Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandoni

Numero di risultati: 5 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

ARABELLA

663078
De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Sul tavolino erano rimasti molti fogli di una lettera, scritta da lei nel furore d'uno spasimo mortale, e da quei frammenti il giovane aveva imparato a conoscere a quali gridi si abbandoni un'anima che insorge e che ricade accasciata sotto il peso delle cose. La storia di questi dolori era scritta anche sul volto appassito, nella bellezza attenuata, nel disordine della persona, nello sguardo intimidito e assente: e parlava nella voce, una voce che avreste detto venire da una donna sopravissuta a una tremenda catastrofe. "O Ferruccio, come sta? meglio?" "Sissignora, sto bene." "È pallidino ancora..." "Sono venuto a ringraziarla." "Suo padre?" "Son venuto anche a nome suo..." "Dimentichiamo..." "Oh! ne abbiamo bisogno..." "Pensi a guarir bene e si lasci veder presto alle Cascine." "Lei parte…" "È necessario: ho troppo bisogno di riposare. Venga e parleremo di questi interessi." "Verrò, sissignora." "Lei non ci abbandonerà..." disse, stendendogli lentamente la mano. "Oh no!... se lei comanda..." "Dobbiamo far del bene insieme." Egli non poté più cucire due sillabe. "Saluti la buona zia Colomba: verrò presto a ringraziarla." E serrando la mano del giovine nella sua, seguì papà Paolino, che aspettava presso una vettura. Ferruccio stette appoggiato al muro, cogli occhi incantati sulla carrozza, che si allontanava e si impiccioliva in mezzo al via vai e al frastuono della città. Sognava ancora a occhi aperti.

Lorenzo non era un giovane antipatico, il partito era bello, magnifico, il dir di no sarebbe stato per parte sua una crudele ostinazione; ma quando l'anima è abituata a trovare ne' suoi abbandoni spirituali i teneri calori della carità e della fede e la pia corrispondenza d'un amore senza confini, è naturale che titubi paurosa davanti a un bel matrimonio di convenienza. Avrebbe essa potuto amare suo marito? Ora provava qualche cosa di duro e d'irritato nel cuore che la metteva in sospetto. Anche nel matrimonio si possono commettere dei sacrilegi, si può perder l'anima, quando manca la perfetta comunione degli spiriti; e ancora non sentiva di voler bene abbastanza allo sconosciuto, a cui doveva cedere tutta se stessa. Alle Cascine essa non aveva compagne della sua età e della sua condizione, alle quali potesse chiedere un consiglio, e delle sue amiche di collegio poche erano in grado di fornirle degli schiarimenti. Solamente Maria Arundelli era andata a stabilirsi a Milano, moglie a un professore di ginnasio, ma durante le vacanze non stava mai in città. La mamma, povera donna, mezza disfatta per la morte del suo Bertino, non vedeva e non ripeteva che una sola idea, anzi quasi non la ripeteva più, come se non ce ne fosse più bisogno. Badava invece a persuadere Arabella a smettere i vestiti del collegio, che la facevano comparire goffa e senza corpo. L'unica persona a cui la ragazza soleva chiedere qualche soccorso spirituale e qualche morale consolazione era la povera Angelica, una giovane contadina di ventitré anni costretta a letto da una paralisi alle gambe e alla spina dorsale. Abitava un cascinale poco distante dalla Colorina, cara alla sua povera gente, quantunque così malata, o forse perché così malata, per quel sentimento di simpatia che stringe i forti ai deboli bisognosi, sentimento che la bontà, la rassegnazione dell'inferma e la continuità delle cure rendevano ogni giorno sempre più profondo e raffinato. I Malgascia erano persuasi che le orazioni e i patimenti rassegnati della loro Angelica facevano bene alla casa, come se il Signore avesse incaricato lei di soffrire per tutti. Se la gragnuola non batteva il loro campo, se il loro fieno era meno bruciato, se il fuoco non aveva mai toccata la loro paglia, se le bestie stavan bene, il merito era di quella povera anima del purgatorio che, bella come un angelo, non si lamentava mai, non si lamentava mai. Il male, il letto, il vivere sempre rinchiusa avevano non solo educata la coscienza, ma ingentiliti anche i lineamenti della ragazza, che dal suo guanciale sorrideva dolcemente con un raggio di pia rassegnazione a chi entrava a salutarla e a portarle qualche regaluccio. Le sue mani delicate e scarne lavoravano tutto il giorno nella biancheria della casa e in qualche cuffietta o babbuccia di bambini; e spesso, quando il sole batteva vivo sulle impannate di carta, come se si movesse in lei più forte il senso della vita, lasciavasi condurre a intonare le litanie con una voce che la sentivano dal mezzo della campagna. La domenica accorrevano le ragazze dei dintorni a trovarla. Sedute intorno al letto messo pulito, in bianco, come quello di una sposa, ciascuna contava la sua, o invocava un'orazione speciale per i suoi malati. Tutte poi se ne andavano coll'animo edificato, come quando si vede un castigo immeritato santificare un'anima. Anche Arabella veniva spesso a tener compagnia all'inferma. Povera, illetterata, chiusa nel breve circolo delle sue sensazioni casalinghe, Angelica s'incontrava coll'anima viva e penetrante di Arabella in un terreno fuori del mondo, dove le anime parlano tutte lo stesso linguaggio, dove la scienza non è che una illusione perduta, per chi ha perduto il suo tempo ad acquistarla, dove i dolori e i patimenti di quaggiù hanno una ragione, anzi la sola ragion d'essere. Arabella, prima di dire l'ultima parola, volle consultare come un oracolo l'inferma, che molte volte le aveva parlato con una chiaroveggenza meravigliosa. Dio si manifesta nelle anime che soffrono, più che nella luce del sole. Per il viale dei salici giunse al cascinale un dopo pranzo, mentre la gente era sparsa sui lavori della campagna. Entrò, come soleva, salì la scaluccia di legno, spinse l'uscio della camera. Angelica, rivedendola, batté le due mani e gridò: "Viva la sposa!..." Allargò le braccia, nelle quali Arabella si gettò coll'abbandono di una bambina smarrita che trova la mamma. E cominciò a piangere. "Perché, perché?" chiese Angelica, carezzandola. "Lasciami piangere. A casa non posso mai… Ho bisogno di sollevarmi il cuore. Tu mi compatisci, non è vero? Ecco, mi sento già meglio" soggiunse, asciugandosi gli occhi e accostando la sedia al letto. "Sento dire che questo matrimonio è una fortuna per tutti." "Sì, è una fortuna: ma anche le fortune fan paura e io ero così lontana da quest'idea, tu lo sai. Io avevo promesso alla Madonna che le avrei regalato questi capelli per la pace del mio povero papà. Non si rinuncia senza dolore alla vocazione di tutta la sua giovinezza, e tu devi aiutarmi, Angelica, a vincere questa ripugnanza, perché sento che ho torto e che devo restituire a' miei parenti il bene che mi hanno fatto. Anche il signor curato mi ha rimproverata e me ne ha fatto uno scrupolo. Guai se io dicessi di no! Sarebbe come se io volessi rovinare la casa sulla testa della mia gente. Ma qui, qui..." e colla mano segnava il cuore "qui c'è qualche cosa di morto, di troppo freddo, di troppo duro, che non risponde alla chiamata, che rabbrividisce all'idea delle responsabilità che mi aspettano a Milano. Bisogna che tu preghi per me, Angelica, e interponga presso il Signore i meriti della tua pazienza, perché io possa amare l'uomo che devo sposare e che domani sarà padrone di me. Ah Dio! Dio...!" Arabella, respirando profondamente, si coprì il volto colle mani presa da un brivido quasi di terrore che le traversò tutto il corpo; e cadde in ginocchio nella stretta del letto, appoggiando la testa sulle mani della contadina. Dalle impannate socchiuse entrava, insieme al riverbero verde e al tremolio delle foglie del vicino pioppo, il soffio caldo dell'aria che scorreva sui prati. Nell'aia deserta chiocciavano le gallinette. La gran pace dei caldi meriggi di settembre cadeva sul casolare isolato nel verde e penetrava nella rustica stanza dell'inferma non addobbata che da piccoli quadri, da corone e da immaginette attaccate all'uscio. Angelica, che per un'intuizione delicata del suo organismo sentiva più in là di quel che dicessero le parole, commossa da un senso di mistica pietà capì e compatì la ripugnanza della vergine, apprezzò il suo sacrificio, e parlando come soleva nei momenti d'ispirazione, col tono elevato e profetico di chi espone più una dottrina che dei pensieri propri, prese a dire senza levar la mano dalla testa della sua compagna: "Comprendo che tu abbia a rimpiangere la tua vocazione, povero giglio del giardino della Madonna. Che cosa di più bello della santa castità? essa ci accosta agli angeli. Che cosa di più caro della nostra verginità, che ci fa tutte figlie di Maria? Essere così vicine al sacro tabernacolo e sentirsi strappare via è un gran dolore. E tu avevi consacrata a un'anima bisognosa questa tua vita di pensieri puri e immacolati, ma Dio non vuole, cioè Dio vuole da te qualche cosa di più grande, di più bello. Non tocca a noi scegliere la nostra strada nel mondo. Oh, se così fosse, chi vorrebbe essere ammalato, chi vorrebbe veder morire i suoi figliuoli, chi stentare tutta la vita per morire povero e solo in un ospedale? Se la strada del tuo dovere è diversa da quella che tu avevi scelta, cara figlia della Madonna, non devi dire che Dio s'inganna o che vuol troppo da te. Non è mai troppo il bene che si fa. Difficilmente il nostro dovere va d'accordo col piacer nostro. La croce è dappertutto e per tutti; e dappertutto tu sarai obbligata ad avere della pazienza. Tutti ne dobbiamo avere: tu che stai per entrare nel mondo, io che da quindici anni non esco da questo letto, tuo padre e tua madre che lavorano pei loro figliuoli, colui che semina, colui che raccoglie, chi ha il campo bello, chi lo vede battuto dalla tempesta. Dalla pazienza viene il coraggio e dal coraggio viene l'amore che fa piacere i nostri dolori. Gesù sulla croce non sentiva i chiodi, perché il suo dolore era immerso nell'amore: e tu non sentirai le spine del tuo sacrificio, perché nell'amore per tuo marito, per tuo padre, per tua madre, per i tuoi figliuoli, troverai il pagamento di ciò che perdi. E l'anima tormentata a cui volevi consacrare la tua vita ne guadagnerà, perché ciò che solleva le anime è il sacrificio. Apri il cuore, cara figlia della Madonna," continuò l'inferma alzando le due mani come se celebrasse un rito "e pensa che ciò che tu soffri in questo momento è ben poco in paragone della disperazione e dell'abbattimento dei tuoi parenti, se tu rifiutassi l'offerta della Provvidenza." Un freddo fremito di venerazione scosse Arabella nell'intendere parole che parevano venire da un mondo remoto. L'occhio di Angelica era splendente e sereno, la sua voce calda, misteriosamente eccitata ed eloquente, come se veramente parlasse in lei uno spirito superiore. Forse era vero quel che dicevano i suoi, che in certi momenti essa aveva l'ispirazione divina. Arabella alzò la testa e lasciò che Angelica accomodasse un poco i suoi capelli scomposti dall'agitazione e per la prima volta vide la possibilità di considerare se stessa e le cose della sua vita sotto un lato meno ristretto e meno personale. Mentre prima essa sforzavasi a collocare se stessa in un piccolo dovere scelto da lei e accomodato ai suoi istinti, ora sentì quel che vi può essere di nobile e di santo nella rinuncia della volontà. La monachella lasciavasi trascinare dall'ordine delle cose a compiere il dovere scelto da Dio. Stringendo le mani di Angelica, contemplando la miseria e la nudità di quella povera stanza, dove l'infelice compieva pregando, sorridendo e cantando, il suo lento sacrificio, l'anima viva e impressionabile della giovinetta provò un principio di quell'entusiasmo, che faceva così felici gli altri all'idea del suo matrimonio. Rimase in compagnia dell'ammalata, in intimi e caldi discorsi, finché il sole non cominciò a nascondersi dietro i pioppi, e se ne venne via col cuore cambiato. Scese la scaluccia, e attraversata l'aia, infilò il viale, sentendosi un gran calore al viso, come se avesse attraversato una fiamma. Sul crocicchio delle due stradette s'incontrò in papà Paolino e gli si mise al fianco. Il buon uomo, dal dì che aveva posta sul tappeto la questione del matrimonio, non più osava guardar in viso la figliuola adottiva, per paura che il suo sguardo avesse a pesar troppo nell'anima della fanciulla. Da dieci o dodici giorni egli viveva col cuore sospeso in croce. Il suo destino dipendeva da una parola di lei. Camminarono un tratto in silenzio lungo il canale, rasentando la chiesuola di mattoni, che si crogiolava nel raggio rubicondo del tramonto, quando Arabella a un tratto si arrestò: "Papà," disse con un leggiero tremito di voce "potrò rivedere ancora una volta le mie buone suore di Cremenno?" "Quando?" egli disse con uno sforzo di voce. "Prima di andar laggiù, a Milano" soggiunse sorridendo e indicando la punta del Duomo, che usciva di tra le piante lontane. Papà Paolino, non potendo resistere alla commozione, cercò la mano della figliuola, se la portò alla bocca, la baciò, bagnandola delle sue grosse lagrime, crollando il capo, come se cercasse inutilmente di contraddire: e continuarono in silenzio la strada fino a casa.

"Maria, se anche tu mi abbandoni..." "Io non ti abbandono, ma tu adesso sei alterata dal dolore e parli a sproposito. Ti aiuterò certamente, ma non mi pare il caso di avvilirsi a questo modo e di disperare della Provvidenza." "Non nominare la Provvidenza. Sapessi, Maria, quante volte fui sul punto di negare questa Provvidenza che ci hanno insegnato a invocare nelle nostre necessità. Che cosa ha fatto Dio per me dal giorno che sono venuta al mondo? quando ho avuto un giorno di gioia serena e intera? Da bambina ho sofferto spaventi e strazi di cuore, che mi spaventano ancora e mi fanno trasalire la notte quando mi addormento male. Tu la sai la mia storia. Ho fin patito la fame... Ho chiesto a Dio di poter abbandonare il mondo, e mi hanno risposto che il dovere era di restarci. Ebbene, che cosa ho guadagnato dal mio sacrificar tutto, vocazione, simpatie e fin la mia creatura? e chi ha guadagnato almeno per conto mio? nessuno. Io non ho cambiato nulla, non ho migliorato nulla, il fango è rimasto fango, anzi il fango è cresciuto intorno a me e invece d'amore, vedi, non ho raccolto che oltraggi, odio, tradimento. No, Maria, no: non ne posso più. Non ho più forza per resistere all'onda di questi mali. Se finora ho vissuto inutilmente per gli altri, è tempo ch'io cominci a vivere non inutilmente per me, perché" (e Arabella nel dir queste parole alzò il capo con qualche fierezza) "con questo veleno nel cuore io non posso piacere a Dio e non è con questa disperazione, che mi soffoca anima e respiro, ch'io potrò meritarmi il suo perdono. Se io resto ancora un giorno nella compagnia di questa gente, la disperazione, Maria, potrebbe montare dal cuore alla testa e allora c'è la pazzia, mia cara, c'è qualche cosa di peggio..." La figlia del povero Cesarino Pianelli si attaccò con una forza nervosa al braccio dell'amica, come per sostenersi contro un pericolo nei dibattiti convulsi del suo dolore. Chinò la testa: da accesa divenne di nuovo pallidissima e mormorò come se parlasse a se stessa: "Non ho mai compatito tanto il mio povero papà come in questi giorni..." "O Madonna, tu le perdona perché non sa quel che dice" interruppe vivamente la buona e devota Maria, coprendo colle braccia il bambino, perché non sentisse le brutte parole. "Provassi! ci son dei momenti in cui pare così necessario e così bello il morire..." "Tu sei malata, la mia figliuola" gridò la povera Maria: "tu non pensi, tu non le senti le cose che dici. Scriverò subito a mia sorella, se ciò può farti un po' di bene." "Dille che son disposta a tutto: a far scuola, a servire malati, a rattoppare dei cenci, a tutto, purché sia in un luogo dove possa dimenticare quella che sono stata." "Io farò quello che vuoi, ma promettimi che non dirai più cose spaventose. Tu mi hai fatto piangere anche Napo... Non piangere così, Napo..." prese a cantarellare al bimbo che strillava per conto suo "non ha detto sul serio la zia Arabella. Adesso l'hanno fatta soffrire ed è molto malata. Quando diverrai grande capirai anche tu, Napo, che cosa voglia dire soffrire. Anche tu ti troverai in mezzo a un mondo di tormentatori e di tormentati, ma non ti piacerà far piangere la gente, vero, Napo?" Sentendo che essa stessa non sapeva più resistere alla commozione, la buona Maria si portò il suo bimbo alla bocca, in atto di divorarlo, e soffocò i singhiozzi, asciugando alle carni molli le grosse lagrime, ripetendo la cantilena dell' Ara, bell'Ara , mentre Arabella stringevasi e contorcevasi come una foglia secca nel gelo della sua tristezza. "Promettimi che non farai piangere nessuno" seguitò la mamma cullando il bambino stretto sulla faccia "e se gli altri faranno piangere te, vieni sempre dalla tua mamma, ve', Napo: io ti beverò le lagrime, io mi piglierò i tuoi dolori, ma non maledire mai il giorno in cui ti ho messo al mondo, la mia creatura; non far questo torto alla povera tua mamma, che t'ha messo al mondo con tanti dolori e con tanta gioia. Tu non hai sentito quel che ha detto la zia Ara: non credere alle sue parole. Essa è troppo buona e troppo intelligente per ammettere che i cattivi all'ultimo abbiano a vincerla sui buoni. Essa non vede che il male in questo momento, e non ricorda tutto il bene che ha ricevuto nella sua vita e quel tesoro di beni che la facevano a scuola un modello di virtù, di buon esempio, di talento, di grazia, il tesorino delle maestre, la delizia delle sue compagne. Essa non ricorda il bene che ha ricevuto dal suo benefattore e il bene che gli ha fatto, salvandolo dalla rovina e dalla disperazione. Essa non fa nessun conto del bene che le vogliamo noi, io e te, Napo, per esempio, e parla di voler morire, così, come se non le importasse nulla di chi le vuol bene..." Arabella cadde in ginocchio e si appoggiò all'amica per chiederle perdono: ma non poté pronunciare una parola. I suoi occhi non davan lagrime e portavano dentro una forte risoluzione. Essa chiedeva perdono all'amica, ma lasciava capire che avrebbe combattuto per la difesa della sua dignità. L'uscio in quel momento si aprì e dietro alla ragazza di servizio comparve la Colomba. Questa alla sua volta, volgendosi, fece l'atto di presentare qualcuno che le teneva dietro dicendo: "Guardi chi ho condotto con me." E subito dopo, Arabella vide entrare la sua mamma. Il signor Tognino aveva mandato a pigliarla fin dalle prime ore della mattina. In casa Maccagno essa s'era incontrata colla Colomba, che veniva a implorare misericordia per il Berretta, per Ferruccio, per sé, per