Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

Ugo, che voleva abbandonarla alle fiamme, nulla più vedeva, nulla sentiva, sentiva solo un bacio rovente... un bacio di Imilda! - T'amo, t'amo, Imilda! In qual momento te lo dico! M'hai ascoltata? Sei viva? Chi ti strappò a me? Io ti allentai le mie braccia? Non so quello che accadde! Ma tu non sei morta? Supplico Dio, no, no! Quale incertezza! - Ed Ugo, così torturato, sentiva corrersi per tutte le fibre una potenza di nuova vita: e sorrideva! Allora ecco alla fantasia il padre, in un tratto, che rampognava orrendamente: - Perchè ti diedi speroni d'oro? Perche tu fossi vinto? Già troppo affanno fu nella famiglia di Oldrado per il serpente della donna! Guardati, Ugo, guardati! - Ed Ugo piangeva: - Padre, se ella è viva ancora, come si tormenta! Io non posso odiarla! Allora Ugo vedeva l'acqua stagnante di un fossato, tutta sozza di sangue, putrefatta e fangosa: alla superfìcie venivano a scoppiare con flaccido gorgoglio e con lentissimi cerchi alcune bolle d'aria: sotto qualcosa si moveva all'insù: ecco una testa coi capegli impegolati sul volto da una melma verdiccia. Che? si chinava salutando. Sulla nuca era aperta e scheggiata: si drizzava e boccheggiava, come quella di un ferito e di un annegato. Era messer Gisalberto! Quel morto affondava: qualcosa ancora si dondolava all'insù. Messer Aginaldo quest'altro! E i due cavalieri a vece di pupille avevano un globo bavoso che colava, il naso pesto, alle labbra cascanti penzolate le irrequiete code dei vermi. E i due borbogliavano: - Traditore tu? - .... Ecco Manfredo e Bello, i figliuoletti di Gisalberto, affamati disperatamente nel pattume di un sotterraneo e disperatamente imprecanti: - Traditore! - E madonna Marzia, la vedova, sbattuta a terra da due sozzi ferocissimi, chiamava la Vergine, e si rannicchiava ululando: - Per te traditore! - E il vecchio Baldo si armava e ringhiava: - Muoverò al tuo castello! - Poi Ildebrandino e Oberto: Oberto era il dimonio della gelosìa; lividissimo, furente, toglieva una ciotola ai cani, in quella sputava, e in quella poneva la testa di Ugo. Il conte d'Auriate ridacchiava.... - Madonna di Saluzzo, voto dieci lampade d'oro! - gridava Ugo. Allora di nuovo ecco una cappella ardente, ecco una donna.... - S'io non l'avessi veduta - gridava Ugo: - non l'avrei conosciuta, non sarei fuggito per lei! E chi è lei? S'io non l'avessi conosciuta? Cavaliero che combatte senza pensiero di dama è vulgare mercenario! Se io non l'avessi amata? Ma se era destino, se è destino ch'ella riaccenda la vendetta! E la vendetta sarà atrocissima su tutti! S'io non fossi fuggito dal campo? Ma quelli che erano al suo castello non erano nemici, e non volevo io raggruppare la pugna decisiva?... Se non ci fosse stata lei! Ma se così era, chi sarebbe ora dinnanzi alla mia fantasìa orrenda a misurarmi nei deliri dell'affanno? Non la rabbuffata larva del padre! Non la oscena di Guidinga!... No, no, voglio vivere e vivere di guerra! Sono vinto, e ancora voglio sostenere il peso vituperante della vita! Sono disonorato, e non mi schianto per mia volontà d'abbominio! Sono abbandonato da tutti, e voglio meditare fortissimi fatti! E impreco colla voluttà della sfida: «Dammi ancora maggiore tormento!»... Oh se non ci fosse stata lei! Ella mi supplica nel giorno, nella notte: «Vieni, cercami, fammi giurare, precipitati e vinci!» La voglio! La voglio mia fosse pure in mezzo ad un fuoco che per secoli non si spegna! Imilda, dimmi che sei viva! Ti supplico! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E Imilda? Ritorniamo a Rupemala. Imilda, in quel momento in cui Ugo aveva riso, senza più una coscienza al mondo, fu afferrata e salvata da Oberto, spinta fuori della cappella. Ildebrandino, a cui le vampe vividissime e sibilanti avevano impedito di vedere gli atti e di ascoltare i gemiti di quelle povere anime disperate, Ildebrandino abbracciò Ugo, uscito lentamente dalle fiamme, e volle che Oberto l'abbracciasse, gridando: - Gran mercè! Nipote mio, questo è un esempio! - Imilda fu trasportata in una camera e soccorsa. Ugo s'involò dal portone: e nulla a Rupemala si seppe di lui. Il dì dopo, continuando l'incendio, per quanti sforzi si fossero usati a vincerlo, Ildebrandino decise risolutamente di resistere ad Adalberto, contendendogli mattone per mattone dell'irreparabile ruina: e disse ad Oberto: - Qui dobbiamo morire con esempio non unico certo nella nostra famiglia. Avesti gli sproni d'argento: dunque sii contento, e ricordati che la ubbidienza agli esperti è grande virtù di guerra. Oberto era tetro. E a quelle parole rise amaramente. - So che vuoi dirmi, Oberto. Ti paiono pochi gli sproni? Sii contento: non a tutti è data l'audacia delle cose fortissime. Hai parlato con Imilda stamattina? - No. - No? - Ha domandato di me? - Sì: e ringrazia Iddio.... - Ringrazi messer Ugo. - A tutte l'ore! - Dannato sia! - imprecò Oberto. - Come? Come? Quanto fu valente per noi! Sì! - affermò Ildebrandino. - Per la impresa? - rise Oberto, invelenito: guardando lo zio con degnazione, quasi gli dicesse: - Mi accontenterò io dei vostri giudizi? - Oberto, l'hai veduto nelle fiamme? - Troppo ho veduto! - E per la impresa, tu dici? Ugo ha pugnato, come un forte, e l'amo! Ma Dio ci maledisse. - Perchè c'era lui! - Oberto, che hai? La tua ira mi piace! Contro chi? - si accese Ildebrandino. - Contro di voi - ardì Oberto. - Ti sono amare queste parole? - Zio! - rispose Oberto ad un tratto: - Voglio sposare Imilda, anche oggi! - Quando Ildebrandino consenta - rimproverò lo zio. Allora Oberto con astio e con ironìa: - Ah volete combattere voi? Ugo sarà con noi? - E, meditando una offesa verso Ildebrandino e una vendetta contro Ugo, domandò tra sè stesso: - Venti anni fa, quando Adalberto mosse qui, come combattè lo zio?... Che gloria!... E voi, messer Ugo, perchè avete spezzato l'uscio della cappella sacra? Era meglio che Imilda morisse, là, sola! Volete ch'io parli al vescovo di Saluzzo? - E Oberto, dopo un silenzio beffardo collo zio, si espresse così: - Fate che, morendo voi, io abbia un castello, o la memoria di un castello: e voi le esequie da cristiano. - Duri la guerra un mese, duri un anno! - rispose Ildebrandino, offeso più che mai e più che mai dignitoso: - Perchè mio nipote parla così? Ch'io non sappia combattere? Ch'io non conosca i valenti? Ebbene, senza messer Ugo io sfiderò Adalberto. Oberto fu contento. - Senza Ugo, sì: e mio nipote ascolti: - Ildebrandino andò al fondo di torre dove sapeva che era stato chiuso Guidello: lo trovò rabbioso di fame, lo trasse su, lo fece rifocillare, poi lo accommiatò così: - Va, araldo del malanno, tromba di vergogna. Io ti lascio e ti comando questo: torna al tuo signore e digli che con Ildebrandino c'è Oberto. Digli che Oberto vuole un castello per sè e per i suoi: il castello può essere quello di Adalberto. Madonna Marzia, Manfredo e Bello domandano vendetta. Che pensi Baldo non so: so che i vili e i traditori non sono più sotto il suo tetto. Io ti lascio e ti ho comandato. E Ildebrandino e Oberto s'apparecchiarono a disperatissima difesa e a furioso conquisto. Oberto un giorno disse: - Zio, lasciate ch'io vada a domandar benedizione al vescovo di Saluzzo. Ildebrandino crollò la testa: ma Oberto volle proprio uscire dal castello. Tornato di lì a poco tempo, con volto soddisfattissimo, domandò: - Ov'è madonna Imilda? - come se dicesse: - La mia! Voglio sposarla oggi, col piacere suo e con quello di Ugo! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Madonna Imilda non era più con Ildebrandino. Questi, per toglierla dai pericoli dell'armi, l'aveva segretamente affidata alla custodia dei figliuoli del povero Federigo e della vecchia Agnese, e fatta partire per una casetta di boscaiuoli, lontano, su una delle montagne, che, con quelle su cui sorgevano le castella dei cavalieri e del signore Adalberto, formava il contrafforte che si spicca dal Monviso. Questo contrafforte coll'altro staccatosi dal monte Meidassa chiude la valle ove nasce il Po: al di qua la valle di Varaita, di là quella del Pelice, all'apertura Saluzzo. Là su stette madonna Imilda, un giorno, e due, e tre... Le diceva la vecchia Agnese: - Madonna, oggi si combatte. Preghiamo. Imilda rispondeva: - C'è un cavaliero che vince sempre e tutto. Alla sera venivano sulla montagna i figliuoli di Agnese a portare le nuove: e le donne domandavano: - Nessuno sa niente? che Imilda è qui? - Nessuno. - E quel cavaliero? I boscaiuoli intendevano di Oberto e rispondevano: - Coll'usbergo è un san Giorgio. Ma sa niente! Oh come pregava Imilda in tutti i momenti! - Madonna del cielo, non dovevi mandarmelo! Sarei morta su i tuoi gradini e tu mi avresti dato il paradiso! Non avrei conosciuto l'inferno in questa vita! Amare come amo io! Come volle Dio che amassi!... E non so nulla di lui! E non oso domandare di più.... Ma è questo l'amore?... E che mi disse egli perch'io abbia diritto ad amarlo? Che fece! Vinse il fuoco!... E che era morire a confronto di questo vivere? Ugo, Ugo cavaliero, Ugo infelicissimo! Perchè non vieni? Forse che t'hanno ucciso? Forse che m'hai dimenticata?... Ucciso!... Chi può avere alzato la mano su di te?... L'anima mia non sa combattere l'incertezza tremenda! Così disse: «Sono il figlio di Guidinga!» E chi era Guidinga? Un'innamorata? Ma ella forse fu un angiolo. Io sono condannata in questa vita e nell'altra.! L'amore cominciò tra le fiamme, e tra le fiamme inestinguibili sarà eterno tormento!... Pietà, madre dei pentiti: io non so quello che dico! E tu m'avresti dato il paradiso! Ma se già mi hai condannata, questo è troppo strazio: e lo spezzarmi così è indegno di te che tutto puoi. Puoi volere anche in me la bestemmia.... Non sono io che parlo: è Ugo in me! No, no, Ugo sarebbe perduto, ed io voglio invece la sua eterna salvazione! Non è Ugo, ti giuro, ti scongiuro! È il cuore straziato! E la vergine una sera si fece raccontare da Agnese i casi di Guidinga. E Agnese concludeva: - Dite, se la conobbi! Come conosco voi. Giusto, come voi, la piangeva sempre quando il suo Adalberto era lontano. Voi perchè piangete? - Ho paura! - rispondeva Imilda. - Conoscete la fantasma fiammante di bianco? - La madonna perduta - È l'anima di Guidinga fino al dì del giudizio. - È così disperato l'amore! Chi ci resiste? - lamentava Imilda. - Come reggerò al rimanermi quassù? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ugo da quattro giorni, sempre chiuso nel suo castello, si combatteva atrocemente. E così: - Ildebrandino ed Oberto ieri vinsero. I servi prigionieri nel castello di Aginaldo l'altra notte uccisero il capitano di Adalberto. Baldo con Manfredo e Bello s'apparecchia a muovere qui per guadagnare la taglia.... E tu che fai, Ugo? Tu capo dell'impresa, tu redentore, tu giovanissimo conte!... Se Dio ci faceva vincere! se i morti di là avessero supplicato coll'ardore delle fiamme! E tu hai pensato ad essi? Oh i morti ora si levano ferocemente ad imprecarti! E la viva sorride!... Il padre già dalla culla ti condannava alla vergogna e al furore, e tu che avresti dovuto maledire la donna, tu per la donna sei maledetto!... Temi la taglia? Ma che vale la tua testa? Vale oro, non onore. Temi la morte? Ma che vale la tua vita? Fu già carica d'onte. Speri la vittoria? Speri l'amore? C'è la morte! Oh questo sì ch'è strazio ineffabile! E anch'io supplico: «Pietà!» come supplicò Imilda. Pietà della mia vita! Ecco la vilissima preghiera! Preghiera di donna!... Sì, ti sogno ancora nella cappella avvampante: giungo a te, ti stringo: e tu chini il capo sulla mia spalla, ed io ti dico: «Ti odio!» Ecco l'anima mia, ecco il mio dovere!... Che faccio ora? Io che mi sento la forza e la ruina dei turbini. Io che voglio uccidere, e crollare le torri, e sghignazzare fra il suono di cento trombe, e morire pur che Dio mi ascolti!... Dio non ascolta mai!... È così muto il sepolcro del padre! È così trista l'ironia del nulla!... Voglio vita, vita strapotente, ed ogni vita è in queste parole: «Ti odio! Femmina, ti odio!» O viva, o morta, sii detestata!

C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

- Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a quella montagna e abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova. - Consulterò la Regina. - Vuol dire che non ne farete nulla. Stretto fra l'uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca una boccettina, che gli spariva fra le dita e disse: - Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata, Vostra Maestà glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà. Infatti, dopo nove mesi, la Regina partorì e fece una bella bambina. A questa notizia il Re diede in uno scoppio di pianto: - Povera figliolina, che mala Sorte! Che mala Sorte! La Regina lo seppe: - Maestà, perché avete pianto: Povera figliolina, che mala Sorte? - Non ne Fate caso. La Reginotta cresceva più bella del sole: il Re e la Regina n'erano matti. Quando entrò nei sette anni, il povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto doveva condurla in cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto era questo: bisognava osservarlo. Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina: - Vo in campagna colla bimba; torneremo verso sera. Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La Reginotta non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo. - Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro. Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia. - Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro. Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia. - Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro. - Siediti qui; aspetta un momento. E l'abbandonò alla sua Sorte. Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare: - E la figliuola? E la figliuola? - Calò giù un'aquila, l'afferrò cogli artigli e la portò via. - Ah, figliuola mia! Non è vero! - Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco. - Ah, figliolina mia! Non è vero! - Faceva chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse. - Non è vero! Non è vero! Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa. E la Regina partì, come una pazza, per ritrovar la figliuola. Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non scoperse neppure un segnale; e tornò, desolata, al palazzo. Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la Regina si affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata: - Buona donna, buona donna, montate su. - Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad aspettarla al terrazzino. Come la vide passare: - Buona donna, buona donna, montate su. - Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il portone. - Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò andar via; e per le scale le domandò perdono di quella volta che non le aveva fatto l'elemosina. - Buona donna, buona donna, Fatemi ritrovar la mia figliuola! - Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia. - Buona donna, buona donna, Fatemi ritrovar la mia figliuola! - Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito? Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla. - E il Lupo Mannaro dov'abita? - Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né bere, né riposare, e al terzo giorno s'arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di grano, e venite con me. La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì insieme con lei. Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchiarella attaccò un capo del refe a una piantina e disse: - Chi semina raccolga, Chi ti attacca, quei ti sciolga. Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte. - Vecchiarella, riposiamo un tantino! - Maestà, è impossibile. Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame. - Vecchiarella, prendiamo un boccone, mi sento svenire! - Maestà, non è possibile. Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete. - Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua! - Maestà, non è possibile. E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella attaccò quell'altro capo ad una pianticina, e disse: - Chi semina raccolga, Chi ti attacca, quei ti sciolga. Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo la Regina dovea lasciar cadere in terra un chicco di grano e la vecchiarella diceva: - Grano, grano di Dio, Com'io ti semino, vo' mieterti io. Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano. - Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo arrivati. La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse: - Coltellino, coltellino di Dio, Com'io ti pianto, vo' strapparti io. Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta. Vistasi sola sola in cima alla montagna, s'era messa a piangere e a strillare; poi, povera bimba, s'era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei stanzoni non vedeva anima viva. Gira, rigira, era già stanca. - Reginotta, sedete, sedete! Le sedie parlavano. Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una tavola apparecchiata, colle pietanze fumanti. - Reginotta, mangiate, mangiate! La tavola parlava. Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini. - Reginotta, dormite, dormite! Il letto parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla, ma s'annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla mamma; ed una volta si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi: - Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia! Ma una vociona le gridò: - Sta' zitta! Sta' zitta! Ranicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare. Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare: - Vuoi vedermi? E non era quella vociona. Rispose: - Volentieri. Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle stanze viene avanti un cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino rosso e una bella piuma più alta di lui. - Buon giorno. - Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello! E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. - Mi vuoi per marito? Mi vuoi? La Reginotta rideva: - Ti voglio, ti voglio. E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani. - Come ti chiami? - Gomitetto. - Che fai qui? - Sono il padrone. - Allora lasciami andare! Lasciami tornare a casa mia! - No, no! Dobbiamo sposarci. - Per ora bada a crescere! Gomitetto se l'ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s'annoiava a star lì senza vedere un viso cristiano. Ogni giorno chiamava: - Gomitetto! Gomitetto! Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo: - Vuoi vedermi? - Volentieri. In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d'oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui. - Buon giorno. - Buon giorno. La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. - Mi vuoi per marito? Mi vuoi? La Reginotta rideva: - Ti voglio! Ti voglio! Ma per ora bada a crescere. E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l'ebbe a male e andò via. Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s'era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d'occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma: - Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta! E piangeva sui guanciali; quand'ecco sente buttar dei sassolini all'imposta della finestra. Chi poteva essere, a quell'ora? Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino l'impòsta, e domandò: - Chi siete? Che cosa volete? - Son io, figliuola mia; siam venute per te! Dall'allegrezza stava per saltar dalla finestra. - Ascolta, figliuola - disse la Regina sotto voce. - Quel Gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s'è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t'apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo. La mattina, la Reginotta udì la solita voce: - Vuoi vedermi? - Volentieri. Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso, peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare. - Mi vuoi per marito? Ti feci fare apposta per me. Lei tremava come una foglia. - Mi vuoi per marito? Più la Reginotta sentiva quella vociaccia, e più tremava e si smarriva. - Mi vuoi per marito? Voleva rispondergli: sì! Ma le scappò detto: - Oh, no! no! - Allora vien qui! E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela. - Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia! Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose: - Ti sia concesso! Sarai mangiata domani. La notte, all'ora fissata, lei s'affacciò alla finestra: - Ah, mammina mia! Mi scappò detto di no; sarò mangiata domani. - Fatevi coraggio! - disse la vecchiarella. E picchiò forte al portone. - Chi è? Chi cercate? All'urlo del Lupo Mannaro tutto il palazzo tremava. Son coltellino, Son piantato nella terra dura, Per difender la creatura. Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina, all'alba, venne fuori; e come vide il coltellino, si mordeva le mani: - Se trovo chi l'ha piantato, ne faccio un boccone! Cercò, frugò attorno, ma non trovò nessuno. All'ultimo chiamò la Reginotta: - Vien qua, strappami di terra questo coltellino: non ti mangerò più. La Reginotta gli credette, e strappò il coltellino. - Ed ora vien qui! E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela. - Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia. Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose: - Ti sia concesso. La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra: - Ah, mammina mia! Mi disse: strappa di terra questo coltellino, ed io glielo strappai. Domani sarò mangiata! - Fatevi coraggio! E la vecchiarella picchiò forte al portone. - Chi è? Chi cercate? All'urlo del Lupo Mannaro, tutto il palazzo tremava. Son frumentino, Son seminato nella terra scura, Per difender la creatura. Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba, venne fuori; e come vide il seminato colle spighe penzoloni, si mordeva le mani: - Se trovo chi lo seminò, ne faccio un boccone. Cercò, frugò intorno, ma non trovò nessuno. E la mattina dopo disse alla Reginotta: - Vieni qua: mietimi questo frumento; non ti mangerò più. La Reginotta gli credette, e si mise all'opera. Per lei non c'era malìa, e in una giornata poté facilmente terminare di mieterlo. - Ed ora vien qui! - Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia. Quegli stette un momentino incerto, e poi rispose: - Ti sia concesso, per l'ultima volta. La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra: - Ah, mammina mia! Mi disse: mieti questo frumento ed io glielo mietei. Domani sarò mangiata. - Fatevi coraggio! E la vecchiarella picchiò forte al portone. - Chi è? - urlò il Lupo Mannaro. Son refe fino Son attaccato alla pianta matura, Per difender la creatura. Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba venne fuori, e come vide il capo del refe legato alla pianticina, si mordeva le mani: - Vien qua; scioglimi questo refe dai due capi: non ti mangerò più. La Reginotta era stata indettata dalla vecchiarella. Non doveva fermarsi un passo, né mangiare, né bere, ma aggomitolare, aggomitolare e andare avanti. Sciolse quel capo, e lei avanti, aggomitolando, il Lupo Mannaro dietro. - Ripòsati, ripòsati! - Quando sarò stanca, mi riposerò. Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro. - Prendi un boccone, prendi un boccone! - Quando avrò fame mangerò. Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro. - Bevi un gocciolino d'acqua, un gocciolino! - Quando avrò sete, berrò. Eran già arrivati alla buca d'uscita. Come il Lupo Mannaro s'accorse che l'altro capo del refe era attaccato alla pianticina di fuori, cominciò a mordersi rabbiosamente le mani. E vista la vecchiarella, diventò bianco come un panno lavato. - Ah! La nemica mia! Son morto! Son morto! La Regina e la Reginotta si voltarono e, invece della vecchiarella, videro una bellissima signora, che pareva la stella del mattino. Era la Regina delle Fate. Figuriamoci che allegrezza! La Regina delle Fate prendeva intanto dei sassi, e li metteva l'uno sull'altro davanti la buca. - Sassi, sassi di Dio, Io vi muro e vo' smurarvi io! Murata la buca, la Regina delle Fate sparì. E quella brutta bestiaccia crepò di fame lì dentro. La Regina e la Reginotta tornarono sane e salve al palazzo; e un anno dopo la Reginotta sposò il Re di Portogallo.

