Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonato

Numero di risultati: 242 in 5 pagine

  • Pagina 1 di 5

Da Bramante a Canova

250934
Argan, Giulio 1 occorrenze

Da tutto ciò si deduce: 1) che il progetto borrominiano fu approvato da Innocenzo X e quindi non era in contrasto col suo proposito di conservare la «primitiva forma»: espressione che con ogni verosimiglianza si riferisce solo allo schema basilicale a cinque navate; 2) che si rinunciò ai lavori del transetto, della tribuna e della volta della navata con il proposito di condurli a termine più tardi; 3) che, passata la festa e morto nel '55 Innocenzo X, il progetto di rinnovamento fu praticamente abbandonato e a Borromini non rimase che dedicarsi, con puntigliosa finezza, alla ricomposizione dei monumenti funerari nelle navate minori.

Pagina 224

Il divenire della critica

251845
Dorfles, Gillo 2 occorrenze

Tuttavia, un ritorno a un tipo d’arte che abbia abbandonato i valori di scambio per quelli esclusivamente d’uso - oggi quasi inimmaginabile -, mi sembra abbastanza ipotizzabile, comunque si mettano le cose dal punto di vista socio-politico. Ne abbiamo già oggi degli esempi anche se marginali e paradossali: la pittura-scultura infantile, quella dei dementi (entrambe spesso «spontanee» o esercitate con precisi intenti pedagogici e terapeutici) sono forme d’arte del tutto avulse da ogni «valore di scambio», cariche invece di un «valore d’uso». (Anche se, persino su questi onesti e candidi esempi d’un’arte fatta per catartizzare e curare, si son visti lanciarsi gli avvoltoi dell’affarismo consumistico: allestitori di mostre d’arte infantile e di arte demenziale, pronti a «valorizzare» tali opere assurde e perciò allettanti sul mercato artistico). E allora non stupisce che, accanto a tanti esempi di body art, di forme autodeformatrici e autolesionistiche, si siano riesumati degli esempi «storici» come quelli del viennese Messerschmid (1736-83)1 e che nella Documenta 73 di Kassel, accanto alla Selbstdarstellungen dei Ben, dei Nitsch, degli Acconci (essi stessi per buona parte rientranti nella categoria d’un’arte patologica anche se già in partenza mercificata) si siano allestite mostre come quelle degli schizofrenici Adolf Wölfli e H. A. Müller. Si tratta comunque di casi e di esempi marginali, che non tolgono nulla alle previsioni, in parte positive, che ho fatto per quanto riguarda la possibilità futura d’un’arte non soggetta all’esclusiva esca del consumismo, e capace invece di valere da complemento e da completamento al «tempo lavorativo», nonché da stimolo per una diversa utilizzazione di quello che - con espressione quanto mai incauta - è stato definito «tempo libero».

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Burri costituisce uno degli esempi più interessanti dell’arte alla metà del secolo, d’un’arte cioè che ha lasciato dietro di sé la «bella pittura» del postimpressionismo, del cubismo, della metafisica, che ha abbandonato il medium tradizionale, che ha cercato, attraverso nuovi materiali, di raggiungere l’incarnarsi di altre immagini. (E di questa corrente abbiamo alla Biennale uno dei più audaci pionieri: Kurt Schwitters, i cui collages e i cui Merzbilder ancor oggi offrono un’espressione di impressionante, premonitoria creatività).

Pagina 59

La storia dell'arte

253438
Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Il metodo della «narrazione continua» non viene pertanto abbandonato dopo la rivoluzione prospettica, ma questa impone un’esatta traduzione della dimensione temporale del racconto in quella spaziale che è propria dell'immagine: se vediamo un personaggio che compare due o anche più volte in una stessa scena, esso deve essere rappresentato in modo che la sua apparizione risulti ogni volta proporzionalmente rimpicciolita o ingrandita rispetto alle altre. Tale rappresentazione, prospetticamente distanziata o ravvicinata, ha infatti lo scopo di segnalare inequivocabilmente allo spettatore che i diversi episodi compresenti nella scena non sono simultanei, ma sono separati tra loro da una distanza temporale (tradotta in termini spaziali).

Pagina 230

La tecnica della pittura

254335
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Il Cennini nota un pavonazzo ottenuto dal macinare l’ametista, e buono per l’affresco, forse per la sua durezza, che intacca le pietre da macinare, abbandonato, giacchè non figura in nessun altro autore.

Pagina 194

Le due vie

255244
Brandi, Cesare 1 occorrenze

Prendendo in considerazione solo un fattore come causa esclusiva, Marx ha abbandonato i princìpi dell’empirismo. Solo i razionalisti e gli aprioristi possono passar sopra alla mera natura statistica delle leggi sociologiche: l’empirista conosce che il fattore del caso non può essere mai eliminato dalle occorrenze storiche.» Ma se in sede teorica neo-positivistica è facile sbarazzarsi di una dottrina formulata più di un secolo fa, il fatto che questa possa ancora offrire una così larga base al pensiero e all’azione, esige proprio un’interpretazione più dialettica che materialista: ed è allora che quanto per un neo-positivista rappresenta, nella teoria marxista, un incombusto avanzo idealista, la dialettica hegeliana, appare la ragione della sua possibile e continua rivitalizzazione. «Non più che della psicoanalisi — osserva Merleau-Ponty 44— è possibile sbarazzarsi del materialismo storico, condannando le concezioni ‘riduttóri’ e il pensiero causale in nome di un metodo descrittivo e fenomenologico, perché non è legato più della fenomenologia alle formulazioni causali, che se ne siano potute dare, e, come la fenomenologia, potrebbe essere esposto in tutt’altro linguaggio. Il materialismo storico consiste tanto nel rendere l’economia storica che, la storia, economica. L’economia sulla quale viene a poggiare la storia non è, come nella scienza classica, un ciclo chiuso, di fenomeni oggettivi, ma un confronto in atto di forze produttive e di forme di produzione che arriva a fine solo quando le prime escono dal loro anonimato, prendendo coscienza di se stesse e divengono così capaci di mettere in forma l’avvenire. Ora, il prender coscienza è evidentemente un fenomeno culturale, e per quel tramite possono introdursi nella trama della storia tutte le motivazioni psicologiche. Una storia ‘materialista’ della Rivoluzione del 1917 non consiste nello spiegare ogni spinta rivoluzionaria con l’indice dei prezzi al dettaglio al momento considerato, ma nel ricollocarla nella dinamica delle classi e nei rapporti di coscienza, variabili da febbraio a ottobre, fra il nuovo potere proletario e l’antico potere conservatore. L’economia si trova reintegrata alla storia piuttosto che la storia ridotta ad economia [...] Il materialismo storico non è la causalità esclusiva dell’economia.» Con che la critica fenomenologica viene a concordare con quella neo-positivista, ma, oltrepassando la lettera, salva lo spirito: anche se in modo non certo ortodosso, dal punto di vista marxista-leninista.

Pagina 95

Leggere un'opera d'arte

256563
Chelli, Maurizio 1 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Con l’avvento del Cristianesimo il genere viene di fatto abbandonato e bisogna aspettare il Medioevo per ritrovarlo in alcuni dipinti; spesso però la fedeltà naturalistica è sacrificata ad una esigenza simbolica.

Pagina 167

L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

257011
Vettese, Angela 4 occorrenze

Peraltro, la maggior parte degli artisti non ha mai abbandonato la tradizione manuale. È il caso di Gerhard Richter, che da cinquant’anni applica ciò che Obrist ha definito «la pratica quotidiana della pittura» come un grande maestro del passato e quasi fosse un esercizio che, come gli allenamenti tecnici per i danzatori o i pianisti, non può essere abbandonato nemmeno un giorno.

Pagina 100

Un altro pregiudizio è che l’arte contemporanea abbia abbandonato la figura. Al contrario, anche grazie alla nascita della fotografia (che in effetti ha consentito la libertà di lavorare anche in senso astratto), gli artisti hanno spesso utilizzato sia la fotografia medesima sia altri materiali per realizzare quadri e sculture di un realismo inquietante. In qualche modo, possiamo addirittura ipotizzare che il realismo sia una delle strade maestre dell’arte che ha fatto scandalo: dai posatori di parquet di Gustave Caillebotte alle ragazze del primo Renoir; dall’arcigna giornalista ritratta da Otto Dix seduta al tavolino di un bar e dalle donne dipinte da Antonio Donghi e Ubaldo Oppi a tutto il Realismo Magico; da Edward Hopper a Grant Wood nel realismo americano la figura si è perfezionata e anzi ha imparato ad adagiarsi nella realtà quotidiana, ricopiandone posture e vestiti. Un quadro di Chuck Close da lontano sembra una fotografia, ma visto da vicino è fatto di mille tasselli colorati che sono composizioni astratte complesse; una scultura di Duane Hanson, magari quella di una donna obesa e oppressa che legge una lettera scritta a mano forse di un figlio in Vietnam? è fatta di abiti reali e di materiali acrilici, tale da metterci di fronte a una copia anche troppo fedele del vero. John De Andrea ha riprodotto coppie di amanti o corpi nudi accasciati in modo talmente veritiero, da generare quasi un senso di voyeurismo: vi sono riprodotti in modo maniacale anche i più piccoli dettagli come peli, unghie, rughe, capelli, capezzoli, pieghe dei tessuti, con un colore della plastica che li riveste in tutto simile a quello della pelle e delle mucose. Ron Mueck ci ha mostrato il corpo di una neonata, con il cordone ombelicale non ancora legato, vecchieggiante come tutti i feti appena giunti alla luce, facendone sculture in resina ingigantite o estremamente piccole ma sempre impressionanti e tragiche, quasi versioni letterali di quell’«essere gettati nel mondo» di cui parlò il filosofo Martin Heidegger: nulla a che fare con i Gesù bambini dei presepi, che sono raffigurati paffuti e rasserenanti.

