, ma in modo vacillante; di che formerà un carattere debole, senza profonde impressioni, grandi e semplici sentimenti, decisa attività che nasce da quelle e da questi. Che se prestasse fede all' altrui voce rinnegando il proprio sentimento, egli perde in questo una guida sicura e potrebbesi quindi prevedere che il bambino riuscirà almen uomo leggiero. Se poi s' attiene al sentimento proprio rinunziando all' altrui autorità, egli semina con ciò solo in sè medesimo la diffidenza verso de' suoi simili, e dopo una gioventù indocile egli raccoglierà nell' età più adulta i frutti della disunione, dell' egoismo, d' una inesplicabile malignità. Parlare adunque al bambino col linguaggio il più preciso, il il più verace, il più conforme a' migliori suoi sentimenti dee essere un' avvertenza importante per l' educazione di questa età. Il fanciullo che ingannato dalle altrui parole si forma de' concetti imperfetti o falsi del bene, egli certamente si forma con ciò delle regole false od imperfette della sua morale. Tuttavia non si potrebbe riconoscere immoralità nel fanciullo che cede in tal modo all' inganno: egli non dispregia con ciò, nè fa torto volontariamente, nè odia: si attiene ad una delle due potenze nell' impossibilità di attenersi ad entrambe: la scelta non è dovuta al suo arbitrio, ma alla prevalenza dell' inclinazione verso una delle due potenze. Tuttavia hassi a distinguere l' immoralità dalla disposizione alla immoralità: i falsi concetti e le false regole del fanciullo non costituiscono immoralità, sono bensì una disposizione alla immoralità pel tempo avvenire. Noi ci proponevamo oltracciò un' altra questione, se il bambino pervenuto al second' ordine d' intellezioni seguita sempre le regole del bene e del male, o talora volontariamente se ne allontani. Ora a questo rispondiamo ch' egli le seguita fedelmente, e che non potrebbe allontanarsene senza pervenire al terzo grado d' intellezioni. Perocchè dopo essersi formata la regola del bene e del male per allontanarsene egli dovrebbe giudicare praticamente, che è male ciò che quella regola gli mostra esser bene, il che suppone una nuova riflessione, della quale parleremo nella Sezione seguente. Non conviene perder di vista che ogni bontà morale si riduce alla benevolenza, e che ogni male morale non è che odio, ovvero limite imposto alla benevolenza. Ora due sono gli uffizi dell' educatore relativamente alla benevolenza del fanciullo: 1 il farla nascere, 2 l' ordinarla convenientemente (1). Non è meno importante il primo del secondo di questi due uffizi: perocchè la mole di benevolenza che sorge nell' animo umano è la materia, onde si compone la virtù (2): colui che ha un gran sentimento di benevolenza diverrà assai facilmente un uomo virtuoso. Noi faremo dunque qualche riflessione primieramente sulla maniera di far crescere la benevolenza nel fanciullo, e poi sulla maniera di ordinarla. Nella prima e nella seconda età il fanciullo che non possedeva ancora nè linguaggio nè concetti astratti, non potea ricevere il sentimento della benevolenza se non dalle aggradevoli sensazioni che gli oggetti esterni gli procuravano; perciò abbiamo già detto che il mantenere il bambino in uno stato di tranquillità, di serenità e di gioia abituale apre il suo cuore a sentimenti benevoli. Ma ora nella terza età conviene che l' educatore si giovi anco del linguaggio ad ottener questo fine, ed egli può assai agevolmente giovarsene attesa la facoltà della persuasione, che nel bambino assai per tempo si manifesta non solamente colla funzione della percezione, ma ancora con quella della fede . Le persone dunque che educano o che semplicemente parlano al bambino potranno usare a tal fine la regola di lodare generalmente le cose buone e ben di rado biasimare le cose cattive, ma di queste piuttosto tacersi; il che è quanto dire far un grand' uso delle parole bello, buono, bene , ecc. e fare un uso assai scarso delle parole contrarie brutto, cattivo, male, ecc.. Sarebbe poi errore gravissimo l' applicare quest' ultime parole a persone (1). Così udendo il bambino a lodare come buone e belle tutte le cose e niente a biasimare, farà sì, che i suoi affetti di benevolenza che seguono indubitatamente i suoi pensieri, si svolgano più prontamente e più ampiamente che non gli affetti contrarŒ di malevolenza: egli verso tutto ciò che lo circonda profonderà il suo amore e la sua gratitudine. Ed è poi difficile per non dire impossibile che v' abbia tal cosa, la quale non si possa da qualche lato presentare come buona e bella al fanciullo e fargliela amare. Quando il fanciullo comincia intendere i segni convenzionali delle parole, egli comincia ad intendere ancora i segni naturali de' gesti e degli atteggiamenti. La lingua naturale aiuta il fanciullo ad apprendere la convenzionale e viceversa: le due lingue sono apprese insieme come una cosa sola (1). Quando i gesti e gli atteggiamenti esprimono degli affetti, egli al veder quelli sente questi, sia per un' operazione animastica, sia perchè l' istinto d' imitazione il conduca a riprodurre in sè quegli atteggiamenti stessi che sono dalla natura associati a quegli stessi affetti, sia che l' una e l' altra di queste due cagioni entrino a formare quella mirabile simpatia , che si osserva ne' fanciulli. Ma nella terza età non fa solamente tutto ciò, ma per lui i gesti e gli atteggiamenti gli sono de' veri segni che gli appalesano l' interno delle persone colle quali egli usa. Mi si permetta di riferire ancora le altrui osservazioni. [...OMISSIS...] . Questi fatti si debbono mettere a profitto. Conviene che anche colle lingue naturali si comunichi al bambino pensieri di bontà e di rispetto: egli apprenderà la maniera di concepirli, se tutto ciò che vede d' intorno di sè glieli mostra e glieli comunica. Quindi medesimo apparisce il danno che alla tenera anima del bambino risulta dai segni esterni dell' ira, del livore, dell' odio, della malignità, della derisione ecc.. Sono altrettante parole seduttrici, dove egli attinge una ineffabile malizia. Dannosi sono parimenti al bambino i terrori e le paure incussegli o con parole o con atti: ma di questo fu già parlato da tanti che è inutile il fermarvisi. Solo farò un' osservazione. Ho già detto che nell' educazione conviene aver per maestra la natura. Or se noi osserviamo la natura, noi troveremo ch' essa inclina sempre il bambino alla speranza ed ai pensieri gai; e che all' incontro l' allontana da' timori e da' pensieri mesti. Non avviene mai che il bambino si componga da se stesso delle imaginazioni cupe, tristi, dolorose: ma sì egli va fantasticando cose belle, liete, ridenti. Non appartiene solamente questo fare al bambino: ella è una legge costante di tutta la natura umana: e ci torneremo sopra. Ora ci basta di chiedere: Perchè non aiutiam dunque gli avviamenti di questa natura? Perchè non ci facciam dunque discepoli alla providenza che ha costituita la natura? Perchè vorremo impaurire o rattristare quell' animo che questa spinge al coraggio ed alla allegrezza? Ma non è egli anche il timore un affetto posto dalla natura nel seno dell' anima umana? Perchè dunque ve l' ha posto? Per contenere, anche mediante il timore d' una forza superiore, l' uomo ne' suoi doveri, e perchè l' uomo mediante il timore abbia il sentimento della propria debolezza comparata a ciò che vi ha di possente fuor di lui, che è il Creatore, ovvero degli enti che fanno la volontà del Creatore. Ora, il nostro bambino non ha bisogno d' un timore procuratogli, giacchè nè potrebbe ancora riconoscere il timore come ministro della giustizia divina, nè quel timore fantastico che pazzamente gli si cagionasse avrebbe il carattere d' un timor morale, ma unicamente d' un timor cieco atto a conturbare e non a raddrizzare la sua riflessione. Quanto poi al sentimento della propria debolezza, egli lo ha troppo; nè il timor riverenziale verso l' essere supremo può suscitarsi in lui altramente che dall' idea di quest' essere ottimo massimo; e non da altro. Escluso dunque ogni timore fantastico e procurato al nostro tenero fanciullo, rimane tuttavia a cercare se giovi l' adoperar con lui alcuna resistenza a' suoi voleri, e caso che sì, in qual misura ella debba essere. Or per rispondere alcuna cosa a questa questione, in primo luogo non v' ha dubbio, che ove qualche cosa possa nuocere alla sua salute corporale, questo non gli si dee concedere: glielo si dee però diniegare in modo da cagionargli la minor pena possibile; e però il miglior precetto consiste a predisporre le cose in modo che tali voglie in lui non insorgano. Queste voglie non sono morali ma fisiche, ed è perciò appunto che sarebbe cosa ingiusta che noi non procurassimo tutte le vie per eluderle senza sua pena. Ma oltre di questo disordine fisico possono benissimo manifestarsi delle disposizioni contrarie alla morale. Prendendo noi a parlare della resistenza che dobbiam fare a queste, verremo a rispondere alla seconda questione propostaci « in qual modo si possa ordinar la benevolenza del nostro bambino ». Ora, una delle prime disposizioni anti7morali che si manifestano nel bambino è l' impazienza; benchè questa stessa trae più forza dall' abitudine che da altro. L' esercizio di pazienza che può convenire anco al bambino non si dee trascurare, ma dee farsi con somma delicatezza; ed ecco una madre che ne suggerisce il modo. [...OMISSIS...] Qui la pazienza non è un sofferir fisico (ciò che si dee sempre allontanar dal fanciullo), ma è un sofferir morale, se pure è sofferire; è di più una scuola in cui guadagna l' intendimento e l' animo del fanciullo. Egli aspetta di buona voglia, e questo è già un gran bene: egli comincia con ciò ad ordinare la sua benevolenza. Il senso di natura sua è impaziente (1): l' aspettare pazientemente è sempre un esercizio d' intelligenza. L' impazienza che proviene dal senso all' uomo non è ella stessa un male morale, ma è una mala disposizione alla moralità, che di buon tempo conviene addestrarsi a superare. L' ira si trova pure nel senso, e in quanto si trova nel senso è anch' essa nulla più che una mala disposizione. Questa si dee prevenire nel bambino acciocchè non nasca, e ne abbiam parlato. Queste passioni e delle altre, di cui parleremo in appresso, si appalesano fino dalla prima infanzia, nella quale età l' operar sensuale può assaissimo: e però esigono una resistenza sapiente assai più morale che fisica. Le passioni poi influiscono immensamente sulla volontà, e questa sull' intendimento; onde avviene che l' intendimento giudichi per bene quello che è favorevole alle passioni, e per male quello che è ad esse contrario. Se dunque sono insorte le passioni nel bambino ed egli perciò non si trova più in uno stato di tranquillità, avviene ch' egli falsifichi i suoi concetti. Perocchè egli non prende più a misura del bene il natural suo sentimento e il sano istinto; ma un sentimento passionato e un istinto guasto. La falsità di questi concetti sul bene e sul male delle cose passa per vero inosservata; ma que' concetti intanto sono le regole dell' operar del bambino, e per conseguente egli ama falsamente, ed odia ciò che dovrebbe amare. Tali semi di falsità nell' intendimento e di traviamento nel cuore sono minuti come quello della senapa, ma crescono occultamente in un grande arbusto: n' escono di que' giovani il cui freddo e cattivo carattere è inesplicabile: n' escono degli uomini pessimi e incorreggibili. In somma la sorte degli uomini dipende sovente da quegl' ignorati cominciamenti. Come dunque convien talor prevenire, talor far resistenza alla passione; così giova correggere i falsi concetti del bambino. Grand' errore è l' adularlo, come pur si fa per voglia di dargli piacere; grand' errore è confermare i suoi concetti se falsi; noi dobbiamo anzi sostituirgliene di migliori: e sopratutto guerreggiare in lui que' concetti che lo portano all' odio, quelli co' quali egli giudica sfavorevolmente delle cose. Noi dobbiamo mostrargli il lato buono delle cose; e sebbene egli non intenda a quest' età se non il bene e il male sensibile oggettivizzato, tuttavia noi possiamo anco dirgli buone quelle cose che hanno un effetto buono in futuro; il che è un facilitargli l' atto intellettivo, col quale un tempo giungerà a conoscere la verità del nostro giudizio. Noi possiamo far ciò giovandoci della sua facoltà di credere, come abbiam detto. L' impazienza e l' ira, che hanno la loro culla nell' animalità e fino che rimangono in questa non sono più che disposizioni anti7morali, ben facilmente tirano a sè l' assenso della volontà, e allor tosto si cangiano in atti ed abiti immorali. Una passione che pur s' origina nel senso animale, ma che passa prontamente nell' ordine dell' intendimento, si è l' avversione che in odio si trasmuta. Io non credo che a quest' età possa aver luogo nell' animo umano l' invidia che è dolore del bene altrui. Il fatto che narra S. Agostino del bambino suggente il latte e risguardante con biechi occhi il suo collattaneo (fatto che si rinnova non di rado) mostra un' apparenza d' invidia; ma io tuttavia lo dichiarerei una semplice avversione. Suole anche nelle bestie avvenire il simile: due cani che mangiano ad una scodella ringhiano e si mordono. Non può dirsi che il movimento nasca dal dispiacere che l' un cane ha del bene dell' altro, ma piuttosto nasce, io crederei, dall' apprendere il compagno come impedimento e diminuzione del suo ben proprio. L' animale non per intelligenza ch' egli abbia, ma per la forza unitiva del suo sentimento può benissimo apprendere il cibo che scema alla presenza dell' altro cane, e odiare questa diminuzione di cibo, e con essa insieme l' altro cane che ad essa congiunge nella sua fantasia. La quale operazione animale somigliantemente avviene nel bambino, ma sopraggiungendosi poi il giudizio dell' intelletto, o anche solo l' atto della volontà, in vero odio si cangia. Ora questi accidenti sono da prevenire con diligenza nei bambini, perocchè eglino difficilmente possono sostenere la gravezza della tentazione, nè hanno armi a difendersene. Nata poi qualche avversione, conviene impiegare tutte le vie acciocchè se ne purghino le loro anime, e si potrà, quando si usi il bambino, o la persona qualsiasi, oggetto della malevolenza, a procurare all' odiatore i piaceri ch' egli brama; nel qual caso essa perderà l' odievolezza e il bambino l' odio. Uno de' fenomeni difficili a spiegarsi nel bambino (ed è un fatto proprio dell' umanità) si è come essendo egli di sua natura benevolo, tuttavia un po' alla volta venga limitando i suoi affetti ad un circolo determinato di persone e di cose. Egli par certo che il neonato sia indifferente all' una od all' altra persona; almeno egli è certo che s' affeziona a qualsiasi lo aiuti ne' suoi bisogni e lo accarezzi. Indi è ch' egli prende talora affetto alla nutrice più che alla madre ove con quella abbia più di consuetudine che con questa, e da quella, non da questa, riceva i materni servigi. Nè il neonato sceglie da se stesso la nutrice, ma egli l' ama quale gli venga data: e in capo a sei settimane sorride imparzialmente a quel volto femmineo che prima a lui ride. Ella è dunque universale la disposizione che ha il bambino alla benevolenza prima che questa si attui, ma attuata in lui la benevolenza, ella prende tosto una forma limitata ed esclusiva. Al bambino d' un anno le persone nuove già fanno sinistra impressione, e questo adombramento, che egli prende dagli sconosciuti, va aumentandosi fino a un certo tempo coll' età: egli divien rispettoso, ritroso, ruspo, ispido agli stranieri, e gli bisogna buon tempo a dimesticarvisi. Come si può egli spiegare un tal fenomeno? Io credo che più cause concorrano a produrlo, ed è forse difficile il conoscerle tutte. Primieramente gli affetti razionali prendono legge dall' intendimento che propone loro gli oggetti. Ora nella sfera della intelligenza si dee por mente al fenomeno dell' attenzione. L' attenzione è un concentramento delle forze sparse, e da prima allentate dello spirito, le quali così tutte unite si applicano ad un punto solo, ad un oggetto solo. E quando lo spirito raccoglie così la sua attenzione in un solo oggetto, egli non è più per gli altri, le sue forze sottratte loro o non gli danno più di essi contezza, o glie la danno ben languida. Or l' accentramento delle forze, che avviene nell' intendimento, avviene somigliantemente nella volontà. Le virtù di questa potenza fino a tanto che rimangono lente e dissolute sono indifferenti all' uno ed all' altro oggetto e disposte ad applicarsi a qualsiasi; ma tosto che sono richiamate ed applicate ad uno o ad una data periferia d' oggetti, a tutti gli altri fuori di quella rimangono nulle; perocchè la quantità disponibile per così dire della benevolenza della volontà è già in determinati oggetti esaurita. E questa spiegazione basterebbe se si trattasse di dar ragione solamente del perchè l' animo del bambino affezionato ad un dato circolo di persone e di cose si mostrasse a tutte le cose nuove freddo ed indifferente. Ma nel fenomeno che noi vogliamo spiegare si mostra un altro accidente. Il bambino nella terza età e in alcune delle susseguenti non è solo senza affezione per le persone non più vedute, ma egli riman sorpreso e intimorito al loro comparire, si arretra da esse se l' avvicinano, si mostra loro turbato, corrucciato, ostile. E perchè mai tutto ciò? Tentiamo d' indicare alcune delle principali cagioni che noi crediamo influire a produrlo, senza assicurarci tuttavia di rilevarle tutte. Mi sembra probabile che quando l' animo umano non ha più della benevolenza da distribuire, gli rimangono gli affetti contrari del timore, della malevolenza, dell' odio estremamente suscettibili (1). Quando il bambino vede de' suoi simili e non ha amore da donare ad essi, questi suoi simili rimangono per lui degli esseri misteriosi, da cui non aspetta bene, e de' quali teme la forza: non essendo agl' occhi suoi abbelliti del suo amore, conciossiachè l' amore è quello che a noi abbellisce e indolcia gli oggetti, quegli esseri tornan molesti al suo pensiero che rimane nell' incertezza sulla loro favorevole o avversa natura. Fu già osservato da altri, che al comparir nella mente del fanciullo un' idea nuova, nasce in lui un cotale sbigottimento. Se un' idea nuova fa quest' effetto, una percezione nuova deve farlo anche più, quando un tale effetto non venga eliso o coperto da un altro affetto maggiore di benevolenza. S' aggiunga un' altra legge psicologica, quella per la quale « è sempre molesto all' uomo il tornare indietro sia co' suoi pensieri, sia co' suoi affetti, il disfare cioè gli atti delle sue potenze intellettive ed affettive per doverli rifare in altro modo ». Se si vuole averne la prova in qualche sperimento fatto sui fanciulli basta raccontar loro qualche storiella: essi la gustano sommamente: ma guai se voi mutate qualche menoma circostanza, o anco semplicemente vi aggiungete nel contarla loro la seconda volta! essi tosto vi correggeranno: vogliono assolutamente la stessa scena. E perchè? perchè avendo quella scena viva nelle loro menti, essi ripugnano a guastare o a cancellare quel bel quadretto imaginario per ridipingerlo. Or quel che avviene ne' fanciulli rispetto alla fantasia ed all' intendimento avviene somigliantemente in essi rispetto alla volontà. Non sono i fanciulli come gli adulti: questi riserbano sempre indietro qualche parte de' loro affetti per poterli collocare poi in quegli oggetti nuovi che li meriteranno: ma i fanciulli all' incontro senza pensare al futuro, concetto che ancor non hanno, ne' primi oggetti versano tutto il tesoro del loro cuore. Ho già osservato la veemenza e la semplicità delle affezioni e passioni fanciullesche. Ciò posto, egli è manifesto che quando si presenta loro una persona nuova hanno un naturale invito ad amarla; ma tuttavia nol posson fare se non a condizione di tirare indietro dell' amore già distribuito, e darne una parte a quella persona. Or questo invito è loro molestissimo per due ragioni; la prima perchè dovrebbero disfare un atto di benevolenza già fatto, riducendolo a più breve misura; la seconda, imperocchè in qual maniera potrebbero essi ritirar l' amore posto alle cose amate? Non sarebbe egli un far torto a queste? In qual maniera cominciar a disamar quelle a cui hanno dato tutto il loro amore? Che demerito si hanno? Che colpa? Insorge appunto ne' bambini un sentimento simile, ma opposto, a quello della gelosia. Come la persona gelosa soffre e s' irrita al timore che altri gli rubi o scemi l' amor dell' amante; così il bambino che è l' amante teme che altri gli rubi o scemi al suo cuore quell' amore che egli pone alla persona amata, e alla quale non lo vuol torre. Quest' affetto del bambino non si attacca solamente alle persone, ma a tutte le cose che lo circondano. Indi è che le mutazioni d' oggetti o di ordine nella loro vita riescono talora al bambino grandemente moleste, e gli mettono del mal umore. Una terza cagione che si lega a questa seconda ha parte nel fenomeno che noi cerchiamo di spiegare. Il bambino ha l' istinto primieramente di evitare il dolore, in secondo luogo di godersi in calma il proprio benessere; la sua natura è piena di piacere perchè piena di vita e di sensibilità. Oltracciò, quando ha distribuiti tutti i suoi affetti alle persone e alle cose tra cui si trova, ha tracciato in ciò stesso la sfera della sua felicità. Quivi ritrova tutti i suoi beni, nè pensa che ve ne possano essere altri. Qual meraviglia adunque ch' egli possa esser geloso di questo suo cotal dominio? Un essere nuovo che gli si presenti già gli sconcia quel tutt' insieme che forma il suo stato, e che percepisce come una cosa sola: già gli rompe quel cotal suo paradiso infantile a cui è attaccato e che non vuol vedere mutarsi, come non vuole che gli si muti niun accidente della novella che gli si narra. A questa ragione è affine l' istinto che hanno i fanciulli, e l' idea che ben tosto loro nasce della proprietà. Tutte le cose che li circondano diventano per la forza unitiva del loro sentimento altrettante parti di sè stessi: il levargliene alcuna è uno squarcio fatto nel loro sentimento. Questo fenomeno si manifesta anco negli animali perchè tutto si compie mediante la forza unitiva, che anco nella natura animale si trova; ed ha le apparenze di pensiero ed amore della proprietà, sebben non sia tale. Nondimeno l' idea della proprietà sopraggiunge, come dicevo. Mad. Neker de Saussure racconta di aver veduta una bambina di diciotto mesi che piangeva se alcuno toccava al passeggio il panierino della sua bona . [...OMISSIS...] Finalmente, una quarta ragione e più profonda non dubito aver gran parte nella limitazione che si mette a certa età nella benevolenza de' bambini: questa è l' indole dell' amore che ha per oggetti individui sussistenti. E in vero due forme comuni ad ogni ente sono l' idealità, principio dell' universalità, e la realità, principio della particolarità. A queste due forme dell' ente corrispondono in noi due potenze, cioè l' intelletto che intuisce ogni idealità, e il sentimento che costituisce ogni realità. La realità del sentimento viene poi affermata dal giudizio che è una terza potenza. Nell' ordine intellettivo adunque l' intelletto dà allo spirito nostro l' idea, e il giudizio dà allo spirito nostro la cosa (res) . La volontà poi co' suoi affetti si porta in entrambi questi oggetti, nell' idea e nella cosa; le due forme dell' essere possono ugualmente esser termine alla nostra volontà. Or poi, se noi amiamo un oggetto qualsiasi per le eccellenti sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. Se poi noi amiamo un oggetto per se stesso, e non meramente per le sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella sua forma reale. L' idea essendo principio d' universalità, come abbiam detto, anche il nostro amore nel primo caso è universale , di maniera che è pronto a volgersi a qualsiasi oggetto, dove ritrovi le stesse qualità e doti che sole esso cura. Il reale all' incontro essendo principio di particolarità, anche il nostro amore nel secondo caso è particolare ed esclusivo, di maniera che egli rifiuta un altro oggetto unicamente perchè è un altro, eziandio che avesse le stesse buone qualità del primo. Questo secondo amore è il principio della restrizione e limitazione della benevolenza; ed ha una natura anti7morale ove non termini nel divino. L' amore di noi stessi è di questa seconda specie: noi ci amiamo non già per le belle qualità che abbiamo, ma perchè siamo noi. L' amore de' genitori verso de' figliuoli è pure della stessa natura. Qual padre o qual madre soffrirebbe che il suo brutto e malvagio figliuolo gli fosse mutato in un angelo di bellezza e di bontà? Vuole il suo e l' ama sopra tutti gli altri personalmente. L' amor fisico è un terzo esempio d' amori di questa specie: gli amanti non vogliono amar altro che la identica persona cui consecraronsi, e vogliono essere amati nello stesso modo: indi la gelosia, cioè il timore che l' amor individuale personale dell' amante gli sia distratto da un amor ideale, cioè dai pregi che si trovano in altre persone. Ora ne' bambini l' amore che termina ne' pregi della cosa o persona (idealità) è intimamente congiunto all' amore che termina nella cosa stessa o persona sussistente; e degenera facilmente in un amore ove quest' ultimo elemento (amor dell' individuo reale) prevale e domina. A recare una prova di quel che voglio dire mi varrà il seguente fatto, narrazione d' una sagace osservatrice: [...OMISSIS...] Ogni madre, ognuno che di continuo ha sotto gli occhi dei bambini potrà testimoniare altri fatti simili, in cui il loro amore non termina a delle belle qualità delle persone, ma alla realità della persona stessa. Vero è che un tale amore nasce anch' egli in origine dall' amor ideale e universale, cioè dall' amore di qualità amabili o vere o supposte; perchè il cuore umano non può cominciare ad amar nulla se non sub specie boni , ma posteriormente degenera quell' amore e si corrompe: alle belle qualità si sostituisce la persona o la cosa dove quelle belle qualità o doti si son vedute o si costumano di vedere; da prima si crede che sieno così proprie di quella persona o cosa che non possano esistere altrove, ma in essa solamente; di poi si amano le belle qualità ancor più perchè sono in quella persona o cosa amata che se fossero tutt' altrove: e finalmente si ama la persona o la cosa sola per se medesima, foss' anco priva delle qualità che prima si amarono in essa, e le qualità medesime non si amano più se si rinvengono altrove collocate. Qui l' amore è divenuto sommamente immorale. Or poi si noti bene: quando io parlai dell' amore che ha per oggetto l' idealità, non parlavo tuttavia d' un amore che escludesse la realità. Se questo amore escludesse la realità, sarebbe un amore incipiente più tosto che formato: esso è l' amore che fu denominato platonico, e che non ha luogo ne' bambini e nè pure nel popolo: ma solo ne' filosofi naturali che giungono alle idee, ma non possono trapassarle, ossia compirle. Questa maniera d' amor filosofico, a cui veramente si riduce il meglio della naturale virtù, non entra ora nel nostro discorso. L' amor nostro che fu da noi descritto, dicemmo aver per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. L' idea dunque, cioè il bene veduto nell' idea, è la regola secondo la quale si amano i sussistenti: questi si amano certamente, ma non meramente perchè sussistono, ma perchè sussistono con quelle doti e pregi che ce li rendono amabili. L' altra specie d' amore all' opposto, di cui parliamo, ama i sussistenti senza più; dimenticando le doti amabili, talor anco ad esclusione di queste. Ora, io so bene che questi soli preamboli ch' io fo a ciò che vo' dire, fanno in pure udendoli agghiacciare il cuore delle madri, delle spose, de' padri e de' mariti; ma io pur debbo dire il vero e a tutto anteporre la dignità dell' umana natura, la quale ampiamente ricatta il valor d' ogni affetto che per essa perdere si dovesse. Tuttavia parrò men crudele, ove s' aspetti il compimento di questo discorso. Esaminando dunque il valor morale de' due amori da noi distinti, convien fare le seguenti riflessioni. Il sentimento è ciò in cui consiste la realità. Un essere reale come tale, cioè in quanto è sentimento, non cerca che il reale, non ha attrazione ad altro, non inclina a congiungersi se non col suo simile, cioè con altro essere reale. Tutte queste tendenze, e se si vogliono così chiamare affezioni, sebben cieche, tuttavia finchè non eccedono la sfera del sentimento, non sono riprovevoli, ma più tosto in se sole considerate non hanno alcun prezzo morale, non appartengono nè a virtù nè a vizio, non son merito nè demerito; benchè abbiano un valore eudemonologico. Ma quando l' uomo intelligente, la persona morale dà loro un prezzo, allora esse diventano materia di moralità: se il prezzo loro dato dall' intendimento è giusto, la persona che le ha giudicate fece un atto di virtù; se è ingiusto, fece un atto riprovevole. Ora qual è il giusto prezzo che si dee dare a quelle affezioni? Nullo, per se stesse considerate: considerate però in quanto sono elementi di felicità, esse hanno un prezzo allor quando diventano premio della virtù. In questa loro relazione diventano giuste ed appetibili anco dalla persona morale. Ma quanto non è grande il pericolo che si stimino per se stesse indipendentemente da questa relazione ch' esse hanno colla virtù! - Ecco uno de' primarŒ fonti della depravazione umana. Lasciando dunque da parte le affezioni meramente sensuali e sentimentali, parliamo della moralità dell' amore razionale avente per oggetto il reale. Primieramente, il reale finito considerato da se solo senza veruna dote non si può concepire: egli è nulla, non presenta veruna base al nostro amore. Il solo reale infinito può come tale essere amato: egli solo E`. In secondo luogo, l' amare i reali finiti secondo il merito delle loro buone doti e qualità è certamente giusto. Ma in tal caso abbiamo l' amore di seconda specie illuminato dall' idea: un amore che non è esclusivo, ma che si espande a tutti gli oggetti, dove trova le stesse doti e qualità: un amore che non è immobile, ma che cresce e diminuisce secondo che crescono o diminuiscono quelle doti o qualità: finalmente un amore che non è eccessivo , ma compartito a misura de' pregi stessi. L' amore che ha per oggetto il reale di natura sua esaurisce tutte le proprie forze nel suo oggetto. In terzo luogo, tra l' amore del reale per sè e l' amore dell' ideale nel reale, avvi l' amore di beneficenza e l' amore di gratitudine; i quali sono pure regolati dall' idea . L' amore di beneficenza è quello che ama di produrre negli oggetti suoi le belle qualità e doti che si propone. Lo scopo adunque di questo amore è morale; perchè ama non propriamente il reale per se solo, ma la realizzazione delle qualità e doti e pregi che meritano d' esser amati (1). L' amore di gratitudine ama la beneficenza della persona amata, e però termina ne' suoi pregi. Ella brama ancora di restituire i beneficŒ ricevuti; ed anche questo sentimento è morale, perchè o vuol produrre nella persona benefica qualche pregio e suo perfezionamento, e in tal caso si riduce all' amore di beneficenza, o vuol darle qualche bene eudemonologico ed egli ancora è morale, perchè un bene eudemonologico dato per gratitudine è un bene dato in merito e premio dell' altrui buon' azione da chi l' ha ricevuta (2). In tutti questi casi l' amor del reale non manca, ma regolato dall' idea è l' amor sempre dell' idea realizzata, e però si riman libero, non rinserrato, non cieco, non esclusivo. Noi abbiam veduto fin qui quali sieno le cagioni che ristringano il cuore del bambino e limitino la sua benevolenza. Una importantissima regola di educazione sarà per tanto la seguente. « Usare tutti que' mezzi pe' quali la benevolenza del fanciullo rimangasi libera, illuminata, non esclusiva, ma universale ». La scienza pedagogica, quanto spetta all' infanzia, avrà toccato la cima, quando sarà giunta a determinare quali sieno tutti questi mezzi, sì negativi pe' quali al fanciullo si sottraggono tutte le occasioni di limitare i suoi affetti, sì positivi pe' quali si ottiene che il fanciullo distribuisca i suoi affetti con universalità e giustizia. Noi direm solo alle madri, alle nutrici, ai genitori che se in conseguenza di questa dottrina pare loro di perdere qualche cosa del desiderato amore de' loro bamboli, essi s' ingannano così credendo. Il risultamento non ne sarà che di cangiare un amore ingiusto con un altro amore giusto, un amore impetuoso sì ma perituro, con un amore pacato ma eterno, qualche carezza infantile con un rispetto profondo, il quale nell' istesso tempo che darà a' loro nati quella dignità morale che è l' altissimo bene dell' uomo, darà ad essi stessi sicurtà pienissima di attendere da' figli ogni efficace aiuto e sostegno in qualsivoglia vicenda della vita, in ogni loro età, e memoria ed onoranza oltre il sepolcro. Ma il principale tra tutti i mezzi positivi co' quali si possa mantenere e rendere universale e sapiente la benevolenza nell' uomo fin dall' ugne tenerelle, si è quello di volgere fin dall' infanzia il corso del suo cuore verso la prima sua origine, il Creatore. Iddio comprendente in sè tutto l' essere, dove ogni cosa, che è, è Iddio amante di tutte cose, perchè tutte le ha fatte e le fa, raccoglie in sè tutto il bene, a cui tenda ogni cuore; e nell' amore divino vi ha perciò implicito l' amore ordinato ad ogni cosa. Laonde egli è a questo fuoco che s' accende la benevolenza, e s' espande immensamente e si ordina tutt' insieme. Veramente invano volle Rousseau far credere che il culto della deità non foss' opera da lingua che chiama babbo e mamma. Anzi il tenero infante, quasi più vicino all' origine sua, egli pare che vi si rivolga con trasporto, che la ricerchi con ansietà, che la ritrovi più rattamente dell' adulto medesimo; ed appartiene assai più a Dio che all' uomo il comunicarsi all' anima semplicetta che sa nulla e che pure intende il suo fattore. Laonde avvenne quel che dovea: ed il sofista ginevrino del secolo scorso trovò di questo, nella sua stessa patria, pienissima confutazione (1). Già vedemmo che nella terza età il fanciullo, comincia a concepire l' idea di Dio: dunque egli può altresì volgergli amore, o più tosto non può non farlo. Se poi consideriamo che per tutti quegli che ammettono l' esistenza di Dio, Iddio è il nodo che stringe insieme l' universo, la ragione delle cose, il principio e il fine di tutto, il bene di ogni bene, il bene essenziale: chi non vede che questa idea di Dio per chi non vuol esser ateo o inconseguente dev' esser pur quella che domina, che ordina, che dirige tutte le altre? Chi non vede che da essa sola può prendere la sua unità, il suo principio, ogni sua luce l' educazione umana, e non men quella de' fanciulli che degli adulti, degl' individui che delle società, delle nazioni che dell' umanità intera (2)? Se dunque abbiam già fatto conoscere al nostro fanciullo il valore di questa voce Dio, insegniamogli tosto anche a indirizzare a lui tutti i suoi teneri affetti. Ho già detto che dando l' uomo a Dio tutti i suoi affetti non li toglie alle altre cose, perocchè queste in Dio stesso si riscontrano. Non fa altro che santificarli, impedire che trasmodino, renderli ad un tempo e più sublimi e perenni. Io voglio qui dire una parola alle madri ed a' padri cristiani: agli altri genitori la parola che dirò è inintelligibile e per ciò stesso insopportabile: chiudano dunque qui gli orecchi quanti non hanno ne' lor sentimenti tanta elevatezza, quanta è quella che nelle madri e ne' padri veramente cristiani non infonde la natura, ma la parola dell' Altissimo. A' piedi di questi è lucerna la legge di Dio: e però essi non s' atterriscono a consultarla. Veggano dunque in qual maniera questa legge determini gli affetti de' loro figlioli sì verso di essi che verso l' Essere supremo. Che cosa ordina la legge di Dio verso l' Essere supremo? - L' amore: eccone le parole: « « Amerai il Signor Dio tuo di tutto il cuor tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(1). » Che cosa ordina la legge di Dio a' figliuoli verso i genitori? - L' onore: eccone ancora le parole: « « Onora il padre tuo e la madre tua, acciocchè sii longevo sulla terra che il Signore Iddio tuo ti darà »(2) ». Perchè riserba l' amore a Dio e comanda l' onore a' genitori? Che cosa significa questa distribuzione d' affetti? Questa distribuzione d' affetti che fa la divina legge è direttamente opposta alla distribuzione che ne fa la natura; giacchè la grazia si trova in opposizione continua colla natura, essendo quella più ampia di questa nelle sue vedute e ne' suoi affetti, e contornandosi questa di limiti, cui quella rompe e trasporta. La natura dunque inclina l' uomo ad amare i suoi genitori; non tanto ad amare l' invisibile Creatore, ma più tosto ad onorarlo . Ma volle forse la legge divina condannare o l' amor naturale verso de' genitori, o l' onore verso la Divinità? - No certamente: ella volle soltanto impedire che le inclinazioni naturali non trasmodino e degenerino in corruzione. A tal fine all' onore verso Dio suggerito dalla naturale ragione congiunse e contrappose il precetto dell' amore ; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose il precetto dell' onore . Di più, all' onore verso Dio congiunse e contrappose l' onore verso i genitori; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose l' amore verso Dio. Così gli affetti naturali, contrabilanciati dai precetti divini, possono conservarsi senza eccedere e pervertirsi. Si consideri che ciò che è naturale non ha bisogno d' essere comandato, ma solo regolato . I genitori possono starsene pienamente tranquilli sull' affetto de' loro figli: la natura glielo garantisce: basta solamente ch' essi stessi colla loro rea condotta non vi pongano impedimento. Ma s' arricordino ancora (parlo sempre a' genitori cristiani) che relativamente all' amore della loro prole non è già che questo scarseggi, ma che da una parte ecceda, dall' altra che degeneri in tenerezze sterili, le quali, appunto perchè effetto dell' istinto, cedono poi a un altro istinto maggiore, l' egoismo. Contro al primo di questi due pericoli che rende l' amore de' loro figlioli immorale si guarentiranno, facendo che nel cuore de' loro fanciulli Iddio abbia un posto maggiore di essi, memori delle parole del Redentore: « « Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me »(1) », e le altre che dimostrano come nella collisione iddio va preferito a' genitori: « « Se taluno viene a me e non odia il padre suo e la madre.... non può essere mio discepolo »(2) ». Contro al secondo pericolo si guarentiranno pure, se esigeranno dal fanciullo il debito onore alla loro autorità, fonte d' un amor rispettoso, di ubbidienza e di efficaci servigi: perocchè la legge di Dio tutto questo racchiude (3), ed è buon cambio verso a sensuali tenerezze. L' amore dunque verso i genitori vien migliorato inserendo in esso l' onore comandato dalla legge di Dio: questo determina qual debba essere la qualità e il modo di quell' amore: di che gravità, di che efficacia. Al modo stesso l' onore verso Dio vien migliorato e determinato dal comando che in esso dee esistere l' amore : non dee essere dunque nè un amore puramente esterno e materiale, nè un onore procedente da timor servile d' un' immensa potenza, ma si vuol essere un onore amoroso, pieno di confidente speranza: è il culto in ispirito e verità de' veri adoratori che, vogliosi di fare la volontà divina, trovano questa stessa in tutto ciò che fanno a vantaggio de' loro genitori, come pure di tutti gli altri uomini. Mi sia dunque permesso di dire che ogni usurpazione torna in danno di chi la fa; così i genitori cristiani, i quali più amano la loro prole, debbono vegliare su di se stessi (e forse niuno loro fin qui lo disse!), acciocchè non forse usurpando essi quel finale affetto che i figliuoli debbon dare a Dio solo, essi perdano anche quel legittimo che loro è dovuto e che a loro la divina legge tribuisce. Ma ritorniamo su' nostri passi. Il culto del bambino non può andare che dietro i passi che vien facendo in lui la cognizione dell' Essere supremo. Noi abbiamo accennato quale ella possa essere a questa età. Il culto che corrisponde alla medesima dee essere semplicissimo: affetti di amore e parole che lo esprimano. L' adorazione vien dopo: è un sentimento e un concetto più complesso: lo stesso dicasi dell' ossequio e del rendimento di grazie: essi appartengono alle età avvenire. Anco io crederei importante di dar tempo, acciocchè si sviluppi sufficientemente la grande idea di Dio nella mente dell' infante, prima di circondarla d' altre idee accessorie e d' altre religiose dottrine. Conviene che lo spirito del fanciullo si concentri nella maestà dell' Essere supremo; e quando egli è giunto a sentirla altamente questa maestà, quando il pensiero di Dio e de' suoi attributi domina in lui, allora tutte le altre idee religiose trovano in quell' idea una saldissima base su cui elle si edificano, un centro intorno a cui si aggruppano: la religione allora cresce, per così dire, quasi tempio augusto nell' animo dell' uomo. L' ordine delle intellezioni segna un' epoca fissa della mente: colla prima intellezione d' un dato ordine che faccia il fanciullo, egli entra in un nuovo stato intellettivo: gli si è aperto innanzi un campo immenso dove potrebbe spaziare senza trovare un confine, quando anche egli fosse limitato a quell' ordine a cui è arrivato, e non gli fosse dato di ascendere ad uno maggiore. Ma quando si voglia determinare il tempo preciso in cui la mente passa da un ordine all' altro, allora s' incontra un' estrema difficoltà. Primieramente non tutti i fanciulli fanno questi passaggi intellettivi agli stessi momenti. Di poi, anche trattandosi di determinare questi momenti in un determinato fanciullo, la cosa riuscirebbe difficilissima; perocchè e non si può accertare che il passaggio nasca sotto i nostri occhi, ed anco ove nascesse mentre il fanciullo forma l' oggetto della nostra attuale osservazione, egli facilmente ci sfuggirebbe, sia perchè quel primo atto d' un ordine superiore verrebbe fatto dal fanciullo in un modo sfuggevole, sia ancora perchè costa molto più di tempo e di sagacità all' istitutore l' analizzare gli atti della mente fanciullesca, che non costi al fanciullo il porli e il farli celeremente gli uni agli altri succedere. Sarebbe dunque impossibile il determinare in un trattato del Metodo, a qual tempo precisamente ciascuna età del fanciullo comincia, a qual finisce. E tuttavia non è inutile, anzi stimiamo assai vantaggioso, il determinare questi periodi per approssimazione. La qual opera rimane ancora cosa difficile, e noi non possiamo tentarla che su quella poca esperienza che abbiam presa de' giovani. Speriamo tuttavia che l' esperienza altrui verrà in progresso di tempo correggendo e perfezionando il nostro tentativo, forse il primo di questo genere. Diremo qual principio abbiam seguito e quale intendiam seguire nel compartimento delle età. Non avvenendo in tutti i fanciulli il passaggio d' un ordine all' altro d' intellezioni nello stesso momento, noi abbiamo preso a determinare questo passaggio, quel tempo entro il quale suole avvenire nel più de' fanciulli, e per accertarci sempre che questo sia avvenuto, abbiamo voluto averne un segno certo in qualche atto intellettivo che comunemente fanno i fanciulli, e che indubitatamente appartiene ad un ordine d' intellezioni. Così a segnare il principio della seconda età, abbiam presa la fine delle sei settimane; perocchè questo è il tempo in cui solitamente i bambini sorridono alle madri, primo segno certo di loro intelligenza. A segnare il principio della terza età, abbiamo preso la fine d' un anno; perocchè i bambini sulla fine dell' anno sogliono cominciare a parlare, e il parlare è un atto che appartiene certamente al second' ordine d' intellezioni. Ora medesimamente prenderemo la fine del second' anno a segnare il principio della quarta età di cui ci proponiamo a parlare in questa sezione, perchè nel terz' anno i bambini possono comunemente cominciare a leggere; e il leggere è indubitatamente un atto intellettivo appartenente al terz' ordine d' intellezioni. Da questa maniera che noi usiamo nel dividere le età, si vede: 1 che noi prendiamo gli ordini d' intellezioni per regola, secondo la quale compartire le età diverse; 2 che questa regola non è applicabile a determinare il tempo se non per approssimazione. Quando dunque diciamo che col secondo anno comincia la terza età del fanciullo e col terzo la quarta, non intendiamo mica di sostenere che avanti il secondo anno non abbia fatto il fanciullo nessuna intellezione di second' ordine, ma solamente che quelle sono da noi trascurate, perchè non osservabili ne' fanciulli comunemente. Così parimenti, quando facciamo cominciar la quarta età dal terz' anno, non vogliamo sostenere che non possa il fanciullo aver fatto anco prima di questo tempo qualche intellezione di terz' ordine; ma cominciamo al terz' anno a parlare di quest' ordine d' intellezioni, perchè cominciano allora queste intellezioni ad apparire comunemente ne' fanciulli non equivoche nè sfuggevoli di soverchio. Questa è avvertenza che vogliamo aver data una volta per sempre; la quale il lettore applicherà a tutte le età successive della vita che ancor ci restano da percorrere. Laonde quando anche il fanciullo passasse il terzo anno senza ascendere ad un nuovo ordine d' intellezioni, non continuerebbesi men tuttavia lo sviluppo di tutte le sue facoltà, quantunque limitate a non muoversi fuori del confine segnatole dal second' ordine d' intellezioni. In ciascuno degli ordini precedenti: 1 si aumenterebbe il numero delle intellezioni; 2 le intellezioni stesse si perfezionerebbero, ripetendosi e ricalcandosi nello spirito, traendo in atto una maggiore attenzione dal fondo di questo, e fondendosi nel sentimento universale che sempre esse cagionano, e che è principio di nuova attività. Questi due progressi del numero e della perfezione delle intellezioni avvengono entro ciascun ordine delle medesime, e non si debbono perdere giammai di veduta da chi vuol tenere dietro allo sviluppamento umano. Ma noi vogliamo averlo detto qui una volta, acciocchè il lettor lo applichi in ogni età a tutte le intellezioni degli ordini precedenti. A paro colle facoltà passive dell' intendimento procedono pure le facoltà attive della volontà: e con quelle e con queste va di conserva lo sviluppo di tutte le facoltà animali, che tutte si vanno vestendo d' abitudini diverse di forza e di qualità. Come le intellezioni di second' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti delle intellezioni del primo ordine tra loro, o coi sentimenti che l' uomo ha anteriormente al second' ordine (1); così parimenti le intellezioni del terz' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti che hanno le intellezioni di second' ordine tra loro, o tutto ciò che v' ha nell' uomo di pensiero e di sentimento precedentemente a loro. Le intellezioni dunque del second' ordine si dividono in due classi: I Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine tra loro. II Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine coi sentimenti che sono nell' uomo. Le intellezioni del terzo ordine essendo quelle che fa lo spirito mediante una riflessione sulle intellezioni del second' ordine, si complicano alquanto di più; e si dividono nelle classi seguenti: I Classe delle intellezioni di terz' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti (1) delle intellezioni (2) di second' ordine tra loro. A. - Rapporti della prima classe delle intellezioni di second' ordine tra loro. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni di second' ordine fra loro. C. - Rapporti tra le intellezioni della prima classe, e le intellezioni della seconda classe, sempre di second' ordine. II Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine colle intellezioni di prim' ordine. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni di secondo ordine colle intellezioni del primo ordine. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni del secondo ordine colle intellezioni di prim' ordine. III Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine coi sentimenti ad esse precedenti. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni del secondo ordine coi sentimenti antecedenti. B. - Rapporti della seconda classe d' intellezioni del second' ordine coi sentimenti antecedenti. Questo specchio dimostra che tutte le classi delle intellezioni di terz' ordine già crescono al numero di sette; il che non è piccola prova dell' immensità dell' umano pensiero, e del labirinto ch' egli è a volerlo percorrere e rilevarne il disegno. E posciachè ci recherebbe troppo a lungo il dar qui un esempio di ciascuna delle sette classi, mi restringerò a porgerne uno solamente dell' ultima, dove gli atti dello spirito umano più che nell' altre si complicano. Se io ricevo le diverse sensazioni che una rosa può darmi mediante i diversi miei organi, io insieme colle sensazioni mi formo di essa la percezione intellettiva (1 ordine d' intellezioni). Ora, se dopo di ciò di notte sentomi ferire le nari da un odore di rosa, io da quest' odore posso argomentare all' esistenza della rosa in vicinanza al mio naso: argomentazione che fo in riflettendo sul rapporto che la sensazione odorosa ha colla passata mia percezion della rosa: e che perciò appartiene alle intellezioni di second' ordine (2 classe). Ora poi se io continuo a riflettere su questa rosa, di cui ho argomentato l' esistenza, e riflettendo di nuovo argomento meco medesimo che « se qui v' ha una rosa, son certo che in essa vi hanno anco delle spine, le quali mi cagioneranno dolore, se colle dita io la stringo »; io formerò con ciò delle intellezioni di terz' ordine, e tra le intellezioni di terz' ordine una di quelle dell' ultima classe, perchè congiungo mediante la riflessione la rosa invisibile (intellezione di second' ordine) con un mio sentimento, cioè il dolore. Ora, se noi volessimo tener dietro a tutte le classi in cui si divide il terz' ordine d' intellezioni, e più ancora gli ordini successivi, saremmo infiniti. Omettiamo adunque, per non dipartirci dallo scopo di quest' opera, un lavoro sì vasto, benchè utilissimo, lasciandolo agli avvenire, e cerchiamo di prescriverci quinc' innanzi un piano più semplice ma regolare nell' esposizione de' gradi di sviluppo intellettivo che di mano in mano fa l' uomo, a cui possiamo riscontrare quel metodo che più s' avviene. In prima, in ciascuno degli ordini d' intellezioni, di cui avremo a parlare in appresso, cominceremo dal divisare diligentemente le varie classi nelle quali quell' ordine si parte, affine di presentare agli occhi del lettore una cotal tavola, dove rilevi e l' estensione di quell' ordine ed i confini e la varia complicatezza di ciascuna delle intellezioni che gli appartiene. Dopo di ciò, lasciando da parte quest' abbozzo di maggiori ricerche, noi prenderemo a considerare tutte in corpo le intellezioni di quell' ordine, seguendo il seguente progresso. In prima parleremo delle operazioni dello spirito colle quali si formano le intellezioni di quell' ordine di cui si tratta: di poi parleremo degli oggetti di quelle operazioni, cioè delle cose che noi per esse siam venuti a conoscere. Ora poi, quanto agli oggetti conosciuti, questi o sono idee elementari (1) comuni a tutte le conoscenze, ovvero sono conoscenze appartenenti all' una o all' altra delle tre nostre supreme categorie, in cui consideriamo partite tutte le cose che cadono nel pensiero o che sono. Riassumendo adunque, lo schema seguente presenterà agli occhi de' lettori il metodo che noi terremo trattando di ciascun ordine d' intellezioni, e giova non poco averlo presente, quasi carta geografica, affin di conoscere il cammino che noi facciamo. A. Operazioni, colle quali lo spirito si forma le intellezioni d' un dato ordine. B. Oggetti di quelle operazioni intellettive. I Comuni o idee elementari. II Categorici, cioè: 1 Reali e ideali; 2 Morali. In quest' età del fanciullo adunque le operazioni, alle quali la mente sua si fa idonea, sono i giudizi sintetici (1). E veramente essendosi formato il fanciullo nella terza età degli astratti di cose sensibili, per esempio, del colore, del sapore, o almeno certamente del bene e del male sensibile; egli è in caso di servirsi di questi astratti come di altrettanti predicati che aggiunge ad un soggetto, e perciò egli è nel caso, al cadergli sotto gli occhi d' un cibo, di dire: « Questo è buono »; ovvero: « questo è cattivo ». Si noti qui bene il progresso della mente fanciullesca. Io ho confutati i giudizi sintetici a priori di Kant (2); ma nello stesso tempo ho ammesso anch' io un giudizio sintetico a priori , ma un solo: quello che ho chiamato la sintesi primitiva o la percezione. Ho dichiarato a priori questo giudizio primissimo, col quale l' uomo dice seco stesso: « qualche cosa esiste », perchè in esso il predicato è l' esistenza , che non viene dall' esperienza, ma che è intuito con un atto interiore dello spirito. Questo giudizio sintetico a priori è l' operazione corrispondente al prim' ordine d' intellezioni. Ma tostochè lo spirito ha percepite le cose, egli esercita sulle sue percezioni e sulle memorie delle medesime de' giudizi analitici (1), cioè scompone le sue percezioni e memorie delle medesime. Veramente la scomposizione delle percezioni nasce in due modi: il primo nel modo naturale, onde avviene che la mente contempli la sola idea della cosa senza attendere al giudizio sulla sua sussistenza. Questa scomposizione dell' idea dal giudizio sulla sussistenza, che avviene naturalmente, non è un giudizio analitico; perchè nulla si giudica con essa: la sussistenza e l' idea sono cose eterogenee che si dividono da sè: lo spirito non fa che limitare la sua attenzione piuttosto all' una che all' altra di quelle due cose già per natura disparate. Il secondo modo di scomposizione si fa artificialmente sulle idee imaginali, traendosi da queste un loro elemento, e questa operazione è un vero giudizio analitico, perocchè è una vera scomposizione d' un' idea sola in più. Ed è il linguaggio quello che aiuta la mente, come abbiam veduto, a ciò fare; e sotto questo aspetto compete alle lingue la denominazione di metodi analitici data loro da Condillac. Tal è l' operazione che corrisponde al second' ordine d' intellezioni. Vedesi da ciò che con tale operazione appartenente al second' ordine la mente umana acquista de' nuovi predicati . Da principio essa non avea che quello innato nello spirito dell' esistenza, il quale gli servì a fare i primi suoi giudizi sintetici. Questi diedero materia ai giudizi analitici che susseguirono. I giudizi analitici fornirono alla mente de' nuovi predicati che, potendo esser congiunti ad altri e altri soggetti, diedero possibilità alla mente di fare dei nuovi giudizi sintetici. Perocchè se io già so, a ragion d' esempio, che cosa sia il bene e il male sensibile, al vedere un cibo del tutto simile nell' apparenza a quello che altre volte tornò gradevole al mio palato, io posso unire il predicato buono coll' oggetto da me veduto, pronunziando il seguente giudizio sintetico: « questo è buono », ovvero: « ciò che veggo è buono ». Non si dee mica qui confondere il giudizio sintetico, pel quale io dico: « questo è buono »colla semplice apprensione sensibile che si manifesta anche nell' animale, attesa l' associazione che nasce in lui delle varie sensazioni. Se il cane trema d' allegrezza al solo vedere presente il cibo che pure non può prendere ancora, non fa egli un giudizio: solo la vista del cibo gli desta il fantasma del grato sapore altre volte da lui provato e gli suscita l' affezione e l' azione corrispondente (1). Giudizio non si dà, se non in un essere il quale intuisca il predicato da sè solo (astratto), e poi lo congiunga al soggetto, cioè a dire vegga lo stesso predicato in un soggetto. Appartiene adunque al terzo ordine d' intellezioni la seconda fila de' giudizi sintetici. E prima di passar oltre non dee riuscire inutile l' accennare qui la legge universale cui seguita lo sviluppo dello spirito umano, la quale si è la seguente: « I giudizi sintetici ed i giudizi analitici si avvicendano per siffatto modo che se noi disponiamo in una serie i diversi ordini d' intellezioni, i numeri dispari dei medesimi sono formati da altrettante file di giudizi sintetici, e i numeri pari sono formati da altrettante file di giudizi analitici ». E che la cosa debba riuscire a questo è per sè manifesto: conciossiachè non si può scomporre se non quello che hassi prima composto. Laonde alla composizione dee susseguire la scomposizione, e alla scomposizione dee susseguire la ricomposizione, e così di mano in mano sempre procedendo. Questi ordini d' intellezioni adunque, i quali si formano mediante composizioni ovvero sintesi, danno allo spirito de' nuovi soggetti da analizzare, e quegli ordini d' intellezioni che formansi mediante scomposizioni o analisi, arricchiscono la mente di sempre nuovi predicati che sono atti ad essere sintesizzati, cioè uniti ad altri soggetti. E tuttavia oltre i giudizi sintetici proprŒ della quarta età del fanciullo, continua il fanciullo ad esercitare anche l' analisi . Già abbiamo notato che le operazioni dello spirito che cominciano nelle età inferiori continuano poi nelle superiori senz' interruzione, aumentando i loro prodotti di numero e di perfezione, il che complica sempre più lo sviluppo dello intendimento umano. Tuttavia si dee aggiungere, che all' analisi e all' astrazione vien data in ogni età nuova materia, perchè l' analisi del pensiero scompone tutto e continuamente, e perciò anche quello che è stato prima scomposto. Avvi certamente rispetto ai pensieri quella stessa divisibilità all' infinito, che si ravvisa nella scomposizione della materia, ond' è che sono vani gli sforzi di tutti quei logici che hanno voluto ridurre tutto lo scibile ad idee assolutamente elementari. Di qui poi scaturisce un' altra conseguenza ed è, che sebbene l' analisi appartenga al second' ordine d' intellezioni, tuttavia certi suoi prodotti sono proprŒ del terzo, e innanzi questo non si potrebbero avere, e lo stesso può ripetersi d' ogni altro ordine d' intellezioni superiore, di maniera che ad ogni ordine intellettivo l' analisi contribuisce qualche cosa del proprio lavoro. Le prime astrazioni che si fanno dal bambino sono le qualità sensibili degli enti, cioè il buono sensibile, il male sensibile, ecc.. Queste qualità non sono finalmente che effetti prodotti dagli enti nella nostra facoltà di sentire. Egli è naturale che il bambino da principio non può mettere la sua attenzione che in quel che sente, giacchè ciò che non sente non esiste ancora per lui. Ma tostochè egli giunge a mettere tra di loro in armonia le sensazioni de' suoi varŒ organi e a ricever l' una di esse come annunzio d' un' altra, ad aspettar questa, perchè gli è venuta prima quella, ecc., egli con ciò un po' alla volta giunge a porre la sua attenzione anche sulle azioni degli enti e ad astrarre queste da essi, sempre mediante il linguaggio, cioè mediante i verbi che segnano appunto l' azione delle cose. Mi si permetta qui d' aggiungere ancora le osservazioni d' una madre sulla maniera onde il bambino, mediante il linguaggio, giunge a formarsi gli astratti delle azioni. [...OMISSIS...] Queste osservazioni sono piene di verità, e di sagacità non comune. I giudizi sintetici di questa età sogliono essere la conseguenza d' un raziocinio catatetico , che si forma nella mente del fanciullo. A ragion d' esempio, quando il fanciullo giudica buono il cibo che vede prepararglisi, egli concepisce nella sua menticina un discorso, che, se potesse essere espresso in proposizioni, prenderebbe questa forma. « Ciò che veggo adesso è uguale a ciò che ho veduto altra volta, ma ciò che ho veduto altra volta era buono al mio palato e al mio stomaco; dunque ciò che vedo è buono al mio palato e al mio stomaco ». E` ben lontano il nostro fanciullo da poter esprimere tali proposizioni, ma la sostanza di esse passa indubitatamente pel suo spirito. Or poi, se il bambino della età accennata può fare dei raziocinŒ catatetici, e così salire al terz' ordine d' intellezioni; egli non potrebbe però ancora concepirne di ipotetici, o di disgiuntivi , perocchè i raziocinŒ di queste due forme esigono la maggiore composta di due predicati confrontati insieme, dei quali l' uno suppone l' altro, o l' uno esclude l' altro. Ora egli ha bensì de' predicati , ma per confrontarli tra loro e trovarne il rapporto dovrebbe salire ad un ordine più elevato d' intellezioni, come vedremo nelle sezioni seguenti. Or quali sono dunque gli oggetti, che l' uomo viene a conoscere colle operazioni indicate del terz' ordine? - Noi parleremo di alcune classi principali di tali oggetti, e prima dei reali, poi degl' ideali, e finalmente de' morali. Cominciamo dai primi. Fra gli oggetti reali dobbiamo in prima esaminare il progresso che fa lo spirito ne' concepimenti di collezioni. Gli astratti , e le idee collettive furono confuse insieme da' sensisti, e dagli Scozzesi, ma differiscono tra loro interamente (2): gli astratti sono il fondamento delle collezioni, ma non sono le collezioni. Io non potrei avere l' idea collettiva d' una mandra di pecore, se non avessi prima l' idea astratta della pecora, in cui ciascuna pecora della mandra conviene; perocchè la collezione non è che una moltitudine di cose sotto un certo rispetto uguali. Vediamo dunque per quali passi lo spirito si forma i concetti delle collezioni. Al primo vedere di più cose, che fa il fanciullo, o al primo sentirle contemporaneamente, egli non si forma già l' idea di collezioni, nè di pluralità, nè di differenze. Concedendo che il suo intendimento si mova alla percezione , e concedendo però che quelle sensazioni non rimangano meri fenomeni sensibili; non ne viene ancora che l' intendimento acquisti alla prima i concetti indicati di moltiplicità ecc.. Ciò che soltanto si può osservare si è questo, che, allorquando il fanciullo vede due cose a sè presenti, egli ha una percezione diversa d' allora che vede una cosa sola. Da ciò ne viene che il fanciullo distingua nel primo caso due oggetti, nel secondo un solo; egli non distingue se non due percezioni diverse, di cui non sa ancora farne l' analisi; la moltiplicità è tale per chi sa distinguere e separare le unità che la compongono; ma quando queste unità si percepiscono a un tratto e, come diceva la Scuola, « per modum unius », la mente allora non concepisce alcuna collezione. La diversità tra la percezione di un oggetto, e la percezione di più oggetti fu ciò che trasse in inganno Bonnet, al quale parve d' avere un fondamento per dire, che « « le idee di collezioni si formano dall' azione degli oggetti sensibili sui nostri organi, come si formavano pure, a suo credere, le idee semplici »(1) ». All' incontro concedendo noi, che l' impressione che ricevono gli organi del bambino alla vista d' un branco di pecore sia grandemente diversa da quella, che riceve dalla vista di una pecora, neghiamo al tutto che la diversità consista nell' essere quella un' impressione rispondente ad un' idea collettiva, e questa un' impressione rispondente ad un' idea di cosa unica: anzi esse sono due impressioni semplici, l' una più variegata dell' altra, ma che non dà allo spirito ancora alcuna vera idea di collezione. Si vede in questo errore di Bonnet, che questo filosofo non conobbe la vera natura delle idee collettive, nè credette necessario d' investigarla; ma osservata la differenza dell' impressione che fanno le collezioni di cose dall' impressione delle cose singole, ne dedusse che in questa differenza d' impressione consistesse appunto la natura dell' idea collettiva. Nè il sistema de' sensisti poteva difendere la mente dall' errore preso da Bonnet; perocchè in questo sistema non essendo essenzialmente separata la sensazione dall' intellezione, era impossibile l' accorgersi, che l' intendimento non percepisse ad un tratto quanto vi ha nella sensazione, ma soltanto un poco alla volta. Noi abbiamo veduto (1) che l' intendimento da principio non percepisce che la forza del corpo, dove ravvisa l' ente; e che solamente da poi colloca la sua attenzione sulle qualità sensibili dell' ente, le quali per buona pezza rimangono nel senso, sentite bensì dal soggetto, ma al soggetto ignote. Di più abbiamo veduto che l' intendimento con ogni suo atto percepisce il menomo possibile; cioè a dire percepisce solamente quel tanto dell' oggetto sensibile, che è costretto a percepire dal suo bisogno, che è lo stimolo che lo fruga e sveglia a' suoi atti; e nulla affatto di più. Quando anche adunque le due sensazioni di una collezione di cose e d' una cosa sola potessero prestare la materia all' intendimento per giungere a comporci l' idea di collezione e l' idea di cosa unica, non ne verrebbe mica di conseguenza che l' intendimento anche si componesse, di fatto e tosto, tali idee; ma anzi solamente allora, che nasce al soggetto intellettivo il bisogno di esse e non prima. E in ogni caso rimane al filosofo il dovere di descrivere tutto il processo delle operazioni che va facendo l' intendimento, quando dalla materia datagli da' sensi giunge effettivamente a lavorarsi e comporsi quelle idee. Egli è dunque questo che a noi conviene ora investigare. Egli è certo intanto che l' analisi d' idea di una collezione somministra per risultamento: 1 che questa idea suppone, che chi la ha sappia che cosa sia unità; 2 che sappia che più unità sono insieme adunate nello stesso spazio; per restringerci ora a questa specie di collezioni, come quelle, che sono più facili. Questa seconda notizia ne racchiude poi un' altra, cioè l' uguaglianza sotto un certo rispetto delle unità componenti la collezione; conciossiachè se più cose fossero in tutto e per tutto differenti tra loro, niuna collezione più formerebbero (1). Ora non è già a credersi, che il concetto dell' unità nella forma astratta, che vien significata nella parola, si formi assai presto nella mente del fanciullo. L' uno ideale esiste implicitamente nell' ente , che è il lume naturale della mente, e perciò il fanciullo lo suppone e l' adopera; ma senza porvi sopra attenzione, appunto perchè non ha bisogno d' un' astrazione così elevata. Nondimeno, allorquando egli sente a nominare (ed è ancor qui il linguaggio che aiuta la sua mente) un oggetto, due oggetti, ecc., egli arriva dopo qualche tempo ad accorgersi, che i due oggetti sono l' oggetto stesso ripetuto. Il fare coll' intendimento il giudizio seguente: « Questi oggetti, che io vedo sono due », è un' operazione complicata. Noi possiamo considerarla primieramente come un' analisi di quell' unica impressione sensibile, nella quale gli si rappresentano i due oggetti. La mente ritorna sopra questa impressione, la percepisce, e in essa distingue un oggetto dall' altro. Ma a far questo conviene che la mente abbia sentito a pronunciare il nome comune de' due oggetti, supponiamo il nome pera ; conviene, che abbia sentito ad applicar questo nome all' uno e all' altro oggetto, e che abbia compreso, che questo nome significa ciò che quelli oggetti hanno di comune; conviene, che la qualità comune de' due oggetti l' abbia nella sua mente legata a quel nome, e perciò stesso astratta dagl' individui. Nè si può dire, che perciò l' intendimento sia giunto ancora a formare il giudizio: « Questi oggetti sono due ». Conciossiachè la qualità comune, che restò nella mente legata al nome, non suppone alcuna dualità perchè è unica, e l' esser venuta da più oggetti non induce la necessità che anche la pluralità di questi oggetti sia restata nella mente, potendo aver ciascuno di essi deposto nella mente l' elemento comune senza che la mente li abbia considerati insieme, e abbia notato il rapporto numerico che hanno tra loro. Ma quando il fanciullo da una parte ha la qualità comune nella mente sua legata al nome, poniamo di pera , e dall' altra sente ripetersi agli orecchi la parola una pera, due pere, e vede questi oggetti presenti, allora egli finisce coll' assegnare un senso alle parole uno e due , e a fermare la sua attenzione sull' unità e sulla qualità delle pere. Laonde se noi consideriamo questo processo di operazioni, colle quali la mente giunge a concepire la dualità degli oggetti, noi facilmente ci accorgeremo che non può il fanciullo giungere a tanto se non arrivato al terz' ordine d' intellezioni. E infatti la qualità astratta appartiene al second' ordine, come abbiamo veduto. Il riflettere al rapporto numerico che hanno due oggetti partecipanti la stessa qualità astratta, esige manifestamente una riflessione di più, cioè un' intellezione di terz' ordine. Ma qui gioverà, che seguitando il discorso accenniamo ancora il modo, pel quale la mente passa a concepire gli altri numeri superiori al due; il che sebbene ella faccia sollevandosi ad ordini d' intellezioni sempre maggiori, onde il discorso apparterrebbe alle sezioni seguenti, tuttavia l' unir qui tutto ciò, che spetta alla cognizione dei numeri, renderà la dottrina più lucida. Egli è dunque evidente, che pei numeri tre, quattro, cinque e tutti gli altri maggiori, hassi a fare un ragionamento in parte simile a quello, che abbiam fatto per ispiegare la concezione del due. Sono sempre necessarie le parole, che fissino nella mente il rapporto numerico, cioè la trinità delle cose, la quaternità ecc.. Di più egli è impossibile il passare a numerare tre oggetti senza numerarne prima due, come è impossibile giungere al concetto dei quattro, se prima non si è formato il concetto dei tre. Questo dimostra che ciascun numero appartiene ad un ordine d' intellezioni superiore (1); di guisa che la mente è costretta a salire per tanti ordini d' intellezioni, quanti sono i numeri di cui ella giunge a formarsi una distinta idea. E dico una distinta idea, perocchè non è mica da credere che l' uomo abbia un' idea distinta di ogni numero che egli pronuncia colla sua bocca. E chi è mai che abbia una idea distinta di un milione, e anche solo del numero mille? Io credo per lo contrario che convenga discendere a un numero sommamente piccolo per trovar quello di cui gli uomini, anche dotti, abbiano un' idea distinta propria, e non aiutata da qualche formola generale. E infatti io credo impossibile, che l' uomo avesse pur nel linguaggio i nomi di numeri altissimi, quando egli non avesse altra via di concepirli se non quella che abbiamo accennata, di analizzare cioè la percezione, ch' egli riceve dalle collezioni, numerando le unità in esse distinte, e però notando il rapporto della seconda unità colla prima, della terza colle due prime, della quarta colle tre prime, e così trascorrendo tutti gli ordini delle collezioni a cui i numeri appartengono. In vece la mente, come diciamo, s' aiuta con delle formole generali; che se non le danno l' idea propria e distinta d' un dato numero, le danno almeno un' idea di rapporto del numero ignoto con un numero noto, e la cognizione di questi rapporti determinanti i numeri è sufficiente per avere implicitamente l' idea del numero, perchè si ha gli elementi coll' uso dei quali possiamo trovare il numero stesso. Mi spiego. Se io non conosco per se stesso il numero mille, ma so però ch' egli è dieci volte il cento, nella cognizione del dieci e del cento io ho implicitamente la cognizione del mille. Che se io non conosco il numero cento, ma so però ch' egli è dieci volte il dieci, io nella cognizione del dieci e del suo rapporto al cento ho implicitamente la cognizione del numero cento. Che se di nuovo io non conosco il dieci per se stesso, ma so però che è due volte il cinque, io nella cognizione del due e del cinque e del loro rapporto col dieci ho implicitamente la cognizione del dieci. Che se finalmente non conoscessi nè pure il cinque, ma sapessi però che è un numero che si compone di due volte il due più l' uno; io nella cognizione dell' uno e del due, e del loro rapporto col cinque avrei implicitamente la cognizione del cinque. Or dunque, se io conoscessi l' uno e il due, e i rapporti detti cogli accennati numeri, direi che la cognizione dell' uno e del due è propria e distinta; e la cognizione degli altri non è una cognizione distinta e propria, ma è una cognizione implicita ed espressa in formole . Da questo esempio si vedrà facilmente che ad acquistarsi la cognizione de' numeri mediante formole, la mente giunge assai più celeremente che non sia ad acquistarsi la cognizione propria e distinta de' singoli numeri; giacchè nel descritto modo la mente giunge al mille con quattro passi, con quattr' ordini di riflessione, là dove per acquistarsi la cognizione propria e distinta del mille dovrebbe impiegare mille passi, superare mille ordini di riflessioni; cosa quasi all' uomo impossibile. Ora la scienza de' rapporti de' numeri è l' aritmetica, ed essa perciò è quella che spiana la via per la quale il fanciullo possa più facilmente giungere molto avanti nella cognizione de' numeri. Si domanderà forse qual sia la prima formola che trova naturalmente il fanciullo per avanzarsi nella scala numerica, e a qual ordine appartenga: ecco ciò che a me ne pare. Ritorniamo alla nostra percezione collettiva: il fanciullo vegga un drappello di trentadue soldati; e sia già pervenuto alla cognizione dell' uno e del due. La maniera più semplice colla quale possa giungere, se non ancora a contarli, almeno a trascorrerli, a dividerli l' uno dall' altro, sarà la seguente. La percezione sua del drappello da principio è unica. Ma egli è già atto a fissare l' attenzione sopra un soldato solo. Egli può accorgersi allora che quel drappello non è un soldato solo, perchè vede, oltre il soldato da lui distintamente osservato nella sua percezione, esister ancora qualche cos' altro ch' egli chiama due. Ma questo due è più simile alla percezione totale che all' unico soldato ch' egli mise da parte: può dunque ripetere la stessa operazione e cavar dalla frotta, che restagli, un altro soldato: egli può ripetere la stessa cosa fino che ha fatto passare ad una parte i soldati tutti. Dopo di ciò egli non sa ancora il numero de' soldati; ma gli ha trascorsi uno per uno: ha avuto sempre sotto gli occhi due corpi; ma ha capito che il numerare uno e due si può ripetere quante volte egli voglia: questa è una cognizione nuova per lui ed importante. Se egli volesse qui continuare a riflettere, potrebbe formare due coppie di soldati, e poi due altre di queste coppie, e così procedendo trovare il rapporto del due col trentadue, o sia avere l' idea del trentadue tutto espresso col solo numero due, la qual sua formola sarebbe 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 equivalente a trentadue. Quindi facilmente si vede come il numero due sia un passo immenso per la mente fanciullesca; giacchè questo numero è la base di tutta la numerazione e l' aritmetica primitiva; non potendovi esser numero alcuno che non sia un composto di uno e di due, presi questi numeri e i loro composti una o due volte. E questa importanza del numero due nelle umane cognizioni spiega, se non erro, perchè nelle lingue antichissime v' abbia una terminazione a posta pel duale , nè si confonda il duale col plurale, come si fa nelle lingue moderne. Egli è vero che il duale delle lingue antichissime si applica, il più, a quegli oggetti che sono due in natura come gli occhi, le labbra, le mani, i piedi, le macine, ecc.; ma ciò appunto dimostra la speciale attenzione che fece la mente primitiva sulle cose doppie, e come avendo potuto notare in esse il due, poi con questo ebbe aperto il campo a tutti gli altri numeri che indefinitamente li comprese sotto una sola terminazione plurale. Un altro prodotto delle operazioni intellettive del fanciullo in questa età sono i primi principŒ definiti che acquista la sua mente, de' quali si serve per giudicare. Conviene conoscere chiaramente che cosa sia un principio o sia una regola di giudicare: egli non è altro che « un' idea che viene applicata mediante un giudizio (1) ». Quando io al vedere un oggetto, giudico che è « una pianta »; io applico l' idea della pianta all' oggetto che veggo; e il mio giudizio non è che una proposizione colla quale io affermo che « ho riscontrato nell' oggetto veduto ciò che contemplavo in quella idea ». L' idea dunque della pianta è la regola che seguo in formando questo mio giudizio. Ciò conosciuto, apparisce che vi sono altrettanti principŒ quante idee (2): e che l' essere più ampŒ o più ristretti i principŒ non dipende se non dalla maggiore o minore ampiezza che hanno le idee che vengono applicate. L' uomo, la natura umana è formata da un' idea sola (intuizione dell' essere). Se non ne avesse alcuna non sarebbe un essere intelligente, conciossiachè l' atto caratteristico dell' intelligenza è il giudizio, e il giudizio non è che l' applicazione di un' idea. Quando adunque l' uomo comincia ad usare dell' intelligenza formando i suoi primi giudizŒ, egli non può farli che dietro l' unica idea che ha, quella di esistenza, ondechè prima di giudicare qualsiasi altra cosa, giudica che la cosa esista, ne pronuncia l' esistenza. Allorquando pronuncia intellettivamente l' esistenza d' una realtà applicandole l' idea (percezione intellettiva) quest' idea gli serve di principio . Fino adunque dai primi atti intellettivi l' uomo ha nella mente sua un principio secondo cui giudica; perchè ogni giudizio suppone una regola che si applica in giudicando. Tuttavia questo principio, secondo il quale l' uomo giudica che le realtà esistano (percepisce), è un principio indefinito e illimitato; perchè si applica egualmente a tutte le realtà sensibili; e questa sua indefinitezza è quella che la distingue da' principŒ definiti che, secondo me, non compariscono nel fanciullo, se non quando questi è giunto al terz' ordine delle sue intellezioni. E veramente nel primo ordine d' intellezioni non ci sono che percezioni e idee imaginali. Le percezioni non possono servire di principio per la loro particolarità, e lo stesso dicasi delle memorie di esse. Le idee imaginali potrebbero, essendo universali; ma non trovandosi più individui del tutto uguali, non hanno un' applicazione possibile. Oltre di che applicare quelle idee non si possono, se non ripetendosi le percezioni avute: or queste non hanno mai bisogno di quelle idee per loro regola, quando anzi esse sono il loro effetto. Il second' ordine poi somministra delle idee astratte, ma non fa più che somministrare queste alla mente, e preparargliele per le operazioni del terz' ordine d' intellezioni. E veramente, quando la mente applica a giudicar delle cose quelle idee ch' ella si procacciò nel second' ordine d' intellezioni, allora ella fa appunto di quelle operazioni colle quali si eleva al terz' ordine. Ora, questi principŒ sono definiti, perocchè le idee astratte e semi7astratte, che il second' ordine somministra, hanno tutte una limitazione, non abbracciano l' essere in tutta la sua estensione, ma diviso, e da certi confini più o meno estesi circoscritto. Le idee astratte di cibo, di cane, ecc., non si applicano a tutti gli esseri; ma servono solo a riconoscere tutti quegli enti che sono cibi, tutti quelli che sono cani, ecc. (1). Quelle idee adunque diventano principŒ più ristretti che non l' idea dell' essere in universale, nella loro applicazione. Dai principŒ che dirigono i giudizi teoretici, passiamo ai principŒ morali e pratici che dirigono le azioni del fanciullo. E` un errore il credere, che il bambino non abbia regole di moralità, un errore compreso nel pregiudizio comune e oltremodo antico, ch' egli non abbia uso di ragione, la qual ragione si fa dal volgo comparire nell' uomo tutt' all' improviso e quasi per incanto all' età di sett' anni. Tutto ciò che diciamo in quest' opera tende a distruggere questo tristo errore popolare. E quanto alle regole della moralità, noi abbiamo veduto che appariscono nel bambino fino dal second' ordine delle sue intellezioni. Queste regole primissime si riducono a due, e le abbiamo formolate così: 1 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita ammirazione ». 2 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita benevolenza ». Non è già che il bambino abbia idea del merito; ma sente la necessità, uscente dalla sua natura intelligente e morale, di ammirare e di amare quella cosa bella, animata e intelligente, che per le sue sensazioni egli percepisce, e colla quale vitalmente comunica. Qual modificazione soffrono queste regole intrinseche alla natura morale del fanciullo, quando questi giunge al terz' ordine d' intellezioni? Cessano esse? Perdono esse di forza? Se ne sopraggiungono delle altre? La natura morale dell' uomo non può perdere le sue regole primitive; sentirà ella sempre il bisogno di ammirare e di amare ciò che è bello, animato e intelligente: e ci vorrà una violenza, qualche cosa che la pervertisca, acciocchè ella cessi dal farlo. Ma egli è vero però, che al fianco di quelle regole primitive ne insorgono delle altre nell' animo umano. Ogni età, ogni ordine di intellezione ha le sue regole; il fine, l' essenza loro è la medesima, tendono tutte a prescrivere la stima e l' amore a ciò che è bello, animato e intelligente: ma esse conducono l' uomo a questo fine comune per diverse strade, gli parlano con un linguaggio sempre nuovo, conveniente al nuovo stato della sua mente: l' uomo crede di far guadagno di sempre novelle massime morali, quando infatti ella è sempre la stessa massima, immutabile, eterna, che prende nuove forme nel suo spirito che fa di sè nuove manifestazioni. Noi dobbiamo dunque tener dietro a queste manifestazioni, a queste espressioni sempre nuove del dovere morale che nella mente dell' uomo s' ingenerano ad ogni nuovo ordine d' intellezioni; ed è questo che noi vogliamo ora fare nel terzo di questi ordini. Quali sono dunque le regole morali del bambino giunto al terz' ordine d' intellezioni? Nel secondo l' ammirazione e la benevolenza è già nata in lui: queste volizioni, effetti delle regole primitive, al terz' ordine si cangiano esse stesse in regole morali. Le regole morali adunque pel nostro bambino al terz' ordine d' intellezioni sono le seguenti: Ciò che è conforme alla mia ammirazione è bene. Ciò che è conforme alla mia benevolenza è bene. Ciò che è contrario all' una e all' altra è male. Ciò che non è nè conforme nè contrario alla mia ammirazione e alla mia benevolenza, è indifferente. Queste regole morali che segue il bambino nella sua quarta età differiscono non poco dalle regole primissime ch' egli segue nella età anteriore. Noi abbiamo già veduto, che le persone che governano il bambino possono influire assaissimo sullo sviluppare e sul dirigere la sua ammirazione e la sua benevolenza; con questa influenza da loro esercitata con tutti i loro atti e con tutte le loro parole, possono restringere o allargare la benevolenza infantile, possono dar luogo nell' animo dell' infante alla malevolenza, ispirargli dell' avversione per certi oggetti, della propensione per certi altri; ed abbiamo mostrato quanto giovi, quanto sia necessario tener lontano da quell' animo la percezione e opinione del male, cioè del brutto, e dar opera perchè il semplice cuore s' empisca di benevolenza e di ammirazione, sicchè questi affetti conservino la maggior possibile universalità. Io credo che possa influir questo immensamente sul far prendere all' uomo un corso di vita morale e virtuoso, e giovi a prevenire le passioni a quell' età che sogliono dar all' uomo il più fiero assalto. Ma la felice influenza di quella primissima educazione morale si manifesta già tosto nell' età intellettiva susseguente. Perocchè da essa dipende che le regole morali, che si forma il fanciullo nell' età rispondente al terz' ordine, sieno vere o false, sieno conformi o diformi dalla natura delle cose, lo ingannino o lo dirigano rettamente. E in vero se queste regole sono le sopra accennate « Ciò che è conforme alla mia ammirazione o benevolenza, è bene; ciò che si oppone alla mia ammirazione o alla mia benevolenza è male ecc. »; egli è evidente che queste regole sono vere o false, rette o torte, secondochè la benevolenza e l' ammirazione del bambino è ben formata e ben ordinata; o vero mal formata e mal ordinata. La condizione dunque delle regole morali, ch' egli si forma, dipende dalla composizione che ha preso il suo animo nella precedente età. Si vede di qui l' importanza di procurare, che la prima forma, che prende l' animo suo, la prima mole di stima e di benevolenza che in lui si pone, sia tutta pura e naturale, non contraffatta, non alterata dall' arte, non avvelenata dall' ignoranza e dalla malizia; perocchè se le stesse regole morali del suo operare vengono contraffatte e falsificate dalla prima mala forma che prenda l' animo suo, come potrà camminar diritto quel fanciullo che ha dinanzi agli occhi delle regole false? Eziandio che volesse andar bene, non potrebbe. Si declama sovente dai genitori e dagl' istitutori sulla perversa indole de' fanciulli. Eh! quest' indole non è sempre in essi necessità fisica; qualche cosa d' innato: ella prende questa apparenza, perchè non si vede il lavoro occulto che è venuto formandosi di continuo nelle loro piccole menti, onde si è bel bello immensamente falsato il loro pensare: esistono nelle loro testicciuole dei principŒ falsi che essi seguono fedelmente anche prima di saperli esprimere, e di cui nessuno saprebbe spiegare l' origine: nessuno infatti gli ha forse loro insegnati; ma il loro spirito che non resta mai ozioso, e che si va sempre lavorando dei principŒ, osservando anche in ciò le sue leggi indeclinabili, venne pur componendosi e rassodandosi certe persuasioni profondamente false, che dirigono poi segretamente il fanciullo e cagionano gli atti, atti suoi, fino i più capricciosi ed inesplicabili; conciossiachè esse sono i soli fanali che mandano nell' animo suo quella luce fallace, alla quale camminando gli è forza aberrare. Nel nostro fanciullo non si può ancor parlare di libertà: le sue azioni appartengono alla spontaneità . Mirabili sono le leggi, colle quali opera la spontaneità sia meramente animale, sia intellettiva e morale: noi le abbiamo esposte nell' « Antropologia ». Fra le volizioni spontanee si distinguono le affettive , le apprezzative , e le appreziative . Nella seconda età, in conseguenza del primo ordine d' intellezioni, già cominciano nel fanciullo tanto le volizioni affettive quanto le apprezzative. Nella terza età in conseguenza del second' ordine d' intellezioni cominciano nel fanciullo le volizioni apprezzative in un modo più esplicato. Nella quarta età continuano a svilupparsi i due predetti generi di volizioni; ma non per anco comparisce il terzo genere, cioè le appreziative, perocchè avendo queste bisogno di paragone tra due o più oggetti, non si possono formare fino a tanto che non si è giunti non solo a numerare due oggetti, ciò che si fa nel terz' ordine d' intellezioni, ma ben anco a raffrontarli tra loro, e trovare le differenze, ciò che spetta al quart' ordine, come vedremo. L' aumento delle volizioni affettive e apprezzative che succede nel fanciullo, porta in lui una spontaneità sempre maggiore, una sempre maggior mole di attività effettiva. Questa spontaneità poi non essendo temperata e diretta dalla libertà colla quale l' uomo comanda a se stesso, si spiega in modo che lascia vedere l' indole e le leggi sue proprie. Io ho mostrato che le leggi principali della spontaneità sono due: 1 l' aver ella bisogno di uno stimolo, acciocchè venga suscitata all' azione; 2 suscitata poi, il produrre ella un' azione maggiore di quella che sarebbe proporzionata allo stimolo stesso (1). Questa soprabbondanza d' azione, parte è messa dall' attività dello spirito, parte dalla legge d' inerzia, per la quale « ciò che è già in moto si continua nel suo moto fino che questo non venga da altra forza distrutto ». Questa legge può osservarsi nell' attività de' fanciulli. Cercando noi sempre di raccogliere i fatti, e di sottoporli agli occhi del lettore come i soli documenti fededegni di quanto avanziamo, recheremo anche quello che venne osservato da chi non pensava certamente di venire in appoggio delle nostre dottrine. [...OMISSIS...] Un altro carattere dell' attività del nostro bambino è la sconnessione de' suoi atti volitivi, e delle sue azioni esterne che vengono in conseguenza di quella (1). Quando sia ammesso il principio che ogni attività nell' uomo viene da una passività precedente, e che in conseguenza tutta l' attività volitiva seguita le concezioni dell' intelletto, quella sconnessione di movimenti ed azioni esterne è spiegata appunto dalla sconnessione delle sue idee. Nella seconda età le concezioni che eccitano e dirigono l' attività intellettiva (2) sono le percezioni, ciascuna delle quali è indipendente dall' altra. Tuttavia la sconnessione di quell' attività non dà tanto negli occhi, perchè l' attività messa in moto nel fanciullo è ancor poca, ed il bambino giunge all' oggetto della sua attività immediatamente. Nella terza età l' attività del bambino si muove anco dietro gli astratti. Questi primi astratti sono tra loro divisi; e però anche l' attività riesce sconnessa, e tratta di qua e di là quasi da mille centri diversi. Comincia poi la sconnessione ad apparir maggiormente quando l' attività che si muove è maggiore. L' attività in questa età non giunge, come nella precedente, immediatamente al suo termine, l' oggetto reale che cerca, ma con un passo in mezzo, cioè colla mediazione dell' idea astratta. Nella quarta età ancor più cresce la mole d' attività che gioca nel fanciullo, e non v' ha tuttavia niente che la notifichi; conciossiachè i principŒ secondo i quali ella opera sono infiniti, cioè altrettanti quante le idee che vengono da lui applicate. Andando innanzi col suo sviluppo, queste idee si raggrupperanno, questi principŒ si renderanno lentamente più generali, ed allora anche l' attività dell' uomo verrà da se stessa e quasi per incanto ordinandosi, raccogliendosi e avvicinandosi sempre più all' unità. Intanto all' adulto riesce molesta quella versatilità fanciullesca, non l' intende, e vuole imporre al fanciullo di quelle regole che ottimamente presiedono ad una attività unita, ma che sono inutili ed inapplicabili ad un essere che non ha un' effettività sola, ma molte scucite l' una dall' altra, ciascuna delle quali non è suscettibile di quelle regole, e tutte insieme non esistono, perocchè l' una non sa dell' altra: indi una delle maggiori difficoltà dell' educazione (1). Vedremo più tardi come nell' attività del fanciullo irruisca la fantasia, e n' accresca la versatilità. All' attività sconnessa del fanciullo appartengono quei giochi dove avvi gran movimento e una successione d' impressioni sconnesse, ma sempre nuove. L' inclinazione ad esercitarsi in tutti i possibili movimenti si spiega anco cogl' istinti animali. Il movimento è piacevole e salubre all' animale, e i movimenti ch' egli fa non sono certo diretti da alcun principio di ragione, che in lui non si trova, ma ciascuno ha la sua ragione e determinazione nelle leggi dell' animalità. A que' movimenti che sembrano fatti a caso e unicamente per diletto, noi attribuiamo il nome di giochi, gli consideriamo in un aspetto burlevole, quasi tendano a far ridere. Tuttavia per l' animale non sono già scherzi più quelli che il prender cibo: tutto ciò che si riferisce al sentimento del riso, è a lui straniero. Ma il disordine capriccioso di que' gesti e moti ha per noi quel turpicolo improvviso che cagiona il riso. Vi ha il turpicolo in que' movimenti raffrontati a' movimenti ordinati della ragione, e vi ha l' improvviso ed inaspettato per la loro continua novità e apparente stranezza. Quello che è singolare si è che il fanciullo trova ben presto qualche cosa di bernesco ne' proprŒ giochi: egli ve lo trova di mano in mano che si sviluppa in lui la ragione; e divien per lui una nova cagione di diletto. Ride di ciò che fa egli stesso e che vede fare agli altri fanciulli: tuttavia egli non ride propriamente di se stesso, perocchè mai di sè non si ride. E` il segnale ch' egli riconosce della frivolità, della sconcezza nei suoi atti; e di questo segnale dee cavar profitto l' istitutore: egli dee coltivare e perfezionare la conoscenza che il fanciullo si forma da sè del poco accordo che passa fra i suoi trastulli e la sua dignità di essere ragionevole: e giovandosi di questa cognizione dee condurlo ad un contegno composto e regolato. Egli è dunque un errore l' applaudire a ciò che v' ha di ridicolo nelle azioni fanciullesche: i movimenti naturali possono essere permessi fino che la natura animale li produce, quasi direi all' insaputa della ragione: ma tosto che la ragione interviene e li giudica come piccole turpitudini, allora debbono incominciare a cessare; debbono rendersi cagione di un cotal sentimento di pudore. L' istitutore dee sempre allora aggiungersi alla ragione per darle forza, e mantenere le sue parti. Ai giochi di moto disordinato debbono succedere gli esercizi ordinati dell' arte ginnastica. I giochi poi che consistono in abbattimenti di casi sempre nuovi non sono conosciuti dalle bestie; essi sono proprŒ del solo uomo, il quale vi trova il diletto di appagare la sua curiosità, la voglia di percepire e di sapere le cose sotto tutti i loro possibili aspetti. Ho già detto che questi possono essere assai utili allo sviluppo dell' intendimento, se l' istitutore ne saprà profittare; e nelle sue mani si cangeranno in vere e ben ordinate e dilettevoli istruzioni di matematica. L' attività morale del fanciullo a questa età si spiega principalmente sotto le due forme, quella di diritto di proprietà e quella di ubbidienza . L' una e l' altra di queste due forme sono l' effetto della benevolenza e dell' ammirazione del fanciullo. Al primo ordine d' intellezioni egli non possedeva ancora, nè ubbidiva; ma ammirava ed amava. Egli aveva percepito degli esseri intelligenti e belli oggetti della sua affezione e della sua ammirazione, co' quali comunicava per mezzo della simpatia e dell' istinto d' imitazione; ma dei quali non intendeva ancora nè i pensieri, nè i voleri; si noti che la simpatia e l' istinto d' imitazione, che si manifestano nell' ordine dell' animalità, sono comuni anche all' ordine dell' intelligenza; di maniera