GIACINTA

662563
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Aveva quasi vergogna di non amarla piú; e si sentiva già pungere dal rimorso di aver voluto abbandonarla di soppiatto. - Non partirai dunque - riprese Giacinta. - Ti farai vedere, ancora una volta, in casa mia da tutta quella gente che ci crede innamorati e felici! Lasciamola nell'inganno. Non vorrai farmi un inutile sfregio ... - Resterò due, tre giorni, anche piú; quanto vorrai. Cercheremo un pretesto; dici bene. Voleva contentarla, gli sembrava giusto. Povera donna! Si meritava questo piccolo sacrifizio! - Siedi - replicò, prendendola per una mano. - No - rispose Giacinta, che guardava fisso le due valigie pronte per la partenza. - Come sei buona! ... Ti ho fatto soffrire ... Ma, credimi, ho sofferto anch'io! Se avessi avuto il coraggio ... di confessarti ... . - Senti Andrea, - lo interruppe Giacinta - è una mia debolezza ... Assicurami, con una prova, che manterrai la promessa ... Disfa quelle valigie, sotto i miei occhi ... Non vuoi? ... Andrea, in risposta, le porse le chiavi. E mentre le mani febbrili di Giacinta cavavano fuori ogni cosa, buttando vestiti, camicie, goletti, polsini qua e là, alla rinfusa, sul letto, sulle poltrone, sul tavolino, egli provava la strana sensazione di qualcosa che gli veniva sconvolto dentro; e cominciava a pentirsi d'aver cosí facilmente acconsentito a quel capriccio di donna. Vuotata la valigia, Giacinta apriva l'altra; ed era di nuovo un volar di pantaloni qua e là, di panciotti, di cravatte, di guanti, di stivaletti, di spazzole, di libri. - Cosí! - ella esclamò, sorridente d'una gioia convulsa, d'una soddisfazione fanciullesca, guardando la camera stranamente ingombra. - Ed ora andiamo. Andrea le porse lo scialle. Nell'acconciarsi il velo sulla testa, Giacinta parve, tutt'a un tratto, ricordarsi di qualcosa. - Chi è quella bambola? ... Quella che è venuta ad aprirmi? - La figlia della padrona di casa ... Una vera bambola - soggiunse, intimidito dagli sguardi di Giacinta. Ella lo trascinava con sé, come una preda, senza sapere precisamente perché lo trascinasse via. - Doveva essere suo, fino all'ultimo momento! E gli si stringeva al braccio, battendo i denti, convulsa, con un gelo di morte in tutto il corpo, quasi brancolante fra le tenebre della pazzia che le oscurava il cervello. Davanti al portone, Andrea s'arrestò. - Non vieni su? - ella disse, insospettita. - Fra dieci minuti. Bisogna che disdica un appuntamento, non voglio che l'amico con cui dovevo partire perda la corsa per me. Giacinta lo tratteneva pel braccio, guardandolo in viso. - Fra dieci minuti - replicò Andrea, rassicurandola con una stretta di mano. - Fa' presto, fa' presto! E rimase un po' sulla soglia, seguendo con l'occhio Andrea che s'allontanava frettoloso. Era sfinita; montava a stento le scale. Aveva diacce le mani; ma, dentro, sentiva un'arsura insopportabile, un fuoco che le bruciava il sangue. Passando davanti la camera del conte, si fermò un istante; poi spinse l'uscio. Battista, che trovavasi troppo familiarmente seduto allato al conte, con i gomiti appoggiati sul tavolino dove questi cenava, si levò tutto confuso, all'inaspettata apparizione, balbettando una scusa. Giacinta gli accennò d'uscire. Il conte, voltandosi per vedere chi fosse, seguitava a masticare facendo scoppiettare le labbra, fissandola. - Giulio! - disse Giacinta, inginocchiandoglisi accanto. Il conte si nettò la bocca col tovagliolo, le mise una mano sulla testa, come per raffigurarla meglio; poi, lentamente: - Che cosa volete? - balbettò. - Giulio, muoio! ... Perdonami! - singhiozzava, baciandogli la scarna mano. - Muoio! ... Perdonami! Egli la fissò un poco, senza comprendere. - Va bene! va bene! - poi disse. E riprese a mangiare.

IL BENEFATTORE

662582
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Quell'ignorantaccia intanto supponeva che fosse un pretesto per distaccarsi da lei a poco poco, per abbandonarla! E per ciò non voleva sentir parlare di acido fenico, di sublimato, di disinfettanti di nessuna sorta. Oh, meglio quando egli non sapeva nulla! E la chiamavano scienza questa che, invece di guarire la gente, la faceva morire di paura! Mangiando un boccone, bevendo un dito di vino, o di acqua bollita e ribollita, insipida da far nausea, il poveretto si domandava spesso: - Ci sono? Non ci sono? E il minimo dolorino di pancia, la minima accapacciatura lo tenevano in ambascia mortale. Eppure vedeva che la gente se n'infischiava della scienza e dei microbi; mangiava a crepapelle, si ubbriacava, faceva stravizii di ogni genere, e campava allegra, e moriva ... quando doveva morire: giacchè una volta o l'altra, con una scusa o con un'altra, bisognava fare, pur troppo, quella bestialità! Ma sùbito si riprendeva: - Non è una bella ragione! Se gli altri vogliono ammazzarsi, padronissimi! Io ora so; io ora debbo premunirmi! Si premuniva, sì, ma dimagrava, diveniva giallo come una carota, a furia di privazioni, a furia di regime scientifico. Egli, che, prima, avrebbe digerito anche il ferro, era già ridotto a non poter digerire più, chi sa per quale razza di microbi acchiappati non ostante le cautele! Ah, Signor Iddio! Ed erano questi i benefici della Scienza? Perchè non lasciare in pace la umanità, visto che i microbi erano invincibili, onnipossenti, eserciti, miriadi, da starne due, tre milioni rannicchiati nello spazio di un foro fatto con la punta di uno spillo? Era scoraggiato; non li combatteva più con fede, dopo di aver letto che, ammazzati i microbi di una specie, si faceva un favore a quelli di un'altra; la quale così prendeva rigoglio, si moltiplicava più rapidamente. E l'infelice impallidiva leggendo giornali, riviste mediche, che poi - si lamentava - parlavano turco per non farsi capire e far disperare un galantuomo che voleva istruirsi. Lotta a corpo a corpo! Ma che lotta, con un nemico invisibile, con cui non si sapeva precisamente mai chi aveva vinto o chi era rimasto sconfitto? Si rassegnava a vivere solo, come un cane, lontano da tutti. - Eh, cavaliere? Non vi si vede più! Che avete? Non state bene? ... Dio, come siete ridotto! - Beato voi, che siete un ignorante! - rispondeva l'infelice. - Ah! ... La solita storia dei microbi! Ormai tutti sapevano la sua fissazione, e gli ridevano in viso. Ma una mattina, che è che non è, ecco il cavaliere, vispo e gaio, che va in piazza a far la spesa, senza più badare a niente. Una catasta di roba! Erbaggi, frutta, pesce, carne, salami, pasta, burro, conserva, mostarda: una catasta! E un barile di vino rosso, di quello! Era ammattito all'incontrario? - Insomma, che è accaduto, Cavaliere? - Ah, la scienza! La scienza! È come la spada di ... di quel tale, che feriva e sanava nello stesso punto! Gli scienziati, ecco la rovina della scienza! ... Microbi? Sissignori! Ma, Dio benedetto, aspettate un po', studiate bene prima di scompigliare il mondo con certe scoperte! Finalmente c'è stato chi ha messo a posto ogni cosa! ... Farò un viaggio per andare a baciargli la mano, quella mano che ha scritto l'opuscolo La funzione dei microbi nell'organismo umano! Lo guardavano sbalorditi, pensando: - Senti come parla quel bestione del cavaliere! È proprio ammattito all'incontrario! Ma egli continuò per settimane a predicare il nuovo vangelo, la vera Buona Novella dei microbi. E prendeva indigestioni per nutrirli, per amicarseli tutti quelle care virgole ... e punti - diventava faceto - che gli stavano annidati addosso, tra i denti, tra l'orlo delle ugne, negl'intestini, nel sangue, nelle ossa; convinto ormai che l'uomo non fosse altro che un vasto microbaio a cui bisognava dar nutrimento, se si voleva star bene. Vedevano? Egli era ritornato grasso, roseo, forte: gli si era fin stirata la pelle vaiolata della faccia, ora che badava lui a dar da mangiare scientificamente ai microbi; i quali, poverini, non chiedevano niente di meglio che di vivere in pace, ben nutriti, quasi accarezzati! - Questo, pei microbi della mucosa! Questo, pei microbi del sangue! Questo, pei microbi dei nervi! Questo, pei microbi dei muscoli! Questo pei microbi delle ossa! Sissignori anche per quelli delle ossa. - E più essi divoravano, più egli stava bene! Se li sentiva rimescolare addosso, dentro, nelle più intime fibre del corpo; ma ora li conosceva perfettamente quei cari amici! Amici, sì, sì! Lavoravano per lui, combattevano per lui, distruggendo i nemici che lo assalivano di fuori. Se non si trovavano in forza, come potevano resistere? E certi imbecilli di scienziati avevano proclamato la crociata: - Morte ai microbi! - Imbecilli! Viva i microbi! si doveva gridare. E il giorno che un capo ameno gli disse: - Ebbene, insegnatemi il vostro metodo di dar il pasto a coteste feroci bestioline! - il cavaliere lo invitò a pranzo, e gli spiegò tutto: - Questo, pei microbi della mucosa! Questo ... Intanto divorava come un lupo affamato, e beveva, beveva, perchè bisognava anche dar da bere a quei carissimi amici ! All'ultimo, si levò in piedi, alzando il bicchiere ricolmo per fare un bel brindisi. Ma barcollava, il braccio non gli stava fermo, e la lingua gl'impastava le parole in bocca. - Viva i microbi! - balbettò - Viva i microbi! E ruzzolò sotto la tavola.

L'operazione poteva venir fatta con tale semplicità di mezzi, con tale sicurezza di riuscita, che non è da meravigliarsi se nel cervello del professore, continuamente agitato dal timore di perdere per lo meno l'esclusività del possesso del suo tesoro coniugale, nascesse subitanea la diabolica idea di servirsi di quella scoperta unicamente per sua personale difesa, finchè durava il pericolo, prima di abbandonarla all'universale patrimonio della scienza. Ed ecco come cominciò a procedere e continuò per due anni a Entmannt il terribile difensore del suo diritto di marito. Adocchiato il più assiduo e il più intraprendente dei corteggiatori di sua moglie, lo invitava a pranzo e lo ubbriacava. Appena l'infelice, designato a esser vittima del fatale bisturi, cascava col capo su la tavola, il professore, aiutato dal servo, lo trasportava nella stanza dov'era già preparato un letto per riceverlo. Con la scusa di vegliar l'amico, egli si chiudeva per pochi minuti con l'addormentato suo ospite, lo rovesciava bocconi, metteva a nudo quel punto che la sua scoperta gli aveva additato, faceva la invisibile puntura ... e tutto era finito! La mattina dopo, colui si svegliava, oh quantum mutatus ab illo! ... E così lo sterilizzato personaggio - come egli con moderno vocabolo scientifico lo chiamava - poteva rimanere assiduo frequentatore della casa e dei pranzi, senza che la virtù della bella e seducente signora Von Schwächen corresse pericolo. Il delitto scientifico - bisogna qualificarlo tale - rimaneva, non che impunito, ignorato, perchè le povere vittime non erano in caso neppur di supporre d'onde poteva essere derivata la loro disgrazia; e avevano il più grande interesse di non divulgarla. Se non che c'è nel mondo, a quel che sembra, una giustizia assai più oculata e più tremenda della pretesa giustizia umana! E, tardiva ma inesorabile, essa raggiunse il colpevole al suo ottavo o nono delitto. Ermanno Flart era uno dei più bravi discepoli del professore, e suo aiuto in molte delicatissime esperienze. La giovinezza, la natura estremamente vigorosa, anzi eccessiva, lo spingevano a lusingarsi di poter essere anche aiuto del professore in certe intime funzioni, che questi, da buon marito, pretendeva di eseguire da solo. Quando si accorse delle mostruose intenzioni del prediletto discepolo - mostruose, perchè rivelavano la nera ingratitudine di cui egli era capace - il professore non potè frenarsi dal prorompere in eloquentissimi sfoghi contro la precoce perversità dei giovani moderni; ma il suo sdegno si centuplicò allorchè potè accertarsi che la sua fin'allora impeccabile metà incoraggiava, forse inconsapevolmente, gli slanci amorosi dello studente con occhiate e sorrisi in modo insolito prodigatigli ogni volta che quegli veniva a trovare il professore in casa o lo accompagnava nelle passeggiate e nelle diverse stazioni alle birrerie assieme con la sua bionda metà, Occorreva provvedere e sùbito; e per ciò Ermanno Hart ricevette, da lì a due giorni, un invito a pranzo, pel quale non seppe nascondere la grandissima gioia e la immensa soddisfazione. Lo studente, a tavola, non ebbe bisogno di incitamenti a bere e a ribere. Era già di sua natura bevitore poderosissimo; e il fuoco dei begli occhi della signora Von Schwächen gli produsse quel giorno tale irritante senso di aridità alla gola, che egli vuotò più bottiglie di vino e più scioppi di birra in due ore che non avesse mai fatto in un mese. Cadde quant'era lungo, come morto, per terra, nel punto che voleva alzarsi dalla seggiola per propinare alla salute della bionda signora del suo professore. Il quale, mal dissimulando la infernale contentezza, lo raccolse, aiutato dal fido servitore, e lo trasportò nella solita stanza, dove poco dopo si chiuse, solo con lo studente, per procedere alla premeditata operazione sterilizzatrice. Fosse però il turbamento che il delitto desta sempre, anche nei cuori più induriti, o avesse il professore ecceduto nel bere per dare il buon esempio alla sua futura vittima, fatto sta che l'occhio e la mano non solamente non furono fermi e sicuri come le altre volte, ma il caso se ne mescolò forse per far fare al chiarissimo neurologo una scoperta in opposizione a quella malefica e sterilizzante. Sia che egli abbia operato la puntura nel lato destro invece che nel sinistro, o in un altro impercettibile punto non ancora scrutato dalla scienza, il resultato fu terribile. E prima ad accorgesene fu la dolce signora Von Schwächen, che il marito, chiamato per non so quale seduta coi suoi colleghi di Università, avea dovuto lasciar sola a guardia dell'addormentato. Ella era entrata nella camera, assai commossa dal caso; e si era permesso un castissimo gesto di carezza, alla fronte del giovane, quando lo vide saltar giù dal letto ... Ah Signore Iddio! E non ebbe tempo di indignarsi, di gridare al soccorso. - Non aggiungerò altro, - s'interruppe il dottor Maggioli, a un vivissimo gesto della baronessa, - quantunque, se veramente avesse voluto, nelle tre ore che passarono - egli soggiunse subito, sornione - prima che il professore fosse tornato a casa, la onesta signora avrebbe potuto indignarsi, gridare al soccorso e fare ben altro! Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col più ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse più frequentemente le visite alla signora, e consentì anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora Von Schwächen scoprì un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale, sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si diè segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero più, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore Von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolaro, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferì i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova sè stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolaro stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. - La mia è malefica! - conchiuse il professore. - La mia è peggio; è superflua! - conchiuse il discepolo.

