Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonarci

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Racconti 2

662719
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Una fine dobbiamo farla, non possiamo rimanere perpetuamente innamorati, e nelle circostanze in cui ha avuto la crudeltà di abbandonarci!" Mi sentivo ammattire. Capivo che era affare di nervi, di allucinazione proveniente dallo sconvolgimento prodotto in me dai casi in cui mi ero impigliato; e intanto non sapevo come dominarla, come scacciarla! Voi ridete; vi sembra assurdo che un uomo cosí solidamente imbastito possa essere giunto a tal estremo; ma in questo momento io non invento niente, caro amico! Quell'idea diventava una fissazione, una persecuzione. Me li sentivo attorno, dovunque, imploranti: "O dunque? Ci lascia cosí? Né in cielo, né in terra?" Ah! Il pensiero di riprendere in mano la novella mi faceva sudar freddo. Temevo che non dovessero accadermi peggiori complicazioni delle già sofferte; e mandavano al diavolo l'amico che mi aveva soffiato il maligno suggerimento di diventar novelliere. Finalmente, una notte che non ero riuscito a chiuder occhio, e l'allucinazione aveva preso tale intensità che io vedevo e udivo quei due quasi fossero persone vive, balzai dal letto, in camicia, a piedi scalzi, corsi a cavar fuori dal baule le infami cartelle; e scritta, rapidamente, nell'ultima mezza pagina questa laconica chiusa: "Una pleurite uccise Giulio; il dolore e la febbre tifoidea sopraggiunta uccisero Ernesta!" tracciai con mano convulsa la parola: "Fine!" Fui liberato, per sempre! Ed ora voi vorreste che tornassi a tentare? Nemmeno, ve lo giuro, per tutto l'oro del mondo! Il dottor Maggioli si era allontanato, continuando a dir di no coi gesti, di no, di no! Ebbene, non ho potuto mai sapere con certezza se quella sera egli mi abbia detto la verità o si sia burlato di me con quest'altra improvvisazione. Non vorrei, però, che l'aver trascritto, alla peggio, queste ed altre sue storielle (ne lascio inedite parecchie) potesse essere creduto una specie di mia vendetta contro il povero dottor Maggioli, e menomarmi l'indulgenza dei lettori del Decameroncino .