Pagina 100

L’opinione corrente tende a identificare l’arte contemporanea con l’astrazione, ma sarebbe un errore pensare che abbia abbandonato la figurazione. Al contrario, come abbiamo visto, quest’ultima ha continuato a rimanere viva, anche se spesso incline alla deformazione dell'immagine. In ambito scultoreo, ricordiamo Henry Moore con le sue forme antropomorfe; Alberto Giacometti con corpi spigolosi e sofferenti; Giacomo Manzù, Marino Marini e Arturo Martini con la retorica del monumento. In pittura, torniamo a Francis Bacon, Graham Sutherland e Lucian Freud, che hanno lacerato il corpo umano fino a creare figure al limite del mostruoso; a Klossowski e Balthus, che hanno ripensato il surrealismo con risvolti erotici ed esoterici; al folto gruppo di coloro che, da Edward Hopper a Richard Estes, hanno esasperato a tal punto l’immagine fotografica in pittura da arrivare a una rappresentazione iperrealista. E ancora ricordiamo le figure ritratte tra tragedia e commedia umana nei quadri, distanti per geografia ma non lontani nello spirito, di autori come Maria Lassnig, Marlene Dumas, John Currin.

Pagina 27

Non abbiamo abbandonato la pittura vascolare di tipo greco per disamore o protesta, ma perché nel tempo ha cessato di essere un mezzo comodo e un linguaggio efficace.

Pagina 49

Personaggi e vicende dell'arte moderna

260064
Venturoli, Marcello 5 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Il vecchio Matisse, quando già le forze l’avevano abbandonato, si serviva di una specie di canna per segnare faticosamente le sue cordiali figure; egli appariva sempre, benché impedito, al centro della sua casa, operoso e imperterrito; Utrillo invece faceva la figura di un ospite nella sua villa; seduto col capo basso in un angolo, si nascondeva il più possibile e soffriva della presenza dei rari visitatori, come se fosse stato oggetto, anziché di ammirazione, di una cattiva curiosità.

Pagina 101

Pentito, immusonito, tornò a casa e si fece mettere a letto; ma l’idea della fuga non l’aveva abbandonato. Il clochard era l’unico uomo che da tempo non gli avesse fatto paura e il pittore smaniava per rivederlo. Non si sa come Utrillo riuscì a comunicare ancora una volta con l’esterno del suo carcere dorato. Fatto sta che una notte l’amico e due pittori, eludendo la vigilanza del cane di guardia, penetrarono nella villa, allo scopo di aiutare Utrillo nella sua evasione. Ma il piano fu sventato.

Pagina 101

Ma sempre Moore è abbandonato sub conditione, quasi che i linguaggi dovessero fare i conti con un misterioso spirito di rivalsa: ecco, le matrone del «ritorno all’ordine» intorno agli anni Trentacinque si atteggiano a colline, a rupi cresciute con ciclopica fatica, per virtù della fantasia; e il modulo iniziale, parnassiano, cade come una crisalide, restando della scultura una potenza, che può essere molte cose, ma non parnassiana; le facce a confetto dei gladiatori metafisici e surrealisti si tumefanno, mettono buche di urli, e i loro corpi di geometria respirano in possenti incavi, si coprono di elmi e di scudi, tratti dal più romantico dei musei; i totem di Brancusi, i grandi tarocchi in tutto tondo, di una perfetta partita finita senza vittoria fra natura e ragionamento, si torcono in corpi crocifissi, creando ben altra assemblea di simboli, che quella accarezzata dal grande maestro rumeno: nel rumeno una natura ridotta all’essenziale, sul filo di una lucidità che diventa fantastica meditazione, scultura che cresce un po’ al giorno, negli anni, fino alla sua completa calibratura; nell’inglese la forma definitiva nasce da un terremoto di contrasti, dal placarsi improvviso e ancor vibrante di una serie di echi.

Pagina 174

Le centocinquantatre opere esposte nella mostra storica del futurismo alla XXX Biennale di Venezia (sale I e IV) costituiscono nel padiglione italiano e nel quadro dei valori assoluti presenti ai Giardini, la più suggestiva e stimolante palestra, di confronti e di approfondimenti, la più ricca «lezione»: ché nelle sculture e nelle pitture di questi pionieri delle attuali avanguardie circola una convinzione tanto felice quanto impegnata, si avverte il senso della solitudine di chi, lungi dall’essere stato abbandonato o escluso dall’umano consorzio, precede di parecchie tappe il cammino degli altri.

Pagina 33

Guido Strazza e Giacomo Soffiantino sono due pittori che hanno in comune in questo momento una crisi di concretezza fantastica e si presentano in notevole regresso rispetto alla qualità delle loro opere esposte rispettivamente da Pogliani e all’Attico di Roma nelle stagioni scorse: Strazza, per castigarsi del pericolo del giuoco tra fumi e fili di luci colorate, come appariva alla Mostra «Italia-Francia» e al «Mogan’s Paint» di Rimini (e quadri di questo tipo si ritrovano anche nella sua «parete» alla Quadriennale, la «Immagine» e il «Nudo al mattino») ha voluto rendere più corpose e ritmate le sue dolci evasioni, ma sembra proprio che l’estro l’abbia abbandonato; Soffiantino ha voluto compiere un altro passo avanti nel cammino della liberazione dai pretesti, ha voluto rendere, attraverso cancellazioni di luci, attraverso matasse grafiche di biacche d'argento su fondi perla o cenere, il friggere, lo spostarsi, il levitare di una vita non altrimenti percepibile: sicché agli schemi tra metafisici ed espressionisti delle sue nature morte balenanti dentro superfici allungate — sorta di festuche in vitro — l’artista non ha saputo sostituire qualcosa di ugualmente «tattile» ed è precipitato in una fumisteria dei chiari.

Pagina 351

Pop art

261667
Boatto, Alberto 2 occorrenze

L’io divagante dell’artista in quanto uomo comune, ma non scaduto ancora ad anonimo componente della massa, si sovrappone alla iconografia oggettiva e ne ricava seducenti motivi poetici, narrativi, satirici, a volte di abbandonato divertissement. Si fa luce talvolta anche un gusto naif, ma cittadino e perciò ricco di uno scaltrito candore, così diverso dalla tradizionale naïveté paesana.

Pagina 184

Ma ben presto il trompe-l’oeil viene abbandonato per l’uso di un più moderno ed aderente strumento di raffigurazione, il ricalco, che riunisce in sé la massima fedeltà alle forme essenziali dell’oggetto e la minima concessione alla pittura. Nella scelta gioca l’esempio di Rauschenberg, dei disegni in particolare; tuttavia, mentre Rauschenberg ricalca le foto per ottenere lo stampo invertito, l’imprimitura, Dine impiega il ricalco per ricavare il semplice contorno lineare dell’oggetto. Interviene qui tutta la differenza che separa un gesto di presa veloce incalzato dal tempo (Rauschenberg) da uno scrupolo di conoscenza obiettiva che si vuole fuori del tempo (Dine); la stessa ragione per cui non è lecito confrontare il gesto di abbracciare una donna con quello di compilare la sua schedina segnaletica. Per la prima volta il ricalco fa la sua comparsa in Dine in certi particolari di Cinque seghe e di Tostapane, e nei profili delle mani di Martellare colorato e di Studio in tre pannelli per la stanza del bambino (tutte opere fra il 1961 e il 1962).

Pagina 85

Saggi di critica d'arte

261803
Cantalamessa, Giulio 2 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Se avessi invece scritto per la stampa, avrei ricacciato indietro o dato poco posto a certe considerazioni sintetiche, mi sarei meno abbandonato agli allettamenti onde l'arte ci attira, avrei mirato ad un’abbondante e circospetta analisi delle opere, e nella dicitura stessa sarei stato più severo e più sobrio. Giacchè la disposizione d’animo con cui andiamo ad ascoltare un discorso non è la medesima che ci guida alla lettura d’un lavoro stampato; e la differenza che c’è tra un pubblico di uditori e un pubblico di lettori determina sempre in chi scrive un differente atteggiamento intellettuale e morale, secondo ei si propone rivolgersi all’uno od all’altro.

L’imitazione di Raffaello c’è; ma come, abbandonato il nocciolo vitale intimo, s’è tutta ridotta alla superficie delle cose, e in quest’improvvida trasmigrazione come s’è immiserita, rattrappita, sdilinquita! Come composizione, è confuso: figure pigiate su figure, tanto che sembra non aver l’artista messo in rapporto il numero delle persone collo spazio in cui intese disporle. Come colore è falso e monotono; il disegno palesa come la convenzione raffaellistica si trasformasse passando attraverso un’anima grossolana. In alto è cosa ridicola que’ putti che si sollazzano trattenendo la colomba impaziente di volare, per lasciarla a tempo. Se si pensa che in quella colomba è simboleggiato lo Spirito Santo, è da accusare l’artista, non dico d’irriverenza (chè questa non fu certamente nella sua intenzione), ma di fatuità irriflessiva. Per lui la Divinità è legata dal volere degli angeli, e le è attribuita un’animalesca inconsapevolezza della ragione di sua presenza e del momento propizio al suo intervento. Festevole bambocciata surroga la rappresentazione di augusti misteri. Così non pur si falsava l’arte del divino Raffaello in quel ch’essa ha di più ¡estrinseco, ma spariva ogni abitudine di quella meditazione intellettuale, sovra cui il maestro si preparava ai voli della concezione estetica.

Pagina 95

Scritti giovanili 1912-1922

264442
Longhi, Roberto 5 occorrenze

Incompreso ed abbandonato il suo senso della composizione di cui soltanto Caracciolo lasciava (probabilmente a Roma) alcuni sviluppi arditissimi ma affatto senza seguito fino alla ripresa mirabile di Mattia Preti, gli artisti operanti a Roma si rivolsero al suo stile plastico come quello che speravano di raggiungere con una semplice innovazione tecnica, mentre necessitava naturalmente un totale mutamento di visione. Non approdarono a nulla perché la interpretazione che ne davano sia che, dipartendosi dalle prime opere del novatore, ne volgessero il senso a un preziosismo sensuale delle superficie (Manfredi e imitatori nordici, Saraceni, Gentileschi e in piccola parte qualche bolognese), sia che riferendosi alle sue forme compiute lo convertissero in contraffazione delle materie singole o in generale fibrosità e scheggiatura di piani lignei (Gramatica, Baglione, ecc.), era pur sempre interpretazione superficiale perché sviando a scopo puramente gradevole o illusorio il suo senso della identità della sostanza pittorica lo svuotava del suo significato creativo.