che vi ha anche una simpatia ed un istinto d' imitazione intellettivo. Queste leggi comuni ai due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo, sono quelle che mirabilmente si legano tra loro; e fanno sì che l' uno all' altro si continui, quasi direi, senza che se ne vegga la commessura (1). Ora tostochè il fanciullo apprezzò ed amò un oggetto, egli concepisce il sentimento della proprietà, cioè quell' oggetto acquista una cotale unione spirituale con lui, e da lui staccandolo se ne risente, come se gli si dividesse una parte di se stesso (1). Percepisce ancora le cose delle persone a lui care unitamente con queste, e però gli ripugna il veder trasportare gli oggetti da queste usate, non altramente che se essi oggetti formassero parte delle stesse persone. Da principio questo fatto ha per cagione la forza unitiva dell' animale (onde anche fra le bestie si notano de' fenomeni simili); poscia serve all' inclinazione della natura animale la volontà (volizioni affettive); in appresso l' intendimento percepisce anch' egli il vantaggio di contemplare le cose belle, e gliene duole se vengono sottratte alla sua contemplazione; in quarto luogo finalmente (e certo molto più tardi) l' intendimento perviene a conoscere gli usi delle cose e ad apprezzarle anche per questi; dietro al quale apprezzamento la volontà si affeziona ad esse di un nuovo amore men nobile del primo, dell' amor interessato. Di questi elementi viene successivamente componendosi a parte materiale del diritto di proprietà: la parte formale non può essergli aggiunta che dal dovere, dalla legge morale. Se nel primo ordine d' intellezioni il bambino percepisce il bello, nel secondo, in occasione di rimanerne privo, prova il doloroso sentimento della privazione; nel terzo astraendo le azioni delle cose comincia a pregiarle pe' loro usi, o almeno a ciò si va disponendo. Dallo stesso fonte dell' ammirazione e della benevolenza nasce come dicevo l' ubbidienza del fanciullo. L' ubbidienza non è in lui che il desiderio, la volontà di uniformare se stesso agli enti intellettivi divenuti oggetti de' suoi affetti. Da principio, come dicevo, egli si uniforma loro come può, cioè colla simpatia e colla imitazione animale intellettiva. Ma col second' ordine d' intellezioni imparando il linguaggio, egli acquista un nuovo mezzo di comunicazione della sua colle anime da lui stimate e care. Gli si comunica una nuova luce: vede dentro a quelle anime: discuopre in esse pensieri e volontà: trova con ciò nuovi lati, da cui poter se stesso a loro uniformare e acconciare. Queste scoperte egli le fa col linguaggio, che comincia ad apprendere col second' ordine delle sue intellezioni e continua cogli altri. Giunto dunque al terz' ordine già in possesso del linguaggio, di questa chiave dell' interno de' suoi simili, vede coll' uso di esso le loro opinioni ed i loro voleri. Conosciuti questi tosto incomincia a manifestarsi nel fanciullo la credulità e l' ubbidienza. La credulità non è altro in lui che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse opinioni che hanno le persone colle quali usa. La ubbidienza parimente da principio non è altro che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse volontà pure delle persone colle quali usa. In questa loro prima apparizione la credulità e l' ubbidienza del bambino nascono dunque dal bisogno, ch' egli sente di rendersi uniforme colle persone da lui conosciute. Questo bisogno di uniformità che sentono tra loro le anime tosto che si conoscono, è veramente cosa profonda, misteriosa: per darne una soddisfacente ragione converrebbe scendere nel religioso segreto dell' ontologica dottrina. Non è questo che possiam noi fare adesso: basterà che constatiamo bene i fatti. « Il primo fatto si è, che il bambino dà segni di stima e di affetto a qualsiasi persona che da principio gli sorrida »: egli allora è giusto, non avvi presso lui accettazione di persone, è un giudice, dinanzi al quale i nomi de' piaggiatori rimanendo celati, giudica con integrità « secundum allegata et probata »: la sua tendenza ad esser rispettoso e benevole è universale. Dunque nell' essere intelligente, nel fondo della natura, trovasi una cotale necessità primitiva di dare stima ed amore a qualsivoglia essere intelligente ch' egli conosca. Questo è il gran fatto sul quale come sopra saldissima base sta fondata tutta la moralità: rimetto il lettore alla teoria che noi n' abbiamo data (1). Se da questa necessità primitiva nascono gli affetti che il bambino dà alle persone conosciute; da questi affetti nasce pure la necessità di essere con esse perfettamente d' accordo. Si suol dire che « l' amore o trova simili le persone amate o le fa ». Si dee aggiungere con egual verità che « l' amore fa simile chi ama alla persona amata ». La ragione ne è manifesta: l' amore vuole unione, vuole unione sì stretta che tende ad una cotale immedesimazione. Ora l' unione che vuole l' amore, l' immedesimazione a cui tende non può aver luogo, se non mediante conformità di opinioni, per la quale uniformità due menti sono unite in una sentenza, e conformità di voleri, per la quale due cuori sono uniti nel medesimo voto, hanno il medesimo bene, il medesimo male, godono insieme quello, soffrono insieme questo, si muovono con un passo solo a quello e si rimuovono pure con un medesimo passo da questo. Ripeto che qui ci covano dei misteri, nei quali non voglio io ora entrare, ma dico solo che il fatto sta così; me n' appello a tutti, perchè non vi ha creatura umana, la quale non ami. Se noi vogliamo dare a questo fatto una espressione diretta e se vogliasi così chiamarla scientifica, potrà annunciarsi in questo modo: « Quando un essere intelligente e volitivo ne percepisce un altro qualunque, gli effetti che in lui naturalmente si manifestano sono i sentimenti della stima e dell' amore ». Questa è la prima parte del fatto: la seconda parte è quest' altra: « Quando un essere intelligente che n' abbia percepito un altro, cedendo alla legge della sua natura abbia ammesso in sè i sentimenti della stima e dell' amore, questi sentimenti portano in lui una morale necessità di uniformare le proprie credenze alle credenze (1) dell' ente conosciuto e i propri voleri ai voleri pure del medesimo, tosto che venga a conoscere quali sieno queste credenze e questi voleri »(2). L' idea di essere ingannato non può venire al fanciullo se non dall' esperienza; come pure dalla sola esperienza gli può venire l' idea che dall' aderire all' altrui volontà gl' incolga alcun male. Lo stesso concetto dell' errore o del male è posteriore a tutto ciò nella mente del fanciullo. Rimangono adunque in lui le due sole tendenze della credulità e dell' ubbidienza tutte semplici, da nessun sospetto turbate o represse, e però nella loro maggior forza: ecco il primitivo fondamento della facilità colla quale il bambino crede e ubbidisce: son tendenze naturali dell' essere intelligente, a cui il fanciullo cede, perchè niente si oppone alla sua spontaneità. Veniamo ora all' istruzione e all' educazione morale, che risponde all' ordine d' intellezioni fin qui esposto. Già il lettore ha inteso prima d' ora, che cosa noi intendiamo per « istruzione rispondente a un ordine d' intellezioni ». Nondimeno mi si permetta il metterlo oggimai in espressi termini, affine di togliere ogni equivoco od obbiezione al metodo che proponiamo. L' istruzione adunque rispondente ad un dato ordine d' intellezioni abbraccia tre parti bene distinte, le quali sono: 1 Quella istruzione che serve per accrescere alla mente del discepolo il numero e la perfezione delle intellezioni degli ordini precedenti. 2 Quella istruzione che serve per far passare la mente del discepolo dall' ordine d' intellezioni in cui si trova, a quello che gli è prossimamente superiore. 3 Quella istruzione che serve a esercitare e perfezionare il discepolo nella dottrina appartenente all' ordine nel quale la sua mente ha già posto il piede. La distinzione importante di queste tre parti basta a rimuovere il timore, che il metodo nostro potesse rallentare i progressi della mente umana: anzi non fa che indicare la via più diretta, più spedita, più soave, per la quale ad essa mente conviene naturalmente procedere. Quindi facilmente si può inferire, come la lingua e lo stile, che usano le persone che istruiscono il fanciulletto, dee variare ad ogni ordine di sue intellezioni. Perocchè nella lingua e nelle varie parti, di cui ella si compone, cade ben sovente il bisogno di usare un ordine di intellezioni assai grande; onde non tutti i vocaboli d' una lingua possono essere usati col fanciulletto ad ogni sua età; ma anzi quelle che non si possono classificare nelle tre parti indicate dell' istruzione a lui conveniente cioè o tra le intellezioni degli ordini anteriori, o tra quelle dell' ordine prossimo a cui può salire col primo passo della sua mente, o tra quelle di questo medesimo ordine a cui è già salito, sono vocaboli del tutto perduti, inintelligibili al fanciullo, e però attissimi a confonderlo, a turbare il progresso delle sue idee come le pietre turbano i passi di chi cammina, ed a rendergli però assai più malagevole l' intelligenza di quei vocaboli, che pur sono alla sua portata. Noi abbiamo veduto che al second' ordine d' intellezioni il bambino può intendere i nomi (1), al terzo i verbi, non però le declinazioni di quelli, le coniugazioni di questi, che troppe altre riflessioni esigono sui nessi delle cose: intende dunque il nome indeclinato e il verbo nel suo infinito e ne' participi, forme nelle quali il verbo è ancor nome ma esprimente azione. Chi dunque è arrivato al terz' ordine non potrà intendere se non quei vocaboli e quelle forme, le quali non suppongono che un solo ordine di più, quello a cui la mente dee sollevarsi, e nel caso nostro è il quarto. Si dovrà dunque cercare di comporre il discorso che si fa a' bambini di queste voci e forme per quanto è possibile; ed allora la comunicazione tra noi adulti ed essi sarà trovata, sarà apertissima. Lo stesso dicasi dello stile , lo stesso pure de' concetti che si esprimono nel discorso: conviene che o quello o questi non contengano intellezioni, se non tutt' al più di quart' ordine, e tali che si possano rannodare alle prime intellezioni degli ordini precedenti che sono già nella mente del fanciullo. Conviene che il fanciullo in ogni sua età operi . L' attività del fanciullo, abbiamo veduto, che è di tre specie: corporale, intellettuale, morale. Egli ha bisogno di tutte e tre queste specie di attività, colle quali si sviluppa, ma debbono essere guidate come conviene. Quanto alla quantità d' azione , non dee già esser soppressa l' azione naturale del fanciullo, nè eccitata; ma soltanto moderata quand' essa, eccedendo, recherebbe un danno alla sanità del fanciullo. Quanto alla qualità , dee essere alimentata quella, e non altra, che è proporzionata all' ordine delle sue intellezioni; e il difficile consiste appunto nel trovare giustamente quale ella sia. Quanto alla regolarità, si dee introdurre in essa due ordini: 1 L' ordine tra una specie e l' altra, che subordina e fa servire l' attività corporale alla intellettiva, e l' attività corporale non meno che l' attività intellettiva alla morale. 2 L' ordine entro ciascuna specie, in modo che in ciascuna attività si trovi quella uniformità, costanza, regolarità, e, per dire ancor meglio con una sola parola, ragionevolezza , che è possibile. L' ammaestrare e guidare in queste cose il fanciullo è veramente un educarlo. Sebbene, tosto che il bambino sa un po' favellare, potrebbe essere posto alla lettura; tuttavia io stimo da preferirsi il trattenerlo ancora nella scuola preparatoria dell' esercizio orale. Nell' esercizio orale si distinguono due parti, cioè la parte intellettiva e la parte meccanica . L' esercizio che si fa fare al fanciullo deve riguardare l' una e l' altra. Io ho già raccomandato, che fin dal secondo grado d' intellezioni si faccia fare al bambino l' esercizio di nominare più cose che sia possibile (1). Questo esercizio appartiene alla parte intellettiva, ed esso deve continuare ora e per molte ancora delle intellezioni che devono venire. Mentre poi allora non si poteva fare che co' nomi , in questa età e nelle susseguenti si può fare anco coi verbi (1) e coll' altre parti del discorso, osservando delle regole simili alle accennate. Ma ora egli è tempo di cominciare insieme anche l' esercizio meccanico e alternarlo all' intellettivo, e questo estenderlo via più. Questo esercizio meccanico è quello di rettificare la pronuncia de' bambini, e insegnar loro l' uso perfetto degli organi della favella. E in vero, dopo che i fanciulli hanno imparato qualcosa a parlare, la prima operazione è quella di rettificar bene i suoni che pronunciano, giacchè essi dapprima vi commettono molti difetti e imperfezioni; balbettano, smozzicano parole, strozzano suoni, scilinguano, ecc.. Onde innanzi di venire a farli leggere o scrivere si rendano perfetti nella pronuncia, facendo loro vincere le difficoltà delle sillabe più difficili. Al quale intendimento già si pose mente da' benemeriti promotori delle scuole infantili anco in Italia, e si conobbe che a tal fine è uopo far pronunciare « « nettamente e giustamente tutti i suoni elementari, di cui si compongono le parole intere (2) » ». Io credo che gioverebbe cominciare questo esercizio dal far emettere i toni musicali , prima secondo la scala naturale, di poi per li salti; i quali saranno già mezzi impressi nello spirito del bambino, se gli si fecero udire nelle età precedenti (3). A questo esercizio può tener dietro o intromettersi quello della pronuncia de' suoni vocali e articolati della favella. L' ordine nel quale si devono far pronunciare al fanciullo nostro i suoni elementari, parmi dover esser quello stesso, nel quale poi egli deve imparare a leggerli e scriverli. Ora a me sembra che devasi cominciare dalle vocali, e poi dai composti di vocali, appresso dalle sillabe che ciascuna altra lettera dell' alfabeto fa con ciascuna vocale, poi le sillabe di tre lettere, e così di mano in mano (1). Perfezionata la pronuncia di tutte le lettere, sillabe e parole, giova passare alla parte intellettuale dell' esercizio orale. Il far apprendere al fanciullo a nominare gli oggetti, come abbiamo detto, appartiene alla parte intellettiva. Appartiene pure a questa parte il fargli analizzare i suoni. Nel « Manuale » dell' Aporti ve n' ha un bell' esempio (2), solamente che non parmi che sia ancor tempo di parlare al nostro bambino di dittonghi o trittonghi, ma solo di pluralità di suoni; anzi parmi del tutto impossibile ch' egli intenda che cosa sia dittongo e trittongo, quando l' idea di due o tre suoni gli è facilissima (3). Così sarebbe impossibile, a mio parere, il fargli capire che l' ia in abbia è dittongo e non l' è in ubbi7a , e l' esempio recato dall' Aporti della voce ai così isolato non mostra che deva essere dittongo piuttosto che due semplici suoni, potendosi egualmente pronunciare ài, aì , ne' quali casi è dittongo, e à7ì separando le sillabe, nel qual caso non è dittongo, ma semplicemente doppio suono. Oltracciò, volendosi porre per base dell' educazione il procedere rigorosamente logico, parmi che non si deva dire che le consonanti divise dalle vocali abbiano un suono. Esse non sono suoni, ma cominciamenti o finimenti di suoni (1), i quali cominciamenti e finimenti non esistono senza i suoni stessi, come non esiste il punto senza la linea, o la linea senza la superficie, o la superficie senza il solido. Ciò posto, non parmi giusto che quando il maestro pronuncia la sillaba bi , e poi domanda al fanciullo: Quanti suoni avete udito? gli si faccia rispondere come nel « Manuale » dell' Aporti: Due suoni. Anzi egli deve rispondere: un suono solo; come risponderà da sè sicuramente, perchè quella sillaba è un suono solo. Bensì che, avutane questa risposta, gli si deve pronunciare prima i e poi bi, e domandargli se sono lo stesso suono. Egli risponderà che bi è un suono diverso da i . Allora gli si domanderà dove stia la diversità, se nel principio o nella fine del suono. - Nel principio. - E il suono ib è lo stesso suono di i, e di bi? - Anzi diverso. - Ma in che è diverso da i; nel principio o nella fine? - Nella fine. - E da bi? - Nel principio. E questo esercizio si deve continuare per tutte le sillabe. Conviene esercitare il bambino a scomporre le parole ne' loro suoni, cioè nelle loro sillabe, e nel riconoscere e notare le differenze loro (1). Questo esercizio orale sarà utilissima preparazione alla scuola di lettura che verrà appresso, e gioverà grandemente allo studio intellettivo del fanciullo (2). Giova ancora in questa età fargli numerare le cose uguali, acciocchè egli ascendendo per la scala dei numeri, si ecciti ad ascendere per le intellezioni di vari ordini. Nel che però egli da principio sembra mostrare più speditezza che non parrebbe doverne avere da ciò che per noi fu detto innanzi, che ogni numero è un ordine nuovo d' intellezioni. Ma la ragione di questa speditezza si è la formola semplicissima che egli tosto apprende per passare da un numero all' altro. Questa formola consiste nell' aggiungere sempre un' unità alle cose numerate. Egli ripete dunque la stessa operazione, e la segna con un numero nuovo. Quando dice uno e uno due, due e uno tre, tre e uno quattro, e così via, non ha mica per questo la distinta cognizione del due, del tre, ecc. che nomina e che distingue colle operazioni replicate; ma senza badare alla somma accumulata, egli vi aggiunge ogni volta l' unità, e poi vi dà un altro nome. Ciò non di meno anche questo solo è un esercizio utile al bambino; e a tal fine sarebbe da dargli prima due oggetti uguali, pallottole od altro, poi tre, poi quattro, ecc., lasciandoglieli a suo trastullo fino che si scorge esser egli venuto in possesso del numero che gli si vuol far apprendere. Altri esercizi sono indicati nel « Manuale » per le scuole infantili (1). A questa età ancora giova il mostrare al fanciullo le cose per imagini. Egli le ama, e se ne rallegra sommamente (2). Tra gli altri vantaggi, che cavar si potrebbe dall' uso delle imagini, vi sarebbe quello di disporre il fanciullo alla scuola di lettura e di scrittura che deve susseguire ben tosto. Sembra che la prima scrittura fosse per imagini: queste poi si raccorciarono in geroglifici: la scrittura letterale fu probabilmente l' ultima ad essere inventata. Fu già proposto di tenere il medesimo andamento col bambino; ma il difficile sta nel trovare imagini che, rattratte, si potessero convertire in altrettante lettere dell' alfabeto. Ancor più difficile riesce, se si esige che il nome dell' imagine porti nella prima sillaba il nome della lettera stessa, il che incredibilmente facilita ai bambini la lettura. Nondimeno io mi sono ingegnato di mettere insieme un sì fatto alfabeto ad uso delle scuole de' Fratelli della Carità, e delle Suore della Providenza, al quale rimetto il lettore (1). La moralità nei bambini fu giudicata diversamente: la più parte degli uomini non ve ne trova alcuna: alcuni osservatori sagaci vi scoprono una moralità, ma si dividono poi nel giudicarla; altri la vogliono bona e tutta bona; altri malvagia e malvagia per intiero. La ragione, onde i più non vedono moralità nell' età prime, si è perchè sono adulti quelli che ve la cercano, e vi cercano la moralità dell' adulto. Quello che abbiamo detto, crediamo che sia sufficiente a dimostrare che il bambino ha la sua propria moralità. Che nel bambino poi appariscano per tempo de' vestigi manifesti di un principio di errore e di disordine morale, questo è quello che hanno riconosciuto sempre tutti i savŒ uomini che hanno considerata la natura umana senza sistemi precedenti; egli è altresì uno de' dogmi più profondi e più maravigliosi del cristianesimo. Noi ci riserbiamo a dire su di ciò ancora una parola, quando il bambino comincerà ad operare con scelta; fin qui egli ubbidisce ad una spontaneità che lo determina, mediante la preponderanza de' gradi di sua benevolenza, determinati questi pure da ragioni esteriori (1). Noi vogliamo dunque restringerci per ora ad osservare la moralità del bambino in se stessa; non in ciò che potrebbe contenere di guasto radicale. Gli amici de' fanciulli, che attentamente gli osservarono, credettero di dover notare una grande incostanza nella loro moralità, nella quale non si potesse trovare, per poco, nulla di fisso. Ecco come ne giudica una madre, che avrebbe pur voluto dire il meglio del mondo delle care creature che sono i bimbi: [...OMISSIS...] . In fatti certi atti del bambino a questa età dimostrerebbero un estremo egoismo, e certi altri un estremo disinteresse. Onde quest' apparente contraddizione? Per rispondere a ciò conviene entrare in un mistero dell' età infantile; e non so se nessuno vi sia penetrato. Ecco la porta per la quale io vorrei farvi entrare il mio lettore. Il bambino ha il sentimento di se stesso, ma non l' idea , non la cognizione; egli non può percepire intellettivamente se stesso, se non pervenuto a un ordine più elevato d' intellezioni: questo è quello che noi dimostreremo nella sezione seguente, e che preghiamo intanto il lettore di qui concederci per postulato (2). Ora, in tutto il tempo che passa prima che il bambino percepisca intellettivamente se stesso, egli non può colla sua volontà riferire al SE conosciuto il bene ed il male; perchè il SE conosciuto non esiste ancora. Questa è la ragione degli atti sommamente disinteressati del bambino: il suo operare è ancor tutto oggettivo, il soggetto non esiste ancora pel suo intelletto e per la sua volontà. Ma onde dunque avviene che moltissimi altri atti del bambino appariscono pieni d' egoismo? Primieramente, nel tempo stesso che opera l' attività intellettiva nel bambino, opera in una sfera inferiore l' attività animale . Ora l' attività animale ha tutte le apparenze dell' egoismo sebbene non le si possa applicare questa parola (1), che venendo dall' ego, significa l' amor proprio di un soggetto che conosce se stesso, perchè l' io è appunto un soggetto che si conosce (2). In secondo luogo, quantunque il bambino non percepisca se stesso, tuttavia egli prova ed anche percepisce intellettivamente piaceri e dolori; ma questi non avendo un soggetto a cui riferirli, li riferisce agli oggetti che glieli cagionano; alla percezione e imagine di essi sì fattamente li associa, che nel suo concetto diventano una cosa sola con essi. Egli vuole dunque gli oggetti: il suo operare è sempre oggettivo: ma questi oggetti sono composti, come d' un loro elemento, di piaceri e dolori che sarebber suoi proprŒ, s' egli lo sapesse. Convien dunque distinguere i piaceri e i dolori percepiti in se stessi, senza il soggetto e imaginati essere nell' oggetto, da' piaceri e da' dolori riferiti allo stesso soggetto. L' operare in quant' è morale, prende forma dalla concezione e dall' intenzione di chi opera. Se dunque l' intenzione del bambino concepisce i dolori e i piaceri che prova negli oggetti che percepisce, egli opera dietro un principio oggettivo; ma l' apparenza che mostra il suo operare è tutta soggettiva; perocchè veramente egli va in traccia continuamente degli oggetti piacevoli, e rifugge dai dolorosi. Ora quest' apparenza soggettiva siamo noi che l' aggiungiamo alle azioni del bambino; perocchè siamo noi che le riferiamo al bambino soggetto, il che non fa il bambino stesso. Noi facciamo delle azioni del bambino quel che facciamo delle azioni nostre: riferiamo queste a noi stessi, perchè ci abbiam percepiti e continuamente ci percipiamo. Applichiamo dunque per analogia all' operar del bambino, quanto avviene nell' operar dell' adulto; ecco il solito errore: la fonte delle tante contraddizioni che ci sembrano scorgere nelle infantili azioni. Quanto è stato detto intorno alla misura ed alla qualità della resistenza, che si deve fare al bambino nell' età precedente, è necessario applicarsi anche alla presente, ed a quelle che verranno appresso. Esercizio moderato di pazienza, rettificazione di concetti, purgazione delle malevolenze, rimozione de' limiti alla benevolenza sono i quattro scopi che si dee prefiggere la resistenza e il rigore da usarsi col nostro fanciullo. Quanto più egli cresce, è altresì capace di sostenere una medicina più forte. Perocchè, posto il principio importantissimo che noi trattando con lui « dobbiamo applicare i suoi principŒ morali e non i nostri, cui egli non intenderebbe »ne viene di conseguente che quanto più i suoi principŒ si amplificano, tanto maggior appiglio noi abbiamo da influire su di lui e pretender da lui più di prima. Dico anche pretender da lui più di prima; perocchè « noi non possiamo pretendere dal fanciullo se non che egli sia coerente a suoi principŒ »noi non possiamo esigere se non che egli abbia la moralità sua propria e non altra; e solo quando egli se ne dispensa, noi abbiamo il diritto e il dovere di richiamarvelo, anco coll' aggiungere il dolore a tutte quelle azioni che disconvengono da' principŒ morali a lui noti, acciocchè egli sia aiutato anco dall' istinto del dolore a fuggire quelle azioni, la cui dolcezza lo inganna. E questo aumento di resistenza suol rendersi necessario per questo appunto, che crescendo in età si disviluppano nel bambino per varie cagioni diverse malevolenze e ritrosità; le quali si vogliono levare via tostochè nascono, scuoprendole con occhio sagace, acciocchè non invecchino e si distendano. Si deve proseguire in questa età il culto a quel modo che fu da noi dichiarato nella sezione precedente. Ma dopo qualche tempo che gli si nominò Dio e glielo si fece conoscere come un personaggio amabilissimo, il sommo bene; si dee per tempo fargli conoscere Iddio7umanato e Maria sua madre, e fargliene invocare i nomi spessissimo e, per quanto si può, ad ogni bisogno per soccorso, ad ogni azione per aiuto, ad ogni cagione di letizia per rendimento di grazie. Egli è incredibile quanto quest' esercizio gioverà a perfezionare nella mente del bambino l' idea di Dio, a far nascere la religione nel suo cuore, a rinforzarlo in tutte le sue disposizioni ed abitudini virtuose. Finalmente non si trascurino di procacciare al bambino quelle grazie, di cui abbiamo parlato alla prima età. Tutte le operazioni proprie degli ordini precedenti continuano a ripetersi, a complicarsi, a produrre dei nuovi concetti nell' intendimento, delle nuove affezioni nella volontà. Ci basta di averne avvertito il lettore: avvertenza che deve valere anco per gli ordini successivi; conciossiacchè in tutta la vita dell' uomo avviene che in qualsivoglia età continua ad operare tutta l' efficienza degli ordini d' intellezioni precedenti. Passando adunque noi senza più al quart' ordine, quali sono esse le intellezioni di quest' ordine? Troppo lungo sarebbe il farne una classificazione distintamente ragguagliata: noi però abbiamo indicata la via da tenersi, quando far si volesse, là dove abbiamo classificate distintamente le intellezioni del terz' ordine. All' uopo nostro basterà dunque che facciamo osservare, che tutte le intellezioni di quest' ordine si possono ridurre a due ampie classi. I Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine tra loro. II Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine colle intellezioni degli ordini precedenti. Ognuno intende da ciò che è detto, quale immensa classificazione simile a un labirinto ne uscirebbe dove si volessero suddividere queste due gran classi (1). E pure il quart' ordine delle riflessioni non è ancora nulla verso a quegli ordini tanto più elevati, a' quali perviene la mente degli uomini adulti e assai più ancora de' sapienti. Come l' operazione propria della mente, quand' è già in possesso delle intellezioni di second' ordine, si è la sintesi ; così l' operazione propria della mente stessa giunta a possedere le intellezioni di terz' ordine si è l' analisi giusta la legge da noi stabilita che « di tutti gli ordini dispari delle intellezioni è propria operazione il giudizio sintetico , e di tutti gli ordini pari è propria operazione il giudizio analitico ». Non sarà inutile che noi cominciamo dal vedere la differenza che passa tra i giudizi analitici al secondo ordine e i giudizi analitici al quart' ordine. I giudizi analitici al second' ordine sono delle pure astrazioni ; ma i giudizi analitici al quart' ordine sono delle scomposizioni elementari . La differenza tra queste due maniere di giudizi analitici è immensa: ecco dove consista. Nell' astrazione la mente non fa se non fermare la sua attenzione sopra una parte della sua concezione e trascurare tutto il rimanente. Così avendo io ricevute delle percezioni di corpi, io posso fermare la mia astrazione al colore, e così far di questo un essere astratto. Nella scomposizione elementare all' incontro la mente prende colla sua attenzione tutto intiero l' oggetto da lei concepito, e lo divide in parti. Così dopo d' aver giudicato che il tale oggetto è « un corpo colorato »io posso dividere in quest' oggetto la sostanza dall' accidente, e dire « quest' oggetto si compone di due parti, cioè della sostanza e dell' accidente, del colore ». Nell' astrazione recata ad esempio io ho pensato al colore e nulla più; quando ho giudicato che un dato oggetto sia un corpo colorito (sintesi al terzo grado), ho dovuto pensare ad un tempo il colore astratto e l' oggetto sussistente nel quale io lo ponevo. Se io ora dico che quest' oggetto ha due parti, io pongo medesimamente la mia attenzione tanto sulla sostanza quanto sull' accidente e di più ne riconosco la loro relazione . Lo studio poi di questa relazione diviene nel mio intendimento fonte inesausta di cognizioni, che mi si accrescono in appresso per tutta la vita. Fino a tanto che io percepisco degli enti individualmente sussistenti (primo ordine) non potevo fare alcun confronto fra loro e nol potevo pure, quand' io astraevo da essi le loro qualità (second' ordine): perocchè io mi fermavo a queste, astratte e divise dagli enti, e gli enti stessi in una tale operazione mi sfuggivano: riunendo agli enti le qualità astratte (terz' ordine) io riponevo gli enti interi sotto la mia propria attenzione. Solo pervenuto a questo grado il lavoro della mia mente, io avendo presenti e le qualità astratte e gli enti stessi sono in caso di confrontare le une cogli altri e conoscere col PARAGONE la scambievole loro natura. La fecondissima operazione del PARAGONARE le cose (operazione che dà alla mente un lume sfolgorantissimo) non può cominciare che al quart' ordine d' intellezioni (1). Il paragone non si può eseguire se non a questo tempo, anche perchè solo al terz' ordine l' uomo conosce la dualità. Nè solo mediante il paragone , al quart' ordine si distingue la sostanza e l' accidente , l' ente ed il modo dell' essere nella cosa stessa; ma si comincia altresì ad analizzare anche il grado, onde l' ente partecipa del predicato che noi gli attribuiamo; onde possiamo distinguere la gradazione nella quale due corpi, a ragion d' esempio, partecipano del color rosso o di altra qualità ossia predicabile (1). Si comincia adunque in questa età ad analizzare non solo l' ente; ma i modi, i predicabili stessi dell' ente. Come nell' ordine antecedente delle intellezioni continuò l' operazione dell' analisi, così egli è evidente che nell' ordine presente vi ha luogo alla sintesi: giacchè questa trova la materia preparata da quella. Uno dei prodotti dell' analisi del terz' ordine si fu quello dei concetti astratti delle azioni: le azioni dopo essersi astratte si applicano, si predicano degli enti e così si formano dei giudizi sintetici. Una somigliante sintesi si forma tanto rispetto agli oggetti reali, come se io al solo vedere il fuoco gli attribuisco l' azione del riscaldare; come rispetto agli oggetti meramente ideali, come se io imaginassi un ente qualsiasi e gli applicassi la proprietà riscaldatrice. Questo prova che la specie di sintesi, che nasce in questa età, estende immensamente il potere dell' imaginazione intellettiva (ideazione) rendendo possibile allo spirito l' attribuire a degli enti creatisi con essa delle attività che o non sono comprese nel loro concetto o se sono, sono però anco distinte da essi nella loro mentale esistenza. Questa osservazione è importante; perocchè spiega lo slancio che suol prendere l' imaginazione del fanciullo quand' egli giunge ai tre anni. A questa età par che incominci la mente a concepire qualche raziocinio ipotetico o almeno la proposizione maggiore di esso. Già nell' età precedente il fanciullo conobbe il numero due. Sembra dunque che di due cose egli potrebbe a questa età ravvisare la relazione che viene espressa nella maggiore del sillogismo ipotetico; cioè l' esser una d' esse condizione dell' altra. Tanto più, che nel sentimento le due cose stanno già legate e condizionate attesa la forza unitiva del soggetto. Laonde la mente non ha che ad analizzare, per così dire, il proprio sentimento per conoscere il condizionante ed il condizionato (1), analisi però che prima del quart' ordine sicuramente non può eseguirsi. Imperocchè deve la mente: 1 percepire il sentimento; 2 disgiungere le due cose legate tra loro (terz' ordine); 3 osservare che data l' una vi è l' altra, tolta l' una l' altra pure è tolta; dopo di tutto ciò solamente ella può dire: « se la tal cosa è (od avviene o si fa) è pure l' altra ecc. »che è la maggiore del sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico dilata immensamente l' attività volontaria; perocchè solamente quando nella mente cominciano a formarsi le ipotesi, possono aver luogo le volizioni condizionate, distinte dalle assolute; come pure le velleità d' ogni genere; avanti questo tempo non ha il fanciullo velleità; egli vuole semplicemente e però fortemente. Che se la condizione posta alle volizioni diminuisce la forza di queste, il che è perdita di energia, vi ha però un compenso in questo che le rende più regolate, dirette da maggior lume di ragione; cominciano a legarsi insieme, a subordinarsi; indicibile profitto per lo sviluppo della moralità. Nell' età precedente si giunse a conoscere il numero due. Era necessario conoscere uno e due oggetti prima di poterli paragonare insieme e trovarne le differenze . Ora, come il paragone è operazione che comincia all' età del quart' ordine, così pure in questa età solamente si può avere il prodotto mentale delle differenze delle cose. Ciò che abbiamo detto addietro basterebbe solo a mostrare che ella è cosa assai più facile il conoscere le somiglianze di quello che sia conoscere le differenze delle cose. Ma chi ha seguito il progresso dello sviluppo intellettivo nel bambino, da noi descritto fin qui, e l' analisi delle operazioni della sua mente e de' prodotti di questa, si sarà convinto ancor più colle sue proprie riflessioni di questa verità importante e contraria al comun pregiudizio de' filosofi, che suppongono trovarsi le simiglianze e le differenze coll' operazione stessa. Questo pregiudizio nasce dal non considerare che ciò che è simile in più oggetti si può appercepire e notare dalla mente in due modi, o come una qualità semplice (più generalmente un predicabile ), o come una qualità che noi sappiamo trovarsi in più oggetti e renderli simili (1). Ora, a conoscere il simile in questo secondo modo, certo che egli è necessaria l' operazione stessa che si usa a conoscere il differente ; ma tutt' altro avviene se trattasi di conoscere il simile nel primo modo. Questo primo modo è semplicissimo, ed appartiene al secondo ordine d' intellezioni, perocchè non consiste in altro se non in collocare la nostra attenzione intellettiva in una qualità di una o più cose, trascurando di attendere a tutte le altre parti delle medesime, e lo stesso loro numero; perocchè in questa operazione non si fa se non ripetere la stessa attenzione alla qualità identica in ciascuno degli oggetti che passano sotto l' occhio, senza tener menomamente conto del loro numero e senza paragonarli. All' incontro la differenza non si può scuoprire in nessun modo, se non si mettono a paragone e non si noti in che cosa entrambi divariano. Il numero tre è il proprio di quest' ordine, giacchè la mente del fanciullo nell' ordine precedente è pervenuta a conoscere distintamente il due. Come poi ella è giunta a conoscere il due coll' aggiungere l' uno all' uno; operazione che ella può poi ripetere, e la conduce alla numerazione, senza tuttavia farle conoscere i numeri maggiori distintamente, ma solo in confuso; così or può giungere alla cognizione del tre, sia coll' aggiungere l' uno al due, o coll' aggiungere il due all' uno, operazione anco questa seconda, che imparatala a far dal fanciullo, gli diventa presto una formola generale salendo nella scala de' numeri col ripetere l' aggiunta del due: onde conosce i numeri mediante una relazione di più. Cresce la cognizione delle collezioni delle cose di pari colla scienza de' numeri. Il nostro bambino potrà avere oggimai un' idea distinta delle collezioni composte di due e di quelle composte di tre oggetti; ma di quelle composte di un maggior numero non avrà che un' idea confusa. Discernerà bensì i molti ed i pochi , giacchè avendo l' idea confusa di collezioni numerose, e l' idea chiara del paio e del ternario, potrà conoscere facilmente che vi hanno delle collezioni superiori alle collezioni da lui chiaramente conosciute. Prima di questo tempo non poteva il fanciullo aver il concetto del mezzo , ma ora può averlo appunto perchè oggimai può conoscere due cose, l' una delle quali condizionata all' altra. Egli diviene anco questo incremento grandissimo alla sua attività, la quale non solo istintivamente come faceva prima, ma anco per calcolo intellettivo, potrà di qui in avanti subordinare un mezzo all' ottenimento di un fine. Egli non saprebbe tuttavia sottordinare l' uno all' altro una serie di mezzi: a far ciò egli dee fare delle riflessioni appartenenti ad un ordine superiore. I filosofi non hanno mai esaminata accuratamente la questione, per quanto io sappia, dell' età in cui l' uomo percepisca se stesso. Essi hanno comunemente ritenuto per cosa chiara e non bisognevole di dimostrazione, che l' uomo percepisca se stesso fino da' primi istanti di sua esistenza, e che non potrebbe percepir le cose senza aver prima percepito se stesso. Ma queste supposizioni gratuite non reggono all' osservazione esatta del fatto importante di cui si tratta. Il fatto anzi dimostra che l' uomo percepisce e intende molte altre cose prima di percepire ed intendere se stesso, e che egli non conosce il vero valore del monosillabo IO prima di essere giunto al quarto o al quint' ordine d' intellezioni. Di più l' osservazione dà un altro risultato, e questo si è che la conoscenza che l' uomo si forma dell' IO varia nelle diverse età di grado e di forma; e che questa parola IO perciò (come tante altre) pronunciata dall' uomo ad una età ha un significato diverso da quello che riceve pronunciata dall' uomo in un' altra età (1). Egli è necessario che qui noi ne diciamo alcuna cosa. A tal fine non possiamo a meno di ripigliare brevemente l' analisi dell' IO, sebbene da noi data altrove (2). L' IO esprime l' ente umano che parla (3) e che nomina se stesso come esistente, come operante. Ora, l' ente umano è primieramente composto di due principŒ: 1 il principio animale; 2 il principio spirituale. Questi due principŒ sono però connessi in modo che il primo è legato al secondo, e il secondo esercita la sua forza e il suo imperio sopra il primo, di maniera che tutti e due si riducono ad un principio solo supremo, che è il principio intelligente; ma tale che ha virtù anco sopra il principio animale a lui congiunto. Questo principio supremo colle parti inferiori a lui congiunte è l' uomo , ma non è ancora l' IO. I due principŒ indicati sono due sentimenti, e perciò l' uomo non manca mai di sentimento: egli stesso è un sentimento intellettivo7volitivo che dispone di un altro sentimento sensitivo7istintivo. Ma questo sentimento7uomo non è l' IO, perocchè l' IO non è un sentimento, è una coscienza. Or, come dunque e quando si forma l' uomo quella coscienza di sè stesso che egli poi esprime col monosillabo IO? Esporrò prima una ragione assai plausibile, la quale potrebbe far credere l' uomo si dovesse far tosto quella coscienza, anzi non potesse andarne senza. Da prima egli è certo, come ho provato nella « Ideologia », che in lui si manifesta l' essere ideale. Quando dico che si manifesta in lui l' essere ideale, allora dico che l' essere ideale si manifesta in un sentimento sostanziale, il quale sentimento è egli. Sono dunque uniti il sentimento sostanziale e l' essere che risplende in quello. Ciò posto, egli parrebbe che questa unione bastasse a fare sì che il soggetto percepisca se stesso; se pure è vero ciò che altrove affermai, che « « il sentimento è come la scena sulla quale gli oggetti ci compariscono e ci si rendono visibili » » (1). Non cancello quest' ultima sentenza. Egli è certo che niente può essere da noi intellettivamente percepito, se non ciò che opera nel nostro sentimento sostanziale. Laonde accordo che il sentimento stesso essendo ciò in cui si veggono le cose che si veggono dall' intendimento, egli stesso può essere veduto senza bisogno che un altro sentimento ce lo presenti. Ma primieramente si deve distinguere nel sentimento sostanziale l' atto con cui questo sentimento vede l' essere dagli altri atti di lui. Ora l' atto con cui vede l' essere, non può mai essere quello con cui vede se stesso; ed anzi egli è un atto che esclude la visione di se stesso. In quanto adunque il sentimento direttamente si porta nell' essere, egli è incognito a se stesso. Ora qui si noti bene: l' uomo, e soprattutto l' IO, è essenzialmente quel principio che vede l' essere; è il sentimento sostanziale intelligente. Escluso da sè questo sentimento, l' uomo più non esiste; l' uomo non ha la coscienza di se stesso fino che non ha la coscienza di essere intelligente. Acciocchè dunque arrivi a formarsi una tale coscienza, conviene che il sentimento sostanziale non vegga semplicemente l' essere, ma vegga se stesso veggente l' essere (1). Ora, a tal fatto non basta che egli sia presente sulla scena dove si veggon le cose; ma conviene di più, che con un atto nuovo che cava da sè, egli applichi l' essere che vede a se stesso veggente l' essere, e che mediante questa applicazione dell' essere, illumini e vegga se stesso nell' essere. Convien dunque che cavi da sè un atto nuovo, non datogli dalla natura, ma mosso dalla sua spontaneità suscitata da qualche bisogno o stimolo: ecco la grand' opera che a far gli rimane se vuol percepire se stesso. Se dunque tutto ciò che cade nel suo sentimento è in luogo da poter essere da lui veduto, e il sentimento stesso veggente l' essere (se stesso) gode di questo vantaggio; si dee però aggiungere, che questa visione o percezione non può essere effettuata, se non a condizione d' un atto nuovo uscente dall' intimo del soggetto, che è un atto della forza dell' attenzione, la quale si concentra e ripiega sopra l' oggetto che vuol vedere, pel quale ripiegamento lo spirito (il sentimento sostanziale) guarda se stesso veggente l' essere, unitamente all' essere veduto e in questo contenuto quasi come in suo genere. Ora, quest' atto del conoscimento di sè, così implicato, sarà egli più facile degli atti co' quali lo spirito conosce le altre cose? Il sentimento7uomo opera conoscendo; e conosce prima le cose di cui abbisogna; ora egli non abbisogna punto di conoscere se stesso per operare, abbisogna di conoscere altre cose le quali egli non ha, e vuole avere ed operare per averle, e per operare conoscerle; se stesso non cerca, perchè si ha, ma cerca quelle cose le quali completino se stesso, sovvengano a ciò che gli manca, alle sue deficienze e limitazioni; l' uomo è un essere incompleto; se bastasse a se stesso, nulla cercherebbe, non ci sarebbe in lui attività di moto, ma solo attività di stato. Le sue stesse sensazioni piacevoli e dolorose non le concepisce se non annesse agli oggetti esterni, e in questi le suppone esistenti. L' uomo adunque non può essere richiamato a ritorcere la sua attenzione a se stesso che dal linguaggio. Ma il linguaggio stesso non viene appreso dal bambino tutto ad un tratto; egli deve passare per più ordini d' intellezioni prima di capire tutte le parti del discorso. Vedemmo già che al second' ordine d' intellezioni egli non apprende che i nomi sostantivi, e per meglio dire sostantivati; e che solo nel terz' ordine egli giunge a formarsi l' idea astratta delle azioni delle cose. Solo adunque al terz' ordine egli può nominare le proprie azioni; ma queste nulla più che oggettivamente, come le azioni di tutte le altre cose. Egli ha bensì il sentimento delle proprie azioni che è una cotale estensione del suo sentimento sostanziale, ma nulla più. Le azioni sue sono esterne, cadono sotto i suoi sensi, come le azioni degli altri; se stesso all' incontro è interiore, è un principio invisibile che produce quelle. Egli conosce adunque le proprie azioni prima di sapere che sono sue proprie, prima di riferirle a se stesso col suo intendimento; perocchè se stesso nel suo intendimento ancora non esiste. Giunge bensì nella terza età ad attribuire le azioni ad un ente, ma non ad osservare fra gli enti quello che è egli stesso. Nel quart' ordine d' intellezioni, e non prima certamente, ma forse di poi, egli può percepire se stesso come principio operante, mediante il linguaggio; egli cioè può ritrarre la propria attenzione dal di fuori sul proprio sentimento operante, accorgendosi per tal modo che certe azioni hanno per causa quel sentimento che lo costituisce, a differenza di certe altre che non sono da quel sentimento prodotte. La prima adunque ed elementare cognizione di se stesso che abbia l' uomo, consiste nella percezione di « SE operante »(1), intendendo la parola SE pel sentimento sostanziale, che forma l' uomo dallo stesso uomo percepito. Questo sentimento operante può essere benissimo espresso colla voce IO; ma questa voce non avrebbe ancora tutto il significato che le compete, e che le viene poscia dagli uomini sviluppati attribuito. L' IO non si pronuncia mai solo, ma con qualche verbo espresso o sott' inteso (2), il che è manifesta prova della legittimità del modo onde ne abbiamo spiegato l' origine. E` dunque questo primo IO « il sentimento sostanziale operante che percepisce se stesso e che si esprime ». Ma con una riflessione maggiore, che l' uomo poi faccia sopra se stesso, egli viene a conoscere l' identità di sè parlante e di sè parlato; ed allora l' IO riceve una significazione più completa, venendo a significare « il soggetto umano operante (il sentimento sostanziale operante) che percepisce se stesso come operante, che come tale si esprime, e che sa che egli, che parla, è identico a lui parlato ». Questo significato del monosillabo IO non può essere attribuito se non dall' uomo giunto almeno al quint' ordine d' intellezioni. Tanti e così difficili elementi racchiusi in questo monosillabo spiegano il perchè tardi e con difficoltà egli s' intenda. [...OMISSIS...] Ho già detto che ne' popoli antichi si trova una gradazione d' intelligenza simile a quella che si osserva ne' bambini e che le lingue antiche ne