i vivi e per i morti. Questa poté dire ove si trovava Arabella, e si offrì di accompagnarla. Arabella le andò incontro con un sorriso addoloratissimo, e stringendole le mani nelle mani, con uno stiramento convulso dei muscoli, non seppe balbettare che il nome di... mamma. Mamma Beatrice, ansante per le scale fatte in fretta e per l'emozione, si lasciò cadere sul divano, e facendo sedere la figliuola, aspettò che questa parlasse per la prima. La Colomba e Maria sedettero sulle poltroncine davanti. Nessuna osava rompere il silenzio e tutte avevan gli occhi su Arabella. Parevano donne convenute nella casa d'un morto a piangere. Fu la Colomba la prima a rompere il silenzio. Raccontò la sua meraviglia, quando s'era vista comparire la sora Arabella in casa con un tempo disperato: raccontò la visita fatta al sor Tognino e come costui l'avesse ricevuta bene, e avesse dichiarato di esser disposto a ritirare la denuncia contro il Berretta, purché Arabella tornasse a casa e si perdonasse un poco da tutte le parti. Così stando le cose, alla Colomba non pareva il caso per il momento di irritare il sor Tognino, considerando che c'erano in lui delle buone disposizioni, e per conto suo veniva a pregare la buona sora Arabella ad aver dell'indulgenza anche lei per riguardo a un povero vecchio, che marciva in una prigione, per pietà di un povero giovine malato. Non c'era tempo da perdere: si fa presto a morire. La sora Arabella aveva visto in che stato giaceva il figliuolo: orbene essa aveva già dato a Ferruccio delle lusinghe, gli aveva detto cioè che il sor Tognino non avrebbe insistito più nel processo. Ma se il sor Tognino si metteva a giocare di puntiglio, chi salvava da una catastrofe? "Nessuno più di me sa capire e compatire" seguitò la buona donna coll'eloquenza che vien dal cuore e dal proprio interesse "ma se questo primo passo verso la conciliazione può portar subito del bene, io non vedo perché dal bene abbia in seguito a derivare del male. I conti si aggiusteranno strada facendo; ma intanto il sor Tognino ha detto: ' Arabella torni a casa e farò quel che vorrà; ma prima torni a casa '. Io parlo, cara la mia creatura, per la vita e per l'anima della mia gente: la sua mamma le dirà il resto." "E il resto è molto semplice ed esplicito" soggiunse mamma Beatrice con un tono fra l'accorato e il sostenuto. "Tuo suocero non ti dà torto, ma disapprova il modo con cui hai creduto di ottenere ragione per forza. Egli è nemico degli scandali e delle pubblicità e pare che quella donna che tu hai offeso..." "Io?..." scoppiò a dire con una risata ironica Arabella. "Abbi pazienza, tu potrai aver cento ragioni, ma non ti deve piacere di mettere i tuoi dolori in piazza. Il sor Tognino è disgustato appunto per la scenata di ieri sera, che servirà ai suoi nemici per muovergli guerra. Vedrai, ne parleranno anche i giornali... Oh! a te non te ne importa; ma devi pure ricordare che il sor Tognino ha fatto del bene alla tua famiglia." "Sì?..." interrogò con una punta di canzonatura Arabella. "Sì, sì, ne ha fatto del bene, a tuo padre e a tua madre. Ad ogni modo è uomo che, disgustato oggi, potrebbe domani rifarsi del bene che ha fatto, e allora? credi che papà Botta non deva tutto a lui, se oggi non è con cinque figliuoli sopra una strada? tu non guardi che alla tua passione, al tuo interesse e dal giorno che ti sei maritata hai sempre affettata una specie d'indifferenza per la tua famiglia. Ma se ti fossi occupata di leggere anche negli interessi di casa, avresti visto che papà Botta oggi sta in piedi solamente perché il sor Tognino lo sorregge col suo credito: e che se domani si dovesse venire a una liquidazione, non è certo il sor Tognino che deve del denaro a tuo padre e a tua madre. È subito detta una divisione! ma una divisione coniugale oggi vuol dire una liquidazione di conti. Oh il sor Tognino su questo punto stamattina mi ha parlato chiaro. O Arabella torna in casa e si rimette alla nostra discrezione o io non conosco più casa Botta. Grazie del complimento! Ciò vuol dire in poche parole una rovina peggiore della prima. Ora io non so se i tuoi diritti, se il tuo vantaggio, se il tuo puntiglio valgono proprio la disperazione di una famiglia, e se potrai essere contenta il giorno che per odio a quella donnaccia saprai d'aver messo su una strada il tuo benefattore e la tua povera mamma..." Mamma Beatrice si portò il fazzoletto agli occhi. Arabella fece un gesto colle mani per togliersi dagli occhi un velo di nebbia, che le nascondeva la vista delle cose. "Creda pure, cara figliuola," entrò ancora a dire la Colomba, ribadendo il chiodo caldo, "creda pure che il diavolo visto da vicino è meno brutto di quel che dicono. Lei è giovine e fa bene ad avere della poesia e anch'io, sa, ne' suoi panni, avrei menato non una, ma tutte e due le mani. Ma creda a me che son la più vecchia. Negli uomini non è sempre questione di cuore. Si sa, anche nostro Signore ha detto che la carne è fragile e un giovinotto non può tutt'a un tratto farsi eremita. L'esempio gli sarà servito, ma a tirar troppo si rompe la corda, mentre l'esperienza insegna che piglia più mosche una goccia di miele che un barile d'aceto. Io non so se mi spiego, ma vorrei dire insomma che in queste cose non bisogna dar troppa importanza alle prime impressioni. Io ho visto in cento altre occasioni dei mariti senza conclusione stufarsi sinceramente, tornare alla famiglia, diventare mariti modello, padri di famiglia eccellenti, tutto per merito di una brava donnina, che aveva saputo perdonare a tempo. Questo in tesi generale. Nel caso suo speciale, il mio angelo, ci penserei dieci volte prima di assumermi una responsabilità, perché, come ha sentito, c'è in gioco il bene, la vita e la morte di molt'altra povera gente." Arabella, che aveva fin qui ascoltato con pazienza e docilità, alzò il capo e sbarrò gli occhi, come se cominciasse a dubitare che si trattasse veramente di lei. Maria Arundelli pensò a non lasciar cadere in terra il discorso: "Una moglie che si divide dal marito" disse "ha sempre un poco di torto. Una divisione è sempre uno scandalo o è un rimedio che non ripara nulla, e che non fa che allargare il male, creando due spostati, ci dà in pascolo alle ciarle e alle maldicenze della gente, che non è sempre disposta a compatire. La gente non ammette mai che il torto sia tutto da una parte: va a supporre che dall'altra parte ci sia stata almeno della freddezza, della poca buona volontà, della indifferenza di cuore, e fortunata la donna di cui non si pensa che questo! Una donna divisa dal marito è un oggetto di malsana curiosità per i buoni e per i cattivi. I primi pensano che abbia fatto troppo poco per andar d'accordo; i secondi che abbia fatto troppo per non andar d'accordo. Gli uni diranno che pretendevi troppo; gli altri che sei rigida, intransigente, bigotta... e, scusa ve', o che avevi un amante." "Ah...!" fece Arabella, schiudendo la bocca a una esclamazione di stupefazione. Parlavan proprio di lei? "Non offenderti. Tu hai troppo buon cuore e troppo buon senso per non tener conto del bene che puoi fare e del male che puoi risparmiare. Qui si tratta di scegliere tra due mali il minore per te e tra due beni il maggiore per gli altri. Un bel partito sarebbe di dare un addio a queste tribolazioni e di rifugiarsi in una grotta a meditare sulla vanità e sull'afflizione delle cose di quaggiù. Ma dove non arriva la voce e il rumore del mondo, arriva sempre la voce della coscienza, il dubbio, lo scrupolo di aver comperata la propria pace a prezzo d'indifferenza, di aver sacrificato troppo all'amor proprio. Quando Arabella sentisse, per esempio, che il suo secondo padre e benefattore è stretto nei bisogni, che la sua povera mamma non trova pane pe' suoi figlioli..." "Che un povero vecchio muore in una prigione, mentre si poteva..." "Mentre si poteva guadagnare la benevolenza e le benedizioni di tutti..." "Mentre si poteva evitare degli scandali." Arabella si alzò. Le labbra si mossero coll'intenzione di dire: andiamo... ma non ne scaturì che un fremito. Fece qualche passo come se cercasse di svincolarsi da tutte quelle mani amorose, che la tenevano prigioniera, da quelle parole, da quelle tenerezze che l'avviluppavano da tutte le parti. Mamma Beatrice avvertì questo primo momento di debolezza, e, tirandola in disparte nel vano della finestra, le strinse il volto nelle mani e proseguì sottovoce: "Sai che cosa mi ha detto tuo suocero? che se tu ti fidi di lui e torni a casa, buona buona e obbediente come prima, non solo farà cacciar via quella donna e obbligherà Lorenzo a volerti bene, ma mette a tua disposizione una somma, perché tu possa disporne per le tue opere di carità. Egli voleva ad ogni costo mettermi in mano duemila lire, sapendo in che imbarazzi si naviga; ma io gli ho detto: ' No, sor Tognino, io non posso riceverli che dalle mani di Arabella. Quando Arabella sarà tornata a casa sua e avrà dato segno d'aver perdonato e dimenticato, allora soltanto potremo accettare senza rimorso qualche sussidio: prima no '. Duemila lire in questi momenti sono per noi più che una bella giornata di maggio; ma tu non soffriresti mai che noi accettassimo la carità da gente che non conosci e peggio da gente a cui vuoi male. Mentre se tu ritorni, puoi mettere dei patti nuovi e puoi domandare anche un risarcimento, non ti pare, Arabella? Vieni, fidati di tua madre, che ne ha passate di peggiori e che ha sempre messo in disparte il puntiglio e la vanità, quando si trattava del bene dei suoi figliuoli. Lorenzo capirà i suoi torti, tornerà a volerti bene, e tu potrai vivere da signora come prima; mentre io, quando il tuo povero papà mi ha lasciato sola a quel modo che sai, non avevo nemmeno da mangiare. E che spavento! e che disonore... Eppure gli ho perdonato e tornerei a volergli bene ancora se comparisse..." Un torrente di lagrime impedì a mamma Beatrice di continuare un discorso, ogni parola del quale cadeva come una pietra acuta sul cuore di Arabella. Non ci voleva che l'evocazione di una triste memoria e di un fantasma non ancor morto del tutto, per debellare l'ultima sua fortezza, per annientare quel rimasuglio d'orgoglio, che la faceva ribelle e ripugnante al suo destino. La condanna del suicida non era ancora scontata del tutto; e bisognava ch'ella mostrasse almeno di perdonare a' suoi persecutori, se voleva che gli altri perdonassero a una povera anima in pena. Non aveva promesso a Dio di consacrare la vita in espiazione? Ebbene, questa era la espiazione. Ai martiri non si concede la scelta del martirio. Come se si svegliasse da uno strano sogno, le parve di ritrovare in se stessa la buona e docile Arabella di Cremenno, arrossì un poco di vergogna, come una bambina colta a commettere un piccolo furto campestre fuori del suo orticello; strinse la mano della mamma, baciò l'Arundelli sul viso, sorrise a tutto ciò che la Colomba, ridendo e corbellando, le raccontò nel discendere le scale, si lasciò condurre per tutto il lungo del corso Genova, fino a un caffè del Carrobbio, dove la mamma la persuase a prendere una bevanda calda o a bagnare un biscotto nel vermouth... Esse avevano bisogno di scaldarsi e di rinforzarsi lo stomaco. Accettò il vermouth e il biscotto; disse sempre di sì col capo a tutte le questioni della mamma; sorrise due o tre volte anche a lei, mostrando tutte le buone disposizioni di perdonare. Ma non pronunciò una parola tutto il tempo, come se la voce fosse morta nel petto. Gli occhi fissi alla vetrina innanzi alla quale si agitava il turbinío di un popoloso quartiere nella piena luce d'una bella giornata d'aprile, essa, più indifferente che turbata, preparavasi a soffrire fino alla fine... o fin quando era necessario.

Il signor dottorino

663193
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

. - Non ci abbandoni, dottore - rispose svegliandosi di sbalzo il barone; - non ha inteso quelle strida? non ha visto quegli sguardi? Dottore, io non mi rifiuto, ma penso al modo di obbedirla. Seguí un momento di muta riflessione per entrambi, nel quale ciascuno si raccolse piú attentamente sui piú intimi affetti. Il barone man mano che si persuadeva della bontà di quel consiglio, e si disponeva a seguirlo, sentiva l'anima rallegrarsi come se uscisse da una rete sottilissima di rimorsi, di rammarichi, di odi e di grettezza; il dottore invece a cui sorrideva la certezza d'un miracolo, e che aveva tanto santamente adempiuto il proprio dovere, era meno disposto al compiacersi di sé stesso, e starei per dire che nel fondo del suo cuore pullulasse una radice amara. - Si scriva dunque al conte - disse il barone, che sebbene fosse disposto a farlo, andava cercando quella via di mezzo che non conduce gli uomini alla gloria. E continuò come se parlasse a sé stesso: - Quanto mi dice, dottore, ha tutta l'apparenza dell'utilità e sarebbe colpa d'entrambi se non si tentassero anche i rimedi eroici; ma come scriverò a don Giulio? debbo pregare o minacciare? non sarebbe piú opportuno che scrivesse per me qualche persona estranea all'offesa? - Sia pure - disse il dottore che non vide di malanimo questo breve imbarazzo del barone. - Se scrivere al conte fosse delle mie forze crede ella che io non l'avrei già fatto? - È una lettera difficile, ne convengo. - Difficilissima per me, non per una terza persona che senza preoccupazioni la scrivesse come da uomo onesto a uomo onesto; supponga che il conte sia ancora un uomo onesto. - Si cerchi un amico comune il quale s'incarichi di questo atto di carità. - Io vivo solo da un anno, né conosco persona piú adatta di lei, dottore... - Io? - disse il dottore con eccessiva sorpresa. - Chi meglio di lei può narrare al conte la miseria di Severina? come medico e amico mio si presenta a don Giulio, non in mio nome, s'intende, ma in nome della scienza e della umanità. - Ma io, sconosciuto al conte... - balbettò il dottore. - Un uomo che ha persuaso me, saprà persuadere anche don Giulio, ma voglio che la lettera abbia un carattere segreto, come se io non ne sapessi nulla, ed ella mi tendesse una rete amorosa. - Ebbene, quando ella vuole... Il dottorino che pareva alquanto umiliato alzò di subito la fronte e disse: - Scusi, Eccellenza, ma chi sa dove il conte si trovi? - Io lo so: da un anno lo seguo coll'occhio per tutta Europa e ciò prova che da un anno teneva in petto il desiderio di riaccostarmi a lui. Fra poco le farò avere l'indirizzo. - Va bene! - mormorò Marco col tono di chi dica: Pazienza! - Ella è mio ospite e padrone della mia casa. Il barone incrociate le braccia al petto si fece a considerare il volto di Marco, che sorrise mestamente: - Dottore - disse - ella è un uomo generoso e forse in questa rara virtù sta il segreto de' suoi miracoli. Accetta la mia amicizia? - Come onore e come ricompensa. Si strinsero la mano commossi e mentre il barone, tocco dalle parole del suo giovane amico, sentivasi inclinato perfino a perdonare, il dottorino non pareva troppo festoso di questi trionfi, e non poteva impedire che un maligno demonio non gli soffiasse nell'orecchio una parola strana, non mai compresa, e di minaccia contro un uomo lontano, non mai conosciuto e punto invidiabile. Egli doveva invitare quest'uomo in nome dell'umanità e della scienza alle dolcezze de' baci di Severina... Diciamolo: il dottorino incominciava a odiare. La storia della fanciullezza di Severina somiglia a quella di molte fanciulle gentili, cui la modestia cela agli occhi de' curiosi e piú a loro stesse. Le preghiere confidate alla mamma, i consigli materni, la lettura scelta, la compagnia onesta avevano fatto sí che a quella tenera età in cui la vita non è che un miscuglio dell'anima col corpo, esistessero già in lei uno spirito padrone e un corpicino obbediente come un novizio. Quattro noci, un panino, una mela e qualche confetto e acqua di fonte saziavano Severina a dodici anni, ma gli occhi insaziabili giravano irrequieti per la campagna, per il cielo, tra la varietà dei fiori, sui vari riflessi delle acque e si fissavano estatici sugli splendori delle notti d'estate. Il suono di una cantilena, d'una campana lontana l'arrestava su' due piedi, e se squillavano a morto piangeva senza saperlo; altre volte rideva pazzamente colle sue compagne, mentre colle dita magre e lunghe andava tagliando fiori di carta o ricamando merletti sottili come la nebbia. Ma le ginocchia soffrivano del troppo star sul freddo sasso innanzi all'altare, dove ella ritiravasi all'avemaria a pregare, fissa nella vergine Maria, a cui il bagliore rossigno d'una lampada dava risalto e movimento. Come piacciono a quest'età le finestre ad angolo acuto, i castellacci neri, le vetriate dipinte, le ombre lunghe che scappano via dai capitelli su per le pareti d'una chiesa lombarda; si potrebbe dire che ciascuno di noi passa nelle diverse età per quei medesimi sentimenti che il popolo provò nel succedersi dei secoli, e che a dodici anni si viva misticamente come san Francesco e il beato Jacopone. Anche Severina ebbe le sue estasi e le sue visioni di angeli custodi (chi di noi non ne vide alcuno?) dei quali anzi sentí piú volte un batter d'ali, che movendo l'aria intorno al suo collo circondava tutto il corpo di una voluttuosa frescura: ogni musica aveva le cadenze dell'organo di chiesa, e nei sogni sfilavano le tredicimila vergini di santa Chiara intorno al suo letto, le quali cantando e con fiori in mano portavano a seppellire una bambina, vestita di bianco e benedetta da un raggio bianco di luna. Chi era la bambina? lei stessa, che si deliziava di quel giacere colle mani incrociate sul petto: e cosí via via cento altri simili fantasmi o sognati o pensati o ricordati in questa età in cui si sa come si muore, non come si nasce. Ma un giorno Severina si avvide che il suo abito era stretto, se ne meravigliò e pensò con pena al perché: nello stesso tempo le parve che crescesse il bisbiglio della gente sul suo passaggio, e sebbene non osasse levare le palpebre, pure sentiva molti sguardi fitti in lei, come per delicatezza di nervi una cieca sente il colore delle cose. Certe mattine, svegliandosi avanti l'alba, sedeva sul letto, le mani in mano, i capelli sciolti, gli occhi fissi alla punta de' piedi che sporgevano da un lembo di coltre, senza un pensiero determinato, senza una volontà, col solo desiderio di piangere, ma pur sorridendo di queste sue sciocche melanconie. Stava cosí lunga pezza stringendosi colle mani le spalle, e abbracciando sé stessa strettamente per immenso bisogno di amare qualcuno. Cosí infatti cominciano ad amarci le fanciulle, prima che ci conoscano, e quando ci presentiamo loro la prima volta, esse ci guardano come gente non affatto ignota e potrebbero dire a ciascuno di noi: È un pezzo che ti sento venire. Quando