Pagina 115

Pare che Orazio riesca qui a conchiudere le ricerche di impasto più solido e serrato che andava ricercando da tempo dopo aver abbandonato la radezza dei suoi primi impasti ragnati. È infatti come l'ultima redazione delle Sacre Famiglie del Prado e di Casa Spinola. Forze e delicature si accostano, a contrasto. Carni serrate e sanguigne di tessuto, e dolci nevai di panneggi chiari e freschi, toni di granata con riflessi d'acciajo, riecheggianti ancora il giubbo della Vergine di Loreto del Caravaggio, e manto di San Giuseppe di giallo prezioso come un giacimento aurifero; mani iniettate e molto condotte del Santo; la Vergine, per contro, degnificata e insignorita.

Pagina 240

Caravaggio s'è abbandonato qui a uno di quegli istanti avventurati.

Pagina 26

Lo stile volontario e ferreo di Lesueur ha nella sua glacialità molte attratrive per Roger Fry; il quale perciò non intende lamentare che Poussin abbia abbandonato le pose veneziane e tizianesche che dànno carattere a questa Sacra Famiglia per giungere a poco a poco alle uniche qualità del suo disegno tardo. Secondo il critico le qualità deliziose di questa opera primitiva furono bene sacrificate.

Pagina 391

come il paesaggio, abbandonato ogni antiquarismo, ogni geologismo padovano si costruisce per contrapposti di masse erbose e di castella squadrate nei loro volumi dall'effetto luminoso, tali che paiono richiamarsi alla veduta che del castello Riminese Piero aveva appostato in un medaglione dell'affresco Malatestiano!

Pagina 95

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266496
Boito, Camillo 3 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Certo, per uccidersi ha scelto il luogo deserto di un parco abbandonato. Nel tronco morto e nelle ortiche del terreno v’è una desolazione lugubre: l’ambiente della figura — cosa rarissima nella statuaria — è trovato con evidenza pittorica. Non si sa il perchè, ma si va pensando ad una mattina rigida, nebbiosa, cupa, senza aurora: una di quelle mattine, in cui ci si sente larve d’uomini in mezzo alle larve della natura.

Pagina 185

Il giardino è melanconico: tra le larghe pietre del lastrico e tra i ciottoli spunta liberamente il verde dell’erba; dietro gl’incartocciati balaustri del parapetto si vede un parco abbandonato, paludoso, con degli alberi in fondo, e poi nell’ampia pianura le case candide del villaggio lontano. Queste riverenze in mezzo a questi malsani resti di vecchie ricchezze, parrebbero il simbolo di una società che muore, se il Bianchi si desse alla melanconia di cercare così astrusi concetti. Ma il fatto è che il quadro ha il carattere giusto e sincero della cosa che vuole rappresentare: al Bianchi la cipria ed i guardinfanti giovano per la schiettezza del dipingere, poichè giustificano con le esatte affettazioni degli atti, delle espressioni e degli abbigliamenti, le affettazioni che la sua pittura non sa e non vuole sempre scansare. L’arte del Bianchi è più solida che profonda: non isvanisce dalla memoria, anzi piglia corpo e vita, ma una vita materiale, quasi teatrale. Cotesta pittura, che è tutta abilità, odora sempre un tantino, come la pittura del Tiepolo, di tavolozza e di pennelli.

Pagina 271

Ma non pare più del Leys il quarto dipinto con una storia di Rubens dentro, scomposto, scuro tutt’intorno e a sprazzi di luce nel mezzo, come una voglia di imitazione del Rembrandt; tanto gli artisti grandi s’impacciano quando, abbandonato il loro modo consueto, si propongono di seguirne uno diverso, ribellandosi alla propria natura. Il solito arcaismo del Leys aveva all’incontro un fondamento nell’animo stesso del pittore, tanto che i pensieri dovevano pigliare . senz’altro quella forma ingenua e pur dotta, nella quale una certa rigidezza non esclude la grazia, ed una certa pesantezza non esclude il moto. Ma gli imitatori di lui, come sempre accade, gli stanno discosto, il Lies tra gli altri, che pare voglia e non sappia emularlo insino nel nome. Altro infatti è ispirarsi ad un passato modo dell’arte, altro è seguire le orme di un maestro che vi si è ispirato, poichè nel primo caso sembra che il tempo corso tra il modello e l’imitazione lasci quel tanto spazio di libertà alla fantasia dell’artefice, che basta a rivelare compiutamente le virtù e i vizii del suo proprio ingegno.

Pagina 351

L'arte è contemporanea. Ovvero l'arte di vedere l'arte

266877
Sgarbi, Vittorio 1 occorrenze
  • 2012
  • Grandi Passaggi Bompiani
  • Milano
  • critica d'arte
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Nel corso di dieci anni, dal 2000 circa, ho visto questo paese abbandonato Gaetano Pesce, L'Italia in croce, 2010-11. risorgere in quello che oggi è chiamato Sextantio: questo è il nome che si è dato a questo albergo diffuso. Non si tratta di un albergo fuori del centro storico, ma della bonifica di un intero paese, parzialmente disabitato, con la creazione di stanze che hanno ancora le tracce del fumo sulle pareti, i pavimenti di mattoni, i letti di legno. La “locanda” è un prodigio di ricostruzione, come una scenografia di Luchino Visconti. Tra l’altro l’intervento di bonifica del paese è stato effettuato con tale efficacia che non soltanto visitatori da tutto il mondo sono giunti a Santo Stefano per ammirare il progetto di Daniele Kihlgren - e io oggi lo indico, nella radicale impresa di conservazione, come un progetto avanzato, progressista, d’avanguardia - ma durante il terremoto del 2009 tutti i paesi confinanti hanno patito danno ad eccezione di Santo Stefano e della vicina Rocca Calascio. Il terremoto ha, insomma, risparmiato quell’area e gli edifici restaurati con le metodologie tradizionali, con la malta e con i mattoni, mentre è crollata la torre medicea che era stata restaurata negli anni Cinquanta con il cemento armato. Una prova dell’intelligenza del metodo di recupero. Ma, di nuovo, dietro di essa, vi sono la filosofia e lo spirito di un uomo.

Pagina 104

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267804
Dorfles, Gillo 7 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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Non dissimile da Baruchello è stata per alcuni anni anche la pittura di Gianni Emilio Simonetti, il quale, tuttavia, negli ultimi tempi ha abbandonato la minuta figurazione cui prima s’era accostato, per dedicarsi soprattutto ad un genere di arte più prossima a certe recenti correnti concettuali.

Pagina 104

E non è da escludere che, proprio in questi paesi, possa, in un futuro non tanto lontano, verificarsi un’inattesa evoluzione dell’arte contemporanea con un ritorno a certe posizioni che l'Occidente ha di solito abbandonato.

Pagina 186

Molti scultori delle ultime generazioni hanno abbandonato lo "scalpello" per costruire forme basate su relitti metallici o lignei, spesso simbolici d’un iconismo non realistico ma metaforico. E vorrei ricordare a questo proposito le curiose opere in vimini e bambù di Gaeti, quelle in metallo di Ugo Marano, arieggianti impossibili mobili artigianali; quelle in lamiera di rame di Riccardo Dalisi spesso raffiguranti bizzarre creature antropo-zoomorfe; mentre un altro napoletano, Angelo Casciello, si vale del legno come del ferro per organizzare strutture di notevole efficacia plastica.

Pagina 188

Ed è per questo che ho preferito parlare di Wols in questo primo capitolo dedicato all’arte segnica, anziché in quello, che di solito gli compete, dell’informale; appunto perché considero l'informale còme un'estrema degenerazione dell’astrattismo che ha abbandonato ogni volontà compositiva, ed è giunto soltanto alla dissoluzione assoluta della forma.

Pagina 26

Burri costituisce uno degli esempi più significativi dell’arte italiana alla metà del secolo; d’un’arte che ha lasciato dietro di sé la "bella pittura" del postimpressionismo e del postcubismo, che ha abbandonato il medium tradizionale del colore ad olio, che ha cercato, attraverso nuovi materiali, di raggiungere l’incarnarsi di nuove immagini. Non dirò di certo che il valore di Burri sia dovuto soltanto all’uso dei legni combusti, degli stracci, dei sacchi, dei rammendi, di cui si valse soprattutto nelle sue opere tra il 1950 e il ’60, o dell’uso successivo di lamiere rozzamente saldate e di fragili materiali plastici. Per quanto ci sia del vero anche nell’affermare che proprio codesti materiali eterocliti e poveri: il legno bruciato, il cencio, il grumo rappreso, stanno a denotare l’affinità che questa nostra epoca avverte per i relitti, per i materiali effimeri e rozzi che non diano la sensazione della durata eterna. O forse, anche, la scelta di tali elementi può esser dovuta a una sorta di inconscia contrapposizione alla levigatezza e alla precisione di altri materiali (che incantarono gli artisti dell’epoca costruttivista, una trentina d'anni or sono) proprio perché quei materiali ricordano troppo da vicino l’analoga levigatezza e precisione dell’universo meccanico da cui siamo circondati e da cui spesso desideriamo sentirci liberati.

Pagina 54

Ma, oltre ad aver abbandonato il normale metodo di dipingere, Pollock sentì anche l’urgenza di abbandonare spesso il medium normale del colore ad olio, facendo ricorso a materiali diversi, sino allora poco o mai adoperati, come il duco (smalto opaco) e la vernice all'alluminio. L'efficacia di questi mezzi, in certo senso grossolani, ma dalle insolite qualità timbriche, doveva tosto essere avvertita dal pubblico; e presto furono legione gli imitatori sia dei metodi di sgocciolamento che dell'uso di smalti e di vernici alternate a polveri e inchiostri.