. - Figliaccia di mamma senza cuore, non devi aver cuore neppur tu, se pensi di abbandonarci dopo che per allevarti e per tirarti su ci siamo tolti il pane di bocca! - Don Peppantonio intanto la guardava sottecchi, intenerito. Se non fosse stata presente la megera di sua sorella, avrebbe anche fatto una carezza alla povera figliuola che singhiozzava in un canto. - Ecco ora le lagrimette! - brontolava donna Rosa. Don Peppantonio voleva tagliar corto: - Dobbiamo dirlo, sí o no, il santo rosario? Aveva preso in mano la corona e s'era levata la tuba bianca, che teneva in capo anche per casa. - Dio ti salvi, o Maria, piena di grazie ... - - Santa Maria madre di Dio ... - rispondeva donna Rosa a bocca stretta, mentre andava rimettendo al loro posto piatti e bicchieri. Tegònia rispondeva sottovoce, con l'orecchio al figlio di maestro Mommo che dalla strada canticchiava: - Haiu accattatu lu 'ngannalarruni, 'ntintiri, 'ntontari vogghiu sunari ... - Ed era il segnale che quella notte si sarebbero parlati di dietro la porta. Don Peppantonio, ravviluppato fino agli occhi nel suo gran ferraiolo di panno turchino cupo, col vecchio cappello di felpa grigia calcato sopra il naso, entrò nella farmacia battendo i piedi pel freddo e mugolando un saluto. - Sedete - gli disse Vito che impastava pillole sul marmo del pancone. - Dove? Su le tue corna? - brontolò don Peppantonio. Infatti le quattro seggiole della farmacia erano tutte occupate. - Sedetevi qui - soggiunse il notaio Pace. - Io vado via. Non mi ringraziate neppure? - Poiché andate via ... Vorreste portarvi la seggiola dietro? - La farmacia era piena di sfaccendati entrati a ripararsi dalla tramontana che soffiava cosí forte da levar la pelle. L'arrivo di don Peppantonio aveva suscitato un sussurro di buon umore, e la sua risposta al notaio fece scoppiare una sonora risata. Don Peppantonio levò la testa e guardò attorno insospettito. - Avete pensato a confessarvi pel santo Natale? - gli domandò il canonico Stuto che soleva stuzzicarlo. - Che ve n'importa? - M'importa, per la salute dell'anima vostra. Siamo vecchi, caro don Peppantonio, e dobbiamo pensare che si muore. - Crepate, se vi fa piacere! - Sentite i violini della novena? Dovreste andare a cantare il magnificat con tutti gli altri. - Già, con tutti quei ladri di bottegai e di merciai che fanno in piazza la novena del Bambino per darla a intendere! La giusta novena per essi sarebbe non rubare nel peso. - Il Bambino Gesú però li aiuta ... - Vuol dire che è piú ladro di loro! Non mi fate dire sciocchezze -. E mentre tutti ridevano, egli conficcava il mento dentro il bavero del ferraiolo, soffiando, agitando le sopracciglia setolose, tornando a pestare coi piedi. - La novena don Peppantonio la celebra in campagna, a Jannicoco - disse Vito, arrotondando due pillole tra le dita. - E il bambino Gesú lo chiama dall'alto: "Ooo, don Peppantooonio!" - Eri tu, dunque! Eri tu! - urlò don Peppantonio, levandosi da sedere inviperito. - Se non ti rompo la testa io, non te la rompe nessuno! - Lo chetarono, lo rimisero a sedere. Vito e don Peppantonio erano come il diavolo e san Bernardo; non potevano trovarsi insieme un momento senza bisticciarsi. Alcuni giorni addietro, a Jannicoco, Vito lo aveva visto nell'orticino dietro la casa. Curvo, con la tuba in testa e in maniche di camicia, dava lenti colpi di zappa per non sciupare le piante tenerelle. Dall'alto della collina, nascosto dietro un albero, Vito s'era messo a gridare, ingrossando la voce: - Ooo don Peppantooonio! - Don Peppantonio, rizzatosi, aveva risposto: - Oh, ooh! ... Chi mi chiaama? - Ooo don Peppantooonio! ... - E don Peppantonio, irritato, spolmonandosi, con le mani attorno alla bocca: - Oh, ooh! ... Siete sordo? Che volete? - Andate a farvi ... friiiggere! Oh, oooh! - Vito aveva riso mezza giornata, ripensando i gesti furibondi e la litania di parolacce brontolata da don Peppantonio all'indirizzo del suo burlatore invisibile. Perciò don Peppantonio era scattato come una molla nella farmacia, riconoscendo chi si era divertito a canzonarlo a Jannicoco. - Via, via! queste sono giornate sante; dobbiamo perdonare le offese - gli diceva il canonico, ridendo fino ad averne la tosse. Don Peppantonio taceva; intanto pestava piú forte coi piedi, e scrollava la tuba di felpa grigia, guardando Vito di traverso. - Facciamo la pace. Volete una pillola di scialappa? - gli disse Vito serio serio. - Volete una mestolata di alchermes? - Questa, sí, dovresti darmela davvero. - Se non chiedete altro! ... Vito s'era accostato grattando col mestolo l'alchermes risecchito nelle pareti della boccia di cristallo. - Mi dai le grattature? - brontolò don Peppantonio. - È il meglio. Ecco qui. Vedete, se vi voglio bene? - Infine, non è cosa tua; lo rubi al tuo principale. - Questo è il ringraziamento! Perché, invece, non m'invitate a casa vostra per la vigilia di Natale? Verrei a giocare alle nocciole con Tegònia, che diventa piú bella da un giorno all'altro. Cosí non si annoierebbe, poverina! - Non devi neppur nominarla, capisci? - egli rispose, agitando minacciosamente la mano callosa e pelosa. La conversazione era tornata intorno al presepe che