Racconti 3

662759
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Quell'ignorantaccia intanto supponeva che fosse un pretesto per distaccarsi da lei a poco a poco, per abbandonarla! E per ciò non voleva sentir parlare di acido fenico, di sublimato, di disinfettanti di nessuna sorta. Oh, meglio quando egli non sapeva nulla! E la chiamavano scienza questa che, invece di guarire la gente, la faceva morire di paura! Mangiando un boccone, bevendo un dito di vino, o di acqua bollita e ribollita, insipida da far nausea, il poveretto si domandava spesso: «Ci sono? Non ci sono?» E il minimo dolorino di pancia, la minima accapacciatura lo tenevano in ambascia mortale. Eppure vedeva che la gente se n'infischiava della scienza e dei microbi; mangiava a crepapelle, si ubbriacava, faceva stravizi di ogni genere, e campava allegra, e moriva ... quando doveva morire; giacché una volta o l'altra, con una scusa o con un'altra, bisognava fare, pur troppo, quella bestialità! Ma subito si riprendeva: «Non è una bella ragione! Se gli altri vogliono ammazzarsi, padronissimi! Io ora so; io ora debbo premunirmi!» Si premuniva, si, ma dimagrava, diveniva giallo come una carota, a furia di privazioni, a furia di regime scientifico. Egli, che, prima, avrebbe digerito anche il ferro, era già ridotto a non poter digerire piú, chi sa per quale razza di microbi acchiappati non ostante le cautele! Ah, Signor Iddio! Ed erano questi i benefici della scienza? Perché non lasciare in pace la umanità, visto che i microbi erano invincibili, onnipossenti, eserciti, miriadi, da starne due, tre milioni rannicchiati nello spazio di un foro fatto con la punta di uno spillo? Era scoraggiato; non li combatteva piú con fede, dopo di aver letto che, ammazzati i microbi di una specie, si faceva un favore a quelli di un'altra; la quale cosí prendeva rigoglio, si moltiplicava piú rapidamente. E l'infelice impallidiva leggendo giornali, riviste mediche, che poi - si lamentava - parlavano turco per non farsi capire e far disperare un galantuomo che voleva istruirsi. Lotta a corpo a corpo! Ma che lotta, con un nemico invisibile, con cui non si sapeva precisamente mai chi aveva vinto o chi era rimasto sconfitto? Si rassegnava a vivere solo, come un cane, lontano da tutti. «Eh, cavaliere? Non vi si vede piú! Che avete? Non state bene? ... Dio, come siete ridotto!» «Beato voi, che siete un ignorante!» rispondeva l'infelice. «Ah! ... La solita storia dei microbi!» Ma una mattina, che è che non è, ecco il cavaliere, vispo e gaio, che va in piazza a far la spesa, senza piú badare a niente. Una catasta di roba! Erbaggi, frutta, pesce, carne, salami, pasta, burro, conserva, mostarda: una catasta! E un barile di vino rosso, di quello! Era ammattito all'incontrario? «Insomma, che è accaduto, cavaliere?» «Ah, la scienza! La scienza! È come la spada di ... di quel tale, che feriva e sanava nello stesso punto! Gli scienziati, ecco la rovina della scienza! ... Microbi? Sissignori! Ma, Dio benedetto, aspettate un po', studiate bene prima di scompigliare il mondo con certe scoperte! Finalmente c'è stato chi ha messo a posto ogni cosa! ... Farò un viaggio per andate a baciargli la mano, quella mano che ha scritto l'opuscolo La funzione dei microbi nell'organismo umano !» Lo guardavano sbalorditi, pensando: «Senti come parla quel bestione del cavaliere! È proprio ammattito all'incontrario!» Ma egli continuò per settimane a predicare il nuovo vangelo, la vera Buona Novella dei microbi. E prendeva indigestioni per nutrirli, per amicarseli tutti quelle care «virgole» ... e «punti» - diventava faceto - che gli stavano annidati addosso, tra i denti, tra l'orlo delle ugne, negl'intestini, nel sangue, nelle ossa; convinto ormai che l'uomo non fosse altro che un vasto «microbaio» a cui bisognava dar nutrimento, se si voleva star bene. Vedevano? Egli era ritornato grasso, roseo, forte: gli si era fin stirata la pelle vaiolata della faccia, ora che badava lui a dar da mangiare scientificamente ai microbi; i quali, poverini, non chiedevano niente di meglio che di vivere in pace, ben nutriti, quasi accarezzati! «Questo, pei microbi della mucosa! Questo, pei microbi del sangue! Questo, pei microbi dei nervi! Questo, pei microbi dei muscoli! Questo pei microbi delle ossa! Sissignori, anche per quelli delle ossa». E piú essi divoravano, piú egli stava bene! Se li sentiva rimescolare addosso, dentro, nelle piú intime fibre del corpo; ma ora li conosceva perfettamente quei cari amici! Amici, sí, sí! Lavoravano per lui, combattevano per lui, distruggendo i nemici che lo assalivano di fuori. Se non si trovavano in forza, come potevano resistere? E certi imbecilli di scienziati avevano proclamato la crociata: «Morte ai microbi!» Imbecilli! Viva i microbi! si doveva gridare. E il giorno che un capo ameno gli disse: «Ebbene, insegnatemi il vostro metodo di dar il pasto a coteste feroci bestioline!» il cavaliere lo invitò a pranzo, e gli spiegò tutto «Questo, pei microbi della mucosa! Questo ... » Intanto divorava come un lupo affamato, e beveva, beveva, perché bisognava anche dar da bere a quei carissimi «amici!» All'ultimo, si levò in piedi, alzando il bicchiere ricolmo per fare un bel brindisi. Ma barcollava, il braccio non gli stava fermo, e la lingua gl'impastava le parole in bocca. «Viva i microbi! - balbettò. - Viva i microbi!» E ruzzolò sotto la tavola.

L'operazione poteva venir fatta con tale semplicità di mezzi, con tale sicurezza di riuscita, che non è da maravigliarsi se nel cervello del professore, continuamente agitato dal timore di perdere per lo meno l'esclusività del possesso del suo tesoro coniugale, nascesse subitanea la diabolica idea di servirsi di quella scoperta unicamente per sua personale difesa, finché durava il pericolo, prima di abbandonarla all'universale patrimonio della scienza. Ed ecco come cominciò a procedere e continuò per due anni a Entmannt il terribile difensore del suo diritto di marito. Adocchiato il piú assiduo e il piú intraprendente dei corteggiatori di sua moglie, lo invitava a pranzo e lo ubbricava. Appena l'infelice, designato a esser vittima del fatale bisturi, cascava col capo su la tavola, il professore, aiutato dal servo, lo trasportava nella stanza dov'era già preparato un letto per riceverlo. Con la scusa di vegliar l'amico, egli si chiudeva per pochi minuti con l'addormentato suo ospite, lo rovesciava bocconi, metteva a nudo quel punto che la sua scoperta gli aveva additato, faceva la invisibile puntura ... e tutto era finito! La mattina dopo, colui si svegliava, oh quantum mutatus ab illo ! ... E cosí lo sterilizzato personaggio - come egli con moderno vocabolo scientifico lo chiamava - poteva rimanere assiduo frequentatore della casa e dei pranzi, senza che la virtú della bella e seducente signora von Schwächen corresse pericolo. Il delitto scientifico - bisogna qualificarlo tale - rimaneva, non che impunito, ignorato, perché le povere vittime non erano in caso neppur di supporre d'onde poteva essere derivata la loro disgrazia; e avevano il piú grande interesse di non divulgarla. Se non che c'è nel mondo, a quel che sembra, una giustizia assai piú oculata e piú tremenda della pretesa giustizia umana! E, tardiva ma inesorabile, essa raggiunse il colpevole al suo ottavo o nono delitto. Ermanno Hart era uno dei piú bravi discepoli del professore, e suo aiuto in molte delicatissime esperienze. La giovinezza, la natura estremamente vigorosa, anzi eccessiva, lo spingevano a lusingarsi di poter essere anche aiuto del professore in certe intime funzioni, che questi, da buon marito, pretendeva di eseguire da solo. Quando si accorse delle mostruose intenzioni del prediletto discepolo - mostruose, perché rivelavano la nera ingratitudine di cui egli era capace - il professore non poté frenarsi dal prorompere in eloquentissimi sfoghi contro la precoce perversità dei giovani moderni; ma il suo sdegno si centuplicò allorché poté accertarsi che la sua fin'allora impeccabile metà incoraggiava, forse inconsapevolmente, gli slanci amorosi dello studente con occhiate e sorrisi in modo insolito prodigatigli ogni volta che quegli veniva a trovare il professore in casa o lo accompagnava nelle passeggiate e nelle diverse stazioni alle birrerie assieme con la sua bionda metà. Occorreva provvedere e subito; e per ciò Ermanno Hart ricevette, da lí a due giorni, un invito a pranzo, pel quale non seppe nascondere la grandissima gioia e la immensa soddisfazione. Lo studente, a tavola, non ebbe bisogno di incitamenti a bere e a ribere. Era già di sua natura bevitore poderosissimo; e il fuoco dei begli occhi della signora von Schwächen gli produsse quel giorno tale irritante senso di aridità alla gola, che egli vuotò piú bottiglie di vino e piú scioppi di birra in due ore che non avesse mai fatto in un mese. Cadde quant'era lungo, come morto, per terra, nel punto che voleva alzarsi dalla seggiola per propinare alla salute della bionda signora del suo professore. Il quale, mal dissimulando la infernale contentezza, lo raccolse, aiutato dal fido servitore, e lo trasportò nella solita stanza, dove poco dopo si chiuse, solo con lo studente, per procedere alla premeditata operazione sterilizzatrice. Fosse però il turbamento che il delitto desta sempre, anche nei cuori piú induriti; o avesse il professore ecceduto nel bere per dare il buon esempio alla sua futura vittima, fatto sta che l'occhio e la mano non solamente non furono fermi e sicuri come le altre volte, ma il caso se ne mescolò forse per far fare al chiarissimo neurologo una scoperta in opposizione a quella malefica e sterilizzante. Sia che egli abbia operato la puntura nel lato destro invece che nel sinistro, o in un altro impercettibile punto non ancora scrutato dalla scienza, il resultato fu terribile. E prima ad accorgersene fu la dolce signora von Schwächen, che il marito, chiamato per non so quale seduta coi suoi colleghi di università, aveva dovuto lasciar sola a guardia dell'addormentato. Ella era entrata nella camera, assai commossa dal caso; e si era permesso un castissimo gesto di carezza alla fronte del giovane, quando lo vide saltar giú dal letto ... Ah Signore Iddio! E non ebbe tempo di indignarsi, di gridare al soccorso. Non aggiungerò altro, - s'interruppe il dottor Maggioli, a un vivissimo gesto della baronessa - quantunque, se veramente avesse voluto, nelle tre ore che passarono - egli soggiunse subito, sornione - prima che il professore fosse tornato a casa, la onesta signora avrebbe potuto indignarsi, gridare al soccorso e fare ben altro! Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col piú ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse piú frequentemente le visite alla signora, e acconsentí anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora von Schwächen scoprí un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si dié segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero piú, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolare, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferí i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova se stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolare stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. «La mia è malefica!» conchiuse il professore. «La mia è peggio; è superflua!» conchiuse il discepolo -.

CENERE

663037
Deledda, Grazia 1 occorrenze

Se fosse stato libero l'avrebbe certamente sposata; invece aveva dovuto abbandonarla: adesso tornava inutile pensarci. «Va», diceva ad Anania, finito il pasto frugale; «là dove c'è quel fico, vedi, c'era una casa antichissima. Va e fruga per terra, chissà che tu trovi qualche cosa.» Il fanciullo partiva di corsa, mentre il padre pensava: «Le anime innocenti trovano più facilmente i tesori. Se trovassimo qualche cosa! Passerei un tanto ad Olì, e, morta mia moglie, la sposerei. Dopo tutto sono stato io il primo ad ingannarla». Ma Anania non trovava niente. Verso sera padre e figlio tornavano lentamente in paese, attraversando lo stradale chiaro nei cui sfondi ardeva il crepuscolo d'oro. Zia Tatàna li aspettava con la cena pronta ed il fuoco cigolante nel focolare pulito. Ella soffiava il naso al piccolo Anania, gli puliva gli occhi, narrava al marito gli avvenimenti della giornata. Nanna l'ubriacona era caduta sul fuoco, Efes Cau aveva un paio di scarpe nuove, zio Pera aveva bastonato un bambino; il signor Carboni era stato al molino per vedere il cavallo. «Dice che è orribilmente dimagrato.» «Diavolo, ha lavorato tanto: cosa vuole il padrone? Anche le bestie son di carne e d'ossa.» Dopo cena il mugnaio andava alla bettola, perfettamente dimentico di Olì e delle sue avventure; e zia Tatàna filava e raccontava una fiaba al suo figlio d'adozione, qualche volta assisteva anche Bustianeddu. «"Dicono che una volta c'era un re con sette occhi d'oro in fronte che sembravano sette stelle."» Oppure la fiaba dell'Orco e di Mariedda. Mariedda era fuggita dalla casa dell'Orco: «" ... Ella fuggiva, fuggiva, gittando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non riusciva a prenderla perché i chiodi gli foravano i piedi ... "» Dio, Dio, che brivido di piacere destava nei bimbi la fuga di Mariedda! Che differenza fra la cucina, la figura e i racconti della vedova di Fonni, e la cucina pulita e calda e la figura soave e le storielle meravigliose di zia Tatàna! Eppure qualche volta Anania si annoiava, o almeno non provava l'emozione fremente che i racconti della vedova gli avevano un tempo destato; forse perché al posto del buon Zuanne, del fratellino amato, c'era Bustianeddu cattivo e maligno, che gli dava dei pizzicotti e lo chiamava spia e bastardo anche davanti alla gente e nonostante gli ammonimenti di zia Tatàna. Una sera lo chiamò bastardo davanti a Margherita Carboni, che assieme con la serva era venuta per una commissione in casa del mugnaio. Zia Tatàna gli si gettò sopra e gli turò la bocca, ma troppo tardi. Ella aveva udito, ed Anania provò un dolore indicibile, non raddolcito neppure dal pezzo di pane intinto nel miele che zia Tatàna diede a lui ed a Margherita. A Bustianeddu niente. Ma che cosa era un pezzo di pane intinto nel miele dopo la profonda amarezza di sentirsi chiamato bastardo davanti a Margherita Carboni? Ella era vestita di verde, con calze violette ed aveva intorno al capo una sciarpa di lana rossa che coloriva ancor più le sue guancie paffute e faceva risaltare l'azzurro degli occhi lucenti. Quella notte Anania la sognò così, bella e colorita come l'arcobaleno, ed anche nel sogno provava il dolore d'essere stato chiamato bastardo davanti a lei. Nella Settimana Santa, però, - quell'anno la Pasqua ricorreva agli ultimi d'aprile, - il mugnaio compié il precetto pasquale ed il confessore gli impose di riconoscere legalmente il figliuolo. Nello stesso tempo Anania, che compiva gli otto anni, venne cresimato: padrino il signor Carboni. Fu un grande avvenimento per il ragazzo e per la città tutta che s'era data convegno nella cattedrale, ove Monsignor Demartis, il bel vescovo imponente, impartiva la cresima a centinaia di fanciulletti. Per le porte spalancate, che ad Anania parevano grandissime, la primavera con la sua viva luce e il suo tepore fragrante penetrava nella chiesa gremita di donne dai costumi di porpora, di signore, di bimbi lieti. Il signor Carboni, grosso, rosso in viso, con gli occhi azzurri e i capelli rossicci, col gilè di terziopelo attraversato da una enorme catena d'oro, veniva salutato, riverito, ricercato dai personaggi più cospicui, dai paesani e dalle paesane, dalle signore e dai bimbi che gremivano la chiesa, Anania si sentiva altero e felice di tanto padrino; è vero che il signor Carboni doveva cresimare altri diciassette bambini; ma ciò non toglieva importanza al singolo onore di tutti i diciotto figliocci. Dopo la cerimonia questi diciotto figliocci, coi rispettivi parenti, accompagnarono a casa il padrino, ed Anania poté ammirare la sala di Margherita, di cui aveva sentito dir mirabilia, - una vasta stanza tappezzata di carta rossa, con seggioloni del secolo scorso e cassettoni ornati di fiori artificiali sotto lampade di cristallo, nonché di alzatine con frutta di marmo e piattini con fette di salame e di cacio pure di marmo. Furon serviti liquori, caffè, biscotti e amaretti; e la bella signora Carboni, che aveva due profonde fossette sulle guancie e i capelli neri tirati tirati sulle tempie, graziosamente adorna d'un vestito da camera, d'indiana a quadretti azzurri e rossi, con volante e merletto in fondo, fu amabile con tutti e baciò i bimbi consegnando a ciascuno di loro un involtino. Lungamente Anania ricordò questi particolari. Ricordò che invano aveva ardentemente desiderato che Margherita entrasse nella sala e notasse il suo costumino nuovo, di fustagno gialliccio, duro come la pelle del diavolo, e ricordò che la signora Cicita Carboni, baciandolo e battendogli lievemente la mano inanellata sulla testina orribilmente rasa, aveva detto al mugnaio: «Ah, compare, perché l'avete conciato così? Sembra calvo ... ». «Lasciate, comare», aveva risposto Anania grande, secondando il benevolo scherzo della signora, «la testa di questo buon pulcino sembrava un bosco ... » «Ebbene», riprese la signora, «avete dunque fatto il vostro dovere?» «Fatto! Fatto!» «Me ne rallegro. Credete pure, solo i figli legittimi sono il sostegno dei padri nella vecchiaia.» Poi s'avvicinò il signor Carboni. «Che occhi indiavolati ha questo montanaro!», disse, guardando il bimbo negli occhi. «Ebbene, perché li abbassi? Ridi? Ah, diavoletto ... » Anania rideva di gioia nel vedersi osservato dal padrino, e guardato con affetto dalla signora Carboni. «Che cosa diventerai, diavoletto?» Egli abbassava e sollevava gli occhi lucenti (che le cure di zia Tatàna avevano guarito perfettamente), e cercava di nascondersi dietro del padre. «Dunque, rispondi al padrino!», esclamò il mugnaio scuotendolo. «Che cosa ti farai, diavoletto?» «Mugnaio?», chiese la signora. Egli accennò di no, di no. «Ah, non ti piace? Contadino?» No, e sempre no. «Ebbene, vuoi studiare?», chiese astutamente il mugnaio. «Sì.» «Ah, bravo!», disse il signor Carboni, «tu vuoi studiare? ti farai prete?» «Ancora no.» «Avvocato?», chiese il mugnaio. «Sì.» «Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!» «Ah, caro mio, siamo poveri», osservò sospirando il mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà», disse il padrone. «Non mancherà!», ripeté come eco la padrona, queste parole decisero il destino di Anania: ed egli non le dimenticò mai più. Il frantoio venne definitivamente chiuso, - per quell'anno, - ed il mugnaio si trasformò del tutto in contadino. Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli. Nel cortile d'Anania conveniva quasi sempre tutti i giorni la compagnia che già usava riunirsi nel molino: zio Pera col randello, Efes e Nanna costantemente ubriachi, il bel calzolaio Carchide, Bustianeddu ed il padre, nonché altre persone del vicinato. Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole. Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente. A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