Pagina 59

Dopo lunghi soggiorni negli USA, tuttavia, la sua opera si è venuta modificando progressivamente verso un genere di stesure più intense e marcate (in parte vicine a certi dipinti di Stili, o di Noland) e ha abbandonato la ricerca tissulare per una più libera e più composita creazione cromatica.

Pagina 83

La cucina futurista

304062
Marinetti, Filippo Tommaso - Fillia 1 occorrenze

Con elasticità abbiamo abbandonato il Carso dopo Caporetto, abbiamo riso mentre il cuore piangeva nella ritirata. Come potremo, senza elasticità, schiacciare il passatismo austro-ungarico, rinnovare integralmente l'Italia dopo la vittoria? T'impongo, caro dottore, d'interrompere con elasticità futurista la tua spanciata passatista!

Pagina 170

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Abbandonato su una sedia fra i due alti militi, le guance senza sangue, gli occhi smarriti ma ancora testardi, impietosisce. Non tornerà stasera coi paesani alla montagna, a casa, a sua madre, lui onesto povero già votato alla fatica andrà a conoscere il carcere. E ha proprio l'aria di non sapere perché, perché gli facciano tutto questo. Su proposta dello stesso pubblico ministero, viene in ultimo richiamato nel tentativo estremo di fargli capire la ragione. Lo interroga anche il componente privato, un direttore didattico, con linguaggio più semplice, a brevi domande quasi sillabate. Ma è inutile. Capisco che ha paura _ammettendo quelle cose scritte là, che non riconosce, che veramente lui non può aver detto con quelle parole ignote _ di cadere in chissà quale tranello. Ha concepito una invincibile paura della Giustizia e di quell'uomo nel seggio più alto che tenta di estorcergli, certo a suo danno, qualche ammissione. No no e no. Non gli si può cavare altro. Il presidente irritatissimo si alza. Si alzano tutti ritirandosi in camera di consiglio. E ci è lasciato il reprobo. Dalle transenne i paesani si mettono a esortare: Parla parla, di' la verità. Non guarda e non risponde. Con la toga buttata sulle spalle gli avvocati si avvicinano. "Conferma, conferma la deposizione." Lui, sempre più impallidito, gira due occhi persi. Ma non vale, non si arrende. Ancora teme che lo vogliano incastrare se pronunzia un sì. Il fatto è che la storia della bicicletta nasconde qualche cosa. Riesco a sapere dall'imputato: per averla, e nemmeno ci riuscì, vendette di nascosto a sua madre un po' di patate o di grano. Allora ha paura che salti fuori questo e lo arrestino comunque. Perciò dice no e no. E non gli entra in testa perché, se nega, lo manderebbero in galera. "Non mi possono arrestare," geme, "non mi possono arrestare." Sull'esempio del compagno, non confessa. È chiaro che lo intriga ciò che è stato fissato nella deposizione, come può sapere se in quelle parole che non intende, che non somigliano alle sue, c'è nascosto il tranello. "Non mi possono arrestare," continua a intestardirsi, "che ho fatto, io non ho detto niente." Allora bisogna spiegargli che è una falsa testimonianza. Ottavo comandamento: lo ripete come tra sé. Non gli hanno insegnato molte cose, ma questa la sa. La legge antica, nota, semplice ed essenziale, a un tratto gli dirada le tenebre. La sua faccia, ottusa nella negazione, si apre. Quando torna il Tribunale, richiamato, s'avvicina umilmente. Di nuovo gli occorre tempo. Finché escono, malcerte stentate incognite, le parole magiche della salvezza. "Confermo la deposizione resa." Anche essi intestarditi con quelle parole. Una formula ancora priva di significato per lui, è evidente. Poco dopo i paesani l'attorniano, gli danno manate sulle spalle. Ora sa che il Tribunale non gli tendeva un tranello, ma forse lo sospetta nel linguaggio della giustizia che ha i suoi ingiusti apriti sesamo. Ingiusti per l'ignoranza, che non è un reato. Non almeno per questo povero analfabeta. Rimane con l'aria avvilita.

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CARDELLO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Avrebbe abbandonato volentieri anche quella cuccagna dove minacciava d'ingrassarsi peggio del padrone, pur di fare una vita più attiva, più varia! Là sempre le stesse cose: alzarsi, preparare il caffè col torlo d'uovo e i biscotti pel signor Decano, spazzare le stanze, rifare i due letti, spolverare, lustrare scarpe e stivali, accompagnare il padrone dal macellaio, dall'erbaiuolo, dal pizzicagnolo e poi al monastero per la messa alle monache, e alla Matrice pel coro e per la messa cantata, e tornare a casa a preparare il desinare. Dopo un anno, in cucina poteva fare tutto da sè, quantunque il signor Decano si affacciasse spesso colà per dargli, e non occorreva, una mano di aiuto e insegnargli qualche nuovo intingolo col Libro dei Cuochi sotto gli occhi. E andando al mercato, o stando in cucina, il signor Decano non scordava mai di fargli ripetere: - Su, don Calogero; come diceva quel bestione? O paglia o fieno, Pur che il ventre sia pieno - - Diteglielo anche voi: "Bestione!" - Eccellenza, sì: Bestione! - E la pancetta del signor Decano sobbalzava allegramente per la larga risata che quel " Bestione " provocava. Il Decano aveva avuto la buona idea d'insegnargli a leggere e a scrivere, meglio che non avesse fatto don Carmelo, che lo aveva abbandonato quando cominciava a compitare, e d'insegnargli inoltre le quattro regole dell'aritmetica. Cardello aveva appreso con facilità. Ma dei libri del padrone che egli si era provato a leggere, capiva soltanto alcune vite di santi e qualche volume di prediche. Non erano divertenti, specialmente questi. Non dovevano divertire neppure il padrone, se li lasciava mangiare dalla polvere nei vecchi scaffali, in uno stanzone che serviva anche di riposto per tutti gli arnesi resi inservibili dall'uso. Leggeva e rileggeva il Libro dei Cuochi che il signor Decano teneva sul tavolino, accanto ai quattro volumi del breviario rilegati in pelle nera, e che egli dichiarava il primo libro del mondo. Ogni volta che Cardello gli diceva: - Permette, voscenza? - il Decano gli rispondeva: - Anzi! Anzi! Dovreste impararlo a memoria! - Se non che accadeva spesso che quando al signor Decano veniva il capriccio di tentare un piatto nuovo, pareva che il primo libro del mondo s'ingegnasse di far andar a male gl'ingredienti. Sissignore; tante once di questo, tante di quello, tante di quell'altro ... con le bilance sul tavolino per pesare esattamente ogni cosa; e appena il nuovo piatto veniva portato in tavola, il signor Decano affrettatosi ad assaggiarlo, esclamava sempre: - Ci siamo! - Spessissimo si vedeva però che non c'erano affatto perchè sùbito il signor Decano diceva a Cardello Don Calogero, mangiatene pure quanto volete; io ho lo stomaco ripieno. O serbatelo per domani; sarà buono lo stesso. - Segno che il piatto era riuscito immangiabile. E allora passavano mesi prima che la confezione di un altro piatto nuovo venisse a tentare il signor Decano. * * * Dopo due anni di questa vita, Cardello aveva giornate e settimane di cattivo umore, nelle quali sbrigava alla lesta le faccende di casa, e non si curava che il signor Decano lo rimproverasse: - Ah, don Calogero! Don Calogero! Così non va bene! Tutta questa polvere qui! ... E i vestiti spazzolati alla diavola! E le scarpe lustrate alla peggio! E l'arrosto bruciato! E il pesce fritto malissimo! Che vi prende da qualche tempo in qua? - Che mi prende? - rispose un giorno Cardello - Mi prende che io me ne vado e le bacio le mani. - Perchè, don Calogero? Perchè? Vi par poco il salario? - Mi annoio, Eccellenza! Ecco la verità! - Me ne dispiace più per voi che per me. Che vi manca qui? - Eccellenza, non mi manca niente. - O dunque? - Me ne vado e le bacio le mani. - Fate come vi piace. Ve ne pentirete presto. E quindici giorni dopo, Cardello baciava le mani al signor Decano, ringraziandolo del bene che gli aveva fatto; ma lietissimo di non più dover indossare l'abito lungo e portare la tuba in testa e l'ombrello rosso sotto l'ascella; di non più dover seguire il padrone a dieci passi di distanza, e di non più star a sbadigliare nella sagrestia del Monastero di Santa Chiara mentre il padrone confessava le monache, o in quella della Matrice mentre recitava, nel coro, l'uffizio con gli altri canonici. No; quella vita troppo monotona non era per lui. Un mestiere libero, all'aria aperta, ecco quel che ci voleva. Avrebbe sofferto, avrebbe lottato, ma voleva riuscire qualcosa di meglio di un servitore. Ai burattini non pensava più. Era impossibile incontrarsi in un altro don Carmelo, davvero Re dei burattinai Il gruzzoletto dei salarii, accumulato in due anni, gli sarebbe bastato per vivere parecchi mesi, caso mai non avesse potuto trovar sùbito dove impiegarsi. Avrebbe fatto fin lo sterratore, il manovale, ora che davano mano ai lavori per la conduttura dell'acqua, ed era arrivato l'impresario piemontese, che, dicevano, pagava bene gli operai. Qualunque mestiere, ma il servitore, no, non più! E pensando che per due anni si era dovuto mascherare con l'abito nero fino alle ginocchia, la tuba e l'ombrello rosso sotto il braccio, sentiva un grand'impeto di rabbia contro di sè, e non riusciva a capire come si fosse potuto rassegnare tanto tempo senza buttar ogni cosa per aria.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio quando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui… Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perché mai la vista dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?… Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiungo ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo schermo. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò. Un altro amante abbandonato guarì in modo che è alla portata d’ognuno; perché non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?… Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: "L’amor mio per te sarà senza fine… tu solo m’hai rivelato l’amore… fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità… non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la gratitudine… io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te… tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente…", leggendo queste parole delle quali avevo avuto paura perché prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perché la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro… Tuttavia questi rimedi quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero – e come negarlo? – che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perché la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perché il merito nostro torni a rifulgere. Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perché non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere! La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perché ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perché noi ridiamo – di noi stessi… Eccole a questo proposito un curioso documento che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione. "Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo tenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: "No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!". E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile, io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non poter più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non l’avevo fatto per lei, affinché ella fosse contenta di me, affinché le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: "Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?…". E poi? Perché? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente che io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto… Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perché, infatti, mi ero stancato di certe esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?… Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia… Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Io risparmierò ai miei lettori l’orrido quadro dei patimenti inflitti a quel prode romano straziato colla corda, attanagliato, ridotto a una massa informe, abbandonato in un canto del suo carcere segreto, spirante, ed implorando la morte come un beneficio. Quello ch’io non posso tacere è che il prete non si contenta di martoriare, di avvilire il corpo. Egli vuole insudiciare l’anima, e quando il sofferente svenuto pei patimenti articola un’indistinta parola, egli la raccoglie e l’interpreta a modo suo, spargendo la vergogna e l’infamia sul capo dell’infelice torturato. Il povero Dentato così scontava il suo amore per l’Italia e per Roma nelle unghie dei luciferi umani, e non era il solo! In quei giorni di paura e di rabbia, furono numerosi gli arresti ed i torturati, ed anche rinvenuto dal terrore il prete si dava alle sevizie, condizione essenziale per riconoscere i codardi. I tiranni più crudeli, i più sanguinari di tutte le epoche, furono vili e pieni di paura. Infelice Dentato! i suoi carnefici rapportavano ch’egli aveva confessato complici e quindi nuovi arresti, nuovi tormenti, e nuove torture! Ecco! come da tanti secoli è trattato questo nostro povero paese, ed il mondo tollera questi carnefici, li protegge, li impone all’Italia! Non si sa se più scellerati i preti e chi li sorregge o più stupido questo miserabile popolo che li soffre nel suo seno e non fulmina, non annienta questi istrumenti del suo servaggio, delle sue miserie e delle sue umiliazioni.