preparavano nella chiesa di santa Agrippina per la notte del Natale. Se ne dicevano meraviglie: - Il bue e l'asinello paiono vivi. - Sull'altare? - domandò don Peppantonio. - Certamente - rispose il canonico. - Gesú li volle vicini nell'ora della sua nascita per insegnarci l'umiltà. O che non siete cristiano? - Con tanto di battesimo, piú di voi. Ma il bue e l'asinello non ce li metterei su l'altare. - Chi ci mettereste? - Voi e un altro canonico; e varrebbe lo stesso. - Andate a confessarvi di questi peccatacci di maldicenza! - Domineddio li sa tutti, fino a uno, i miei peccati. Non me li fa commettere lui? - Voi bestemmiate. - Ve lo provo. Ieri vo a Jannicoco per quelle quattro ulive; quest'anno, sia ringraziata la divina Provvidenza, c'è pane per tutti ... Arrivo, levo il basto all'asino ... e comincia a piovere a dirotto, quasi non ci fossero ulive per terra che andavano perdute fra la mota! ... "Al signore piace cosí; facciamo la sua volontà!" dico io. E, per passare il tempo, comincio a recitare il santo rosario ... Al quarto mistero, spiove, e il cielo si rasserena. Cavo fuori i panieri, e mi metto a raccog liere le ulive; mi piangeva l'anima nello scavarle con le ugne fra il terreno smosso dall'acqua. Ed ecco la pioggia, piú forte di prima! "Al Signore piace cosí; facciamo la sua volontà!" ripeto io ... E rientro, e torno a recitare il santo rosario. Dopo tre ore di diluvio, spiove; il cielo si rasserena. Bravo! Grazie tante! ... Era già tardi. Metto il basto all'asino, sto per montare a cavallo ... e la pioggia ricomincia piú fitta, piú insistente. "Oh! ... Divertitevi pure, Signore! - mi sca ppa di bocca. - Rosario però non ne recito piú!" E attesi il sereno, con le braccia in croce, masticando pazienza, giacché Domineddio godeva a divertirsi a quel modo. - Che pretendevate? Un miracolo? - lo interruppe il canonico. - Lo fece il miracolo, appena fui a un terzo di strada, lusingato dal sereno. Aperse le cateratte del cielo addosso a me e al povero asino che non sapeva piú dove mettere i piedi. Quattro miglia sotto la pioggia, inzuppato come una spugna, fino alle prime case del paese! ... E, quando son lí, ecco il sereno, ecco il sole al tramonto che spunta tra le nuvole, lieto e luminoso, quasi intendesse burlarsi di me! ... Non feci bene a smontar dall'asino, a calarmi i pantaloni e a voltar la schiena al sole con un bel: "Baciami qui?" E aggiungendo la mimica alle parole, rivolte rabbiosamente le spalle al canonico, don Peppantonio s'era tirato su le falde posteriori del ferraiuolo, fra le risate di tutti gli astanti; poi s'era rimesso a sedere. - Il Signore ve ne chiederà conto dopo morte! - disse il canonico che non ne poteva piú dal troppo ridere. - Oh, ce la vedremo in paradiso, a quattr'occhi! Che mi potrà dire? - Per amor tuo, son nato povero, nel cuor dell'inverno fra il bue e l'asinello, in una misera grotta! - rispose il canonico in tono di predica, frenando a stento le risa. - Ed io, Signore, piú povero di voi, nel cuor dell'inverno, e senza bue e senz'asinello che mi scaldassero: ecco! - Sono stato messo in croce per te, pei tuoi peccati! - Una sola volta. Io, tutti i giorni, dal ricevitore, dall'esattore, dal bisogno, dalla tosse, dalla podagra, dalle febbri, per settant'anni, settanta! Ecco! E soggiungerò: "Voi, Signore, quando andavate pel mondo non dovevate pensare a niente, non facevate niente. Io, invece, zappare, arare, seminare, mietere, trebbiare, lavorare peggio di un animale, se non volevo crepar di fame. Voi, con tanto di faccia tosta, vi presentavate in casa altrui, e dovevano imbandir la tavola per voi e pei vostri discepoli. M ancava il vino? Mutavate l'acqua in vino. Io, invece, dovevo comprarlo, e mezzo aceto, quando per caso avevo i soldi da comprarlo". - Zitto! Non dite eresie! - lo interruppe il canonico. - Me le fate dir voi! Tutt'a un tratto, s'intese la campana della chiesa della Mercede che sonava l'avemmaria. Don Peppantonio si levò da sedere, si tolse di capo la tuba e, segnandosi, socchiudendo gli occhi, cominciò a recitare devotamente: - Angelus Domini annunciavit Mariae! - Perché non volete dargliela al figlio di mastro Mommo? - gli domandava Vito. - Perché cosí mi piace, - rispondeva don Peppantonio. - Bada a pestare! - Aspettate forse che venga a chiederla il barone Mondello? - Aspetto ... le corna che tu hai in testa. Hai capito? - Io gliela darei al figlio di maestro Mommo - insisteva Vito, ridendo sotto il naso. - Dagli tua sorella. - Se l'avessi! ... - Dategliela, don Peppantonio, dategliela avanti che nasca uno scandalo - aggiungeva il canonico Stuto con voce melata. Allora don Peppantonio scoppiò: - Lo scandalo lo date voi, che prima fate una visita alla moglie di don Paolo il sagrestano, e poi andate a dimessa e a bere il sangue di Cristo! ... Benedette le mani di Vittorio Emanuele che vi hanno tolto la pagnotta! - No, non voleva sentirne parlare dello stronzolo del figlio di mastro Mommo, che non sapeva dare tre punti a una ciabatta e non aveva di proprio neppure una forma! - Con che manterrà la moglie? Se deve crepar di fame, è meglio che Tegònia resti in casa nostra; almeno, lí, un tozzo di pane non le mancherà