Giacomo l'idealista

663175
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Mentre andava cosí parlando, col cuore ghermito come dentro una mano di ferro, poté sollevaredonna Cristina dalla sua posizione umiliante, e, sorreggendola in un momento in cui parve che le forze stessero per abbandonarla, la condusse a sedere sul canapè: e nella coraggiosa dimestichezza degli istanti supremi, quando non restano che le anime nude a soffrire, le afferrò le mani, che essa si era portate al viso, gliele distaccò con forza, per cercare la fatale risposta nel fondo degli occhi. Essa sostenne un brevissimo istante il suo sguardo investigatore e tagliente: poi, cedendo avvilita, chiuse lentamente gli occhi in una dolorosa agonia. Fu allora che, riassumendo in un nome la formidabile tragedia: - Giacinto? - chiese lui, e strinse nelle sue irritate le piccole mani della contessa, che gemette di dolore. Essa rialzò gli occhi e li fissò con lento e pauroso stupore in viso al giovine, che l'ammaliava co' suoi. Fu un momento di tragico incanto. Giacomo vide balenare nelle pupille della madre una luce di spasimo immenso, che si spense in una piccola lagrima di supplicazione. - Ah Dio! - gemette: e, distaccandosi inorridito, la respinse cosí brutalmente che la misera donna cadde per la violenza dell'urto col viso sui cuscini, dove non trattenne piú nessuna voce di pianto. Il gran momento preveduto, ritardato, temuto e invocato con raccapriccio e con ansioso desiderio, era venuto; ora essa lasciava che tutti i dolori passassero sopra di lei. Si sarebbe detto che tutta la sua vita di donna, di madre, di cristiana, si rompesse sotto la frenesia di quel pianto, che stemperava l'anima, che non voleva riposo. E Giacomo? era per lui una tenebra fitta, un rumor sordo sotto i piedi come di terremoto, un senso acre e un peso di piombo in tutta la sua oscura esistenza. A questo fiotto di dolori, di terrori, a questo precipizio improvviso di mali, non resse: e si lasciò cadere pesantemente nella vicina sedia, a cui si aggrappò, còlto da un tremito, da una fisica incapacità di reagire. A poco a poco, passata la prima tumultuosa tempesta, quando gli spiriti cominciarono a calmarsi, si trovarono l'uno in faccia all'altra, sfiniti, come due miseri flagellati. Fu allora che Giacomo, seguendo la violenza del pensiero, si alzò, e agitando le mani con un movimento di spasimo, con parole che gli uscirono velate e scialbe, come se venissero da un uomo sepolto, - Signora! - disse - non posso piú resistere. Qualunque sia la mia disgrazia, aspetto prima di sera una sua lettera. Farò di tutto, perché entro domani le sia restituito il prezzo del disonore. Non aveva egli ancor finito di parlare che donna Cristina, scattando per una trafitta interiore, sostenuta dalla forza prodigiosa, che la natura femminile attinge da inesauribili profondità, gli pose una mano sulla bocca. Poi colle due mani, che ardevano di febbre, gli strinse la testa, e lasciando sgorgare dal sentimento mite e forte le parole come volevano venire, nel tono confidenziale, che aveva usato con lui quando era un giovinetto, senza la freddezza del pronome signorile: - No, Giacomo, non dite queste brutte parole, - seguitò amaramente - merito ogni oltraggio, non questo. Nessuno crederà mai che noi vogliamo comperare il vostro perdono. Non maledite a questo modo una povera madre. È la mia casa che rovina sulla mia testa, guardate! Il conte non sa ancor nulla, non immagina nemmeno quel che ci fa piangere, ma sarà un gran colpo il giorno che non gli si potrà piú nascondere la verità. Pensate, son la madre di Enrichetta, della vostra Enrichetta, che non deve sapere come si soffre e perché si soffre a questo modo. Se potessi dare tutto il mio sangue, perché non fosse avvenuto quel che è avvenuto, fino all'ultima goccia, Gesú lo sa se ne farei il sacrificio. Nemmeno il vostro dolore, Giacomo, è uguale al mio, no, no, nemmeno il vostro dolore! Nulla c'è di piú sacro sulla terra quanto un'angoscia di madre. Il giovine, che avrebbe voluto riprendere il suo risentimento e stringere in una parola d'esecrazione tutti i pensieri d'odio che gli tumultuavano nel cuore, si sentí, se non disarmato, molto impedito ne' suoi movimenti di violenza da queste parole. Perché avrebbe infierito contro una donna, contro una madre, che si era già umiliata piú di quanto a un cuore generoso piace di veder umiliato un nemico? Questo momento di esitanza bastò alla contessa per impadronirsi della fortezza di lui, perché pare dimostrato che, dove contrasta per un qualunque motivo un uomo con una donna, l'uomo perde sempre, se non vince subito. Giacomo, a cui non era ignota la storia della povera signora, che conosceva quanto avesse combattuto per sostenere l'ideale della sua casa, non seppe respingere con un atto di reazione brutale la seduzione dolente di questa voce, di queste lacrime, di questi occhi supplichevoli, di questa percossa bellezza, a cui le mani del dolore davano una cosí nobile e appassionata scompostezza. Come poteva dimenticare a un tratto che in questa casa era, si può dire, cresciuto come un figliuolo, e che a questa gente era in gran parte debitore della sua ricchezza morale? Sentendo in quest'urto di pensiero le piú forti risoluzioni venir meno, si avvilí del tutto. Una leggera vertigine lo colse, cominciò a tremare in tutto il corpo, l'occhio si coprí d'ombre per un istante rimase ignoto a sé, forse svenuto. Un vivo senso di freschezza alla fronte e un forte profumo lo svegliò. Donna Cristina, mentre sorreggeva la testa, passava un finissimo fazzoletto inzuppato un'acuta essenza sulla fronte, sussurrando parole, ch'egli non riusciva ad afferrare, come avviene qualche volta nei sogni. A poco poco, riconobbe il salottino, che gli parve immerso in un'acqua verdognola, come se ei sognasse veramente in un fondo di mare; riconobbe la contessa, che, seduta davanti, gli raccontava con brividi di febbre la tristissima storia d'una colpa. Celestina era innocente e il voler incrudelire contro di lei sarebbe stato peggio che calpestare una vittima. Ogni atto di severità, ogni parola acerba di rimprovero, lo stesso abbandono silenzioso sarebbe stato da parte di Giacomo un colpo mortale per la povera creatura. - Il male è grande - seguitava a ripetere la voce, che egli stentava ad afferrare, come appunto capita nei sogni - ma da ogni male si può ricavare una redenzione. Vendicatevi, dice il diritto volgare; perdonate, dice la legge del Signore. Una vendetta contro di noi è una cosa assai facile: ma voi esporreste Celestina al giudizio della gente. Non imploro per me e meno ancora per il disgraziato, che ci ha precipitati in questo abisso: ma, prima di lanciare una pietra, si pensi a quanti cuori ne andrebbero spezzati. Forse che Dio non ci perdonerebbe, se gli chiedessimo grazia con queste lacrime? Celestina per il momento è al riparo di ogni scandalo, e quanto si potrà umanamente riparare sarà riparato. - Non si risuscita un uomo ucciso, - interruppe Giacomo, stendendo i pugni verso la terra, come se provocasse una maledizione: - Dio, Dio, è il disonore, è il ridicolo, è la morte: avete sputato sull'innocenza d'una povera creatura, sulla mia dignità, sulla mia virtú, sul nostro amore . - No, no, Giacomo - supplicò la contessa. - No, no, no - proruppe egli piú forte, alzandosi, in preda a un singhiozzare nervoso. E poiché la contessa cercava con un'ultima insistenza di afferrargli la mano, egli se la cacciò con un gesto disperato dentro i capelli, e premendo con spasimo, la fronte corrugata: - Questo è l'inferno, disse - questa è la maledizione di Dio! Ma, Dio santo, qualcuno pagherà!. - E si mosse per uscire, dopo aver preso di sulla sedia il cappello. Donna Cristina fece un ultimo sforzo. Stese le braccia verso di lui, mormorando con una scossa dolente del capo: - Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene - e pose la mano sulla chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse cosí. - Qualcuno pagherà col sangue - ruggí l'uomo ferito, mentre cercava di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscí a precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie piú basse e piú fitte, sempre nella direzione del fiume. Cosí una fiera ferita cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma teme, arrestandosi, di sentire piú vivo il suo dolore. Seguendo la stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate, dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni, egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza, minacciava di soffocarlo. La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi, quantunque il caso gli paresse cosí inverosimile da far pensare piuttosto a un delirio angoscioso e crudele. Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando, era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto, egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era piú in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera follia che luccicavano nel suo cervello. I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza! I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite! Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto! A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva cercato l'uomo morale e non trovava che la belva! Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo? come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato? Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare sé stesso da questa schiavitú? Se egli avesse potuto fare un gran rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico. Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero. Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico? A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata? Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore. Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne. Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.

Malombra

670416
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte, mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve aver poco o nulla, adesso che è mal ata di una malattia terribile, mi dica, ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse stato, solo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: "andate pure". Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei, commendatore, mi consiglia questa viltà?" "Piano, piano, piano" disse il commendatore piccato. "Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari di cuore non lo sono mai, e perché dopo una notte simile, chi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevole, una protezione che le allontanerà tu tte le altre. Perché la marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezione, almeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque, cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire." Silla lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il giudizio. "Sul Suo onore, signor Vezza" diss'egli "crede buono questo consiglio?" "Sul mio onore, lo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente." "Io? Nemmeno per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla." "Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a ogni modo, con Lei." "Perché?" "Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprendere, ricordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?" "Perdoni, non si tratta de' sentimenti miei, adesso." "Basta, basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?" "No, le dica solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei." "Sì. Per dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere al pretore l'apposizione dei sigilli. Capirà, qui c'è tanta gente! C'è da scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma, ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriv eranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a stasera, ne avrei certo piacere." Un forte soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine. "Oh, il vento cambia, meno male" disse il commendatore. "Anche questo tempaccio è una cosa orribile." Silla non rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo. Cos'era adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altro, nello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane. Se il Vezza s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio. Restavano i rimorsi, la vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica del conte, mentre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb'egli modo di rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di Edith: "Non affonderà mai, se ama come lo d ice". Non era più il Silla di prima che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l'angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso, rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolore, rinascevano. Si cope rse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto: Infirmatus est usque ad mortem, sed Deus misertus est eius. Quanta consolazione, quanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de' suoi parenti, dare il giorno al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella person a "sono ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!" Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell'Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.

Piccolo mondo antico

670726
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

La signora non credette di consentire e il giovine se ne disperò, le fece intendere che considerava Luisa come sua fidanzata davanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonarla. Allora la povera donna, sentendosi mancar la vita ogni giorno, accorandosi di veder la sua cara figliuola in uno stato così incerto e considerando la ferma volontà del giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze, poiché dovevan seguire, seguissero al più presto. Tutto fu combinato frettolosamente con l'aiuto del curato di Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnere Ribera di Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio delle Pubbliche Costruzioni in Como. Le intelligenze furono queste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco resterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino a che venisse il momento opportuno di confessar tutto alla marchesa. Franco sperava nell'appoggio di monsignor Benaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della famiglia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore della marchesa si indurisse, com'era probabile, gli sposi e la signora Teresa prenderebbero stanza nella casa che l'ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe, manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; terrebbe poi anche Franco in luogo di figliuolo. Fra sette ore, dunque. La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteggiava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Nei primi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il venire e l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una personcina snella, leggere come l'aria, che mai mai non guardava su alla finestra. Ma poi un giorno egli era discesi ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momento ad uscire per accettare l'aiuto, ben inutile, della sua mano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per la prima volta un fiore, un profumato fiore di mandevilia suaveolens . Lì sotto si era un'altra volta ferito con un temperino, abbastanza seriamente, tagliando per lei un ramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo turbamento un delizioso segno del suo amore. Quante gite con lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, alle rive solitarie del monte Bisgnago là in faccia, quante colazioni e merende a quella cantina del Doi! Con quanta dolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tornava a casa e si chiudeva nella sua stanza a richiamarseli, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozioni dell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad una ad una ma tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristi dove gli occhi suoi fisi parevano smarrirsi piuttosto nelle ombre del passato che nelle nebbie del presente. Vicino alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via, le vicende inattese, l'aspetto della sospirata unione così diverso nel vero da quel ch'era apparso nei sogni, al tempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago e sui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arrivare così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angustie. Pure, pensava adesso, se il matrimonio si fosse fatto pubblicamente, pacificamente, col solito proemio di cerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di visite, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnante all'amore che questi contrasti. Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dal giardino per annunciargli la partenza delle Carabelli. Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare delle scuse e preferì non lasciarsi vedere. "Doveva romperglielo sulla faccia il piatto!", gli stridette su il prefetto tra le mani accostate alle guance. "Doveva romperglielo sulla faccia!" Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabelli scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la finestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassettone, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato di camicia ricamata, dove lucevano già certi bottoncini di brillanti che suo padre aveva portati alle nozze proprie. Gli dispiaceva andar all'altare senza un segno di festa, ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere facilmente visibile. Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto con la particolare eleganza dell'ordine fatto da uno spirito intelligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui. Invece le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinatamente ingombri che pareva esser passato per le due finestre della camera un uragano di libri e di carte. Certi volumi di giurisprudenza dormivano sotto un dito di polvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso, sul davanzale della finestra di levante, ne aveva un atomo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, del bizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai libri e alle carte ne avrebbe fornite le prove. Franco aveva la passione della poesia ed era poeta vero nelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore di versi non poteva dirsi che un buon dilettante senza originalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e il Giusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi, perché l'ingegno suo, entusiasta e satirico a un tempo, non era capace di crearsi una forma propria, aveva bisogno d'imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che a quel tempo i giovani possedevano comunemente una cultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi classici venivano educati a onorare l'imitazione come una pratica virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte per cercarvi non so cosa, gli vennero alle mani i seguenti versi dedicati a un tale di sua conoscenza e nostra conoscenza, che rilesse con piacere e ch'io riferisco per saggio del suo stile satirico: Falso occhio mobile, Mento pelato, Lingua di vipera, Cor di castrato, Brache policrome, Bisunto saio, Maiuscolissimo Cappello a staio. Ecco l'immagine Del vil Tartufo Che l'uman genere E il cielo ha stufo. Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli in colpa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impetuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi a lungo contro alcuno. Un saggio dell'altra sua maniera poetica stava sul leggìo del piano, in un foglietto tutto sgorbi e cancellature: A Luisa Ove l'aëreo tuo pensile nido Una balza ventosa incoronando Ride alla luna ed ai cadenti clivi Ch'educan uve a la tua mensa e rose Al capo tuo, purpurëi ciclami A me, sogni e fragranze, o mia Luisa, Da l'orror di quest'ombre ti figura L'amoroso mio cor. Tacita siedi E da l'alto balcon già non rimiri Le bianche plaghe d'occidente, i chiari Monti ed il lago vitrëo, sereno, Riscintillante a l'astro; ma quest'una Tenebra esplori, l'aura interrogando Vocal che va tra i mobili oleandri De la terrazza e freme il nome mio. Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l'era comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'organista di Loggio, perché il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento dell'organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l'estro del compositore passava in lui e nel calore della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l'idea musicale e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua spinetta. Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni, troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppo poca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso metodico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti. Però il Viscontini era entusiasta del suo modo di suonare; Luisa, la sua fidanzata, non divideva interamente il gusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi, il tocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemere classicamente l'organo di Cressogno, il buon popolo, intontito dalla musica e dall'onore, lo guardava come avrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la bocca aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo, Franco non avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadini, con tanti piccoli dilettanti incapaci d'intendere e di amare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto di agilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori applausi, quand'anche non fosse riescito ad alcuno di far cantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra tutto negli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando con l'anima nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, nei nervi delle mani che facevan tutt'uno con le corde del piano. Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi. Le pareti della sua camera ne avevano parecchi, la più parte croste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato, pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accordar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facilmente le asserite fortune di altri cercatori tapini, n'era spesso infocato, accecato e precipitato su certi cenci sporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Non possedeva di passabile che una testa d'uomo della maniera del Morone e una Madonna col Bambino della maniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due quadretti per Morone e Dolci, senz'altro. Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tartufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e ne cavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignor Benaglia, la sola persona che gli potesse giovare in avvenire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a parte dell'atto che stava per compiere, delle ragioni che avevano consigliato la sua fidanzata e lui di addivenirvi in questo modo penoso, della speranza che avevano d'essere aiutati da lui quando venisse il momento d'aprir tutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna in mano, davanti alla carta bianca, quando la barca delle Carabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì partire la gondola del marchese e la barca del Pin. Suppose che la nonna, rimasta sola, lo facesse chiamare, ma non ne fu nulla. Passato un po' di tempo in quest'aspettazione, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto, rifece l'esordio tante volte e procedette anche poi tanto adagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era ancora finita quando gli convenne accendere il lume. La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava la sua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e vi esprimeva una fiducia in Dio così candida e piena che avrebbe toccato il cuore più incredulo. Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia la semplice tranquilla fede d'un bambino. Punto orgoglioso, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava la sete di libertà intellettuale che tormenta i giovani quando la loro ragione ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disagio nel duro freno di una credenza positiva. Non aveva dubitato un istante della sua religione, ne eseguiva scrupolosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosse ragionevole di credere e di operare così. Non teneva però affatto del mistico né dell'asceta. Spirito caldo e poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appassionato per la natura e per l'arte, preso da tutti gli aspetti piacevoli della vita, rifuggiva naturalmente dal misticismo. Non s'era conquistata la fede e non aveva mai vôlti lungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potuto esserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religione era per lui come la scienza per uno scolaro diligente che ha la scuola in cima de' suoi pensieri e vi è assiduo, non trova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è preparato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto il proprio dovere, non pensa più al professore né ai libri, non sente il bisogno di regolarsi ancora secondo fini scientifici o programmi scolastici. Perciò egli pareva spesso non seguire altro nella vita che il suo generoso cuore ardente, le sue inclinazioni appassionate, le impressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, ferita da ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d'ogni contraddizione e incapace di infingersi. Aveva appena suggellata la lettera quando si bussò all'uscio. La signora marchesa faceva dire a don Franco di scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava il rosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevan l'obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, troneggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulle schiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto e per traverso, quale nella luce più opportuna ad un devoto atteggiamento e quale nell'ombra più propizia ad un sonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce nasale diceva le soavi parole "Ave Maria, gratia plena" con quella flemma, con quella untuosità, che sempre gli mettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsi turco. Il giovane andò a cacciarsi in un angolo scuro e non aperse mai bocca. Gli era impossibile di rispondere con divozione a quella voce irritante. Non fece che immaginare un probabile interrogatorio imminente, e masticare risposte sdegnose. Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in silenzio e poi disse le sacramentali parole: "Carlotta, Friend!" Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l'incarico di pigliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo a dormire. "È qui, signora marchesa", disse Carlotta. Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chinatasi, allungò le mani. Era di buon umore, quella sera, il vecchio Friend, e gli piacque di giuocare a non lasciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandole sempre di mano, scappando sotto il piano o sotto il tavolino a guardar con un ironico scodinzolamento la povera donna che gli diceva "ven, cara, ven, cara", con la bocca e "brütt moster" con il cuore. "Friend!", fece la marchesa. "Andiamo! Friend! Da bravo!" Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l'antipatico mostricino infetto dell'egoismo e della superbia della sua padrona, lo scosse da sé, lo fece ruzzolare tra le unghie di Carlotta che gli diede per proprio conto una rabbiosa stretta e se lo portò via rispondendo perfidamente ai suoi guaiti: "Cossa t'han faa, poer Friend, cossa t'han faa, di' sü!" La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreo tradì il suo cuore. Diede al cameriere l'ordine di dire al prefetto della Caravina, se venisse, e anche a qualsiasi altro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosse per uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subito onde non aver l'aria di fuggire. Prese sulla caminiera un numero della I. R. Gazzetta di Milano sedette presso sua nonna e si mise a leggere, aspettando. "Mi congratulo tanto", cominciò subito la voce sonnacchiosa, "della bella educazione e dei bei sentimenti che ci avete fatto vedere oggi." "Accetto", rispose Franco senza levar gli occhi dal giornale. "Bene, caro", replicò la nonna imperturbata. E soggiunse: "Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto; così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben contenta che non se ne parli più". "Contenti tutt'e due", disse Franco. "Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Specialmente se avete ancora le idee d'una volta." Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la nonna in faccia. "Cosa succederebbe", diss'egli, "se avessi ancora le idee d'una volta?" Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tranquilla. "Ecco, bravo", rispose la marchesa. "Spieghiamoci chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succederà mai, ma, se succedesse, non state a credere che alla mia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho già pensato in modo che non ci sarà niente." "Figùrati!", fece il giovine, indifferente. "Questi sono i conti che dovrete fare con me", proseguì la marchesa. "Poi ci sarebbero quelli da fare con Dio." "Come?", esclamò Franco. "I conti con Dio li farò prima che con te e non dopo!" Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre diritto nel suo discorso come se niente fosse. "E grossi", diss'ella. "Ma prima!", insistette Franco. "Perché", continuò la vecchia formidabile, "se si è cristiani si ha il dovere d'obbedire a suo padre e a sua madre e io rappresento vostro padre e vostra madre." Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno. "Ma Dio vien prima!", diss'egli. La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussione così: "Adesso siamo intesi". Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placidamente: "Buona notte". Franco rispose "buona notte" e riprese la Gazzetta di Milano Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pugni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, e saltò in piedi, dicendo forte: "Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così", fremeva in sé "meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questa maledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo impero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglio viver di pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunque lavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: meglio far l'ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far il carbonaio!" Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti i riguardi. "I conti con Dio?", esclamò sbattendosi l'uscio dietro. "I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto, cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi facciano la spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino che mi fanno un piacerone!" Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole, aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abito nero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamò il vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuori tutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita e sgomenta del pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciò in istrada, si perdette nelle tenebre. Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa, già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venuto giù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch'era stato don Franco e dovette subito ripartire con una seconda missione. "Cosa voleva don Franco?". Stavolta la risposta fu che don Franco era uscito per un momento. Questo momento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servitore. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. "Ritornate quando suonerò", diss'ella. Dopo mezz'ora ecco il campanello. La cameriera corre dalla padrona. "È ancora fuori don Franco?" "Sì, signora marchesa." "Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà rientrato venite a dirmelo." Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigma bianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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La coraggiosa donna non volle udire ammonizioni e rispondeva al suo diletto: ch’egli voleva abbandonarla!! Attorniato da corpi di truppe austriache, cacciato dalla polizia papalina, dopo una marcia di notte, delusi i persecutori, quello stanco avanzo dell’esercito Romano giunse alle porte di Cesenatico allo spuntare della mattina. «Scendete e disarmateli! »