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 1 occorrenze

Dato ho la vela al vento e in mezzo all'onde del mar selvaggio, nella notte oscura, solo, in fragile nave ho abbandonato il porto della sicurezza inerte. Al mare aperto drizzata ho la prora per navigare, ed alla sorte oscura la forza del mio braccio ho contrapposta. Non ho temuto il vento avverso e l'onda canuta, né la mensa famigliare e l'usato giaciglio ho rimpianto o il commercio delle care e dolci cose. Né deserto e triste m'è apparso il mar sonante nella notte, anzi la voce sua come un appello mi sonò in cor della mia stessa vita; mi parve dolce cosa naufragare nel seno ondoso che col ciel confina, né temuta ho la morte ... Alla punta del golfo donde il mare s'apre libero e vasto senza fine tu m'attendi sicura e fiduciosa, le vesti al vento, ritta sullo scoglio. Costeggiar mi conviene la scogliera per uscire dal golfo, quindi uniti navigheremo, poiché a me t'affidi: sì breve tratto da te mi divide e dal libero mar sì breve tratto! - Ma perch'io tenti la bordata e tenda la vela al vento, pur l'inerte chiglia non fende l'onda, ch'ora sulle creste spumanti, or negli abissi, or sur un bordo or sull'altro la trae senza riposo. E se l'albero gema, se la scotta a spezzarsi si tenda, e nella vela ingolfandosi il vento il mio naviglio minacci di sommergere, pur sempre alla stessa distanza io mi ritrovo dalla punta agognata. Col timone io m'adopero invano al mare aperto dirizzare la prora: a chiglia inerte il timone non giova. Il vento e l'onde intanto lentamente come un rottame verso la scogliera mi spingono a rovina senza scampo. Ch'io debba naufragar senza lottare fra la miseria dei battuti scogli, presso al porto esecrato, come un vile, senza esser giunto al mare, e te lasciando sola e distrutta dopo il sogno infranto fra le stesse miserie? Gorizia, 15 settembre 1910

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 3 occorrenze

Perché mi hai abbandonato? Sì; lo aveva abbandonato. Ricordava la sua tribù forte, potente, padrona della grande oasi, dominatrice delle vie del deserto. Egli ne era il capo temuto. Suo padre gli aveva lasciato un nome terribile, che tutti paventavano, un'autorità, avanti alla quale tremavano tutti, un forte esercito di tremila armati, le casse piene di oro giallo, caldo, più caldo della sabbia del deserto, molti schiavi e molte schiave. Egli aveva stretto con mano forte le redini del governo ed avido di dominare sul deserto, di essere padrone delle grandi vie, che conducono al suo interno, per poter taglieggiare a piacimento le carovane ed imporre loro le tasse che voleva; per diventare il padrone del paese, aveva dato battaglia ad una tribù finitima e che gli era rivale, l'aveva debellata ed era stato senza misericordia coi vinti. Chi gli era caduto vivo nelle mani era sitato macellaio o fatto schiavo e conservato ad una sorte più terribile della morte. Quanto sangue sparso allora! Egli fremeva della barbara giova al pensiero di quell'eccidio, e gli sembrava di veder scorrere ancora ai suoi piedi, sulla sabbia del deserto, un ruscello di sangue umano, rosso; gli pareva di allungare il braccio colla mano, piegata a mo' di scodella, di attingere quel liquore rosso, caldo, e di portarlo alle labbra. Spegnere la propria sete col sangue dei morti nemici! Dimenticò per un'istante la propria sete, il suo sfinimento, e si rizzò fìero, maestoso, sul suo cavallo. Io! Il principe Ramsette! Ma poi ricadde nell'antica prostrazione; la persona si curvò ed egli dovette con ambo le bracca afferrare il collo del fido cavallo e stringersi a quello, per non stramazzare al suolo. La sua ultima vittoria, perché i vinti avevano implorato l'aiuto dei potenti ed odiati romani, ed il proconsole aveva avocato a sé la causa ed osato citare lui, un principe, lui, Ramsette, al proprio tribunale. Aveva risposto: Un libero principe non può venir giudicato da nessuno! ed aveva invitato il proconsole al proprio tribunale. Aveva armato la sua tribù. Sperava di vincere. I suoi erano uomini liberi; i romani schiavi. Un uomo libero vale per cento, per mille schiavi e ne sbaraglia una legione. Eppoi egli si lusingava, che tutte le altre tribù si saprebbero unite a lui, le libere, per conservare la propria libertà, le soggiogate, per scuotere il durissimo giogo. Ma le sue speranze non si erano avverate. Molti Io temevano, molti lo odiavano, molti lo volevano veder umiliato; la sua umiliazione premeva loro assai più della loro libertà. Non vedevano il loro vero nemico nel proconsole romano, che li teneva domi, li soggiogava alla dominatrice del mondo; vedevano piuttosto in lui un rivale pericoloso, che andava umiliato. Nessuno lo aiutò; uno o l'altro favorì anzi i romani. Si venne alla lotta, ed egli fu vinto. Le centurie romane, bene armate di bronzo, furono insensibili alle leggere frecce; i suoi invece non poterono resistere al loro impeto; molti fuggirono; molti vennero mietuti dalle loro spade, molti furono trapassati dalle loro lande. Dall'alto del suo destriero egli aveva diretto la pugna e cercato d'infiammare i suoi e di condurli al trionfo; ma quando aveva visto sbaragliati i suoi uomini, prima invincibili, da' un pugno di nemici, inferiori di numero; quando gli avversari si erano lanciati contro di lui; quando aveva udito la voce del centurione gridare: « Mille sesterzi a chi lo piglia vivo», un terribile spavento lo aveva incolto. Morto sì, ma schiavo mai. Aveva dato di sprone al suo cavallo ed incominciato quella fuga pazza, da parte sua, quell'inseguimento pazzo da parte loro. Fuggire? Dove? Alla sua oasi, per condurre colà il nemico; per dargli in preda le donne, i fanciulli, il suo oro? Mai! Si lusingava, che il nemico non avesse trovato la via dell'oasi, non si fosse spinto fin là, a predare, sgozzare ed incendiare; si lusingava di poterlo allontanare in un'altra direzione. E perciò fuggì all'impazzata, nel deserto, senza una meta. avido solo di mettere una immensa distanza tra sé ed il nemico: di mettere in salvo la propria vita; di non cadere nelle mani di quell'avversario temuto, di non diventare suo schiavo. Dio serpente! Mi salva, mi salva! E continuava la cavalcata pazza. Il sole volge rapidamente al tramonto. I colli gettano lunghe ombre, strane, e prendono tinte fiammeggianti; domina, da principio, il giallo, un giallo saturo che diventa poi arancione e poi rosso fuoco mentre i colli ardono; sembra che un gigantesco incendio divampi nel deserto; l'orizzonte è in fiamme, odi in mezzo a quelle fiamme, rossa essa pure, un'enorme brace, si tuffa la gigantesca palla solare. Il rosso cede il' luogo al violetto; sembra che le rocce vestano a mestizia per l'occaso del sole. Il fuoco si spegne sull'orizzonte, rapidamente; i colli si coprono di gramaglie, e sul padiglione nero del cielo compariscono numerose stelle. Il capo prorompe in un urlo di spavento. In mezzo a quelle stelle è comparso un indice luminoso, gigantesco, il dito di Dio, che gli minaccia' sventura. «La cometa! L'astro della mia rovina! e cade privo di sensi a terra.

