Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonando

Numero di risultati: 57 in 2 pagine

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Da Bramante a Canova

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Argan, Giulio 1 occorrenze

E la vittoria finale non tocca alla vita, ché sarebbe davvero una curiosa vittoria uscire dall’irrealtà per cadere nella finzione, abbandonando la natura delle «vere essenze» per ritrovarsi sulle tavole di un palcoscenico sotto le luci false del proscenio. È l’«ideale» classico che, per sopravvivere in questo frangente storico, è costretto ancora una volta a trapassare nella dimensione equivoca, né tutta materiale né tutta spirituale, del sogno: dove non c’è sublimazione senza contaminazione né bellezza che non nasca portando già in sé il germe della propria fine. Fuseli, che non ha il puritanesimo freddo di Blake non teme di abbandonarsi alle soavi debolezze dei sensi e ai teneri capricci dell’anima, lascia che la tenera brezza della grazia di Webb e quella più ardente dell’entusiasmo di Shaftesbury sciolgano in superficie i ghiacci eterni del Sublime. Non servirà: in quella sua dimensione astratta ciò che non si purifica si corrompe subito, scende a sfiorare il torbido, il volgare, l’osceno. Le gentildonne di Reynolds e di Romney, quando non diventano Titania, Elena, Cleopatra, degenerano in lady Roxana e in Moll Flanders; sotto gli eroi di Shakespeare si sente spesso la stoffa di Jonatan Wild. Non più di un velo separa la «belle dame sans merci» dalla prostituta, l’eroe dal «rake»: ché gli uni e altri sono figure dell’arte e ciò che li distingue è soltanto un diverso manierismo sociale.

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La tecnica della pittura

253990
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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E poi in praticare a colorire, ad ornare di mordenti, far drappi d’oro, usare di lavorare di muro per altri sei anni sempre disegnando, non abbandonando mai nè in dì di festa nè in dì di lavorare».

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Le due vie

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Brandi, Cesare 1 occorrenze

Ugualmente letteralisti ed emotivisti, secondo la dizione di Kaplan 1, fondandosi su una concezione dualistica del discorso, emotivo e cognitivo, trasportano sul piano del contenuto semantico (altrimenti designato come riferimento) la dicotomia forma — contenuto, ma, incentrandola decisamente dalla parte del ricevente o fruitore, si trovano nella necessità di buttare alla deriva tutta o una parte della specificità dell’opera d’arte, sia, come fanno i letteralisti, forzando sul riferimento e abbandonando il resto, sia come si sono astretti gli emotivisti, salvando del riferimento solo quanto comunichi un’emozione al ricevente. Nel primo caso si perde la specificità dell’opera d’arte, nel secondo la si lascia in balia del ricevente: nell’un caso e nell’altro, l’accettazione unilaterale del punto di vista del ricevente sopprime di autorità uno dei termini dell’antinomia, senza riuscire a comporla.

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Le tre vie della pittura

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Caroli, Flavio 1 occorrenze

Questa riflessione sarà ambientata in un’epoca precisa della storia dell’arte europea, e cioè nel Settecento, secolo di tutte le rivoluzioni, secolo ponte fra l’arte moderna e l’arte contemporanea, secolo nel quale nasce il romanzo e in cui la psicologia, abbandonando la fisiognomica, configura il “personaggio”, cioè attribuisce a ogni creatura uniche e irripetibili caratteristiche interiori, che si manifestano a tutti i livelli, dall’intimo, all’interpersonale, al sociale...