mai -. E un giorno che incontrò maestro Mommo, fuori Porta, sotto gli alberi del gran viale, gli disse: - Lo fate star cheto vostro figlio? O debbo mandarvelo a casa con le gambe rotte? - Maestro Mommo si era messo a ridere: - Cose da ragazzi! Che volete farci? - Ah, la intendete a questo modo! Vedrete -. Infatti la notte che Pietro condusse sotto la casa di Tegònia mastro Nunzio col violino e tutti gli altri della compagnia, appena il contrabasso cominciò a fare zun zun, don Peppantonio aperse a un tratto la finestra, e versò cert'acqua d'odore che il povero Pietro, tornato a casa, dovette rifarsi dalla camicia. Aveva dovuto anzi scappare, perché il vecchio arrabbiato era sceso giú con tanto di randello in mano, in mutande, e voleva rompergli le gambe davvero, come aveva promesso a mastro Mommo. Invece si b uscò una polmonite che per poco non lo portò via. E, dopo due mesi, allorché tornò al sole su gli scalini della chiesa del Collegio di Maria, con la tuba bianca calcata su le orecchie, imbacuccato nel ferraiuolo di panno turchino e cosí sfilacciato agli orli che pareva con la frangia, Vito gli disse: - Mi rallegro, don Peppantonio! Levatevi però di lí; il sole vi fa male -. E lo invitò a sedere nella farmacia dove erano riuniti il canonico Stuto e i soliti amici dello speziale, che volevano divertirsi. - Non lo capite? È il gastigo di Dio. Avete visto la morte con gli occhi, eppure siete sempre ostinato -. A queste parole del canonico, don Peppantonio si alzò la tuba su la fronte e aperse il ferraiuolo: - O che Domineddio deve prendersela con me, verme di terra? Bella valentia! Dovrebbe prendersela con un Dio pari suo; allora andrebbe bene. Contra folium quod vento rapitur! ... Credete forse che io non sappia il latino? Homo natus de muliere ... Lo so anch'io, perché dovevo farmi prete, e sono stato in seminario, mentre oggi i sacerdoti non capiscono quel che leggono e, meo, meo, catamèo, purché intaschino quattrini. Invece io lo capisco; e so che Giobbe gliele spiattellò chiare e tonde a Domineddi o. E fece benissimo; perché il Signore si abusa della propria potenza e ci manda addosso tanti malanni che non li sopporterebbe neppure un macigno. Egli se ne sta lassú, in paradiso, fra gli angioli e i santi che cantano e suonano, e fa orecchi di mercante quando gli gridiamo: "Dateci il pane quotidiano!" Già voi lo vedete; con questa mala annata, la povera gente muore di fame come le mosche; se uno ha un boccone di pane oggi, non è certo di averlo domani ... - State zitto! Non bestemmiate piú, se no vi si sprofonda il terreno sotto i piedi! - gli disse il canonico, che rideva piú degli altri. - E perché intanto andate a messa? Perché vi confessate? - aggiunse il notaio. - Perché? Perché altrimenti Domineddio mi manderebbe all'inferno. Che potrei fargli? E poi ... le cose sante e giuste piacciono anche a me. La messa e la confessione le ha ordinate Gesú Cristo; e il santo precetto della Pasqua, pure. Perciò ogni anno vo' a confessarmi da compare il prevosto e gli porto un bel mazzo d'asparagi ogni volta, fino a che non mi dà l'assoluzione. Quando compare prevosto, che prende il sole sulla terrazza, mi vede arrivare senza asparagi, mi domanda di lassú: "Compare, c'è nien te di nuovo?" "Niente, compare" E mi dà l'assoluzione dalla terrazza, e vado a farmi il santo precetto ... Che trovate da ridere? ... Ah, in questa farmacia si intirizzisce! - Fu appunto quel giorno che Vito, vedendolo addormentato su gli scalini della chiesa del Collegio di Maria, con la testa abbandonata sul petto, gli fece il brutto scherzo di mandare a dire a donna Rosa e a Tegònia che don Peppantonio era stato colpito da un accidente; e le due povere donne accorsero, senza neppure un fazzoletto in testa, urlando e piangendo - Fratello mio! Babbo mio! - Commedia da morir dalle risa. Don Peppantonio, svegliato a un tratto da quegli urli, accompagnò a calci e a pugni la sorella e Tegònia fino a casa, infuriato come un toro, con la tuba bianca di traverso, strascinando il ferraiuolo che gli era cascato da una spalla. L'accidente però gli prese davvero la mattina che donna Rosa andò a cercare Tegònia nella sua cameretta e non la trovò, perché la notte era scappata di casa con Pietro di mastro Mommo, e non si sapeva dove fossero andati a nascondersi quegli scellerati che le ammazzavano il fratello! Il povero don Peppantonio non se l'aspettava; e dal lettuccio guardava con occhi stralunati, e non capiva e non sentiva, come un tronco. Invano il prevosto gli urlava all'orecchio: - Compare, dite cosí "Gesú, Giuseppe e Maria, salvate l'anima mia!" Compare, perdonate a tutti! ... Stringetemi la mano! - Don Peppantonio non poteva piú stringergliela, rigido, inerte. Era già andato a fare i conti con Domineddio, come soleva dire. E mentre egli moriva, colei ch'era stata da lui raccolta appena nata - avvoltolata fra due cenci, dietro la porta grande del Monastero Vecchio, una fredda notte di gennaio, e poi allevata e cresciuta e amata come vera figliuola - mentre egli moriva, Tegònia, nella cameretta del mulino dello zi' Cola, domandava sorridendo al suo Pietro: - Mi vuoi bene? Roma, 27@ 27 dicembre 1882@. 1882.