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I pretoriani lo hanno abbandonato. ? Le amazzoni! - Sono fuggite. Sono andate a cercare altri protettori. Anche i mimi lo hanno abbandonato. Schiavi, liberti, cortigiani saccheggiano il palazzo. Gli portano via tutto; financo le coperte del letto e la fiala preziosa, che Lomita gli aveva preparato. Vuole difendere le sue corone di alloro. E' solo. Non riesce. I sucri strumenti musicali; la sua cetra. Anche questi gli vengono tolti. Nessuno ne ascolta i comandi, le proteste, le suppliche; si ride del suo pianto; egli viene schernito, beffeggiato od ignorato. Un sovrano decaduto. Quanto soffre! Pazzi pensieri gli passano per la mente»: vuole recarsi nelle Gallie, incontro all'esercito ribelle. Domerà i soldati col suo canto; s'inginocchierà avanti a loro e piangerà. Le sue lagrime li commuoveranno, il suo canto li renderà propizi. Ma poi cambia pensiero. Vuole rifugiarsi dai Parti e riconquistare col loro aiuto il trono; si recherà a Roma, salirà la tribuna e commuoverà il popolo, coll'eloquenza appresa da Seneca. Manda messi da Virgilio Rufo. E' disposto di rinunciare al trono, purché gli lascino la prefettura d'Egitto. Manda messi a Roma. Lo lascino in vita, l'Apollo novello. Non ne sa che fare del trono. Se lo tengano. Anela glorie maggiori. Quanto soffre! Oh questa ingrata plebe! Avesse l'umanità una festa sola, per spiccarla di busto, con un taglio solo! Solo il re del canto il dio Apollo, ha diritto alla vita! Nessuno si cura di lui; trova a stento uno schiavo che gli prepara un boccone. Il palazzo svaligiato è deserto, ma la folla non è contenta della sua umiliazione, ne chiede il sangue. Chi lo difenderà? Oh queste umiliazioni, queste ingiurie, questa solitudine! Lo accascia tanto. Un uomo, vestito poveramente, entra nel palazzo e lo avvicina. - Cesare. Un pugno di fedeli è deciso di salvarti. Di fedeli? Vi erano adunque ancora degli uomini che gli erano rimasti fedeli? Tanti lo avevano abbandonato. Respira. ? Salvatemi! Promette loro ricchezze, cariche, condividerà con loro il dominio del mondo, purché lo salvino. Sono decisi di salvarlo. Verranno a prenderlo, di notte, con una lettiga; Io porteranno in una villa romita, dove se ne starà nascosto, finché la procella si sarà calmata. Non possono conservargli il trono; non sta nella loro potestà. Gli vogliono conservare almeno la vita. Egli paventa un tranello. - Non temere. Noi ti difenderemo col nostro sangue. Andremo volentieri per te alla morte, lieti di morire per te, è la risposta. Gli viene un sospetto. ? Chi siete? L'uomo non risponde. - Mi volete salvare, perché adorate in me l'Apollo vivente, perché siete entusiasmati della mia voce, del mio canto? - Perché il nostro Dio ci ha imposto di esserti fedeli e di dare per te anche il sangue. ? Cristiani? chiede, fremendo dallo sdegno. ? Cristiani! L'uomo non può continuare. Il pugnale del sovrano lo ha trafitto nel petto. E' caduto morto al suolo. Freme al vedere quel morto. E' adirato seco stesso che ha ucciso quell'uomo. Chissà?.... Forse?..... Ora avrà anche i cristiani contro di sé, ed i cristiani sono grandi fattucchieri, che vorranno vendicare su di lui tutto ji sangue che egli ha sparso. Deve fuggire. Un cortigiano gli suggerisce: ? Apriti le vene. E' il solo, che gli è rimasto fedele. Il suicidio! Mai! Non può privare il mondo del suo canto. La fuga! Si getta ai piedi del cortigiano. ? Salvami! Poi cambia pensiero. ? Uccidimi! lo supplica. Nessuno osa farlo, si teme. ? Suicidati! Non ha coraggio. Fugge sopra un povero ronzino seguito da quattro servi; uno solo gli è fedele, gli altri lo seguono costretti. Un servo fedele; un fenice ?Chi sei?Perchè non mi abbandoni tu pure? Il servo, il povero schiavo, gli parla; cerca di sollevarne lo spirito, di destare in lui fiducia in Dio. Un cristiano! Maledetti cristiani! Giunge al Tevere. Si vuole gettare nelle sue acque ma non ha coraggio. Alla villa di Faone E' un liberto che ha beneficato, che ha amato, che gli sarà rimasto fedele. La via è polverosa; il caldo soffocante. I rari passanti guardano con indifferenza il cavaliere, madido di sudore, in groppa al magro ronzino, seguito da quattro schiavi; certo un uomo povero. Ignorano, che egli è il dominatore del mondo. Lo era. Ora non lo era più. Sciocco! Perché non ha rinunziato all'impero? Gli dei gli hanno pur dato il canto! Giunge da Paone. - Il senato ti ha deposto; ti ha giudicato. Sei staro dichiarato nemico della patria. Ti hanno condannato alle forche? Il senato! Quei senatori, che ha tanto beneficato, che ha avuto ai suoi piedi, che lo hanno dichiarato l'amore e la delizia del genere umano, il miglior tra i Cesari. Il senato! Maledetti, maledetti! E' adirato con se stesso, che li ha tollerati in vita, che non li ha fatti scannare tutti, tutti. Eppoi pensa a se stesso. Deposto, condannato alle forche. Gli avessero lasciato almeno l'Egitto! ? Suicidati! Deve suicidarsi. Le forche. Mai! Ma non sa decidersi. _ Scavatemi la fossa. Mentre la scavano gira desolato per la villa, per i giardini. Il sudore dell'angoscia gl'imperla la fronte; il cuore gli si stringe come in una morsa; gli si fa scuro avanti agli occhi; si sente tanto infelice. ? Un grande artista perisce! esclama. Sofrre, pensando al suo canto, e rumina fughe. Vuole salvare la vita, andare in Grecia, e colà cantare, cantare. ? Suicidati! ? Il mio canto? - Non suicidarti! Ricorri a Dio. Lo prega; invoca il suo aiuto e ti rassegna alla sua volontà I Quello che vuole il Signore! E' lo schiavo cristiano che gli suggerisce cosi. Egli si avventa sdegnato contro di lui. - Maledetto! Mi vuoi vivo acciocché il senato mi conduca alle forche! Lo uccide. E mentre osserva sdegnato quel cadavere, imbrattato di sangue, che giace ai suoi piedi, viene ansante un nunzio. ? Cesare. Vengono! ? Chi? - I messi del senato per catturarti e condurti alle forche. Odi. Ode il calpestio dei cavalli. Le forche! Mai! Non può indugiare. Vuole cacciare il pugnale insanguinato nelle mani del messo. - Uccidimi! Ti prego, ti scongiuro! Uccidimi I esclama con angoscia di morte. Ha tanta paura della morte. Gli manca il coraggio del suicidio. ? Suicidati! Il calpestio si fa più vicino. Ecco apparire i soldati a cavallo. Deve, deve! Un ultimo sguardo al sole, che splende infuocato sul cielo; agli alberi verdi de! giardino. La vita è così bella, e dover piombare nel regno delle ombre I Uno sguardo al cadavere ai suoi piedi. Un grande scatto di odio, contro i cristiani. Sono essi la causa della sua sventura. Ogni male viene dai cristiani. Un grande rimpianto. Muore il più grande cantante di ogni tempo. Vibra il pugnale e se lo caccia nel petto. L'acciaio freddo, freddo, entra lentamente nelle sue carni.... sente brividi di morte.....

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Egli agita allora le braccia incatenate verso il' ciclo e maledice all'Eterno che ha abbandonato l'Italia e permette la rovina di questa terra!