LA GENTE PER BENE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
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Il marito deve mostrarsi interessato dell'itinerario del viaggio, dell'orario più o meno comodo; deve accompagnare la signora alla stazione, non abbandonarla prima d'averla veduta a posto nel vagone, risparmiarle tutte le noie del bagaglio, del biglietto di ferrovia, ecc., raccomandarla a qualche conoscente pel viaggio se è possibile, ed assicurarsi bene che sia aspettata dove giunga. Se la signora va ai bagni o alle acque, deve scrivere lui stesso al medico o al proprietario dello stabilimento per avvertire dell'arrivo, e raccomandare che si usino a sua moglie tutti i riguardi possibili. Ed al suo ritorno deve trovarsi ad aspettarla alla stazione, se non foss'altro perchè i compagni di viaggio, dei quali ha potuto attirare l'attenzione, vedendola andare sola come la donna di nessuno, non facciano sul suo conto giudizi temerari. Vi sono mariti che non si dànno nessuna di queste brighe, e cercano di scusare la loro trascuranza dicendo: * Ho troppa stima di mia moglie per aver bisogno di curarla. So che sa regolarsi bene da sè. Questo eccesso di stima tradotto in buon volgare vuol dire: * Non credo che valga la pena di custodirla: non me ne curo. Le donne, signori miei, hanno la loro parte di amor proprio. Preferiscono un Otello che le strangoli, ad un marito placido che le stimi a quel modo. Una moglie che viene abbandonata a se stessa è come un gioiello che si lascia sopra una tavola d'anticamera, coll'uscio aperto. Non importa che venga rubato, o si giudica talmente privo di valore, da non poter attirare nessun ladro. E qualche volta il bisogno di affermare il proprio valore al marito, che non lo riconosce, induce la moglie a lasciar venire il ladro. Quando una signora va ad un ballo il marito deve accompagnarla; e se non può farlo, deve persuaderla a rinunciarvi anche lei. Soltanto nel caso in cui vi fossero delle figliole grandi, per non privarle di quel divertimento tanto caro alla loro età, se anche il capo di casa è nell'impossibilità di accompagnarle, potrà permettere alla moglie d'andarvi colle signorine, purchè vi sia un fratello maggiore, o un parente a cui affidarle. Se una signora ha una serata per ricevere il marito dovrà trovarsi in casa almeno una mezz'ora, tanto da mostrare che gradisce la presenza degli ospiti in casa sua, e non si considera estraneo alle conoscenze della sua signora. Giungendo in campagna dove la moglie passa l'estate, o tornando da un viaggio, chiunque siano le persone che si trovano al suo arrivo la prima a salutare sarà sempre la moglie, poi i figli. Uno che credesse di mostrarsi cortese salutando prima i forastieri, mostrerebbe che la sua cortesia è superficiale e non ha radice nel sentimento. E si farebbe torto, perchè, credano signori lettori, per quanto queste possano sembrare semplici formalità o leggerezze, la vera cortesia è strettamente legata ai sentimenti di umanità. Non c'è atto cortese che non s'inspiri ad un buon sentimento. Non c'è scortesia che non ferisca qualche cuore. Un amico che ci trascuri, che non ci visiti, che non ci scriva a tempo, che ci manchi di un riguardo, non possiamo considerarlo un uomo superiore che non si curi di quegli atti gentili perchè li crede pure formalità, e si riservi a dimostrare la sua amicizia nelle grandi circostanze. Le grandi circostanze, il caso di buttarsi nell'acqua o nel fuoco per salvarci, o di scendere in campo chiuso a spezzare delle lancie in nostro favore non accadono mai; quasi tutti si traversa la vita senza trovarsi nel caso di mettere un uomo a quella prova eroica. Ma si può apprezzarne ogni giorno la sua gentilezza d'animo, nelle piccole cortesie, e si può soffrire ogni giorno della sua rozzezza nelle scortesie che non sono mai piccole. E non serve la scusa pretenziosa ed assurda alla quale alcuni si aggrappano: * Sono un originale! Saranno originali, sì, ma brutti originali ed è da desiderare che non abbiano copie. Del resto, quegli originali là non saranno quelli di certo che mi avranno fatto l'onore di arrivare fino a questa pagina 230 del mio libro; ed è per questo appunto che ho intitolato il capitolo: Parole al vento. Quanto agli altri, agli uomini gentili di animo e di modi, se l'hanno letto, e se vi hanno trovato qualche cosuccia di buono, raccomandino il mio lavoro alle loro mamme, alle loro spose, alle loro figliole; ed io, che apprezzo ed ambisco l'approvazione delle graziose lettrici, ne sarò riconoscente "Finchè il sole Risplenderà sulle sciagure umane." Se al contrario non vi hanno trovato nulla, proprio nulla, che metta conto d'esser letto, non lo dicano a nessuno; non mi tolgano la simpatia delle signore, che ne' miei pochi lavori mi sono studiata di guadagnare, e di cui vado superba. Che male ho fatto infine? Un libro inutile? Dappoco? Una sciocchezza? Ma pensino che se si avessero a punire tutti quelli che hanno scritto delle sciocchezze, più di mezzo mondo ne patirebbe, perchè, come tutti sanno, "Les sots, depuis Adam, sont en majorité."