Severina conobbe don Giulio, senza ombra di peccato le si presentò l'amore, perché là dove pur le sembrava che morisse la grazia della fanciulla, le dissero incominciare la santità della madre; così la virtù lega la donna d'una catena d'anelli diversi, che essa porta come il suo piú bel monile. Ma la pazzia aveva frantumato questo monile. In Severina erano bensí rimasti tutti i sogni e tutte le speranze della fanciulla e della donna, ma orribilmente sconvolti; la natura cieca - e il dottorino se ne accorse subito - continuava contro di lei una gara vigliacca, poiché il pensiero balzano non solo non difendevasi, ma ingigantiva e sconciava i fantasmi della colpa. Così dell'antica severità non era rimasta che l'apparenza, e delle virtù una fredda abitudine, mentre l'occhio acceso e sinistramente poetico, le labbra semiaperte a bevere ogni soffio di brezza, i gridi improvvisi tradivano una povera natura che si rifaceva selvatica. - Insensato! - disse Marco a sé stesso la notte, quando fu solo nella camera che gli ebbero assegnata. - Come si chiama questo mio amore? credo follia, ma follia indegna di ogni compassione. Colui che costringe la vita in una precoce serietà vi muore racchiuso come una larva nel suo involucro. Severina può intendere questi miei spasimi? quel barlume di intelligenza che splende in lei, quel po' d'anima che la fa piangere e sorridere non sono per me, ma io rubo ciò che altri ha ispirato. Ecco il destino di coloro che a vent'anni sono già virtuosi fossili, i quali per amore del giusto perdono sovente il senso del dolce e dell'utile e finiscono miserandi o grotteschi. Cosí lamentavasi fra sé il povero dottorino, girando gli occhi intorno e rimirando i mobili di quercia e il ricco padiglione di pizzo che scendeva sopra il suo letto. Dov'era egli? perché era venuto in quel palazzo incantato? perché non posava la testa sopra i grossi libri che ragionano dell'anatomia del cuore umano? v'era anche una piaga del cuore? Sullo scrittoio trovò un fascio di carte e un biglietto manoscritto; le une erano lettere scritte da Severina a varie persone nel corso di quell'anno fatale, e l'altro l'indirizzo del conte Giulio, Hôtel Suisse, Genève. Vi tenne gli occhi fissi, incantati, temendo che se vi ponesse la mano sopra non isparisse tutta la magia di quel palazzo e di quel sogno. Suonarono le undici e mezzo al paese vicino ed egli, immerso in una poltrona d'alto schienale, e al lume di una lucerna d'argento meditava ancora sulla sua sorte, e ricamava intorno a quell'indirizzo una storia capricciosa e galante, ma non piú lieta della sua. La vecchia Marianna bussò dolcemente all'uscio e riferí come Severina, cessato il delirio e lo spasimo, fosse caduta in un sonno piú tranquillo; Marco le raccomandò di sorvegliarla tutta la notte e chiuse l'uscio con due giri di chiave come se avesse bisogno di segregarsi e di venire dimenticato. La finestra dava non sul lago, ma sull'erto dosso dei monti a' piedi de' quali sorgeva il Ritiro , un pendío piuttosto ripido, coperto di folta e boscosa vegetazione, a quell'ora tocco lentamente dal raggio della luna, sotto il quale spiccava qua un sentiero che s'inerpicava, là il bianchiccio d'un ghiaieto, piú su la figura d'un campanile ritto come un gendarme di guardia; si udivano tratto tratto susurri misteriosi di acque e di frondi secondo la direzione del vento, rauco e sommesso giungeva in quella parte il batter dell'onda contro la riva e lento, quasi pauroso, il battere delle ore. Da una finestra a lui nascosta usciva un raggio che si rifletteva nel verde lucido del boschetto di magnolie, sul quale si disegnava l'ombra mobile d'una cuffia gigantesca; quel lume usciva dalla camera di Severina posta in un angolo della villa e il dottorino esclamò: - E se ella morisse? - Ma non volle durare in queste melanconie, onde tornato allo scrittoio prese a sorte una di quelle lettere e lesse a caso: "Ti aspetto, ti aspetto! guardo il lembo ultimo del mare sperando che tu spunti di là come una rondine; se tu venissi sarei piú contenta del grillo che fa cri cri nell'angolo del focolare e della cavalletta verde che salta sull'erba. Senza di te l'anima mia è vuota, mentre vicina a te sento la voglia di cantare e di arrampicarmi sulle quercie come fanno i passeri, gli usignoli, i pettirossi e le allodole. Senza di te io sono zoppa; vieni, mio caro bastone. Se tu mi lasci sola voglio vivere sotterra vestita di ragnatele". Il dottorino lasciò cadere il foglio e tornò alla finestra perché il disastro di tanti sentimenti e di tante idee lo adirava; suonò in quel mentre la mezzanotte e ricorrendo col pensiero a casa sua si compiacque d'imaginare Celestino sdraiato nel suo letto, colle coltri alla rinfusa, immerso in uno di quei beatissimi sonni che Dio concede soltanto a' suoi frati. Gli parve vedere gli abiti buttati come Dio vuole sopra una sedia, i coturni distesi in mezzo alla camera, la pipa sul tavolino da notte fra gli zolfanelli, la borsa del tabacco, le poesie di Guadagnoli, il ritratto d'un'osteria e una bottiglia coperta da un bicchiere. - Lui felice! - mormorò il dottorino. - Infelici coloro che non vogliono essere quel che sono! Frattanto senza avvedersi andava stropicciando fra le dita l'indirizzo del conte, e quando si allontanò dalla finestra sentissi il collo indurito, e un brivido nelle spalle; era stanco di pensare e cercò di impiegar meglio il tempo scrivendo la lettera al conte, come aveva promesso. Infatti prese un foglio, bagnò la penna, si fregò la fronte e cominciò a pensare al principio che è sempre la metà d'ogni impresa; le lettere di Severina stavano sparpagliate dinanzi, e Marco quasi a suo dispetto invece di scrivere lesse a caso anche questa pagina: "Cara contessa Emma , "Finalmente ieri sera don Giulio si è presentato col suo venerando genitore a mio padre. Quante belle cose mi disse sottovoce, mentre i due babbi favellavano, e quante altre piú belle io gli tacqui! Mi serrò il mignolo col suo mignolo, e sarei stata contenta se un anellino di ferro mi avesse in quel momento legata a lui per sempre. Era il primo uomo, dopo mio padre, che osasse toccarmi un dito, e sentii un fluido venire da lui a me, come quando in collegio tutte in catena si provava la scossa elettrica. Davvero, n'ebbi lo stesso fremito e quell'istessa convulsione che fa ridere, che strappa le lagrime e fa gridare: ahi! ahi! Cos'è l'amore? La nostra madre superiora, te ne ricordi? soleva nelle commediole sostituire a questa brutta parola o amicizia, o stima, o gratitudine, o riverenza e cento altre parole consimili; mettine pur mille e sommate tutt'assieme e non avrai ancora il sinonimo d'amore. Questa è un'idea di Giulio, veh!- se sentissi, come ragiona! "Ieri sera presi la mia Celeste sulle ginocchia e mi sono seduta alla riva del mare. La chiamai Celeste perché è il colore che piace ai poeti, al Padre Eterno, e a lui. Non l'hai mai vista la mia bambina? è bionda, magrina, vispa, e sapiente! quando pongo le labbra sulla pozzetta del suo collo mi sembra di succhiare tutte le debolezze di cui è ripieno il paradiso. O cara Emma, ho bisogno di parlare, di gridare, di propagarmi come una divinità antica, e invidio la pioggia d'autunno che si riversa, e bagna tutto, e scorre da per tutto e si sprofonda in tutte le screpolature della terra...". "Se nella mia vita" pensò il dottore, "mi fosse dato trovare una donna che sentisse razionalmente come Severina; se ella stessa guarita, volesse dire a me quanto scrive d'un ingrato, potrei io resistere all'oceano traboccante di questa felicità? mi sazierei di quest'onda? invecchierei ancora un giorno nella mia vita? Quest'amore ha istinti immortali e se l'anima dell'uomo spirasse in queste maestose imaginazioni, porterebbe seco la gioia per tutta l'eternità." Ma che penso io mai? non sono idee da matto anche queste? perché vado aizzandomi? questo silenzio mi sgomenta...".No, no - gridò a voce alta lacerando coi denti l'indirizzo del conte, alle quali parole rispose un gemito, e un fruscio di foglie nel giardino. Il dottore già coi nervi irritato e la fantasia tesa si sgomentò come innanzi a un grave pericolo e tese ancora l'orecchio, ma non udí che un suono di piccoli passi scricchiolanti sulla sabbia. "Chi passeggia a quest'ora?" pensò " chi sospira?". Prese la lucernetta e si accostò alla finestra: ma un buffo improvviso di vento gliela spense: sparito era anche il lume dalla camera di Severina; buio e silenzioso il giardino. Scoccò un'ora. Il dottorino corse fino al letto e vi si buttò vestito come uomo che per paura si rintani. - È questo l'amore? - domandò a sé stesso e quando a Dio piacque si addormentò. Appena desto, coll'alacrità che ispira l'aria fresca del mattino e la luce del sole, sedette allo scrittoio e scrisse d'un getto questa lettera: "Illustrissimo signor conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll'autorità d'un superiore, ma io parlo in nome del dovere e della pietà. Chiamato dall'illustrissimo signor barone commendatore Adriano Siloe per esercizio del mio ministero conobbi una donna infelice, pazza da un anno, della quale non oso pronunciare il nome innanzi a lei sperando che sia ancor vivo nel suo cuore. Forse Dio vuol servirsi di me, ultimo uomo della scienza, per guarire questa ragione che una grave sventura ha crudelmente ferito; ma io non potrei far nulla senza la presenza di V. S., S.,perciò venga senza indugio a **** sul lago di Como e cerchi del dottore sottoscritto". Questa lettera mostra evidentemente come Marco obbedisse di malanimo al suo dovere, perché non bisognava, io credo, usare uno stile troppo asciutto e rigido verso una persona che si doveva persuadere e commovere. Ma il dottorino quando contemplò queste quattro righe buttate là nel peggior modo e colla peggior penna si rallegrò come se avesse riportato un trionfo sopra sé stesso o piuttosto per quel suo pregare ruvido che aveva l'aria d'una sfida. Scrisse anche un biglietto a Celestino, dandogli sue notizie, ma prima di chiudere le lettere, quasi gli piacesse d'indugiare, visitò l'inferma. Poca luce entrava nella camera di Severina, e il dottore poté avvicinarsi al suo letto quasi senza essere scorto dalla povera Marianna che sonnecchiava nella poltrona. La febbre tormentava ancora Severina, ma già le sue forze parevano piú stremate, gli occhi piú languidi, e meno accese le guancie. L'inferma non sentí la mano che le toccò i polsi e la fronte, e solo mormorò colle labbra aride parole inintelligibili; il dottorino però interpretando il suo desiderio sollevò di una mano la testa della fanciulla e porse una tazza d'acqua ghiacciata a quelle labbra sitibonde; poi ricompose le coltri fino al mento, raccomandò il silenzio e l'oscurità e usci in punta di piedi. La malattia seguiva secondo i suoi desideri e se ne fregò le mani d'allegrezza: - Diavolo! il mondo ne avrebbe parlato... Un servo lo fermò nel corridoio e gli consegnò un biglietto del barone che dopo aver vegliato gran parte della notte, si era buttato nel letto sul far della mattina. Il biglietto diceva brevemente: "Spero che ella avrà spedita la lettera al conte colla posta della mattina; se non lo ha fatto, non perda piú tempo" - A che ora parte la posta della mattina? - Alle cinque. - Sono le otto: vieni da me fra un quarto d'ora - e il dottorino ritornò nella sua camera molto indispettito con Sua Eccellenza che dopo un anno di perditempo diventava a un tratto scrupoloso dell'ora e del minuto. Dopo lunghe ricerche ho finalmente scoperto che la celebre cantante, per la quale don Giulio erasi fatto cosí leggiermente spergiuro, chiamavasi Adriana Saintrose, bellissima donna, una delle stelle fisse dell'Opéra. Alla Pergola, e specialmente dal primo ordine di palchi, era furiosamente applaudita tutte le sere e piú ancora lo fu, quando si seppe che fra i suoi antichi amanti erasi iscritto anche un alto personaggio della corte francese. Molti di quei signori dalla testa lucida si mantenevano dapprima in un dignitoso riserbo, temendo di aver tra le mani una prima donna comune; ma dopo che il marchese Ercole portò da Parigi la peregrina notizia, cessarono gli scrupoli, e l'entusiasmo lanciò via il tappo. Il contino Leopoldo che allora faceva le prime armi nel bel mondo possedeva un guanto rapito ad Adriana, mentre ella saliva in carrozza; reliquia, che se a uno spirito chiuso e alieno da queste delizie sembra poco meno che inutile tornava invece preziosa fra persone sensibilissime alle grazie della bellezza e dell'arte. Adriana, da parte sua, rispondeva con tanti baci, buttati a piene mani qua e là sull'amato pubblico, e questi baci pur troppo erano colpi di sasso per molti cuori di vetro; gli animi, riscaldati da sguardi, si erano a poco a poco accesi e si era giunti al punto che ognuno credeva follia la speranza di essere prediletto. Si disse che il conte Giulio dal suo palco di proscenio avesse già ottenuto qualche grazia, ma era un'argomentazione di coloro i quali conoscendo i gusti della Saintrose, sapevano che il conte aveva cinquanta mila lire di rendita all'anno Però lo si disse e lo si credette, e ognuno sa che molte cose esistono in cielo e in terra, per l'unica ragione che si credono. Don Giulio, da vecchio lupo di mare, ne rise come d'una facezia e posando al serio, rispondeva che aveva ben altre faccende per la testa; ma quando suo cugino, il famoso marchese Ercole, lo invitò a una serata di gala in casa di Adriana, tentennò, preso da un certo timido imbarazzo, che forse aveva radice in qualche sentimento piú intimo e segreto. Il buon cugino, battendogli paternamente le guancie con due dita gli disse: - Poverino, tu ardi. - Di che? - Di Adriana; lo dice tutto il mondo. - Fai male a ripetere questa sciocchezza, che potrebbe compromettermi in faccia al barone Siloe - Certamente: Adriana da parte sua non è piú prudente di me - Chi? la Saintrose? - Sí: ella chiede sempre del bel contino. - Baje!, - Te lo giuro e, poiché io sono il suo primo confidente, mi ha fatto molte volte il tuo elogio, e mi ha obbligato a trascinarti alla festa o vivo o morto. - Se io non venissi? - Faresti opera santa certamente - rispose il cugino sogghignando. - Io so che voi ridereste crudelmente di me. - Ohibò! tutti noi si direbbe: Gran uomo quel conte! - Io vi conosco troppo, e temo piú di tutti voi i sarcasmi di questa donna olimpica. Sono uomo di spirito e non dubitate che questa sera verrò a vostro dispetto. Non solamente la paura di sembrare uomo dappoco e novizio, ma anche una misteriosa spinta aveva persuaso don Giulio ad accettare un invito obbligantissimo e innocente. Non era amore, ma forse una naturale compiacenza, perché Adriana aveva chiesto di lui; era quasi un senso di riconoscenza, o, sopra ogni cosa, quella curiosità dell'ignoto che attrae gli uomini come i vortici del mare inghiottono i pesci. Dopo tutto non credeva d'offendere la causa di Severina, troppo alta, troppo santa, per essere confusa con un capriccio di prima donna, con un fuoco d'artifizio, colla commedia di una sera, con un amore infine che simile al vin spumante, traboccava tutto dall'orlo, lasciando secco il bicchiere. Di quanti dolori è madre questa facile filosofia delle distinzioni! Il marchese Ercole presentò don Giulio ad Adriana dicendo: - Sposo novello e fra poco marito fortunato. - Possibile? - esclamò la bella donna spalancando in aria di stupore i suoi grandi occhi di bove. - Sissignora: amante e marito fortunato - rispose senza esitazione il conte. - Da noi è un fenomeno ancor possibile, per chi, s'intende, ha meriti speciali. Il conte sapeva a memoria queste vecchie parti, né si smarrí innanzi al sorriso sardonico che sfiorò le labbra di Adriana, la quale, stesagli la mano, disse: - Lasciatevi complimentare. - Credeva che diceste: lasciatevi copiare - rispose il conte con uno scoppio di risa, che toccò nel profondo del cuore la sdegnosa donna. Fra cinque o sei che formavano un crocchio intorno alla regina della festa, s'incrociò un fuoco di fila contro il povero conte, e contro la sua precoce serietà; don Giulio sentí le punte di quella satira fine, e ricorse alla protezione della padrona di casa, che con aria grave e solenne troncò le ciarle, dicendo: - Il signor conte ha ragione: il miglior amante per una donna dev'essere il marito. - D'un'altra... - continuò la voce rumorosa del marchese Ercole, e don Giulio, pensando a Severina e a sé stesso, provò un senso di rimorso non senza dispetto. - Voi siete caduto fra i pirati, conte - gli disse Adriana prendendolo per una mano e indicandogli una sedia vicina. - Vi rincresce, poverino, d'essere rapito, eh?.. Don Giulio sedeva per la prima volta vicino a quella donna favolosa, che era solito vedere cinta del mitico fascino delle luci, delle gemme false e delle armonie; questa donna, che odiava gli sciocchi d'odio selvaggio, aveva cercato lui, e ora lo dominava colla pupilla mobile, eloquente e supplichevole; la voce di Adriana, era nel discorso melodiosa come nel canto, anzi aveva certi sbalzi improvvisi, certi strascichi sottovoce, certi sorrisi granulati che davano i brividi all'anima. - Rispondete, amico - replicò quando furono lasciati in disparte - Vi rincresce d'essere rapito? - Come posso saperlo? - rispose con un leggier tremito di voce il conte. - Io non conosco quel che valgo; sono io merce preziosa o di contrabbando? - Uomo di poca fede e di pochissima carità. - Adriana s'impensierí, lesse a lungo i rabeschi del tappeto, e balzò rapidamente a servire il the. Don Giulio sentiva un fruscio nelle orecchie e una vertigine al capo, come uomo che giunto all'orlo d'una cascata gira e precipita. La conversazione di quella sera tumultuosa non concesse ad Adriana la vittoria, ma le ispirò un immenso desiderio di vincere, il conte, schermendosi a tutt'uomo, non aveva perduto un palmo di terreno, ma non poteva fuggire senza vergogna e senza pericolo. Di fermo proposito la sera appresso stette a lungo nel palco del barone, seduto vicin vicino a Severina, quasi per ritemprarsi nella contemplazione di quella bellezza gentile e casta. Ma la Saintrose fu piú d'ogni altra sera prepotente, affascinante e strappò le lacrime ai vecchi abbonati. Don Giulio, che vedeva molti cannocchiali diretti verso di lui e Severina; che udiva costei tessere gli elogi di Adriana e che, pur troppo, non era senza esca al cuore, si domandò imperiosamente: "Che faccio?". Per le gallerie, sulle scale venivano a congratularsi con lui, come se nel trionfo di Adriana egli avesse gran parte; qualche giovinetto, vedendolo passare, lo seguiva d'uno sguardo lungo e pieno d'invidia, onde il conte stizzito, malcontento di sé e di tutti, pensò di lasciare il teatro, che gli pareva una fornace ardente. Prese onestamente licenza da Severina e