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Dopo avere abbandonato Velleda nella grotta, Costanza era tornata a casa; trascinandosi dietro Alessio. Ella tremava per aver lasciato Maria sola al piano superiore della villa. Se la bambina si fosse destata e avesse cercato Velleda e lei, poteva mettersi a gridare, spaventarsi, e allora? Vieni, - diceva supplichevolmente la donna, - di che temi? Non c'è nessuno, il cuoco non può sentirti e fra poco usciremo di nuovo insieme per riportare qui la dormente, vieni, - e gli accostava la bocca alla bocca e lo cingeva con quelle braccia desiose, dalle quali Alessio non sapeva svincolarsi. Cosi, a forza di preghiere e di promesse, lo aveva trascinato in camera sua e dopo essersi assicurata che Maria dormiva, era tornata a lui assetata di carezze, sempre più accesa di brame, sempre chiedente nuovo piacere. Ella, nelle braccia di quell'uomo che la trattava come una schiava e compiacevasi di disprezzarla, dimenticava ogni cosa. A un tratto balzò in piedi e disse : - Alessio, vieni, dev'esser tardi - e presolo per mano gli fece scendere al buio le scale. Appena ebbero aperto la porta della villa, furono sferzati in faccia da un colpo di vento. Essi, nell'oscurità, si fissarono spaventati. Il mare mugolava e scrosciava sinistramente, il cielo era tutto nero; un dubbio li assali entrambi, un dubbio che impediva loro di parlare. Essi si diedero a correre lasciando aperto il cancello del giardino, a correre sulla sabbia, fra le piante, in direzione, della grotta. Più avanzavano e più il dubbio cresceva. Il mare in tre ore s'era gonfiato smisuratamente, aveva invaso la spiaggia e batteva contro le dune di alghe. Alcuni cavalloni le sormontavano pure e gli spruzzi andavano a sferzare il volto di Alessio, il volto di Costanza. Quando giunsero alla grotta fecero un balzo indietro. Il mare ne chiudeva rimboccatura e saliva fin sul monticello formato dalla volta. Costanza! - esclamò Alessio spaventato. La donna, con l'occhio penetrante scrutava il mare su cui galleggiavano le alghe ritolte alla spiaggia. Un baleno squarciò le nubi ed illuminò l'acqua. Vedi, - disse Costanza al suo compagno, - è morta! Morta! - ripetè egli atterrito. Sì, è morta, e il padrone è liberato da una vipera. Taci! Ma appena Costanza ebbe nominato il padrone, fu assalita dal timore del castigo, e togliendosi gli orecchini e il vezzo, li mise in mano ad Alessio, dicendogli: Va', fuggi, fuggi a Sciacca per la spiaggia, imbarcati e scrivi a Giovanni dove sei. Il giovane le rese con disprezzo quei gioielli. Assassina! Infame! - le disse e si diede a cor rere a traverso le sabbie. Costanza rimase a guardarlo per un po' di tempo al chiarore dei lampi, poi fuggi anch'essa per tornare alla villa. E morta! - diceva fra sé con rabbia feroce. La cena era durata fino a tardi in casa Moltedo e Roberto erasi coricato dopo la mezzanotte, ma la impazienza di dire a Velleda che aveva vinto, il desiderio di rivederla, lo fecero destare a giorno, e così il sole era appena alzato quand'egli trottava sulla via di Selinunte. Com' era felice di ringraziare Velleda, di attribuirle tutto il merito di quel fatto, di chiederle scusa dei dolori che le aveva involontariamente ci, rionali e di assicurarla che tutto l'avvenire lo avrebbe consacrato a lei! -Egli si sentiva più sicuro di sé dopo quella lotta nella quale aveva misurato le sue forze e con la mente abbracciava tutto il vasto campo che relezione recente schiudeva alla sua attività. Voleva emergere, voleva conquistare nel mondo politico un posto eminente per offrirlo a lei, alla sua cara, e la vaga speranza che ella fosse un giorno libera, che potesse farla sua, gli s'insinuò nel cuore. La partenza dovrà esser rimandata, - disse a un certo punto il Lo Carmine. - Sento che il vento soffia gagliardo. Ne avremo per tre giorni, - rispose -Roberto. Peccato! Sono impaziente di partile e la signora Velleda ha bisogno di svago. Povera signora! - dissero i due amici. - Ha tanto sofferto. La carrozza procedendo oltrepassala gruppi d'operai dello Stabilimento. Tutti si schieravano, salutando il padrone. Come sono cambiati! - diceva Roberto. Sì, - rispondeva il Varvaro, - ma quel povero Federico non mi esce mai dalla mente. Che barbari! E tacevano di nuovo, prestando orecchio al sordo brontolìo del mare, che pareva un cannoneggiamento lontano, e ai sibili del vento, che parevano gridi. Lasciatemi fare, Lo Carmine, - diceva Roberto scorgendo le rovine; - questa Selinunte, che ha dormito tanti secoli, noi la desteremo; dobbiamo frugare le viscere della terra e ci debbono restituire i tesori che tengono nascosti. La bonificheremo anche, vedrete! Ma che mare! - aggiunse alzandosi sulla carrozza. - Il " Selino " si regge male sugli ormeggi; bisognerà fargli prendere il largo. Vedo già che ci hanno pensato perché, la macchina è accesa. Oggi doveva giungere un vapore da Malta, non lo vedo. L'occhio del padrone, l'occhio sereno dell'uomo educato al lavoro, si stendeva già su quel piccolo mondo che amava. Roberto non era mai tornato più fiducioso, più contento in quella "villa che racchiudeva tutti i suoi affetti e le sue speranze. Ne la signora Velleda ne Maria si vedono, - disse quando la carrozza fece una breve sosta allo stabilimento per lasciare il Varvaro. Con questo tempo è naturale che stiano in casa, osservò il Lo Carmine. Sì, ma come mai sono chiuse le finestre della villa? disse Roberto assalito da un vago terrore. Costanza è pigra, - osservò Saverio, - e se non le apro io, non le apre nessuno. La carrozza si fermò dinanzi al cancello e tutti ne scesero. Roberto entrò in casa e non vedendo altri che il cuoco gli chiese di Costanza. Non è scesa, - rispose. È strano, - diceva Roberto salendo in fretta le scale. Su era tutto buio. Maria; udendo i passi del babbo, s'era alzata e socchiudendo la porta sporgeva la bocca per essere baciata. Sei stato eletto, babbo? Sì, cara, ma Leda? Dorme, ora la desto, come sarà contenta! E la bimba socchiuse la finestra, guardò e vedendo il letto vuoto, ritornò alla porta, chiamando: Babbo! Babbo! Roberto accorse. Vedi, Leda non c'è! - e gli mostrava il letto che serbava ancora l'impronta del corpo e i vestiti ripiegati sulla sedia. Oh Dio! - esclamò Roberto e si diede a chiamare Costanza. La donna fingeva di dormire e rispose : Mi vesto. Costanza, - disse il padrone accostandosi alla porta di lei, - dov'è la signora? Sarà scesa. Ma la sua veste, la sua biancheria sono qui! Babbo, dove sarà Leda? - domandava la bambina avviticchiandoglisi mezza nuda e tremante alle gambe. Costanza! - gridò di nuovo Roberto. La donna comparve ancora mezzo discinta. Ieri sera avete accompagnato in camera la signora? Sì, l'ho spogliata; saranno state le dieci. Che ha detto, si sentiva male? No, voleva alzarsi presto per venirle incontro; e poi ha dormito senza chiamarmi mai! Roberto scese tutto sconvolto e incontrò il Lo Carmine. Amico, accompagnatemi, non so quello che sia successo. Velleda non c'è. Velleda! Velleda! - gridava nel giardino, - ma nessuno rispondeva e il vento mozzava il grido. Il cuoco e Saverio, vedendo il padrone così agitato, si diedero anch'essi a cercare, inoltrandosi fra le rovine, frugando fra gli appj, spingendosi fino alla Casa dei Viaggiatori. .Roberto aveva spedito il Lo Carmine allo stabilimento a chiamare i guardiani affinchè cercassero nella campagna, ed egli solo correva in riva al mare, senza. cappello, come un pazzo, ripetendo il nome della sua cara. Il vento gli faceva svolazzare la barba e i vestati; l'acqua gli bagnava le gambe, gli spruzzava il volto, ma eg'li continuava a chiamare e a correre. A un tratto spalancò gli occhi, il nome che gettava al mare; al vento, alla campagna, gli spirò sulle labbra ed egli rimase con i piedi inchiodati al suolo. A pochi passi da se aveva veduto un corpo bianco, di una bianchezza di giglio, penzoloni sopra un mucchio di alghe; ogni ondata ne copriva il volto, ne baciava il seno. Roberto mandò un ruggito, percorse il breve tratto e preso fra le braccia quel corpo grondante acqua, quel corpo abbandonato, livido, gelato, si diede a correre attraverso il giardino, su per le scale" finché non lo ebbe deposto sul letto. Nessuno lo aveva veduto, nessuno lo aveva udito ed egli stringevasi a sé quelle povere membra irrigidite o cercava di rianimare quelle pallide labbra, senza riuscirvi. Allora un ruggito gli usci dal petto, un ruggito di belva e cadde in ginocchio col capo abbandonato sulla mano della sua cara, della sua morta. I guardiani erano giunti dallo stabilimento e chiamavano il padrone. Costanza, che era intenta a vestire Maria, sentiva tutto e le sue mani tremanti non riuscivano a compiere l'ufficio cui erano use, ma non si moveva. Però uno degli uomini vedendo tracce d'acqua sul marmo dell'ingresso e sulle scale, le seguì e giunse fino in camera di Roberto, il quale balzò in piedi udendo rumore. Gli altri guardiani erano entrati in camera anch'essi o guardavano il cadavere, muti, riverenti. Ditemi! Ditemi chi l'ha uccisa - urlò Roberto. Tutti si strinsero nelle spalle. Uno dei guardiani recava in mano la lettera di Franco a Velleda, che il duca poco prima gli aveva gettata dalla finestra, raccomandandogli di portarla alla villa, senza dirgli a chi, supponendo forse che ne sapesse leggere l'indirizzo, ed egli la porse al padrone. Roberto ne stracciò la busta, ma appena vi ebbe gettato gli occhi, mandò un grido, afferrò un revolver e fuggì. I guardiani lo seguirono, ma egli correva più veloce, correva come il vento e a un tratto, senza fermarsi, buttò via l'arme. I quattro uomini non erano ancor giunti allo stabilimento, che Roberto era già in camera di Franco, e scotendolo dal sonno, gli diceva con voce che non aveva più nulla d'umano: Che n'hai fatto di Velleda? Il duca taceva spaventato. Tu l'hai uccisa, confessa? No, - rispondeva Franco balzando dal letto. Roberto lo afferrò gridando: Vieni, vieni a veder la tua vittima! Assassino! Franco fece un balzo e afferrato accanto al letto un revolver, quello stesso da cui Roberto aveva tolto le cariche; pochi mesi prima, per impedirgli di morire, fece fuoco. Una palla penetrò nel cuore di Roberto. Caino! - gridò egli prima di spirare.

FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Era un parco antico e squallido da molt'anni abbandonato; desolato come un campo di battaglia, pien di nidi, e rami e zolle, come un colle - orïental. Querce ed olmi e abeti e frassini, in ferace abbracciamento, sotto il vento, si movean come un sol albero; e alle nubi, augusta e folta, l'ampia volta - era guancial. E, disotto, eran rigagnoli zampillanti in vaghi suoni pei burroni ; e, con gesti da cadaveri, tronchi fracidi riversi, e cospersi - d'alghe e fior. Eran templi d'erba e d'ellera, gallerie di clematidi, foschi siti ; trasparenze glauche ed umide, d'ombre tremule rabeschi, toni freschi - e toni d'or. Compagnie di strani Fauni, su marmorei piedistalli, scabri e gialli, i sentier ne sorvegliavano, e specchiavansi agli stagni; mentre i ragni - erranti ordir, fra quei menti aguzzi e lepidi, si vedean le argentee reti; e, faceti, gli augelletti si posavano su quei pugni irsuti ed alti, a far salti - ed a garrir. Ai meriggi, alto silenzio incumbea sulla riviera; se non era il cader di un frutto fracido che facea, nell'acqua immota, una nota - e nulla più. I tramonti vi eran tragici; ombre orrende, incendii immani! Draghi o nani somigliavano gli arbuscoli, e i grandi alberi giganti inneggianti - a Belzebù. Il viator che, a notte, rapido presso il parco transitava, palpitava ; si sentìa sul viso battere come scosse l'aure dense da ali immense - di sparvier. Né fanciul di nidi in caccia, né pastor, né mendicante, né brigante, né giammai di amanti coppia (tanti spetri vi eran corsi!) osò porsi - in quei sentier.