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L'Europa delle capitali

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Argan, Giulio 1 occorrenze

Tra fede ed esperienza Michelangiolo sceglie la fede, abbandonando prima l’esperienza della natura e poi quella della storia: il fine ultimo è l’incontro diretto e personale con Dio (fu, notoriamente, in contatto con i circoli romani della “riforma cattolica” di Juan de Valdés) e questo esclude la mediazione storico-naturalistica; l’arte non è più rappresentazione mediatrice, ma processo di ascesi. L’impulso che spinge l'uomo verso Dio, però, è ancora una volontà, anzi un’ansia di conoscenza intellettuale: si cerca Dio perché l’intelletto vuole la verità, ma la verità assoluta di Dio è diversa dalla verità relativa della natura e della storia. Per arrivare a Dio non serve la logica ma l’amore, e l’amore, a sua volta, non è che un modo superiore dell’intelletto. Ma se Dio è il fine ultimo della ricerca, non è più la forma data a priori del creato, cioè una forma che possa mutare negli aspetti esteriori o accidentali rimanendo immutata nella sostanza; è un’idea, un’immagine incorporea che si profila al di là della materia del mondo fisico.

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Pop art

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Boatto, Alberto 1 occorrenze

Si delinea così un movimento di regressione che, abbandonando il mondo degli oggetti e delle immagini, tenta di risalire al mondo del soggetto, recuperato nella sua indissolubile totalità di mente e di corpo, uno sganciarsi dalla sfera pubblica del conformismo e del luogo comune, per ritrovare un luogo ideale ed utopico, che si ponga come possibile terreno d’incontro e di formazione di una comunità nuova. Ma a questo punto si abbandonano le prospettive degli anni Sessanta per volgersi risolutamente verso le diverse prospettive degli anni Settanta, cui ha fatto da introduzione, nelle sue indicazioni come nei suoi stessi fallimenti, quell’anno spartiacque che resta il 1968

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 3 occorrenze

Immaginate un post-impressionismo che abbandonando ancora parecchio all'azione del chiaroscuro scavallato tenda a rassodare qualche fluente istantanea visione - forse la vecchia portinaia di Rosso - raccogliendo la materia plastica prima sconvolta, in bulbosità snocciolate con qualche disordine, allato; non è una vera e propria organizzazione di stile ma è ad ogni modo una tendenza allo stile, e la gnoccosità compressa delle carni è di certo dovuta alla trama ossea che punge adunca qua e là come a suggerirei una costruzione sotterranea ma sicura. Ancora: il peso della materia cadente, questa ossessione plastica che domina sull'arte moderna, grava vitalmente espresso dove i bulbi formali si appendono numerosi a un sol filamento nascosto come una serqua di fichi cedevoli stipati ad un solo attacco vegetale.

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Si è costretti al massimo della «relatività» del giudizio, epperciò si è certi che abbandonando quella relatività ci si troverebbe fuori del valore artistico pieno, e che occorre così, occorre ancora aspettare prima di riprendere la narrazione della storia dell'arte italiana. Quante parole allora toccheranno a costoro? forse tre, o cinque, chissà? "Tentativi nel senso di liberarsi dall'accademismo neoclassico furono anche a Napoli dopo il 1840. Un olandese il Pitloo diffuse il gusto per la pittura all'aria aperta, e per il paesaggio, gusto che ben inteso in una sana prosecuzione della vena paesistica del Seicento locale e dell'olandese avrebbe potuto produrre qualcosa di analogo ai paesisti francesi del trenta. Ma i napoletani non escirono dalla idolatria e dalla carezza di quel ricordo seicentesco di Rosa o di Gargiulo. Altri come il Bonolis portavano innanzi il principio della «tonalità» e del «realismo», proprio come Courbet a quei tempi in Francia, ma non fecero corrispondere nulla di buona pittura a quelle esigenze teoriche; e infine, pure carpendo un po' all'una, un po' all'altra di quelle scuole qualche raro accento di verità tonale o di aria aperta, la scuola del Morelli concluse anche meno e si sviò anche più, in cerca di un'arte di «sentimento» o di «passione», come la chiamavano, che non era invece altro. che un po' di stracca simbologia coloristica ad uso di tragicommedie romantiche in pedulini e in giustacuore e d'infingimenti religiosi col contorno di una Palestina studiata sulle fotografie di Goupil. Ora le piccole sensibilità di Morelli per il colore non potevano far troppa resistenza a queste banalità da serenata a mare e alle sue affezioni per la «forma elegante», sotto la quale si nascondeva null'altro che l'Accademia, come sempre nell'arte Italiana del sec. XIX". E forse questo brano dovrà anche scorciarsi.