dal barone, ma nell'atrio gli fu consegnata una lettera, che alla scrittura riconobbe del suo buon cugino il marchese. Eccola in tutta la sua semplicità: "Caro Conte, "Scrivo sotto dettatura di una persona la quale ti prega di concederle per mezz'ora la tua carrozza dopo l'opera; prima della fine del ballo la carrozza sarà a' tuoi ordini. Il y a anguille sous roche. ERCOLE" E piú sotto in piccolo carattere: "Adriana". Don Giulio corrugò la fronte e si carezzò tre volte i baffi, come soleva nei gravi istanti della vita. Maledisse il cugino, che per suo piacere andava tendendogli queste trappole, ma subito dopo riconobbe che l'intervento di Ercole era forse un'astuzia di Adriana. La preghiera era onesta e discreta e il conte non poteva, senza vergogna, esporsi a un duro rifiuto, che il buon segretario avrebbe reso noto al mondo con qual scandalo, Dio lo sa! Diede perciò gli opportuni ordini al cocchiere, raccomandandogli di essere di ritorno avanti la fine dello spettacolo, quindi tornò al suo palco di proscenio, mentre incominciavano le prime note del ballo; vi si rannicchiò all'ombra per paura che il barone e Severina non lo ravvisassero. Sebbene giuocato dal caso e dagli amici, tuttavia questo nascondersi, questa paura d'essere veduto tornarono agre e noiose a don Giulio, che, umiliato, se la prendeva con Adriana, col cugino, coi cicaloni, con sé stesso. Amava egli Adriana? poteva negare d'aver tremato innanzi a lei? non aveva stentatamente trovate parole per Severina, egli che vantavasi bel parlatore ed esperto nell'arte del commuovere? Sfilarono schiere di ballerine, apparvero sulla scena mari e monti, ma il conte nel fondo del suo palco fissava gli occhi sotto la sedia, colla testa stretta fra le mani; vedeva una carrozza correre per le vie di Firenze, arrestarsi in via Tornabuoni; una donna scendeva, dava una grossa mancia al cocchiere, e insieme una lettera, un invito per domani, un colloquio insomma... Ed ecco i servi della casa a parte del segreto; tutti i servi della città e tutti i padroni di questi servi parlavano di lui e della Saintrose, e cosí lo scandalo andava allargandosi come una macchia d'olio sopra un pannolino. Non era questa appunto l'intenzione di Adriana? per ciò gli aveva chiesta la carrozza quasi volesse allearsi tutta la città per combattere lui solo, inerme, pauroso del ridicolo, vanaglorioso, e che a venticinque anni vantava il coraggio di prender moglie. Aveva bisogno di respirare l'aria della notte e uscí a mezzo il ballo: la testa gli ardeva e il cuore, fatto piccino, soffriva come d'un doloroso presentimento. Incontrò non so quale deputato, suo amico, che gli presentò un alto personaggio russo; il conte balbettò una delle solite frasi e stava per andarsene, quando una voce argentina, nel piú armonico francese, fece rivolgere perfino l'alto personaggio. Tutti s'inchinarono e fra sei o sette curiosi accorsi si apri una via gloriosa, per la quale passò Adriana, vestita come lo sa fare un'artista da palco scenico, che ha fretta, cioè il ricco abito di raso dell'ultimo atto, un peplo mezzo greco e mezzo parigino intorno alle spalle e una nube di garza bianca intorno alla testa. Don Giulio impallidí ma essa venne senza esitazioni a lui, gli stese la mano e distintamente: - Vi ringrazio, conte, che mi offriate la vostra carrozza; accetto, perché il carrozzone del teatro è un attentato contro l' arte... Il conte diede la mano ad Adriana; gli occhi dei curiosi, dei portieri, dei gendarmi, dei pompieri, dei servi schierati innanzi alla porta si conficcarono su questi felici mortali, e don Giulio ne sentí veramente il bruciore come se cento lenti infuocate lo pigliassero di mira. Il conte non poteva chiuder sola Adriana nella carrozza, né ella glielo permise: sedette vicino a lei e i cavalli scalpitarono, gettando scintille, sul difficile selciato. Trentasette cannocchiali (il marchese Ercole li contò) si fissavano in quell'istante verso Severina. In una valle degli Appennini il conte Gian Andrea possedeva un antico castello, quasi sempre disabitato e che per il lungo disuso minacciava rovina. Ne restavano ancora intatte dieci o dodici sale, tappezzate dai ritratti di famiglia e ingombre, piú che adorne, di mobili massicci di noce, con vecchie stoffe dorate, e da una dozzina di panoplie e di alabarde. In una di quelle sale, seduta in una vasta poltrona cardinalizia troviamo Adriana, stanca d'un lungo viaggio, percorso fra le due e le sei del mattino. Come vi sia giunta lo potrebbe dire meglio di me don Giulio, che siede a lei di fronte, immerso in gravi pensieri e coll'abito di velluto alla cacciatora coperto di polvere. Il carnevale è finito a mezzanotte e siamo alla prima mattina di quaresima: l'alba rischiara dai larghi finestroni le cornici d'oro, gli schienali delle sedie, dà al pallore dei due amanti un'espressione abbastanza medioevale. - Messere - esclama Adriana sorridendo - siete già pentito? - Ora che vi amo.? - risponde il cavaliere, prendendole ambo le mani. I misteri vogliono poche parole, e quando abbiam detto che un nuovo amore ha cacciato il vecchio, non ci resta altro a spiegare per chi d'amore s'intende; gli altri credano al mistero, piú comodo e spiccio d'ogni dimostrazione. - Mi piacciono queste vertigini - esclama accendendosi alquanto in viso Adriana. - Cos'è la vita senza le commozioni? a mezzanotte era in teatro; quattro ore di fuga attraverso boscaglie ed eccoci al mattino in pieno medioevo. Non avete liuto, conte? - Voi avrete bisogno di riposo. - Voglio dormire in questa sedia patriarcale. Credete voi che nessuno conosca il nostro nascondiglio? - No: ho fatto credere a una certa causa di rivendicazione di terre, per la quale è necessaria la mia presenza. Adriana, dite almeno che credete all'amor mio: non vi pare che abbia fatto qualche cosa per voi? - Sí, sí, vedo quanto vi costo. - Non dico questo. - Vi costo una dote di due milioni, se non mi sbaglio, e una fanciulla ingenua, che è quanto di piú raro esista, dopo i milioni. - E, se ciò fosse, non merito la vostra fiducia? - Adriana, voi m'insegnate veramente cos'è l'amore. Il cavaliere veduto da lontano sarebbe sembrato inginocchiato presso Adriana, rapito in quegli occhi, che avevano tutte le variazioni azzurrine dell'aria. Durante quell'estasi, l'intelligenza di don Giulio non aveva la virtù di oltrepassare il breve circolo di quelle pareti, in cui stringeva tutto il suo universo, e ogni legge di onore, ogni suo dovere, ogni rimorso, dileguavano come cera alla fornace, o gli sembravano leggi necessarie per il bene di tutti, ma fatali a ciascuno. Severina, nel caldo immaginare di quegli istanti, gli appariva come una di quelle sbiadite figure a guazzo, mingherline e grette, mentre Adriana brillava di tutti i colori ardenti di Tiziano. Don Giulio tornò due o tre volte a Firenze, e credette opera generosa confessare al padre le sue intenzioni; il conte Gian Andrea, vedendolo tanto risoluto, aggrottò le ciglia e gli voltò le spalle, esclamando: - Fate voi, ma è un'indegnità. - In questo tempo Severina cominciò a notare la freddezza del conte, e nacquero i primi disaccordi col barone, disaccordi che portarono, come sappiamo, a un fiero contrasto fra i due gentiluomini e che affrettò la partenza del conte per Parigi. A quest'uomo aveva scritto il dottore la lettera che conosciamo, ma la penna gli diventava di piombo, quando egli si accingeva a porvi il fatale indirizzo. Si imaginava già presente il conte e distrutte le care illusioni, che da un mese lo facevano tanto felice. Perché non ritardava di qualche giorno il compimento di questo sacrificio? aveva diritto il barone di comandare a lui, arbitro della salute e della felicità di Severina? Il servo entrò. - Cosa volete? - gli chiese il dottorino. - Non aveva una lettera da consegnarmi?, - Vi ha mandato qui Sua Eccellenza? - Nossignore, ma ella stessa non mi ha pregato poco fa… - Sí, sí... Eccola. Il dottorino sillabò nello scriverle queste parole: Genève, Hôtel Suisse, mentre un agro sorriso gli sfiorava le labbra. - Sua Eccellenza - disse il servo - mi disse di affrancarla - Fate pure, galantuomo... Il servo, presa la lettera, andò diffilato alla posta. Marco si coprí il volto, strinse i pugni ed esclamò: - Ah, io divento perverso... Non importa, il conte almeno non verrà. Il buon dottorino era colpevole d'un gran peccato, ma non è il caso di confessarsi ora per lui. Secondo il consiglio del dottorino, il barone scrisse alla contessa Ippolita, una delle piú care amiche di Severina, e alla marchesa Ermanna, la vecchia zia, pregandole di venire in suo soccorso, ed esse accorsero sollecite al letto dell'inferma, che già cominciava a uscire del lungo assopimento e a dar segno di conoscenza. Era il sesto dí che Marco dimorava al Ritiro e la malattia, precisamente come egli aveva pronosticato volgeva a buon fine: il conte Giulio, dietro le congetture del barone, doveva aver ricevuto già da tre dí la lettera del dottore e forse fra un'ora, forse fra due poteva arrivare chi sa con quale aspetto! chi sa con qual animo! Alle vaghe interrogazioni di Sua Eccellenza, il dottorino rispondeva con parole monche, sforzandosi di mettere innanzi non so quali dubbi sul carattere di don Giulio, uomo, secondo lui, di nessun valore e inabile a ogni buon'azione. Adriano, occupato nel pensiero di Severina, desideroso e nello stesso tempo pauroso d'incontrarsi in quell'uomo fatale, prestava orecchio distratto alle parole dell'amico, accorgendosi né poco né tanto del suo sguardo timido, del suo frequente smarrirsi e del colore insolitamente pallido. Sua Eccellenza, per quel resto d'orgoglio che ogni uomo porta con sé anche nel sepolcro procurava nascondere l'ansietà che lo dominava, né i servi, né altri, meno la vecchia zia, sapevano del ritorno del conte; il barone soffriva una nuova pena, l'aspettare, ma il suo contegno era sempre grave, solenne e di una immobilità marmorea Invece una gran tempesta rumoreggiava nel cuore di Marco, il quale era certissimo che don Giulio non sarebbe giunto mai, se non per miracolo. Nessuno meglio di Marco sapeva quel che era scritto sopra la lettera mandata a Ginevra, e il buon dottorino che non si era ancora pentito del crudele scherzo giuocato a due uomini illustri, stava, covando rimorsi, ad aspettare gli eventi. A questi rimorsi non era abbastanza compenso l'amore di Severina? egli solo finalmente dominava il campo e don Giulio non era forse tal uomo da meritarsi anche di peggio? Severina, sebbene sfinita, aveva riconosciuto la zia e l'amica, ma destandosi e smarrendosi a vicenda, stentava a raccapezzarsi del luogo e del tempo: girava gli occhi incantati, e ad una ad una andava risuscitando le memorie piú note e piú lontane, senza mai chiedere di don Giulio, come s'ei fosse scomparso dalla memoria. La sera si avanzava. Il barone passeggiando sul terrazzo, spingeva l'occhio nella lontananza del lago già involto dall'ombra; passò l'ultimo piroscafo, né don Giulio comparve. Che avrebbe detto a Severina, se per caso domattina, nelle ore piú serene, chiedeva del suo fidanzato? Come ingannarla ancora senza mettere a estremo pericolo questa fragile intelligenza? Intanto il dottore, venuto al letto della malata, vide che gli occhi estatici di lei si fissavano per la prima volta ne' suoi e che un leggiero rossore, come un raggio passeggiero di sole, colorava le sue guance e saliva, smarrendosi, fino alla fronte. Se non gridò per la gioja, fu per non sembrare scemo o crudele, ma sentí ch'ei rinasceva nel pensiero della fanciulla proprio secondo il suo desiderio, e gli parve di essere lí a contendere quella bella creatura a un branco di avidi ladroni. La luce che usciva dalle sue pupille in quel momento aveva un non so che del falchetto e dell'aquila. - Don Giulio? - domandò sottovoce la vecchia marchesa, che seduta in una grande poltrona a' piedi del letto, diceva corone. - Non è arrivato - rispose Marco. - Noi forse lo cerchiamo invano sulla terra, e questa povera bambina... - I singhiozzi l'interruppero, ma poi seguitò: - Può darsi che anche tornando a ragione continui l'inganno di prima e che voi, dottore, suo fidanzato... - Io? - esclamò tremando il dottorino. - Se ella vi amasse, e se ciò fosse la sua vita? - Ma, io povero uomo... - Il conte aveva un milione e mezzo: io ve ne darei due, dottore, per amore di questa bambina... - Sua Eccellenza non acconsentirebbe mai. - Adriano ama sua figlia... e sopra la necessità non vi è che Dio. Il dottorino a queste parole, pronunciate da una voce tremula e lagrimosa, sorrise fantasticamente e si appoggiò, per non cader ginocchioni, alla sponda del letto. E qui torna opportuno, anche a giustificazione intera del nostro buon amico, osservare come da un mese egli vivesse in un mondo meraviglioso, nel quale i suoi pensieri erano messi alla tortura e i suoi affetti esposti alle piú nude tentazioni onde non dobbiamo far gli occhiacci se qualche volta lo troviamo in colpa e in falsi giudizi. Un dí vede una solitaria bellezza fra le piante sorridere a lui e se ne accende come è ben naturale in un animo gentile; ma questa fanciulla è ricca ed è pazza ed egli cerca di fuggire; no, il destino lo spinge verso di lei, che l'abbraccia, che gli dichiara un immenso amore, che cade come morta a' suoi piedi: da una settimana veglia per lei a consultare gli oracoli della scienza ne spia ogni respiro, ogni batter di palpebre; la gelosia gli entra in cuore quel dí che egli si sente degno di Severina; qual meraviglia se tutti questi casi hanno dato al suo carattere un accento esasperato, frenetico, fanatico e se le sue idee non si svolgono secondo il corso ordinario? Egli stesso se ne accorse alcun poco, e quando venne questa stessa notte a chiudersi nella sua camera, andava chiedendosi se per avventura egli non avesse fumato dell'oppio, o passeggiato a capo nudo sotto il sole. Severina aveva arrossito onestamente innanzi a lui; sia che ella l'amasse come conte, sia che l'amasse come dottore, nessuno poteva negare che tornando miracolosamente alla vita e alla ragione la fanciulla non si attaccasse a lui, come a un caro salvatore. - Domattina sarebbe ritornato a quel letto e alla luce chiara del dí Severina lo avrebbe riconosciuto: "Sei tu?" (il dottorino immaginava per suo conto anche il dialogo). "Sei tu, caro Giulio?- oppure, chi siete voi?" "Io son uno che vi amo, Severina!". "Ah! Dunque fu tutto un sogno quel che io soffrii...?". "Voi avete veduta la morte ma io ho tanto vegliato presso di voi...". "Ah! grazie, mio caro" "Chi oserà porsi fra noi?". Quest'ultima frase Marco la declamò, destando perfino il rimbombo sotto la volta della camera, ed egli stesso n'ebbe vergogna e paura. "Diavolo!" pensò "che la sua pazzia mi entri addosso?". Altri pensieri nol lasciavano requiare, perché la voce misteriosa della vecchia marchesa ronzava ostinatamente al suo orecchio: "Io vi darei due milioni...!!...". Questo era il mondo della favola! che dovesse svegliarsi un bel mattino ricco sfondato? Egli aveva sempre pensato da stoico sul valore dei beni di quaggiù; ma il diavolo non aveva mai fatto tintinnare tanto da vicino il sacchetto dell'oro, come quel dí, e il suon del metallo, ognun lo sa, fa voltare anche il sordo. Essere ricco e amato! - gli pareva la somma di una filosofia nuovissima, che abbracciava in poche parole tutto l'universo, anima e corpo, la vita e la morte e andava domandandosi se egli poteva senza scrupolo stendere la mano a quel mucchietto e stringere in pugno il proprio avvenire; ma le risposte venivano facili e in folla, dal punto che tutto era per la salute di Severina. Come si vede, questo rimuginare gli doveva mettere le fiamme al viso e lo sbalordimento al cervello; gli parve che la sua camera divenisse troppo angusta per quelle idee magnifiche, onde uscito bel bello, venne a una scaletta che metteva al giardino, sforzò dolcemente la molla d'un cancello di ferro, uscí all'aria aperta, che gli era tempo. - Non era ancor suonata mezzanotte, ma tutti dormivano in casa; nessun cane vegliava a custodia, cosicché il dottore poté passin passino attraversare il largo del giardinetto alla volta del bosco di magnolie. - Viaggiavano nel cielo certe nubi distese in figure grottesche e come agglomerate intorno a un piccolo cerchio di luna squallida squallida; l'aria sentiva ancora del fresco e dell'umido di una pioggia cessata da poco, e che aveva sí immollato il terreno che il piede vi sfondava mezzo; poco lontano risonavano i fiotti del lago, grosso in quella notte, che rompendosi contro il solido granito delle fondamenta mandava il suono di una pasta molle sbattuta da un furioso. Qua e là, negli spazi di terra luccicavano sotto quel pigro lume le pozze d'acqua, in ogni forma e misura, come i frantumi d'uno specchio. Il dottore, che stringeva, come dicemmo, il suo destino nel pugno tornò all'idea fissa della pazzia, né gli parve improbabile questo pericolo per un uomo che si trovava al cospetto d'un domani sí meraviglioso e fantastico. Gli vennero in mente le favole di certi romanzi letti da lui in quella età che gli altri li fanno e trovò non esser falsi del tutto quei personaggi, fabbricati a Parigi, pieni di peccati e di milioni, che passeggiano la notte a meditare astuzie e trappole, che compiono le piú fiere vendette, uccidono rivali, avvelenano vecchie avare, rubano testamenti... - Ma che diavolo! mormorava e si batteva la testa col pugno. - Son io che penso cosí? Il dottorino sognava ad occhi aperti e del suo fantasticare avevano colpa, non solo gli avvenimenti, ma anche quel cielo a ragnatele, quelle goccie diacciate, che grondavano dalle lucide foglie delle magnolie, quel brivido che gli serpeggiava sotto pelle, quel non so che, fra la speranza ed il dubbio, che fa tentennare i piú saldi, quella fede in un amplesso vicino, in un bacio sí ardente che avrebbe fatto di una pazza una savia donna e di un uomo ragionevole forse... Udí poco lontano il suono d'un passo e un fruscío di foglie. Ristette su due piedi, ma il cuore accelerò i suoi battiti fino allo strazio - Tende l'orecchio, traguarda fra ramo e ramo e sente un vero scricchiolío di sabbia, onde pauroso, non per natura, ma per le circostanze in cui si trovava, si rannicchiò nei rami sporgenti e aguzzò verso il tempietto del fauno che sorgeva in fondo a quel viale. Di là spuntò un'ombra, che forse era un uomo. Forse anche l'ombra notò un agguato sul suo cammino, perché ristette ferma, senza fiatare, spiando senza dubbio nelle fitte tenebre dove stormivano le foglie. Il dottore andava almanaccando tra sé chi poteva essere l'ignoto vivo, che a quell'ora passeggiava in un giardino chiuso, non certamente il barone che era alla statura piú piccolo d'una spanna, non uno dei servi, né un ladruncolo