Penombre

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Ho un Virgilio sul mio bruno scrittoio legato in vecchio cuoio, che comperai per memoria di viaggio da un prete di villaggio; costui l'avea trovato frugando in un convento abbandonato. Tutto pieno di note è il volumetto: qua e là qualche versetto della Chiesa all'esametro latino sposa Sant'Agostino, e le date monotone del chiostro vi serba il giallo inchiostro. Ond'è che a notte, leggendo il poeta nella mia stanza queta, balzo repente, e, attonito, perplesso, parmi di aver lì appresso il volto aguzzo e smunto, e l'alito di un monaco defunto che, scappato dal freddo monumento, sfiorandomi col mento, evoca da quei fogli impolverati i suoi studi passati, e vi rannoda, palpitando, i fili degli anni giovanili.

L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

Ho abbandonato il mestiere chimico ormai da qualche anno, ma solo adesso mi sento in possesso del distacco necessario per vederlo nella sua interezza, e per comprendere quanto mi è compenetrato e quanto gli debbo. Non intendo alludere al fatto che, durante la mia prigionia ad Auschwitz, mi ha salvato la vita, né al ragionevole guadagno che ne ho ricavato per trent' anni, né alla pensione a cui mi ha dato diritto. Vorrei invece descrivere altri benefici che mi pare di averne tratto, e che tutti si riferiscono al nuovo mestiere a cui sono passato, cioè al mestiere di scrivere. Si impone subito una precisazione: scrivere non è propriamente un mestiere, o almeno a mio parere, non lo dovrebbe essere: è un' attività creativa, e perciò sopporta male gli orari e le scadenze, gli impegni con i clienti e i superiori. Tuttavia, scrivere è un "produrre", anzi un trasformare: chi scrive trasforma le proprie esperienze in una forma tale da essere accessibile e gradita al "cliente" che leggerà. Le esperienze (nel senso vasto: le esperienze di vita ) sono dunque una materia prima: lo scrittore che ne manca lavora a vuoto, crede di scrivere ma scrive pagine vuote. Ora, le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia (che è un giudice imparziale, impassibile ma durissimo: se sbagli ti punisce senza pietà), il vincere, il rimanere sconfitti. Quest' ultima è un' esperienza dolorosa ma salutare, senza la quale non si diventa adulti e responsabili. Credo che ogni mio collega chimico lo potrà confermare: si impara più dai propri errori che dai propri successi. Ad esempio: formulare un' ipotesi esplicativa, crederci, affezionarcisi, controllarla (oh, la tentazione di falsare i dati, di dar loro un piccolo colpo di pollice!) ed infine trovarla errata, è un ciclo che nel mestiere del chimico si incontra anche troppo spesso "allo stato puro", ma che è facile riconoscere in infiniti altri itinerari umani. Chi lo percorre con onestà ne esce maturato. Ci sono altri benefici, altri doni che il chimico porge allo scrittore. L' abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. La chimica è l' arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C' è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuol dire filtrare cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la "passione impressa", ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l' ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: "nero come ..."; "amaro come ..."; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene, e per ognuna di esse sa scegliere una sostanza che la possiede in misura preminente ed esemplare. Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio: mi pare di fruire di un vantaggio illecito nei confronti dei miei neo-colleghi scrittori che non hanno alle spalle una militanza come la mia. Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Sarà stato abbandonato dal suo equipaggio." "Abbandonato! No, Mister Kelly." "Come lo sapete?" "Ho veduto sospese alle gru di babordo e di tribordo quattro imbarcazioni." "È impossibile, O'Donnell!" "Guardate, Mister Kelly." L'ingegnere prese a sua volta il cannocchiale e guardò. "Avete ragione" disse poi. "Le scialuppe sono a posto." "Che l'equipaggio si sia salvato su di una zattera?" "Avrebbe portato con sé anche le imbarcazioni, che sono sempre preferibili a una zattera che veleggia male e che una tempesta può facilmente sfasciare." "Che l'equipaggio sia stato raccolto da qualche nave?" "Potrebbe essere; ma perché la nave salvatrice avrebbe lasciato le imbarcazioni, che hanno un certo valore?" "Sarei curioso di chiarire questo mistero, Mister Kelly." "Lo chiariremo, O'Donnell. Il vento ci spinge proprio diritti su quella nave, e prima di sera noi l'abborderemo." "Purché il vento non cambi." "Sono deciso ad abbassarmi ed a gettare le mie àncore. Forse su quella nave possiamo trovare dell'acqua e riempire i nostri barilotti, che si stanno svuotando con una rapidità che mi spaventa. È molto se ne abbiamo centocinquanta litri." "In trenta ore il sole ci ha assorbito più di quaranta litri!" esclamò O'Donnell. "Se questa calma ci tiene imprigionati quattro o cinque giorni ancora, noi saremo alle prese con la sete." "Vedete che è necessario abbordare quella nave." "Se vi passeremo solamente vicini, io sono deciso a calarmi in acqua, Mister Kelly, e a rimorchiare il pallone." "Ed io a sacrificare un po' d'idrogeno." Perdurando la calma, l'aerostato si avvicinava alla nave con estrema lentezza, essendovi appena appena un soffio d'aria, e non sempre continuo. Era molto se i due fusi percorrevano uno spazio di cinque o sei chilometri all'ora, mentre quel rottame si trovava lontano trenta e anche più. A mezzodì anche quel leggerissimo alito di vento venne a mancare, e il Washington rimase immobile a ventidue o ventiquattro chilometri di distanza. Però verso le tre, quando il gran calore, che aveva raggiunto la spaventevole cifra di 42o, cominciò a scemare, s'alzò una brezza mi po' fresca, che lo spinse con la velocità di otto chilometri all'ora. Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l'idrogeno. Alle quattro pomeridiane l'oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri. A così breve distanza, con l'aiuto del cannocchiale, l'ingegnere e l'irlandese potevano scorgerla nettamente. Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle. Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta. Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere. "Che sia qualche animale?" chiese O'Donnell. "Sarà forse un cane" rispose l'ingegnere. "Abbandonato dell'equipaggio?" "Certamente." "Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame." "Lo credo anch'io." Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa. L'ingegnere fece attaccare l'ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l'aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo. Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d'acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s'avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii. "Attento all'àncora. O'Donnell" gridò l'ingegnere. "Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni" rispose l'irlandese. Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s'abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L'àncora, guidata dal braccio dell'irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo. Il cane, un enorme molosso, s'avventò rabbioso verso l'àncora, emettendo minacciosi ululati. "Diavolo!" esclamò O'Donnell. "Sarà un po' difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly." "Lo uccideremo, O'Donnell. Ma ... " "Che cosa?" "Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?" "Per mille merluzzi! E odore di morti questo!" esclamò l'irlandese, impallidendo. Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull'oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l'aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!" L'ingegnere e O'Donnell, entrambi in preda a grand'emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d'una tenebrosa voragine, ma invano. "Gran Dio!" esclamò l'irlandese. "Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell'olandese maledetto, o la nave-feretro?" "Siete coraggioso, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Lo credo" rispose l'irlandese. "Allora seguitemi!" "E Simone?" "Rimarrà a guardia dell'aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire." "Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso." L'ingegnere si volse verso il negro e lo vide curvo sul bordo della scialuppa, con gli occhi fissi sulla nave; ma quegli occhi tradivano una paura orribile, e il volto era diventato grigio, cioè pallidissimo. "Simone!" disse l'ingegnere. Il negro non rispose e non abbandonò la sua posa. Pareva che cercasse d'indovinare la causa di quelle esalazioni pestifere, che salivano fino all'aerostato, a ondate. "Simone," ripetè "cosa fai?" Questa volta il negro alzò il capo e guardò il padrone con due occhi smarriti. "Dei morti?" chiese, battendo i denti. "Io paura." "Ma quali morti, pauroso?" "Là! Là!" balbettò il negro, rabbrividendo e indicando il boccaporto. "È la nave dei morti!" "Tu sogni, Simone" "No" disse l'africano con strana energia. "Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly" disse l'irlandese. "Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo." "Quale?" "Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno." "Rimanete qui voi, O'Donnell. Scenderò io." "Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo." "Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d'aiuto mi raggiungerete." "Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l'aerostato ed esporvi a dei pericoli." Poi, prima che l'ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare. "Badate al cane" gridò l'ingegnere. "Ho la rivoltella" rispose O'Donnell. Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti. Giunto all'ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L'enorme molosso stava presso all'ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca. "È idrofobo!" esclamò O'Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. "Bel guardiano a questa nave dei morti!" Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave. "È morto?" gli chiese l'ingegnere, dall'alto. "Lo credo" rispose O'Donnell. "Se si rialza ho altri due colpi." Si lasciò andare e cadde sulla tolda. "Corna di cervo!" esclamò. "Che profumi! Ma che cos'è accaduto qui? Che l'equipaggio si sia scannato?" S'avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto. Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione. "Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni" mormorò. Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz. "È una nave messicana" gridò, volgendosi verso l'ingegnere, che lo guardava con ansietà. "Vi sono dei morti?" chiese l'ingegnere. "Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente." "Udite nessun rumore, nessun gemito?" "Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana." "Temo un grave pericolo, O'Donnell." "Bah! I morti non si muovono." "Ma avvelenano, uccidono." "Ho la pelle dura" rispose l'irlandese, che forse non aveva compreso l'allusione dell'ingegnere. Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva. La sua assenza fu breve. L'ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l'ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle. "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" gridò con accento di terrore. S'aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all'ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita: "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" "Ma che cosa avete veduto, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Siete pallido e sconvolto." "Ho ... che forse noi, che abbiamo respirato ... quei miasmi, ... siamo perduti." "È scoppiata una epidemia su quella nave?" "Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!" "Fuggiamo" ripeté l'ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido. Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra. L'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.