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Soltanto, i residui della solidità mantegnesca nei corpi dei santi sono tali che si sente come il colore e la luce non riescano a granirne a nuovo la sostanza, sicché v'è ancora un senso statuario nelle figure circonfuse di luce; ma larghezza maggiore è nelle pieghe che cadono ampie e statiche come in Piero, e secondo Piero si modificano in parte anche i tipi che si fanno di squadro facciale più robusto e pianeggiante, abbandonando i tipi sentimentali del primo periodo.

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Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

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Dorfles, Gillo 1 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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Fu attorno al 1950 che l’artista romano — abbandonando, come dissi, tutta la sua precedente attività — espose per la prima volta alcune delle sue tele astratte, basate sopra un unico e costantemente ripetuto modulo grafico, modulato nelle più diverse guise, ma costantemente ricorrente. L’artista ben presto imparò a moltiplicare il numero delle sue sigle, a rimpicciolirle, a farle giganteggiare, a invertirle, a specularizzarle, a trarne delle scansioni ritmiche, o a ridurle a meri motivi decorativi. Questo, anzi, fu il pregio ma anche il difetto della "scoperta” di Capogrossi, che giunse sino a fare della sua pittura un genere realizzabile a mo’ di stoffa stampata, o di semplice decorazione. Il che tuttavia mostra come un segno veramente efficace dal punto di vista formale possa diventare anche un mezzo trasferibile alla cosiddetta arte applicata, possa entrare a far parte di quel vasto settore della “expendable icone” dell’icone diffusibile alle masse e di cui si sente così acutamente il bisogno. Codesto segno aveva in sé — oltre a una indiscutibile efficacia plastica e compositiva — una misteriosa natura criptica, alcunché di magico e di scientifico insieme, quasi come se si fosse trattato della L. Alcopley, Disegno ricomparsa di antichi simboli tratti da testi ermetici, da cifrari alchemici.

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

Schiacciano le sigarette al suono del campanello, abbandonando la pedana. Il Tribunale rientra. Viene letta rapidamente la sentenza. Sono passate le due. Scomparsi i giudici, si muovono tutti insieme, i contadini affollandosi alla porta grande, le studentesse alla piccola. Il ragazzo, capitato in mezzo fra vestiti e capelli, arretra di nuovo contro la panca. Respira come se fiutasse o gli mancasse l'aria, sempre così giallo. Il padre lo raggiunge e insieme rimangono accantonati. Gli va quasi addosso la donna, che sorride conciliante. "Nicolì, eh?, t'hanno perdonato." Lui spalluccia. Scaturisce fra loro la testa del bimbo e se lo ritrova davanti col mento alzato e la bocchina aperta. Deve ricordarsi benissimo di avergli premuto le mani sulle spalle, anche se non ricorderà altro. Stringe gli occhi sforzandosi a qualche cosa, pare contargli i peli sulla testa con disgusto, forse non ricorda nemmeno che allora aveva i capelli lunghi a riccioli d'oro, vede solo un rossino tosato un po' deficiente. Nell'aula semivuota l'avvocato si rimette a sedere al suo posto. La gente s'è mescolata per il corridoio. Dalla porta a vetri cominciano a sfilare le studentesse, con le braccia sollevate per ricoprirsi la testa. I contadini s'accalcano intorno a frate Alessio che se li porta via. Arrivando sul pianerottolo, padre e figlio fanno in tempo a scorgerli per la gradinata sporca di poltiglia nerastra. Sotto si agitano le teste con cappucci e sciarpe. Quella bionda ancora scoperta. Vi corre l'occhio del ragazzo, sfuggente, come se ai capelli fosse connesso un senso di colpa. Lascia andare avanti il padre. Nel guardarsi alle spalle riconosce l'uomo miope che viene dal corridoio scuro accompagnando l'avvocato traballante a passettirii come un cieco. Ha l'aria di sentirsi aggricciare la carne. La carne la carne la carne. Odierà anche lui per tutto quello che ha detto, non voleva essere difeso. "Nicolì," chiama il padre rauco. È a mezza rampa, stringendosi al collo il bavero sottile dell'impermeabile. Dalla tromba sale un'aria gelata. "Nicolì." Lo spinge a muoversi il rumore di altri passi che sopraggiungono. Imbocca le scale a precipizio, ma poi rallenta dinoccolato. Si mette al muro, non può più nascondersi. Scendono i giudici. Platonico non vede il ragazzo, Toma non lo guarda. È il giovane Oliva a fermarsi. Sembra aver capito l'espressione della schiena, di uno che porti la vergogna addosso come una gobba. Forse rimuginava quel chicco di malvasia e si rende conto che lo rimandano punito per tutta la vita. In faccia lo trova protervo. Ma allunga una mano e lo tocca, gli dice qualche parola. Allora il ragazzo avvampa, violentemente, ingenuamente, si stacca dal muro con un impeto come se volesse uscirsene da se stesso. Mentre padre e figlio passano per ultimi il portone del tribunale, nella sala degli avvocati l'ufficiale giudiziario sta tentando di far parlare Lucrese, che si guarda le dita colpito da afasia.