ARABELLA

663067
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Da lei sola stava per dipendere ora la libertà, l'onore, la vita di suo padre, la vita e l'onore di un povero giovane; e in questa totale dipendenza da lei, Ferruccio provava la spinta che ci trae ad abbandonarci nei momenti della disperazione nelle braccia aperte di una mamma. Verso la mattina piegò la testa anche lui sul letto e si addormentò di un sonno chiuso e senza sogni, quale prende un uomo sfinito dal lungo cammino. La Colomba raccomandò a Nunziadina di star quieta in letto, cacciò le gambe, si vestì in fretta e guidata dalla luce bianca del cielo, si preparava ad uscir di casa per parlare al padre Barca, uomo influente e giudizioso. Volle prima dare un'occhiata al vecchio e al ragazzo: dormivano tutti e due, l'uno colla schiena appoggiata al muro, l'altro raggomitolato sul letto. Fece il segno della croce e uscì dalla porta a vetri che mette sulla ringhiera. Ma si tirò indietro spaventata. Nel cortile c'erano due guardie di questura. Si attaccò colle mani alle imposte per reggersi, e sentì cinque o sei colpi tremendi nello stomaco, come se glielo picchiassero col martello. Chiuse la finestra e colle due mani sulle orecchie corse nello stanzino dove dormiva il ragazzo. Stette ancora un minuto sospesa, come se tardasse apposta, per carità, a dargli il terribile colpo; ma quando sentì che picchiavano all'uscio della scala, pose una mano sulle mani del nipote, lo scosse e disse: "Ferruccio..." "Che c'è? che c'è?" "Ci son le guardie." "Dove?" "In corte... Senti che picchiano." Ferruccio sollevò la testa e stette col viso stravolto, forse senza capire. "Che cosa si fa? O cari angeli, che cosa si fa?" Di fuori picchiarono più forte, finché anche il vecchio si scosse dal suo letargo. Ferruccio saltò dal letto, si abbottonò la giacca, ficcò le mani nella folta selva dei capelli e disse: "Non aprite, ci penso io". Andò in cucina intanto che suo padre, irrigidito dal freddo e intorpidito dal sonno e dalla cattiva posizione, cominciava a brancolare sul suolo per tirarsi su. Ferruccio ripeté: "Ci penso io..." E aprì il cassetto del tavolo di cucina per trarne un comune coltello. La zia Colomba che gli teneva dietro, lo afferrò ai polsi e mettendogli il viso quasi sul viso, con un'espressione risoluta gli disse tre volte di no, con tre rapide scosse della testa: "No, figliuolo, il coltello no: no". Ferruccio si lasciò dolcemente disarmare. In quel punto una delle guardie, che pareva il capo, comparve sulla ringhiera, sforzò senza molta fatica le vecchie e tarlate imposte della finestra lunga che metteva sul ballatoio, entrò, e disse con tono d'uomo ragionevole che sa di parlare a persone ragionevoli: "Stiano zitti, buona gente, che è il meglio che si possa fare. Siamo venuti di buon'ora apposta per non dare troppo disturbo. Siete voi il Pietro Berretta?" "Sono innocente, o misericordia! No, Ferruccio, salvami, fammi scappare..." pregò il vecchio portinaio, aggrappandosi alle braccia del figliuolo. E senza aspettare che gli mettessero le mani addosso, corse a rifugiarsi nello stanzino, affrettandosi a chiudere l'antiporto dietro di sé. La guardia ch'era nella stanza, vista la mossa, corse per tagliargli la strada; ma Ferruccio, acciecato da un fiotto di sangue che gli montò al capo, urtò con tutta la forza nel tavolo di cucina e lo rovesciò contro lo sbirro, che sospinto da quella strana macchina, barcollò sulle gambe e cadde mettendo i gomiti nei vetri della finestra. All'urto, al crepitìo dei vetri sull'ammattonato, la Colomba mandò un grido e corse a rifugiarsi nella stanza di Nunziadina, che alzò dal cuscino la piccola testa imbacuccata, per chiedere il motivo di quel diavolo in casa. Intanto il Berretta ebbe tempo di chiudere l'uscio per di dentro contro gli sforzi di una seconda guardia, che, entrata dalla porta principale, cominciava un lavoro di leva. L'uscio nella sua fragile costituzione non avrebbe resistito a lungo, se Ferruccio, inferocito dalla guerra, visto che il maggior pericolo era da questa parte, non avesse lasciato il primo sbirro intrigato nelle gambe del tavolo per scagliarsi sull'altro. Lo afferrò colle mani alla vita, e puntando un piede al muro collo slancio e col vigore elastico de' suoi vent'anni, riuscì a strappare la guardia dall'uscio, innanzi al quale si piantò lui, pallido come un cadavere, ansante, ruggente, non armato che della sua generosa sventatezza. La lotta stava per cominciare da capo, se la prima guardia, uscita tra la finestra e il tavolo, col viso e colle mani tagliuzzate dal vetro, per spirito brutale di vendetta non l'avesse assalito colla spada sguainata, correndo a colpirlo col pomo di questa sul viso e sulla testa, assalendolo di fianco e mandandolo ruzzolone col capo in sangue in un canto della stanza. Le due guardie non ebbero difficoltà a levar dai gangheri l'uscio e a metter le mani sul vecchio imprudente. Ma intanto al diavolo si erano risvegliati i pochi casigliani e la gente cominciò a radunarsi sulla porta delle "due beate". Da un piccolo male Ferruccio ne aveva fatto nascere dieci grossi, oltre ai pettegolezzi e al disonore e allo spavento delle donne. Ma a vent'anni non si sa ancora scegliere con giudizio in mezzo ai mali.