conservano le vestigia. Anche qui non manca la traccia dell' infanzia delle nazioni, se si osserva che quanto le lingue sono più antiche, tanto meno gli uomini introdotti a parlare usano del pronome personale IO, come pure del TU. Questa è la ragione per la quale le lingue orientali amano di far parlare i personaggi in terza persona anzichè nella prima (1). Che se noi rivolgiamo l' attenzione a' bambini, potremo facilmente notare la difficoltà che essi provano a rettamente usare i pronomi personali io e tu . In vece delle mie proprie osservazioni, io assai volentieri accolgo le altrui quando sono dalle mie confermate, perocchè adducendo io l' altrui testimonio, niun potrà dire che io piego l' osservazione al servigio del mio sistema. Una donna adunque, la quale non aveva certamente in mira di venirmi in aiuto, quando osservava e quando scriveva, una donna di cui riferisco sempre volentieri le osservazioni, perchè solitamente vere e sagaci, scrive tutt' al mio uopo così: [...OMISSIS...] . A questa sola età può cominciare a formarsi nella mente del fanciullo il concetto del tempo. Questo concetto incomincia a formarsi non già col raffrontare le tre parti del tempo, il presente, il passato e il futuro; ma solo col raffrontarne due, il presente col passato, ovvero il presente col futuro. A tanto può arrivare il fanciullo al quart' ordine delle sue intellezioni. Al terz' ordine egli ha un' idea accurata del numero due, al quarto può paragonare le due cose distinte e vederne le differenze. Distinguere il tempo presente dal tempo passato, ovvero distinguere il tempo presente dal tempo futuro, questa può essere operazione appartenente al quart' ordine: distinguere tutti e tre i tempi raffrontandoli tra loro prima del quint' ordine è assolutamente impossibile. Di più si noti, che non parliamo già del tempo interamente astratto dagli avvenimenti, ma del tempo considerato come una qualità, un predicabile di questi. Che un avvenimento cessi d' esistere quando un altro incomincia, o che un avvenimento ad un altro succeda, questo rimane nella ritentiva del bambino come un fatto anche solo per la forza unitiva dell' animalità. Di poi gli avvenimenti s' incatenano mediante associazione d' idee. Questo non è ancora il concetto del tempo negli avvenimenti. Egli è uopo che il bambino noti un avvenimento che fu ieri, e lo distingua con quello che accade oggi, mettendolo con questo in paragone; ovvero distingua quel d' oggi da quello che sarà domani; acciocchè si possa dire che egli s' è formato il concetto del tempo presente e del passato, o del presente e del futuro. Ora primieramente questo tempo è un predicabile degli avvenimenti che non cade sotto i sensi, è una limitazione dell' esistenza sopra sensibile delle cose. Egli è dunque necessario alla mente il linguaggio, acciocchè ella possa fermarvisi e ritenerla. Oltrecciò la forza dell' attenzione nel bambino è ancor poco sviluppata, e quel poco d' effettività che ha messo fuori vien tutta assorbita dagli oggetti presenti, nuovi per essa e però interessanti; sicchè non ne rimane guari per ciò che è passato e per ciò che ha da venire. Indi è che l' osservazione mostra che assai tardi i fanciulli distinguono bene i tempi. [...OMISSIS...] Un' altra prova della difficoltà che trova il fanciullo in notar bene i tempi vedesi manifestamente nella gradazione con cui apprende il linguaggio, specchio del suo concepire. Egli per molto tempo adopera il verbo all' infinito , e ben tardi esprime con esso i diversi tempi. Lo stesso si trova in alcune lingue di popoli assai addietro nella coltura intellettiva. Anche nelle lingue antichissime il verbo ha pochi tempi (2), e questi non ben determinati, ma di un uso incerto. Tutte le idee già moltiplicatesi nel fanciullo diventano ben presto principŒ secondo i quali egli giudica ed opera come abbiamo veduto. Solamente che un' idea, acciocchè acquisti forma e valor di principio, dee rimanersi qualche tempo nella mente umana, e il ridurla all' applicazione è affatto appartenente a un ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel dell' idea. Laonde nel quart' ordine d' intellezioni si cangiano in principŒ le idee avute al terz' ordine. Ora vedemmo che fra le idee del terz' ordine vi hanno quelle che appartengono alle azioni. I principŒ di più rilevanza adunque, che il bambino acquista al quart' ordine delle sue intellezioni, consistono in quelli che egli si trae dalle idee delle azioni. Quando egli ha conosciuto le azioni delle cose, e veduto replicarsi molte volte sempre le stesse, allora comincia già a concepire qual sia il modo costante del loro operare, ed è in istato di prevedere che cosa un dato oggetto a lui presente opererà, quali forze egli spiegherà, quali effetti si produrranno da quella cagione. Per tal modo egli vien ponendo un confine alla potenza de' diversi oggetti che conosce, e non aspetta più da essi se non certe determinate operazioni, e dove quegli oggetti gliene producano d' insolite, egli se ne maraviglia come di cosa straniera alla sua credenza ed alla sua aspettazione. Prima che il fanciullo unisca a certe cose certe azioni, la sua credulità è senza limiti: niente a lui sembra impossibile. Quando il fanciullo vede che sua madre parla, come fosse informata di ciò che egli ha fatto lontano dagli occhi suoi, o quando la sua bona gli dice che il dito mignolo la ebbe informata di qualche sua scappatella, perchè non se ne maraviglia egli? Perchè non ha ancora fissato bene la limitazione de' corpi di essere in un luogo solo, nè la limitazione de' sensi di non poter sentire a certa distanza, nè la limitazione dell' operare del dito mignolo di non poter nè sapere ne comunicare altrui le cose. A me stesso sono rimaste più memorie della mia infanzia che provano quanto lentamente i fanciulli mettano de' limiti all' operare delle cose. Mio zio Ambrogio, che ha preso tanta cura della mia infanzia, era di persona assai grande, ed io ancor bambino riputava che niente potesse resistere alle sue forze. [...OMISSIS...] E` dunque l' esperienza quella, che nella mente del fanciullo va ponendo i limiti all' operare delle cose, e prima che il fanciullo trovi questi limiti nella sperienza, egli non li pone loro da sè, ma crede tutto possibile, la sua credulità è illimitata. Nell' aderire alle parole altrui, molto fa la benevolenza verso di chi gli parla, come abbiamo veduto, ma non potrebbe mai la benevolenza muovere il suo intendimento a dar fede a ciò che egli credesse assurdo. Egli non crede dunque assurdo che gli oggetti abbiano certe virtù e facoltà che noi adulti sappiamo che non hanno, fino a tanto che anch' egli non abbia trovato nel fatto medesimo la non esistenza di quelle attribuzioni. Tutto ciò è degno di essere meditato, potendosene trarre di grandi conseguenze a conferma delle dottrine ideologiche e antropologiche. E veramente due cose rimangono a spiegare nella credulità che nel bambino precede l' esperienza: 1 perchè creda egli tutto possibile; 2 come o perchè l' esperienza venga limitandogli questa possibilità. Niuna teoria ideologica può rispondere adequatamente alla prima di queste due domande, eccetto quella che pone l' essere ideale indeterminato innato nell' uomo; il quale essere contiene e mostra in sè la possibilità universale. Sino a tanto dunque che il bambino non ha altra regola de' suoi giudizŒ, se non quella che porta innata della mera e nuda possibilità, egli giudicherà tutto possibile, crederà tutto, eccetto solo quello che egli credesse intrinsecamente ossia metafisicamente impossibile, a cui nè pure il fanciullo dà mai l' assenso. Senza di ciò niente egli potrebbe giudicar possibile, nè giudicherebbe. Anche questo fatto adunque, cogl' innumerevoli altri che ho qua e là riferito, viene a confermare la teoria filosofica da me proposta, e sarebbe tempo che, per onor d' Italia, non si vedesse più quindi innanzi stampato e ristampato presso di noi, che quella teoria non è sorretta da prove d' esperienza, e si sostien solo mediante un argomento per esclusione, dove riman dubbioso se non sieno forse bene enumerate tutte le parti (1). Per rispondere alla seconda questione, converrebbe rammentare ciò che ho detto altrove sull' origine e sulla forza del principio d' analogia (2). Quando l' uomo vede seguire costantemente per lungo tempo un dato effetto, egli si forma la persuasione che sarà sempre così, e però se l' avvenimento è periodico, come il levarsi del sole, predice al venir dell' epoca, che quell' avvenimento avrà luogo. La ragione di ciò si è che la mente concepisce la causa dell' avvenimento, concepisce che l' avvenimento non può star solo, che egli deve essere l' effetto in ultimo di qualche sostanza o di più sostanze, e ha l' intima nozione della stabilità delle sostanze. Vedendo il costante ordine della natura, non dubita di giudicarlo perenne, facendo interamente senza accorgersi quest' argomento: « ciò che avviene in quest' universo è l' effetto di qualche cosa di costante; dunque continuerà ad avvenire ». Qualche cosa di simile vien facendo l' uomo, cominciando nell' età infantile e seguitando lungamente durante tutto il suo sviluppo, nel comporsi « i principŒ, le opinioni e credenze sull' operare delle cose ». Veggendo avvenir gli effetti allo stesso modo sempre, certi eventi manifestarsi sempre dati certi oggetti, certi altri non manifestarsi; egli lega le azioni agli oggetti, agli enti, e finisce col formarsi certe persuasioni le quali, formolate, direbbero: « questo ente ha la virtù di portare questi effetti e non altri »; « la potenza di quest' ente si stende solo fin qui, ha questi limiti, quest' indole, questa forma, queste leggi, ecc. ». Ogni qual volta l' uomo si è formato uno o l' altro di questi principŒ, egli ha ristretto con ciò la sfera della sua credulità; perocchè ove altri gli raccontasse cosa che contradice a que' principŒ formatisi intorno all' operare degli esseri, egli la prenderà per impossibile e non la crederà. Così se io dirò che un ragno camminava nell' aria senza attenersi ad alcun filo, non me lo crederà colui che si fosse fabbricato in mente il principio « che un animale privo dell' ale non ha la potenza di spaziare libero nell' aria » (1). E qui chi non vede il filo per condurre una storia, che riuscirebbe importantissima, della credulità ed incredulità umana? Questa storia ha gli stessi periodi negl' individui e nell' umanità intera. Il bambino comincia dal creder tutto ciò che non è agli occhi suoi contradicente (perocchè nè pure il bambino unisce mai il sì col no , ma ne sente la ripugnanza): e poi si forma delle opinioni che limitano il potere delle cose che percepisce. Queste opinioni per certe cagioni segrete, che non abbiam qui tempo di rilevare, restano incompiute; è lavoro ancora sul telaio, per così dire: nella mente non vi ha ancora niente di ben conchiuso, di ben fermato. Ma si conchiudono, si fermano poi gradatamente, e la fermezza e saldatura di tali opinioni nasce allor quando non solo si conosce che un dato ente « ha una determinata potenza e un determinato modo di operare », ma di più si conchiude che « esso non ha niun altro modo di operare, niun altro grado di potenza, eccetto quello che si è a noi costantemente manifestato ». Questa parte negativa delle opinioni sull' operare degli enti è quella che chiude e ferma l' opinione. Perocchè, fino a tanto che io credo bensì di aver rilevato, che un dato ente va fornito di una data potenza e di un dato modo d' operare, ma non vi aggiungo il giudizio, che esso non ha alcun' altra potenza, alcun altro modo, resta sempre la mia mente disposta ad accettare qualche nuova scoperta intorno quell' ente, e rallargare la potenza che l' opinione formatami intorno a lui gli attribuisce, e perciò a modificare e ad amplificare la mia opinione stessa. Ma quando la mia opinione è già chiusa, quando sono venuto in una persuasione assoluta e non provvisoria (1) che « un dato ente, cioè una data specie di enti non abbia altra maniera e grado di potenza », allora non presterò più fede a chi mi raccontasse un avvenimento, il quale supponesse in quell' ente una maniera diversa di operare, un grado di potenza maggiore. Ma se io stesso, co' miei proprŒ sensi, verificassi il fatto, e non avessi alcun effugio col quale il potessi o negare o spiegare altramente, in tal caso infrangerei la mia opinione, e me ne creerei un' altra tutta nuova circa l' efficienza di quest' oggetto. Ora tre cose si rappresentan qui curiose ed utilissime ad investigarsi: 1 che cosa determini l' epoca nella quale avviene che l' uomo chiuda le sue opinioni sull' efficienza delle cose; 2 quale sia il grado di fermezza onde quelle opinioni si suggellano e chiudono; 3 come e quando questo lavoro proceda con ragione, quando poi irragionevolmente. In quanto al primo quesito, egli è certo che nè i singoli individui, nè i singoli popoli vanno innanzi collo stesso passo; e però le operazioni proprie della natura umana, come son quelle di cui parliamo, sebbene si facciano in tutti gl' individui umani egualmente, tuttavia non si fanno tutte agli stessi tempi; e il medesimo si dica dello sviluppamento de' popoli. Il determinare poi tutte le circostanze e cagioni per le quali in un individuo (lo stesso dicasi di un popolo) cada in un certo tempo e proprio in quest' anno, in questo giorno, in questo istante, ella è cosa impossibile; giacchè infinite sono le circostanze minutissime che influiscono nell' umana mente. Tuttavia difficile ma bella ricerca sarebbe sottomettere tali avvenimenti a certe leggi determinate, alle quali per fermo ubbidiscono; cosa però che trascenderebbe i confini di quest' opera. Quanto alla seconda questione, cioè al grado di forza onde l' opinione intorno all' impotenza delle cose si suggella e si chiude, questa è più o meno forte alle diverse età ed ai diversi individui. Diremo in generale che quanto un uomo cresce in età, tanto più quella sua opinione si rinforza, e dura più fatica a risolversi di romperla per formarsene una nuova. Onde è difficile che i vecchi prendano opinioni nuove non che in filosofia razionale, ma nè pure in fisica; massime se sono chiusi in piccola società, e variino poco le cose che li circondano, e il tenore di lor vita sia uniforme. Questo fatto come pure tanti altri dipendono dalla legge generale, « che quanto più lungamente e frequentemente l' uomo osserva le medesime operazioni de' medesimi enti e non mai altre, tanto più si persuade che il potere di quegli enti sia limitato a quelle, e non possano di più, nè in altro modo ». Di che si può spiegare quello che l' esperienza dimostra che « l' uomo comincia la sua vita con una universale credulità, la quale va grado grado diminuendosi sempre più cogli anni, e dando luogo negli animi anzi ad un principio d' incredulità, che tante volte diviene nelle età più mature dominante » (1). Toccando ora della terza questione, cioè della ragionevolezza ed irragionevolezza della credulità e dell' incredulità dell' uomo, si può dire in generale: 1 Che la credulità del bambino è sempre ragionevole, perocchè il bambino non ha veruna ragione di discredere, ed ella in lui non è altro se non l' affermazione della possibilità assoluta, unica possibilità ancor da lui conosciuta. Ora anche quello che è fisicamente impossibile, non è impossibile metafisicamente, ed affermando questa maniera di possibilità assoluta, il bambino dice la verità. Se dunque altri gli afferma di poter volare, egli crede di non essere ingannato; perchè vede la cosa possibile, e non è ancora in caso di misurare le facoltà reali di chi a lui parla; onde non gli rimane che di crederle sulla sua parola. 2 Che l' incredulità, che spontaneamente nasce nell' adulto il quale non sia bistorto dalle passioni, è pure ragionevole, perocchè ella non afferma l' impossibilità assoluta, ma unicamente l' impossibilità fisica, ed anche questa con consenso provvisorio . Così, quando l' uomo non crede che un bue spazŒ per l' aria come un' aquila, egli non intende negare la possibilità assoluta della cosa, ma afferma che la facoltà del bue conosciuta da lui con replicate esperienze non è tale e tanta che possa vincere il suo peso. 3 Comincia l' irragionevolezza e l' errore ogni qual volta l' uomo viene seco stesso ad affermare che ciò che è fisicamente impossibile, sia impossibile per assoluto, passaggio che succede per una esagerazione colpevole e interessata. E in quest' errore non al popolo, ma ai soli scienziati è riserbato di stramazzare; buon avviso che dà loro la natura, se ascoltar lo volessero, per non ingalluzzire di soverchio e poco stimar gli altri uomini, a cui resta in retaggio non la scienza sistematica, ma il buon senso. 4 Un altro errore avviene quando il giudizio dell' uomo sull' impossibilità fisica è definitivo e non provvisorio. Anche questa è esagerazione, è un arbitrio che fa l' uomo passionato o cocciuto. E veramente l' esperienza esteriore molte volte non è completa, e rimangono occulte nelle cose delle facoltà e delle forze che non si presentano se non per caso e rompono i nostri giudizŒ, i quali s' ingannano mettendo certi limiti assoluti alla natura. Noi abbiamo veduto che la benevolenza inchina il cuore del bambino alla credulità. Simigliantemente la malevolenza piega l' adulto all' incredulità. Ma come quella non sarebbe possibile, se la possibilità non avesse un fondamento nell' intelletto del bambino; così non potrebbe l' uomo dalla sua malevolenza e durezza di cuore esser reso a credere e ad assentire al vero più tardo del giusto; se questa sua tardezza a credere non trovasse un cotal fondamento vero o supposto nell' intelletto: e questo fondamento è « l' impossibilità fisica dedotta dall' esperienza », la quale si cangia dall' arbitrio umano ora in impossibilità assoluta, ora in impossibilità fisica bensì ma non meramente probabile e provvisoria, ma certa e definitiva; onde ricusa ogni ulteriore esperimento, e chiude la finestra alla luce che vorrebbe istruirlo meglio ed illuminargli la mente. Ora egli è certo che la limitazione dell' operare che noi apponiamo alle cose non è del tutto certa sin a tanto che ella si fonda in una esperienza ed osservazione imperfetta, e non sorretta da altri principŒ di ragione. Abbiamo già detto che la legge d' analogia non induce certezza, ma solo probabilità (1): onde le conclusioni che si cavano da questa legge debbono poter essere sempre riformate, mediante nuove scoperte o nuovi ragionamenti: e se noi volessimo quelle conclusioni irreformabili, sconciamente c' inganneremo. Intanto, se noi osserviamo quello che avviene nella massa degli uomini, noi troviamo che questi ben per tempo si formano di queste conclusioni e principŒ; ma che crescendo la loro esperienza e la loro scienza, li rompono per formarsene di nuovi più ampŒ e più giusti, i quali s' avvicinano sempre più alla verità e in parte anco alla ragione. Questa vicenda di formarsi de' principŒ od opinioni chiuse o fermate sull' operare delle cose, e poi d' infrangerle per formarsene delle altre, si ripete più volte in una vita che progredisca continuamente avanti nello studio e nella scienza della natura. L' uomo, all' incontro, la coltura del quale sia stazionaria, non fa che indurare sempre più quelle opinioni o principŒ che si è formato da prima. Le opinioni già formate, quanto più sono indurite e quanto più sono ristrette, portano un' incredulità maggiore. Vi ha dunque un' incredulità che nasce dall' ignoranza, cioè da opinioni sull' operare degli enti troppo anguste e troppo ferme. Se io voglio persuadere ad un boscaiolo che il sole sta e la terra si move, che la terra ha la forma di palla rotonda abitata da tutti i lati ed altre simili verità naturali, egli crede buona pezza che io lo corbelli, e se io pur mi mostro seriamente di ciò persuaso, egli tuttavia scuote il capo e non mi dà retta. Egli dunque pena oltremodo a credere certe cose del tutto vere, che sono credute dai dotti: l' incredulità dunque del rozzo è sotto un aspetto maggiore assai che non sia quella dello scienziato. Comincia dunque l' uomo con una credulità universale circa le azioni degli enti, e giunge ben presto ad una specie d' incredulità , cioè tostochè egli ha potuto chiudere e saldare bene le sue prime opinioni sull' operare della natura. Ma queste prime opinioni col procedere della scienza vengono rettificate e rallargate, onde prende lo spirito umano un nuovo corso che dalla rozza incredulità lo spinge soavemente di nuovo verso la credulità primitiva data dalla natura al bambino, restituita in parte ad esso da una cognizione più ampia delle forze della natura. Allargandosi questa credulità colla scienza, può essere ella stessa portata fuori de' giusti confini, e si son veduti degli uomini che la passavano per sapienti, creder tutto possibile alla natura, esagerare le forze di questa, e quando niuna osservazione, niuna esperienza veniva loro in sostegno, anzi tutte le osservazioni e tutte le sperienze lor contrariando, dire tuttavia: « Chi può conoscere tutti i segreti naturali? Chi può provare che delle occulte virtù non esistano nel seno della natura, le quali produr possano fenomeni i più straordinarŒ, i quali non si sono mai veduti avvenire »? Questi sono pienamente ritornati colla lor scienza alla credulità universale dell' infanzia. Basti qui una parola, magnetismo animale , per convincere il lettore, che tutto fu creduto possibile da certi uomini alle forze segrete riposte nella materia o comechesia in quest' universo. Come poi v' ebber molti che credettero fermamente esser condotti da una scienza accumulata con lunghe vigilie a dover credere tutto possibile, niente impossibile alla natura; così degli altri, colla stessa presunzione di dottrina, puntarono i piedi e le ginocchia a mantenere impossibile al tutto quello che trapassava le opinioni che essi si erano formate sulla potenza degli enti. L' incredulità religiosa si giovò ora di quel primo errore, ora di questo secondo a sostenersi, come ella credeva. V' ebbero degl' increduli i quali negarono i miracoli, perchè non si può sapere, dissero, quanto si estendano le forze della natura, e però quelli che noi crediamo fatti miracolosi possono esser fatti naturali. V' ebbero ancora degl' increduli i quali negarono i miracoli per la ragione contraria, cioè perchè i fatti che noi crediamo miracolosi superano, dicono, le forze della natura da essi troppo ben conosciute, nè trovano altre possibilità fuori di queste. Giunge fin alla lepidezza l' indicibilmente presuntuosa ignoranza da capo a piedi broccata e rabescata di pedanteria grammaticale e filologica erudizione dei così detti biblici razionali della Germania, i quali escludono francamente dalla Bibbia ciò che essi dichiarano impossibile, misurandolo da quelle regole di possibilità che si sono formati a loro arbitrio (1). Fino a tanto che il bambino si dirige secondo gli impulsi della natura, egli è determinato dalla sua spontaneità; nè può nascere alcun combattimento morale nel suo spirito. Proverà talora il dolor fisico, combatterà, per così dire, colla natura delle cose, dovrà esercitare la scelta tra quelle cose piacevoli e dolorose o tra quelle che sono più o meno piacevoli, ma in tutto questo combattimento non entrano motivi morali: egli non crede di dover niente alla natura se non in ragione della sua bontà o bellezza: e la bontà o bellezza della natura è infatti la misura della sua benevolenza ed ammirazione: come la sua benevolenza e la sua ammirazione sono la misura e la regola delle sue azioni. Ma tostochè egli giunge a conoscere mediante il linguaggio la volontà di un altr' essere intelligente, della madre o d' altra femina che ha cura di lui, da prima egli s' inchina ed uniforma ad essa e sente di doverlo fare conoscendo che quell' essere intelligente è degno della sua benevolenza e lo merita più, quanto più gli presta egli il primo di amore e di servigi (1). Questo è ciò che nasce al terz' ordine d' intellezioni. Di poi avviene, che egli talora ritrovi la volontà conosciuta della persona amata (volontà che è divenuta per lui come una legge positiva) collidersi colle altre sue inclinazioni o colla soddisfazione de' suoi bisogni. Qui comincia la prima lotta morale in lui: questo è uno stato nuovo dell' anima. Si noti bene la natura morale di questa lotta. Alloraquando egli giudicava le cose che il circondavano secondo la loro piacevolezza e bellezza, o asprezza e deformità, egli non avea da far altro che da metterle in ordine nelle affezioni del suo cuore: quali in alto e quali in basso, quali ne' posti intermedŒ. Egli esercitava con se la sua moralità: distribuiva la sua benevolenza e la sua ammirazione secondo il merito delle cose. Questa distribuzione poteva benissimo falsificarsi, come abbiam veduto, per degli inganni tesi al suo giudizio dalla falsità delle persone che lo attorniavano: ma finalmente le false opinioni da lui concepite che dirigevano la sua stima, non gli potevano cagionar un rimorso; perocchè egli se le formava dietro quelle apparenze a cui egli riputava dover aderire, dietro quelle parole alle quali egli riputava dover prestar fede. Ma quando egli venne a conoscere la volontà di una persona, allora nel suo spirito è entrato un elemento nuovo che dee necessariamente in breve sconcertarlo. La volontà di una persona è qualche cosa di opposto alla natura delle cose: nella natura vi è la necessità , nella volontà tutto è libero e contingente: la natura è costante, immutabile, la volontà variabile di continuo: le diverse parti della natura, i diversi esseri che la compongono tengono un ordine fisso tra loro, ma non si saprebbe come allogarvi in mezzo la volontà libera, qual posto darle, questa è una cosa nuova, che non ha con essi alcuna omogeneità, alcuna somiglianza: l' esigenza degli esseri è sempre la stessa, ma l' altrui volontà esige ora più ora meno, ora vuole una cosa, ora la sua contraria, ora si volge a cosa facile e piacevole, ora a cosa ardua e dolorosa. Sebben dunque il bambino sia inclinato parte ad uniformarsi all' altrui volontà e parte (come vedremo) a piegare l' altrui volontà alla propria; tuttavia in breve egli si trova posto ad un duro cimento, sente che o dee posporre l' ordine soggettivo7oggettivo degli enti della natura (1), o discordare dalla volontà della persona che lo governa. Che cosa nasce adunque nel bambino in sì grave frangente? Come si risolve in tanta lotta morale? lotta cioè di due doveri che si disputano la sua volontà. Primieramente se la sua attività animale lo determina ad operare irresistibilmente ed istantaneamente, può avvenir benissimo ch' egli in questo atto dimentichi la volontà della persona ch' egli sa di dover amare e stimare, e poi dimentichi pure tranquillamente quant' è passato. Ma se quella volontà gli sta presente ed egli sceglie di mancarle, non può farlo senza pena; e questo dimostra ch' egli la colloca in cima a' suoi doveri, e che la considera come la principale sua legge. Questa pena o incipiente rimorso è la culla della sua coscienza morale; nasce la coscienza in quell' ora appunto, nella quale il bambino sa d' aver violata l' altrui cara volontà, d' aver fallato contro di essa; di averla posposta ad altre cose, alle quali l' avrebbe dovuta anteporre e dalle quali egli fu sedotto. L' osservò già una madre. [...OMISSIS...] La moralità dunque del quarto ordine si manifesta colla coscienza; ma sarebbe un errore il credere, che questa moralità si potesse esprimere acconciamente colla formola « segui la tua coscienza ». La coscienza non è ancora una regola di operare, ma semplicemente una consapevolezza di operar male o di avere operato male e non più. Le formole adunque del quart' ordine d' intellezioni (non che quest' ordine abbia ancor formole ma ha il contenuto delle formole, che si forman più tardi), le formole dico, o sieno i principŒ morali del quart' ordine, sono i seguenti: Primo. Si dee preferire l' accordo della propria volontà con quella degli altri esseri intelligenti a tutte l' altre soddisfazioni. Secondo. Se v' ha collisione, si dee sacrificare ogni altra soddisfazione per mantenere l' accordo della propria colle altrui volontà (2). Tutti e due questi principŒ racchiudono un gran passo, che fa il bambino nel campo della moralità. Il primo è notevole pel nobile sentimento onde s' accorge, che in un accordo della sua coll' altrui volontà deve stare il sommo bene, a cui gli altri debbono cedere. Il secondo è pure oltremodo notabile per l' elemento del sacrifizio , che s' introduce nell' ordine morale; e della virtù della fortezza necessaria a compirlo. Noi ritorneremo necessariamente altre volte sopra le immense conseguenze, che apportar debbono nel mondo morale del fanciullo due sì gravi e dignitosi principŒ. Un essere assoluto vien conosciuto necessario già al second' ordine d' intellezioni. Al battezzato secondo le dottrine profonde del cristianesimo è stato dato anco il sentimento di quest' essere assoluto, la percezione o sia cognizione positiva di esso. Consideriamo prima i progressi della cognizione naturale di Dio, a cui poscia aggiungeremo quanto spetta alla comunicazione soprannaturale. La cognizione naturale di Dio è sempre ideale negativa (1), perchè l' uomo non percepisce con essa Iddio ma solo induce per argomentazione, che oltre a tutti i limiti deve avervi qualche cosa d' illimitato , sebbene questo illimitato non sappia che cosa sia (2). Ora una tale cognizione, semplice come ella è, è tuttavia suscettiva di un successivo incremento. Questo è quello che dobbiamo ora mostrare cercando in quale stato una tale cognizione si possa trovare nella quinta età del fanciullo, o sia al quart' ordine della sua intelligenza a cui siamo pervenuti. Appena il bambino percepì un ente reale, la madre, non deesi già credere, che a quest' ente egli ponga dei limiti: per lui quello da prima è l' unico ente, tutto l' ente. Non sente, è vero, l' entità tutta, ma egli ve la suppone o certo non gliela nega (3). Tuttavia il suo senso è pur limitato: tutto ciò che vede e sente è circondato da limitazioni. Lo spezzamento, la moltiplicità degli esseri è là per contraddire al suo pensiero e per dirgli: tu erri, se ci credi tutto l' ente. Le parole della madre finiscono per disingannarlo: non solo esse spezzano via più e quasi tritano dinanzi al suo pensiero l' entità delle cose; ma col solenne vocabolo Dio , ch' egli sente a pronunciare, viene finalmente a persuadersi che tutto l' ente c' è, ma non è nulla di ciò che gli è finora apparito. Ecco la prima concezione di un Dio distinto dalla natura che si forma nella mente infantile. In questa concezione il bambino non si arresta certamente alla idealità: egli afferma una realità; ma questa realità non l' ha percepita, non sa che sia; sa solo che risponde appieno alla idealità universale che risplende nel suo spirito. Una concezione di tal fatta è così semplice, che non ammette analisi di sorta alcuna fino che restasi in tale stato; ma ben presto ella si muove e si sviluppa, ed eccone il modo. Niente della divina realità percepisce il bambino, onde la percezione non può completare la sua cognizione di Dio, nè dare a lui materia di farvi sopra delle analisi e delle sintesi, che è il modo onde si sviluppa la cognizione umana riguardante le cose naturali. Tuttavia questi progressi della cognizione naturale aiutano indirettamente anche la concezione della divinità. La ragione di ciò si è, che quanto più si conosce dell' essere naturale e limitato, tanto più si conosce altresì dell' essere universale; e quindi si ascende in qualche modo alla cognizione dell' assoluto per la remozione dei limiti. L' assoluto in fatti ha necessariamente relazione col relativo, e però quanto più si conosce dell' ente relativo, tanto più si conosce della relazione che ha con esso l' assoluto, e si può formarsi di questo una cognizione consistente appunto in queste relazioni. Egli è vero che se io tolgo i limiti alle perfezioni a me note delle creature, poniamo alla potenza di operare, alla sapienza, alla bontà, io non so più che cosa ne avrò per risultamento, non so in che cosa queste perfezioni mi si convertiranno, non ne ho la minima idea; ma sia qualsivoglia la trasformazione che esse prendono, e che io ignoro, so però che io non avrò perduto nulla d' esse, che avrò ancora tutto il bene loro indicibilmente e inconcepibilmente migliorato, e questo è già per me un grande aumento di cognizione, benchè consistente tutta in relazioni di una cosa incognita con cose cognite, senza che di quella cosa incognita io abbia percepito o sentito di più di prima. Al secondo ordine d' intellezioni il bambino apprende a parlare: al terzo ordine il nome di Dio che gli suona all' orecchio lo rende già accorto non solo dell' esistenza sua distinta da quella della natura, ma in Dio stesso pone l' intelligenza e la bontà che ha cominciato a conoscere nella madre, intelligenza e bontà assoluta a cui egli può già dare ammirazione e benevolenza infinita, che si cangia ben tosto in adorazione s' egli viene aiutato da una religiosa istituzione. Al terz' ordine egli apprende del pari che la madre ha una volontà; e al quarto egli trasporta la volontà della madre in Dio, e come la sua benevolenza lo inclina ad accordare e piegare la volontà propria a quella della madre, così lo inclina pure ad accordare e piegare la volontà propria a quella di Dio. [...OMISSIS...] Al quarto ordine d' intellezioni adunque l' idea di Dio può essere divenuta nella mente del bambino quella di una volontà suprema, ottima, a cui egli dee pienamente sottomettersi. Già abbiamo veduto come la natura intelligente che dirige il bambino gli abbia fatto intimamente sentire quanto rispetto meriti l' altrui volontà, come la volontà intelligente sia migliore di tutte l' altre cose, ed egli debba rinunziare a tutte per non mettersi con essa in discordia. Certo, che questo sentimento che nel bambino si manifesta verso la volontà della madre o d' altre persone a lui care, viene molto aiutato e rinforzato dal non conoscere egli ancora distintamente i limiti di quelle volontà e dall' attribuir loro una dignità maggiore ancora di quella che esse realmente abbiano, a cui egli è spinto dall' universalità dell' essere che contempla, all' ampiezza della quale crede a prima giunta che rispondano le realità che percepisce. Ma ad ogni modo la volontà divina pienamente soddisfa al bisogno che egli ha di trovare anche una volontà assoluta, piena, universale, e però egli è inclinatissimo a conformarsi alla volontà divina, e tostochè egli intenda, troverà la cosa così naturale, così giusta, così necessaria che non ne domanderà mai un perchè al mondo; piuttosto mostrerà gran desiderio di sapere qual sia la volontà di Dio, in tutte le cose anche le più minute, se pure la religione che ha naturalmente in cuore è stata in esso fomentata e coltivata. Così a questa età la mente del bambino anche naturalmente si dispone a riconoscere Iddio qual supremo legislatore. Il Cristianesimo ci apre un arcano: egli ci assicura, che l' anima dell' infante, che viene battezzato subisce una segreta ma potentissima operazione, per la quale egli viene sollevato all' ordine soprannaturale, vien posto in comunicazione con Dio. L' effetto di ciò è quello che abbiamo accennato, un intimo sentimento della realità di Dio. Questo colorisce, per così dire, ed incarna la cognizione naturale di Dio rendendola positiva, ne accelera i progressi, le dà vita, onde si fa operativa nell' uomo e feconda del più sublime morale ammiglioramento. I genitori cristiani debbono esultare di questo tesoro divino che sta nascosto nell' anima del loro bambino ed adorarlo: debbono custodirlo e svilupparlo; debbono finalmente non solo cavar profitto dalla grazia de' sacramenti, ma da quella che possono ottenere al figliuolo offerendolo all' Altissimo, pregando per lui, usando de' sacramentali, a cui è aggiunta una virtù benefica per la potestà della Chiesa di GESU` Cristo. Lo sviluppo della grazia si fa colla virtù e colla cognizione. Quanto alla virtù, è la dilezione e i suoi frutti che si debbono fin da principio seminare e coltivare nell' animo infantile. Quanto alla cognizione, è la cognizione di Cristo, che risponde all' infusione della grazia battesimale e s' acquista coll' udire la parola di Dio stesso. Il bambino a questà età dee imparare a conoscere Cristo non solo come Dio umanato, ma come maestro degli uomini, avente una volontà, a cui tutti debbono conformare la propria: ecco venuto il tempo, in cui si può aprire il Vangelo d' innanzi alla giovane intelligenza. Dallo sviluppo intellettivo del quart' ordine passiamo a quello dell' attività umana, che gli risponde. Converrebbe, a trattare la materia compiutamente, parlare a parte dell' attività razionale e dell' attività animale del bambino; ma questo ci condurrebbe troppo a lungo senza immediato vantaggio al nostro scopo. Scorciando adunque, come abbiam fatto nelle Sezioni precedenti, considereremo solo i punti risalienti per così dire dell' attività del nostro bambino, le note caratteristiche, i tratti che debbono essere più diligentemente osservati dall' istitutore. Cominciamo dunque dall' osservare che: Le volizioni appreziative sono quelle, che nascono dal paragone di due oggetti buoni o cattivi, dei quali apprezziamo l' uno più o meno dell' altro. Ora vedemmo, che solo al quart' ordine comincia il paragone; dunque al quart' ordine solamente può farsi quell' atto della volontà che SCEGLIE tra due cose paragonate. Ad un ordine precedente cioè al terzo si può bensì apprezzare , il che non importa paragone, ma non appreziare , il che esige preferenza, e antecedentemente paragone. Se si considera, che al second' ordine si formano gli astratti e però nasce l' amore ad essi, e nel primo si percepiscono i soli sussistenti e questi solo si possono amare, sarà facile lo stabilire e marcare il progresso corrispondente della volontà in questi quattro ordini: progresso che presenta il seguente schema: [...OMISSIS...] La sola volizione appreziativa non basterebbe ancora a poter dichiarare un bambino pervenuto all' uso della sua libertà . Io ho già mostrato, che se l' appreziazione e la scelta conseguente cade sopra cose, che appartengono all' ordine materiale o anco a cose semplicemente intellettuali, vi può essere scelta nell' uomo e tuttavia non ancora libertà. Questa incomincia a manifestarsi la prima volta che l' uomo dee paragonare l' ordine morale agli altri ordini inferiori; la prima volta che dee scegliere tra l' adempimento del proprio dovere e il proprio piacere, o sia la soddisfazione dell' istinto suo accidentale (1). Ma questa prima volta viene appunto al quart' ordine delle intellezioni. La collisione tra le cose attraenti per lui e il suo dovere ha luogo, tostochè egli conosce una volontà positiva, che sia in opposizione colle sue inclinazioni naturali. Ora questa volontà gli è conosciuta al quart' ordine. Noi abbiamo veduto che egli l' apprezza, l' apprezza grandemente; sente che ella è qualche cosa di più sublime di tutte l' altre cose; ed il rispetto, ch' egli è inclinato a dare alla volontà d' un essere conoscente da lui conosciuto, è sì grande, che se per qualsivoglia motivo, sedotto dalla tentazione, egli lo pospone ad un altro bene qualsivoglia, egli ne prova amaro rimorso, e non può vivere senza tornare in pace e in concordia con quella volontà. La mancanza di questa osservazione della natura del bambino ha condotto Rousseau ad una sentenza trista ed ingiuriosa all' umanità, colla quale egli vuole stabilire, che da principio non si debbono adoperare de' mezzi morali, ma la forza ; perchè a lui sembra l' idea del dovere troppo superiore alla infantile capacità. Quanto non è smentito il sistema dal fatto! Quanto la presunzione de' sofisti non ha disumanata l' umanità! Convien bene che il secol presente le riconquisti la dignità perduta palmo a palmo, e questo egli fa ogni dì coll' invitto potere che dà al vero una osservazione accurata de' fatti umani. E` l' osservazione più imparziale, che ci mostra nel fanciullo questo vero mirabile e consolante, che egli « ubbidisce al dovere morale prima di ubbidire alla forza »ubbidisce a quello prima di conoscer questa. Consideriamo anche qui la cosa coll' occhio semplice e sagace di una madre, che sa spiare sì bene nell' anima de' suoi nati, sì bene osservarli ed intenderli. [...OMISSIS...] Giunto adunque a questa età intellettiva il bambino sceglie tra il bene e il male morale, entra in possesso della sua libertà. Vedesi poi da questa prima apparizione del suo libero operare, ch' esso suppone qualche grado di fortezza, colla quale l' uomo che si mette dalla banda della bontà morale, combatte e vince l' allettamento contrario. Questa morale fortezza, che altrove abbiamo chiamata forza pratica , da principio si mostra alla sfuggita e si dilegua sovente innanzi ad una difficoltà un po' maggiore; ma anch' ella s' accresce, o sia trova dei rinforzi e degli amminicoli, che la sostengono: ella dunque soggiace ad un progresso e ad un cotale sviluppamento nell' animo del bambino. Se la credulità e la docilità del bambino fossero sempre cimentate col prescrivergli cose false, irragionevoli o di cui egli non potesse mai intendere una ragione, la sua virtù nascente rimarrebbesi facilmente soffocata nella culla. Nascerebbe dentro di lui il più angoscioso e desolante contrasto. Quella volontà esterna che gli apparì come cosa divina, d' infinita reverenza degna, gli si cangerebbe dinanzi in cosa misteriosa, inesplicabile, inconcepibilmente maligna. Tutto confuso da prima, ignorando se gli convenga dare ascolto all' invitamento della natura, che gli fa vedere tostamente nella prima volontà, che gli appare, una dignità somma, ovvero alla propria esperienza, che non gliela mostra, se non come cieca e disordinata; egli finirebbe con una morale disperazione e depravazione dello stesso suo cuore. Ma non permette la provvidenza, che gli uomini, che educano figliuoli, sieno nè pienamente cattivi, nè pienamente irragionevoli. Quello per tanto, che le loro volontà hanno in sè di bono, di ordinato, di ragionevole, di amoroso, è l' elemento benefico, che rinforza nel bambino quei due primi semi di virtù messi in lui da natura, la credulità voglio dire e la docilità. Il bambino si rende più rispettoso, a chi tratta con lui, più facile a credergli, più pieghevole ad obbedirgli; più che egli può vedere di utilità e di verità in quanto gli vien detto od imposto. Quell' educatore adunque sarà il più atto a rinforzare nel fanciullo le abitudini di credulità e docilità, il quale porrà più nelle sue parole, narrazioni e comandi di quella verità, che possa essere conosciuta per tale dal fanciullo, e donde possa trarre delle conseguenze; e più di quella utilità, ch' egli possa in se stesso osservare e sperimentare. Nel vero, quando il fanciullo si è formato una credenza vera e ne ha tirato delle conseguenze, egli si rende più docile e desideroso di udire altre cose da' suoi maestri; perocchè egli vede che tutto quello, che sa, lo deve all' aver creduto le prime volte. Questo fatto venne già notato: [...OMISSIS...] . Credenza dunque produce credenza; ubbidienza produce ubbidienza nel fanciullo, quando la madre o l' istitutrice insegna e comanda convenevolmente. Tuttavia nè la convenevolezza sapiente degli ammaestramenti e de' comandi, nè la tendenza a credere e ad ubbidire rinforzata dall' amore del sapere dedottone e dai vantaggi ritratti dalla docilità, bastano a far sì che le volontà degl' istitutori non vengono ben sovente in collisione pericolosa colle altre propensioni inferiori del fanciullo. Da prima, quando il fanciullo sì trova in sì aspro cimento, e pur egli non vorrebbe mancare a quello che sente essere il suo dovere: l' aderir cioè alla volontà altrui col sacrifizio di ogni cosa: e fino a tanto che questa volontà gli si mantiene presente all' animo; egli non potrebbe farlo senza provarne i più amari rimorsi. Ma egli vien facilmente sedotto quando la gravità della tentazione e la lusinga dell' oggetto vietato distacca interamente la sua attenzione dalla volontà, che gli è legge, e quasi gliela cuopre per un istante, sicchè egli più non la vede, vede solo l' oggetto lusinghevole: allora è caduto il misero irreparabilmente. Quel momento passa come il lampo e torna ben sovente e la vista della legge e il rimorso che egli cerca di occultare e di sopprimere, sebbene in vano. Ma il bambino tutto mette in opera per giungere a ciò che brama ed evitare tuttavia la miseranda sventura che gli minaccia di operare contro l' altrui volontà. E quindi è, che se da principio egli inclina a conformare la volontà propria all' altrui, quando poi insorge la passione e s' apre l' interno combattimento, egli cerca di tirare la volontà altrui a conformarsi alla propria, cercando nell' uno o nell' altro modo di conservare l' accordo delle due volontà, che pur non vorrebbe rompere, sebbene tentatone. Laonde egli è in questa età e non prima che comincia a manifestarsi nei bambini quella mirabile voglia, che hanno d' influire sulle volontà altrui, al che fare spiegano per tempo una destrezza tanto maravigliosa, una finezza, una penetrazione istintiva sì sorprendente (1). Venendo ora a descrivere qual sia l' istruzione conveniente al quart' ordine d' intellezioni, non ripeterò quelle cose, che ho dette in occasione di parlare degli ordini precedenti, molte delle quali anche a questo ed a' susseguenti si appartengono. Che anzi seguendo il metodo tenuto fin qui, toccherò anco in occasione di quest' ordine, certi principŒ pedagogici, che debbono essere ricordati in ciascun ordine de' vegnenti. I quali, in questo di cui trattiamo, cominciano a rendersi manifestamente necessarŒ, sebbene la loro necessità si faccia anche più stretta ne' susseguenti. Uno di questi principŒ universali, che debbono reggere non solo le prime ma anche le ultime scuole della gioventù, è quello di « considerare il linguaggio come lo strumento universale dato dalla natura allo sviluppo intellettivo dell' uomo », e però di porre la più accurata diligenza a far sì che questo grande istrumento serva al suo fine; che le parole e le idee si leghino accuratamente insieme; che l' uomo infine sia istituito sempre più nella lingua, ma in modo che i suoi progressi nella lingua sieno veri progressi nelle idee, nelle cognizioni. Questo gran principio fu conosciuto nell' antichità: fu proclamato nei tempi moderni ed anco in Italia nostra; e tuttavia non fu ancora ridotto alla pratica con quella diligenza e costanza ch' egli si merita. Uno di quelli che meglio tra di noi ne intesero l' importanza si fu il Taverna, il quale raccomandandolo in un discorso, che disse in Piacenza, giustamente affermò che [...OMISSIS...] Noi abbiamo pur veduto, che il bambino prima del linguaggio è legato ai sussistenti; non può staccarsi col pensiero da essi e prendere il volo per le immense vie delle astrazioni. Chi più sottilmente considera trova pure che tutti gli errori della mente, tutte le teorie perniciose, tutti gl' inganni tesi da' sofisti agl' individui e ai popoli hanno la loro origine dal significato improprio e vago delle parole. Dunque al fanciullo una cognizione profonda della lingua insegnagli la proprietà del dire non ad ornamento, ma a