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Però li picchiarono a pugni sul petto, ammanettati a sangue col filo di ferro, li fecero fuggire abbandonando il gregge, da dietro la siepe _ tiravano sassi per paura sotto una pistola puntata. Difesa: La banda Giuliano. Parte civile: Gli Attila dei proprietari, i Vandali del territorio. Il presidente rimprovera per la pistola, il carabiniere dice che sono molto strafottenti. Sempre vispi, pure così slavati sciupati da tré mesi di detenzione e di ozio, tengono testa a ogni accusa. Li indigna quella di furto. Filo di rame telegrafico: stava rotto in terra e lo toccavano con la mazza per vedere se ci passava la corrente. Dopo si fanno il conto sulle dita: ancora nove mesi dentro. S'afflosciano. Pascolo abusivo e rifiuto delle generalità alla guardia campestre, beffe e sberleffi. Scapigliata rustica selvatica: no no no. Inarticolata. Non punibile per incapacità d'intendere e di volere. Sembra ancora in difetto mentale. Si fa passare dalla madre un tozzo di pane. Sta per addentarlo quando l'arresta lo strillo del PM, e glielo lancia contro con rabbia. Porge al presidente la carta che stringe arrotolata in mano. Vuole assolutamente dargliela. Il presidente seccamente rifiuta. " Sono nocente ", vi si leggerà. Scritto da un compagno di "galera", lui è analfabeta. Molti ragazzini, l'imputato vi si confonde per la sua piccola taglia. Nessuno è stato e sono stati tutti. Che ti fecero? Il bimbo: È 'na mala parola, non se po' dice. Ma la trova pulita per i signori: Le sporcarle. Dopo lo denudarono e lo misero nel "vaschione" per lavarlo. Due, uno ce l'aveva più grosso fece male. Congiunzione carnale non capisce che significa. Nel portone, dietro il muro, "cossù" c'era. Non si ricorda se guardava o faceva, ma c'era. Alza il dito per chiedere permesso di parlare. Gli dicevano: Dammi un po' di culo. È figlio di vecchi. E hanno l'aria di pazzarelli. La madre porta scarponi da uomo con calzini corti, il soprabito ricavato da una coperta grigia militare su un vestito "americano" di seta cincischiata cosparso di aeree ballerine. Dementi, li chiama il padre dell'imputato. Questo figlio unico che ho, dice, me lo vogliono rovinare. Lui guardava solamente.