Malombra

670414
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

"Bene, bene, stia di buon animo, si ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla tristezza e vada a riposare che è tardi." Prima d'entrare in camera Edith origliò all'uscio socchiuso di suo padre. Dormiva. Non vi poteva esser per lei sonno più dolce, più commovente del suo respiro placido, eguale come quello d'un bambino. Andò a posar il lume nella propria camera, tornò lì al buio, appoggiò la fronte allo stipite ascoltando, cercando una pace, una forza di cui aveva bisogno. In quel momento le ore pesanti caddero a una a una dall'orologio del campanile, batterono con la loro gran voce solenne sul tetto, sulle scale, sui pavimenti sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con sgomento, come se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche formidabile ospite inatteso. Erano le dieci e mezzo.

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

678072
Marchesa Colombi 1 occorrenze

"Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

CAINO E ABELE

678775
Perodi, Emma 1 occorrenze

- mormorava egli chinando il capo rassegnato e cercava di scacciare quel pensiero, che era una chimera, un sogno, per abbandonarci alla contemplazione spirituale di Velleda. Roberto la vedeva vegliare tutta la notte accanto al letto di Maria, sussultare al più lieve rumore e tanto precisa era la visione evocata dalla fantasia; che tendeva l'orecchio come se volesse afferrare il fruscio che facevano le vesti leggiere di lei quando movevasi andando a origliare alla finestra o alle porte, aggirandosi inquieta e trepidante per quella stanza nella quale egli da molto tempo non aveva messo piede. L'ultima volta che vi era stato, se ne rammentava Bene, era la vigilia di Natale. Maria aveva la febbre e Roberto era entrato dietro al dottore e ne era uscito subito commosso. La stanza semplice era piena di lei, del profumo sottile che emanava dalla sua pelle delicata, dai piccoli oggetti che ella soleva usare di continuo. In uno scaffale chiuso vi erano i libri scritti da Veliera, che rappresentavano il passato, sotto, una tavola con i quaderni di Maria, i libri sull'insegnamento, che rappresentavano il presente, cioè un'occupazione arida da cui scompariva la personalità, l'ingegno; una rinunzia coraggiosa ai sogni dell'artista, un annichilimento volontario che ella aveva preferito alla gloria, che le prometteva grandi soddisfazioni, mescolate ed acerbi dolori. Lungamente Roberto s'indugiò con il pensiero in quella camera quasi verginale, ma ad un tratto si scosse rammentando che occorreva rimettersi agli affari, e dopo aver telegrafato a Velleda, annunziandole che non partiva più, andò al palazzo Astura ad attendere l'acquirente. Era questi uno svizzero grasso, sorridente, un vero uomo d'affari, il quale giunse puntuale al convegno e girando insieme con Roberto per le vaste sale del pianterreno, toccava le stoffe delle portiere, squadrava i mobili, i ninnoli e ripeteva sempre: Quanto danaro sciupato! Quanti capitali immobilizzati! Ora a venderla tutta questa roba non ci si prenderebbe nulla! nulla! Era quello il sentimento anche di Roberto, ma gli dispiaceva di sentirlo esprimere da un uomo volgare, al quale del resto, in quel momento, non voleva inffliggere un biasimo per non disgustarlo dall'acquisto, e silenziosamente lo seguiva nelle stanze, scendeva e saliva dietro a lui, con una pazienza impostagli dalla situazione. E sempre il grasso svizzero, per deprezzare il palazzo, diceva quanto avrebbe dovuto spendere per ridurre i piani superiori a uso d'albergo, i capitali che gli occorrevano per ammobiliare le camere, e tutte queste lamentazioni terminavano con il solito ritornello : Ho offerto anche troppo, non posso dar di più, non posso davvero. Se avessi calcolato meglio le spese da fare, avrei fatto un'offerta minore, ma la cifra è detta. Roberto faceva obbiezioni, si mostrava incerto, adducendo per pretesto che il palazzo non era suo, che cedendolo per quella somma si addossava una responsabilità troppo grande; cercava tutti i mezzi per strappare al compratore qualche migliaio di lire di più, ma l'altro teneva duro, e finalmente Roberto, per non mandare a monte l'affare, annuì. Lo svizzero era di quegli uomini che hanno sempre fretta e che non rimettono mai al domani quello che possono far subito. Egli volle che Roberto andasse insieme con lui dall'avvocato per firmare il compromesso e lì sul momento sborsava la caparra, rimettendo a otto giorni la stipulazione del contratto e il pagamento della intiera somma. Ora che l'affare era conchiuso, si mostrava raggiante e nella sua vanità di proprietario diceva che a Roma ne altrove vi sarebbe stato un albergo come il suo al quale voleva dare il nome pomposo di Hôtel dell' Urbe UrbeAnche Roberto era contento e si applaudiva di non essere partito. Con quella vendita rapidamente conclusa, evitava tante vergogne, tanti scandali, rigenerava moralmente suo fratello. Egli andò a recare la buona notizia alla vecchia duchessa d'Astura, che in quei giorni, tutta afflitta per Franco, che nella sua estrema indulgenza scusava con tenerezza materna, aveva scritto più volte a Roberto per sapere come stavano le cose. Figlio mio, - diceva ella vedendo Roberto e buttandogli le braccia al collo, - tu ci hai salvati. Che il Signore ti benedica e benedica la tua piccina! Prima di morire penserò a lei, non dubitare. Maria non ha bisogno di nulla, - disse Roberto rammentando l'ostilità della duchessa al suo matrimonio. Lo so che sei ricco, molto ricco, ma nel commercio si può perdere a un tratto un patrimonio, le imprese rovinano; vedi che cosa è successo a Franco. Zia, - rispose Roberto, - il suo esempio non mi sgomenta. Egli s'è condotto come un fanciullo; io sono un uomo. La vecchia dama chinò la testa dinanzi a quella sobria affermazione di forza, e per la prima volta pensò che suo marito avrebbe fatto meglio a istituire suo erede Roberto, nelle cui mani il patrimonio Astura non sarebbe stato sperperato. La duchessa voleva che il nipote lasciasse l'albergo e andasse a stare da lei e non sapeva più che cosa fare per dimostrargli la sua gratitudine. Roberto ricusò dicendo che da lui capitava tanta gente e di ogni conio, che non gli piaceva di riceverla nel palazzo. .Ma di quella offerta fu lieto; ormai i parenti, e avelie la vecchia dama, si ricredevano sul conto suo, ormai dimostrava loro che sua madre aveva avuto torto di pronosticargli che avrebbe dovuto vivere delle largizioni del fratello. Era una tarda riparazione, che lo compensava di molte amarezze. Prima di accomiatarsi promise che sarebbe andato una sera a pranzo dalla zia, e accompagnato dalle benedizioni di lei, uscì da quel palazzo che gli ricordava tante umiliazioni infantili, tanti piccoli dolori tenuti segreti, e ai quali doveva in gran parte l'impulso al lavoro, la febbre di conquistarsi un avvenire, di cui la famiglia gli negava il diritto. In quell'edifizio tetro, fra tutte quelle cose vecchie, sotto