rettitudine, a verità e a utilità; è il mezzo migliore di munire il suo intendimento contro gli abbagli e le illusioni; di renderlo uomo di un senso squisito, d' una fina logica, d' un erudizione accurata e certa. Prendasi la cosa in tutta la sua estensione, e sarà facile vedere che noi punto non esageriamo. Ma pur troppo non esistono ancora libri acconci: non esiste ancora un vocabolario, che contenga la grande proprietà delle parole e che sia per conseguenza necessaria una cotale enciclopedia di cognizioni. Dico la grande proprietà , perocchè vi ha una piccola proprietà, quella dei dialetti o quella di un breve tempo piuttosto che di un lungo. La proprietà di cui io parlo è più costante: ella non è formata nè da una piccola popolazione, nè da un uso momentaneo: ma sì da un uso nazionale e talora umanitario, durevole a' secoli e talora a molti secoli sopravvivente nelle vitali radici delle parole alle lingue stesse perite (1). Dee continuarsi nel quart' ordine e ne' susseguenti l' esercizio dell' attività esterna, secondo le regole che n' abbiam dato; come pure l' ammaestramento per via d' immagini e medesimamente dicasi di rappresentazioni. Una raccolta d' immagini e di rappresentazioni drammatiche, adattate allo sviluppo graduato dell' infante, sarebbe un opera grande, degna del sapiente, di chi ama il genere umano. Quello pure che abbiam chiamato esercizio orale deve proseguirsi aggiungendovi anco quello della memoria. Si comincerà da sentenze morali esprimenti non più che la moralità proporzionata al bambino nostro, cioè quella che non esprima mai formole morali superiori all' ordine d' intellezioni, a cui egli è arrivato; o tutt' al più ad un ordine immediamente maggiore. Un libro che raccogliesse queste sentenze distribuite sagacemente secondo gli ordini d' intellezioni, che costituir debbono altrettanti gradi d' insegnamento, sarebbe pur desiderabile e necessario che si componesse. Ugualmente utile sarebbe un libro di poesie distribuite secondo i gradi stessi, per l' esercizio di memoria a' fanciulli. La musica poi non dovrebbe venire in soccorso come semplice diletto sensuale, no. Troppo altro è la tendenza del fanciullo che ha pur l' apparenza d' essere così leggero, così ubbidiente alle sue sensazioni: lo si creda, egli è intelligente e cerca da per tutto nelle sue sensazioni stesse intelligenza, e poi l' affetto e il diletto che gli nascono da essa purissimi. Laonde fermamente io credo che la musica sarebbe utilissima all' educazione; ma solo allora che l' istitutore si servisse di essa a vestire di affetto o quelle sentenze morali, o quelle rappresentazioni pure morali, che il fanciullo già conosce ed intende, sicchè non si rimanesse una musica cieca, o dominante, soffocante il pensiero; ma una musica serva della parola già comunicata al fanciullo; una musica, a cui il fanciullo presta gli orecchi come ad amica ed affettuosa interprete delle più nobili concezioni, che già sono entrate nell' animo suo, ma che ancor vi sono intirizzite e per così dire senza calore. Ma qual mai sapiente troverà questa musica? Quale l' adoprerà con tanta sobrietà, con sì coraggioso sacrificio, che nè cerchi in essa una bellezza meramente sensuale, nè bellezza superiore alla capacità del bambino? Chi sarà che intenda o che pregi una musica che non esprima che un pensier fanciullesco e che non la vesta che di fanciullesche parole? Chi m' assicura che questo stesso mio avviso non si fraintenda? e che volendolo seguire non se ne abusi? Si dee oltracciò continuare l' esercizio orale anche in questa età come un cotal preludio alla scuola di lettura e di scrittura, accrescendosene la parte intellettiva. Se nelle età precedenti l' esercizio orale riguardava i nomi ed i verbi, in questo può riguardare le particelle o i nessi de' nomi tra loro, de' verbi tra loro e de' nomi co' verbi. Questo è veramente un insegnare a parlare, se si fa bene. Vi sono delle idee, de' pensieri che sebbene alla portata della mente fanciullesca, tuttavia riescono sommamente difficili ad esprimersi al fanciullo. Conviene prima indicargli qual sia il pensiero che si vuole esprimere, e poi fargli trovare la forma più propria e più efficace di parlare. Ma non potrebbe questo esercizio riuscir bene, se prima qualche sapiente non abbia raccolti in un libro molti pensieri proprŒ di ciascun ordine d' intellezioni; e in pari tempo la maniera di vestirli acconciamente di parole. Dove questo libro fosse fatto, non sarebbe difficile condurre il fanciullo nostro graduatamente da' pensieri e dalla lingua propria d' un ordine inferiore a' pensieri ed alla lingua propria d' un ordine d' intellezione superiore. Dico non solo da' pensieri, ma anco dalla lingua; perocchè uno stesso pensiero può essere espresso variamente e in un modo sempre acconcio; ma proprio d' un ordine d' intellezione e non d' un altro. Vi sono delle costruzioni difficili a' fanciulli; e perchè mai sono difficili? Perchè appartengono ad un ordine d' idee superiore al loro. Si dovrebbero adunque dall' uom grande, che componesse il libro da noi desiderato, classificare secondo le età anche le costruzioni e i modi di dire diversi; e di questi pure ammaestrare il fanciullo graduatamente (1). Qual perizia di esprimersi acconciamente non acquisterebbe in tal modo il fanciullo! Quanta facilità di pensare pari alla sua perizia nell' uso del linguaggio, mezzo universale dello sviluppamento intellettivo! Quanto tempo guadagnato nelle scuole! Con che facilità non iscriverà poi i suoi concetti quegli che li sa così propriamente ed acconciamente parlare! Oltracciò, in questa età si dee già cominciare la scuola di lettura e di scritto. Le parole pronunciate, le lingue sono segni delle idee; le parole scritte, le scritture sono segni delle parole (1). La scrittura adunque appartiene all' ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel del linguaggio, e però al terzo. Ma noi abbiamo osservato che il linguaggio stesso abbraccia più ordini nelle varie sue parti, e che i verbi, che ne sono parte sì principale, non s' intendono che col terz' ordine. Convien adunque lasciare un po' di tempo al fanciullo, acciocchè intenda sufficientemente la lingua parlata; onde io consiglierei a differire la scuola della lettura fino ch' egli sarà bene avanzato nel quart' ordine intellettivo, che solitamente risponde alla seconda metà del terz' anno. Questo respiro poi che si lascia prima di cominciare a mostrare al bambino le lettere, viene da lui utilissimamente occupato nell' esercizio orale, che lo rende perfetto nel meccanismo della pronunciazione, lo arrichisce di una maggior estensione di lingua, e sopratutto gli dà occasione d' esercitare l' intendimento: ed entra poi nella scuola di lettura e di scritto ottimamente disposto e capace di gran progresso. Questo studio poi di lettura e di scritto (che non vanno disgiunti, come vedemmo) non dee punto essere affrettato; ma anzi lento, conciossiachè dee aversi in veduta di continuo, che non è la sola lettura e la sola scrittura che si voglia insegnare al fanciullo; ma, insieme con queste, cose molto maggiori, assai più elevate. Oltrecchè si dee vedere che niuna scuola sia puramente materiale; ma un continuo esercizio di tutte le sue facoltà, principalissimamente della sua intelligenza; e che sia di più una scuola morale. Furono altamente proclamati in Italia questi principŒ da degli uomini che la onorano per bel cuore e per una mente elevata (1). Ora, io credo che l' insegnamento della lettura e dello scritto vadano assai bene accoppiati insieme, o alternati, quasi due parti d' uno studio solo più tosto che due studi. L' uno e l' altro infatti appartiene allo stesso ordine d' intellezioni, perocchè chi scrive non fa che aggiungere l' azione delle mani a disegnare quel carattere che già conosce, onde non ha debito d' aggiungere conoscenza, ma solo azione esterna, che va tanto bene unita all' azione intellettuale, colla quale l' unì quasi individualmente la natura stessa. Laonde se dopo che io avrò mostrata al fanciullo la lettera a e insegnatogliene il suono, lo farò disegnare questa figura colle sue stesse mani, egli dopo disegnatala non la dimenticherà mai più senz' altro, perocchè, come osservò Rousseau, [...OMISSIS...] . L' azione, il far loro fare le cose è dunque il migliore mezzo per farle loro apprendere e per saldarle nella loro memoria. Tuttavia tutto lo studio di lettura come quello di scritto importa sopratutto che sia graduato; e che si abbia continuamente in vista l' una e l' altra parte, cioè la meccanica e la intellettuale; rivolgendosi poi entrambi acconciamente al progresso morale. Egli è evidente che come la lingua giova mirabilmente ad analizzare il discorso del pensiero , così la lettura giova ad analizzare le parole scomponendole ne' suoni elementari di cui constano; e lo scritto finalmente giova ad analizzare le lettere stesse, elementi delle parole, notandosi ciascuna parte di cui le lettere si compongono. Vi ha dunque un progresso d' analisi, di cui deve fare uso il savio institutore. Vi ha parimente una direzione diversa dell' attenzione. Fino a tanto che si parla e nulla più, l' attenzione nostra va a finire nel pensiero che si vuole esprimere, e i segni del pensiero, la lingua non riceve che una attenzione sfuggevole e relativa; ma quando si legge, allora l' attenzione si ferma al suono delle parole, e la figura impressa che abbiam sott' occhio non trattiene la nostra attenzione che un istante quanto basta, perchè appuntandosi, per così dire, in quella possa slanciarsi al suo termine, che è il suono della parola. Finalmente, quando si scrive , l' attenzione si ferma alle lettere che si debbono figurare e disegnare colla mano, e che divengono il termine della nostra azione. Il termine adunque delle nostre azioni intellettive è dove si ferma e posa l' attenzione, dove questa porta la sua luce lasciando nelle tenebre il resto, a quella guisa che un fanale non illumina i luoghi, ne' quali egli passa velocissimamente, se non per brevissimo istante. Anche questa legge dell' attenzione umana è da notarsi con diligenza dall' istitutore; perocchè ella, se ben considera, gli dà in mano il modo da governare e temperare l' attenzione del fanciullo a suo grado. Vi ha dunque bisogno di un metodo di lettura e di scritto uniti in un libro solo, e diviso per gradi; altro lavoro da farsi da' cultori della grand' arte dell' educare, di cui abbiam però ben avviati dei tentativi nobilissimi. Un somigliante libro si dovrebbe comporre per insegnare graduatamente l' aritmetica a' fanciulli. Noi abbiamo veduto, a ragione d' esempio, che al quart' ordine d' intellezioni, a cui siam pervenuti, il fanciullo può formarsi una distinta idea del numero tre. Come dunque l' aritmetica dell' età precedente dovea fermarsi a mostrare le proprietà dell' uno e del due, così l' aritmetica di questa dee trattenersi nelle proprietà relative dell' uno, del due e del tre, e loro varie unioni, esprimendo queste in modo che non faccia bisogno d' altro che di quello di questi tre numeri in prima, e poi gradatamente de' loro varŒ composti. Oltre tutte le cognizioni descritte, che si possono dare al fanciullo di questa età, si dee oggimai pensare ad introdurre anche un bell' ordine nelle sue cognizioni. Questo studio di ordinare le cognizioni del fanciullo deve cominciare tostochè la sua mente sia capace di ricevere l' ordinamento delle proprie idee, cioè di ridurre le proprie idee a certi principŒ o idee principali. Ora noi già vedemmo che nell' età precedente a questa cominciarono nella mente umana ad operare dei principŒ definiti, i quali di età in età vanno continuamente ricevendo incremento e perfezione. Questi principŒ si debbono far servire da noi quasi come altrettanti cappŒ in cui le idee s' annodano. E però, se al terz' ordine d' intellezioni questi principŒ incominciano, al quarto si possono già adoperare dal savio istitutore a vantaggio del suo discepolo, purchè egli badi anche qui a mantenere fedelmente quella gran regola dell' educare che noi continuamente raccomandiamo, « di non adoperare a collegare le idee del fanciullo, se non que' soli principŒ che il fanciullo ha già ricevuti nella sua mente, perocchè l' usarne degli altri sarebbe un volere da lui l' impossibile ». E tuttavia grand' arte si dee porre oltracciò ad ottenere quello che noi vogliamo, cioè il progresso intellettuale e morale; e le idee, che comunemente si hanno sulla maniera di dar ordine alle cognizioni infantili, sogliono essere troppo incomplete ed insufficienti; onde crediamo pregio dell' opera il dichiarare qual sia l' ordine che si dee cercar d' introdur nella mente dei fanciulli e dei giovani, acciocchè egli riesca il più possibile vantaggioso. Il savio istitutore cercherà di procurare tre vantaggi al discepolo, cioè: 1 Di aiutare la sua memoria, il che si ottiene promovendo l' associazione delle sue idee; 2 Di unificare, quant' è possibile, i suoi pensieri; 3 Di procacciare che quest' unità data a' suoi pensieri non sia arbitraria, ma fondata nella verità, nell' ordine universale delle cose, perocchè egli è questo che dà all' unità de' pensieri un' importanza morale. Queste tre cose sono ben diverse tra loro, ed è necessario notarne accuratamente le differenze. Esse sogliono confondersi insieme, e talun crede che il dar ordine all' umana mente tutto consista unicamente in far nascere il maggior numero possibile d' ideali associazioni; altri va più avanti, ma crede poi d' aver fatto ogni cosa quando sia pervenuto a fare che il fanciullo raggomitoli, per così dire, le sue idee intorno ad un' idea principale, o le annodi ad un dato principio, senza darsi pensiero della scelta dell' idea o del principio a cui si devono legare, creando così nelle menti un cotale ordine più fattizio che vero, più rappresentante le opinioni fallaci degli uomini, che la reale natura, l' immutabile verità. Si consideri adunque attentamente, che la memoria e la reminiscenza si aiuta con qualsivoglia associazione d' idee, ma non da qualsivoglia associazione d' idee viene l' ordine delle idee stesse; che anzi l' associazione che si forma per analogia affatto accidentale e minuta tra idee disparate è quella appunto, che forma il carattere leggero, mutabile, capriccioso, del tutto anti7logico delle menti: il delirio stesso si alimenta di una rapida e strana associazione d' idee: la frivolità de' fanciulli ha la stessa origine. Si dee dunque anzi cercare una associazione assennata che una associazione frivola, e già questo solo non è un affare leggiero. Gioverà dunque per ispianare la strada, che qui passiamo in revista le principali specie d' associazioni d' idee, ossia le ragioni diverse, per le quali si formano naturalmente di esse altrettanti gruppi. La prima ragione si è la forza unitiva dell' animale , la quale ha un gran numero di funzioni e produce dei fenomeni innumerabili (1). Ora lo spirito intelligente si lascia a principio volgere dall' animalità, e però quando la forza unitiva animale unisce due sentimenti, esso vede pure unite le idee o intellezioni, che a quei sentimenti rispondono. A questa forza unitiva appartiene, come funzione principale nella materia che trattiamo, la fantasia o immaginazione animale, la quale suole accozzare insieme quelle immagini, che in essa comparvero una volta unite per continuità nello spazio, o per successione nel tempo, o per similitudini nell' impressione, o per qualche analogia talor lontanissima. Una porzione che si risvegli dell' immagine in questi modi complessa, tosto si suscitano e fanno presenti tutte le altre parti; quello che io dico delle immagini complesse cioè risultanti di più immagini come che sia insieme congiunte si deve dire parimenti di tutte le altre funzioni della forza unitiva. Questa fa sì che l' animale muova con un atto solo istintivo non una ma un gruppo intero di facoltà. Questo gruppo di facoltà si muove talmente accordato, che basta un atto di una, che l' animale sia spinto a fare, e tosto egli fa insieme gli atti di tutte le altre. L' intelligenza poi nell' uomo riceve da tali atti la sua materia, ond' avviene che l' atto d' una facoltà sola basta a far nascere la reminiscenza di una intera condizione o stato di corpo e di tutte quelle cose che a essa condizione e stato si riferiscono. La ragione di questa congiunzione di più immagini, sensazioni, istinti, atti di varie facoltà animali è tutta nell' unità del soggetto, in cui tutte le potenze e i loro atti si radicano. La seconda ragione è la forza unitiva dell' ente animale7intellettivo (uomo). Mediante questa forza unitiva umana l' ordine dell' intelligenza va di consenso coll' ordine dell' animalità: un movimento in questo difficilmente si fa isolato e solo, senza che nascano de' movimenti anche nell' ordine intellettuale, e così viceversa; difficilmente l' uomo agisce come intelligenza, senza che col medesimo atto egli non sollevi de' tasti, per così dire, anche nell' ordine animale (2). La terza ragione è l' incatenamento, che hanno veramente le idee e i pensieri tra di loro: la inesistenza di un' idea elementare in un' altra più sintetica o quella di una conseguenza nel suo principio. Questa congiunzione e associazione è assai diversa dalle due prime come si vedrà dai seguenti esempŒ. Io riveggo una persona e tosto mi si rappresenta all' anima il campanile della chiesa della sua parrocchia: qui vi ha un' associazione d' immagini, che potranno unirsi e richiamarsi nella fantasia anco d' un essere meramente sensitivo: qui ebbe luogo adunque la prima ragione d' associazione. All' incontro, al rivedere di quella persona ciò che subitamente mi si affaccia alla mente si è la dimostrazione di un bel teorema di matematica, che da essa ho già udito esporre. Qui viene in campo la seconda ragione dell' unità del soggetto animale7intellettivo: perocchè l' associazione consiste fra delle sensazioni animali, quali sono le imagini della persona, dei suoi discorsi ecc. e delle intellezioni, quali sono le idee che formano quella dimostrazione: l' unione dei due ordini animale e intellettuale ha qui il suo fondamento nella unità del soggetto uomo. Lo stesso sarebbe se dal rammentarmi quella verità matematica mi si affacciasse all' anima il volto o anche solo il nome del maestro che me la insegnò; solo che qui vi sarebbe il passaggio contrario dall' ordine dell' intelletto a quello del senso, mentre nel primo caso il passaggio era da questo a quello. Ora si osservi bene, che in tutti questi casi non vi ha nessun intrinseco rapporto tra le due cose che si associano nella mente nostra. E veramente una persona ed un campanile non hanno insieme la più piccola somiglianza: così pure una persona e un teorema matematico son cose sì disparate, di sì diversa natura, che per se stesse non pur non s' inchiudono, e non si assomigliano; ma anzi l' una sta nell' ordine delle cose reali, l' altra in quello delle ideali: sono cioè separate da una distinzione categorica. Non così sarebbe se al venirmi in mente di un principio tosto mi si affacciasse al pensiero altresì quelle conseguenze che prese insieme formano la dimostrazione del teorema. In questo caso le idee chiamano le idee, i pensieri chiamano i pensieri. E` un lavoro che accade tutto nell' ordine dell' intelligenza. E il lavoro potrebbe pure avvenire nell' ordine dell' intelligenza, quand' anco la materia del lavoro fosse sensibile. Così se alla vista di un uomo, io tosto rammento che egli è un essere composto di corpo e d' anima, v' ha un' associazione di pensieri, perocchè tra il pensiero dell' uomo e quella delle sue parti passa una relazione intrinseca e intellettuale, quantunque il pensiero dell' uomo ivi fosse somministrato da' sensi o dall' imaginazione in occasione di vedere un uomo o d' imaginarlo veduto. Ora egli è chiaro tuttavia, che quando non si volesse ottenere che un fine solo, quello di facilitare la reminiscenza del fanciullo senza scelta nelle idee, qualunque di queste tre specie d' associazioni sarebbe acconcia: è chiaro che l' arte della memoria artificiale si potrebbe ugualmente fondare sulla prima, sulla seconda o sulla terza specie di associazioni, o su tutte e tre. Ma questo non basta, come abbiamo detto, pel progresso morale del fanciullo. Questo progresso esige più cose: esige 1 che il fanciullo impari la connessione che hanno le idee tra loro; 2 che acquisti facilità di passare, mediante queste connessioni che diventano nella sua mente altrettanti principŒ generali di pensare e di ragionare, di passare dall' una all' altra non per opera semplicemente della reminiscenza, ma per l' uso del proprio ragionamento; 3 che questo passaggio sia esercitato da lui liberamente, e non in virtù di qualche istinto necessario e casuale, sicchè il fanciullo acquisti talmente la signoria delle proprie cognizioni e de' proprŒ pensieri, ch' egli le abbia alla mano quando le vuole. Ora questi vantaggi non si ottengono, se non promovendo nel fanciullo la terza specie di associazioni fondata nella relazione intrinseca delle idee e delle cose conosciute. Che se noi consideriamo che ogni rapporto d' idee o di cose conosciute noi l' apprendiamo mediante un' unica intellezione, facilmente potremmo ridurre tali rapporti ad una sola formola, dicendo che « ogni associazione intellettiva consiste in vedere in una intellezione complessa le intellezioni elementari, e in passare dalle intellezioni elementari alla complessa ». Le intellezioni complesse sono: 1 le classificazioni maggiori delle cose nelle quali si comprendono le classificazioni minori come elementari; 2 le idee di cose composte, nelle quali si comprendono le idee delle parti delle cose come idee elementari; 3 e più generalmente ancora i principŒ ne' quali si contengono, come intellezioni elementari, le conseguenze (1). Convien dunque che il savio istitutore sappia accortamente osservare, e con delle opportune interrogazioni e sperienze scoprire quali sieno in ogni età del fanciullo le classificazioni ch' egli si forma, le idee d' oggetti moltiplici ed i principŒ; e partendo da questi dati, che già nella mente del fanciullo si trovano, dee farlo discendere gradatamente dalla massima classificazione che egli ha in mente alle minori, e da queste ascendere a quella; gli oggetti complessi a lui cogniti dee farglieli analizzare, e dalle parti lor già trovate rivenir al tutto; finalmente da principŒ (ma s' intenda bene, da suoi principŒ e non da altri) menarlo alle conseguenze, e dalle conseguenze restituirlo ai principŒ. Egli è chiaro che con tali esercizŒ si vanno mirabilmente ordinando i pensieri del fanciullo, perocchè si riassumono le cose continuamente alla loro classe suprema, s' imparano a veder le parti bensì delle cose, ma nel loro tutto unificate, e ai sommi principŒ si appendono per così dire le innumerevoli conseguenze. E chi non vede che per tal modo il fanciullo viene acquistando la cognizione dei nessi che naturalmente adunano le idee, e per quelli prende agevolezza di trascorrere in esse colla mente? e che di più egli acquista balìa de' proprŒ pensieri? Perocchè l' uomo che abbia presente alla mente una classe molto estesa di cose è già padrone, s' egli pur vuole, di passare alla considerazione delle classi minori, il che non potrebbe fare, se non l' avesse. E così chi conosce il tutto ha potestà di conoscere le parti, come chi possiede un dato principio è fatto libero, a cagione dell' estensione virtuale d' esso, di spaziare a sua voglia pel campo delle conseguenze. Sicchè può dirsi a tutta verità che « la riflessione libera in ciascun uomo si estende solo a quel tanto a cui s' estendono le sue attuali complesse intellezioni ». Il darsi poi maggior cura di questa associazione intellettiva non è già un lasciar del tutto da parte le altre due maniere d' intellezioni venienti dalla forza unitiva dell' animale e dalla forza unitiva dell' uomo, ma è un dar ordine a queste stesse, un sommetterle alla ragione, il far sì che l' uomo ne divenga padrone e ne possa a suo vantaggio liberamente disporre. E nel vero l' ordine delle idee e dei pensieri aiutano moltissimo anche la reminiscenza fantastica, nello stesso tempo che la regola e la fa utile a se stesso. E perchè mai è più facile imparare a mente un discorso che abbia senso, che non un ammasso di parole sconnesse al tutto e gittate a caso? Il rammentare la successione di que' suoni è operazione fantastica; ma se quelli rendono un sentimento, l' ordine delle idee rende tosto assai più facile quella operazione stessa sebben fantastica. Viceversa poi l' associazione animale aiuta la reminiscenza delle idee, e per ciò anche quella del loro ordine, perocchè l' ordine delle idee è formato da altre idee di connessione, le quali possono pure esser legate a de' segni sensibili, e così i segni sensibili possono risvegliar nella mente l' ordine che si desidera. Ma questo stesso effetto non si ottiene meramente dalla natura abbandonata a se stessa, ma dall' arte. Conviene che preceda una mente la quale, avendo le idee in se stessa ordinate, ordini altresì i suoni a quelle corrispondenti. Allora questi suoni o segni sensibili così ordinati giovan benissimo o a comunicare altrui lo stesso ordine d' idee, o a richiamare in mente a se medesimo le idee ordinate. E questo è il fatto dell' invenzione dei linguaggi e delle scritture, e la ragione del vantaggio immenso che recano ai progressi dell' umano intendimento. Per altro, l' associazione che si fonda nell' ordine delle idee è la sola che possa servire alla moralità. Abbiam veduto che le due prime maniere d' associazioni hanno il loro fondamento nella forza unitiva del soggetto: è l' unità del soggetto che le produce. La terza, all' incontro, ha la sua ragione nell' oggetto stesso, il che è quanto dire nella verità. Questa sola osservazione basta per intendere che solamente quest' ultima specie di associazione ha uno stretto rapporto colla moralità: ella prepara la via a questa, perocchè la virtù non consiste in altro se non nella ricognizione volontaria dell' ordine oggettivo (1). Ma l' ordine oggettivo dee essere riconosciuto compiutamente dalla volontà, e quant' è più compiutamente, più egli divien morale, più vi ha di virtù nell' uomo. Questo vuol dire che l' educazione dee tendere a far sì: 1 che le idee e i pensieri si congiungano nel bambino secondo i loro nessi naturali e veri, e non secondo nessi arbitrarŒ e falsi; 2 che questo annodamento delle idee sia il più compiuto possibile. Si vedrà facilmente quanto questa dottrina consuoni al principio supremo dell' educazione da me altrove proposto ed enunciato così: « « Si conduca l' uomo ad assimilare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non si voglia conformare le cose fuori di lui alle causali affezioni dello spirito suo »(2) ». Ho mostrato ancora come l' educazione dee abbracciare la mente, il cuore e la vita dell' uomo (3). Ora il cuore, cioè la volontà cogli affetti dee rispondere alla mente, la vita rispondere al cuore. Se la mente dunque si conforma all' ordine oggettivo delle cose, se si ha in esso il tranquillo lume del vero, non il falso e confuso delle opinioni e pregiudizŒ, il cuore avrà il tipo su cui, per così dire, stamparsi, e la vita non sarà che una continua imagine del cuore. Se la vita dee essere un' incessante produzione del bene universale , nel cuore prima dee esservi la universale carità; e questa non può esservi nel cuore, se nella mente non v' ha la disposizione a non escludere niuna cognizione, ad abbracciarle tutte. L' universalità della mente imparziale produce l' universalità del cuore benevolo , e l' universalità del cuore benevolo produce l' universalità della vita buona . Si dee dunque educare la mente del fanciullo a riconoscere tutti i nessi delle cose ch' egli può riconoscere in ciascuna età, voglio dire a riconoscere tutto l' ordine oggettivo di cui è capace; al che fare è necessario che i nessi delle cose si dispongano nella sua mente non già a caso, ma essi stessi ordinati; cioè prima i più rilevanti e poscia i meno. Come uno è l' essere e tre sono le categorie , così vi ha pure un' unità suprema nelle cose; e vi hanno tre maniere di unioni. L' unità suprema è formata dall' idea di Dio essere essenziale. L' unità di Dio dee dunque rendersi dominante nella mente del fanciullo: a Dio come a creatore, a conservatore, a fonte di ogni bontà dee rivocarsi dalla mente del fanciullo tutte le cose: ma dee farsi sempre coll' idea propria di quell' età in cui il fanciullo si trova. Nel primo e second' ordine d' intellezioni egli concepisce Iddio come complemento dell' essere: lo concepisce tutt' insieme reale7intellettivo7buono. Il riferire e rifondere le cose in Dio colla maggior generalità possibile di parole è dunque la maniera più facile e il primo grado del far sentire e intendere ai fanciulli la dominazione dell' idea di Dio quasi assorbente tutte le altre. Al terz' ordine rimane la stessa idea di Dio, ma non assorbe più le altre; queste si distinguono da essa, e distinguendosi ingrandiscono quella: un segreto sentimento di adorazione può già qui aver luogo: un annullamento, un sacrificio di tutte le altre cose a Dio è il secondo grado, il secondo modo di subordinare ciò che è contingente all' Essere supremo. Al quart' ordine si manifesta Iddio come volontà. Cioè dopo essersi distinto Dio dalle creature, si distingue in Dio stesso l' ottima volontà dalla sua natura7intellettiva. La conformazione de' proprŒ voleri, senza esclusione d' alcuno, alla volontà divina; la subordinazione dovuta di tutte le volontà a quella sola; è un principio che di nuovo unifica nell' idea di Dio le altre idee: è il terzo grado, il terzo modo di fare intendere e appercepire il nesso fra tutte le altre cose e l' Essere supremo. Al quint' ordine si cominciano a conoscere alcuni dei divini precetti, e l' accettarli con assoluta devozione è un quarto modo di riferir tutto a Dio. Finalmente al sesto si comincia a conoscer Iddio come intelligenza o superna ragione, allora solamente in Dio sono distinte le tre forme del suo essere: la morale, l' ideale e la reale; che prima indistintamente si raccoglievano nell' idea dell' assoluto. Qui s' apre un quinto modo di legar tutte le cose con Dio, rifondendo in esso le ragioni delle cose tutte, e in tutte adorando l' eterna sapienza. Queste cinque maniere di ordinare le cose create sotto l' unità suprema del Creatore, e di porre così l' ordine principalissimo e naturalissimo nella mente, nel cuore e nella vita debbono esser studiate grandemente dal savio e cristiano educatore. Lo sviluppare poi questi cinque gradi successivi e specie diverse di religioso insegnamento; il rinvenire gli spedienti necessarŒ e le industrie per le quali si possono applicare ai fanciulli, e farli pervenire successivamente al loro spirito, sarebbe pure argomento d' un libro importantissimo e necessario alla solida educazione. Venendo ora a quella ordinazione che derivar si dee alle cognizioni del fanciullo in ciascuna sua età dalle categorie dell' essere, come queste sono tre, così tre sono i principŒ d' ordine e di unificazione. Cominciamo dall' idealità . L' essere ideale universale è quello che unifica questa categoria di cose. Sarà dunque assai bene che si faccia considerare al fanciullo in tutte le cose l' entità; e che gli si mostrino i modi dell' entità che rendono le cose diverse come semplici limitazioni, o anco, se si vuole, atti di quella: e che si faccia così il fanciullo discendere dalla classe massima alle minime delle cose. Ma e quali saranno i gradini di questa scala? - Diversi nelle diverse età. Per rilevarli dovrà il savio istitutore rilevare, con riflettere sulle parole del fanciullo facendol parlare, quali sieno le classi delle cose ch' egli in ciascuna età è pervenuto a formarsi: certamente queste classi avranno per base delle idee semi7astratte, come abbiamo veduto; ma queste stesse idee semi7astratte variano secondo lo sviluppo del fanciullo, ed ora costituiscono classi più larghe, ora meno. Ad ogni modo (rilevati quali sieno i semi7astratti su quali il fanciullo classifica le cose) converrà ordinarglieli, fargli vedere qual sia più larga, quale più stretta, quale si contenga nell' altra, quale sia contenuta: in una parola, i gradini per discendere dall' entità ideale alle altre più determinate devono essere quelli che già esistono nella mente del fanciullo, o i prossimi ad essi, a' quali il fanciullo faccia agevolmente, con tale occasione, il passaggio. Come si possono ora ordinare i pensieri del fanciullo rispetto alla realità? Gli enti reali si appercepiscono dall' uomo come sussistenti e come agenti. Quanto alla sussistenza, sono gli elementi materiali che si debbono far trovare al fanciullo, anche qui menandolo dalla cosa più composta alla meno, per esempio, dal mondo alle sue parti maggiori, dalle sue parti maggiori alle minori, e così di mano in mano. Ma anche in questo esercizio si dee seguire una regola somigliante: cioè non parlare se non di quelle parti che il fanciullo già conosce: per esempio, dalla casa si potrà farlo discendere all' idea delle stanze, dall' idea delle stanze all' idea de' siti diversi che si possono in una stanza stessa assegnare, o simile. Assai per tempo si può il fanciullo condurre fino alla cognizione de' principŒ chimici, al che molto gioverebbe l' orto botanico, il gabinetto di storia naturale, distribuiti a suo uso, ed altri simili aiuti. Tutti gli enti poi si possono rattaccare all' idea dell' universo, e ultimamente a quella di Dio come essenzial sussistenza. Quanto poi all' operare delle cose, si dee rilevare parimente quali sieno i principŒ definiti che il fanciullo è giunto a formarsi sulle forze e le attività delle cose; e moderare l' insegnamento in modo di far sempre uso di quelli. I principŒ d' azione, le forze, le cause vengono gradatamente a concepirsi, a disegnarsi via meglio nella mente del fanciullo. Or l' istitutore tostochè s' accorge che un dato principio è già composto nello spirito del suo allievo, egli dee impossessarsene per aggruppare intorno a lui molte idee; facendone fare al fanciullo una frequente applicazione a quante più cose gli sia possibile. In tal modo que' principŒ diventano modi preziosi che collegano le idee divise, e danno alla mente ordine, luce, potenza. Molte di queste unioni diventano assai utili allo stesso sviluppo morale, come, a ragione d' esempio, quella per la quale il fanciullo giunge a conoscere che tutti gli uomini vengono da una causa sola, da un solo padre, e non costituiscono per ciò che una sola famiglia. Veniamo alla terza categoria, quella della moralità . Noi siamo venuti sponendo i principŒ morali che si forma il fanciullo in ciascuno de' quattro primi ordini d' intellezioni. E` conforme alla sapienza dell' istitutore il fondare su quelli le sue lezioni morali, unica maniera di farsi intendere dal tenero suo alunno; a quei principŒ egli dee richiamare del continuo le azioni, deve far fare al fanciullo un' applicazione continua di essi: in tal modo le idee delle azioni si unificano, perocchè si sollevano alle loro cause. Veniamo ora all' educazione. Nell' esporre l' educazione che risponde al quart' ordine d' intellezione, seguiremo il metodo tenuto fin qui, di dar cioè alcuni di que' documenti i quali servir debbono non pure per questa età di cui parliamo, ma ben anco per tutte le altre avvenire. Cominciamo dalla necessità che le parole degli istitutori sieno appieno veraci. Già osservammo che la credulità del fanciullo è un effetto della sua benevolenza. L' abusarne adunque dalla parte degli adulti è un atto di turpe ingratitudine. Veramente all' irriflessione e all' egoismo degli adulti questa proposizione è del tutto incomprensibile: l' ignoranza e la debolezza del fanciullo, l' averlo nelle loro mani senza ch' egli possa difendersi, nè tampoco perorar la sua causa, sembrano loro de' titoli sufficienti a poter disconoscere il tenero loro fratello, e a credersi in possesso del diritto per fare di esso e ad esso bene e male, come loro attalenta. Vedemmo ancora che la benevolenza spontanea del fanciullo è cosa morale, che è un dovere che la natura stessa insegna ad esercitare. Chi abusa dunque della credulità fanciullesca, che è conseguenza della benevolenza, egli profana una cosa sacra, dispregia l' elemento morale e divino che dona la maggior sua dignità all' anima intelligente. Vedemmo che la benevolenza del fanciullo, oltre doversi rispettare altamente come cosa morale, deesi ancora coltivarla con bello studio, e questa coltura, volta a dirigere la benevolenza infantile in modo ch' ella conservi e cresca il suo pregio morale, dee, perchè ottenga il suo fine, mantenere ad essa benevolenza l' universalità, sicchè il fanciullo ami tutte le persone, e tutto nel debito ordine. All' universalità poi della benevolenza serve di fondamento e quasi di traccia l' ordine de' pensieri che abbiamo raccomandato introdursi nella mente del fanciulletto, di mano in mano ch' egli se ne rende capace. Ora quest' ordine bellissimo de' pensieri non è che la VERITA` nella sua pienezza e luce maggiore, perocchè la verità è da se stessa ordinata, e nella mente ove è il disordine è anche la falsità. Di qui vedesi adunque che attenzione, che diligenza, che probità si richiegga ne' genitori e istitutori del fanciullo! Quanto debbano questi, se sono savŒ, misurar tutte le loro parole, per non introdurre nella mente del fanciullo niente di falso, niun errore volgare, niun pregiudizio, non un' opinione esagerata, non una stima parziale. Ma chi d' altra parte si persuaderà, se non sarà virtuosissimo e al tutto sapiente, che sommamente importa tener l' animo del fanciullo vergine e puro da ogni pregiudizio nazionale, gentilizio, della condizione e dello stato? Pure ella è questa la maniera di allevare i fanciulli colle maggiori disposizioni alla virtù, alla sapienza e alla felicità. Felici quelli che venendo in questo mondo, riceveranno sortiti loro dalla Provvidenza tali educatori! Oltre il danno che i fanciulli ricevono gravissimo da ogni seme di falsità che s' introduca nelle lor menti, la mancanza di sincerità e di verità nei loro educatori rallenta altresì lo sviluppo del fanciullo. Abbiamo pur veduto che il fanciullo accresce il grado della sua credulità e docilità, quando l' esperienza gli dimostra che quello che ha creduto serve alla sua mente di punto d' appoggio ad altri ragionamenti. Ove possa vedere che questo punto d' appoggio gli manchi, sia fallace; in luogo di aver cagione di accrescere la sua credulità, dee anzi diminuirla. Niente ancora di più pernicioso di questa diffidenza che in tal modo si semina nell' animo del fanciullo! [...OMISSIS...] Il pericolo che v' ha d' abusare della credulità del fanciullo, v' ha del pari d' abusare della sua ubbidienza e docilità. L' educazione dee avere per somma legge il far sì che tutto sia retto nel fanciullo, la mente, il cuore, la vita. La mente del fanciullo si mantiene retta procacciando l' ordine universale delle idee (1): il cuore si mantiene del pari retto all' universalità ordinata della benevolenza, e la vita riceve e conserva la sua rettitudine con delle azioni sempre ordinate e ragionevoli, rispondenti a quel perfettissimo ordine de' pensieri e delle affezioni. Il fare che il fanciullo operi irragionevolmente od a caso, per non dir male, il fargli contrarre delle abitudini non fondate nè nella natura, nè nella ragione; è uno storcere i suoi affetti ed i suoi pensieri: perocchè il disordine della vita si comunica al cuore e alla mente: queste tre cose tra di loro intimamente e pienamente comunicano. Grand' errore adunque è il far servire il fanciullo al proprio trastullo, anzi che al suo vero vantaggio: l' adoperarlo come un mezzo e non rispettare in lui la dignità di fine: e pure quanti pochi genitori vanno puri da questo peccato! Pur troppo l' idea d' avere nel figliolo una proprietà è la prima che entri nel loro spirito: le leggi gentilesche contribuirono a rinforzare questo pregiudizio nelle menti, nè l' autorità del cristianesimo valse ancora a convellerlo interamente dalle menti, nè dai costumi. E dal non saper comandare rettamente, dal non saper dirigere le azioni del fanciullo secondo la ragione del suo stesso profitto, nasce facilmente il guasto della coscienza del fanciullo. I doveri dei genitori e degl' istitutori relativamente alla formazione della coscienza del bambino sono gravissimi e difficilissimi ad adempirsi: di questo dobbiamo dunque noi ora parlare: riprendiam da principio il ragionamento. Al riso del volto umano il bambino risponde col primo atto d' intelligenza, che è un atto ad un tempo di sua benevolenza. Questa benevolenza, abbiam noi osservato esser cosa morale. Di che si vede l' altissimo senno della Provvidenza, la quale nelle viscere materne pose un amore ineffabile che servir deve di acconcissimo stimolo alla razionalità ed alla moralità dell' uomo tosto che entra in questo mondo. Si vede ancora che gli atti della materna tenerezza, lungi dal nuocere al fanciullo, sono quelli che gli parlano, lo educano da principio, invitandolo e traendolo al conoscimento d' un' altra intelligenza buona a cui non può a meno di dare tanta stima e affetto maggiore, quanto maggiormente amorosa e bona a lui si mostra. Ma ben presto nasce il pericolo che il fanciullo esaurisca tosto la sua benevolenza in pochi oggetti; e però dee provvedersi, come dicemmo, che il suo cuore a niuna intelligenza dotata di bontà si chiuda, e più ancora che a niuna opponga alcun sentimento di malevolenza. Viene il tempo, ed è quello del terz' ordine d' intellezioni, che il fanciullo pel linguaggio apprende che gli enti intellettivi che come buoni ed amabili a lui splendettero ne' primi istanti, hanno una propria volontà, e il primo suo movimento si è quello che lo porta a conformarsi ad essa, a vivere in essa, senza nulla pensare di sè. Anche questo è un atto eminentemente morale. Ma qui pure si osservi che l' inclinazione di ubbidire, di conformarsi alla volontà altrui, nasce dalla credenza che s' è formata in lui che questa volontà sia buona, perchè è buono l' ente di cui ella è. Perciò la sua spontanea obbedienza è maggiore, quant' è maggiore la sua benevolenza e la stima verso l' ente intellettivo a cui ubbidisce, e la sua benevolenza e stima è maggiore, quanto maggiore è la bontà da lui appercepita nell' ente medesimo. Ora si considerino i mezzi che ha il bambino di misurare la bontà degli enti intelligenti che trattano con lui. Egli non può fondare il suo giudizio se non sui dati che la sua età gli somministra; e se quello corrisponde a questi dati, è giusto e retto; perocchè la giustezza e la rettitudine morale è sempre relativa al soggetto, cioè è relativa al modo onde l' oggetto viene dal soggetto appercepito. Ora, gli unici dati che quella tenera età somministra, non risultano che da quella immediata comunicazione delle anime, di cui abbiamo parlato, che si fa tra il bambino e le persone che il trattano per mezzo delle dimostrazioni sensibili, risi, baci, carezze, sensibili piaceri a lui procurati, servigi a lui prestati. Quanto adunque più amorosamente egli viene trattato, anche più di bontà appercepisce nell' ente che il tratta, e giustamente egli risponde colla sua benevolenza ed ubbidienza. Questo spiega primieramente il perchè l' ubbidienza del fanciullo non sia la medesima verso tutte le persone, ma anzi, somma per certe, e per altre quasi nulla: spiega perchè egli mostri di sentire un gran rimorso quando disubbidisce, poniamo, alla madre, e piccolissimo o nullo quando ad altri; e perchè la volontà della madre diventi la sua regola costante, e non così quella di altri. Questo fatto viene rilevato appunto da una madre molto stimabile colla solita sua finezza. [...OMISSIS...] Di qui si giustificano, per dirlo di passaggio, le fluttuazioni apparenti della moralità infantile: essendo questa fondata nelle affezioni, ella dee parer mobile siccome queste nelle sue apparizioni, non cessando tuttavia d' avere il suo pregio morale, e un principio stabile qual è quello di stimare ed amare la bontà degli enti. Ma vediamo oggimai i doveri degl' istitutori verso la coscienza incipiente del fanciullo. In prima abbiamo detto che se essi ottengono di mantenere nell' animo del fanciullo una benevolenza universale (2) ed ordinata, questa universale e ordinata benevolenza è ottima regola di moralità data e mantenuta al fanciullo: perocchè egli secondo quella pacificamente dirige e contiene i suoi affetti e le sue operazioni. Non vi ha però ancora in esso alcun principio di coscienza morale. E` venuto al quart' ordine delle sue intellezioni, che avendo già conosciuta una volontà positiva l' apprezzò e conobbe ch' ella dovea essere oggimai la sua regola, anteponendola a' suoi stessi piaceri fisici. Ma questa volontà stessa egli non può giudicare se sia bona per l' intrinseca sua ragionevolezza, ma la giudica buona per l' opinione formatasi che l' ente a cui ella appartiene sia buono. Or quando nasce collisione tra la volontà altrui e le sue tendenze fisiche, allora nel giudizio di preferenza dell' una all' altra, nella tentazione e nella caduta, spunta il primo albore della coscienza nell' animo suo, mediante il rimorso sentito o almen presentito. I doveri adunque degli educatori relativamente alla coscienza incipiente del fanciullo, consistono nel manifestare al fanciullo sempre una volontà buona relativamente a lui; perocchè dovendo la lor volontà esser sua regola, egli avrà in essa una regola bona se sarà bona, e sarà da lui apprezzata e amata se sarà tale ch' egli sia in caso, coi piccoli mezzi di conoscere ch' egli ha, di conoscerla per bona e stimabile. Si dee dunque da noi esaminare questi due punti importanti, si dee rispondere a questi due quesiti: 1 In qual maniera la volontà degli educatori, regola della moralità del fanciullo nel quart' ordine d' intellezioni, può esser bona; 2 in qual maniera può esser bona relativamente a lui, cioè può esser bona d' una bontà riconoscibile al fanciullo stesso, ond' egli possa proporsela da se stesso a regola di sua condotta. Abbiam già detto che il fanciullo, quando da principio conosce, mediante il linguaggio, che i suoi genitori o educatori hanno una volontà positiva degna di tutto il suo rispetto e di tutta la sua affezione, egli non è in caso di giudicare della sua bontà da ragioni intrinseche, cioè dalla natura ragionevole o no, giusta o no, delle cose volute e comandategli. Questo però non dispensa gli educatori dal comandare al fanciullo cose ragionevoli sempre, oneste e giuste. Perocchè sebbene non hanno da temere in lui un censore od un giudice, tuttavia hanno da rispettare una creatura intelligente; e debbono tener l' occhio alla coscienza che già sta per nascere in quel piccolo essere umano, e la quale non riuscirebbe sincera e al tutto conforme alla verità, se si fossero fatte credere al bambino buone le cose cattive, e così falsati anticipatamente i suoi giudizi morali e fattegli contrarre funeste abitudini. Posto adunque che in tutto ciò che viene comandato al fanciullo nulla vi sia d' inonesto, d' ingiusto, d' eccessivo, di appassionato, rimane ancora a vedere come la volontà espressa de' genitori dee farsi conoscere per bona al fanciullo