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Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

«Ha perduto ogni suo diritto, abbandonando casa e marito. Io ammiro immensamente questa povera donna che ha fatto due giorni di strada, a cavallo, quasi senza fermarsi, soltanto per vederlo. Ieri sera, quando si è presentata e si è buttata ginocchioni, supplicante, io ... che non sono di cuore tenero ... io e il dottore ... eravamo commossi come due ragazzi. Non abbiamo saputo dirle: "Tornatevene donde siete venuta". Sarebbe stata una gran crudeltà.» «Ma ora ... » «Ora, la lasceremo qui, fino a che non vengano a scacciarla via, se ne avranno il coraggio. È stata l'amante? E voi avete tali scrupoli?» «Non li chiamare scrupoli ... Il marchese di Roccaverdina non deve morire con quella donna al capezzale ... Sarebbe uno scandalo!» «Deve morire come un cane, alle mani di gente prezzolata, di Titta e di mastro Vito! ... Questo, ah! non vi sembra uno scandalo! E poi dite che io sono uno scomunicato! ... Ma c'è da rinnegare cento Cristi vedendo simili cose! ... » Tre giorni dopo, l'ebetismo aveva fatto passi da gigante. Il marchese, liberato dalla camicia di forza, restava seduto su la seggiola a bracciuoli, cupo, silenzioso, con le mani sui ginocchi. Agrippina Solmo lo vestiva, gli lavava la faccia, lo pettinava, gli dava da mangiare, con cura materna. Certe volte, al suono della voce che lo chiamava: «Marchese! Marchese!», che lo sgridava con dolcezza quando si ostinava a rifiutare il cibo, egli rivolgeva lentamente la testa verso di lei, la guardava sottocchi, con aria sospettosa, quasi quella voce ridestasse dentro di lui riminiscenze di lontane sensazioni, che però dileguavano rapidissime e lo facevano ricadere nella cupa immobilità per ore ed ore. E nella giornata gli si sedeva vicino; e mentre l'animalità di quel corpo sembrava di sentire qualche godimento pel tepore dell'occhiata di sole che lo investiva presso al balcone, ella gli parlava piano, per sfogo, quantunque sapesse di non essere capita: «Perché ha fatto così, voscenza ? Perché non mi disse mai una parola? ... Ah, se mi avesse detto: "Agrippina, bada!". Mezza parola sarebbe bastata! Non era voscenza il padrone? Che bisogno c'era di ammazzare? ... È stato il destino! Chi credeva di far male? Ah, Signore! Ah Signore! ... ». Ella si rallegrava di vederlo tranquillo, di non più udirlo gridare né smaniare. Le sembrava che questo fosse miglioramento. E rimaneva dolorosamente maravigliata che il dottore ogni volta venisse, guardasse, scotesse la testa e andasse via alzando le spalle, senza risponderle nemmeno quando gli domandava: «Va meglio, è vero? Ora è docile come un agnellino». Si sentiva però stringere il cuore vedendogli voltare e rivoltare lentamente le mani e osservarle a lungo e tastare le punte delle dita a una a una quasi volesse contarle, incurante della bava che riprendeva a colargli. Gliela asciugava col fazzoletto e ne seguiva ogni movimento della testa e degli occhi per scoprirvi qualche lampo di coscienza allorché gli ripeteva: «Sono io! Agrippina Solmo! Non mi riconosce, voscenza ? Sono venuta a posta; non mi muoverò più di qui! ... ». Poi, udendogli mugolare qualche parola, gli s'inginocchiava davanti, prendendolo per le mani che brancicavano i calzoni, e tentava di farsi fissare da quegli occhi che parevano inerti. «Sono io; Agrippina Solmo! ... Faccia uno sforzo, voscenza ! Si ricordi, si ricordi! ... Mi guardi in viso!» Lo sollevava pel mento su cui la barba era già cresciuta ispida, pungente; gli scansava dalla fronte i capelli cascatigli giù nel tenere sempre abbassata la testa come appesantita per la malattia del cervello; e all'ultimo, rizzatasi con scatto disperato, nascondeva la faccia tra le mani convulse, balbettando: «Che castigo, Signore! Che castigo!». E intendeva di dire pure per sé, quasi gran parte della colpa fosse stata sua, se il marchese aveva ammazzato Rocco Criscione. Titta, di tratto in tratto, veniva a tenerle compagnia. «Voi non l'avete visto nei primi giorni. Non si chetava un momento! Sono stato tre giorni e tre notti senza chiudere occhio! ... Faceva terrore.» «E la marchesa? Con che cuore ha potuto abbandonarlo?» «Ringraziate Iddio! ... Se ci fosse stata lei, non sareste qui ... » La osservava. Era tuttavia bella, meglio della marchesa, con quel viso affilato, bianco come il latte e quegli occhi neri e quei folti capelli nerissimi, alta e snella. E parlando di lei con mastro Vito, Titta dichiarava che, secondo lui, la prima pazzia il marchese l'aveva commessa dandola per moglie a Rocco che non se la meritava. «Non sapete il patto? Non doveva toccarla neppure con un dito ... Per questo il marchese lo ha ammazzato.» «Aveva messo l'esca accanto al fuoco ... Che avreste fatto voi?» «Capriccio di gran signore! ... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n'è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre: "Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna!". Ed ha voluto andarsene.» «Il marito è sempre marito! In quello stato poi!» «Dicono che ha rinunziato alla dote per mano di notaio ... Il marchese le aveva assegnato Poggiogrande.» «Per mano di notaio?» «Ci credete voi? Io vorrei sapere intanto chi comanderà qui e provvederà ai fatti miei.» Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola venivano tre, quattro volte nella giornata, in compagnia del dottor La Greca. «Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?» «Ci siamo!» Il dottore non die' altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando: «Figlio, figlio mio!». La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo: «Dovete capirlo», le disse, «non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi ... Poveretta!». Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina. «Figlio! figlio mio!» E si lasciò trascinar via da mastro Vito, senza opporre resistenza, umile, rassegnata com'era stata sempre, convinta anche lei che non poteva restare più là, perché il suo destino aveva voluto così.