perché al portamento, al nero cupo dell'abito e a certi rivolti candidi al collo e alle maniche, gli pareva un uomo molto ben vestito. Si ricordò, nel tempo di un amen, d'aver già udito altra volta dalla finestra un suono di passi nel giardino e dei gemiti sommessi e subitanea, come il lampo, gli balenò un'idea, una brutta idea per la verità: - Che fosse il conte? L'ombra rassicurata, si avanzò di buon passo direttamente e verso il dottore, che avrebbe voluto sprofondarsi sotterra. - Chi siete? - domandò con voce strozzata Marco. - Lode a Dio! temeva d'incontrarmi nel barone Adriano. - Ma voi? - Ella è forse il signor dottore? - disse sottovoce lo sconosciuto. - Lo sono, ma vorrei cortesia per cortesia - rispose alquanto stizzito. - Sono il conte Giulio - e nominò quel cognome che noi non possiamo trascrivere pei dovuti riguardi. - Come sta la poveretta? - chiese di nuovo il conte; ma il dottorino, che sentiva un'ambascia insolita e come goccie d'acqua diacciata stillargli sul cuore, non rispose che con un mugolío sordo di meraviglia e di rabbia. Finalmente trovò modo di domandare alla sua volta. - Avete forse ricevuto la mia lettera? - Quale lettera? - disse il conte non badando al modo famigliare e duro del suo vicino. - Vi ho scritto saranno tre dí, ma non so... - Da quindici giorni mi trovo sul lago e da una settimana penetro tutte le notti in questo giardino, come un ladro di campagna; ella saprà che io ho tanti rimorsi da scontare... - Lo so. - E che cosa mi si scriveva? Il dottore pensò un istante e franco rispose: - che ogni speranza per Severina era perduta; che non veniste piú da queste parti perché Sua Eccellenza ha giurato di uccidervi. - Il dottore nel pronunciare queste parole andava tendendo i nervi e stringendo i pugni come se volesse soffocare alcuno. - È la grazia che cerco - disse lentamente e chinando la testa l'infelice. Il dottore lo adocchiò, e non poté impedire che questo accento disperato non vibrasse in modo strano dentro di lui. - Vorrei parlarle con sicurezza - disse per il primo il dottore dopo un lungo silenzio. - Dove potrò trovarla, signor conte? - Alla riva di Molina, non lontano dall'Orrido, al di là del lago. Domandi a qualcuno ove abiti l'Inglese e glielo diranno. - Ella traversa il lago tutte le notti? - Verrà una notte che mi fermerò a metà. - Ah! - esclamò Marco, con un grande respiro, sollevando gli occhi al punto piú alto del cielo, e quel grido pareva volesse significare: Io sono ben tristo! - Non dirà d'avermi incontrato, dottore? - No! - Resto qualche ora a contemplare il lume di una finestra; finché quel lume risplenderà... ma alzando le spalle il conte s'interruppe dicendo: - Buona notte, dottore. - E gli stese la mano: poi sparí per il lungo viale. Marco era legato alla terra, né sapeva formolare un pensiero che avesse un colore e una proporzione; tentennava la testa, sorrideva a fior di labbro e all'improvviso cantare d'un gallo si scosse pauroso, girò gli occhi intorno, uscí dal suo nascondiglio, corse in punta di piedi fino al cancello, salí al buio la scaletta, precipitò nella sua camera e cadde colla testa sul guanciale. La peggior tempesta rumoreggiava in quella povera testa: non aveva per avventura traveduto, sognato, delirato? No, il conte era vicino a due passi da Severina, a due passi da lui. Come poteva egli indifferentemente rinunciare alla felicità per cedere il posto a questo ladrone notturno? Il conte non temeva il barone, e il barone lo aspettava ansiosamente; questi due uomini non si odiavano piú. Chi travolgeva le piú semplici leggi della natura e del cuore umano per tormentar lui, che aveva tanto fatto per Severina? Questo miracolo non avveniva per volontà di Dio, perché il barone non credeva in Dio: uno spirito maligno faceva strazio del suo cuore, e moveva gli avvenimenti come in un giuoco di scacchi. - Oh mia povera Severina! - disse sospirando - ch'io abbia a fuggire da te nel momento che, riaprendo gli occhi, mi avresti beato del tuo sguardo dolcissimo? Prima che spunti il sole, ella potrebbe svegliarsi piú serena, piú docile, piú ragionevole: "Don Giulio non è con voi?" domanderebbe alla zia e all'amica. "Dov'è don Giulio? Chiamatelo" Il momento è solenne! Il dottore ritto in piedi nel mezzo della camera e nell'ombra accompagnava coi gesti questi pensieri tumultuosi. "Il momento è solenne! io entro... Sei tu?..E dopo? se quell'uomo si uccide? se l'inganno non durasse piú d'un giorno? che diverrei io in mezzo a questo mondo fantastico, falso di nome, fra abitudini non mie, fra gente che mi compatirebbe, o riderebbe di me.? Troppi gruppi in una volta, mio Dio!... E pensò finché un tremendo riflesso di luce non disegnò i contorni del monte Bisbino, che sovrastava; il cielo s'era fatto lucido e netto e brillavano ancora molte stelle. Fissò gli occhi in quell'azzurro e in quelle luci, e l'arcana poesia de' suoi quindici anni risuonò a lui d'intorno quasi portata dall'aria mattutina, bisbigliata dalle foglie scosse. Qualche pettirosso provava la voce, ma la sua vicina aveva ancora troppo sonno per rispondergli. Rumori incerti, susurri, fruscii parevano accennar ai primi moti d'una natura che si sveglia, e, la calma del mattino era succeduta ai tenebrosi schiamazzi, alla pioggia e al vento della notte. - Addio! - mormorò il dottorino, non sapendo bene egli stesso a chi fosse rivolto questo saluto. - Addio, sí; ma prima voglio vederti. Si vede che la risoluzione era presa; una fuga. Era ben tempo di fuggire, e troppo grave era stato il castigo di tanto indugio. Fuggire con una dolce imagine nel pensiero, e l'orgoglio in cuore di aver compiuto una nobile azione pareva bello a chi non aveva mai pensato che un uomo possa uccidersi. L'aspettavano ancora le Alpi, i vetturali, gli osti e le montanine della Svizzera; al di là si vendeva birra eccellente a buon mercato e alla peggio la birra istupidisce. Dopo un mese sarebbe tornato allegro come Celestino, con una lunga pipa, coperto d'una buona crosta di esperienza, che salva l'anima dalle malattie croniche. Egli sarebbe partito al primo raggio di sole, lasciando al barone un biglietto coll'indirizzo del signor Inglese e tanti saluti in casa. Era risoluto come un gendarme, ma prima voleva rivederla una volta, il tempo d'un minuto, d'un batter d'occhio. Pensò che a quell'ora tutti dormivano nella casa, perché la vecchia zia ritiravasi a mezzanotte, e Marianna sul far del mattino, nel tempo che ogni infermo suol essere piú tranquillo, godevasi un sonnellino. Un corridoio e una scala di pochi gradini lo separavano da quella cameretta. che avea incominciato a venerare; l'andarvi in quell'ora e solo sarebbe sembrato altre volte alquanto indiscreto, ma egli, fuggendo per sempre, moriva per Severina e a chi muore si usa pietà. Uscí; né tremava, né titubava. La sua ragione era tornata ai sodi principi, alla verità delle cose, ai propositi schietti e luminosi, e se concedeva un'ultima lusinga al cuore, era per meglio rabbonirlo. Giunse e stette innanzi all'uscio; era il medico e poteva entrare. Entrò. Marianna sonnecchiava in una poltrona accanto al caminetto, sul quale ardeva una lucerna accesa appena appena da non essere spenta. Si accostò al letto dell'inferma come aveva fatto cento volte in quei giorni, e non meno franco, e non meno onesto. Sedette sopra la sedia vicina e ascoltò il dolce respiro della dormiente. - Dorme! - disse a sé stesso per il bisogno di occuparsi in qualche argomento. Ma il misurato respiro della fanciulla a poco a poco prese il suono d'un ragionamento susurrato all'orecchio, e il dottorino si chinava per udir meglio; ma non sentiva che un alito sul viso. Il dottorino si strinse le tempia fra le due mani, e la pazzia dell'amore, della voluttà, dell'odio svolazzò e lo toccò; il pianto che da due ore ruggiva chiuso nel petto, minacciò rompere il suo silenzio, e il dottorino lottava atleticamente con un altro sé stesso piú selvaggio, piú irriverente. Entrambi erano forti, ma il selvaggio conosceva certi impeti maligni, che avrebbero ucciso un uomo, e perfino svegliata Severina. - Ah mia bella.... - soffiò il maligno, e svincolavasi dalle strette; ma l'angelo buono lo buttava ginocchioni a piè di quel letto, fremente, ma devoto, riverente, adoratore di quella divina bellezza assopita. Mentre il dottorino, caduto a piedi del letto, smemorato di ogni cosa andava di fantasia in fantasia, una mano fredda, ma dura come ferro, lo toccò. Levò gli occhi. Era il barone. - Usciamo - disse freddamente il barone e si avviò verso la porta, né si arrestò che nella propria camera, seguito in silenzio dal dottorino, che senza imbarazzo, senza preoccupazioni, ma rispettoso e severo, stette innanzi a Sua Eccellenza, gli occhi fissi nel suo viso. Il barone, chinando le palpebre come soleva fare nei grandi momenti, domandò: - Ama ella mia figlia? La domanda era inaspettata, sebbene il dottore avesse già fiutato nell'aria la tempesta, onde balbettò, ma non rispose. - Ella non mi risponde. - Sono colpevole? - domandò alla sua volta il dottore per lasciare il fastidio della risposta al barone. - Io non giudico, esamino. Quali sono le sue intenzioni, signore? - Fuggire da questa casa. - Grazie: almeno è onesto, se non... - Se non ricco! - continuò con amarezza il dottore. - Ciò che non posso concederle, o signore, è il diritto di offendermi. - È giusto! - mormorò il dottore, chinando umilmente la testa. Il barone prese a passeggiare innanzi al dottore, che sentiva rimbombare nel cuore ciascuno di quei passi solenni, e pesandogli il silenzio ancor piú dei rimproveri, si fece forza a dire: - Vostra Eccellenza non vorrà essere troppo severo nel giudicarmi; io non cercai il pericolo, e innanzi al pericolo fuggo. - Il conte è qui - esclamò Adriano alzando la voce. - Come sa? - Ella l'ha incontrato questa notte nel mio giardino. - Ero sorvegliato? - L'amore toglie il sonno agli amanti... - Ella ci ha spiati... - Il conte è qui forse da molto tempo, perché venne al convegno notturno, come uomo che conosce bene la sua strada. Perché ella non me l'ha detto? - Perché... - il dottorino arrossí sebbene avrebbe potuto rispondere d'ignorarlo; ma non affatto innocente, come sappiamo, ebbe paura che il barone gli leggesse in viso il tranello della lettera falsa, ma gli occhi di Sua Eccellenza notarono quelle vampe. - Basta, signor dottore; le risparmio la pena di una menzogna. - Ma!... - Ella ha interesse che il conte non ritorni... - Cioè, interesse... - La vista del dottore cominciava a offuscarsi. - Povera Severina, perdette un amante e ne ritrova due: da bravi, come l'aggiusteranno, messeri? è ai dadi o all'armi che si giuocherà questo cencio di dote? Era troppo; e il dottore, sotto lo spasimo di questo sarcasmo, che gli passava il cuore, evocò quell'antica fierezza di carattere che altrimenti si potrebbe dire coscienza della propria virtù. Non era piú la condizione casuale di un uomo, che lotti contro un sentimento ampio, indefinito, fatale, ma era lotta sincera di un uomo giusto contro un uomo ingiusto, e il conforto della propria innocenza gli ispirò una risposta vivace: - Quel che mi dice Vostra Eccellenza non mi offende, perché non mi tocca; ella non può compatire un minuto di viltà in un uomo onesto, né io mi meraviglio, sapendo come non a tutti gli uomini è dato d'essere generosi... Gli occhi del barone si animarono e nell'arrestarsi a un tratto Sua Eccellenza non seppe celare un insolito impeto d'ira; ma trovò una fronte alta e due occhi, che non temevano i suoi. - Chi non sa perdonare, - continuò il dottore - non intende e per verità lodo Dio che a non tutti abbia largito i tesori di un'anima capace d'intendere e di perdonar tutto. Amai donna Severina, non lo nego, e l'amava già prima di metter piede in questa casa; ma, poiché ella, signore, ha spiato i miei passi, avrà scoperto come non mi giovassi delle occasioni, che un beffardo destino mi offriva, quanto trepidassi alla vicinanza di questa creatura, che si dava tutta a me, come ad un amico, come ad un fratello; tentennai un giorno, non lo nego, ma fu sotto il fascino di alcune domande che feci a me stesso: Non sono io degno di lei? Non l'ho io ricreata? - Oggi rispondo calmo, sereno che no, e fuggo. Se paresse al signor commendatore ch'io fossi troppo pigro ad andarmene, può licenziarmi: una pena la merito e son pronto a scontarla. Il barone andava squadrando questo giovanotto con occhio stupito, e gli impeti di un sacro orgoglio offeso salirono piú volte a suggerirgli una parola acerba, e che fosse l'ultima di un dialogo già troppo lungo e umiliante; ma la parola non venne, e invece gli parve di cedere al peso di un'eloquenza seduttrice, che gli mescolava i giudizi nel capo, e confondeva le verità piú lucenti. Non rispose subito, perché si avvide che le parole vecchie non valevano, e a trovar le convenienti, che sciogliessero il nodo e che fossero nello stesso tempo aristocratiche e giuste, non aveva la calma necessaria.. Il dottore stanco d'aspettare quest'ultima parola, che egli stesso aveva invocato, urbanamente disse: - Se il signor barone mi crede indegno di questa parola, io ubbidirò anche a un gesto... Al fremito, che corse per tutto il corpo del barone, si sarebbe detto ch'ei fosse adirato di quella non mai finita umiliazione, o che avesse dispetto di quell'uomo, tanto pieno di giustizia. - Cedo il posto, - seguitò Marco - a persona piú degna e piú rispettabile... - Non è vero! - gridò infuriando Sua Eccellenza. - Questi elogi non richiesti sono per me una nuova offesa: è una gara di generosità, che mi adira. - Il conte ha dei diritti, o, se meglio le piace, dei doveri. - Chi intende queste contraddizioni? - Mi sforzo d'intenderle. Amo, lo confesso, ma il mio posto non è qui. - Sa il conte d'essere aspettato fra noi? - Lo saprà avanti mezzodí. - Non precipitiamo gli avvenimenti. - Donna Severina potrebbe dimandare di lui. - Di lui! di lui! - ripete Adriano. - Il mio sangue si ribella ancora a questo nome. - Ancora? Non intendo... - Ah! non intendete alla vostra volta: voi siete un uomo ben stravagante. Perdonate la confidenza colla quale vi parlo. Il dottorino strabiliava e sentendo la voce piú conciliante e il modo col quale il barone gli parlava, piú modesto e amichevole, fissò uno sguardo curioso in quel volto pallido. - Il conte non merita questa felicità, n'è vero? - Non voglio giudicare... - Severina forse... - Il barone esitò e poi alzando a un tratto la voce esclamò - Vi rincrescerebbe, dottore, s'io diventassi generoso? è invidiosa la vostra virtù? - Ciò vuol dire?.. - Vuol dire che ogni minuto della vita c'insegna una verità: dottore, è finita la prova, e vi ritrovo, qual vi pensai, grande e degno d'una regina... - Io? - Voi, sí, voi. Da molto tempo vado spiando i vostri passi, le vostre veglie, e quando penso che per opera vostra Severina m'è ridonata, e che ella ha imparato ad amarvi, e che voi l'amate, come posso io preferire un uomo, che l'ha tradita, e che versò il pianto de' suoi rimorsi nel seno d'altre donne? - Ma il conte l'ama... - Ami! è questa la mia vendetta. - Ciò è impossibile. La nobile e dignitosa condotta del dottorino, una speciale simpatia per lui, la gratitudine naturale per il tanto bene da lui modestamente compiuto avevano risvegliato nell'animo del barone non so quali antiche memorie di tempi giovanili, allorché, levando la testa dai grossi libri della filosofia, egli discorreva fra gli uomini a cercare le orme d'una virtù, che dicevasi passata sul mondo. In quei dí, nella vivacità dei vent'anni, sorvolando ai fatti comuni della vita accidentale, e alle frequenti viltà, il barone soleva fermarsi piuttosto a contemplare in sé stesso gli elementi di una filosofia umana capace di fatti grandiosi; perciò al tornare di quelle memorie, credeva ritrovare nel dottorino quel sé stesso, che la disperazione aveva da molto tempo ucciso. In questa bassa landa dei vivi, dove l'esercizio di una semplice bontà è tenuto a vile, e dove si preferiscono le grandi massime che intontiscono alle povere opere che guariscono, dove gli uomini si fanno ogni giorno piú noiosi che utili, il barone compiacevasi di aver trovato una rupe solitaria, che aveva ancora del vecchio macigno. Se prima non se n'era accorto, la ragione si è che viveva lontano dalla gente e questi rari avanzi giacciono nascosti nella moltitudine e non li trova se non chi li desidera. Il barone strinse la mano dell'amico e gli domandò: - Avete capito? - Se non è un sogno, è questa un'offerta ch'io non posso accettare... - Temete l'ira del conte? - Il conte è un infelice. - Lode al vostro Dio. - Eccellenza, - rispose con voce commossa il dottorino - vi fu un istante che io sognai questa lusinga e questa fortuna, ma cattivo consigliero è il cuore innamorato e il piú delle volte trionfa a danno della sana ragione. Quale sarebbe il mio destino s'io non fuggissi? lo dica una parola: Sarei un uomo spostato. Innanzi agli altri cesserei d'essere quel che sono, per diventare che cosa?.. un amante, un marito, un ricco fortunato e caro al cielo. Signore, per tutto ciò può pur meglio di me bastare il conte, e lasci che io torni, ove sono desiderato, fra quella gente a cui ho promesso il mio aiuto, dove il conte è inutile. - Amiamo l'equilibrio delle cose che regge il mondo. Chi mi assicura oltre a ciò che Severina non si ravveda dell'inganno? Abbiamo incominciato questa storia pietosa come una novella per le donne gentili, ma è tempo (e ne sento il bisogno) di tornare al giusto senso delle cose, di ristabilire l'ordine, anche a dispetto del cuore... Lasciamo i vecchi romanzi e facciamo della vita. - Il conte ama donna Severina, e da molte notti entra in giardino per sedersi sotto una finestra illuminata; anche qui, signore, c'è dell'infermità, e un'offesa fatta a un uomo disperato potrebbe eccitare una vendetta, in qualunque modo spaventosa sia che il conte castighi me, e sé stesso, o tutte quante le donne che gli parleranno d'amore.