quelle grandi volte fregiate di rilievi pesanti e fino alle quali la luce saliva scarsa, pareva si fossero rifugiate tutte le idee, tutte le superstizioni di un mondo sparito e sotterrato. Il passato vi aveva conservato dimora, e nell'aria rarefatta e satura di quel forte odore che tramandano i mobili antichi, gli antichi parati serici, le porte tarlate, i cuoi irrigiditi dal tempo, Roberto si sentiva opprimere, come da bambino, allorché la zia, la vecchia duchessa, gli amici di casa e soprattutto la madre lo deridevano per le sue tendenze moderne, di lavoro e di sentimento di se, e gli facevano il doloroso pronostico; che egli aveva reso bugiardo con la pertinacia e la fede nelle proprie forze. I suoi forti polmoni furono sollevati quando ebbe varcato il portone del vecchio palazzo e lasciando dietro a sé le vie strette, fiancheggiate dagli alti palazzi e dalle case luride della Roma vecchia, si rivolse con passo spedito verso la nuova. Ma qui se era confortato dall'aria pura, che circolava nelle larghe vie assolate, quel sentimento d'arte che suo padre aveva destato in lui e che egli aveva sviluppato con lo studio dei ruderi di un'epoca classica, era offeso dalla vista delle case sproporzionate, sopraccariche di goffi ornamenti e nelle quali tutti gli stili si confondevano. Come l'aveva sognata diversa da quel che era, questa Roma moderna, questa Roma italiana di cui aveva seguito da lungi, con amore di figlio, la creazione! E camminava guardando in su, sostituendo alla brutta realtà il sogno, senza vedere chi gli passava d'accanto, procedendo spedito per la via Nazionale, fra la gente che s'avanzava lentamente per solo diporto. Ma nell'avvicinarsi all'albergo i ricordi del passato lontano, le considerazioni sulla Roma moderna, tutto svanì dal cervello di Roberto e sentì nel cuore come una martelleta annunziante il ritorno di un cocente pensiero, assopito momentaneamente, che reclamava l'assoluto dominio. E quel pensiero si riassumeva in Velleda. Mi avrà scritto? - susurrava. Ma un rapido calcolo distrusse ogni speranza. Anche se Velleda avesse risposto subito alla sua lettera, la replica non poteva essere a Roma altro che il giorno seguente. Il portiere dell'albergo gli presentò invece un telegramma del Varvaro, col quale gli annunziava la cattura dei due malandrini fuggiti e la morte di uno dei feriti. Aggiungeva che i due ultimi arrestati nè gli altri non erano dei d'intorni; Alessio solo era del paese e bisognava considerarlo come capo del complotto. Un respiro di soddisfazione uscì dal petto di Roberto. In quei due giorni s'era angustiato maggiormente all'idea che i malandrini fossero tutti operai, tutta gente beneficata da lui, tutti ingrati. Invece non c'era altri che Alessio che avesse appartenuto allo stabilimento. Alessio che egli aveva tante volte cercato invano di piegare a migliori sentimenti, Alessio il ribelle, il pervertito, il corruttore, che aveva dovuto licenziare per salvare alcuni altri operai, i quali subivano il fascino di quel vizioso, che si vantava delle sue turpitudini. Si rammentava che uscendo dallo stabilimento l'ultima volta, col salario della settimana nel palmo della mano, Alessio vi aveva sputato sopra, lanciando al padrone uno sguardo di sfida. Oh! se Maria fosse caduta nelle mani di quell'uomo! Gli si rizzavano i capelli a pensarci. Era ancora scosso da quella sensazione dolorosa, allorché fu bussato all'uscio. Un cameriere entrò e gli dette una busta grande, elegante, sulla quale era scritto il suo indirizzo con un carattere inglese di mano femminile. Roberto guardò a lungo quella lettera senza aprirla, Non conosceva nessuna signora a Roma, dove non capitava mai, e le sue relazioni si limitavano a deputati siciliani, banchieri, avvocati, creditori di Franco; chi poteva scrivergli dunque? Stracciò la busta e lo sguardo cercò subito la firma, ma nel leggerla scrollò il capo mestamente. La lettera era della marchesa Paola Salvati e la povera signora gli chiedeva di andar da lei quella sera e supplicavalo di entrare in salotto e di salutarla come se l'avesse già conosciuta, caso mai vi fossero altre persone. Poi gli avrebbe spiegato tutto, gli avrebbe detto il perché di quel mistero. " Venga, venga, - scriveva prima di firmarsi, - glielo chiedo in carità. " Quella supplica ardente turbò Roberto. Fra tante noie, non si aspettava che gli capitasse anche quella di liquidare gli amori di Franco, di consolare le vittime dell'egoismo e della vanità di lui; ma non volle rispondere con un rifiuto alla preghiera di una signora, che gl'ispirava tanta compassione, e dopo pranzo salì in carrozza e andò in via Condotti. Il vecchio servo doveva aver ricevuto ordini dalla padrona, perché lo introdusse subito annunziandolo. Donna Paola era sola, e lo sforzo che fece per sollevarsi dalla poltrona nella quale stava abbandonata, la magrezza della mano che stese a Roberto, rivelavano i patimenti di lei. Gli occhi soli pareva vivessero in quel viso concontratto e consunto: due occhi grandi, ardenti, pieni di tragica passione. Scusi, - gli disse con voce tremante, - scusi di averla disturbata, ma sono una grave malata e agli infermi si usa compassione. Mi dica, mi dica, è vero che Franco ... che il duca è partito per sempre? Mio fratello è partito da quindici giorni, - rispose Roberto, - ma non credo per sempre; nessuno lo costringe a stare assente da Roma. Ah! come mi consola! - esclamò donna Paola. Io sono stata molto ammalata, credevo di morire e non sapevo più nulla di quello che accadeva intorno a me ; la mia malattia data appunto dal giorno successivo al Derby e a un pranzo in casa del duca. Roberto ascoltava come se non sapesse nulla. Ma ogni giorno io vedevo il mio letto coperto di rose e mi dicevano che il duca mandava a prender notizie mie e m'inviava quel dono. Ieri una mia amica, la principessa San Secondo, è venuta. Non avevo ricevuto nessuno, non sapevo nulla di quello che è accaduto a Roma in questo tempo, ed ella mi narrò tante frivolezze che non rammento: rammento soltanto che mi disse che Franco era fuggito, che il palazzo era in vendita e si aspettava da un momento all'altro la dichiarazione del fallimento. Mandai al palazzo ed ebbi la conferma della partenza; mandai di nuovo per sapere l'indirizzo e il guardaportone disse che non poteva darlo, ma aggiunse che lei era a Roma all' Hôtel del Quirinale e lo rappresentava. Sono tanti anni che conosco don Franco, aggiunse arrossendo lievemente, - e non potevo rimanere indifferente alla sventura che lo colpiva. E poi quando uno è malato è più sensibile, è più eccitabile, non è vero? Roberto capiva lo sforzo di donna Paola per scusare il suo operato e finse di non accorgersi della passione che la divorava" Io la ringrazio, - disse, - di mostrar premura per mio fratello. È tanto raro di conservare gli amici nei giorni di sventura! Ma si rassicuri, Franco non è fuggito. La sua amica era male informata; Franco ha venduto il palazzo a buone condizioni, e non si tratta di fallimento, ma