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 2 occorrenze

È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

L'altro, geloso di quanti le facevano la corte, avrebbe voluto abbandonarla cento volte, ma ritornava sempre ai suoi piedi, piangendo, vinto da una malìa impudica, alla quale tutti non avrebbero domandato che di soccombere. Poi erano altre novelle di corteggiatori trascinati fino all'orlo della felicità e beffardamente respinti, o accettati con un capriccio da sultana per rigettarli poco dopo ancora più ammalati di quel sogno di amore, e vanamente indiscreti nelle rivelazioni di un segreto, che la gente fingeva per invidia di non voler credere. Ella passava dovunque altera, soventi un po' sciatta nelle vesti e nei modi, col suo portamento inimitabile, accendendo tratto tratto nei propri occhi verdi delle fiamme fatue, colla larga bocca socchiusa sui grandi denti bianchi, e il nasino corto, rialzato leggermente, che le faceva un musetto adorabile di perversità. Ma non era robusta. Malgrado l'ampiezza del petto e la snella elasticità di tutta la persona, ogni tanto compariva pallida, di un giallore ambrato sotto il bruno della pelle cogli occhi languidi un sorriso indolorito sulle labbra: allora i suoi capelli pettinati quasi sempre a madonna le davano un'aria anche più strana: pareva una graziosa bestiolina ammalata uno di quegli animali sacri ed infelici che le antiche religioni prodigavano nelle decorazioni dei templi. Era quella la sua grande originalità, l'agguato, nel quale prendeva anche i più scettici, lasciandosi sfuggire parole amare di melanconia, tutto un rimpianto di vita ideale, che nessuna ebbrezza d'amore o di vanità avrebbe mai potuto consolare. Quindi molti combattevano per lei attribuendo gli scandali delle sue relazioni alla sincerità temeraria del suo carattere, giacché si era sempre mostrata più che tenera del marito. Le sue stesse abitudini religiose sembravano contraddire all'immoralità dei suoi capricci. La si vedeva spesso di buon mattino, modestamente vestita, col viso ancora gonfio di sonno, andare alla chiesa parrocchiale per restarvi lunghe ore sola, ginocchioni, nel fervore della preghiera come le più umili donnicciuole. Poi aveva osato mantenere da moglie l'uso impostole da ragazza di seguire vestita di nero, con un immenso velo nero sulla testa e un cero in mano, la processione della Madonna di San Luca; mentre tutte le altre giovani signore non lo ardivano più tra la beffarda incredulità della maggioranza e la brutta superstizione dei villani, rimasti ormai soli in quella passeggiata decorativa. Ma Lelio Fornari, abbastanza perspicace per conciliare in lei tutte queste apparenti contraddizioni, non aveva ancora saputo indovinare il perché di quella affettazione quasi amorosa verso di lui. Pretendeva ella di arrolarlo nel manipolo dei giovanetti, prime speranze dell'aristocrazia bolognese, che la seguivano per le strade o s'affollavano nel suo palchetto in una vanità di mostra, abbarbagliati dai suoi sorrisi od ingannati dalla più semplice delle sue pose? Allora tutta l'amara, precoce esperienza del romanziere si destava in lui per renderlo anche più cinico: il suo disprezzo per la donna egualmente incapace di grandi pensieri e di grandi passioni diventava odio di battaglia, una voglia gelida ed acuta di misurarsi con questa principessa, che dominava già tutta Bologna senza altri mezzi che una eleganza e una civetteria un po' meno volgari. Un caso gli aperse i saloni della contessa Ghigi: egli vi andò e vi ottenne molto successo velando la propria superiorità intellettuale. Sulle prime erano rimasti freddi verso questo romanziere, già denunciato alla pubblica indignazione per lo scandalo del suo ultimo libro; ma presto il suo riserbo, le maniere squisite e una suprema insospettabile ironia nel lusingare i difetti più personali, e quindi più inconsci, di ognuno gli valsero la simpatia degli uomini. La sua stessa cortese freddezza colle signore calmò ogni apprensione. La contessa Ghigi, bellissima, dal viso e dal corpo di statua, ma del pari massiccia nello spirito, finì di compiacersi di lui come di un ornamento acquistato al proprio salone. Egli invece vi attendeva la principessa. La prima sera, incontrandosi, rimasero egualmente in guardia: si cantò al piano, si cenò dopo mezzanotte sui piccoli tavoli, e i cavalieri servivano le dame; non si poté fare molto spirito, si ballò, ma Lelio rimase abilmente sopra un divano col principe Giulio a parlare di caccia e del Papa. Il principe, clericale militante, riportò di lui una eccellente impressione. Dopo quindici giorni Lelio accettava dal principe l'invito per una caccia nelle valli comasche, e al ritorno trovava modo destramente di causarne un altro a pranzo. - Avete dunque mutato teorica? - gli chiese quella sera medesima la principessa Irma nel salone della contessa Ghigi, credendo di sorprenderlo nella contemplazione estatica di quest'ultima. Egli finse di non comprendere. - Adesso amate la bellezza. - La studio: la contessa è una delle donne più belle che io abbia visto. Osservate quanta finezza di disegno nell'attacco delle gote col collo, e come la sua fronte è serena; poche statue greche sono più classicamente belle, ma la contessa avrebbe sempre, anche su queste, l'incalcolabile vantaggio della pelle sul marmo. La sua ha un candore di camelia più puro ancora che nel bellissimo fiore inanime. - Non è che una statua. - Alludete forse alla freddezza del suo spirito? Questo prudente riserbo la irritò. - Via... siete troppo artista per aver potuto resistere al fascino della sua bellezza. Lelio le rispose con un sorriso di provocazione. - Non ballate? - No, sono troppo lungo: voi invece, principessa, avete nel ballo una posa adorabile tenendo la faccia volta come quella del cavaliere, e arrovesciandovi sul suo braccio. È una trovata che poche donne potranno imitare, perché ci vuole la vostra figura e soprattutto la vostra testa. - Brutta. Che cosa scrivete ora? - Nulla. - Chi amate? - Voi. - Sempre enigmaticamente? - Sempre. - Sempre colla sicurezza che un giorno ve lo permetterò? - Sempre. Lelio pareva tranquillo. - Sapete che questa potrebbe essere una insolenza? - Per voi no, perché vi credete sicura del contrario. Ella fece per voltargli le spalle, ma si ostinò; quella provocazione calma cominciava a dominarla. - Ah! dunque, un giorno dovrò permettervelo? - Perché no? L'accento di queste ultime parole era così insolentemente pieno di tutte le ciarle, che si facevano sul suo conto per la città, che ella sobbalzò come sotto una ferita. I suoi occhi verdi sfavillarono, mentre il sorriso le si irrigidiva sulla larga bocca sensuale. - In questo momento i vostri occhi hanno avuto una di quelle ondulazioni luminose, che dal mare sembrano perdersi nella luce del cielo. - Tornate poeta. - Con voi lo si diventa. - Non avete voluto venire a pranzo? - lo interruppe bruscamente. - Troppo poco. - Perché vi aveva invitato solamente mio marito? - Fors'anche. - Se vi invitassi io? - Provate. - Non proverò. - Proverete. - Testardo! La contessa Ghigi li separò; ella si avanzava verso di loro vestita di un cupo abito rosso scollato, che lasciava vedere tutta la prestigiosa bellezza delle sue spalle. I suoi grandi occhi neri lucevano senza ardere. - Parlate d'arte? - ella disse col suo sorriso sempre un po' ingenuo e cortese d'intenzione. - La principessa non ama né l'arte né gli artisti. - Che ne sapete? - questa proruppe. - Tutto quello, che voi stessa mi avete detto: detestate i romanzi scritti, come ne amereste gli autori? - Oh! alcuni possono essere amabili - ribatté la contessa senza accorgersi del loro imbarazzo. - Non saranno amati per questo. Altre signore interruppero il dialogo: Lelio notò che la principessa allontanandosi al braccio dell'amica lo sorvegliava in uno dei grandi specchi della parete, e allora finse abilmente di ammirare la superba figura della contessa. Poco dopo vennero a cercarlo per una sciarada: ma nell'andarsene la principessa gli disse che tutti i giovedì restava in casa per ricevere gli amici. Egli vi andò una volta, vi trovò un mondo di signore, e non si fece più vedere. Ella gliene chiese il perché. - Come potete ricordarvi di me in un giorno, nel quale dovete rispondere ai complimenti di tutta Bologna? - Appunto perché non me ne fate mai: li aspetto sempre. - Ne volete domani? Verrò a trovarvi sulle tre. Ella ebbe un delizioso sorriso di accettazione, gli tese la mano e la lasciò per qualche secondo nella sua; a Lelio parve che la sottile manina si schiacciasse sotto la sua stretta con una mollezza di seta, ma erano sotto il portico del Pavaglione e dovettero separarsi per non attirare troppo l'attenzione della gente. Ella si rivolse due volte a guardarlo. Quella notte Lelio non dormì. Nel suo appartamentino di due stanze appena, una da letto e l'altra da studio, che gli costavano una sessantina di franchi al mese, fece ad occhi aperti i sogni più strani, trovando sempre nel fondo di ognuno la medesima amarezza. La principessa era troppo ricca per poterla solamente invitare in quelle due camerette ammobigliate, delle quali il tappeto mostrava la corda e i mobili scompagnati raccontavano troppo chiaramente le loro ultime vicende nei magazzeni dei rigattieri. Poi quella nuova avventura finirebbe forse per costargli al di là delle proprie risorse, giacché le signore molto ricche nella loro ignoranza del denaro non s'immaginano mai quali difficoltà possa incontrare un amante, povero o quasi, nel seguire il loro meno signorile capriccio. Ma una voglia sensuale gli mordeva tutti i muscoli di stringersi finalmente sul petto, in un delirio di prepotenza, quella duttile donnina dalle movenze così voluttuose e l'espressione così multipla della fisonomia. Se non era una gitana, come le aveva detto temerariamente al veglione, aveva però qualche cosa della razza zingaresca; non era nemmeno molto pulita nella pelle e nella biancheria, si pettinava colle dita attorcigliandosi i capelli sulla nuca e fermandoli quasi sempre con un fiore. Poi a certe ondulazioni del suo passo o nell'abbandono di alcune pose balenava una lubricità, che turbava persino le fanciulle ancora condannate alla modestia di educande sotto l'occhio vigile della madre. Domani lo riceverebbe sola? In questo caso egli aveva già deciso, sebbene gli tremasse ancora qualche dubbio nel cuore, di arrischiare tutto per tutto, giacché con una donna simile le misure ordinarie della galanteria non dovevano valere; ella avrebbe forse ceduto ad un assalto subitaneo, o magari resistendovi, lo stimerebbe doppiamente per quell'audacia. Quindi l'indomani, in soprabito e cilindro, un po' pallido per la notte d'insonnia, salì lo scalone del palazzo Montalto: la principessa era uscita. - Da poco? - chiese imprudentemente. - Or ora - rispose il cameriere gallonato che gli aveva aperto la grossa porta dell'appartamento: nell'anticamera si vedevano quattro enormi casse intagliate del quattrocento. Egli ridiscese verde di sdegno per tentare d'incontrarla: infatti sulle cinque la vide sotto al Pavaglione, dentro la pasticceria di moda, fra un circolo di eleganti e di signore, che ridevano. Egli passò e ripassò davanti alla vetrina tutta piena di scatoline in raso a dolci colori, quasi aspettando un richiamo; finalmente spinse la porta. La sua faccia pallida colpì tutti. - Guardati! - gli si rivolse il conte Turolla accennandogli uno dei grandi specchi, sotto il quale la principessa seguitava a ridere senza aspettare il suo saluto. Lelio s'accorse di essere vicino a commettere una odiosa sciocchezza: con uno sforzo supremo di volontà costrinse la propria collera ad abbassarsi e mirandosi nello specchio rispose: - Hai ragione, ho lavorato tutta la notte. La principessa si alzò gaiamente per contemplarlo nello specchio invece di guardarlo in faccia: un'altra risata accolse questo scherzo, ma Lelio rimesso del tutto si era già tratto il cappello e le tendeva la mano. Ella la strinse come al solito. Poi si levò proponendo a tutti quei giovani di accompagnarla in un giro lungo tutto il Pavaglione; Lelio si era rivolto a proposito verso il banco per ordinare un vermouth chinato. - Non viene lei, signor Fornari? - gli domandò con accento vibrante di sottile ironia la principessa. - Mille grazie, ma ho un altro appuntamento. - Con chi era il primo? - Potrei forse dirlo se fosse andato a vuoto. - Altrettanta fortuna pel secondo - rispose dall'uscio salutandolo con un gesto amichevole. Egli si morse le labbra per rattenere una ingiuria plebea. Erano le cinque, l'ora del passeggio elegante sotto il portico del Pavaglione prima di rincasare per il pranzo; i negozi erano affollati, la giornata splendida, il sole di marzo aveva messo nell'aria una mollezza tiepida e profumata. Lelio sperando che la principessa sarebbe tornata a casa forse sola, a piedi, andò verso il suo palazzo per tagliarle la strada; in quel momento avrebbe voluto con lei una spiegazione a qualunque costo, anche a quello di uno scontro col marito o di sembrare grottesco a tutta la città. Ma anche quel fanciullesco proposito gli andò a vuoto, perché la principessa rientrò nel proprio palazzo dentro la carrozza della contessa Ghigi e col marito di questa. Lelio dovette rispondere al loro cortese saluto, quantunque gli sembrasse di leggere negli occhi verdi della principessa una bravata di canzonatura. Ormai quel duello lo preoccupava tutti i momenti. I compagni lo tentavano malignamente su quell'avventura, che lo aveva tanto mutato: si notavano le sue frequenti distrazioni, il suo imbarazzo nei discorsi offensivi che si tenevano su lei, si erano osservate le loro occhiate a teatro, certi fremiti in lui, quel minuscolo dramma di silenzi, di parole, di bugie pressoché uguale in tutti gli amori. Egli per difendersi affettava un cinismo anche più volgare verso tutte le donne, e si era lasciato trascinare a più di una cena con ballerine di ultima fila. Intanto il tempo passava. Una sera sui primi di maggio la contessa Ghigi invitò la principessa ad una gita sulle colline di Ozzano ad un suo podere, ove era solita recarsi tutti gli anni, almeno una volta, a pranzo dalla propria balia. Ella v'andava in confidenza entro un vecchio calesse, senza livree, col cavallo di un fattore: il principe Giulio presente all'invito domandò di esservi compreso, perché sarebbe stata per lui una eccellente occasione per apprendere se in quelle colline vi fossero delle quaglie. Lelio Fornari sopravvenne in quel punto. Ma la contessa Ghigi sembrava poco disposta ad accettare il marito dell'amica per non turbare il carattere di quella visita: i contadini avrebbero avuta troppa soggezione, e la piccola festa sarebbe diventata un'ordinaria gozzoviglia di signore in campagna. - Io sono cacciatore, trattatemi a pane di granturco: non sarà la prima volta che ne mangio - insisteva il principe. - Niente, poi nella calesse non ci si cape in più di due signore. - Ebbene, un'altra idea: vi raggiungeremo lungo la strada, magari solo al podere, io e il signor Fornari. Ella accetta, non è vero, signor Lelio? sul mio biroccino da caccia. Oh! vi attacco sempre delle rozze, io vesto male anche in città, quei contadini non mi riconosceranno. - Ma il signor Fornari - intervenne la principessa - consentirà a non essere elegante? Io - aggiunse ironicamente - mi farò prestare un abito dalla cameriera. - Io invece verrò in maniche di camicia - ribatté Fornari sul medesimo tono. La contessa rise, la partita era vinta: Lelio e la principessa si guardarono negli occhi, quindi si separarono senz'altro. L'indomani sul mezzogiorno, perché le signore malgrado tutte le vanterie della sera innanzi si erano alzate tardi, la contessa Ghigi e la principessa Irma arrivavano al podere Cà de' Varchi al disopra della vecchia badia, precedute dal principe Giulio e da Lelio Fornari montati sopra un rozzo biroccino e vestiti da caccia. Lelio conservava un certo aspetto signorile, il principe invece pareva davvero uno di quei fattori da buoi, arrossati dal sole dei mercati e dal vino delle bettole. Secondo il solito, credendo tutti quattro di andare incontro ad una grande gioia, rimasero seccati sino dal primo momento: i contadini, tranne il reggitore e i due vecchi, erano scappati per la soggezione, la casa era sporca, l'aia piccola, la buca pel letame si apriva presso la porta della cucina, unica porta di tutta la casa. Due gelsi brulli, già sfogliati pei bachi, dei quali si vedevano le stuoie dalle piccole finestre del piano superiore, battevano coi rami sui tetti. Si dovettero porre i due cavalli nella stalla dei buoi, chiamando a grandi grida uno dei ragazzi fuggiaschi pei campi, perché venisse a cavarne prima un paio di vitelli; la calesse e il biroccino rimasero sull'aia, momentaneamente all'ombra di due grossi fienili. Siccome la contessa aveva mandato avanti il cuoco con molte provviste, il pranzo era quasi pronto in una camera attigua alla cucina, e dalla quale con grave incomodo dei contadini si erano dovuti sgombrare un letto e due cassettoni. La balia, vecchia e secca, affettava molta servilità verso la contessa, che credeva ingenuamente di essere adorata da lei e da tutta la famiglia, mentre invece quella gita non riusciva loro grata se non pei cinquanta franchi, che ella lasciava sempre per regalo nelle manine sporche del ragazzo più piccolo. Né la contessa né i suoi invitati, quando per caso ne accompagnava qualcuno, avevano il senso o il gusto della campagna: volevano mostrarsi indulgenti verso le maniere o la povertà dei contadini, ed invece li umiliavano doppiamente senza trovare mai un solo accento, che destasse un'eco della loro vita. Lelio Fornari invece entrò nella cucina e coll'acuta sensibilità dell'artista si mise subito all'unissono con tutti: il cuoco già brillo vi si affaccendava col reggitore ed il nonno, intanto che la balia vestita cogli abiti della domenica doveva accompagnare la contessa, che le aveva passato il braccio sotto il braccio per mostrarsi buona in faccia agli altri invitati. Poco dopo capitò nella cucina una ragazza alta, scalza, bruna, cogli occhi ancora tutti pieni di sole, chiamata improvvisamente dal campo per girare l'arrosto. Le due signore e il principe seduti nell'aia all'ombra dei fienili si volgevano spesso verso la cucina, dalla quale venivano sino a loro risa, fumi e profumi, colla voce del cuoco e quella di Lelio, che scherzavano colla ragazza. Questa, passata sull'aia a testa bassa per la presenza dei signori, si era tosto rimessa; il cuoco diceva qualche barzelletta in bolognese, Lelio le acuminava e la ragazza imporporata dalle fiamme del focolare, sul quale girava il lungo spiedo carico di polli e di piccioni, sembrava anche più bella. Il busto rozzo, da cui la rozza camicia bianca emergeva vivamente, le dava una apparenza fantastica, coi capelli così scarduffati, più neri nell'ombra densa del camino, e le braccia nude e gagliarde, che avrebbero potuto brandire subitamente quello spiedo come un'arma. Lelio non aveva ancora pronunciata una sola parola d'italiano in quella cucina, movendovisi come se vi fosse sempre stato: anzi la sua disinvoltura, solleticata dalla loro famigliarità, lo aveva fatto trascendere sino a sturare una bottiglia dell'eccellente vino bianco, mandato su dalla contessa per berla tutta insieme nei bicchieri piccoli. - Signor Fornari - chiamò con voce secca la principessa dalla finestra, sorprendendolo, mentre pizzicava scherzosamente il collo alla ragazza. Egli invece di uscire corse all'inferriata. - Che cos'è, principessa? - e mise le mani presso le sue nel medesimo ferro. Egli stesso aveva il volto rosso, caldo; il principe Giulio e la contessa Ghigi volgevano loro in quel momento le spalle. La principessa sentì la voluttà di quel bel viso giovane. - Perché non esce sull'aia? - gli domandò con sussiego forzato dandogli del lei per la prima volta, mentre si erano trattati sino allora col voi francese. - Siete voi che lo desiderate? - l'altro replicò appressandole maggiormente il volto al volto. Nella cucina si era fatto un silenzio improvviso; la ragazza si volse di sbieco. - Vedete, principessa, avete fatto loro paura: venite dentro. Ella ebbe una smorfia di ripugnanza, Lelio si staccò dalla finestra freddamente. - Se voi amate le serve, a me non piacciono i servitori. Un lampo di collera si accese negli occhi neri di Lelio, ma seppe frenarsi, e senza nemmeno rispondere tornò al focolare presso la ragazza. Il pranzo parve anche più squisito in quella cameruccia dalle pareti scalcinate, a travi sudice, su quella tavola un po' zoppa, che la balia aveva coperta colla propria migliore biancheria; ma le posate erano rugginose, perché il cuoco aveva dimenticata a casa la sporta delle argenterie. Il principe avvezzo ai contrattempi della caccia ne rise, ma le due signore dovettero fare qualche sforzo per vincersi, mentre la vecchia balia a fianco della contessa ne restava umiliata, e suo figlio, il reggitore, bel pezzo di contadino già sui cinquanta, che serviva a tavola, cercava di scusarsi offrendo di forbirle subito un'altra volta colla sabbia. Poi l'allegria ricominciò. Lelio sentendosi in vena seppe divertire le signore con una girandola di motti fini ed originali, che finirono di guadagnargli il cuore dei contadini: nella cucina si udiva ridere, giacché tutti i ragazzi vi erano tornati dai campi. Solo la principessa ridiventava tratto tratto accigliata. Lelio la punse scherzosamente più volte, e allora ella si atteggiò nella sua bella posa di sognatrice; mangiava poco, abbandonandosi sulla sedia rustica, mentre la contessa sempre così serena le diceva dolcemente: - Ecco che ti annoi! te lo avevo predetto. - No, mia cara, sono anzi contentissima, è una giornata deliziosa. In quel momento Lelio le premé sotto la tavola un piede, ella si volse, ma non lo ritirò. Allora il dialogo si fece più scintillante; il principe, gran mangiatore, ratteneva sempre il reggitore in quella sua intensa preoccupazione di mutare i piatti per parlargli di quaglie; i prati sui colli vicini dovevano esserne pieni, perché le quaglie vi nidificano in gran numero, e l'inverno era quasi stato senza neve. Lelio corteggiava amabilmente la vecchia balia tenendo sempre fra i propri piedi un piedino della principessa, della quale il volto si velava sempre più di una fantasticheria poetica. Fuori il sole incendiava tutta l'aia di una gloria di luce, mentre da lontano gli alberi verdi sussurravano mollemente. Ogni tanto, all'aprirsi dell'uscio, si vedeva la cucina piena di gente, che mangiava in piedi, seduta, in tutte le pose; la bella ragazza scalza era sempre nell'angolo del focolare con un piatto sulle ginocchia. - Lasciate aperto - disse Lelio; - è più bello così! Ci vediamo tutti. - Sì - ripeté il principe; - democrazia almeno in campagna. Ma la principessa sorprendendo una occhiata di Lelio alla ragazza ritirò bruscamente il piedino. Lelio si sentì nel cuore un grido di trionfo; temerariamente allungò daccapo un piede sotto le sue sottane, e lasciandosi cadere il tovagliolo, le sfiorò un'anca. - Vi piacciono le contadine, signor Fornari? - domandò la principessa. - Non osereste la stessa domanda col principe. - Lo so, lo so, a lui piacciono, e a voi? - Perché negarlo? Sì. - Così sudicie - ella soggiunse a bassa voce con una moina di ripugnanza. - Come la frutta: chi lava le ciliegie in campagna? - Ben detto! - esclamò il principe. - Ah! voi dovreste tacere - gli si rivolse minacciandolo col dito la contessa: - vi si conosce anche troppo. Siete tutti così voialtri! - Che cosa trovate dunque voialtri uomini di meglio nelle contadine? - insisté la principessa. - Chi ha detto meglio? - ribatté il principe. Ma la domanda era rivolta a Lelio. - La sincerità. - O la facilità? - Spesso sono la medesima cosa -, e il suo sguardo la dominò dall'alto. Erano alle frutta. Lelio andò in cucina con una bottiglia sturata e un gran piatto di dolci per far bere i ragazzi, il principe lo seguì mettendo mano al portasigari; la confidenza tornava in tutti, ridevano fra un tintinnire di bicchieri e di piatti, perfino il vecchio cane pastore bianco era riuscito ad introdursi. Volevano scacciarlo, ma Lelio protestò gettandogli un gran pezzo di pagnotta, che l'altro scappò subito a mangiare dietro i fienili. Le due signore rimaste sole attendevano il caffè. Il cuoco brillo lo preparava in un pentolino sul focolare, ma avrebbero dovuto berlo nei bicchierini, perché si era scordato egualmente delle chicchere e del caffè, e la balia aveva dovuto andarne a cercare un cartoccino nella propria cassa. Ella sola ne prendeva qualche volta in famiglia. - Signor Fornari - chiamò la contessa - ci lasciate sole, tutti. - Usciamo piuttosto, qui si soffoca: prenderemo il caffè all'ombra del gran susino dietro la casa. Infatti uscirono tutti, anche la balia: furono portate delle sedie, si formò il crocchio. Giù da quella eminenza la valle si stendeva incantevole sino a Bologna restringendosi dietro verso i colli, che la chiudevano come un immenso muraglione giallastro. Potevano essere le due: si parlò ancora, si rise, poi la conversazione venne languendo in quella fatica della prima digestione. A poco a poco anche la cucina si era vuotata, il reggitore dopo aver condotto i cavalli a bere in una pozza non era più uscito dalla stalla, si udivano da lungi cantarellare voci fresche sui gelsi che i ragazzi sfogliavano per i bachi, e una pace dolce, voluttuosa, veniva da tutta quella campagna in fiore, colle grandi erbe ondeggianti e i grani, che si doravano lentamente alle prime intensità del sole. Lelio era caduto in una contemplazione di artista accanto alla principessa, coll'occhio vagante sulla vallata; improvvisamente si sentì addosso il suo sguardo. Si levò, anch'ella fece altrettanto; il principe discorreva tranquillamente di agricoltura colla balia e colla contessa, ma vedendoli alzarsi, tutti domandarono ad una voce: - Dove si va? - Bisogna pur muoversi. - Con questo sole! - esclamò la contessa, cui l'aria aperta metteva una bianchezza più fulgida sulle carni. - Appunto nel sole. Ah! contessa, non vi diventereste più bella perché è impossibile, ma vi mutereste per qualche giorno di bellezza. - Sì, davvero! A Rimini nel tempo dei bagni divento di un bruno orribile. - Confessate però che nessun uomo ve lo ha ancora detto. Anche la contessa, il principe e la balia si erano levati; entrarono tutti nell'aia cacciandosi nella poca ombra fra il calesse e i fienili. Il sole era ardente, la balia propose di salire nelle stanze superiori a vedere i bachi, e infatti ogni tanto si scorgeva dalla finestra il busto rosso della ragazza che li mutava di stuoia. - Ah! sei tu... - esclamò Lelio, che aveva girato il pagliaio, scorgendo il cane accosciato con un osso fra le zampe. Il cane agitò la coda come ad un saluto, ma si scostò appena di qualche passo per riaccovacciarsi subito. - La brutta bestiaccia! - disse la principessa arrivando dall'altra parte. - È un povero.... Ella era ancora così melanconica, ma negli occhi verdi le tremava una luce insolita; il sole dardeggiando sul fieno l'aveva arroventato e faceva intorno ad essi come un'aureola d'incendio. Ella alzò una mano per ripararsi la fronte. - Irma! - egli proruppe piegandosele sul volto col viso pallido e gli occhi ardenti. Erano soli; dietro il fienile un altro terrapieno si curvava quasi in una svolta, nessuno poteva vederli, ma udivano sempre dall'altro lato la vecchia balia vantare i bachi, che dormivano della seconda. - Se vogliamo andare a vederli... - Aspettiamo che abbiano finito di dar loro la foglia, si veggono meglio - rispose la contessa. - Irma! - ripeté Lelio, ma questa volta con voce così strozzata che l'altra ribatté come sfidandolo improvvisamente: - Che cosa vi prende? - Egli si guardò attorno, l'altra ebbe un moto di spavento, ma era tardi: l'aveva già afferrata alla cintura, premendola nella parete del fienile. Ella si sentì raschiare il collo, ardere la schiena, mentre il sole le batteva sugli occhi accecante, trionfale. - No, no... - Gridate dunque! - Ella fece ancora uno sforzo, ma l'altro la soverchiò con una demenza sùbita ed irresistibile. Fu un attimo. Ella dovette abbassargli il capo sulla spalla sotto la furia dei baci che le mangiavano il collo, presa dentro una stretta delirante, nella quale tutte le sue resistenze di donna svanivano, mentre una paura orribile, inutile le cresceva dalle voci parlottanti sempre all'altro lato. - No! - rantolò ancora sentendosi ardere improvvisamente i ginocchi da un raggio di sole, poi credette di svenire nella sensazione delle punte, che le foravano gli abiti sottili e le mani. Non era forse stato più di un minuto. Ella si ricompose per la prima, vinta, offesa, guardando istintivamente il cane, che non si era mosso; Lelio più sbalordito non riusciva a parlare, poi delicatamente, con due dita, le trasse una festuca dai capelli. - Questa la conserverò - disse finalmente. - Oh! - ella esclamò con accento tremulo e guardandosi intorno - se... - Io arrischiavo la vita, voi no - rispose l'altro superbamente. - Bestiaccia! - Perché dunque vi pare così brutto questo povero cane? - ribatté Lelio ad alta voce per farsi udire dall'altra parte. - Non gli guastate l'unica festa dell'anno: vedete bene che anche in questa gli toccano solamente le ossa. Questa disinvoltura finì di vincerla: Lelio calmo non si affrettava a ritornare dall'altro lato. - Andate, andate - ella diceva affannosa. - Perché? - rispose gettando un sorriso trionfante d'ironia attraverso il fienile. - Oh! Lelio! vai.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Gli schiavi dovevano darsi il turno per vegliare la notte; le donne di Fatima non dovevano abbandonarla un minuto, pena la vita, ed egli stesso stava più di frequente nelle stanze della figlia e faceva sforzi inauditi affinchè le notizie delle sue sventure non giungessero alle orecchie di lei. Una mattina le donne di Fatima mandarono a destare in fretta il padrone. - Tua figlia è sparita; abbiamo tro- vato la camera vuota, i suoi gioielli, le sue vesti, tutto è sparito con lei. - La fiera testa di Hamid s'incurvò a quella notizia e una lacrima gli cadde sulla barba. Quel giorno non andò al bazar; quel giorno non ebbe la forza di moversi, e nel suo dolore neppur si rammentò della mi- naccia che aveva fatta alle donne di Fatima. Verso sera entrò la Sventura e gli si mise accanto. - Perché non mi scacci? - gli disse. - I tuoi tesori sono inghiottiti dal mare, sepolti nelle sabbie, distrutti dal fuoco; i tuoi figli, tua moglie sono morti; Fatima, rubata dai corsari, sarà a quest'ora ven- duta su un pubblico mercato come schiava; Fatima sarà battuta da un padrone duro come te.... perchè non mi scacci? - Il mercante era scivolato ginocchioni. - Pietà! - diceva - pietà! non per me, ma per Fatima, per la figlia mia. - La Sventura lo respinse sogghignando, e sparì in un attimo com'era venuta. Hamid non si mosse da quella stanza; Hamid non aveva più forza. Gli schiavi, temendo la sua collera, fuggirono a uno a uno; il suo palazzo rimase aperto ai ladri, aperto alle intemperie, aperto agli animali vaganti. I primi lo saccheggiarono; il vento, il sole, la pioggia vi entrarono schiantando, bruciando, putrefacendo i legnami e gli ornamenti preziosi; gli animali vi presero stanza. Alcuni anni dopo, quando Fatima, di- ventata libera, volle sapere quel che era avvenuto di suo padre e volle tornare al palazzo paterno, lo trovò devastato e po- polato di immondi animali di ogni specie. Il cadavere di Hamid, intatto, era an- cora nella camera dove l’aveva colpito la notizia tremenda, e il suo capo, umiliato dalla Sventura, toccava la terra.