- Invece s'io torno al mio paesello, Celestino sarà contento, il conte tornerà giustificato dai rimorsi, ella, Eccellenza, avrà la consolazione di ricordare un uomo... non affatto indegno di vivere... La voce gli mancò e non potè arrestare una mezza lagrima che spuntò sotto le palpebre; il barone, che stava riflettendo alle cose udite, sorreggeva il volto colla palma e tentennava la testa sforzandosi di rassegnarsi. - Non è meglio cosí? - riprese con voce piú chiara il dottorino come se ora parlasse per conto altrui. - Il cuore non è ostinato e si lascia a poco a poco persuadere, se la ragione sa parlar come va. - Questo signore... tornerà? - mormorò Adriano. - Non so imaginare il modo migliore di riceverlo. - Gli scriva due linee d'invito, che io porterò; cosí avrò la coscienza di aver compiuto tutto il mio dovere, e sconterò qualche peccatuccio... - Il dottore sorrise. - Mandiamo un servo. - No. È necessaria una persona che narri la storia di questa malattia, e che dimostri la necessità d'un pronto ritorno, se no, il conte potrebbe pensare a un tranello. - Per parte mia? - So quel che mi dico, Eccellenza, quando parlo de' miei peccati: due amanti, che s'incontrarono sotto la medesima finestra, si scambiarono delle spiegazioni, ma può darsi che qualcuno abbia accusato anche Vostra Eccellenza di un delitto premeditato. - Il dottorino sorrise allegramente, e sforzò al ridere anche la patetica faccia di Sua Eccellenza. A colazione la vecchia zia narrò come Severina allo svegliarsi avesse dimandato di don Giulio e il dottore permise che le si parlasse del prossimo arrivo del conte. - Ma Severina non si accontentò di vaghe promesse e il dottore le fece dire dalla contessa Gemma come prima di sera don Giulio sarebbe di ritorno. - La malata in questa dolce aspettazione si acquetò. - Tutto va bene, - disse il dottore fregandosi le mani - e farò stampare questa guarigione sul bollettino medico. Chi sa che non mi faccia una gloria europea. Ho bisogno di un po' di gloria… Il barone scrisse un breve invito per il conte e sul far del mezzodí il dottore scendeva i gradini di una scala che metteva nel lago, ove era pronta una piccola gondola. Adriano lo accompagnò fino all'ultimo gradino, muto, malinconico, come se partisse l'amico della sua infanzia, e a stento seppe balbettare: - Passerò tre ore di febbre. Il dottorino entrò nell'elegante gondoletta e in tre colpi di remo si allontanò solo solo da quella malaugurata costa. Quando fu nel mezzo del lago, tirò i remi in barca e, lasciando che l'acqua leggermente commossa dal vento lo cullasse a suo capriccio, cercò di occuparsi in idee comuni per distrarsi, ora guardando il cielo coperto di nuvole, ora i monti e i loro contorcimenti, ora le coste interrotte dai rapidi ghiaieti. Cosí oziando e tratto tratto movendo i remi colla noncuranza d'un pesce che scuote le pinne, venne senza accorgersene quasi a contatto d'un'altra barca, guidata da un vecchio rematore, che a' giorni suoi non aveva mai tratto a riva un carico tanto irrequieto. Erano dieci sartine, venute da Milano a far festa sul lago, pigiate sui loro sedili di legno, con abiti quali li sa fare chi veste sí bene le altre, le une bionde, le altre brune, qualcuna né bionda né bruna, tutte con occhi ladri, delicati, e scosse in quella vecchia barcaccia dagli urti, che dava la vivacità, lo scherzo e la paura. - Legna verde! - disse il vecchietto al dottore, accennando a quel complotto vivace, che faceva un cicalío da cento passere sopra una pianta; e il dottore fu sorpreso dalla varietà degli scialletti rossi e azzurri, dalle piume confitte in gusci di noce, o cappellini, legati sopra una piramide di capelli, come, alla lor volta, le fanciulle destate dallo scherzo del barcaiuolo, si fecero a contemplare la bella gondoletta e il bel pedagogo che andava, dicevano, a pesca d'anguille, non risparmiando le puerili esclamazioni, né le risa semplici, che scoppiavano a loro dispetto dai fazzolettini bianchi e profumati. - Marco, sebbene avesse l'animo penosamente occupato, pure fu in procinto di seguire la bella comitiva fino alla villa Pliniana, dov'erano dirette: passare un'ora fra quelle passerelle, spiegar loro l'iscrizione latina che vi è coi soliti commenti che un giovane di spirito sa cavare da una pagina di bel latino, sarebbe stata senza dubbio la consolazione di tutti i suoi mali. Qualcuna aveva sul viso una espressione profondamente erudita e avrebbe saputo cavar nuovi commenti dalla lezione, supponiamo, carezzare la barba del bravo pedagogo pescatore d'anguille; ma il braccio, seguendo l'impulso d'un pensiero piú profondo girò a poco a poco il remo e spinse la gondoletta piú in là verso la riva di Molina, dove già apparivano poche case e piú in su, a mezzo il monte, tre paesetti con ville eleganti e tra le pieghe del monte ombre e verdi cupi e su su le nude rotonde delle cime e sopra tutto il panorama una tinta di sole acquaiuolo. Che malinconia! Che voglia di piangere! Ma il fantasticare era inutile dal momento che la barca, toccata riva, non poteva andare piú oltre (egli avrebbe cosí vagolato per sempre), onde sbarcò, chiese al primo uomo, che gli venne incontro, del signor Inglese, e, dietro le indicazioni, venne frettolosamente a un'osteria modesta, ma di bell'apparenza. Intese come, secondo il solito di tutti i dí, milord fosse andato al vicino Orrido di Molina, dove passava qualche ora a dipingere, e senza perder tempo il dottorino prese la strada dell'Orrido, che ben conosceva, annoiato di questi indugi che prolungavano il suo martirio. Sassosa era la strada ed essendosi messo un vento straordinario, ei camminava con pena, presso a poco come chi sogna di correre e che sente le gambe intralciate. Il cielo facevasi sempre piú spesso di nuvole e andava offuscandosi specialmente per un cumulo gigantesco, che montava dietro il montagnone - la cuffia del Bisbino; la punta di Torriggia appannavasi sotto un velo di nebbia e le case al di là, fra cui il Ritiro sfumavano come vecchie pitture sopra un muro umidiccio; stormivano gli alberi, si turbavano i ciuffi d'erba che spuntano dai crepacci, e volavano folate di polvere, onde il dottore si fermò a considerare come cosa non mai veduta, la superficie del lago senza riflessi e qua e là qualche barca peschereccia, che guadagnava la riva, le onde, che venivano attorcigliate come cannoncini e che finivano a squagliarsi fra i ciottoli in spume bianchiccie e morbide come la panna. Qualche uccellaccio del mal augurio strapiombava da una catena all'altra dei monti, sopra le ali lunghe e immobili, e nell'aria tutta sentivasi un tempo diavolone. Per conto suo il dottore non era malcontento che la natura prendesse il colore de' suoi pensieri e stette fermo a contemplarla, finché le prime goccie non lo scossero. Il conte vestito di un abito di flanella bigia, succinto e stretto alla vita da una cintura di cuoio, con un berretto alla staffiera orlato di nastro scozzese, veniva, con una cassettina sotto il braccio, alla volta del dottorino che, tiratosi sotto il monte, pareva un masnadiere in attesa. - Signor conte - disse. - Chi mi chiama? - Sua Eccellenza il barone Adriano Siloe mi manda; eccole un suo biglietto. - Che? Sua Eccellenza ha scoperto... - Ha saputo che don Giulio è da quindici giorni sul luogo. - Da chi lo ha saputo? - Io glielo dissi. Non si ricorda, conte, di avermi incontrato questa notte? - Ella è il dottore? È questo l'avviso d'un'ultima disgrazia? Dica schietto, vi sono da lungo tempo preparato. - Cosí disse il conte, ma contro sua voglia impallidí. - Ho bisogno di parlarle a lungo, né qui mi pare luogo opportuno. Come si vede il dottore pigliava tempo a rispondere e il conte, confusamente commosso, correndo col pensiero a indovinare, balbettando rotti monosillabi, precedette il compagno verso l'osteria e sentiva dentro di sé che, se la fanciulla era morta, eterna sarebbe stata per lui la disperazione d'averla uccisa. Cosí nel primo momento, ma poi riebbe il sopravento quell'orgoglioso cinismo, che da qualche tempo si era fatto in lui un'abitudine, molto piú che agli uomini in genere spiace sempre mostrarsi ad altrui vinti dalla propria coscienza; talché la disperazione dell'animo, che stava per rompere in furore, si sciolse in un amaro sogghigno e in un tentennamento del capo e in un levar di spalle beffardo, come chi dicesse: - Tutto è finito. Entrarono nell'osteria, dov'erano raccolti alcuni barcaiuoli e pescatori e, quasi milord temesse che quella buona gente leggesse nel suo volto il gran delitto, si fece a ciarlare con loro, guastando l'italiano da bravo inglese, e cercò del fuoco alla pipa di Anselmo, l'oste, e comandò del vinetto bianco per sé e per il dottore. Costui andava considerandolo con meraviglia, ma piú occupato di sé, seguí il conte su per una scaletta fino a un camerone, disposto a studio di pittura, con un cavalletto e sopra un quadro coperto, presso la finestra, una tavola piena di manoscritti, di giornali, di musica e uno sparpagliamento di disegni, di schizzi e di stampe su per le pareti e per il pavimento. La bella Luisina entrò con un fiasco di una vernaccia favorita da milord, e bisogna dire che il conte si fosse dato a tristi abitudini a giudicare dall'esagerazione del fiasco. Infatti don Giulio non esitò a tracannare d'un fiato il suo bicchiere e, come se ad un tratto uscisse in una sfida, gridò: Lo dica dunque, è morta. - No. - È moribonda? Sia spiccio. - No. Donna Severina è guarita. - La pazza? - Non è piú pazza. - Lo sono io? beva dottore e parlerà piú chiaro. - Benissimo! - gridò alla sua volta il dottorino, riempiendo il bicchiere. - Beviamo, perché il racconto è allegro e bello. Il conte non bevve piú durante il racconto del dottore, che si fece a narrare con tranquillità tutta la storia di Severina dal giorno che egli l'aveva conosciuta e l'invito ricevuto dal barone e l'incontro colla fanciulla e i nuovi inganni, in cui era caduta e i baci e gli abbracci che egli, senza suo merito, aveva toccati e la crisi del male risolta e la sicura guarigione. Tacque affatto del suo amore e fece bene; però per acquistar lena e per rischiarare le idee, il buon dottorino, che pareva il piú allegro uomo del mondo, empí non so quante volte, dopo la prima, il suo bicchiere, non per deliberato proposito di ubbriacarsi, ma sbadatamente. Quando don Giulio intese com'egli fosse aspettato, il suo volto s'infiammò per un precipitoso afflusso del sangue, tentennò la testa per tirarla al giusto apprendimento di quella notizia e balbettò: - È vero? - To'! - gridò ridendo pazzamente il dottorino - ch'io sia venuto a contar fandonie? - e picchiava troppo forte il bicchiere sulla tavola. - Severina? - esclamò il conte balzando in piedi e fregandosi la fronte e gli occhi. - Ma non è un sogno questo? mi svegli dottore, se questo è un sogno. Il dottorino ghignava allegramente. Il conte pareva fuor di sé e girava per la camera, ridendo, esclamando, scarmigliandosi i capelli, frugandosi nelle tasche, come uomo che cerchi qualche cosa e che non sappia ove riesca. Il tempo frattanto si era fatto buio e le vetriate tremavano per i forti buffi, che venivano dal bacino di Argegno; una pioggia a sbalzi picchiava rabbiosamente sui vetri e lampi rapidissimi si disegnavano facendo aureola fiammeggiante al montagnone di contro e talora nicchiando come la pupilla d'un selvaggio incatenato. Il dottorino stentò a levarsi dalla sedia e non senza fatica venne fino alla finestra, da cui grondavano rigagnoli lunghi e giallognoli e serpeggianti, come vermiciattoli, fino a mezzo della stanza. Appoggiò la fronte, che bruciava, al vetro gelido e forse per effetto di quella vernaccia, bevuta in mal punto, dopo un lungo digiuno e un viaggio malaugurato, vide sul piano plumbeo del lago sorgere boschetti e cespi e un villino e macchie di fiori, fra i quali movevasi un bianco cappello di paglia. Però il conte, già troppo egoista per natura, non si avvide né dei fumi, né dei barcollamenti, da cui era preso il dottore. - Bisogna partir subito. - Subito - rispose il dottore. - Non permetto che ella mi segua con questo tempo, - Si figuri - rispondeva l'altro, tanto per rispondere. Ma nessuno di que' barcaiuoli volle prendere il remo e sfidare il tempo, neppure per qualunque offerta, segno che della vita quei filosofi avevano un concetto piú largo d'una moneta d'oro. Il conte cominciò a bestemmiare fra i denti e domandò al dottore, se sentivasi cuore d'accompagnarlo. - Anzi è il dover mio - rispose il dottore, tanto per rispondere. Ma questa volta milord aveva fatto i conti senza l'ostina, la bella Luisina, che, all'intendere quella disperata risoluzione, fu per cader morta o poco meno, dallo spavento; venne innanzi al bell'inglesino, e alzò la voce e le braccia, e lo cinse al collo e lo bagnò di lagrime, chiamandolo con tali nomi pietosi, che tradivano in lei quella cara amicizia, che va perdendosi nel mondo. Spiacque a don Giulio questo contrattempo, sebbene non gli riuscissero tutt'affatto nuove queste cerimonie della bella ostina, onde con violenza aspra e ferina si sciolse da lei, che cadde davvero ginocchioni al suolo; il conte urtò nel gomito il dottore e quasi lo sospinse fino alla gondoletta, maledicendo a mezza voce le ostine, che, quando amano, amano davvero. - È giusto che mi ricordi di te, ma domani... Presto, dottore, a poppa. Il tempo è molto brutto, ma ella conoscerà meglio di me questi venti... Il dottore obbediva. Arrancarono i remi, e aiutati da pochi pescatori accorsi, presero il largo, ma l'onda li risospinse ancora a riva, finché accordatisi colla voce, si curvarono entrambi sui quattro remi gagliardamente, piú con rabbia che con arte, ciascuno, per ragioni sue particolari e alla sua maniera, orgoglioso di sfidare la morte. La gondoletta prese l'aire come vollero i padroni, e, quando fu a cento colpi di remo dalla sponda, cominciò a galoppare, precisamente come un poledro balzano e il conte andava gridando con voce chiara ed eroica: - Attento! l'onda è qui: su! - e la gondola montava in groppa a un'onda, che veniva per schiacciarla; il vento si portò i cappelli dei remiganti, la pioggia fitta li batteva ostinatamente nel viso e negli occhi. Si era già al tramonto, che in quel dí aveva precipitata la corsa e al giungere della sera meschiavansi, non saprei dire, quali nuovi venti alla battaglia, cosicché l'onde squallide si gonfiavano e si sbattevano affannosamente le une contro le altre destando rombi e gemiti misteriosi. La gondola una volta dié di cozzo nella curva di un'onda e da tutte per un terzo girò sopra un fianco, schiaffeggiata le parti da fiotti, che sormontarono e che cercarono tirarla giú coi loro uncini di spuma, ma i due rematori con un grido se l'intesero, e con un po' di tabusso e di scialacquo si drizzarono. Toccavano già il mezzo del bacino sudati, grondanti d'acqua, coi capelli strabuffati, arsi in volto, coi denti stretti, e mandavano ad ogni colpo una specie di ruggito che alla sua maniera sfidava le furie delle acque e dei venti. - Severina merita questo viaggio, n'è vero, dottore? Cosí domandò il conte in un istante di tregua e seguitò: - Da bravo, punti a destra. Io vedo già nelle tenebre il mio paradiso... Il dottorino man mano che entrava nell'animo del conte, scopriva come l'orgoglio e l'egoismo ispirassero tutte le sue passioni come quel riaccendersi dell'amore avesse in se piú del furore che della compassione e infatti don Giulio sentivasi spinto verso Severina da una disperazione, che, radunata per tanto tempo fra le strane avventure, assopita qualche volta ma non spenta mai, aveva minacciato rompere in follia. Questa disperazione, quando riprese nome di amore, piú che amore si poteva chiamare bufera voluttuosa che eccitava gli spiriti fieri del patrizio e l'avidità cieca dell'uomo. Ecco perché il conte, senza accorgersene, riusciva crudele contro il dottore. Questi aveva già l'esca al cuore; la vernaccia gli dava le vertigini, l'ondeggiamento della gondola gli metteva in corpo la nausea, la pioggia e il vento gelato, destando in lui i brividi della febbre, congiuravano contro la sua ragione e contro i propositi gravi che aveva promesso di mantenere: passavano degli intervalli fra queste tenebre, nei quali il dottore smarriva del tutto la coscienza di sé e, come se la testa abitasse in qualche pianeta lontano, ragionava sí, ma non colle idee di tutti i dí, esagerandole, mescolandole, addormentandosi talora in una dolorosa estasi, che non era altro se non smemoramento. Perciò alle parole del conte sentí ribollire i vecchi spiriti domati fin qui, e, perduto il sentimento del giusto e dell'utile da ubriaco, infuriò contro l'uomo che l'oltraggiava contro la sorte che l'aveva stretto fra le asse d'una gondola, e si sarebbe volentieri rovesciato nei flutti, non per volontà di morire, ma per scatenarsi contro un nemico qualunque. Fu in questo rapido delirio ch'egli dié quattro o cinque colpi di remo a contrattempo, in risposta all'offesa del conte, il quale non immaginando quello scherzo e colto all'improvviso, fu imbarazzato nel remeggio, talché un'onda subdola, che incalzava, urtò la navicella di traverso, la spinse e la portò con una lama d'acqua, per buon tratto, all'indietro contro un'altra, che piombò sopra la prua dov'era il conte: questi, che sentí cedere l'assito, tentennò, si protese col corpo piú che poté sopra il remo sinistro, e, rinversandosi energicamente sulle calcagna, trasse la gondola da un pericoloso avallamento, sebbene fosse già stortata sul fianco e assediata da nodose spire. Un lampo rossigno, che balenò, illuminò il valoroso lottatore, bello nel suo abito bigio, e coi capelli ricciuti, che colle scosse cavalline del capo, toglieva dagli occhi; anche il dottorino lo vide e gli parve sublime. - Conte - gridò - pare che l'inferno sia ben vicino al vostro paradiso. - Avanti, il vento è gagliardo, ma per Severina scenderei anche negli abissi. - Povero Orfeo! ahi! mi si è spezzato un remo. - Maledetto! - urlò il conte, che sentí un sinistro scricchiolio e un nuovo urto alla gondola. - Che è questo, che è questo? - ripeté. Una spaventosa idea venne in mente al conte, a cui il contegno del dottore cominciava a parer ben stravagante. - Conte - seguitò il dottorino con voce sguaiata - fermiamoci alla prima osteria? Luisina ci porterà della vernaccia. Queste celie, che scaturivano quasi dal buio, fra pericoli di morte, suonarono male all'orecchio del conte, che cominciò a dubitare d'un inganno. Il racconto udito poco prima gli parve a un tratto inverosimile, e corse col pensiero al barone; pensò che Severina fosse veramente morta e che questa fosse una trappola e una vendetta. Vendetta di chi? non d'altri che di quest'uomo venuto a sfidarlo sí bizzarramente fra la tempesta, correndo egli stesso pericolo di morte. Non aveva detto il dottore di baci e di abbracci ricevuti, senza meritarli? non aveva vegliato molte notti al letto di Severina? ch'ei l'amasse? non aveva costui contemplato a suo agio tanta bellezza? ah certi suoi sorrisi maliardi! senza dubbio il dottore era un rivale disperato. Queste idee si accumularono nella testa del conte nel tempo che brilla un lampo, e la gelosia feroce e la vergogna dell'onta, e la paura della morte e dell'ignoto destino piombarono, come tanti nembi, nell'anima, e gli oscurarono la vista. Il dottore taceva; era forse scomparso? il conte lavorava di braccia, la pupilla fissa innanzi a scrutare il pericolo, l'orecchio attento ai piú deboli fiati di vento, presentendo quasi coi nervi il