di sistemazione di affari, alla quale lavoro e lavorerò anche in seguito. E quelle rose? - domandò donna Paola sorridendo. Franco, sapendola ammalata, mi aveva detto di nasconderle la sua partenza mandandole ogni giorno quei fiori che le facessero credere che egli fosse ancora qui. Povero, caro amico! - esclamò riversando la testa sui guanciali accasciata da quell'insperata consolazione. Veda, io non posso ancora regger la penna e ho detto di sentirmi forte per poterla ricevere, ma gii scriva lei, gii dica che aspetto una lettera sua e che quelle rose-quelle care rose mi hanno tenuta in vita. Ormai la felicità le impediva di aver reticenze con Roberto, e la fisonomia dolce e compassionevole di lui la spingeva alla confidenza. Gli pareva di parlare a un amico e gli rifaceva la storia delle sue angosce di quelle ultime ore, gii diceva che il suo male derivava da una immensa gioia distrutta; lo supplicava di tornare a visitarla spesso, molto spesso. Roberto si sentiva a disagio. Non voleva cullarla con vane speranze, e lo stato veramente lagrimevole di Paola impedivagli di essere veritiero e di dirle che Franco non meritava quell'appassionata adorazione che ella gii portava. Ogni momento faceva atto di alzarsi, ma la marchesa con uno sguardo supplichevole lo tratteneva, dicendogli : È tanto difficile che mi trovi sola un'altra volta che possa parlare con lei liberamente come stadera; rimanga. E Roberto rimaneva ad ascoltare lo sfogo di quell'anima sensibile, divorata dall'amore, che pareva da un momento all'altro dovesse abbandonare il corpo. Ed era lei che Franco aveva chiamato a sparger di fiori e di lagrime il suo cadavere! La visita era durata due ore e Roberto, nello scender le scale, pensava con raccapriccio al grande, all'immenso egoismo di Franco che voleva morendo uccidere una povera creatura colpevole soltanto di amarlo. E il fratello allora gii apparve vile come quei Werther da strapazzo, che inducono una donna a farsi ammazzare da loro, esaltandola al pensiero di una riunione eterna nella morte, e quasi sempre tremano nello sparare contro se stessi e vi rinunziano o si feriscono leggermente. Povera donna! - esclamò, - se potesse dimenticarlo! ma non lo dimenticherà. Il cuore di Roberto era una di quelle arpe divine che vibrano al soffio di ogni umano dolore, che si commovono non in ragione della sventura maggiore o minore, ma del grado di resistenza dell'infelice che deve sopportarla. E Paola a gli occhi suoi apparve debolissima. Il sentimento era il perno della vita di quella donna, anzi era la vita stessa. Tutte le altre facoltà, lasciate sonnacchiose da una educazione sbagliata, erano subordinate a quello. Non lo sapeva. Paola non gli aveva fatto nessuna confidenza sulla vita anteriore al matrimonio, ma era sicuro che quella pallida creatura era cresciuta fra le mura claustrali di un convento, ove le tendenze appassionate dell' anima si erano manifestate ora nelle estasi della comunione con lo sposo celeste, ora nell'adorazione di San Luigi, ora nella passione per una compagna. La religione, questo balsamo delle anime forti, questo rifugio delle menti torturate dal dubbio, era stata un eccitamento troppo forte per quella sensitiva. Se le persone cui era affidata l'educazione di Paola, avessero capito il frutto che potevano trarre da quella sensibilità, avrebbero dato vigore alla mente della bambina, esercitandola in severi studi, costringendola a pensare più che a sentire, e nello stesso tempo con i! moto razionale, con l'aria, col cibo, avrebbero dato forza ai muscoli. Stabilito l'equilibrio fra quella triade di forze che costituisce la vita dell'individuo, data al sentimento una direzione più ragionevole, Paola sarebbe stata una donna onesta e utile, una di quelle donne che sono una benedizione per la famiglia, sulla quale spargono i tesori della loro tenerezza. Invece era una infelice; e un cenno di Franco sarebbe bastato a farne una colpevole. Ovunque guardava, Roberto non vedeva altro che vittime di una falsa educazione, che forze disperse a danno dell'umanità e del bene, che elementi buoni sviati dal grande scopo e convertiti in cagione di malessere sociale. Come benediva suo padre di averlo diretto, educato; di aver fatto di lui un uomo! E quanto era grande il desiderio di far del bene che lo animava, ma quanto sentivasi impotente dinanzi a tanti dolori, a tanti pervertimenti. Doveva limitare l'opera sua a Franco, pensare a lui solo per non sperdere le forze in altri tentativi che avrebbe dovuto abbandonare subito. Franco bastava per il momento. E tornando in camera scrisse al fratello una breve lettera ringraziondolo di quello che aveva fatto, dimostrandogli una calda gratitudine. Si protestava suo obbligato per togliere all'altro una parte dell'onere della riconoscenza, che spesso è grave a portare e infonde nell'anima del beneficato un sentimento di avversione per il benefattore. Non voleva che Franco provasse rispetto a lui, nessuna avversione; voleva poter spargere nel cuore di quell'indifferente i semi dell'affetto e sperava raccoglierne i frutti, non perché avesse desiderio di farsi voler bene da Franco, ma per nobilitarlo con un sentimento buono. In quella lettera accennò alla visita a donna Paola, gli descrisse lo stato lagrimevole in cui avevala trovata e lo esortò a scriverle una buona lettera, da amico vero, senza sentimentalità e senza lamenti, per calmarla ancora più e trattenerla dal commettere atti inconsulti che potessero comprometterla. Quando ebbe terminata quella lettera, Roberto si sentì preso da un sonno prepotente. Era il fisico che riprendeva i suoi diritti, che reclamava alcune ore di riposo, dopo due giorni di continua angoscia, di continua tensione della mente. Tutto si confuse a un tratto nel pensiero di Roberto e quasi macchinalmente cercò il letto, e si addormentò di un sonno pesante, scevro di sogni, che sono il ricordo confuso di certe impressioni, che il letargo del pensiero e del sentimento non riesce a dileguare.

Racconti fantastici

682802
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Molte creature si amarono per tutta la vita, pel solo motivo che ebbero la forza di amarsi da principio per un pajo di mesi: e sentiamo tuttodì esclamare: come abbandonarci? è impossibile, è tanto tempo che ci amiamo! .... Si suol dire che l'amore non mira che al possedimento e che con esso finisce, e non si distingue tra la passione e l'amore. È la passione che si uccide col possedimento, ma l'amore incomincia con esso e perdura. L'una cosa è dei sensi, l'altra dell'anima. Si dovrebbe dire degli amanti: si piacciono - dei coniugi: si amano. Questo amore che si rafforza col progredire della vita, e sembra tanto più ingigantire quanto più si distacca da essa, ci fa fede della sua continuazione al di là della morte. Il dolore che accompagna il morire, il rimpianto che lo segue, il desiderio che lasciamo di noi morendo sembrano dirci che una sola cosa portiamo con noi dalla terra, l'amore.

Pagina 137

Cerca

Modifica ricerca