Pagina 68

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - La carità cristiana c'impone di non abbandonarla. Intanto battezziamola, poiché non sappiamo se ella sia cristiana. La bimba dormiva ancora, ma quando l'Abate maggiore in persona le gettò l'acqua lustrale sulla testa, ella aprì gli occhi, e, invece di mettersi a piangere, schiuse la bocca a un sorriso e stese le manine al monaco. Questi le impose il nome di Buona, e si sentì intenerire a veder quella piccina così bella e gaia, che non aveva altra famiglia che i monaci, altra casa che il convento di Fonte-Buona. Il padre forestale scelse un'asina più giovane e forte delle altre, e, fattala mungere, dette a bere quel latte caldo a Buona. Così fu nutrita la bimba per alcuni mesi. Ogni giorno l'Abate maggiore diceva al forestale che doveva cercare una contadina che avesse cura della piccina, e ogni giorno quel monaco trovava un pretesto nuovo per tenerla presso di sé. Ora diceva che era raffreddata e non voleva farla uscire; ora nevicava, ora tirava vento. Contadine ce n'erano molte nei poderi dipendenti dal monastero, ma il fatto si è che il forestale non voleva staccarsi da quella creaturina, e fra' Buono neppure. Così passò l'inverno, e quando già Buona aveva circa un anno e camminava spedita, il forestale un giorno la prese in collo e si avviò giù per la scesa per portarla in una casa di contadini; ma gli rincresceva quanto mai di separarsi da Buona, che lo abbracciava, gli metteva le manine nella barba e lo chiamava babbo. Giunto al di là della spianata del convento, il forestale vide una capannuccia abbandonata, dove solevano rifugiarsi i pastori, e pensò: - Perché devo portare Buona in casa d'altri, quando qui potrebbe essere come in casa sua? Le porterei da mangiare, la verrei a vedere, e a guardia della bimba potrei lasciar Lupo, il can da pastori di cui tutto il vicinato ha paura. Quest'idea parve così bella a fra' Ilario, il forestale, che, invece di andar oltre, posò la bimba sopra un mucchio di fieno e, chiusa alla meglio la porta, corse al monastero a prendervi coperte, guanciali e utensili per arredare la capanna. Dopo poco egli tornò da Buona recandosi dietro Lupo, e trovò la bimba placidamente addormentata. Egli approfittò di quel momento per ripulire la capanna, per rimettere alcune assi che mancavano alla porta e cogliere sul prato tanti fiori per allietare la sua Buona. Poi munse una bella vacca che pascolava, e quando Buona si destò, vedendo tutti quei fiori, batté le manine esclamando: - Babbo, belli! Fra' Ilario dette del latte alla bimba e le mostrò che era in una ciotola sopra una panchetta; poi le raccomandò di esser buona, e, dopo aver ordinato a Lupo di accucciarsi accanto alla creaturina, alla quale era tanto affezionato, tornò al suo monastero. Ma prima di varcare la soglia della capanna, alzò le mani al cielo, esclamando: - Vergine santa, io pongo quest'anima benedetta sotto la vostra protezione; vegliate su di lei! Dopo questa invocazione, fra' Ilario chiuse la porta, si mise in tasca la chiave, e quindi si avviò verso il Cenobio di Fonte-Buona. Mattina e sera il monaco, appena aveva accudito ai suoi doveri, correva da Buona e la trovava sempre allegra, sana, sorridente. Ella si baloccava con Lupo, si gingillava con i fiori, cantava con una vocina dolce le canzonette sacre che le insegnava fra' Ilario e correva sotto gli alberi durante il giorno. La notte dormiva saporitamente, e mai nessun male l'aveva tormentata. Di vestiti non aveva che una specie di camicia di lana bianca, tagliata da una tonaca vecchia di fra' Ilario. I capelli biondi le scendevano sulle spalle a guisa di manto, e i piedini rosei parevano quelli di una regina. Buona cresceva a vista d'occhio, e appena fu grandicella andò da sé a far legna nel bosco e a cogliere fragole e lamponi, che insieme col latte, con le uova e col pane che le portava fra' Ilario, costituivano tutto il di lei cibo. Così Buona raggiunse i tre anni. Il forestale aveva già confessato a fra' Buono e all'Abate maggiore come l'aveva allevata e come l'aveva posta sotto la protezione della Madonna, e i due monaci non lo avevano biasimato. Ogni volta che essi uscivano a passeggiare, passavano dinanzi alla capanna, e la bimba, che li conosceva, correva loro incontro e parlava loro con affetto. Appena ella ebbe sette anni, l'Abate, che molto si occupava di quella creaturina affidata al monastero, disse che bisognava darle un'occupazione, e a tale scopo le affidò alcune pecore affinché ella le portasse a pascere. Poi l'Abate diede incarico a fra' Buono d'istruirla come si conveniva a buona cristiana, e il monaco ogni giorno si avviava, dopo il vespro, alla capanna e insegnava a Buona a leggere in latino e in volgare, affinché potesse imparare le preci e le laudi della Madonna sua protettrice. La capanna intanto non era più così spoglia come quando il padre forestale vi aveva portato la sua protetta. Vi era una tavola con alcuni libri, vi erano due sgabelli, un lettuccio e un focolare, nel quale Buona aveva cura di mantenere sempre il fuoco. Ella imparava con una facilità straordinaria, ed era così cortese e nobile nelle maniere, che l'Abate maggiore, ogni volta che parlava di lei, diceva: - Quella Buona si direbbe nata in una corte! Passavano gli anni e la bimba si faceva grande, ma non aveva mai portato altro vestito che una tonaca bianca simile a quella dei Camaldolensi, e chi la vedeva da lontano guidare le pecore al pascolo, la prendeva per un novizio. La vita all'aria aperta l'aveva fatta crescere forte e robusta, e la convinzione di esser protetta dalla Madonna la faceva esser coraggiosa, quasi temeraria. Un giorno di autunno ella aveva spinto il gregge verso l'Abetiolo, per trovare un po' d'erba fresca. L'accompagnava, come di solito, il grosso cane da pastore, che era stato il suo compagno d'infanzia e che ora s'era fatto alquanto vecchio; ed ella camminava svelta, chiamando le pecore quando cercavano di sbandarsi per salire qualche piaggia erbosa. Era sola sola in quel luogo deserto, ma quella solitudine non le ispirava alcun timore, perché nessuno le aveva mai fatto alcun male, e quando i pastori vedevan comparire su qualche poggio la sua figurina tutta bianca, si mettevano le mani alla bocca, affinché la loro voce le giungesse, e le gridavano: - Figlia della Madonna, prega per noi! Ella era davvero sicura in quel paese deserto, e mentre filava, pregava. Quel giorno dunque, mentre badava al gregge, ella vide Lupo diventare inquieto e correre di qua e di là, abbaiando. Buona, con la voce e col gesto, cercava di calmarlo, quando a un tratto si vide davanti un lupo, che si gettò nel branco delle pecore. Queste, spaventate, corsero via; ma una, più vecchia delle altre, fu raggiunta dalla fiera, che l'avrebbe certamente sbranata, se il cane non si fosse buttato a difenderla a corpo morto. Allora, fra il difensore e l'assalitore s'impegnò una lotta tremenda, nella quale il buon cane stava per soccombere. La pastorella del Pian del Prete assisteva piangendo a quella lotta. Il lupo azzannava il suo avversario e lo faceva sanguinare da tutte le parti, inferocito. Buona, senza riflettere al pericolo che correva, alzò il bastone sull'animale feroce, e disse solennemente: - In nome della Madonna, mia protettrice, ti ordino di rispettare ciò che mi appartiene! Il lupo, da furente che era, si fece mansueto a queste parole, e a coda bassa andò a leccare la mano della pastorella, la quale, intenerita, tolse dal canestro il pane destinato alla sua colazione e lo gettò alla fiera. Il cane intanto era fuggito cacciandosi avanti le pecore, ed era corso da fra' Ilario. Il forestale, vedendo Lupo solo e le pecore senza la loro guardiana, temé che a questa fosse accaduta qualche sventura; ma poco dopo rimase meravigliato vedendola comparire sulla viottola, col lupo accanto, che la seguiva come un agnellino. - È un miracolo! - esclamava fra' Ilario. - Figlia mia, tu sei già santa in vita, tu sei una benedizione per il monastero! E tutto commosso da quel fatto, corse da fra' Buono e dall'Abate maggiore a raccontar l'accaduto. - Erigeremo un santuario nel luogo ove Buona è stata salvata! - disse l'Abate, - e faremo venir da Firenze un abile pittore per dipingere sulle mura di quello, la storia della bambina, da quando fu trovata fra la neve fino al momento che ha ammansito il lupo. - Sarà meglio lasciare due pareti bianche per dipingervi in seguito altri fatti della vita di questa fanciulla, cara alla Madre del Signore; - disse fra' Buono, - poiché ella è veramente santa, e la Madonna si servirà di lei per operare altri miracoli. - Da che lo arguisci, fra' Buono? - domandò l'Abate. - Padre santo, l'umile capanna ove ella abita è sempre olezzante di gigli e viole; il corpo di lei non è stato mai soggetto a nessuna infermità; quando ella canta le laudi della Vergine, gli uccelli corrono a stormi dai boschi e le si posano sulle spalle; le piante che ella coltiva dànno fiori, anche quando soffia il tramontano. Ed era vero quel che diceva fra' Buono, perché tutti i fatti da lui citati erano avvenuti sotto i suoi occhi; ma quello che il buon frate non sapeva, si era che appena la notte avvolgeva la terra, una luce viva illuminava la capanna, e appena Buona chiudeva gli occhi, due angeli scendevano dal cielo a vegliare sulla fanciulla dormente. E l'umile monaco non sapeva neppure che tutta questa protezione che la Vergine concedeva alla fanciulla, raccolta da lui in mezzo alla neve, era fervidamente implorata da più anni da un cuore desolato di madre. Bisogna sapere che un terribile dramma di famiglia aveva cagionato l'abbandono di Buona. Il conte di Poppiano e il conte di Romena erano fra loro nemici acerrimi; questa inimicizia era nata quando Corso, figlio del primo, era già un giovinetto, e Selvaggia, figlia del secondo, era una bella e graziosa fanciulla. L'inimicizia era scoppiata per una contestazione di confini fra i loro feudi, e i due signori avevan fatto ricorso all'Imperatore, il quale aveva dato ragione al conte di Romena. Tanto il vincitore quanto il vinto s'erano giurati odio vicendevole ed eterno. Ma lo scoppiare di quest'odio aveva fatto sentire a Corso e a Selvaggia, educati e cresciuti insieme, quanto bene si volevano; e si erano scritti, prima per deplorare l'inimicizie dei loro padri, poi per sfogare il dolore che risentivano di non vedersi più. E queste lettere, recate dalla balia di Corso alla balia di Selvaggia, alimentarono tanto il loro affetto, che i due giovani, non vedendo mezzo alcuno per ottenere una riconciliazione fra le loro famiglie, stabilirono di sposarsi senza il consenso dei loro padri. Corso, col pretesto di una caccia nei monti, uscì dal castello di Poppiano molto segretamente; ma ad un certo punto, fingendo d'inseguire un animale, si sottrasse allo sguardo dei suoi, e, spronato il cavallo, giunse in prossimità di Romena. Costì rimase nascosto fino a notte inoltrata nella casa della balia di Selvaggia, dove verso sera erasi recata la fanciulla sotto pretesto di visitarla e portarle dei doni; e quando l'oscurità fu completa, messer Corso pose in groppa al suo cavallo la bella figlia del conte di Romena, e la portò fino ad Arezzo. Era appena giorno quando vi giunsero, e senza prendere nessun riposo, entrarono in una chiesa e fecero celebrare il loro matrimonio da un prete che ufiziava. Poi i due sposi andarono ad alloggiare da una vecchia zia del signor di Poppiano, dove menarono vita oscurissima. Nessuno può figurarsi l'ira del conte di Poppiano quando, dopo aver cercato inutilmente per più giorni il figlio, supponendo gli fosse accaduta una disgrazia alla caccia, seppe che anche la figlia del suo nemico era sparita! Né minore fu l'ira del conte di Romena quando non trovò più la figlia. Tutti e due i vecchi si chiusero nei loro rispettivi castelli mulinando una vendetta, e intanto spedirono fidi messi in traccia dei fuggiaschi. Passarono i mesi senza che questi tornassero. Furono fatte ricerche a Firenze, a Siena, in Romagna, in Umbria, e anche ad Arezzo; ma i due sposi stavano così celati agli occhi di tutti, temendo l'ira dei genitori, che anche ai bracchi dal fino odorato, riusciva impossibile scoprirli. Intanto i due vecchi fremevano nell'attesa di notizie; essi temevano di chiuder gli occhi prima di avere sfogata la vendetta, e ogni giorno che passava la ideavano più atroce: il conte di Romena, contro Corso che accusava di avergli rubata la figlia; il conte di Poppiano, contro Selvaggia. Frattanto la bella moglie di messer Corso aveva dato alla luce una bambina. La madre la nutriva col suo latte, il padre vegliava sempre sulla culla di lei; ma l'odio del vecchio conte di Poppiano per la nuora minacciava la felicità di Corso e di Selvaggia. Infatti, il vecchio scriveva lettere sopra lettere agli uomini che aveva sguinzagliati contro il figlio, e uno di questi, che si trovava appunto ad Arezzo, per non esser più incitato, si mise a ricercare messer Corso, facendo la posta di giorno e di notte vicino alle case dei parenti e degli amici, che il giovane aveva nella città. E una notte d'inverno lo vide uscire cautamente da una porticina della casa della zia, che dava sopra un chiassuolo, accompagnato dalla moglie, la quale reggeva una creaturina lattante. Il giorno dopo quell'uomo era già a Poppiano a informare il Conte della scoperta fatta. Quali ordini gli desse il vecchio, è inutile dirvi. Vi basti sapere che la sera successiva quattro uomini erano appostati nel chiassuolo, dentro una rimessa, e tre cavalli sellati aspettavano sotto le mura della città, sulla via del Casentino. Appena messer Corso, come di consueto, fu uscito nella strada insieme con la moglie per farle prendere una boccata d'aria, due dei quattro appostati gli saltarono addosso e due altri imbavagliarono Selvaggia per portarla via insieme con la piccina. La donna si difendeva, e Corso, sguainata la spada, menava colpi da ogni lato per proteggere la sua cara sposa; ma tutto fu inutile. Un colpo ricevuto al fianco lo fece cadere, mentre Selvaggia veniva portata via svenuta. Dopo un'ora, circa, dal fatto, i quattro malfattori calavano, da una casa addossata alle mura, una donna e una bambina, e per la stessa via essi pure uscivano dalla città, temendo il bargello e il capestro. - Eccovi la moglie del figlio vostro, - disse il capo della spedizione giungendo a Poppiano. - Che sia rinchiusa nella prigione più oscura del castello, - ordinò il Conte. - E della figlia che dobbiamo farne? - domandò il ribaldo. - Abbandonatela sui monti affinché i lupi la divorino. E Corso dov'è? - chiese il signore. I ribaldi aspettavano la domanda e avevan pronta la risposta. Essi non volevano confessare di averlo mortalmente ferito, perciò dissero che Corso, quella sera, non era uscito insieme con la moglie, ma l'aveva affidata bensì a due parenti suoi, i quali, difendendola, erano caduti feriti da più colpi. Il Conte si mostrò pago dell'esito della impresa e non permise che la bambina rimanesse neppure un'ora nel castello. Così il capo della spedizione dovette risalire a cavallo e portarla lontano, e fu allora che la depose nel Pian del Prete, ove la trovò fra' Buono. Ma torniamo a Corso. La ferita lo inchiodò per più settimane nel letto. Appena rimesso, l'infelice andò a Romena, supponendo che il ratto fosse stato operato ad istigazione del suocero: ma per quanto interrogasse i terrazzani, e soprattutto la balia della sua sposa, nessuno poté dirgli di avere veduto la figlia del Conte in quel luogo. Allora Corso andò a Poppiano e fece chiedere al padre di essere ricevuto. Il vecchio lo fece entrare nella sala d'armi e lo squadrò da capo a piedi. - Quale ragione ti riconduce sotto questo tetto, che hai abbandonato come un malfattore? - gli domandò severamente. - Nessun'altra che l'ardente desiderio di sapere che cosa sia avvenuto della mia sposa, - rispose il giovine. - Come supponi che io possa dirtelo? Corso allora chinò la testa e tacque; ma invece di rimanere in quel luogo, si mise in viaggio per cercare la sua Selvaggia. Dopo un anno d'inutili ricerche, il giovane signore intraprese il pellegrinaggio di Terra Santa, per ottenere dal Cielo la grazia di esser riunito all'adorata consorte. Ma la nave fu assalita dai pirati ed egli, come i suoi compagni, vennero fatti prigionieri da un capo barbaresco e condotti sulle coste africane a lavorare la terra. Però, la sorte di Corso non era tanto dura quanto quella di Selvaggia. Egli almeno respirava l'aria libera, mentre l'infelice donna era rinchiusa in una prigione e s'era veduta strappare la sua creaturina. Selvaggia, in quel carcere, non faceva altro che piangere e pregare; ella piangeva Corso, che supponeva morto in seguito alle ferite, e pregava per la sua bambina, che una voce interna le diceva che era viva. E le sue preghiere, rivolte specialmente alla Madonna, erano così fervide che giungevano fino al trono della Madre di Dio e la commovevano. Passarono molti anni dal giorno che la fanciulla fu raccolta da fra' Buono, ed ella s'era fatta bellissima di viso e di corpo, e tale appariva agli occhi della gente che la scorgeva andando in pellegrinaggio a Fonte-Buona. Tutti le tributavano un gran rispetto, vedendola vestita dell'abito dato da san Romualdo ai suoi monaci, e intenta sempre a leggere nei grossi volumi che le recava fra' Buono, o a guardare le pecore al pascolo, o coltivare i fiori, che crescevano intorno alla sua capanna come se fosse stato primavera. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo e faceva vedere a quanti si recavano al monastero la bella Buona, seguìta dalla fiera. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta nella gente del Casentino, che gl'infermi, gli storpi, i malati d'ogni genere, si facevano portare alla capanna di lei, e la pregavano supplichevolmente di suggerir loro un rimedio o soltanto di toccarli, sperando da quel semplice contatto la guarigione. Buona rispondeva a tutti quegli infelici: - Pregherò la Madonna per voi! E siccome talvolta essi risanavano, così nessuno più dubitava che ella fosse già santa in vita. Ora avvenne che il conte di Poppiano ammalasse gravemente, di una malattia che aveva sede nell'anima. Egli era torturato dal dolore di non vedere più l'unico figlio suo, e invece di mostrarsi più umano verso Selvaggia, la rendeva responsabile della gran sciagura che lo faceva morir disperato. Per curarlo, erano stati chiamati tutti i dottori del Casentino, ma la sua malattia resisteva a ogni rimedio. Allora, siccome egli non poteva più muoversi, gli fu suggerito di chiamare al suo letto la pastorella del Pian del Prete. E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