venire di un'onda, fiutando nell'aria la via giusta, duro, ostinato, pronto a contendere quella spanna di assito alle furie e all'ira degli uomini. Povero Marco! era ubbriaco e se ne accorse egli stesso allo scombuiamento, che nacque nel suo cervello, a certi vacillamenti delle gambe, alla spossatezza degli spiriti tutti, al tremolío della vista; le sue parole gli risonavano ancora nelle orecchie fastidiosamente, come avviene a chi si accorge d'aver detto uno sproposito e che avvilito e vergognoso non ha scuse pronte. Quel che avesse detto non sapeva raccapezzare, e di questo solo aveva un barlume, d'essere cioè un miserabile senza lealtà, senza coraggio, che aveva assalito un nemico incapace di difendersi. Perché era dunque venuto in traccia del conte? perché aveva ingannato il barone? quale lotta orribile e grottesca si era preparata, dopo tante prove? - Aspettava seduto sulla punta della barca che il conte, abbandonati i remi, si slanciasse contro di lui a chiedergli parole piú chiare, a scongiurargli il suo amore per Severina e Dio sa la tragedia che la gelosia e l'ubbriachezza avrebbero potuto rappresentare su quella scena di flutti, nel disordine della bufera. Si sarebbero afferrati pel corpo? avrebbero lavorato di ugne e di morsi, finché nel nome di Severina non fossero entrambi precipitati a finir la lotta nel fondo? Il conte, che nell'affanno del remare non aveva fiato per una parola, a poco a poco, ripigliato l'andamento dell'onda, cominciò a cercare del dottore, che rannicchiato a poppa, non dava segno di vita. - Dottore! - chiamò; e sospettò ch'ei fosse, nello scompiglio della tempesta, caduto nel lago; ma un singhiozzo lo fece trasalire, al quale seguí un altro e finalmente un pianto lamentoso, come di bimbo istizzito, con parole mozzicate, delle quali il conte non intese se non: - Scusi, sono ubbriaco. Il dottorino infatti aveva sentita tanta compassione di sé, che piangeva per non saper far di meglio, né desiderava altro che di poter svanire come un buffo di fumo. Il conte piú attonito che irritato si ricordò della vernaccia tracannata ingordamente dal dottorino all'osteria, e, pensando che nella foga del remare gli fosse andata al capo, compatí quello sciocco ubbriacone, che pieno di vino osava sfidare tant'acqua. - Si sente male, dottore? si consoli che il vento cala e che siamo sotto costa. Non si muova, perché Bacco e Nettuno non se l'intendono troppo bene. Ne faremo un quadretto, dottorino, per i morti miracolosi di Torno. - Il conte rideva. Queste celie giungevano al dottore come il suono d'un lontano fruscio di foglie, perché il suo cranio era girato e raggirato fra certi anelli, che si dilatavano e si stringevano a vicenda, rapidamente, sí che talora gli sembrava di scender basso basso fino a toccare fondo e di balzarne su elasticamente come un sughero, fino al pelo dell'acqua. Il conte rideva, ma alla vista di lanterne a vento, che movevansi innanzi a un casino e al mormorio di voci non troppo lontane, il cuore tornò a picchiar forte, come al tempo dei piú ingenui amori; guidò la gondoletta a una nota scogliera, ove soleva sbarcare nelle altre sue visite notturne, e fu solo all'urto della punta contro i sassi che il dottor si svegliò di soprasalto, girò gli occhi, rammentò, comprese dov'era, si mosse quasi per istinto, e cadde, piú che non saltasse, dalla gondola all'asciutto. Il conte gli diede mano, perché non tuffasse, ma vedendo che il malanno era poco, e che il dottore, tornato in sé dopo un sonnellino di cinque minuti, balbettava scuse stracche, lo affidò alle cure della Provvidenza e prese la corsa verso il Ritiro . Il dottorino restò immobile alcun tempo cogli occhi fissi al suolo e sorrise mestamente di sé stesso; lasciata la gondola ben assicurata colla catena a un macigno, montò fino all'orlo della strada e chiamò il conte; ma il conte non c'era piú. Cercò qua e là, come meglio poteva nell'oscurità cupa di quella strada, ma si trovò solo, troppo solo. Stette pensando al cammino che doveva prendere, se verso il paese o verso il Ritiro , e sentí proprio come due forze egualmente tenaci che lo tiravano dalle due parti. Don Giulio venne di corsa fino al Ritiro , che distava cento passi dallo sbarco, e i servi, avvisati del suo arrivo, gli furono incontro e lo riconobbero. - Mi attende? - disse con ansietà. - Da due ore e colla piú grande inquietudine - rispose il vecchio napoletano. - Dov'è? - Di qui; a destra per la scala. Il conte precedeva il servo, che non correva abbastanza; agli ultimi gradini gli mancò il respiro, e calmò il battimento del cuore premendovi ambo le mani. - Come il dottore aveva consigliato, si era tenuto discorso a Severina del prossimo arrivo di don Giulio, che si fingeva chiamato da Milano: ma al giungere di quel tempaccio, nacque in tutti la paura che il dottore e il conte fossero stati sorpresi per via. Il barone passeggiò per il tratto di due miglia nella camera di Severina, che, tendendo l'orecchio ad ogni soffio d'aria andava dicendo: - È qui?.. Il barone, che correva col pensiero a imaginare qualche nuova disgrazia, fatto piú livido, piú cupo stringeva le mani tanto da tagliarsi coll'unghie. Quando intese un suono di passi nel giardino e riconobbe la voce del conte, un grido che gli muggiva sordamente nel petto venne fino alla strozza, ma la superbia, lo sdegno di padre e di patrizio ve lo soffocò. Quale vergogna! sarebbe stato un grido di gioia. La vecchia zia entrò, sbattendo furiosamente le porticine e, agitando le braccia sopra la testa, disse piú che non parlasse. Severina balzò a sedere sul letto, spingendo innanzi il capo, spalancando i grandi occhi spiritati, colle chiome che si sparpagliavano, per immensa trepidazione. La contessa che l'aveva assistita in que' giorni, commossa, cadde muta, sospesa, accesa in volto a piè del letto; il barone si rintanò nel vano d'una finestra, e due, forse tre minuti secondi passarono silenziosamente e parvero lunghi come quei dell'agonia, finché suonò un passo nel corridoio. La fanciulla, ridendo scosse la testa, dilatò le pupille, portò le mani ai capelli, e, guizzando, sarebbe balzata dalle coltri, se prima non si fosse precipitato verso di lei un uomo. Un grido acutissimo s'udí, che non pareva umano, e sparí la pazzia. Chi non avrebbe pianto? Adriano posò la testa allo spigolo della finestra e guatò sdegnosamente l'ombra della notte; nessuno si accorse delle sue lagrime. Severina, dopo molte risa convulse e selvaggie, ruppe in lagrime e posò la testa sul guanciale, come persona stanca. Don Giulio piegò un ginocchio e, presa una mano di lei, vi pose le labbra e chiese, tremando ed esaltato, il conforto di una benedizione, che ottenne di poi. Marco, che veniva gesticolando verso il Ritiro , assorto in penose investigazioni, delle quali non conosceva bene egli stesso la ragione, intese quel grido acutissimo, in cui pareva trasfusa tutta un'anima umana, l'amore, la gioia, e la pazzia. Si arrestò di botto, e quasi si svegliasse da un sogno, si orizzontò, ritrovò sé stesso, capí che la bella storia era finita, sorrise in atto di chi si rassegni, e mosse gli ultimi passi verso il cancello del Ritiro . Lo trovò chiuso, perché i servi, occupati altrove, non si sognavano punto di lui; sforzò colle mani le sbarre e le sentí rigide, dure, resistenti e nel loro tintinnio alquanto canzonatorie; alzò gli occhi alle finestre e vide un muoversi di lumi e un disegnarsi di ombre su per le ampie cortine; tutto era silenzio là dentro, ma era facile immaginare perché ciascuno tacesse. Immaginò alla sua maniera quella scena di aspettazione, di pianto, di slanci indomabili, di frenesie voluttuose, sebbene meste, e non seppe trattenersi dal dare una scossa a quell'inferriata. Piovigginava ancora, e, sebbene nessuno avesse voluto di proposito escluderlo, tuttavia parve al dottore che il conte o altri si fosse vendicato dell'audacia d'un povero dottorino, che aveva fermati gli occhi e il desiderio sopra una baronessa. - Era la prima volta ch'egli si accorgeva che la figlia d'un barone è una baronessa. Piovigginava ed egli, come un pezzente, non sapeva staccarsi da quella illustre porta, e andava cercando nell'ombra l'immagine diletta, per la quale tanto soffriva; ah poveretto! aveva fatto a fidanza sulla virtù razionale del suo ingegno e sulla fierezza stoica del suo carattere, spregiando in malo modo le esigenze del cuore. Il cuore aveva sofferto e taciuto fin lí, ma ora punto dall'ira e dalla gelosia, sorse a spaventosa ribellione; l'amore per la bella baronessa dagli occhi molli, dalle membra delicate, che egli aveva contemplata bellissima nel sonno, piú bella nel sorridere, quasi ammaliatrice nell'abbracciare nella follia e nell'abbracciare un amico, - quest'amore compresso, trascurato, reietto tornò con tutte le lusinghe delle memorie, con tutta la poesia delle imagini, con tutte l'armi di chi, desiderando vuol contrastare ad altrui un bene, e infuriò sotto la pioggia, il vento, il freddo... - Ah l'indegno! - disse con un rantolío alla gola, puntando la testa al cancello. - Ah l'indegno! - urlò lanciandosi a corsa per quella strada buia, e piena di fango, scendendo alla ventura per i sassi della riva, finché tornò alla gondoletta, la sciolse, vi entrò e colla punta del piede la spinse in là, fra le onde, non per voglia di morire, ma perché in tanto scompiglio della ragione e del sentimento gli pareva quella una via buona ed unica. Vi si distese come un morto nel cataletto, posò la faccia, stretta fra le palme, sull'assito e poiché, fra il rumore dell'onda e dei venti, il suo pianto non sarebbe giunto a orecchio umano, e le sue imprecazioni non a Dio, gemette e imprecò ad alta voce contro sé, il conte, gli uomini tutti meno Severina, che si figurava invece di sorprendere in quel vano tenebroso nella notte, fra l'accendersi dei lampi, e il rigoglio dei flutti. Gli ultimi fumi della vernaccia davano alle imagini della fantasia e alle cose vere contorni nebulosi, in modo da confonderle tutte quante in un via-vai da labirinto in quadri placidi dissolventisi ad ogni tratto per trasformarsi. Poiché Severina era perduta per sempre, accese l'immaginazione a determinare il valore del bene perduto, riproducendola in tutta la sua bellezza co' suoi capelli ondeggianti, che tentava toccare, con quei tremiti di labbra, che aveva tante volte sorpreso, a cui credeva accostarsi e ne prelibava quasi la dolcezza... finché un urto piú forte alla barca gli ricordò dove fosse. La bufera stava per finire, e ne fu il segnale un fulmine che si scaricò al di sopra di Nesso: Marco balzò a sedere e vide corruscarsi tutto il lago in rapide scintille d'oro, e ripiombare poi piú tetre e spesse le tenebre. Dove andava? la tempesta non era sdegnosa abbastanza per travolgerlo; l'ubbriachezza cessava, e sentivasi trascinato dal sonno. Parve ridicolo a sé stesso e se ne adirò. Non voleva essere eroe, non voleva morire. Giudicava il morire azione da vile, e forse aveva paura. Pensò che il genio buffo, il quale sorveglia ogni uomo serio, gli mormorasse: "Lí sotto non troverai Severina e domani ti pescheranno come un luccio" Il dottorino era lombardo, e sentiva tornare a poco a poco quell'antichissimo buon senso, che vola da queste parti e che proibisce a molti buoni di diventare eroi inutili. Cominciò ad arrabbiarsi, e finí col ridere, - era l'ultima conclusione - e rider forte di questo povero dottorino, cullato dalle onde come Mosè, e che molle d'acqua e di vino avrebbe voluto combattere una battaglia contro una rovina di sassi e afferrare le saette per mettersele in saccoccia. Gli parve udire la voce grossa di Celestino, che rideva, onde brancicò per cercare i remi; ma quei del conte erano rimasti sulla riva e i suoi come trovarli? Girò dunque gli occhi oziosamente all'intorno, e li fissò alla riva non troppo lontana, dove campeggiava l'ombra del campanile del suo paese e vide errare dei lumi, e lo ferirono voci indistinte, che venivano di là. Ma a un tratto trasalí per una voce non tanto discosta, che gridava: - Tonio! Tonio! - e piú lo spaventò un tabusso come d'uomo che annaspi nell'acqua; guardò e vide a tre passi un cencio nero che si voltava nell'acqua e piú in là il lume d'una barca mentre la medesima voce ripeteva: - Tonio! - Si curvò sulla sponda della gondola e scrutò fra le tenebre; gli ultimi abbarbagli del lampo non erano troppo accesi per rischiarare la scena, ma un rantolo d'uomo che si anneghi, gli manifestò troppo chiaramente che Tonio non poteva rispondere. Non era tempo di vani pensieri: trasse le scarpe, e la giubba, e si rovesciò sopra un fianco della gondola, che si capovolse. Nuotò verso il corpo, coperto tratto tratto dall'onda non ancora tranquilla; la spuma dei fiotti gli entrava negli occhi, ma guidato da un buon istinto, venne sotto al corpo, lo sollevò con una mano, lo trasse per un lungo spazio alla cieca finché, scrollando il capo, poté orientarsi sulla giusta direzione. La barca gli era sfuggita e pensò meglio fatto dirigersi alla riva. Lottava con un braccio contro le resistenze dell'acqua, che faceva gorgo intorno la sua testa non furiosamente, ma colla tremenda morbidezza di cuscini che si ammucchiano. Dietro di lui risuonò un tuffo di remi, e la medesima voce di prima: - Di qua, di qua! La testa di Tonio ballonzava pesa sulla sua spalla e tratto tratto il cadavere tirava in giù il vivo; dico cadavere sebbene Tonio viva ancora a contarla, ma allora perduti i sensi, pieno d'acqua come una botte, rigido e stecchito pareva che avesse giurato di trascinare il dottorino alla casa dei pesci. Andò ancora un poco come a Dio piacque, finché sentí sferzarsi il viso da una scuriada, che lo acciecò e per poco non gli sfuggí di mano la preda; l'afferrò con avidità rituffandosi piú d'una spanna, e ritornò a galla ansante, sbuffante, e alquanto disgustato di quell'acqua che non era vernaccia. E già la destra sentiva i pizzichi del granchio, e gli abiti molli e saturi pesavano come cappe di piombo e gli sovrastava minacciosa la noiosa legge che tira i pesi al centro, quando una nuova frustata attraverso il collo gli fe' gettare un grido di dolore; sentí serrarsi fra le orbite di un serpente, cioè di una corda, che gli lanciavano per la seconda volta dalla barca che, avendo a lottar colle tenebre, col vento e coll'onda non osava avanzarsi troppo per paura di schiacciare i naufraghi. - L'ha abboccata: forza, ragazzi. - Cosí predicava la medesima voce, e il dottorino, che aveva abbrancata la fune, si sentí a un tratto tirato in rimorchio; l'acqua tagliata dalla barca veniva a gorgogliare all'orecchio di Marco, che per quel fregamento provava in tutti i nervi un voluttuoso solletico. Era tempo. Lo trassero a riva in tale stato che Tonio poteva sfidarlo alla corsa. Mentre lo portavano in un casolare vicino rinvenne alquanto, e parlava ancora d'una miriade di lumi, visti in quella dormiveglia, di voci che schiamazzavano, come se i lanzichenecchi fossero alla canonica, e di un amalgama di ciclo e di acqua che lo chiuse in una notte profonda. Il fatto si può contar presto. Tonio, uno dei pescatori di quel paese, s'era indugiato sul lago, pigliando a gabbo certi fischi, che gli avevano zufolato: - Va' via! - onde fu colto dalla tempesta proprio nel momento che non avrebbe voluto esservi. Le sue donne a casa chiamavano già tutti i santi per nome, e i suoi amici, che l'avevano veduto un'ora prima presso Torno, avevano sfidato coraggiosamente il pericolo per venirgli incontro. Oggi a me, domani a te - dice la povera gente, e per fare una buon'azione non pensano mai a formare un comitato: perciò in dieci minuti furono nelle peste in cerca di Tonio; ma questi, che da mezz'ora nuotava in cattive acque, colla barca crepa e il timone rotto, aveva creduto migliore buttarsi a nuoto, ed era, dopo un'altra mezz'ora di lotta bestiale, ai rantoli; quando gli furono addosso il dottorino, e in seguito gli amici. Allorché riconobbero il sor dottorino nel miracoloso salvatore di Tonio, tutto il paese fu in rumore, come se si avesse detto l'imperatore; la voce si sparse per tutte le case e prima di mattina lo sapeva il sagrestano del duomo di Como, che la contava ai preti, e via via fino all'imperial regio commissario. Ai nostri giorni l'avrebbero fatto cavaliere, ma a quei tempi avari si contentarono di parlarne coll'istesso calore che d'un omicidio e dello scandalo d'una bella signora. Tonio guarí e dei due non saprei dire quale salvasse l'altro, perché, quando Marco aperse gli occhi, dopo una notte di febbre in casa sua, sentí una dolce consolazione e un gran piacere di essere al mondo, onde sono per credere che l'uomo soltanto, il quale abbia l'idea della sua dignità, è veramente vivo e incomincia a morire il dí che diventa inutile. Al suo fianco sedeva Celestino, che lo risvegliò del tutto dicendogli: - Raccontami qualche cosa del regno delle sirene; è vero che finiscono in coda di pesce?..che peccato! - Celestino gli somministrò un cordiale di risa sí sgangherate da riscuotere una mummia. La febbre durò tre giorni, ma Celestino assicurò che era tanta salute e non volle che si levasse da letto; dopo il quinto dí, poiché l'infermo aveva avuto giudizio, il dottore permise un bicchiere di contraveleno, cioè di quel vino che strappava le lagrime di riconoscenza verso la Divina Provvidenza, che dopo aver creato l'uomo, lo vuole allegro. Sul far della sera si bussò all'uscio. - Chi è? - domandò Celestino. - Sono io - rispose una voce. - Chi è l'io? - Sono il morto. Entrò Tonio, un po' pallido, ma in gambe e lo seguiva la donna con un bimbo al collo, e ultima veniva la vecchia madre appoggiata alle spalle di una bambina, che di pulito aveva soltanto gli occhi. Tonio teneva per la coda un grosso luccio, uno di quelli che l'avevano aspettato a cena quella brutta notte. - Che diavolo! - gridò Celestino. - Non è la festa delle rogazioni. - Scusi, sor dottorino... La Ghita ha voluto venire per ringraziarlo dell'incomodo, che si è preso per me l'altra sera. - Dov'è? è qui? - domandò la vecchia madre, che era cieca - È qui - le rispose la fanciulla. - Ne ho benedetti molti e sono stati fortunati. Marco stese la mano commosso a Tonio, che gli offrí il pesce d'una libbra e tre quarti, assicurando che cotto nell'aceto doveva essere un cappone. - Grazie, buon amico - rispose il dottorino. Celestino voltò le spalle e andò a suonare il tamburo sui vetri: certe cose gli rimescolavano il sangue. La vecchierella venne fino al letto e posata una mano tremante sulla testa del giovane: - Benedetto te - esclamò - benedetti i tuoi figli e la tua sposa, quando l'avrai, perché hai salvato un padre di famiglia. - Sicuro - disse Tonio; - se non c'era lei, la era finita per questi, come si dicono? Di' anche tu qualche