stesso. Anche qui conviene por l' occhio unicamente ai pochi mezzi di conoscerla e giudicarla per bona che ha il fanciullo; e non pretendere ch' egli a riconoscerla tale adoperi que' mezzi che il suo intendimento ancora non ha. In prima adunque non si può sperare ch' egli intenda l' intrinseca ragionevolezza delle cose che a lui vengono comandate: questo è del tutto superiore al suo sviluppo. Converrà dunque ricorrere ai dati estrinseci, su' quali giudica il fanciullo; e questi sono i due seguenti: 1 Il fanciullo giudicherà bone le cose che gli vengono comandate e che sono l' espressione della volontà della madre in generale o degli educatori, se le cose comandate vanno d' accordo colla sua spontaneità naturale; 2 Se le cose comandate sono indifferenti alla sua spontaneità naturale, cioè nè seconde, nè contrarie, egli le reputerà ancor bone in virtù dell' idea di ente bono, stimabile ed amabile, che s' è fatta naturalmente dell' ente che gliele manifesta; 3 Stante poi quest' opinione di bontà dell' ente che da lui vuole quelle cose, se queste a lui sono moleste, da prima egli tuttavia ha la persuasione di dover anteporle alle sue stesse soddisfazioni sensibili, preferendo a tutto il non disgustare la stimata ed amata persona. Che se quelle cose fossero a lui gravemente moleste e continue e la sua stima e benevolenza verso l' ente che gliele comanda non venisse alimentata da niuna amorevolezza, potrebbe la cosa venire a tal termine da distruggere nell' animo suo la conceputa opinione di bontà dell' ente: sebbene alla piena distruzione di questa sua cara opinione non verrebbe mai che difficilmente. Se poi il comando duro e contrario al suo sentire e volere vien fatto di rado, e come un accidente, nella pienezza della stima e della benevolenza del fanciullo nasce il terribile combattimento che dicevamo, nel quale o la sua virtù rovina, ovvero uscendone vincitrice vie più si fortifica. Prima però di cadere, egli usa tutte le industrie per declinare dalla prova, per conciliare, se gli vien fatto, i due suoi bisogni, il fisico ed il morale, per piegare, voglio dire, la volontà del suo superiore alla propria, riducendola a ritirare o modificare il comando; e questa voglia d' influire è propria di questa età, si manifesta cioè al quart' ordine d' intellezioni. Ora egli è chiaro, che circa il comandare cose o piacevoli o indifferenti per sè al fanciullo non vi ha difficoltà, nè altro dovere che questo che tali cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo. Ma la difficoltà comincia dove si tratti di comandare cose di lor natura contrarie alla propensione e alla volontà spontanea del fanciullo. Intorno a queste cose il dovere della madre, della bona e di qualsiasi altro governatore del fanciullo non si limita a ben considerare che le cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo; ma oltracciò, fra le utili ed acconciate, debbono le necessarie essere scelte con sommo avvedimento e con somma prudenza. E cominciando dalla voglia d' influire che ha il fanciullo nella volontà de' suoi maestri, non conviene inutilmente oppugnarla, anzi, ogni qual volta ragionevolmente si può, convien piegarsi e compiacerle, acciocchè il fanciullo esperimenti anche in questo la bontà di chi lo tratta, opponendosi tuttavia qualche volta opportunamente, acciocchè egli esperimenti ancora che il cedere non è mai debolezza, ma solo amore (1). Non è certo necessario di dire che la è cosa inumana il pretendere dal fanciullo cose eccessivamente dure, e il trattarlo costantemente in modo sì aspro da annientare nel suo cuore il concetto di boni che si fece naturalmente di noi: i mali trattamenti continuati in tal modo possono dare all' animo suo una tempra di durezza e inclinarlo fino dalla culla alla tristezza e alla crudeltà, chiudendolo all' amore. Ma sarà mai permesso di cimentare la sua tenera virtù? Sì certamente, come abbiamo detto anco prima, ma qui appunto dee consistere tutto l' avvedimento e la sagacità dell' educatore nel misurare il grado della tentazione. Sempre lo si dee fare quando l' utilità o la necessità lo esiga; ma anche allora conviene che la tentazione non superi le sue forze; quanto sarà più grande la sua stima e la sua benevolenza effettiva, tanto avrà egli più di forze da resistere al cimento. La lotta si forma tra la stima ed affezione della persona amata e il desiderio di qualche soddisfazione sensibile: quel tanto, del quale quella vince questa, è la misura della sua forza morale di cui si può disporre. Qual sagacità non si richiede nel rilevarne acconciamente la misura! Ben può essere sovvenuto nel conflitto sia con carezze, sia con regali, sia con presentargli il più che si possa inzuccherata la pillola che gli si dee far trangugiare: e tutto ciò non conviensi omettere a questa età, dove abbisogni. E dico dove abbisogni, perocchè dove no, convien lasciarlo combattere alquanto e trionfar da se stesso. Egli è divenuto con ciò migliore: la sua virtù così si consolida, la sua forza pratica salutarmente si spiega. Ma il mezzo più importante di non falsare la coscienza, che già comincia a sbocciare nel fanciullo, quello senza il quale non si arriverà giammai a mantenere la sua coscienza del tutto pura, verace, perfetta, consiste nel fargli conoscere che anche in Dio esiste una volontà, e che questa volontà è altissima, suprema sopra tutte le altre volontà, a cui bisogna dare ubbidienza pienissima, conformandovisi in tutto, foss' anco con patire ogni cosa e con posporre a quella ogni altra volontà. Non si dee già pretendere ch' egli concepisca la volontà divina come sapiente, no, di questo non è capace: ma egli la concepisce assai facilmente come volontà di un ente supremo, assoluto ed ottimo, di cui la volontà è pure altissima, assolutamente rispettabile, e sopra ogni pensare ottima. Questa bontà della volontà divina, il bambino non è da prima nè pur capace ancora d' intenderla dagli effetti: ma la intende pel concetto che s' è formato di Dio, concetto all' uom naturale, perocchè è naturale all' uomo il concepire l' illimitato e l' assoluto prima d' intendere queste parole e sapere esprimere con esse il suo intendimento: e però falsamente si procederebbe volendo persuadergli ciò con ragioni; conviene solo presentargli alla mente l' esistenza di un essere oltremodo grande e bono, avente una volontà oltremodo pure grande e bona; perocchè basta che gli si presentino questi concetti alla mente senza prove, ed ella, la mente, immediatamente gli accoglie ed assente loro senza la menoma dubitazione, trovandoli essenzialmente veri, atteso un brevissimo argomento ch' ella spontaneamente fa, e mossa dalle intime leggi della sua natura produce a sè, tuttochè non ci rifletta poi sopra, nè lo si sappia dire, nè esprimere altrui con parole (1). E la via di comunicare al fanciullo così grandi pensieri è quella prima di tutto del linguaggio naturale ed efficacissimo che viene inteso da quella mirabile facoltà di partecipare dell' altrui sentire e intendere, che simpatia fu chiamata. [...OMISSIS...] Non si dee tuttavia omettere di vestire poi anco di parole acconce questi sentimenti, che colla loro comunicazione intima l' anime si trasmettono. Nè meno si dee poscia trapassare di far conoscere la bontà e la grandezza divina dagli effetti; ma senza ragionamento, solo affermando che tutte le cose vengono da Dio, che da Dio vengono tutti i beni, ch' egli è il fonte d' ogni bontà delle persone (2). Laonde il ringraziamento è l' atto di culto che più conviene a quest' età: conviene farlo fare al fanciullo il più frequente che si possa; ed è bella la piccola orazione che Mad. Hamilton propone da suggerirsi a un fanciullo quando egli riceve qualche favore dalle persone: [...OMISSIS...] . Con tali esercizi si conduce lo spirito del fanciullo a conoscere sempre più la prima causa del tutto, il fonte universale de' beni, a distinguerla dalle cause seconde e preferirla a tutte le persone umane per buone che queste gli si presentino: e quel che è più a mettersi in diretta comunicazione con essa. Quando l' essere perfettissimo si è reso così vicino al fanciullo, fu conosciuto qual principio di tutti i beni; non v' ha allora più pericolo che la volontà degli uomini prenda nel suo cuore un posto più elevato della volontà di Dio . Questa diventa la regola suprema , e quella la regola subordinata : ecco ciò che massimamente importa, acciocchè la coscienza non sia falsata nella sua formazione: ecco il desiderio, il grande studio de' genitori veramente cristiani, e che vogliono educare a Dio i cari pegni consegnati loro da Dio. Chi volesse fare una classificazione delle intellezioni di quint' ordine potrà farla agevolmente, partendo dal principio che « le intellezioni di un dato ordine sono i rapporti, che trova la mente fra le intellezioni degli ordini inferiori sui quali ella si riflette »; e attenendosi alla maniera di procedere, colla quale noi abbiamo data la classificazione degli ordini precedenti. Oltre a questo, prima d' istituire il ragionamento sopra un dato ordine d' intellezioni conviene aver presente che le intellezioni di un dato ordine non sono egualmente facili a formarsi, nè si formano tutte ad una data età; ma quelle sole alle quali viene diretta l' attenzione della mente: e l' attenzione della mente non si muove e dirige, se non punta da certi stimoli di bisogni, che si manifestano, alcuni costantemente a certe età ed altri a caso ora più presto ora meno, dipendendo dalle accidentali circostanze. E` finalmente necessario anche aver presente ciò che già dicevamo, che nel tempo stesso che la mente lavora intorno ad un dato ordine d' intellezioni, non istà ella oziosa rispetto alle intellezioni degli ordini inferiori; ma continua a rifornirsi meglio di queste, sempre in modo corrispondente e proporzionato ai nuovi stimoli de' bisogni, che a ciò far la sollecitano. Veniamo dunque ora ad esporre alcuni cenni anche sullo sviluppo, che fa la mente di sè col quint' ordine d' intellezioni, ordine che suole apparire già assai marcato nel quart' anno del fanciullo. L' operazione propria del quint' ordine è la terza specie di sintesi. La prima specie si fu la percezione (prim' ordine): la seconda specie si fu la predicazione delle qualità delle cose (terz' ordine): quale è ora la terza specie? Questa viene preparata dall' analisi precedente. L' analisi del quart' ordine noi l' abbiamo fatta consistere nella scomposizione elementare , per la quale la mente trova un soggetto risultare da due elementi, una cosa di cui viene predicata qualche cosa, e una cosa che si predica. Coll' abbracciare la mente questi due elementi come parti costituenti una stessa cosa, ella ha già cominciato a paragonarli insieme; e perciò abbiamo detto che l' operazione del paragone comincia nello spirito umano coll' analisi propria del quart' ordine. Ma chi ben riflette, questo cotal paragone è piuttosto virtualmente compreso in quell' analisi, che attualmente. Mi spiego. L' operazione, colla quale lo spirito in un soggetto, che gli sta presente, nota due cose, poniamo la sostanza e l' accidente, non consiste attualmente in un espresso paragone di quella con questo; ma bensì implicitamente s' accorge, che la sostanza non è l' accidente, nè l' accidente la sostanza; benchè sappia, che tutte e due quelle parti appartengono ad un solo oggetto. Or l' accorgersi che la sostanza non è l' accidente contiene, dicevamo noi, implicitamente il paragone, che scopre la relazione di differenza e di opposizione tra quelle due parti: ma questo paragone non è l' operazione, con cui si scompone e distingue sostanza ed accidente, ma da quella operazione è supposto ed implicito in essa. E qui deesi notare con somma attenzione appunto un fatto importante dello spirito umano, la doppia maniera cioè, colla quale egli fa le sue operazioni. Queste operazioni talora egli le fa espressamente e spiegatamente ed allora sono facili ad osservarsi: costituiscono la forma specifica della sua attività, e in questa forma l' attività termina e quasi direi si configura. Altre volte egli fa le stesse operazioni, ma in un modo sfuggevolissimo e non per terminare e riposare in esse, ma unicamente, acciocchè gli servano di via o scala ad altre operazioni, a cui intende come a fine: e mentre queste scolpisce con diligenza, perchè le vuole per se stesse, quell' altre solo le abbozza rapidissimamente per quel tanto, che gli bisognano a farsi il passaggio alle ultime, a cui vuol pervenire. Ora, se nella scomposizione elementare vi ha un cotal paragone, questo non è fatto dallo spirito, che alla sfuggita e imperfettamente, quanto solo gli si rende necessario mezzo a conoscere, che due sono le parti, gli elementi onde risulta il soggetto e non uno: il che si conosce sapendo solo in generale, che l' un non è l' altro, senza bisogno che si sappiano anco determinare le differenze che li dispaiano. E quantunque il sapere, che l' uno elemento non è l' altro, involga la vista d' una relazione, cioè della relazione di diversità, tuttavia la relazione stessa non si vede astratta in sè: veggonsi le due parti, ma il pensiero non s' affissa nella stessa dualità. Ciò premesso, si potrà intendere che cosa sia la sintesi di terza specie, che è l' operazione propria dello spirito al quint' ordine d' intellezioni. Verificato coll' analisi del quart' ordine, che esistono due cose diverse, che ne formano una sola; viene nel quint' ordine la sintesi a discoprire i rapporti, che hanno tra di loro quei due elementi. La terza specie di sintesi adunque consiste, « nella determinazione della relazione che hanno fra di loro due cose che ne formano una sola ». Da questa definizione si vede che in una tale sintesi il paragone comparisce in forma espressa e spiccata, e non ischiacciato e per accidente come sta dentro l' analisi precedente: vedesi pure che il frutto prodotto dal paragone, la relazione (1), si manifesta anch' essa determinata e non in un modo come prima al tutto generale ed imperfetto. Le relazioni poi non solo legano i predicati co' subbietti, ma ben anco due cose quali si vogliano, le quali si riscontrino insieme e fra di lor si trovi passar qualche nesso da formarne lo spirito una unità, un pensiero complesso. Quanto a' predicati ed a' subbietti la mente qui può discoprire con qual legge tra loro si leghino in un oggetto: se per accidente, o per necessità, o per l' essenza medesima: di guisa che la loro distinzione sia concettuale e non veridica. Se gli oggetti son due può vederli in un pensiero complesso sia pel nesso delle somiglianze e delle differenze (2), sia per quello delle cause e dell' effetto, sia per altra relazione qual si voglia. I giudizi analitici, che fa lo spirito umano al quint' ordine, sono di seconda specie od anco di prima. La materia di questa analisi vien preparata dalle sintesi precedenti cioè dalle sintesi, che si fanno al quart' ordine o prima. Questo s' intenderà facilmente, quando si ritiene, che in ogni ordine oltre l' operazione propria di esso, si continuano a eseguire altre operazioni, che per la loro natura spetterebbero agli ordini precedenti, ma per circostanze speciali vengono differite a quell' ordine, al quale giunto lo spirito le eseguisce. A ragione d' esempio, il predicare una cosa d' un' altra è quella operazione sintetica, che appartiene al terz' ordine, perchè ivi una tal sintesi comincia ad apparire. Ma egli è evidente, che lo spirito giunto al terz' ordine non può predicare una cosa di un' altra se non a condizione che: 1 egli abbia il concetto della cosa che predica; 2 e il concetto di quella di cui la predica. Laonde questa operazione non può aver luogo al terz' ordine ogni qualvolta a quello stadio il predicato non è ancor formato nella mente umana, o non è formato il soggetto. Tale sarebbe trattandosi di predicare un' azione d' un agente. Noi abbiamo veduto che gli astratti di azioni non sono ancora formati prima del terz' ordine; anzi non si possono formare se non nel terz' ordine. Indi avviene che i giudizi e tutte le operazioni intellettive intorno le azioni e gli agenti sieno ritardate d' un ordine: di maniera che al terz' ordine si hanno le azioni astrattamente prese; solo al quarto si può eseguire la sintesi per la quale esse si predicano di un soggetto agente e che solo al quinto finalmente si possa analizzare l' agente cioè dividere l' agente dall' atto suo, considerar l' agente e l' azione come parti o elementi d' un solo soggetto, il che è l' analisi elementare propria del quart' ordine, ma che per accidente vien protratta e differita dallo spirito fino al quinto. Ora quest' analisi di seconda specie, ma appartenente al quint' ordine, è una operazione d' infinita importanza al progresso sì intellettivo che morale del fanciullo. L' attribuire un' azione a un soggetto non è ancor che riconoscere un fatto per se solo sterile: in una tale sintesi io non ho in veduta altro che di porre in un ente l' azione. Ma se dopo avere io unito l' azione e il soggetto e così formatone un tutto solo, l' agente, di nuovo considero l' agente e distinguo in lui l' azione e il soggetto come due elementi d' un solo tutto; io con ciò m' apro il campo a trovare la relazione tra quell' azione e quel soggetto, ogni relazione. Non mi mancherà che un passo per venire a conchiudere una verità importantissima nell' orbe della moralità, cioè che all' agente appartiene il prezzo dell' azione, e però che « io dovrò stimare tanto più il soggetto quant' è più stimabile l' azione ». Questo passo lo farò all' ordine seguente: nel sesto comincerà dunque nella mente del fanciullo l' idea distinta dell' imputabilità delle azioni, e nel quinto già si prepara alla formazione d' una sì grande idea il cammino. Al quint' ordine sembra pure potersi attribuire l' operazione del sillogismo disgiuntivo, o almeno la formazione della maggiore di questo sillogismo. La maggiore del sillogismo disgiuntivo può ridursi a questa formola « delle due sole maniere, in cui può essere (o farsi o avvenire) una cosa, essa cosa dee essere (farsi od avvenire) nell' una o nell' altra ». Ora per concepirsi questa proposizione si esige aver prima l' idea complessa delle due maniere, nelle quali una data cosa può essere, o farsi o avvenire, aver di più osservata la relazione di opposizione, che hanno quelle due maniere, sicchè l' una esclude l' altra (1). Ma noi abbiamo veduto che solo al quint' ordine lo spirito umano giunge a distinguere due cose in un solo concetto, e a notarne la relazione fra di esse, mediante la terza specie di sintesi. Laonde egli pare, che prima del quint' ordine l' intendimento umano non possa in modo alcuno concepire la proposizione maggiore del sillogismo, che dicesi disgiuntivo. La necessità poi, ond' avviene che la cosa non possa essere se non nell' uno de' due modi, ora è metafisica, ora fisica, ora meramente positiva o sia libero7fisica. Che ogni cosa sia o non sia, è un' alternativa di necessità metafisica, e lo stesso dicasi delle proposizioni, nelle quali le due parti sono formate dal sì e dal no (principio di contraddizione). Che traendo una palla da un sacchetto debba uscire una di quelle due, che vi si posero, è necessità fisica. Che il fanciullo per una data sua azione debba trarre o premio o castigo è necessità libero7fisica; cioè fisica, ma condizionata alla volontà del suo istitutore, che gli promise il premio e gli minacciò la pena. Il fanciullo porta nella sua mente la cognizione della necessità metafisica, sicchè egli non opererebbe mai contro il principio di contraddizione; ma nè il sa enunciare così presto, nè analizzare, nè intendere, se gli vien detto in una distinta proposizione. La necessità dell' alternativa libero7fisica è quella che più facilmente egli intende in un modo esplicito, e poi la fisica: ultimamente la metafisica. Egli è da condursi di proposito per questa gradazione di proposizioni disgiuntive. Le proposizioni disgiuntive di più di due membri appartengono agli ordini susseguenti. In quest' ordine può il fanciullo acquistare distinta idea del numero quattro. Quando dico che il fanciullo può acquistare di questo numero una distinta idea, intendo ch' egli può acquistare la cognizione di tutte le relazioni del numero quattro co' numeri precedenti: nello studio di queste relazioni si contiene l' aritmetica propria di questa età. Egli può altresì aggiungere qualche maggior grado di luce al concetto alquanto confuso che ha già de' numeri maggiori; perocchè, in possesso del numero quattro, ha dei nuovi modi co' quali pervenire ad essi coll' aggiungere al quattro successivamente un predicato. Ciò che ho detto parlando del numero tre all' ordine precedente, parmi sufficiente a fare intendere tutto ciò che dal fanciullo si può esigere in opera di aritmetica, pervenuto che sia a questo stadio; ed eziandio ciò che si possa da lui pretendere in ciascuno degli ordini successivi. Il nostro fanciullo cominciò già a formarsi delle collezioni di cose; e nel quint' ordine procede innanzi nella formazione di tali collezioni: quelle che risultano da tre oggetti gli sono già facili, e le concepisce distintamente. Ma in quanto al progresso del suo spirito in quest' opera del formarsi delle collezioni di cose, noi rimettiamo al lettore la cura di accompagnare i passi del fanciullo in questo e negli ordini successivi, contenti come siamo d' aver segnato l' età in cui l' opera delle collezioni incomincia e la legge secondo la quale procede. In quella vece vogliam qui notare un' operazione nuova e importante, che a questa età incomincia a fare il fanciullo, e questa si è di distribuire le cose in cert' ordine secondo un loro valore vero o supposto, assoluto o relativo. Al quart' ordine egli cominciò a notare colla sua mente le differenze delle cose. Veramente da principio non bada « che alle differenze numeriche o totali, e delle altre non cura »: queste appena si possono dire differenze. Ma tosto dopo ne nota delle altre, e quest' altre differenze sono la base di collezioni diverse ch' egli va facendo: una collezione sola non ha bisogno di conoscimento di differenze, ma due collezioni sì. Dopo l' età delle collezioni adunque, e dopo l' età delle differenze, segue l' età dell' ordine nel quale pone più collezioni fra loro, ovvero gl' individui che entrano in ciascuna collezione. Per anteporre una cosa ad un' altra, od una collezione ad un' altra, non basta conoscere semplicemente la differenza loro in generale, ma convien riflettere di più, che quella differenza fa sì che l' una debba essere preferita all' altra, che l' una abbia più valore dell' altra; la differenza come un mero fatto comincia ad essere distintamente conosciuta al quart' ordine d' intellezioni; la conseguenza che se ne trae a vantaggio d' una delle due cose differenti e a scapito dell' altra, non si ha se non al quint' ordine. Col quint' ordine d' intellezioni il fanciullo può giugnere a distinguere i tre tempi delle cose; cioè può osservare gli avvenimenti passati e distinguerli da' presenti, e i presenti dai futuri. Questo risulta da ciò che abbiam detto innanzi sul progresso della mente infantile nel notare il tempo nelle cose. Dopo che il fanciullo paragonò e distinse l' avvenimento presente coll' avvenimento passato, dopo che paragonò del pari l' avvenimento presente con un avvenimento ch' egli prevede o s' imagina in futuro; egli è in caso altresì di paragonare l' avvenimento passato coll' avvenimento che dee avvenire; e così concepire lo stesso avvenimento vestito delle tre forme del tempo. A questa età egli comincia altresì a formarsi (sempre mediante le parole) un' idea del tempo astratta dagli avvenimenti. L' astrazione del passato, del presente e dell' avvenire trova il suo fondamento negli avvenimenti concepiti sotto due tempi, il che egli fa nell' età precedente. Per altro non concepisce il fanciullo da prima il passato in genere, ma prima un passato determinato da un grande avvenimento: il dopo la pappa, o il passato di ieri diviso dall' oggi pel tramonto del sole o pel sonno, sono i primi passati determinati ch' egli conosca. Laonde non solo si dee parlare al fanciullo del tempo con queste gradazioni; ma ben anco servirsi sempre di avvenimenti che facciano nell' animo suo grandi impressioni e vi lascino delle tracce durevoli quasi di altrettante epoche, aiutato dalle quali egli fissi il pensiero all' avanti e al dopo di essi, e così egli osservi il tempo nelle varie sue forme. Ho già mostrato che il pieno significato del monosillabo IO non può intendersi dal fanciullo, se egli non sia giunto al quint' ordine almeno del suo sviluppo intellettivo. Al prim' ordine egli non percepisce che degli oggetti esterni. Supponiamo che al secondo egli percepisca le azioni. In tal caso solamente al terzo, e non certamente prima, le applicherà ad un agente; ma egli non saprà ancora di essere egli stesso questo agente, perocchè tra gli agenti egli non ha ancora trovato se stesso. Venuto a questo punto, egli non può parlare di sè che in terza persona; ed è quello che abbiamo veduto avvenire di fatto ne' fanciulli prima che giungano ad intendere il monosillabo IO, ed anco negli adulti, se per ispeciali circostanze non giungono oltre ad un certo grado d' intellettuale sviluppo. Nel quart' ordine solamente, ordine in cui comincia l' intendimento a notare distintamente le differenze delle cose, potrà venire a distinguere (sempre eccitato dal linguaggio che è spronato ad intendere da' proprŒ bisogni e da una naturale tendenza a conoscere) tra gli agenti se stesso dagli altri: il che è quanto dire sarà condotto a percepire intellettivamente il proprio sentimento fondamentale, sentimento7uomo come autore di quelle date azioni. Questa non è che una percezione, egli è vero, e come tale apparterrebbe al prim' ordine d' intellezioni; ma non si fa a quel tempo, come dicemmo, per mancanza del bisogno che stimoli a farla. Questo bisogno or si manifesta nella necessità di attribuire le azioni al suo autore, e però di attribuire al sentimento fondamentale, che l' uomo prova, certe azioni le quali perciò appunto si dicono sue proprie. Ora l' uomo non può attribuire quelle azioni al sentimento fondamentale che egli prova, se non a condizione di percepire prima intellettivamente quel sentimento. Quindi si muove l' uomo a riflettere sopra se stesso, cioè sopra quel sentimento fondamentale che appunto lo costituisce. Non prima adunque del quart' ordine, se non anco di poi, l' uomo comincia ad intendere il monosillabo IO come significante quel sentimento sostanziale che prova e percepisce come autore d' azione. Ma questo, già lo dicemmo, non è il pieno significato del monosillabo IO. Questo monosillabo esprime di più l' identità fra il conoscente e pronunciante l' IO, e il sentimento sostanziale operante che esprime chi pronuncia l' IO. Ora egli è chiaro che questa identità non si può intendere se non dopo d' aver percepito intellettivamente quel sentimento sostanziale7operante: e però non prima del quint' ordine. Non basta: al quint' ordine d' un altro grado s' accresce nell' uomo la cognizione di se stesso. Essendo pervenuto già prima, cioè nel quart' ordine, a percepire il sentimento fondamentale attribuendogli delle azioni, ed avendo altresì col quart' ordine stesso concepite le azioni in due tempi, nel passato e nel presente, o anco nel presente e nel futuro; egli giunge al quint' ordine ad osservare che il principio agente sentito e percepito è il medesimo ne' due tempi, là dove le azioni di questo principio nel passato e nel presente sono diverse. L' IDENTITA` dell' IO nel mezzo della varietà delle azioni e de' tempi, è una cognizione che qui nasce e che si rinforza a poco a poco, mediante continue esperienze, e accresce infinitamente la cognizione di se medesimo. Egli è vero che questa identità non viene espressamente e distintamente concepita e pronunciata; ma ella viene implicitamente sentita e percepita in modo che « l' uomo da questo punto non fa più nulla che la smentisca, non opera più in contraddizione di essa ». Il principio morale che risplendette fin qui nel nostro bambino come stella che mostrava il cammino alla sua attività individuale, si fu « il rispetto dovuto alla natura e alla volontà intelligente che gli si fece conoscere ». Questo principio, resosi in lui operativo, prese in lui quattro forme, le quali furono: 1 benevolenza; 2 consentimento; 3 credulità; 4 obbedienza. In fatti il fanciullo naturalmente ama, prende i medesimi sentimenti di quelli coi quali egli conversa, crede alle loro parole e ubbidisce alle loro volontà. Egli è indubitatamente aiutato a far ciò da degli istinti; perocchè l' inclinazione ad amare, la simpatia, la tendenza a ricevere senza sforzo di contraddizione, e la spontaneità che si lascia movere senza resistere, sono possenti aiuti all' adempimento del suo dovere morale, e per essi Iddio provvide che questo dovere sia reso facilissimo e dolce ad un essere che non avrebbe ancor le forze di sostenere un combattimento. Ma quest' istinti ed altri, sì animali che umani, non costituiscono però la moralità: la qual tutta pende, come dicevamo, da quella luce intellettiva che gli dimostra qual cosa dignitosa e alta ella sia un' intelligenza che a lui si scopre benevola, e il volere di essa. Già al quart' ordine d' intellezioni egli pone tanta stima ed affetto, e intende di dovergliene porre, alla volontà intellettiva che a lui si manifesta, che è persuasissimo di dover sottomettere ad essa tutti gl' istinti della sua propria sensualità; e se egli rimane vinto da questi, già arrossisce, si nasconde, e il rimorso non gli dà più pace. Questo sentimento del rimorso è importantissimo ad osservarsi, ed egli segna l' apparizione del quint' ordine d' intellezioni nel fanciullo. Perocchè il quarto è quello in cui, conosciuta una volontà intelligente, intende che tutto dee uniformarsi a quella, gli costi ciò che si vuole. Quando poi, operando, infrange questa norma morale da lui ben conosciuta e n' ha sentito il rimprovero della sinderesi, egli ha fatto un passo innanzi: è venuto al quint' ordine. Tuttavia il rimorso al quint' ordine non ha del tutto la stessa natura del rimorso quale si manifesta nel sesto e negli altri maggiori. Egli è uopo che noi facciamo qui ben notare questa differenza, perocchè ella ci conduce meglio a stabilire le norme o principŒ morali, che si formano nell' anima all' ordine quinto d' intellezioni. Il rimorso, prima di concepire una volontà positiva d' un altro essere intelligente, non si può dare (1), perocchè nel fanciullo prima di questo tempo non vi ha combattimento morale: il suo operare del tutto spontaneo non trova ostacoli morali. Egli è per questo che, secondo noi, il rimorso del fanciullo dimostra ch' egli è già pervenuto al quint' ordine. Per altro, il rimorso che si manifesta al quint' ordine è così diverso dal rimorso che si manifesta negli ordini successivi, che quella prima apparizione di rimorso non esige nè pure una chiara notizia dell' imputabilità, quando negli ordini che vengono appresso il rimorso stesso è un effetto dell' imputazione che il fanciullo già fa espressamente a sè, nel suo interno giudicato, dell' opera mala da lui commessa. E nel vero, al quint' ordine il fanciullo non ha ancora finito di concepire chiaramente se stesso, come vedemmo, perocchè quantunque sia pervenuto a conoscere che alcune azioni appartengono al sentimento sostanziale da lui provato, tuttavia egli non sa trovare questo sentimento sostanziale, non sa dove metterlo; il che è quanto dire non sa conoscere che il giudicante, il parlante, l' imputante è appunto quel sentimento che imputa a se stesso quelle azioni male. Di più, la relazione fra le azioni fatte a sè, che le ha fatte, nel quint' ordine la sente in generale, ma ancora non ne conosce la qualità, il che dee fare all' ordine seguente; al quale perciò si spetta la imputazione propriamente detta. Mancando adunque questi elementi che entrano come cause e parti integranti del rimorso razionale che si ravvisa negli adulti che peccano; quale rimane il sentimento di rimorso che dicemmo apparir nel fanciullo pervenuto al quint' ordine? Che cosa è questo rimorso? Merita egli questo nome? E lo si merita nello stesso senso nel quale si dà al rimorso già pienamente formato? L' uomo, prima ancora di avere una coscienza formata di se stesso, ha una sufficiente notizia degli altri per sentirne una qualche esigenza morale. L' esigenza degli esseri è l' obbligazione morale che si manifesta colla sua virtù immediatamente all' anima intelligente prima ancora d' aver preso la forma di legge (1). Or se il bambino sente la detta esigenza ancor prima di riflettere a se stesso, ne dee venire per conseguenza, ch' egli provi un corrispondente orrore e dolore, ogni qualvolta pone l' azione contraria all' esigenza delle cose. Questo è un principio di sentimento morale, che in lui si suscita allo stesso modo, come in lui nasce il sentimento dell' esigenza degli enti; e che è indipendente da un espresso giudizio d' imputazione col quale giudichi e condanni se stesso qual reo. Fra l' azione ch' egli pone e concepisce, e le cose di cui egli sente l' esigenza (poniamo la rispettabilità delle intelligenze e lor volontà) sorge una disarmonia di fatto: nell' anima sua, in questo sentimento sostanziale, accade una lotta, ed essendo ella tutta sentimento, impaurisce al trovarsi nell' arena di un siffatto combattimento. Questo è un cotale rimorso, che ha luogo nell' anima come un fatto necessario e non volontario, e come un sentimento che nasce a quel modo, onde il dolore d' una ferita: perocchè anche l' anima, anche la parte morale dell' anima, ha le sue leggi fisiche e inalterabili come quelle de' corpi; ed egli è un errore il credere che tutto ciò che avviene nel regno della moralità dipenda solamente dall' arbitrio, o sia così tenue come un' idea; o così vago e sfuggevole come accidentali affezioni. L' anima nel suo essere morale può ricevere adunque delle ferite e dolorarne prima ancora di conoscere se stessa, di riflettere sulla propria personalità; e questo è il rimorso che sorge al quint' ordine d' intellezioni. Questo rimorso appartiene al senso morale , e non propriamente alla coscienza morale ; ma quando l' uomo giunge nel suo sviluppo intellettivo un ordine più su, incontanente egli, errando, soggiace a un rimorso, che appartiene ed è l' effetto della consapevolezza del suo mal operare. Non è già, che quel primitivo rimorso si formi in noi senza l' opera dell' intelligenza, no certo. Ma l' intelligenza nol produce direttamente; ella non fa un espresso giudizio di condanna, dal timore del quale nasca l' interno dolore, che rimorso si chiama: l' intelligenza non fa che conoscere il male che viene operato: onde il sentimento di quell' essere, che conosce il male, si raccapriccia, allorchè si muove a farlo cedendo alla tentazione. All' incontro il rimorso al sest' ordine acquista un nuovo elemento, quello dell' imputazione. Al sest' ordine l' uomo conosce l' IO, come un sentimento sostanziale operante, conoscente, giudicante e proferente se stesso. Non solo a quest' IO egli attribuisce le azioni già prima conosciute cattive come ad autore, ma ben anco gliele imputa; cioè intende che quell' IO autore di quelle azioni ree ne riceve deterioramento; onde viene il demerito e il biasimo. L' uomo che in questo stato giudica e condanna se stesso, soggiace sotto il peso di questa sentenza, come sotto un nuovo male; ed indi una nuova amarezza si aggiunge al suo rimorso; il quale diventa con ciò anco figlio della sua coscienza morale. Il rimorso dunque coll' atto dell' imputazione si amplifica, s' integra, acquista un elemento nuovo, non è più sensione morale , ma ben anco vero rimprovero o biasimo morale. Vero è, che quando al rimorso immediato e di fatto, per così dire, si sopraggiunge quest' altro come rimproccio e sgridata di interno giudice o superiore, il primo non si muta, ma con questo s' unisce a pungere il cuore del peccatore con doppio aculeo. Anzi quel primo fa la via a questo secondo. Perocchè ben sovente la ragione s' avvede del fallo e 'l riconosce, e il rinfaccia al suo soggetto mossa e desta dal pungolo naturale: sicchè l' uom s' accorge e si riprende d' avere errato, perchè lo scorge a ciò il sentire il mal essere e la doglia della sua natura morale: del che cercando la ragione trovala nel fallo commesso. Laonde non a torto chiamasi e l' un e l' altro di questi due dolori, che insieme si mescolano, rimorso ; e il secondo può considerarsi come il compimento e quasi una nuova forma dell' altro. Che, se dividere si dovessero, potrebbero dirsi il primo rimorso della sinderesi , perchè nasce da' principŒ morali, che sono in noi, da noi violati; il secondo rimorso della coscienza , perchè nasce dal giudizio con cui imputiamo a noi stessi il fallo commesso: il primo è un rapporto reale (una disarmonia) tra l' IO sentimento operante e l' esigenza degli esseri da lui appresa: il secondo è un rapporto reale tra l' IO sentimento operante e la sentenza di condanna di sè da lui proferita: quantunque nel primo non vi sia ancora coscienzia morale, tuttavia vi ha qualche cosa che stimola la coscienza e la provoca, e puossi chiamare l' albòre della coscienza. Da questo si conchiuda, che il gran principio morale: « segui la coscienza »al quint' ordine d' intellezioni non è ancor formato nell' uomo: egli segue ancora de' principŒ morali anteriori a questo della coscienza. Quali sono adunque i principŒ morali al quint' ordine? Qual è a questo tempo la nuova forma, che prende la moralità nell' animo umano? Ecco quello che dobbiamo ora investigare. Il rimorso, che a questa età si manifesta, sebbene imperfetto, produce l' istinto morale di fuggire il male e di fare il bene. Ciò nasce, tostochè quel rimorso si può prevedere o presentire prima di operare. Ma questo istinto non è ancora una vera formola morale: egli solamente dà luogo ben presto ad una massima esprimente piuttosto un dettame di prudenza, che una morale obbligazione. Ora ciò che noi cerchiamo sono le formole, i principŒ morali proprŒ di questa età. A fine di discoprirli rimettiamoci sulla via dello sviluppo morale, rammentandoci quale sia stata l' apparizione della moralità al quart' ordine. Noi vedemmo che al quart' ordine la moralità si manifestò all' uomo come un dovere « di uniformarsi alla volontà degli esseri intelligenti conosciuti, costasse qualsiasi sacrificio ». In questo principio compariva una specie di collisione tra il bene eudemonologico e il ben morale, tra il bene soggettivo e l' oggettivo e sentivasi la necessità morale di sacrificar questo a quello. Ma, notisi attentamente, il bene soggettivo in tale stato non si percepiva oggettivamente, perchè l' uomo non avea per ancora la coscienza di sè stesso. Era dunque il soggetto uomo, qual soggetto morale, che da una parte sentendo il dolore e il piacere, dall' altra veggendo il dovere, non dava retta a quello, ma decideva semplicemente, che questo era dovere, era tutto. L' identità del soggetto sensitivo ed intellettivo è solamente quella, che può spiegare come esso soggetto potesse dedicarsi e consacrarsi a quanto prescriveva l' intelletto, trapassato il senso, non consideratolo , come se non esistesse, non giudicatolo, non messolo a confronto. La necessità di seguire il dettame del retto è assoluta; e però l' uomo decideva a favore di questo senza tampoco sentire voce in contrario: pativa il senso, strideva dilacerato, ma l' IO intellettivo tenea gli orecchi turati: unicamente inteso a ciò che il dovere da lui volea. Per questo modo, non per confronto alcuno « la volontà dell' essere intellettivo », nella quale vedeasi il dovere, era posta in cima a tutte le cose nella morale propria del quart' ordine d' intellezioni. Nel quinto cominciano le collisioni de' doveri che mutano forma alla precedente teoria morale. Dico le collisioni dei doveri, e non già la collisione tra quello che è dovere, e quello che non è dovere ma piacere. Questa specie di collisione non muta propriamente la teoria morale; sebbene influisca nella morale pratica, perocchè l' uomo tostochè ha posto attenzione alle voci del senso, che rifugge d' esser sacrificato al dovere, è già entrato in una nuova condizione morale; una nuova tentazione lo assale: egli ha bisogno di nuova fortezza. Questa osservazione e attenzione che l' uom pone col suo intelletto alla pena, che costa il dovere ad adempirsi, accresce la morale d' un precetto, quasi direi, di fianco, il quale vien poi formulato così « sii forte contro la tentazione »; non risguarda questo la forma del dovere finale, anzi la suppone, perocchè dicendo « sii forte contro la tentazione », non si esprime, ma si ammette per istabilito quel dovere, nel mantenimento del quale dobbiamo esser forti. Tuttavia giova assegnare a questo quint' ordine anco questo precetto, che comanda « la morale fortezza ». Toccato ciò di passaggio, dicevamo, che in questa quinta età si manifesta da prima una qualche collision di doveri; ed è questa collisione, che muta le formole morali dell' obbligazione. « La volontà dell' essere intellettivo dee rispettarsi », questa è la formola del quart' ordine. Ma più volontà intellettive ugualmente si manifestino, e non tutte d' accordo: ecco la collisione di doveri. A quale di queste volontà intellettive si dovrà dare la preferenza? Ecco il nuovo problema morale che si presenta a sciogliere all' animo del fanciullo giunto al quint' ordine. Egli è costretto dalla necessità morale di operare a farsene qualche soluzione: e questa soluzione diventa per lui un nuovo principio morale, una nuova formola contenente la sua obbligazione. Prima di vedere come egli debba risolversi un tanto dubbio, veggiamo come questo dubbio debba apparirgli appunto a questa età e non prima. In prima a questa età, egli dee aver già trattato con più persone, ed è impossibile che tutte in tutto sieno andate perfettamente d' accordo e d' un pari passo nel beneficarlo, nell' istruirlo, nel comandargli. Oltracchè già conobbe, che avvi un Essere supremo, ed una suprema volontà ottima e perfettissima, e giunse a distinguere, in qualche modo, da questa volontà ottima le altre volontà limitate nella bontà. In secondo luogo, al quint' ordine non solo egli cominciò a distinguere le differenze delle cose, ma a collocare in un certo ordine di dignità più cose tra loro, almeno due. Quest' ordine fra gli oggetti da lui contemplati non esisteva in lui prima del quint' ordine; e perciò prima egli nè pur poteva collocare nel debito ordine le volontà intellettive che gli si rappresentavano come rispettabili; ma doveva dirigersi a favore dell' una o dell' altra più tosto per azione istintiva e spontanea, che per una preferenza razionale. Ma nel quint' ordine oggimai può farlo. Come dunque lo farà egli? Egli è indubitato, che egli intenderà di dover preferire a tutte le altre la più bona, la più benefica, come quella che è più degna. La bontà e dignità intrinseca dell' intelligenza fu quella, che rivelò da principio al fanciullo, quanto l' intelligenza e la volontà intelligente sia essenzialmente amabile e rispettabile. Egli è chiaro, che i diversi gradi, ne' quali la bontà intellettiva gli si manifesta, debbono essere quelli medesimamente che gli determinano e prescrivono i gradi del suo amore e del suo rispetto. Questa regola dei gradi della bontà, i quali rendono più degne le volontà degli esseri intelligenti, è piena, assoluta, immutabile. Nella bontà si comprende l' intelligenza, giacchè l' intelligenza è condizione e principio della bontà, è bona d' una sua specie di bontà nobile sommamente, vi si comprende la sapienza, ma sopra tutto vi si comprende la beneficenza volontaria. Ma ciò che varia si è l' applicazione di questa regola. Ciò che varia sono i mezzi a disposizione del fanciullo, coi quali egli misura quella bontà e i suoi gradi. Il fanciullo è soggetto ad ingannarsi nel giudicare il grado di bontà e di dignità delle volontà contrarie, che a sè il vogliono uniformare; ma il suo giudizio erroneo in se stesso, può essere diritto rispettivamente a lui. Questo giudizio è sempre diritto ogni qual volta egli fa entrare nel calcolo tutti i gradi di bontà a lui conoscibili: in una parola egli dee misurare non tutta la bontà delle volontà intelligenti, ma tutta quella porzione di questa bontà, che a lui si comunica e manifesta. Tuttavia può accadere benissimo, che questo giudizio, che egli porta all' età presente, sia parziale ed ingiusto; ed ecco in che modo. Quando da principio il bambino saluta una intelligenza, che percepisce diversa da sè, egli fa un atto di giustizia: l' animo suo per anco senza colore si moverebbe agevolmente benevolo verso qualsiasi altra intelligenza, che in luogo di quella gli fosse apparita. Ma ben tosto si affeziona a quelle persone, che con lui più dimesticamente trattano e più dolcemente soccorrono ai suoi bisogni; e questa affezione può diventare parziale ed esclusiva, come abbiamo veduto. Una semplice affezione fisica non è certamente per sè rea; ma da quella può esser mosso l' intendimento ad un falso giudizio; ed in tal caso avvi reità morale; perocchè l' intelletto ubbidisce e consente in tal caso non al vero, a cui solo dee arrendersi, ma alle suggestioni della volontà, che il corrompe. Se dunque la benevolenza del bambino s' è lasciata divenire esclusiva e ristrettiva fin da principio, se i ristringimenti di quella naturale benevolenza sono degenerati in gelosia, invidia, malevolenza ed altre ree affezioni; se tutte queste non sono mere sensioni, ma vere volizioni, egli è entrato già nell' animo del fanciullo furtivamente il fatal veleno della nequizia; e l' intendimento non è più che un giudice corrotto, l' animo non è più che la sede della menzogna. Con queste segrete operazioni si prepara nell' infanzia la pravità sconfortante dell' adolescente, la corruttela sfrenata del giovane, i delitti dell' adulto a se stesso e alla società spietato e nemico. L' altrui bontà adunque si manifesta in due modi al fanciullo: si manifesta al sentire ed all' intendere di lui. Al sentire consegue un amore sensibile e tenero, il quale è naturale e non dannevole, se riguarda quelle persone, che usano più con lui e più lo beneficano; all' intendere consegue un amore appreziativo , il quale dee essere tenuto immune dall' influenza dell' amore sensibile . Se questo è la misura di quello, evvi falsità di giudizio, errore, immoralità. Se questo si sta bensì a canto dell' amore appreziativo, ma senza alterare l' appreziazione, non nuoce. L' appreziazione, dove sta tutto il morale come il suo germe, è sana e senza difetto. La possibilità di questa deviazione dal retto tramite nel fanciullo nostro a questa età s' intenderà considerando, che le sue volizioni appreziative già cominciarono prima d' ora; che egli si è formato gli astratti di azione e della bontà ed eccellenza delle azioni; ch' egli di più può attribuirle al soggetto; onde per le azioni loro può de' soggetti portar giudizio. Questo giudizio è retto, se non giudica arbitrariamente a danno di quelli, di cui non conosce la reità, e giudica a favore di tutti gli elementi del bene, che egli può conoscere, e conosce; benchè quegli elementi non tutti gli senta e gli esperimenti. Già son divenute in lui due