L'altrui mestiere

680083
Levi, Primo 1 occorrenze

I suoi innumerevoli inventori finiscono presto o tardi con l' abbandonarla (o col dimenticarla) per motivi pratici; infatti, essa condurrebbe ad un comportamento assai nocivo per il soggetto e per il suo prossimo, e cioè all' inerzia, all' abdicazione ad influire sulla realtà in cui siamo immersi. Inoltre, ci si accorge presto che questa ipotesi, seppure sostenibile, è estremamente improbabile: è improbabile, ad esempio, che solo per caso il mio corpo sia costantemente identico a quello degli individui che popolano il "sogno" dei miei incontri quotidiani. Allo stesso modo è non contraddittoria, ma improbabile, l' ipotesi che la Terra sia il centro immobile del cosmo. Queste considerazioni centripete mi sono tornate a mente leggendo un articolo in difesa degli animali ad opera di E. Chiavacci, teologo morale. Sono entusiasticamente d' accordo con le sue conclusioni, ma alcuni suoi argomenti mi lasciano perplesso. Sarebbe lecita una certa misura di sofferenza inflitta agli animali solo perché "ogni animale è al servizio dell' uomo": infatti, il creato è "dono di Dio all' uomo". Anche le Pleiadi? anche la nebulosa d' Orione? Un dono fatto all' uomo 15 miliardi d' anni prima che nascesse, e destinato a sussistere almeno altrettanto dopo che della nostra specie sarà estinta anche la memoria? Gli animali vanno rispettati perché "Dio trova buone tutte le creature", "dà loro cibo, le protegge": come ignorare i pazienti e crudeli agguati dei ragni, la raffinata chirurgia con cui (altro che vivisezione!) certe vespe paralizzano i bruchi, vi depositano dentro un singolo uovo, e vanno altrove a morire, lasciando che la larva divori a poco a poco l' ospite ancora vivo? Si può sostenere che anche qui Dio "prepara (agli animali) un luogo dove riposare"? Che dire dei felini, splendide macchine per uccidere? E dell' astuzia perfida del cuculo, assassino dei suoi fratellastri appena schiuso dall' uovo? Non certo che queste creature siano "cattive": ma pare necessario ammettere che le categorie morali, il bene e il male, non si attagliano ai subumani. La gigantesca sanguinaria competizione che è nata con la prima cellula, e che tuttora si svolge intorno a noi, sta al di fuori, o al di sotto, dei nostri criteri di comportamento. Gli animali devono bensì essere rispettati, ma per motivi diversi. Non perché sono "buoni" o utili a noi (non tutti lo sono), ma perché una norma scritta in noi, e riconosciuta da tutte le religioni e le legislazioni, ci intima di non creare dolore, né in noi né in alcuna creatura capace di percepirlo. "Arcano è tutto fuor che il nostro dolor"; le certezze del laico sono poche, ma la prima è questa: è ammissibile soffrire (e far soffrire) solo a compenso di una maggior sofferenza evitata a sé o ad altri. È una norma semplice, ma le sue conseguenze sono complesse, ed ognuno lo sa. Come commisurare i dolori degli altri coi propri? Ma il solipsismo è una fantasia puerile: gli "altri" esistono, e fra questi anche gli animali nostri compagni di viaggio. Non credo che la vita di un corvo o di un grillo valga quanto una vita umana; è perfino dubbio se un insetto percepisca il dolore al modo nostro, ma lo percepiscono probabilmente gli uccelli e certamente i mammiferi. È difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto può la tremenda mole di questa "sostanza" che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed è strano, ma bello, che a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi.

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I FIGLI DELL'ARIA

682327
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Uscì e si avvicinò a Darma che lo guardava con inquietudine, come già indovinasse che il padrone tornava ad abbandonarla. - Povera amica, - diss'egli con voce triste e ad un tempo commossa.- Ci rivedremo non temere, mia Darma. Nagor avrà cura di te. Volse altrove la testa e raggiunse i thugs. - Conducetemi al battello, - comandò. I sette uomini si disposero in fila indiana e si cacciarono nella foresta tenendo i fucili sotto il braccio per esser pronti a servirsene al primo allarme. Alle due del mattino essi giungevano sulle rive del fiume e precisamente in una piccola rada, nella quale, nascosta sotto un ammasso di bambù, scorgevasi una svelta imbarcazione, una specie di baleniera. I remi erano a posto, e v'era pure un albero fornito di una piccola vela. Non mancava che d'imbarcarsi. - Si scorge nessuno? - chiese Tremal-Naik. - Nessuno - risposero i thugs. - In barca. I sette uomini salirono a bordo e si spinsero al largo.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Resi arditi dalla complicità di quel miserabile, chiesero alla viaggiatrice cinquanta talleri ed un burnus nuovo, minacciando in caso contrario di abbandonarla nel deserto. È così, El-Haggar?" "Sì, signore," rispose il moro. "Il tunisino, anima vile e perversa, era d'accordo con loro." "La Tinnè, donna energica e risoluta, rifiutò recisamente, promettendo però di fare loro altri regali quando la carovana fosse giunta salva a Scenukhen. Tuttavia, temendo qualche brutta sorpresa da parte di quei ladroni, fece rimettere al loro capo un presente di valore. "Il giorno seguente i cammellieri, che si erano pure accordati coi Tuareg, cominciarono a dare segni d'insubordinazione, rifiutandosi dapprima di partire, poi sventrando alcuni otri. "La Tinnè sospettò qualche cosa, perché si è saputo che aveva divisato di tornare a Murgest, ma l'infame tunisino fu così abile nel rassicurarla, da indurla a riprendere la marcia verso il sud. "Il lo agosto erano già giunti nella valle dell'Aberdisciuk, lontani dalle oasi abitate. "La Tinnè aveva dato ordine dopo una notte tranquilla di levare le tende e di caricare i cammelli. Doveva essere l'ultimo ordine che dava; la sua morte era stata ormai decisa dai Tuareg e dal tunisino. "Già stavano per rimettersi in marcia, quando una viva questione insorse fra due cammellieri, pel carico dei bagagli. "Uno dei due marinai olandesi volle interporsi per rappacificarli. Un Tuareg si slanciò allora contro il disgraziato colla lancia alzata, gridandogli "Che hai tu per immischiarti in una questione sorta fra mussulmani?" "Aveva appena pronunciato quelle parole che il povero olandese cadeva al suolo trafitto. "Il suo compagno, Ary Jacobs, che si trovava già a cavallo, si slanciò verso l'assassino tentando di afferrare il fucile che aveva appeso alla sella, ma prima che avesse potuto armarlo cadde a sua volta, sotto un colpo di scimitarra e uno di lancia. "Alle grida delle donne e degli schiavi liberati, la signora Tinnè uscì dalla tenda, chiedendo che cosa succedesse. "I Tuareg ed i cammellieri si erano già precipitati sulle casse e le saccheggiavano, credendo che fossero piene d'oro come aveva dato loro ad intendere il tunisino, mentre i servi fuggivano vigliaccamente in tutte le direzioni. "La signora Tinnè comprese subito che la sua ultima ora era suonata, tuttavia cercò di calmare quei miserabili e d'imporsi colla propria energia. "Un arabo, certo Hman, della tribù dei Bu Sef, le passò dietro e le vibrò coll'jatagan un colpo sulla nuca facendola cadere al suolo svenuta e sanguinante. "Poche ore dopo la sfortunata signora spirava senza soccorso alcuno, mentre le sue ricchezze passavano nelle mani dei cammellieri e dei Tuareg. È così, El- Haggar?" "Sì, signore," rispose il moro. "E tu non l'hai difesa?" chiese Esther, con indignazione. "Ti credevo più coraggioso, El-Haggar." "Io ero stato abbattuto da un colpo di lancia, la cui punta mi aveva trapassato la spalla," disse il moro. "Quando tornai in me, dopo molte ore, la signora Tinnè era già morta." "Ed è rimasto impunito quell'assassinio infame?" chiese Ben. "Furono arrestati i servi, ai quali i Tuareg avevano dato alcuni cammelli perché tornassero a Murzuk, ma gli altri scorrazzano ancora il deserto," disse il marchese. "Anzi il dottor Bary incontrò più tardi l'uccisore della Tinnè nell'oasi di Ghat e lo udì ancora vantarsi di quel delitto." "E il tunisino?" chiese Esther. "Di quel miserabile, che osò perfino spogliare la Tinnè mentre era ancora agonizzante, non si seppe più nuova." "Che canaglie!" esclamò Ben. "Ah! Non è il solo delitto rimasto impunito," disse il marchese. "Anche l'assassinio dei signori Dournaux Duperrè e di Joubert non è stato vendicato." "Chi erano costoro?" chiesero Ben ed Esther. "Due coraggiosi francesi che si erano proposti di esplorare il Sahara al sud dell'Algeria e che furono vigliaccamente assassinati dai Tuareg. "Avevano già visitato felicemente parecchie oasi del Sahara, Dournaux studiando e Joubert negoziando, perché era un abile trafficante, quando ebbero la malaugurata idea di prendersi una guida tuarik, certo Macer-Ben-Tahar, un traditore forse peggiore del tunisino della signora Tinnè. "Si erano già molto inoltrati nel deserto, quando s'accorsero che quella guida cercava d'ingannarli e che per meglio riuscire nei suoi disegni cercava di allontanare la loro seconda guida. Amed-Ben-Herma, la quale invece aveva dato prove di fedeltà non dubbia. "Decisero quindi di sbarazzarsene e giunti a Ghedames la denunciarono al cumacan. Fu un'imprudenza di certo ed il magistrato, che conosceva l'animo vendicativo dei Tuareg, non mancò di avvertirli del pericolo. "Macer aveva infatti giurato di vendicarsi dei suoi ex padroni e non mancò alla promessa. "I signori Dournaux e Joubert si erano allontanati da Ghedames di alcune giornate, quando si videro raggiungere da sei tuarik che parevano affamati e miserabilissimi. "Avendo chiesto ai due francesi ospitalità con pianti e lamenti, furono ricevuti nel campo e provvisti di cibi. Erano sei assassini mandati dal vendicativo Macer. Di notte, mentre i due francesi dormivano, quei miserabili invasero la tenda e li trucidarono barbaramente a colpi di pugnale." "E nemmeno quei disgraziati furono vendicati?" "I loro assassini scomparvero nell'immensità del deserto e più nessuno si occupò di loro." "Abbiamo fatto bene a dare loro quella severa lezione," disse Rocco. "Se avessi saputo, ciò prima, invece che sui cammelli avrei sparato contro gli uomini. Forse quei bricconi avevano preso parte all'assassinio dei signori Dournaux e Joubert e fors'anche a quello della missione Flatters e ... " Rocco si era bruscamente interrotto. I suoi sguardi si erano incontrati a caso con quelli del sahariano, ed era rimasto stupito dal lampo terribile che balenava negli occhi di costui. "Che cosa avete, El-Melah?" chiese. "Perché mi guardate così?" Tutti si erano voltati verso il sahariano e rimasero colpiti dall'espressione cupa del suo volto. "È nulla," disse El-Melah, ricomponendosi. "Udendo questi racconti sanguinosi, ho avuto un'impressione sinistra." "Comprendo," disse il marchese. "Avete assistito troppo di recente a una simile strage." "È vero, signore," disse il sahariano. "Vado a riposare, se me lo permettete." S'alzò quasi a fatica e uscì dalla tenda con passo malfermo. "Flatters!" mormorò coi denti stretti, gettando all'intorno uno sguardo smarrito. "Che non lo sappiano mai, almeno fino a Tombuctu." Alle tre del mattino, dopo un riposo di sei ore, il marchese faceva suonare la sveglia, desiderando giungere ai pozzi di Marabuti prima che il sole, che fra poco doveva mostrarsi, tornasse a scomparire. Durante la notte nessun allarme era stato dato dagli uomini di guardia. Alle quattro la carovana, dopo una leggera colazione, si rimetteva in cammino scendendo una immensa pianura che, in tempi certo antichissimi, doveva essere stata il fondo d'un vasto serbatoio d'acqua salata, a giudicare dalle masse di sale che si vedevano sparse fra le sabbie. Il marchese e Ben si erano ricollocati alla retroguardia e Rocco come sempre all'avanguardia a fianco di El-Haggar. Le vicinanze dell'oasi di Marabuti s'indovinavano facilmente pel numero considerevole d'animali che si vedevano correre in mezzo alle dune. Di quando in quando, ma a grande distanza, e quindi fuori di portata dai fucili, si vedevano fuggire bande di struzzi e di grosse ottarde. Talora invece erano truppe di sciacalli dalla gualdrappa, specie di cani selvaggi colla testa da volpe, gli orecchi grandissimi, gli occhi grossi, le code lunghissime, ed il pelame rossastro, fitto e morbido, che diventava giallognolo sotto il ventre, col dorso coperto da una specie di gualdrappa nera a strisce bianche, del più curioso effetto. Al pari dei caracal questi sciacalli non sono pericolosi per gli uomini, tuttavia non mancano d'audacia e osano entrare perfino nei duar onde mangiare ai poveri montoni la grossa coda, un boccone squisito e molto apprezzato dai sahariani. Anche qualche iena striata di quando in quando si mostrava sulla cima delle dune, facendo udire il suo riso sgangherato; ma all'appressarsi della carovana subito s'allontanava al galoppo. A mezzodì El-Haggar, che si era spinto innanzi alcune centinaia di metri, segnalò una linea di palme, la quale spiccava vivamente sul purissimo orizzonte. "L'oasi!" gridò, con voce giuliva. "Presto! là avremo acqua fresca e selvaggina!" Anche i cammelli avevano fiutato la vicinanza dell'acqua. Quantunque stanchissimi, affrettarono il passo, mentre i mehari non si trattenevano che a grande stento. "Ben," disse il marchese, "precediamo la carovana. Sono impaziente di godermi un pò d'ombra e di bere una buona tazza d'acqua." "Sono con voi, marchese," rispose l'ebreo. Spronarono i cavalli, lanciandoli a corsa sfrenata. Le palme ingrandivano a vista d'occhio, spiegandosi in forma d'un vasto semicerchio. L'effetto che produceva quel verde in mezzo alle aride ed infuocate sabbie del deserto era così strano, che il marchese stentava a credere d'aver dinanzi a sé delle vere piante e dubitava che si trattasse invece d'uno dei soliti giuochi del miraggio. "Si direbbe che quell'oasi sia un'isola perduta sull'oceano," disse a Ben. "Ed è anche popolata, marchese," rispose l'ebreo, rattenendo violentemente il cavallo. "Vedo dei cammelli, in mezzo a quelle piante." "Che appartengano a qualche carovana proveniente dalle regioni meridionali?" "O che siano i nostri Tuareg? Possono averci preceduti e senza difficoltà, avendo tutti dei buoni mehari." "Se sono essi daremo battaglia e questa volta non saranno gli animali che cadranno." Ben non si era ingannato. Parecchi cammelli e mehari, montati da uomini vestiti di ampi caic bianchi e coi volti quasi interamente nascosti da pezzuole legate dietro la nuca, si erano schierati dinanzi ai gruppi di datteri e di palme che formavano l'oasi. Non dovevano essere quelli che li avevano inseguiti, perché erano tre volte più numerosi e per la maggior parte armati di lance. Anche gli uomini della carovana si erano accorti della presenza di quegli stranieri. Rocco ed El-Haggar accorrevano in aiuto del marchese e di Ben, l'uno col mehari e l'altro montato sull'asino. Dieci Tuareg, preceduti da un uomo di alta statura che portava un turbante verde, un capo di certo, s'avanzavano tenendo le lance in pugno. Quando giunsero a cento passi dal marchese, l'uomo dal turbante. verde lo salutò con un "Salam-alek" molto cortese. Poi, assumendo improvvisamente un'aria spavalda, gridò: "I pozzi sono occupati da noi e per ora ci appartengono: che cosa volete quindi voi, figli del sultano del Marocco?" "Noi siamo assetati, desideriamo bere," rispose El-Haggar. "L'acqua del deserto appartiene a tutti ed i pozzi sono stati costruiti dai nostri padri." "I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare." "Che cosa chiedi?" "Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli." "Ladro!" gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. "Ecco la mia risposta!" Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo. Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando: "Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!"