cosa, Ghita, ci vuol altro che piangere... Anche il dottorino ebbe una benedizione e, come se tutta quella felicità gli venisse da Severina. socchiuse gli occhi per rivolgere a lei un ultimo pensiero, che fu il piú venerabile e il piú delizioso. L'amore diventava religione. Questa scena di pietà sarebbe durata a lungo, se Celestino non avesse levata la voce a sgridare Tonio, perché aveva lasciato il letto troppo presto, a sgridare la vecchia perché uscita di casa con tanti malanni in corpo e il bimbo perché aveva il naso sporco e la fanciulletta perché non si lavava la faccia. Se non si aiutava con questa sfuriata, Celestino (non state a ripeterlo) era un uomo da commettere uno sproposito, non dico piangere, ma commuoversi. Venne il giorno che i due amici dovevano lasciarsi. Marco accompagnò Celestino per un buon tratto di via, e, man mano che si andava innanzi, le parole si facevano piú scarse, finché stettero a guardarsi in faccia, tenendosi per mano, sorridendo, ma non allegramente. Celestino aveva lasciato spegnersi la pipa. Marco gli aveva narrata la dolorosa istoria del suo amore, e Celestino per assicurarsi che era veramente guarito gli disse: - Il barone, Severina e l'altro sono partiti ieri sera. - Buon viaggio - rispose il dottore, ma la voce gli si affievolí. - Troverai nel tuo scrittoio una lettera di Sua Eccellenza, che ho ricevuto ieri, ma che tenni nascosta per riguardo alla tua convalescenza. A proposito di lettere eccotene un'altra che mi ha scritto un uomo bizzarro pochi giorni or sono, e fa di leggerla mentre ritorni a casa, perché la strada è deserta e potrai riderne a crepapelle. Celestino diede la lettera, accese la pipa, toccò vezzeggiando il ganascino all'amico e gli disse: - Stammi bene, mio bel filosofo, e guardati dai colpi di sole. - Poi se ne andò fischiando. Il dottorino ritornò verso casa e, aperta la lettera rise di cuore nel riconoscere la propria scrittura e nel rileggere queste righe: "Illustrissimo signor Conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll' autorità d'un superiore.... La lettera, respinta da Ginevra per difetto di indicazione, dopo lungo giro, era venuta nelle mani di Celestino, al quale era diretta. La lettera del barone diceva semplicemente: "Il vostro Dio meriterebbe d'esistere", e chiudeva due biglietti da lire mille. - M'hanno pagato! - borbottò il dottorino e fu per stracciare quei preziosi cenci di carta, ma pensò che venivano da Severina e che molte spose del suo paese non avevano un soldo di dote. Passarono molti anni da quel giorno; la baronessa divenne contessa e dispero di ritrovarla fra i vivi; il conte ingrassò ed era nel suo pieno diritto, il barone si chiuse in biblioteca, che fu la sua prima tomba, l'epicureo Celestino, morto di colera, fu sepolto, come desiderato, colla sua pipa. La benedizione fruttò al dottorino di campar lunghi anni sano e rubizzo, e, sebben vecchio, vive ancora contento di vivere. A chi gli domanda il segreto di questa beatitudine mostra una ricetta in latino, trovata fra le carte del suo povero amico, la quale può chiudere a guisa di morale, queste pagine non immortali. Recipe vinum bonum et pippam longam , e io la consiglio alle anime sensibili. 40

La morte dell'amore

663207
De Roberto, Federico 1 occorrenze

Gli avevo perdonato tante vergogne, tanti abbandoni, tanti tradimenti! Ero stata sorda agli stessi dileggi, agli stessi sospetti, agli stessi affronti! Credevo sempre in lui, suo malgrado. Volevo trovare qualcosa di buono in fondo al suo cuore; stimavo sempre che ne avesse. Mi accorgevo che l’amore boccheggiava in lui, che era già morto; ma pensavo almeno che fosse stato vivo, una volta! Con una parola infame egli mi tolse quest’ultima lusinga, calpestò la stessa illusione; quando volli ricordargli questo amore, le parole che m’avevano esaltata, i giuramenti che m’avevano ubbriacata, egli mi disse: "E tu li hai creduti?…". E con la stessa bocca che li aveva proferiti disse ancora: "Ma sono la moneta con la quale si pagano quelle che non son da comprare!…". Allora, vedete, l’unico mio scopo, l’unico mio bisogno, ardente, imperioso, vorace, fu di diventar come queste… – La sua voce, che s’era fatta rauca tanto da costringerla a tossire replicatamente, si schiarì ad un tratto. – Non lo accuso più. Compresi, tardi, che la colpa non era stata neppur sua, che egli non poteva esercitare virtù che non aveva. Non crede chi vuole. Forse, chi sa, affinch’egli soffrì –. Ed alzò le spalle e scosse un poco la testa con l’espressione indulgente di chi ha visto molte miserie. – Comprendete bene dunque – riprese – la condizione mia all’apparire dell’Altro. Intatta, insaziata, esasperata, io portavo con me la mia fede – e non ero più degna d’esser creduta. L’Altro mi credette. Per lui era il primo amore. Nessuna donna aveva ancora sospettato il tesoro di sentimenti che egli portava in cuore; e questo tesoro tanto grande che non v’era purezza capace di pagarlo, io, l’ultima delle creature, l’ebbi, tutto. No, il povero linguaggio umano non potrà mai dir che cosa fu questo amore, l’esultanza divina di due esuli ciascuno dei quali ritrova nell’altro tutta la terra, tutto il cielo della patria lontana. Il linguaggio umano può dire soltanto le umane miserie, i dubbii, gl’inganni, i tormenti – e chi sa la vita comprenderà quelli che fatalmente ci aspettavano. Per un uomo che m’aveva avvilita, profanata, perduta, io avevo dato tanto, che nulla più mi restava da dare a quest’altro – per cui avrei voluto versare il mio sangue fino all’ultima stilla. Io avevo imparato a costo della salute dell’anima che non basta sentirsi giurare un affetto, che bisogna anche ottenerne la prova. Ed io non potevo dargli altro che le mie parole, e sapevo che le parole possono mentire, e sentivo che in bocca mia la menzogna doveva esser giudicata facile e pronta. Allora il dubbio che egli non mi credesse più cominciò a insinuarsi in me. Era dubbio e divenne certezza. Se quell’uomo avesse potuto leggere nel mio cuore come vi legge Dio sarebbe stato sicuro che tutti i palpiti del mio cuore erano suoi. Ma questo potere egli non lo aveva. Egli doveva paragonare, invece, sé stesso al mio primo amante, il bene infinito che mi faceva al male spaventevole che il primo m’aveva inflitto; ed avvertire che mentre il male era stato da me ricompensato con il massimo dei beni, a lui non potevo dare più nulla. E badate: non era già l’orgoglio suo che lo persuadeva a stimarsi di tanto superiore al suo predecessore, a pretendere che io facessi per lui molto di più che per costui: io stessa glie lo dicevo, glie lo ripetevo, glie l’attestavo. Ma come più gli parlavo dell’influsso maligno esercitato da costui sulla mia vita – per esecrarlo – più egli pensava ad esso – per temerlo. Egli non sapeva le sciagurate contraddizioni del nostro cuore, temeva che fossi ancora attaccata a quell’uomo in ragione degli stessi dolori che mi costava. Come dunque, come provargli il suo inganno, la dispersione assoluta di ogni memoria di quel passato, la fine della stessa esecrazione – poiché tutto l’orrore nel quale ero affondata non m’impediva la nuova felicità? E vedete di quali reazioni continue è fatto il nostro pensiero: mentre il conseguimento di questa felicità attutiva il sentimento dell’indegnità mia, questo sentimento si ridestava da un’altra parte, più acuto, più torturante – poiché la mia indegnità mi toglieva di dare a quest’uomo la luminosa dimostrazione che egli era in diritto di esigere! Allora qualcosa di più strano – di più umano – accadde in me. Quando io avevo portato nell’amore un cuor nuovo, un’anima vergine, tutto ciò che questa vita può dare di meno indegno, io m’ero accusata di non meritare abbastanza il ricambio dell’amore mio; ora che non me lo meritavo davvero, sentivo la ribellione prepararsi sordamente dentro di me. Dinanzi all’ideale Giustizia io era nel torto per avere criminosamente sperperato quei beni che andavano invece serbati con cura gelosa in attesa di offerirli a chi solo avrebbero dovuto appartenere; dinanzi a quest’uomo io ero in debito – e noi siamo così fatti da non tollerare il rimprovero dei nostri torti… E se ancora quest’uomo m’avesse apertamente rimproverato la mia miseria, se m’avesse buttato in faccia la mia abiezione, se m’avesse torturata ogni giorno, forse sarei stata meglio difesa contro le folli aberrazioni dell’egoismo; ma egli non fece questo, mai! Una tristezza senza fine velava talvolta i suoi sguardi, ma il suo linguaggio era sempre quello della dolcezza, della devozione, dell’umiltà. Allora io pensavo che egli parlasse così per compassione, che intendesse farmi un’elemosina, che non contento ancora dei suoi tanti vantaggi, volesse finire di schiacciarmi con la sua generosità – e la sorda ribellione diveniva più minacciosa. Avrei dovuto stargli in ginocchio dinanzi, e mi sentivo distaccare a poco a poco da lui … Il nostro cuore è così miserabile che non sopporta la gioia assoluta: una dose d’amore è necessaria al suo nutrimento. Quell’uomo aveva una gran colpa, non mi faceva soffrire. E come io lo disconoscevo, anch’egli disconosceva me. Perché la vita m’aveva contaminata, pensava che non fossi più capace d’apprezzarlo, che altre avrebbero saputo amarlo meglio di me. Presumeva ch’io dovessi portargli una gratitudine eterna per avermi sollevato fino a lui, che il pensiero di cercare altrove un altro amore – il pensiero che egli stesso accarezzava! – non dovesse neppure affacciarsi alla mente mia. E troppo sicuro d’essere amato, rispondeva meno all’amor mio, non pensando che questo fosse un torto, o pensando che fosse un torto minore e più tollerabile di quelli che altri m’aveva fatti. Ma le azioni umane non hanno tutte un valore relativo a chi le commette, alle circostanze nelle quali sono commesse, allo stato di colui che le apprende? E la freddezza d’un uomo come lui m’era più grave, dopo ciò che avevo patito, di tutti i tradimenti dell’altro amante… Così, giorno per giorno, il dissidio cresceva. L’ingrato destino ci era stato largo d’un bene incredibile; noi ce lo lasciammo sfuggire. L’amor nostro fu il vero, il grande, il solo amore; non sapemmo riconoscerlo. Come potevo riconoscerlo, io? Non m’ero ingannata altre volte? Non dovevo inevitabilmente sospettare di ingannarmi anche ora? A quel segno poteva riconoscerlo, egli che non aveva termini di confronto? Così il nostro inganno procedeva da opposte ragioni. Mancava ad entrambi la prova. L’avemmo –. Ella ripeté: – Fu questa –. E passatasi una mano sulla fronte, lentamente, da una tempia all’altra, disse, come in sogno: – Io lo tradii –. Dopo una pausa riprese: Imaginate voi che cosa dev’essere un pazzo che abbia perduto, insieme con l’intelletto, la vista? Soltanto un pazzo cieco avrebbe potuto fare quel ch’io feci – ragionatamente, deliberatamente. Pensai che egli non mi amava più, che non m’aveva amata mai. Credetti alle parole d’un altro, di quelli che ci troviamo attorno nelle agonie del sentimento, corvi che hanno fiutato il cadavere. No, non lo credetti! Non credevo più nulla. Ma questo scetticismo, la certezza che non c’era più nulla, la persuasione d’esser discesa tanto in basso da non poter cadere più giù mi buttò incontro ad un altro. Egli s’era accorto di quest’altro e non aveva trovata una sola parola per salvarmi. Io pensai: "Vuol dunque gettarmi via come una cosa inutile e vile!". E volli io stessa lasciarlo. Quando glie lo dissi …– Ella s’interruppe, esitante; e ad occhi chiusi, rovesciando un poco la testa, irrigidita come per catalessi, con voce lenta e gelata soggiunse: – Dopo che sarò morta, dopo che m’avranno chiusa dentro una bara, dopo che la terra mi avrà ricoperta, io udrò ancora quell’urlo –. Rimase quasi assorta qualche momento, poi ricominciò: – Saremmo stati ancora a tempo. Ma la benda non era ancora tutta caduta dagli occhi nostri. Io credevo d’averlo ferito nell’orgoglio soltanto, trionfavo provandogli che valevo ancora per gli altri, ottenevo la rivincita! Egli vide confermato il suo giudizio sulla mia infamia. Un intimo senso di sollievo, quella calma ingannatrice che precede lo scatenamento delle tempeste, ci pervase entrambi. Egli scomparve ed io ricaddi. Allora, allora soltanto, quando un altro prese il suo posto, quando io mi sentii nelle braccia d’un altro, quando questa carne miserabile fu preda d’un altro, un gemito sordo e lungo, il gemito d’una disperazione mortale uscì dal mio petto –. E un sorriso indefinibile, d’ironia, di pietà, di sprezzo, rischiarò quel viso. – Io sapevo, per averla tanta provata, la nausea del risvegliarsi accanto a qualcuno che fino alla vigilia è stato un estraneo e che dopo l’ultima intimità sarà più estraneo di prima. Io avevo curata questa nausea col procurarmene un’altra maggiore, e poi un’altra ancora maggiore. Ora non ne provavo alcuna. L’insensato stupore, il tremendo e senza fine sterile rimorso m’agghiacciavano troppo. No, io non credevo alla realtà; mi sentivo come sotto l’impero d’uno di quei sogni mostruosi durante i quali sappiamo però di sognare. Ed un pianto sconsolato, inesauribile, grondava dai miei occhi; uno di quei pianti che sembrano stemperare l’anima stessa, che nei sogni ci destano. Ma il mio risveglio era più tetro del sogno. E come in sogno io pensavo che qualche misteriosa potenza aveva certamente cambiato le fattezze, gli sguardi, la voce dell’uomo che fino a qualche giorno innanzi era stato mio, e come in sogno io cercavo di rivederlo attraverso quest’altro. Io figgevo il mio sguardo nel suo, lungamente, intensamente, fino ad abbacinarmi, per discoprire nel suo sguardo i lampi del Perduto; poi chiudevo gli occhi ostinatamente, inflessibilmente, imponendogli di tacere, per illudermi, per credermi ancora insieme col Perduto. Ed accadde questo: che i miei avidi tentativi, i miei funebri ardori, la mia lunga pazzia accesero l’animo non del tutto volgare del mio nuovo amante; egli credé ch’io facessi tutto ciò per lui – per lui! – e al soffio della grande passione quel fuoco divampò alto e gagliardo, ed egli trovò inaspettatamente una parola, l’accento dell’Altro… Illusione terribile!… Io m’afferravo a lui, gli prendevo il capo fra le mani, gli dettavo le parole che ancora, che sempre mi risonavano all’orecchio, e gli ingiungevo di ripeterle, ed egli le ripeteva, pensando che l’amore le suggerisse. E per un attimo io Lo ritrovavo! No, la nausea d’un tempo non mi soffocava più; no, io non potevo scacciare quest’uomo quando l’orrore invadeva l’animo mio, giacché per suo mezzo recuperavo in qualche modo colui che avevo disconosciuto; giacché la nausea, l’orrore, il pianto lungo e cocente mi rivelavano ciò ch’io avevo negato: la forza d’una passione che era la mia stessa vita! Non potevo scacciarlo; potevo soltanto e dovevo disingannarlo, dirgli a che mi serviva, perché facevo tutte queste cose – e glie lo dissi! Gli dissi che mai, mai avevo avuto un palpito, un solo pensiero per lui; lo costrinsi ad ascoltare la confessione dell’amor mio per un altro, gli dissi che cercavo quest’altro in lui; che invece di farmi obliare egli dava nuova forza alla passione mia; che ora, la prima volta, grazie a lui, grazie al mio tradimento, acquistavo la prova luminosa, sfolgorante, irrecusabile di quell’amore. E nella resurrezione della fede il mio spirito acquistava una sovrannaturale chiaroveggenza, un intuito fatidico: io sentivo che una rivelazione eguale alla mia doveva essersi fatta nell’anima del Perduto; che, lontano da me, attraverso nuove esperienze ed impreviste vicende, egli doveva piangere com’io piangevo perché sapeva che lo piangevo… Un giorno lo rividi. Corsi da lui –. Ella quasi gridò: – Chi avrebbe potuto arrestarmi? – Riprese con voce più sorda: – Gli dissi: "Sputami in viso, ma ascolta. Tu non mi credesti quando ti giuravo d’amarti. Dell’amor mio non seppi, non potei darti nessuna prova perché io stessa ne dubitai. Questa prova ora la posseggo. Pensai dimenticarti, e la tua memoria mi ha schiacciata. Ti abbandonai, e t’ho ritrovato da per tutto. Ti porto con me. Nessuno ti strappa più da questo cuore. Metti i tuoi piedi sulla mia faccia, ma lasciati dire, ora, che t’amo…". Egli… egli…– Giunse le mani, girò intorno lo sguardo come smarrita, e a poco a poco l’espressione dell’estasi si dipinse sulla sua faccia smorta. – Egli mi si fece vicino, mi guardava tacitamente. Tremava. Mi disse, così piano ch’io compresi piuttosto dal moto delle pallide labbra: "Sei tu?". Io potevo ancora parlare. Gli domandai: "Non m’aborrisci?". Ei rispose: "Ti piango…". Vedete voi queste mani? Qui caddero le sue lacrime, ed erano calde come gocce di sangue. Io non piangevo, sentivo il cuore battermi in gola. Tra le lacrime egli diceva: "Sei dunque tu? Non ho dunque sognato?… Quando io ti sospiravo, l’anima tua se ne veniva incontro a me?… Tu sai ora veramente quanto mi amavi? Nessuno di noi lo seppe, mai!… Povere creature umane, quali inganni sono i nostri!… Come fummo ciechi e sordi e ostinati nell’errore!… Ora la luce s’è fatta…". A quelle parole, alla certezza che egli mi dava, il cuore avrebbe dovuto allargarmisi dalla gioia, la fascia che mi cingeva la fronte cadere, tutto l’essere mio esultare… e invece un’ambascia muta, un terrore infinito mi piegavano, un gran freddo mi faceva rabbrividire… Egli diceva ancora: "Bisogna che l’aria ci manchi, per riconoscere che ne viviamo!… Neanch’io potei darti la prova d’un amore nel quale non avevo fede… Che stolto!… No, non accusarti: io fui colpevole al pari di te. Come te, ora soltanto sono sicuro e posso dire di amarti. Non pensar mai con rimpianto a tutto ciò ch’io ti dissi e che feci per te nei primi giorni della nostra fortuna; non rimpianger mai i giuramenti che l’ebbrezza dettava: nessuna prova d’amore vale questa che ogni giorno ti do…". E il mio terrore cresceva, lo sguardo mi s’appannava, le vene mi si vuotavano: perché se egli avesse detto che tutto era finito tra noi, io non avrei avuto di questa fine una certezza tanto disperata come udendo quelle parole. Nondimeno, dissi: "Allora, se tu mi ami ancora…". Un sorriso più triste di tutte le sue lacrime, il sorriso di chi muore mentre sente promettersi la salute e i beni della vita, passò nel suo sguardo. Egli prese le mie mani e rispose: "Noi non ci vedremo più". Mai la sua voce fu così dolce. Egli baciò queste mani e questa fronte – soltanto!…– E due lacrime, grosse e roventi come quelle da lei versate quel giorno, solcarono lentamente le sue guance. Quando la sua ambascia si calmò, ella ripeté: – Fu questa la prova dell’amor nostro, ed è questa la grande prova dell’amore operante e attuale. Ma come una legge spaventevole vuole che tutto si sconti, anch’essa s’acquista quando l’amore è perduto –.

Cerca

Modifica ricerca