cose distinte, l' esperimento del bene, e la cognizione del bene: su questa dee formare il suo giudizio, non già su quello. E qui notiamo una cosa. Tostochè il bambino conosce un' intelligenza, egli se ne forma una cotale idea illimitata, ed infinita della sua stimabilità ed amabilità. Ma poi quest' amabilità gli si va limitando sia per provare degli effetti dolorosi da quell' intelligenza, sia per un amore parzialmente collocato in una intelligenza finita e però tolto alle altre, sia per pregiudizi ed errori imbevuti, sia per altre cagioni. Queste limitazioni son tanto oneste quanto son vere, e se son vere non tolgono mai all' intelligenza la sua amabilità essenziale. Gli effetti benefici di quell' intelligenza non sono gli amati e gli apprezzati; ma sono solamente parte dei dati, sui quali apprezza ed ama l' intelligenza, da cui provengono, e della quale le attestano il prezzo. Sicchè l' appreziazione è sempre oggettiva, finisce nelle nature intelligenti; non è soggettiva, non riguarda gli effetti buoni, che sperimenta il soggetto. Ciò posto, egli avviene, che, qualora si conoscesse una intelligenza maggiore e migliore, come è la suprema, più apprezzar si dovrebbe, eziandiochè non se ne esperimentassero gli effetti. Onde diciamo, che è la potenza della bontà, più tosto che gli effetti della bontà che amar si debbono; è la dignità dell' essere intelligente, più tosto che i suoi accidentali beneficŒ, l' oggetto in cui termina l' atto morale dell' appreziazione. E tuttavia riman fermo, che quella quantità di bontà, che si esperimenta, è anch' ella un mezzo a dover conoscere la dignità ed eccellenza dell' ente intellettivo beneficante. Vedesi dunque qual sia il principio morale del fanciullo a questa età: quale la parte immutabile della sua morale, quale la parte mutabile. Il principio, e la parte immutabile della morale del fanciullo della quinta età si è questo: « Stima gli esseri intelligenti secondo il grado della loro dignità ». Dico « della loro dignità »e non « della loro bontà »unicamente per significare, che ciò, che si fa oggetto della stima morale, non sono gli effetti della bontà, ma la causa di questi effetti; la quale ha una cotale intrinseca bontà, che dignità ed eccellenza si può acconciamente nominare. Il principio, a cui il nostro fanciullo è pervenuto (benchè nol sappia enunciare), è così perfetto e compiuto, che non gli sfuggirà più dalle mani, vivesse egli quanto si vuole, e soggiacesse a qualsivoglia sviluppo maggiore. Egli non muta, chi ben osservi; ma completa e finisce i principŒ morali precedenti. Ma, salvato questo principio, rimane ancora una parte mutabile nella morale del nostro fanciullo, e questa si trova tutta nell' applicazione, ch' egli dee fare di quel principio. Egli è chiaro, che per applicare quel principio dee prima determinare i gradi « di dignità »di cui sono forniti gli esseri intellettivi da lui conosciuti. Ora, come ho detto prima, variano nelle mani del fanciullo « i dati », sui quali egli dee portar quel giudizio. Indi è che procedendo coll' età sarà sempre più al caso di giudicare con verità maggiore, quali siano i gradi di dignità, che godono gli esseri intellettivi, che egli deve onorare, e l' uno all' altro preferire, e nascerà di qui una modificazione successiva nelle forme della sua morale. Quell' epoca, nella quale il fanciullo comincia ad accorgersi, che egli deve paragonare insieme le diverse intelligenze a lui note e le diverse loro volontà, acciocchè nella collisione de' suoi doveri verso di esse preferir possa la più degna; è ragguardevolissima nella sua vita morale, e ben merita che noi vi ci fermiamo a farvi sopra alcune riflessioni. Primieramente si deve osservare, che questa è l' epoca, nella quale il suo spirito passa da de' principŒ morali concreti a de' principŒ morali astratti ossia ideali. Questo è un passaggio d' infinita importanza: rendiamo chiaro il nostro concetto. Che un essere intelligente al primo percepire e conoscere un altro essere intelligente si rallegri e si attui alla stima ed alla benevolenza verso di quello; questa è certamente cosa morale. Che un essere intelligente del pari, in cui questa stima e questa affezione è nata, inchini e si pieghi a uniformar se stesso ai sentimenti, ai pensieri, ed alle volontà di un altro essere intelligente, tosto che venga a conoscere questi sentimenti, pensieri e volontà; anche questa è cosa tutta morale: perocchè morale è ogni atto, che faccia una volontà intellettiva verso un essere del pari intellettivo. Ma la moralità in questo primo suo stadio, sebben cosa buona per sè, ella è tuttavia spontanea e non libera: la volontà si muove soavemente per quell' umano istinto, che è fondato nell' essenza dell' anima, senza bisogno di alcuna deliberazione antecedente. Di più, allorquando il fanciullo esercita gl' indicati offici morali verso gli esseri intelligenti, egli sente certamente la necessità morale di operar così, sente l' esigenza di quegli esseri da lui percepiti; ma questa esigenza non la separa da essi, non la astrae formandosene un concetto distinto e molto meno la formula in parole: no, quella esigenza è qualche cosa di reale7ideale, che fa sentire in lui la sua forza: la natura delle intelligenze che si comunicano è un effetto reale, la concezione che vi pone del suo il fanciullo è un qualche cosa d' ideale: dall' effetto reale e dall' idea unitavi ne sorte quello che io dico « principio morale concreto »; il quale è un sentimento morale7intellettivo, secondo il quale l' uomo opera per lo istinto morale, che da quello procede. Ma si muta interamente la cosa, quando il fanciullo non potendo uniformarsi contemporaneamente a due volontà intelligenti contrarie fra loro, deve scegliere la più degna fra di esse e a quella tenersi. Questa scelta può certamente esser fatta dalla natura, mediante la spontaneità, quando non si trattasse che di beni meramente soggettivi (1), o di sensioni. Ancora ella si può fare per qualche tempo in virtù del senso morale, perocchè l' esigenza morale che opera nell' anima intellettivo7morale come una cotal forza spirituale previene da una parte e fa sentire al fanciullo il bisogno di tenersi da questa sotto pena di contrariare la sua natura morale. Io non saprei determinare certamente, quanto possa durare questo tempo; ma per quantunque duri, deve finalmente spuntare quel momento, nel quale non si tratterà più di un' affezione ricevuta, ma di un' appreziazione di enti intellettivi, massime dopo che in virtù del linguaggio si poterono astrarre dagli enti le nozioni espresse colle parole buono, bello ecc., bontà e bellezza ecc.. Questi astratti sono necessarii a poter giungere a formare tra due o più enti un vero paragone, e rilevare quale di essi abbia più di dignità morale (2). Formate adunque queste concezioni astratte, si può col loro mezzo conoscere, quale di più enti tenga in se più di bontà, più di bellezza ecc., in una parola più di entità o dignità. Quando da prima il fanciullo è pervenuto a giudicare gli enti in questo modo, egli è chiaro, che gli enti stessi, e le loro azioni su di lui, hanno cessato di essere la sua suprema norma morale: perocchè egli si è formato già una norma più elevata, colla quale egli giudica gli enti stessi e le loro azioni. Questa norma è appunto la nozione astratta della bontà della bellezza ecc., in una parola, della dignità dell' ente. Si paragonino ora le due norme. - La prima crea l' ente stesso intellettivo, che comunicava sè stesso e la sua esigenza morale al fanciullo; la seconda è un' idea astratta di bontà, o sia di dignità, che misura i gradi di quella esigenza morale. La prima dunque era una norma, che potea dirsi concreta , perocchè era qualche cosa di reale, che si faceva sentire, e a cui l' ente, che la sentiva, aggiungeva quell' elemento ideale, che è necessario a compiere la percezione intellettiva: la seconda è una mera idea senza concrezione alcuna di reale, una nozione astratta, che si comunica alla sola mente, e non al sentimento. Nel primo stadio morale del fanciullo la norma ossia la legge non aveva ancora un' esistenza a sè; ma era immedesimata cogli enti, verso i quali la morale si esercita. Nel secondo stadio, una cotal legge esiste indipendentemente dagli enti, oggetti della moralità: esiste nel mondo ideale, nel mondo delle possibilità: quando anco nessun ente sussistesse, la norma di cui parliamo si concepirebbe egualmente come necessaria, eterna, riferentesi a degli enti possibili pure eterni, senza alcun bisogno di enti reali. Nel primo stadio gli elementi dell' atto morale sono due soli: 1 quegli, che opera il bene e il male; 2 e l' oggetto, verso cui il bene e il male viene operato. - Nel secondo stadio tutti e tre gli elementi della morale sono a pieno sviluppati e distinti: 1 vi è, chi opera il bene o il male; 2 vi è l' oggetto, verso cui si opera; 3 vi è finalmente la norma o regola, secondo la quale si opera. - Solamente in quest' ultimo caso la moralità s' è resa completa, ha spiegate interamente le sue forme, che prima teneva raccolte come una rosa, che tiene ancor piegata alcuna sua foglia entro il calice. Il passaggio delle norme concrete alle norme astratte della morale è un grande sviluppamento della natura morale nell' uomo, quand' egli si considera semplicemente come sviluppo. Ma giova egli, o pure nuoce alla bontà morale dell' uomo? Che egli apra all' uomo una porta, per la quale entrando possa ascendere ad un grado maggiore di perfezione morale, e che questa sia l' intenzione della natura, non avvi dubbio di sorta. La vocazione dunque dell' uomo, dell' umanità, diviene da quell' ora più augusta: tutto sta che egli vi risponda degnamente. Ma gli è egli agevole l' entrare nel nuovo arringo, e il percorrerlo con felicità? La bontà morale, a cui è chiamato dall' istante, ch' egli è venuto in possesso delle norme astratte , è ella egualmente facile, come quella che gli era destinata in quell' età, in cui le sue norme di operare sono ancora concrete? Sarebbe un adulare vanamente l' umana natura il sostenere, che questa nuova specie di moralità più eccellente, che nasce dal seguitare le norme astratte, sia più facile di quella, le cui norme sono concrete. Di tanto è più difficile all' uomo l' esser buono in questo secondo stadio della sua vita morale, di quanto è maggiore quella bontà, che a lui si richiede, acciocchè egli sia buono e non cattivo. Assegniamo qualche ragione di questa cresciuta difficoltà. Primieramente nel primo stadio della moralità egli era diretto dalla natura, maestra sicura e soave: la sua spontaneità lo conduceva, e questa sapeva sempre dove piegare, non altrimente che sanno i due bacini della bilancia, dove un solo scrupolo più nell' un che nell' altro li dilibri. All' incontro nel secondo stadio l' uomo non può venir tosto all' azione cedendo all' impulso morale della natura, ma per operar bene deve fare un atto di più; deve prima di operare applicare la nozione astratta e giudicare sul valor relativo degli enti. Già il dover fare un atto di più per porre un' azione, è una difficoltà maggiore. S' aggiunge, che quest' atto deve essere imparziale; giudicando un essere migliore di un altro, convien dar peso solamente a ciò che si conosce di lui, e a tutto ciò, che si conosce: le affezioni già prese, le sensioni si debbono contare per nulla, cioè per solo quello che indicano di bontà all' intendimento. Quanto è difficile, che questo giudice si rimanga incorrotto e del tutto imparziale, quando l' uomo, che usa dell' intelletto, non è solo intelletto, ma è pieno di bisogni sensitivi ed animali, per soddisfare ai quali amerebbe sempre chiamare a' suoi servigi lo stesso intendimento, voglio dire il giudizio dell' intendimento? Se l' uomo avesse una natura perfetta, una natura senza mescolamento di alcun elemento di male, le sensioni e gl' istinti da esse nascenti si conterrebbero nella loro sfera, produrrebbero forse delle azioni senza intervento dell' intelletto (almeno se l' attività propria di questo, la volontà, non si opponesse loro): ma non darebbero la leva all' intelletto stesso, non attenterebbero di muoverlo ad un giudizio precipitoso, temerario e falso. Le due potenze dell' affezione e della volontà opererebbero da sè a fianco l' una dell' altra. In tal modo non verrebbe mai sedotto il giudizio dell' intendimento umano, e però non vi avrebbe immoralità. Ma il fatto avviene pure spesso in contrario: l' uomo sente, e, schiavo delle sue sensioni, non s' accontenta di esse; vuol fare servir loro l' intendimento, e così piega la sua ragione a pronunciare, prima d' aver esaminato, prima d' avere veduto il vero, a favore di quelle. Venendo il giudizio così pressato a pronunciare, quando la causa non è resa ancor chiara, egli per non errare conviene che sia fornito d' una grande forza pratica tutta a favore della verità e della virtù (1). Questa può nascere ed esser coltivata dalla prima infanzia, prima ancora del tempo della lotta; ma dove ciò non sia stato fatto, viene pel fanciullo l' età, in cui da una parte ha una norma astratta, un' idea, secondo la quale deve giudicare; dall' altra ha già le passioni invigorite, che vogliono farlo giudicare per esse; quella gli mostra la via, ma nol move; queste il movono, ma gli nascondono la vera via; nè egli ha virtù naturale di resistere a' costoro inviti. E ciò spiega la somma difficoltà, che si osserva ne' fanciulli a mantenere una costante veracità nelle loro parole. Osserva M. Necker de Saussure che « « ogni azione, dalla quale non risulta immediatamente patimento a nessuno, pare innocente al fanciullo »(1) ». La ragione di questo fatto si è, che per conoscere colpevole un' azione che non fa dolore a nessuno, il fanciullo dee usare di una norma ideale, là dove per conoscere colpevole un' azione che reca dolore, egli non ha bisogno di far uso, che di una norma concreta. Ora una norma ideale è sfuggevole all' attenzione, e fa su di lui poca impressione; là dove una norma concreta il muove efficacemente. Applichiamo questo principio generale al caso particolare della veracità. Ecco il fatto. [...OMISSIS...] Questo fatto dimostra la poca efficacia, che ha la norma astratta della veracità sull' animo de' fanciulli. Quando la veracità va d' accordo colla simpatia, cioè col bene che si fa altrui per istinto, allora è conservata: è il caso nel quale il fanciullo si dimostra sì schietto, sì ingenuo. Se la veracità non è combattuta dalle tendenze simpatiche, benchè non la sia favorita da esse, ancora conserva qualche forza sul fanciullo: egli ben intende, che le parole debbono significare altrui quello che si pensa, che questa è cosa convenuta tra gli uomini, che chi apre la bocca a parlare con questo solo si obbliga a stare a quella convenzione, ed usare le parole per esprimere il vero. Ma tutto ciò si oscura nella mente infantile o almeno perde di forza nella sua volontà, quando un' affezione simpatica, una sensione qualsiasi viene in collisione colla norma della veracità. Molte volte allor nasce, che vi siano due norme morali in collisione tra loro, l' una concreta, quella della benevolenza; l' altra astratta, quella della veracità. La prima prevale alla seconda, benchè la seconda sia in se stessa assai più autorevole della prima. La veracità ha due ragioni, che la raccomandano. L' una l' utilità generale del genere umano; l' altra l' intrinseco prezzo, la necessità intrinseca della veracità: e questa seconda è la ragione diretta ed intrinseca. L' utilità del genere umano è compresa nel principio della benevolenza già noto al fanciullo; ma quella utilità egli non sa calcolarla: e dove anco la sapesse in qualche modo, trovandola in collisione con una utilità presente e sensibile, quella forse, generale e ideale come sarebbe nella sua mente, cederebbe a questa minore, ma concreta ed istante. Appena il fanciullo alla nostra età imparò a subordinare uno o due mezzi ad un fine; e il calcolo dell' utilità universale, veniente da una costante veracità, suppone la subordinazione e coordinazione d' un gran numero, e d' una grande serie di mezzi al fine di quella generale utilità. Il concepire immediatamente la necessità intrinseca di essere veraci non è guari difficile; e come dicemmo, ogni fanciullo, quando è tranquillo e non sedotto dalle passioni, la vede e la conosce. Ma questa conoscenza non ha virtù di muovere la volontà, quando questa è preoccupata dall' affezione agli esseri reali: l' attenzione del fanciullo si occupa tutta della cosa che ama, e volontariamente dimentica, per dir meglio non considera quella necessità della veracità, che pure gli sta immobilmente presente, benchè egli volga di continuo l' occhio altrove per non vederla. Se noi vogliamo dedurre il dovere della veracità nelle parole potremo dedurlo nel modo seguente: « Chi prende a parlare altrui, promette tacitamente a quelli, co' quali parla, di dir loro la verità usando le parole per quel che corrono. Quegli ai quali parla acquistano con ciò il diritto di non essere ingannati. Il diritto di non essere ingannati è di gran prezzo per l' essere intelligente, che abborrisce che gli si faccia inganno, eziandio allora che egli non si fa scrupolo d' ingannare altrui. Laonde il fanciullo stesso si adonta contro colui che l' inganna mentendogli, con che dimostra di sentire assai bene, che l' inganno è un' ingiuria per un essere ragionevole; è una violazione della dignità dell' essere intelligente, il cui altissimo bene si è il vero, e il cui proprio male si è il falso. Dunque il mentire è peccato e la veracità è dovere ». Da questa deduzione del dovere della veracità s' intende che egli esige per essere inteso, che prima sia ben inteso come « il possesso della verità sia un gran bene, e carissimo all' essere intelligente »; e come per quest' essere sia un male il falso e un' ingiuria l' inganno. Che tutto ciò s' intenda dal fanciullo è innegabile; ma del pari è innegabile, che ciò ha poca efficacia sulla sua volontà. Di che la ragione si è che la verità è un essere ideale, di cui sebbene intenda il prezzo, tuttavia non lo intende per modo che grandemente il muova; nè il può a lungo contemplare colla sua mente sempre naturalmente occupata di cose reali. Alla verità , a quest' idea sublime, il fanciullo dà degli sguardi momentanei; ma non vi si ferma: la usa di mezzo, ma non la contempla mai fissamente e direttamente come fine, come oggetto: è troppo comune, troppo chiara, troppo evidente, troppo antica per lui a poterlo interessare, occupare di sè: questa è l' opera dell' età avvenire, della mente esercitata, del cuore sublimato da un lungo esercizio di virtù. E qui soffermiamoci a levare la nostra riflessione su tutte le cose dette, che n' avremo un risultamento importantissimo al fine di conoscere la qualità e l' indole dello sviluppo delle facoltà morali nel fanciullo. La morale soggiacque nel suo spirito a tre modificazioni sostanziali, prese successivamente tre forme; ma la forma, che successe, non distrusse l' antecedente, la completò; la seconda completò la prima, la terza le altre due. La prima forma, di cui parliamo, avea per oggetto e per norma insieme l' essere intelligente reale e produceva l' immediata benevolenza. Volendo vestirla di un' espressione, ella suonerebbe così: « riconosci praticamente gli esseri morali per quello che sono »(rispetto a te). La seconda forma avea per oggetto la volontà degli esseri intelligenti reali, la volontà buona, e la sua espressione sarebbe questa: « uniformati alla buona volontà degli esseri intelligenti ». La terza forma in fine ebbe per termine la nozione ideale, l' idea come norma delle azioni. Quando l' uomo dice seco medesimo: io debbo preferire tra più esseri intelligenti e tra più volontà la migliore; egli allora non s' attacca nè a questo, nè a quell' essere reale; ma all' ordine mostratogli nell' idea: sicchè quest' idea viene ascoltata a preferenza di qualsiasi invito e attraimento, che potessero esercitare sopra di lui gli esseri reali. Questa forma di moralità potrebbe dunque venire espressa così: « fa ciò, che ti mostra dover tu fare la nozione o idea delle cose, colla quale si misura e pesa il valore delle cose stesse ». Le tre forme della morale da noi qui accennate sono quelle che sogliam dire le tre categorie della morale: tutti i precetti ad una di esse tre si riducono. La prima ha per fondamento l' essere reale, la seconda l' essere morale, la terza l' essere ideale: questi sono i tre modi, ne' quali l' essere sussiste. Il fanciullo dunque al quint' ordine d' intellezioni tocca si può dire tutta la morale; perocchè tutte le forme di questa si sono a lui disvelate. Chi poi bramasse intendere qualche cosa di più intorno a questa parte ontologica dell' Etica, può vedere il nostro « Trattato della coscienza (1) ». Iddio si è già cominciato a conoscere dal fanciullo come natura ottima e come volontà ottima. Questa cognizione si sviluppa e perfeziona via più nel fanciullo, quando questi si conduca a conoscere le opere di Dio ed i suoi precetti . Ma, oltre questo perfezionamento della notizia di Dio nella mente fanciullesca, in quest' ordine d' intellezioni può manifestarsi Iddio al fanciullo come giudice e rimuneratore del bene e del male. Già di molto s' estende il pensiero del fanciullo se egli giunge a sapere, che, chi è contrario a Dio, è perduto, chi è amico suo, è salvato, destinato alla beatitudine: chi disubbidisce alla sua volontà, è punito in un modo terribile, chi l' ubbidisce, è premiato in un modo ineffabile. Questa idea di rimunerazione ben impressa e tenuta viva nella mente fanciullesca è un faro di salute nelle tempeste delle tentazioni: tutti gli attributi di Dio vi sono compresi, la potenza, la sapienza, la giustizia, la bontà, l' esser egli unico bene, il bene essenziale, il compimento di tutto ciò che è finito, la sussistenza stessa del finito. All' anima umana è convenientissima una tale notizia: annunziatagliela l' accetta avidamente, l' ammette come propria, come già conosciuta e a lei famigliare: la luce della sua verità è tale, che esclude qualsiasi possibile opposizione od esitazione. Alcune altre cose spettanti allo sviluppo intellettivo del fanciullo al quint' ordine saranno inserite in questo capitolo per la stretta connessione, che esse hanno collo sviluppo delle sue facoltà attive e morali, che ora prendiamo a sporre. Vi ha un tempo della vita del fanciullo, nel quale l' imaginazione prende uno sviluppo rapido ed immenso: questo suol essere il terzo o il quarto anno (1), al quale tempo suol appartenere il quint' ordine d' intellezioni. Questo fatto del subito slancio che prende l' imaginazione, la quale dopo qualche tempo perde nuovamente di sua attività, dee essere da noi spiegato: e le ragioni di esso ritrovansi appunto nelle speciali condizioni dello spirito pervenuto al quint' ordine d' intellezioni. Fino dai primi istanti della vita del fanciullo la facoltà di ristaurare nell' interno le sensazioni ricevute cogli organi esteriori è certo sommamente pronta e vivace. Ma la sua prontezza e vivacità non si stende che a lui, nè mostra perciò al di fuori i suoi effetti per le seguenti ragioni. Le sensazioni che riceve il bambino alla giornata sono ancor poche ed uniformi. Queste si risuscitano bensì nella sua imaginativa, in questo senso interiore, date alcune circostanze, indicazioni o stimoli, che sieno atti a rinfrescare nel cervello le sensazioni avute. Ma il fanciullo non gode ancora di alcun uso della sua libertà, nè ha imparato a maneggiare quella potenza che ha d' imaginare; nè conosce alcun bisogno, alcun fine che a ciò lo tragga. Egli si rimane adunque al tutto passivo; e quelle sensazioni, che nella sua fantasia si suscitano e rinnovellano, si suscitano e rinnovellano tutte a caso, e secondo impreveduti accidenti. Indi è, che non si dà nel rivenire delle sue imagini alcuna composizione nuova; si ripetono fedelmente le sensioni avute e non più. Di che manca tutta quella immensa ricchezza, che l' imaginativa acquista dalla composizione d' imagini, varia all' infinito. Questi limiti, che restringono da prima l' imaginazione infantile, si tolgono via ben presto. Le sensazioni si moltiplicano, si connnettono, si ripetono e tutte vivissime. Col sentire si suscita nel fanciullo il desiderio di sentir maggiormente, la voglia di procacciarsi sensazioni esterne ed interne. Egli viene apprendendo l' arte di muovere egli stesso internamente i nervicciuoli destinati al sentire interno della fantasia, e così a suscitarsi le imagini. Quest' attività prima spontanea s' accresce ben presto coll' apparizione della libertà nel fanciullo. Ma tutto ciò non sarebbe ancor bastevole a spiegare quel periodo, d' altra parte breve e sfuggevole, nel quale l' imaginazione è per così dire la fata del paese, arbitra di tutto ciò che vi nasce e che vi apparisce. A rilevar la cagione di tal fenomeno si consideri: 1 Che l' uomo non potrebbe colla sua imaginazione crearsi degli avvenimenti, comporsi delle favole, de' miti, se non a condizione di aver già appreso dall' esperienza come gli esseri della natura sogliono operare, il che è quanto dire dopo essersi formato de' principŒ definiti circa l' operare delle cose. 2 Che non potrebbe tampoco fare tutto ciò liberamente, se i principŒ da lui formatisi circa l' operare delle cose fossero così definiti e legati alla realità, ch' egli non potesse più nulla aggiungere alla natura, non pensare più nulla di nuovo, se non ciò che fosse al tutto verisimile. Si esige adunque, affinchè l' imaginazione abbia il suo maggiore sfogo, una qualche cognizione dell' operare delle cose che compongono l' universo; ma non una cognizione perfetta, anzi manchevole, vaga, da molte parti indeterminata. Trovandosi in tale stato d' imperfezione la cognizione intorno all' operar delle cose; la mente del fanciullo ne sa abbastanza per fingere delle cose sull' esempio di quelle che avvengono realmente in natura; ma ne sa ancora bastevolmente poco per trovare verosimile tutto ciò che non è metafisicamente impossibile: la verisimiglianza ha per lui ancora ampiissimi confini, l' inverisimiglianza gli ha angustissimi. Già abbiamo veduto che, da principio, il fanciullo non ha altra regola nella sua mente per misurare l' impossibile in natura, se non l' assurdo metafisico; perciò egli è disposto a credere possibile, a credere vero e reale tutto ciò che non contiene in sè intrinseca contradizione e questa stessa a lui visibile; perocchè non sempre la coglie. La possibilità fisica adunque, per lui altrettanto estesa quanto la possibilità metafisica, è immensa, non ha confini; e questo è il teatro della sua fantasia. Ma questa potenza intrinseca non può giocolare sur un tanto teatro, se non ne apparò prima l' arte; cioè se non ha qualche cognizione delle cose esteriori e del loro operare, ch' egli dee pur fingere e in qualche modo simulare. Ora quest' arte l' appara tostochè, percepite le cose esterne, comincia ad osservarne le loro azioni, a formarsene degli astratti, a notarne alcuni grossolani lineamenti e confini; i quali limitassero bensì un poco per lui la sfera della possibilità fisica, ma non tanto ch' ella non restasse ancora infinitamente più estesa della reale. Ora questo stato dello spirito del fanciullo è appunto quello, che risponde al quinto e al sest' ordine d' intellezioni. Da principio l' operar della natura per lui non ha limiti, ma nè pur quasi esiste: perocchè non avendo percepito che alcuni esseri, egli non vede che quegli soli, che a lui richiama e ripete la fantasia, che da se stessa si muove. Quando poi egli è già in possesso di alcune idee astratte delle azioni e si è formati alcuni tipi grossolani dell' operar delle cose, il che comincia egli a fare al quart' ordine, egli è in possesso di tutte e due le condizioni necessarie alla massima attività della sua imaginazione, perocchè d' una parte: 1 egli sa fingere delle cose e de' fatti; perchè ha già delle idee astratte che a ciò lo dirigono e de' tipi ricevuti dall' esperienza; 2 e in questo lavoro non è angustiato e ristretto dalle misere leggi della verisimiglianza, leggi che ancor non conosce; e però spazia larghissimamente colla sua imaginazione, senza trovare ostacolo, per i campi di un mondo fantastico e dilettevolissimi senza confini. Ma questo stato felice, in cui la sua fantasia e sa muoversi e nel muoversi non trova alcun ostacolo che la trattenga, alcuna legge che la restringa, non dura a vero dire gran tempo. Perocchè l' avvolgersi continuo colle cose reali della natura e le nuove osservazioni, ch' egli fa di continuo sul loro operare, lo rende accorto de' confini più precisi, entro a cui son racchiuse le nature nelle loro azioni: i tipi dell' operare delle cose, che egli s' era formato in mente e che erano incerti abbozzi, e più cotali scarabocchi ovvero geroglifici che accurati disegni, vanno ricevendo più distinti contorni, si disegnano con più esattezza, si colorano con più chiaroscuri, ricevono fin anco gli ultimi tocchi, che li rende similissimi alla realità. Ogni passo, che egli fa in questa scienza, ogni linea ch' egli aggiunga al disegno, che s' è formato in mente, e colla quale via meglio il determina, fa perdere immensamente alla sua imaginativa, svela per chimeriche innumerevoli sue creazioni, condanna per grossolane, puerili, assurde infinite invenzioni, che prima nella sua semplice ingenuità a lui parevano le cose più vere, le più care, fino le più importanti. Così l' età sopravvegnente porta via continuamente molti idoli fantastici, che più non piacciono, quando se ne vede troppo patentemente la falsità. [...OMISSIS...] Ma non passano molti anni, che le novelle vostre non gli piacciono più: voi dovete acconciarle con più industria, acciocchè gli riescano interessanti: viene ben presto il tempo che egli vuol delle vere storie (2). Il periodo d' una straordinaria quantità d' azioni della fantasia, che si vede nell' infanzia al terzo e quart' anno, cioè al quinto e sesto ordine d' intellezioni, vedesi del pari nella vita dell' umanità. I tempi favolosi si trovano nelle storie di tutti i popoli: l' Oriente, la Grecia, il Settentrione hanno le loro favole: a tutte le storie sono preceduti i poeti. Questo periodo mitico è più o meno lungo, secondo che l' infanzia delle nazioni è più o meno prolungata. Le favole non si possono più sostenere presso que' popoli, nei quali la cognizione precisa delle cose reali ha reso impossibile la loro illusione. Allor quando alla mitologia greca si pretese di sostituire nella letteratura le streghe e gli spettri del Nord, si dava indizio di conoscere, che il mondo non poteva più comportare in alcun modo le bambolaggini greche; ma poi per errore credevasi di soddisfare alle sue nuove esigenze col presentargli delle nuove bambolaggini, le boreali. Non poteva riuscire il tentativo, nè riuscì: il mondo cristiano ha oggimai bisogno di schiettissima verità . Sarebbe tuttavia erroneo il credere, che con questo nome di verità s' intendesse solamente la realità; questa non è che una parte di quella: la verità abbraccia di più: ha la sua storia e la sua poesia; e son vere ugualmente. Ben avviene che i popoli, che occupano interamente la loro attività in interessi reali e in cose positive, divengono alienissimi da tutte le generali teorie, e da quanto v' ha di grande nel mondo ideale. Questi vanno all' eccesso contrario: legano del tutto la loro fantasia, perocchè a questa non rimane più a innovar cosa alcuna, condannata, per somma grazia, a solo ristampare le realità. Non è già che alla imaginativa di tali popoli manchin le forze; ma queste forze sono legate del tutto. Perocchè la potenza d' imaginare non può produr nulla, che abbia qualche interesse per l' uomo, se non sia tale, che rechi qualche illusione; che possa almen essere conosciuto per tutto simile al vero. Ma non dà alcun valore che al reale, poichè al reale tanto s' affissa, che lo ha sempre presente, nè crede che altro vi sia che il reale; questi trova puerile tutto ciò che reale non è, e ride, o almeno non cura nè anche quello, di chi dubita se sia reale. Ognuno vede quanto al ritratto, che noi facciamo di tali popoli, rassomigliano gli Americani degli Stati7Uniti. Ma tutto ciò, che abbiamo detto, non ispiega ancora certi fenomeni dell' animo del fanciullo al tempo, in cui la sua imaginazione prende quel rigoglio di cui abbiamo parlato. Uno di questi fenomeni si è, che entro quel periodo il fanciullo trae ben sovente più piacere dall' imaginario che dal reale. [...OMISSIS...] Le quali parole nel tempo stesso che descrivono con evidenza il giuoco dell' imaginazione puerile, toccano anco delle cagioni che entrano a produrlo. E certo il piacere di operare da sè, di vagheggiare le proprie creature, dell' averne sempre di nuove e fresche, e tutte atte ad illudere in quell' età per la ragione detta di sopra; valgono in parte a spiegare come il fanciullo così avidamente si dia a chimerizzare e fantasticare. Ma perchè non si vede un somigliante giuoco nelle bestie? Hanno pur anche esse l' imaginativa e provano piacere delle rinnovellate imagini: ma come ottimamente venne osservato, tratte una volta in inganno dall' imaginazione, per esempio delle uve di Zeusi, non ne vogliono sapere di vantaggio di simiglianti illusioni tutte proprie dell' uomo. Vero è, che l' attività, che dispiega l' uomo imaginando, non è solo sensuale, ma intellettuale altresì; giacchè l' imaginazione vien diretta e guidata dalle idee astratte, ciascuna delle quali è un cotal tipo non finito, sul quale innumerevoli cose possono esser create e foggiate, ed è ciò che rende sì vasto l' imaginar dell' uomo sopra quel delle bestie. Tuttavia quest' attività intellettuale che s' accompagna all' attività dell' imaginazione, e cresce tanto e l' ampiezza e il diletto dell' operare di questa; in che modo potrebbe ella esser fonte di tai piaceri, se non fosser piacevoli gli stessi oggetti, ch' ella presenta? Dunque non è solo l' attività come attività la cagione perchè il fanciullo si diletta degli imaginati oggetti, ma è qualche cosa ancora di dilettoso, che in questi egli ritrova e gusta: e che può esser la cosa che così lo attrae? Se non è la realtà dell' oggetto, che, come vedemmo, egli ritrova soverchiamente angusta e povera, che il diletti, non può esser altro che la stessa entità metafisica della cosa: cioè a dire egli si diletta dell' oggetto come oggetto, poco poi calendogli che esso sia reale o non sia; egli contempla e gusta la natura, la essenza delle cose; di questa è incantato e preso. Questa è una contemplazione dilettevole sì, ma disinteressata; una contemplazione tanto più nobile quanto è più segregata dalla fredda realità. Egli è l' istinto d' imparare a conoscere l' entità delle cose, che lo muove, che lo trattiene a contemplare internamente nel proprio spirito, senza darsi gran pena della cosa al di fuori: egli è rapito dal bisogno che prova il suo intendimento di suggere per così dire l' essere, più essere che egli possa, i gradi, l' ordine intimo, le forme di quest' essere, che sono appunto l' essenza delle cose limitate, di cibarsene come del suo nobilissimo cibo, celeste, vitale. L' oggettivo, l' ente in sè (non reale, non ideale, ma astratto da questi primordiali suoi modi) è quello ch' io chiamo il mondo metafisico. A quest' età il fanciullo apre le sue ali e vola ad esso senza schermi. La mente si compiace nell' aderirvi come la bocca del bambino al seno materno. Egli è per questa stessa ragione, che fino al tempo nostro, benchè sì ricco oggimai di esperienza, avidamente son letti i romanzi. Ma v' ha forse alcun, che li legga, perchè egli creda, che le cose siano avvenute, come essi le narrano? Sarebbe troppa semplicità. Chi li legge vuol vedere in essi come sia la natura umana, come ella operi. Vuol imparare a conoscere il cuore umano, vuol contemplare l' indole delle passioni, le pieghe di questo cuore, che palpitando in tanti individui diversi è finalmente in tutti il medesimo. Allo stesso modo gli uomini guardano il figurino, affine di conoscere l' usanza corrente; a nessuno poi importa che la pinta imagine sia per avventura Madame tale o Monsieur tale, le quali realtà riuscirebbero così frivole, così importune, così lontane da quel che cercasi, che farebbero noia anzichè piacere. Il desiderio di conoscere le cose in sè stesse nella loro oggettiva essenza, anzichè nell' accidentale loro realità, è lo stesso che il desiderio del sapere; perocchè il sapere tutto a questo si riduce nella formale sua parte; nè il sapere più o meno delle cose reali e positive rende per sè l' uomo più savio e più dotto. E questo è uno degli istinti più forti dell' umana natura: l' anima si precipita nell' entità oggettiva come nel suo bene, tostochè ella possa, tostochè si veda aperta una via per pigliarsene qualche parte, foss' anco un briciolo. Da questa tendenza poi efficacissima, che porta l' anima intelligente a contemplar le cose, come sono in se stesse, non come sono nel mondo reale, moltissimi fenomeni dell' umana vita ricevono facile spiegazione, e bastimi fare qui cenno soltanto di quello, che più da vicino s' attiene al nostro discorso. Quest' è la facilità, la prontezza, la necessità, che ha lo spirito di passare da una cosa simile ad un' altra, cioè a far si che una cosa gli serva di segno o d' indizio d' un' altra. Non importa che la somiglianza sia poca, che il segno sia imperfetto, che meriti piuttosto nome d' indizio che di ritratto: la mente non fermasi a quell' oggetto rozzo e reale, come negli esempi di sopra accennati all' uomo di cera o di carta: pensa immediatamente all' uomo vero, ma notisi bene, dico l' uomo vero, non dico il reale; perocchè al fanciullo niente gl' importa di sapere che esso sussista; gl' importa solo di pensare, di contemplarsi quell' uomo, di cui nel suo spirito ha già ricevuto l' idea, e nella idea appunto l' essenza. Tanto egli è vero che questo passaggio spontaneo da cose così distinte tra loro, com' è un po' di cera e di carta, da un uomo, accade per la forza dell' istinto, che sprona del continuo la mente a ricorrere alle cose in se stesse; che un tal passaggio, chi ben lo considera, riguarda sempre una cosa esterna e materiale, dalla quale si passa ad una cosa interna ed oggettiva. E quand' anco avvenisse che da una cosa esterna si passi in un' altra pure esterna, sempre però ciò si effettua per questo modo; che egli dalla cosa esterna passi prima a contemplare quella, che egli ha nella mente, e poscia da questa cosa interna viene all' altra esterna. Questa osservazione medesima dimostra la possibilità delle lingue. Si noti, che la maggior parte de' suoni, che formano una lingua, segnano le cose come sono nella loro natura e non nella loro sussistenza. Or come sarebbe possibile, che all' udire i suoni delle parole il fanciullo fosse tratto a pensare alle cose, colle quali essi hanno una cotale analogia, se non fosse già inclinato da natura a correre colla mente alle cose in se stesse, prendendone occasione da checchessia gli si presenti? - Chi vide la scuola de' sordomuti, e la incredibile facilità, onde intendono le cose mediante de' segni, si convincerà della cosa stessa. Non fa già bisogno, che i maestri gli dicano innanzi, che i gesti, che adoperano con esso loro, sono de' segni: questo sempre viene presupposto, questo lo sanno da sè, glielo dice la natura: la natura è quella che li avvia a considerare tutte le esterne cose, e non soltanto i gesti dei maestri, come de' segni di altre cose, cioè della natura, dell' essenza delle cose. Se la natura non lo dicesse loro, niun potrebbe farglielo intendere: perocchè il concetto che una cosa sia segno, e sopratutto segno convenzionale d' un' altra, è in sè stesso così difficile a snodarsi, così gratuito a stabilirsi, dirò anche così strano e mirabile; quando si considera la cosa colla mente e non coll' istinto, che non potrebbe essere mai ricevuto, ammesso, ritenuto costantemente; come pure senza alcuno sforzo, fanno, e ogni giorno i bambini, gli idioti, i muti. E` che l' uomo non può fermarsi al reale; è che egli tosto che può farlo, fugge da esso come la freccia dall' arco, per cogliere e infiggersi nella natura delle cose, oggetto della sua intellettuale contemplazione: è per questo ch' egli, lungi dal trovar difficile il pensiero, che una cosa sia segno dell' altra, trova anzi impossibile il non considerare tutte le cose reali per segni. Questo spiega le lingue, i geroglifici, le scritture, le mimiche, i simboli, i miti, le arti tutte d' imitazione, l' antichissimo linguaggio enigmatico, la sapienza parabolica de' primi uomini, l' aver Iddio ammaestrati gli uomini sempre per segni, per figure: l' interpretarsi per segni ogni cosa che avviene, sia falsamente ed arbitrariamente siccome fanno gli auspici, gli aruspici, i fatidici, gl' indovini presso tutti i popoli, in tutti i tempi; sia veramente come fanno gli ispirati incominciando da' primi profeti, a cui Dio parlava per visioni e per segni, fino ai Padri della Chiesa e agli interpreti delle Sante Scritture, che negli stessi fatti più semplici del Vangelo leggono quasi direi significati de' morali documenti e de' profondi misteri (1). La tendenza, che porta l' uomo alla contemplazione delle cose in se stesse è essenzialmente morale; appunto perchè ella è essenzialmente oggettiva (2), e del soggetto interamente obliviosa. Se dunque l' imaginazione, che si spiega nel fanciullo, non producesse altro effetto che questo, fosse solo un aumento di contemplazione intellettiva delle cose nel loro essere metafisico; indubitatamente, che ella gioverebbe alla bontà morale, senzachè da essa venisse a questa alcun danno. E così sarebbe, se l' umano istinto , che segretamente dirige le potenze alle loro operazioni, avesse per suo mobile solo l' accennato, voglio dire la tendenza dell' intelletto ad affissarsi nell' entità delle cose, senza più. Ma egli ha un altro mobile tuttavia, e questo è il piacere che ritrae dalla realità. Convien riflettere, che l' uomo è un essere reale, e che perciò ci tende ancora a dei godimenti reali. Benchè adunque il suo intelletto si compiaccia nella luce della verità, nella visione delle essenze; tuttavia vi ha in lui un' altra tendenza a lato di quella, la tendenza cioè che lo porta verso a tutti quei beni reali, che gli posson dare diletto. Due adunque sono i mobili dell' istinto umano: l' uno ci porta verso l' entità in se considerata, l' altro verso l' entità reale . Questi due mobili dirigono segretamente lo spirito nostro nelle sue operazioni per una strada opposta. La tendenza del tutto intellettiva a fissarsi nella cosa in se considerata ci stacca dalla realità, che le riesce del tutto inutile; la tendenza a godere della realità a questa ci rimena. Indi avviene, che quando il fanciullo immagina viene bene spesso da lui contemplato come una natura di cose in se, non curando la ricerca, se sia reale o no. Quando prevale in lui questa prima tendenza, egli parte dal reale come da un simbolo, e finisce nell' essenza della cosa come nel simboleggiato. L' essenza qui è il fine del movimento dello spirito, la cosa contingente e reale non ne è che il principio e l' occasione. Ma se nel reale egli concepisca qualche cosa di dilettevole, e indi venga a giocare la seconda tendenza, allora avviene nello spirito del fanciullo il contrario: cioè che quanto egli imagina facilmente lo crede cosa reale. In questo caso lo spirito di lui fa un contrario viaggio; egli parte dall' imaginario e viene al reale: la imaginazione è il principio del movimento, la credenza alla realità ne è il termine. Ognuno s' avvede, che con queste parole noi abbiamo discoperto la sorgente di molti errori infantili. Perocchè come la mente, che dal reale partendo, si dava all' entità in se, trova ed aderisce al vero; così la mente, che parte dall' immaginato e dall' entità in sè contemplata, e viene a vedervi dentro il reale, trova il falso ed a questo s' abbraccia. Vero è, che nella stessa imaginazione si ha un principio di reale, perchè è il sentimento che soffre, ed il sentimento è un reale, nè può essere modificato che da qualche reale azione. Ora quando noi soffriamo qualche azione nel sentimento nostro concludiamo, che un reale esiste; nè a torto fin qui: perocchè l' error nostro comincia solo allora, che noi vogliamo determinare, che cosa sia questo agente reale, e giudichiamo dover essere quello appunto che ci apparisce. Questa illusione è perfetta ne' sogni, nei quali non dubitiamo punto della realità delle cose, che ci si rappresentano, perchè la loro rappresentazione, cioè la loro azione nel sentimento nostro è perfetta. Nella veglia stessa se l' imagine è viva e presente, ci illude e a mal grado del ragionamento, che vorrebbe trarci d' inganno, noi sofferiamo una commozione tutta simile a quella della realità. [...OMISSIS...] In questi fatti non ha luogo la volontà libera del fanciullo: le imagini e i sentimenti di paura sono delle realità, e le realità muovono la persuasione, inducono il nostro spirito a credere ad esse. Quand' anco il fanciullo sapesse speculativamente, a non dubitarne, che i suoi timori non hanno alcun fondamento, che quegli spettri non sussistono; tuttavia sussiste l' impressione e la reale commozione del sentimento in lui: egli soffre ad ogni modo l' impressione d' una realità. Avvi ancora una tendenza a credere, che gli oggetti sieno in se stessi, come sì vivamente gli appaiono: questa tendenza che suppone in ciò che apparisce un ente, è figlia dell' intendimento, che dovunque non può vedere cosa alcuna se non a condizione, che vi vegga degli enti. Onde lo spirito li suppone anche dove non sono, perocchè gli è il modo più facile di concepirne qualche cosa, di cui ha voglia: altramente dovrebbe sospendere l' atto suo per un tempo assai lungo, fino allora che abbia scoperto il vero ente a cui rattaccar que' fenomeni. Per quantunque in questo modo nascano degli errori nella mente infantile, tuttavia essi non sono ancora quella classe di errori che noi vogliamo qui designare come funesti alla moralità. Nè pure appartengono alla classe degli errori funesti, quelli che nascono da altre leggi pure dell' intendimento, le quali noi abbiamo disegnate di sopra. Abbiamo detto cioè che l' intendimento in ciò che percepisce « non solo percepisce necessariamente un ente, ma ancora suppone sempre che l' ente percepito sia il più perfetto ed assoluto, che egli possa concepire stante la qualità e quantità delle sue cognizioni ». Questa gran legge dell' intendimento riceve una modificazione nella sua applicazione secondo lo stato dello spirito fornito più o meno di sperienze e di cognizioni, come vedemmo; sicchè lo spirito al tutto vuoto del neonato suppone nel primo ente, che gli sorride e che percepisce, l' illimitato, perocchè il supporre ciò non gli è conteso dalle altre sue cognizioni, che ancora non ha. Ma dal momento che altre cognizioni acquista, non può più supporre illimitazione dell' ente percepito, perchè una tale illimitazione cadrebbe in contraddizione colle cognizioni avute. Tuttavia la sua supposizione è sempre al maggior vantaggio possibile degli enti che percepisce; non mettendo egli confini a questi, se non è costretto dalla necessità dell' esperienza e delle cognizioni in lui crescenti. Egli dunque prende degli errori anche per questa via, per la quale si lascia condurre « dal principio d' integrazione » e li prende di nuovo per la voglia di conchiudere qualche cosa, pel bisogno d' intendere. Conciossiachè se egli potesse non supporre niente, tutto percepire ; sostenere gli atti del suo intendimento che aspirano all' assoluto, fino che non è ben chiaro di questo, cioè del dove sia da collocarsi: eviterebbe egli questi errori. Ma tuttavia anche questi errori, che vannosi poi da se stessi correggendo di mano in mano che cresce l' età, non sono degli errori funesti alla morale bontà. Gli errori funesti tra quelli, a cui dà occasione l' attività fantastica, son quelli che si prendono da fanciullo, quand' egli aggiunge fede alla realità delle sue imaginazioni, non violentato a ciò dalla forza reale di esse, nè condotto da un principio intellettivo d' integrazione, ma unicamente spinto dal desiderio, che egli stesso ha, che quegli oggetti fantastici sieno reali, quatunque nol siano. Non è, che il fanciullo tessa tutto da se stesso a se questo inganno, egli propriamente non imagina nulla nè bene nè male: nè vuole ingannarsi: nè sa che fare di creazioni sue proprie. Ma se poi queste in lui si eccitano da oggetti esterni, che agiscono sopra di lui, allora può andarne ingannato primieramente ne' due modi detti, e poscia nel terzo. « I fanciulli abbandonati a se stessi (ecco il fatto assai bene osservato) possono aver paura d' un oggetto reale, d' un negro, d' uno spazzacammino, delle maschere, e rinfrescarsene la memoria con ispavento; ma ben poche chimere si foggiano da se stessi. Di rado una idea li preoccupa senza che sia stata lor suggerita ». Questo fatto dimostra che essi son fatti per la verità e non per le illusioni. Alle illusioni adunque sono cacciati dall' azione d' incitamenti esterni. Ma alle illusioni libere, a quegli errori, che noi dichiariamo moralmente funesti, non si danno se non ispinti dai loro desiderii e dai loro affetti. Questi riguardano o il tempo passato, o il futuro; e dirigono l' imaginazione loro per modo « che le cose passate e le future non le imaginino, se non quanto possono dar loro piacere ». A questo fine egli è necessario che sia loro formato il concetto del tempo, concetto che aiuta appunto per questo l' attività d' imaginare, la quale spazia nelle cose già avvenute, ed in quelle che si aspettano, ed egli è al quart' ordine, come vedemmo, che il fanciullo si forma la concezione de' due tempi, e al quinto quello de' tre tempi, il presente, il passato, il futuro: onde vedesi ragione, perchè all' età in cui è pervenuto il nostro fanciullo, comincino le sue illusioni volontarie. Queste derivano dal prendere per segreto conduttore della sua memoria e della sua imaginazione il piacere ed il dolore. Mosso da questo principio egli è tutto memoria, tutto imaginativa per le cose che gli piacciono, smemorato e senza fantasia per quelle che gli dispiacciono. Ecco delle osservazioni: [...OMISSIS...] Le speranze imaginarie della giovane età cominciano nel fanciullo col formarsi in lui il concetto del tempo avvenire, e aiutano meglio la formazione di questo concetto: perchè quelle speranze segnano dei punti nel futuro, come i diletti da lui goduti, assai più che i dolori stessi obbliati, li segnano nel passato. Or che lo spirito del fanciullo contempli a preferenza le imagini liete del passato, e le imagini liete dell' avvenire, non istà ancora qui il male: questo è natura. Ma che egli dia corpo a queste imagini, che egli spinto dall' amor de' piaceri voglia credere reale quello che non è tale, questo è l' errore che nasce da un mal principio, da un animo che ha cominciato già a torcere dalla morale rettitudine. Se si considera attentamente, come si sogliono guastare i fanciulli delle grandi famiglie, si troverà per lo più divenire il guasto da questo che si promuove nella loro mente la formazione di un mondo fantastico, a cui essi dan fede, e in cui credono d' occupare un posto del pari imaginario; dal qual posto movendo i lor pensieri e le loro azioni commettono dei continui torti alle persone reali del mondo reale, e fanno continui abusi delle cose pure reali. Poveri fanciulli! Tutti sono falsati i loro pensieri, i loro giudizi, i loro affetti, le loro abitudini: l' imaginazione li tradì, ma l' imaginazione non fu che la maga, di cui i genitori, gli amici, gl' istitutori, la turba di quanti hanno da far con essi si servono a gara per illuderli e perderli (1). La specie di errori immorali, di cui parliamo, mostrasi in un' ampiezza molto maggiore nella storia dell' infanzia de' popoli. Questi non si accontentano di crearsi una moltitudine di fantasmi; ma li fecero altrettanti esseri reali: l' idolatria n' è la prova. E l' idolatria non fu solo presso i popoli antichi o fra selvaggi; ma non fu detto a torto che nel mezzo stesso dei popoli cristiani e civili avvi una cotale idolatria; perocchè dovunque sono delle eccedenti passioni, queste non finiscono di reclamare dall' imaginazione degli idoli, a cui dian fede, a cui si prostrino adoratori: di reclamare che essa dilati i confini del mondo reale e lo metamorfosi, o ne crei un altro dentro di quelli, qual loro più piace che sia. Convien ben poco aver osservata la sformata vaghezza d' illudersi, che fanno gli uomini, per non riconoscere la verità lampante di ciò che diciamo. Ella si scorge per tutto. Nella società; e voi trovate che gli uomini vogliono essere ingannati di dolci parole, e si inimicano a quelli, che sinceri e schietti d' ingannarli ricusano. Nella letteratura e nelle arti; e v' ha pure chi ancor piange la mitologia, o tratta d' inventarne una nuova. Nella storia; e non la si vuol mai pura, nè la si crede, se per esser creduta non si fa raccomandare da qualche favola che ella accoglie (1). Ne' fatti e nelle parole è il medesimo; vi ha sempre una forza, che spinge occultamente a dar sussistenza a quell' amato imaginario, che non ne ha veruna. Per questo Platone si era messo in apprensione de' poeti; e non volea che nell' educazione de' giovinetti s' adoperassero se non i lirici, che inneggiavano alla divinità o cantavano la virtù e la lode de' virtuosi (2). Ma qui deve farsi una importantissima riflessione. Quegli errori occasionati dallo sviluppo della fantasia, che io ho indicato come funesti alla moralità del fanciullo nell' articolo precedente, cangiano di natura, se essi si considerano nell' età, in cui l' uomo non ha ancora la coscienza di se stesso, il concetto dell' Io, e poi nell' età susseguente alla formazione di questa coscienza, di questo concetto. Fino a tanto che l' uomo non intende il monosillabo Io, l' uomo è un sentimento sostanziale, che opera colle leggi della sua spontaneità: queste leggi sono inerenti alla sua natura, si consideri essa nello stato d' integrità o pure in quello di naturale corruzione. Ma da quel punto che l' uomo ha percepito sè stesso, incontanente in lui avviene un cangiamento immenso relativamente al suo operare libero e morale. E nel vero un soggetto che non percepisse intellettualmente se stesso, non può fare se stesso oggetto e fine del suo operare volontario. Perocchè la volontà è quella, che opera tendendo ad un oggetto conosciuto dall' intelletto; ora se l' uomo non si è ancora reso oggetto del proprio intendimento, egli non può nè pure essere oggetto della propria volontà. Innanzi adunque a quel tempo, nel quale l' uomo si forma la coscienza di se stesso, l' intelligenza dell' Io; egli opera bensì soggettivamente ma non rende mai se stesso soggetto termine fisso delle sue operazioni. Ma tosto, che egli si è formata la coscienza di sè, egli può mettere questo sè a segno e scopo fisso del suo volere e del suo operare. Qual immenso rivolgimento di cose non vi ha qui nel mondo morale del fanciullo! L' egoismo non può cominciare prima che l' uomo abbia inteso se stesso. Dalla notizia adunque dell' Io comincia la possibilità del vero egoismo (1). Egli è vero che anche prima della coscienza di sè possono cadere nell' uomo de' falli morali, ma questi, come dicevo, d' altra natura. Perocchè que' falli non potevano consistere se non in questo, che la spontaneità dell' operar soggettivo ci conducesse colla sua violenza ad operare contro l' esigenza degli oggetti. Ora questo sarebbe certamente un fallo, ma questo fallo sarebbe indiretto e negativo piuttosto che una trasgressione diretta e positiva. Mi spiego: Se io ho due oggetti innanzi e pospongo il più degno al meno degno, io posso far ciò per due modi; il primo perchè un istinto cieco mi sproni ad operare con tal veemenza e prontezza, che io fo torto a quell' oggetto più degno non perchè l' odii, od ami di più il men degno; ma unicamente perchè mi strascina il torrente dell' operare spontaneo e cieco, che opera senza por mente agli oggetti; anzi distraendomi dal raffrontarne e giudicarne il prezzo; il secondo perchè io liberamente antepongo e sceglio il piacere o bene che trovo nel men degno al valore intrinseco del più degno. Nel primo caso io pecco, ma indirettamente e negativamente, più per debolezza e corruzione di mia natura che per malizia. Nel secondo pecco direttamente, positivamente, maliziosamente. Ora, dico io, questo secondo modo di peccare suppone quasi sempre la coscienza di me; egli è un modo di peccare che almeno per lo più nasce dall' egoismo. Perocchè se io scelgo volontariamente fra un piacere o un bene del soggetto e il mio dovere, egli è mestieri che io abbia reso quel piacere soggettivo, o quel bene, che io preferisco, oggetto del mio proprio intendimento, che n' abbia però non già il mero sentimento generatore dell' istinto, ma propriamente la cognizione, onde spunta la volontà; e se il piacere o bene, che scelgo, mi è intimo; se egli consiste in qualche ingrandimento di me stesso, se in una parola appartiene al mio sentimento sostanziale (ciò che sono io stesso), debbo anco avere la coscienza mia propria per concepirlo; la quale in ogni caso mi nasce, o mi si forma nell' atto stesso dell' elezione. Così avviene, che per la coscienza di se stesso l' uomo possa introdurre nella sua perversione l' elemento il più funesto di tutti, l' egoismo, pel quale l' uomo mette per fine dell' operare se stesso, e a se stesso sacrifica tutto il resto. L' egoismo , che consiste a porre per fine se stesso, e che comincia a questa età, riceve anch' esso due gradi. L' uno è quel, che nasce dal dimenticare gli altri e non pensare che a se; l' altro è quel che pensa benissimo agli interessi altrui, ma per sacrificarli ai proprŒ. Ognuno vede che questo secondo grado è assai più malvagio del primo. Il primo di questi gradi nasce e cresce per lo più nel seno dell' ignoranza, è proprio delle persone volgari. [...OMISSIS...] Questa specie d' egoismo è quello, che traversa e impedisce nel mondo i più nobili progetti e quando questi debbono essere discussi in un' assemblea, molte volte sorge l' uno o l' altro individuo, il quale fa opposizione ad un bene sommo, mosso il più da minuto interesse: la ragione più frivola, un inconveniente, che si annienta se si confronta col bene della cosa proposta, basta per farla andare a monte. Direbbesi che ne' piccoli paesi, dove le passioni dovrebbero essere eccitate, e si ha da fare con un minor numero di votanti, i progetti di pubblico vantaggio dovrebbero meglio riuscire: non è vero; quello che non fa la violenza della passione, il fa in quella vece l' egoismo dell' ignoranza. Nei fanciulli si manifesta questa specie di egoismo ogni qual volta hanno da fare con persona che niente loro ricusa: questo trovare d' essere soddisfatti ad ogni loro richiesta fa sì che essi non siano mai condotti a riflettere sulla molestia, che altrui cagionano e pensino solo al proprio piacere. Sofia nelle lettere di M. Guizot ne è un esempio ammirabilmente dipinto. Il secondo grado di egoismo non comincia a quest' età: essa è una reità più matura. Moltiplice è poi la rea prole dell' egoismo. L' egoismo fa sì che l' uomo giudichi con misura diversa sè stesso e le cose proprie, e gli altri e le cose altrui. Questa è si funesta cosa, che è la forma di tutti i mali morali; di guisa che non sarà perduta mai qualsiasi vigilanza, qualsivoglia industria per guardarne il fanciullo: poichè, se l' educatore pervenisse a conservare nel fanciullo sempre, in ogni cosa, anche nelle minime, la rettitudine dell' anima, e l' imparzialità del giudizio, egli n' avrebbe fatto in breve tempo un uomo perfetto. Del pari gli artifizi fanciulleschi, le piccole ma frequenti menzogne dell' età infantile, prendono un carattere più grave, quando dall' egoismo già formato procedono. Quanto grande non è l' errore di quelli, che giudicano i fanciulli dai soli fatti esterni materialmente presi! Un fatto medesimo, una stessa finzione, una stessa menzogna in due fanciulli diversi può avere una gravità morale infinitamente diversa! La perspicacia, il discernimento degli spiriti, ecco la prima dote del savio educatore. Al quint' ordine ancora si manifesta l' apatia o noia morale, malattia pericolosissima ne' fanciulli. Vedemmo, che all' ordine antecedente, cioè al quarto, si sveglia nel fanciullo la voglia d' influire sulle volontà altrui; voglia nascente dal combattimento tra la volontà propria che il fanciullo non vorrebbe sacrificare, e l' altrui, che sente di dover pure rispettare e preferire alla propria (1). Ma il dovere influire sulla volontà altrui per tirarla e conciliarla alla propria è già una molestia pel fanciullo, un legame; e non può sostenerlo, se non a forza della sua benevolenza e del suo morale sentimento. Ora, intervengono dei momenti nei quali la benevolenza nel cuore del fanciullo rimane inoperosa, attesochè il fanciullo è distratto in altro, e il morale sentimento è in lui lasso ed inerte. In questi momenti è deplorabile lo stato del fanciullo. L' altrui volontà gli è di noia, ogni regola gli è un restringimento angustioso. Egli allora è colto da un mostruoso capriccio: s' intesta, e trova un diletto proprio ad usare tutta la sua attività fisica: gli sembra di sentirsi più grande ribellandosi alla legge, usando senza freno della sua naturale libertà. A tutti quelli che hanno trattato a lungo coi fanciulli, non sarà sfuggita questa pericolosa malattia morale. Un' autrice spiega l' ostinazione d' un fanciullo che imparando a leggere diceva sempre b7a7u, bu, nè voleva ripetere b7a7u bau, in questa maniera: [...OMISSIS...] . Ora, sebben questo gusto della libertà sfrenata, assoluta, questa vaghezza di bravar tutto, fin la legge, non si manifesti di subito, se non dopo l' età in cui è comparsa la voglia d' influire su gli altri; tuttavia potrebbe anco prima apparire. Ma ella suppone l' apatia o noia morale, per la quale la benevolenza verso gli altri è raffreddatasi, e non brilla più all' intendimento la bellezza e venerabilità della volontà d' un essere intelligente. Qual parte possa avere in tali fenomeni, talora improvisi e momentanei, l' azione dell' angelo delle tenebre è cosa segreta e nascosta all' umana investigazione; ben pare difficile lo spiegarli colle sole leggi ordinarie, secondo le quali opera l' umana natura. Che se l' egoismo è già nato nel cuore umano, la malattia, di cui parliamo, prende anch' essa tosto da questo un carattere più grave e maligno. Ma se l' aver trovato se stesso col proprio intendimento, il che è quanto dire l' essersi formato la coscienza di sè, è da una parte come l' aver trovato uno scoglio, contro cui può rompersi la morale bontà; così d' altra parte egli è ancora come l' aver trovato un passaggio, pel quale può distendersi un' immensa e fortunata navigazione. E veramente la consapevolezza della propria dignità morale non è possibile, fino a tanto che l' uomo non siasi formata la coscienza di se medesimo. Ella è questa coscienza che fa sì, che l' uomo possa giudicare se medesimo, possa imputare a se stesso le azioni, intendere l' imputazione, che gli vien fatta dagli altri, la lode, il biasimo, il premio ed il gastigo. Chi non vede che passo incalcolabile è questo! Quanti mezzi nuovi alla moralità! Qual forma novella di moralità, dacchè incomincia qui l' uomo a poter riflettere sul proprio operare, attribuirlo a se, e sentire, che, se è buono, gli aggiunge dignità, se è malo, lo degrada ed invilisce! Fra i vantaggi morali poi, che viene traendo l' uomo dalla coscienza di se stesso, si è quello della memoria delle cose passate e del calcolo delle future. La coscienza di se stesso importa la coscienza della propria identità ne' vari tempi; la cognizione della varietà de' tempi e dell' identità di se stesso sono relative, e vanno perciò innanzi di pari passo. [...OMISSIS...] Egli è ben degno di osservarsi nel fanciullo, per quali gradi perviene a conoscere, come diciamo, se stesso, la propria unità, la propria identità. Vi ha un tempo, nel quale egli conosce già quella degli altri, senza conoscere ancora l' identità di sè stesso; per la ragione che abbiamo detto, che l' attenzione sua prima se ne va al di fuori, e poi si ripiega sopra se stessa. In questo tempo egli deve portare un diverso giudizio degli altri e di sè: giudizio che parrebbe ingiusto; di quelli che dicevano fatti a due misure, e che pure non è tale. Egli giudica in questo caso diversamente degli altri e di sè, non per riprovevole parzialità, ma unicamente perchè diversamente conosce gli altri e sè stesso; negli altri ha già conosciuto la medesimezza in più tempi, quando di sè non l' ha ancor percepita: non ha percepito sè stesso in un tempo solo alla volta; e però in un tempo giudicò di sè come se fosse un personaggio diverso da quello che si giudicò in altro tempo. Udiamo ancora le altrui osservazioni: [...OMISSIS...] . Basta dunque un solo fatto, ed il fanciullo giudica degli altri, che sono boni o che sono cattivi: di sè non giudica nulla di stabile, ma soltanto al momento, che opera, giudica della sua azione. Questo dimostra manifestamente quel periodo di tempo, durevole alquanto nella vita infantile, nel quale il fanciullo è pervenuto a conoscere la medesimezza o identità degli altri in più tempi; onde di essi, come di soggetti unici, porta un solo definito giudizio; e tuttavia non ha ancora posto mente sulla medesimezza o identità di se stesso in più tempi, ma giudica solo le proprie azioni presenti, e fa però de' giudizi vari come varia la qualità delle azioni, senza indurre niuna sentenza universale e definitiva a dannazione, o a favore di sè medesimo. E dissi, che questo periodo di tempo è alquanto durevole nella vita infantile. - Tanto è vero che si manifesta anche nell' infanzia delle nazioni, e nel popolo minuto, che in gran parte non esce di fanciullezza. Onde avviene, che una nazione giudica così severamente dei difetti dell' altra, se non perchè la considera come un individuo, e da alcune azioni particolari trae la condanna di tutto il corpo? Onde l' entusiasmo popolare, sia contro le persone, oggetto del suo odio, nelle quali non vi è bene alcuno, sia a favore delle persone, oggetto del suo amore, nelle quali non vi è alcun difetto?

Senso

656381
Boito, Camillo 1 occorrenze

Verbo grazioso nella dolcezza e nell'umiltà, fate che la dolcezza e l'umiltà non abbandonino mai il mio cuore ... Credo in unum Deum ... Il prete scopre il calice, lo ricopre, si purifica le mani a lato dell'altare, mostra il volto a' credenti, e, sempre con lo sguardo basso, dice: - Orates frates -. Alza poi l'ostia, come immagine di Gesù alzato sulla croce, e, consacrato il vino, solleva il calice. - Oh sangue prezioso, sgorga insino a me quale nuovo battesimo. Oh se potessi versare il mio sangue tutto per te, il mio sangue fino all'ultima stilla ... per omnia saecula ... Il prete spezza in due parti l'ostia santa, a similitudine dell'anima di Gesù che si stacca dal corpo; mette una parte dell'ostia nel calice e la consuma picchiandosi il petto: - Domine non sum dignus ... - Indi riceve il sangue prezioso nel calice, e, dopo essersi comunicato, procede alle abluzioni: - Dominus vobiscum ... Nella ineffabile gioia di vedervi salire al cielo, oh Salvatore del mondo, sento la contentezza di possedervi ancora qui in terra; la mia fede vi adora sul trono del vostro amore nell'Eucarestia, in quello stesso modo che vi adora sul trono della vostra gloria in Paradiso ... Nel dire: - Ite Missa est - il sacerdote alzò gli occhi e vide dinanzi alla folla, seduta nella prima linea di panche, Olimpia, la baronessa, accanto al maestrino di pianoforte. Il collo di neve ed il principio del seno candido, spiccavano nella mezza oscurità del tempio. Ella sorrideva colle sue labbra tumide e rosse, fissando gli occhi negli occhi di Don Giuseppe, lasciva e sfacciata. Il prete sentì un velo calargli sulle palpebre; non ci vide più; traballò; il sangue gli corse tutto al cuore. Un istante dopo gli corse tutto al cervello, e allora non poté più frenarsi, e cominciò sui gradini stessi dell'altare, con la voce tonante, con il gesto del Cristo nel Giudizio di Michelangelo, una predica furibonda. - Via dalla casa del Signore i perversi e gli ipocriti. Fuori i profanatori dal tempio. Voglio impugnare lo scudiscio di Gesù per cacciare lontano questi corruttori delle anime, questi ingannatori delle coscienze, questi avidi succhiatori del danaro del povero. E voi, gente illusa, non vedete, orbi che siete, quale precipizio vi si apre sotto ai piedi? Rovinate il paese, gettate nella miseria i vostri figliuoli, la vostra moglie, i vostri vecchi per correre dietro all'inganno. Aprite gli occhi, figliuoli. Credete a me, che da dieci anni sono con tutto il cuore vostro padre e fratello, credete a me, che piuttosto di lasciare questa cara montagna morirei cento volte. Ed io vi scongiuro, come pregavo momenti fa il Signore, padrone di tutte quante le cose: ravvedetevi, tornare ai vostri costumi onesti e semplici, alla cura dei vostri armenti, all'amore di chi vi ama davvero. Avrete la pace in terra, e la gioia in cielo. Rammentatevi i comandamenti di Dio. Nel sesto i Canoni penitenziali gridano anatema contro la femmina che si imbelletta per piacere agli uomini; nel settimo e nel nono gridano anatema contro colui che ruba con la violenza, con la frode, o con le false lusinghe. Fuggite i peccatori. Dio v'aiuti e vi ispiri.

Racconti 3

662736
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Noi nobili non dobbiamo attendere che ci abbandonino in un canto; siamo di altri tempi e dobbiamo volontariamente ridurci a vivere e a morire come in un mondo a parte ... finché dura la tempesta, come la chiamano, democratica. Quando Dio vorrà ... - Presto, eccellenza; cosí non può durare! - disse don Paolo - La marchesina dunque… - egli soggiunse timidamente. - La marchesina pretende ... Ditelo voi, marchesa, che cosa pretende, voi che le avete parlato di questo matrimonio ... - Senza nessuna ragione ... rifiuta - balbettò la marchesa. - Come se noi potessimo proporle un partito indegno di lei! - Oh, eccellenza! - esclamò don Paolo. - Io ho la mia maniera di tagliare i nodi; sono un po' brutale. Non ho comunicato alla marchesina la mia decisa volontà, cedendo al troppo benevolo desiderio di sua madre. Ho avuto torto. «Senza nessuna ragione!» Lo avete già udito ... Prima dell'autorità paterna, facciamo pure sentirle il peso di quella di Dio! Onora il padre e la madre, dice il decalogo, e si onorano soprattutto obbedendo. Dopo il confessore, interverrò io. Non voglio discutere con mia figlia. Quando il marchese mio padre mi disse: «Tu sposerai la baronessina Grimaldi» risposi soltanto: «Come vuole vostra eccellenza!» Allora usava cosí. Il nostro matrimonio è stato felice. Se il Signore mi avesse concesso un figlio, non mi sarei comportato diversamente con lui. L'autorità paterna è di diritto divino, come quella dei re, anzi prima di quella dei re -. Nella vasta sala da pranzo la voce del marchese si affiochiva quasi sperdendosi per la volta elevata, coperta di pitture sbiadite, o insinuandosi tra le credenze di noce scolpito che coprivano le pareti e tra le larghe pieghe delle pesanti tende scure dei quattro usci che sembrava la segregassero dal resto di quel palazzo dove parecchie generazioni di Santacroce erano vissute in orgogliosa solitudine, ora resa piú grande dal cupo carattere dell'ultimo marchese che vedeva estinguersi malinconicamente la sua razza per difetto di un erede. Don Paolo, tutte le volte che attraversava gli ampi saloni nei giorni che il suo ufficio di cappellano e di confessore lo faceva «salire al palazzo», sentiva un senso d'intimidazione e di freddo, come se egli penetrasse in un posto pieno di religioso mistero. Per gli abitanti di R*** la mole grigia, coi grandi balconi con ringhiere bombate di ferro battuto su le mensole rose dal tempo e dall'umido, con le imposte stinte che combaciavano male, e l'immenso portone sempre chiuso, mole dominatrice dall'alto della collina su tutte le altre case del paese, era il «palazzo» per antonomasia. «Salire al palazzo» significava andare dal marchese di Santacroce, giacché il marchese e la marchesa uscivano di rado, e quasi unicamente per recarsi nel feudo di Serralonga in primavera e in autunno, mutando la loro prigionia nell'antica cittaduzza che la posizione su l'altura teneva appartata da ogni contatto di vita commerciale, con l'altra nel feudo dove un gran casamento mezzo rustico, con immensi stanzoni anch'esso, circondato da un muro con feritoie che formava cortile, dava appena qualche differenza al tenore di vita della famiglia. Prima del '60@, '60, il marchese esercitava una specie di dominio su i cittadini di R***, tradizionale residuo di quello dei suoi antenati quando essi erano padroni del borgo, poi divenuto cittaduzza libera, passata alla Camera Reginale per vicende politiche che avevano prodotto la decadenza della famiglia Santacroce e ne avevano stremato i vasti possedimenti e le ricchezze. Il padre del marchese, don Alvaro Gutierrez-Guerrero, avea regnato da tirannello. Ai suoi tempi era stato adattato a lui il vecchio proverbio: «Non si muove foglia che Dio nol voglia»; se non che invece di Dio, si metteva irriverentemente ma esattamente «il marchese». La tirannia, del resto molto benigna, del padre era passata nelle mani del suo erede, che continuava a venir consultato in tutti gli affari privati, e aggiustava liti, annodava matrimoni, dotando le ragazze povere senza richiedere, come si diceva facessero i suoi antenati fino al suo genitore, certi diritti contro cui i contadini non osavano di ribellarsi. Nel comune, nella matrice, decurioni e canonici non deliberavano niente prima di domandarsi: - Che ne dirà il marchese? - E quando il marchese aveva risposto: - Fate cosí! - la sua parola diventava sentenza inappellabile; si faceva cosí. Il '60@ '60 aveva cangiato di punto in bianco ogni cosa. A R*** quattro teste sventate, come il marchese le qualificava, avevano fatto la rivoluzione senza consultarlo, ed erano andati ad attaccargli la bandiera tricolore a una delle colonne del portone, quasi per significargli che il suo regno era finito. Il marchese aveva avuto tanto spirito da non far togliere la bandiera, nell'attesa che i soldati del re venissero a toglierla loro, come nel '49@; '49; e si era chiuso in casa, stupito ogni giorno piú che la «rivoluzione» prendesse piede, ma pur lusingandosi sempre che, non ostante Garibaldi e Vittorio Emanuele, il buon diritto, quello dei Borboni, dovesse finalmente trionfare. Poi, deluso, si era rassegnato, con una vaga speranza in fondo al cuore, che il guardiano dei pp. cappuccini prima e, dopo, don Paolo Forti alimentavano fiaccamente recando, di tratto in tratto, qualche notizia lassú di quel che avveniva nel mondo e che il marchese ascoltava con orecchio diffidente, crollando la testa per compiangere la tristizia dei tempi. Egli e la marchesa vivevano smarriti pei saloni del palazzo, tra le poche vecchie persone di servizio tenute in segregazione assieme con loro; egli occupandosi a riordinare antiche scritture di famiglia, oppresso dal rammarico che il titolo di marchese di Santacroce dovesse passare, dopo la sua morte, a un lontano parente col quale da quasi mezzo secolo, per ragioni d'interessi, i Santacroce non avevano avuto piú relazione di sorta alcuna; la marchesa immersa in pratiche religiose o di carità nascosta, specialmente da che la marchesina era stata affidata alle cure della settantenne zia del marchese, badessa in un convento di benedettine in Catania. Otto anni dopo, essi si erano figurati di ritirare dal convento una ingenua educanda e invece si erano trovati dinanzi una giovine seria, chiusa, che aveva negli occhi e nella fronte qualche cosa d'incomprensibile e d'inquietante. Il marchese avea notato subito che la loro figliuola parlava poco. Infatti rispondeva con semplici monosillabi alle interrogazioni. La marchesa domandandole un giorno se era stata contenta della vita di convento, avea sentito rispondersi: - Non lo so -. E non si era attentata di chiederle spiegazioni di quelle strane parole. La vecchia badessa l'aveva molto viziata, un po' facendole fare quel che piú le pareva e piaceva, un po' - e non ce n'era bisogno - sviluppando coi consigli e con l'esempio l'alterigia naturale in una Santacroce per eredità e pel prestigio del nome. La marchesina Cecilia, o Cilia , come la chiamavano, non era una bellezza appariscente. Le linee del viso rigide, quasi dure, e il naso solido e aquilino della sua razza venivano però raddolciti dagli occhi neri e grandi e dalle labbra tumide e sensuali. Il mento, solido anch'esso, ne indicava il carattere fermo, ostinato, e la voce, gutturale ma sommamente melodiosa, dava alle sue parole un'indefinibile malia che non faceva badare alla bassa statura della sua personcina e alla lieve sproporzione tra il busto e le gambe per cui somigliava alla madre. Dalla madre aveva ereditato anche le mani piccole con dita sottili e i piedini ben fatti, le une e gli altri suo orgoglio in convento tra le quattro educande di nobili famiglie con le quali aveva avuto qualche contatto, perché una Santacroce, diceva la zia badessa, doveva stimarsi tale da dover tenere in distanza la «nobiltà» che poteva contare appena due secoli di esistenza. Cosí, durante gli anni passati tra le monache, ella si era sentita invadere da un senso di isolamento e di tristezza irrequieta, di mano in mano che i ricordi dell'infanzia vissuta nel malinconico palazzo di R*** le si erano schiariti nella memoria, quasi costringendola a rivivere con l'immaginazione quelle giornate interminabili, quelle serate paurose delle quali ora comprendeva meglio tutta la vacuità e tutta la desolazione e a cui neppure il suo orgoglio di casta riusciva a farla compiutamente rassegnare. A traverso le doppie grate del parlatorio, a traverso la grande grata di legno dorato del coro che dominava dall'alto la chiesa luminosa, piena, le domeniche, di elegante pubblico di signore e di signori accorsi ad assistere alla messa cantata, uno sbuffo, un'onda, un profumo di vita piú allegra, piú agitata penetrava nel convento, dove non tutte le monache erano, quantunque di nobili famiglie, impassibili e fredde come la zia badessa, né cosí assorte nelle pratiche religiose da sfuggire, quali pericolose e malsane, le relazioni col mondo profano. La zia le avea ripetuto, in parecchie occasioni, che la sua condizione la destinava a un'alleanza con qualcuna delle poche famiglie siciliane degne di ricevere l'onore di accogliere - poiché il Signore avea voluto cosí! - l'ultimo bagliore dei Santacroce. Anche la badessa reputava immensa disgrazia che quel titolo dovesse passare, per mancanza di erede maschio, a uno del ramo cadetto quasi povero e incapace di portarlo con la dignità e l'austerità mantenute onorevolmente finora. E siccome, parlandole del futuro matrimonio, la badessa soggiungeva sempre: - A questo penseranno i tuoi genitori; ci penserò pure io, se il Signore vorrà concedermene la grazia! - l'idea che la coscienza e la volontà di lei non dovessero contare per niente nella decisione intorno all'avvenire che l'attendeva le aveva lungamente torturato l'animo, inasprendoglielo sordamente e fortificandolo - forse invano! ella rifletteva - per una lotta nella quale già capiva di dover essere perditrice. E ogni volta che la zia tornava a parlargliene, la marchesina fissava negli occhi quel viso pallido, rugoso, con labbra sottili e un che di maschile nei lineamenti che le rammentavano quelli del padre. E le sembrava di scorgere nella voce lenta e sommessa della vecchia monaca benedettina un accento di rancore e di rimpianto, misto con un altero senso di rassegnazione che avrebbe voluto nascondere o attenuare quel rimpianto e quel rancore. Era stata, forse, vittima anche lei delle circostanze e dei pregiudizi di razza, sacrificata a un primogenito, eliminata dalla vita comune per quell'inesorabile volontà che non avrebbe consultato neppur lei il giorno in cui suo padre ne avrebbe deciso la sorte! E si era sentita oppressa, sopraffatta dalla fatalità, rientrando in quel palazzo dei Santacroce isolato lassú in cima alla collina di R***; e che le sembrava assai piú cupo del convento, dove almeno le pratiche e le feste religiose servivano da distrazione giornaliera e da svago impazientemente atteso e quasi infantilmente goduto. La messa che don Paolo Forti veniva a dire, le domeniche e le feste, nella cappella di famiglia era cerimonia fredda e compassata, in confronto anche della messa bassa di tutti i giorni a cui ella aveva assistito in convento. Quei quattro ceri accesi davanti al quadro di santa Margherita da Cortona, quell'altare disadorno, con la predella di legno che risonava sotto i grossolani scarponi del prete a ogni passo ch'egli moveva, quei vecchi seggioloni col piano e le spalliere coperti di cuoio, dietro i quali ella udiva il sommesso borbottio del rosario e i colpi di tosse delle poche persone della servitú inginocchiate sul freddo pavimento di mattoni di Valenza, le mettevano tale sgomento e tale tristezza nell'animo che le impedivano di concentrarsi e di pregare. E durante la settimana? Una o due visite di vecchie signore e lo spettacolo della campagna che si stendeva, a perdita d'occhio, a piè della collina, fino alla catena delle Madonie coperte di neve e fino alle falde dell'Etna che, sotto il sole, svaniva quasi sul cielo azzurro, niente altro. Giacché i balconi della camera e del salottino della marchesina rispondevano su la parte opposta a quella dove stava arrampicata la cittaduzza di R*** e i balconi delle stanze che guardavano da questo lato, per ordine del marchese, rimanevano sempre chiusi a testimoniare la sua protesta contro le «novità» finché esse duravano e che, contro ogni sua illusione, persistevano a durare. Fortunatamente in convento ella aveva appreso a suonare il pianoforte e vi si era appassionata sotto la direzione della suora che insegnava il canto fermo alle educande. E tutta quella vecchia musica sacra più particolarmente studiata avea sviluppato in modo severo il suo gusto. Il Palestrina, il Bach, lo Scarlatti, il Mozart, le erano divenuti cari anche per le difficoltà da superare nell'esecuzione. Soltanto all'uscita del convento ella avea voluto provvedersi di una larga scelta di cose moderne, accettando tutto quel che dal negoziante di musica le era stato proposto; e il suo salottino appartato, da mattina a sera, risonava di melodie prima ignorate, ora studiate e interpretate con fina intelligenza e che divenivano tale rivelazione per lei da darle fremiti, da agitarla e lasciarla stanca e spossata dopo le molte ore consacrate ad esse in quelle giornate di primavera cosí splendide e cosí eccitanti nella solitudine della sua vita. Don Paolo Porti aveva intuito sin da principio che qualche cosa di segreto, d'inafferrabile stava in fondo all'animo della giovane silenziosa, e avea tentato di scoprirlo nella confessione, consigliato dalla marchesa; ma inutilmente. E fermatosi, quella domenica, su la soglia della camera tenuta al buio, mentre la marchesa entrava ad annunziare alla figlia la insolita visita, egli non sperava affatto di essere piú fortunato nel nuovo tentativo. La marchesa avea aperto gli scuri, invitando don Paolo a farsi avanti. - Ho pregato per voscenza nel sacrificio della santa messa - egli disse dopo alcune parole di scusa pel disturbo di quella visita. - Brutta cosa l'emicrania! Ne soffro pure io qualche volta ... - Grazie! - rispose la marchesina che aveva aperto gli occhi, senza moversi dalla posizione in cui si trovava. Don Paolo si sentí turbare dagli sguardi di sospetto e di diffidenza con cui si vedeva fissato. Appena la marchesa, col pretesto di un ordine da dare, lo lasciava là, seduto a piè del lettino dove la marchesina era coricata vestita, coperta soltanto fino a metà del corpo con uno scialle, egli abbassava gli occhi e non trovava parole per riprendere la conversazione. - Indovino perché mammà vi ha condotto qui - disse la marchesina, rompendo il lungo intervallo di silenzio, quasi impietosita dell'imbarazzo del prete. - Che cosa vogliono da me? - Quel che una figlia rispettosa e obbediente deve ai suoi genitori. Le parlo da indegno ministro di Dio, da confessore. - Mi vogliono maritare con uno che non conosco neppure di vista. - Pensano all'avvenire di voscenza, alla sua situazione nel mondo. E giacché si sono decisi per questa scelta, vuol dire che vi trovano tutte le eccellenti condizioni morali e materiali degne della loro nobilissima casa. I genitori s'ingannano di rado. - E il mio cuore non conta nulla? - Il suo cuore sarà tutto della persona che avrà la fortuna di sposarla. Voscenza ha l'esempio della mamma, di una santa ... - E se ... Ella s'interruppe, irrigidendosi, facendo un visibile sforzo di contenersi. - So che ha risposto con un rifiuto - disse il prete. - Oh! Una Santacroce non deve avere volontà di fronte ai genitori. Vi sono doveri che s'impongono innanzi tutto quando si occupa, per nascita, una posizione elevata come la sua. Le donne della famiglia Santacroce sono state sempre mirabili modelli su questo punto. La signora marchesina non vorrà dare un gran dispiacere a suo padre ... che ha già impegnata la parola col barone di Pietrerase. Gran signore anche lui, il barone ... Il principe suo fratello non ha figli ... Io le auguro di vederla principessa, un giorno o l'altro. Il titolo toccherebbe di diritto al barone. I Cavanna, dice bene il signor marchese, non possono competere coi Santacroce per nobiltà, ma sono tra le piú illustri e ricche famiglie siciliane. - E se io volessi sposare un altro? - lo interruppe la marchesina sollevandosi sopra un gomito e appoggiando la testa sul palmo della mano. - Mi confido col confessore ... Sono stata di poco coraggio; non ne ho detto niente a mia madre. - Un altro? ... Chi? Giacché mi parla come a confessore ... - Il nome non importa ... per ora. - Se è degno della sua famiglia, il marchese certamente non si opporrà. - Non è nobile, né ricco. - In questo caso ... Una Santacroce non può discendere in basso. Sarebbe un gran dolore pei suoi genitori; sarebbe un fatto senza precedenti in famiglia ... una cosa impossibile! - Rimarrò zitella. - La signora marchesina deve riflettere ... - Ho riflettuto. Non credo che si voglia la mia infelicità. - Se la prepara voscenza stessa, con le proprie mani. Non si ostinerà, oso di lusingarmi. Io, suo confessore, non verrei a consigliarle di sottomettersi, se credessi di fare opera contraria al mio sacro ministero. Non si offenda se immagino che la poca esperienza del mondo, la giovinezza, e, forse, una mal riposta passioncina la illudono in questo momento. - Al confessore si deve dire tutto. Mi sarei confidata con mammà se non sapessi che ella non ha altra volontà all'infuori di quella di mio padre. Ho voluto risparmiarle un dispiacere. Dirò tutto al confessore. Sí, io amo un altro, da due anni, e so di essere amata. Tutti e due abbiamo però compreso le difficoltà che oggi si oppongono alla nostra unione, e ci siamo rassegnati. Se mio padre vorrà disporre di me altrimenti, io forse non resisterò ai suoi ordini, quantunque in questo momento sia già decisa a resistere. Avrà un gran peso su la coscienza mio padre! Quel che farò dopo non so ... - Niente che possa recar disonore alla sua nobile famiglia, ne sono sicuro - la interruppe don Paolo. - Il barone di Pietrerase è un gran signore anche lui; saprà darle tutte le felicità che si possono conseguire in questo mondo ... - Preferirei di essere infelice ma libera di agire a modo mio. - Guardi, marchesina. Crede voscenza che io sia un cattivo prete? Ho i miei difetti ... ma, insomma! ... Ebbene io sono stato fatto prete per forza. Mio padre mi mise il collare da chierico a dieci anni; poi mi mandò in seminario ... E una volta che ebbi l'ardire, prima di prendere gli ordini minori - ero grande e grosso, a diciotto anni - una volta che ebbi l'ardire di dirgli che avrei voluto essere medico, avvocato, agrimensore, o altro ma non sacerdote, mio padre mi schiaffeggiò come un ragazzino, mi saziò di pugni e pedate - era manesco, Dio l'abbia in gloria! - e cosí mi levò di capo ogni voglia di ribellarmi alla sua volontà. Ora dico che fece bene. Sono contento del mio stato; e quando osservo tanti altri che furono in seminario con me, e che buttarono via il collare anche dopo di aver ricevuto gli ordini minori, benedico quegli schiaffi, quei pugni, quelle pedate. - E se suo padre si fosse ingannato? Se lei fosse riuscito un cattivo prete? - Bisogna aver fede in Dio, marchesina! ... Che cosa dovrò dunque riferire alla marchesa? Attende ansiosamente la risposta, povera signora. Forse, se dipendesse da lei ... - Ditele che le chiedo perdono del dispiacere che le faccio, ma che rifiuto, rifiuto ... rifiuto! Mi lascino in pace. Vogliono sbarazzarsi di me? Io non do noia a nessuno in questa casa ... Perché mio padre dovrebbe mantenere la sua parola al barone? ... Poteva darla? - Allora ... - rispose don Paolo, esitando - Allora sarà meglio fare cosí. Dia retta al mio consiglio. Io riferirò al marchese e alla marchesa che voscenza, da figlia buona e obbediente, si sottomette alla loro volontà ... Mi lasci dire. La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

L'altrui mestiere

680045
Levi, Primo 1 occorrenze

Nel gran respiro e nel gran riso di Pantagruele è racchiuso il sogno del secolo, quello di una umanità operosa e feconda, che volge le spalle alle tenebre e cammina risoluta verso un avvenire di prosperità pacifica, verso l' età dell' oro descritta dai latini, non passata né lontanamente futura, ma a portata di mano, purché i potenti della terra non abbandonino le vie della ragione, e si conservino forti contro i nemici esterni ed interni. Questa non è speranza idilliaca, è robusta certezza. Basta che lo vogliate, ed il mondo sarà vostro: bastano l' educazione, la giustizia, la scienza, l' arte, le leggi, l' esempio degli antichi. Dio esiste, ma nei cieli l' uomo è libero, non predestinato, è "faber sui", e deve e può dominare la terra, dono divino. Perciò il mondo è bello, è pieno di gioia, non domani ma oggi: poiché ad ognuno sono dischiuse le gioie illustri della virtù e della conoscenza, ed anche le gioie corpulente, dono divino anch' esse, delle tavole vertiginosamente imbandite, delle bevute "teologali", della venere instancabile. Amare gli uomini vuol dire amarli quali sono, corpo ed anima, "tripes et boyaux". L' unico personaggio del libro che abbia dimensioni umane, e non sconfini mai nel simbolo e nell' allegoria, Panurgo, è uno straordinario eroe a rovescio, un condensato di umanità inquieta e curiosa, in cui, assai più che in Pantagruele, Rabelais sembra adombrare se stesso, la propria complessità di uomo moderno, le proprie contraddizioni non risolte, ma gaiamente accettate. Panurgo, ciurmadore, pirata, "clerc", volta a volta uccellatore e zimbello, pieno di coraggio "salvo che nei pericoli", affamato, squattrinato e dissoluto, che entra in scena chiedendo pane in tutte le lingue viventi ed estinte, siamo noi, è l' Uomo. Non è esemplare, non è la "perfection", ma è l' umanità, viva in quanto cerca, pecca, gode e conosce. Come si concilia questa dottrina intemperante, pagana, terrena, col messaggio evangelico, mai negato né dimenticato dal pastore d' anime Rabelais? Non si concilia affatto: anche questo è proprio della condizione umana, di essere sospesi fra il fango e il cielo, fra il nulla e l' infinito. La vita stessa di Rabelais, per quanto se ne sa, è un intrico di contraddizioni, un turbine di attività apparentemente incompatibili fra loro e con l' immagine dell' autore che tradizionalmente si ricostruisce dai suoi scritti. Monaco francescano, poi (a quarant' anni) studente in medicina e medico all' ospedale di Lione, editore di libri scientifici e di almanacchi popolari, studioso di giurisprudenza, di greco, d' arabo e d' ebraico, viaggiatore instancabile, astrologo, botanico, archeologo, amico di Erasmo, precursore di Vesalio nello studio dell' anatomia sul cadavere umano; scrittore fra i più liberi, è simultaneamente curato di Meudon, e gode per tutta la sua vita della fama di uomo pio ed intemerato; tuttavia lascia di se stesso (deliberatamente, si direbbe) il ritratto di un sileno, se non di un satiro. Siamo lontani, siamo all' opposto della sapienza stoica del giusto mezzo. L' insegnamento rabelaisiano è estremistico, è la virtù dell' eccesso: non solo Gargantua e Pantagruele sono giganti, ma gigante è il libro, per mole e per tendenza; gigantesche e favolose sono le imprese, le baldorie, le diatribe, le violenze alla mitologia e alla storia, gli elenchi verbali. Gigantesca sovra ogni altra cosa è la capacità di gioia di Rabelais e delle sue creature. Questa smisurata e lussureggiante epica della carne soddisfatta raggiunge inaspettatamente il cielo per un' altra via poiché l' uomo che sente gioia è come quello che sente amore, è buono, è grato al suo Creatore per averlo creato, e perciò sarà salvato. Del resto, la carnalità descritta dal dottissimo Rabelais è così ingenua e nativa da disarmare ogni intelligente censore: è sana e innocente e irresistibile come lo sono le forze della natura. Perché Rabelais ci è vicino? Non ci assomiglia certo, anzi, è ricco delle virtù che mancano all' uomo d' oggi, triste, vincolato ed affaticato. Ci è vicino come un modello, per il suo spirito allegramente curioso, per il suo scetticismo bonario, per la sua fede nel domani e nell' uomo; ed ancora per il suo modo di scrivere, così alieno da tipi e regole. Forse si può far risalire a lui, e alla sua abbazia di Telema, quella maniera oggi trionfante attraverso a Sterne e Joyce di "scrivere come ti pare", senza codici né precetti, seguendo il filo della fantasia così come si snoda per spontanea esigenza, diversa e sorprendente ad ogni svolta come una processione di carnevale. Ci è vicino, principalmente, perché in questo smisurato pittore di gioie terrene si percepisce la consapevolezza permanente, ferma, maturata attraverso molte esperienze, che la vita non è tutta qui. In tutta la sua opera sarebbe difficile trovare una sola pagina melanconica, eppure Rabelais conosce la miseria umana; la t ace perché, buon medico anche quando scrive, non l' accetta, la vuole guarire

Pagina 0015