Così si rimetteva alla solita vita con vivissima eccitazione di occuparsi, di stordirsi, quasi le energie del suo organismo volessero prendersi la rivincita dell'inerzia in cui le aveva lasciate per tanti mesi, abbandonando gli affari di campagna in mano di garzoni incapaci e senza scrupoli, di mezzadri che col pretesto della cattiva annata, oltre di non pagare i fitti, venivano a piangergli davanti per avere soccorsi di semenza e di alcune giornate di quegli aratri di nuovo modello da lui fatti venire da Milano. La lunga siccità aveva reso duri come il ferro i terreni, e i vomeri ordinari non riuscivano a spezzarli per preparare i maggesi. «Abbiamo la mano di Dio addosso!», conchiudevano malinconicamente. Egli non osava di rispondere, come le altre volte: «La vera mano di Dio che vi pesa addosso è la vostra pigrizia!». Guardava un po' scoraggiato anche lui quelle campagne dove non si scorgeva un fil d'erba, quel cielo che, da mesi e mesi, non mostrava agli occhi ansiosi l'ombra di una nuvoletta all'orizzonte. Soltanto l'Etna fumava, quasi volesse ingannare la gente facendo scambiare per nuvole le dense ondate di fumo del suo cratere, che il vento disperdeva lontano. Verso sera, la spianata del Castello si popolava di contadini, di gente di ogni condizione che venivano a interrogare il cielo per trarne qualche buon augurio. Le serate erano dolci, quantunque già si fosse alla fine di novembre. Non spirava un alito. Il canonico Cipolla, che aveva letto i giornali in Casino, prognosticava vicina la pioggia. «A Firenze piove da un mese, giorno e notte! In Lombardia, fiumi rigonfi straripano, allagano le campagne. Il cattivo tempo è in viaggio; arriverà anche qui!» E i contadini che stavano a udirlo a bocca aperta, volgevano gli occhi verso il levante per scorgere qualche indizio che annunziasse il prossimo arrivo del cattivo tempo in viaggio , e sarebbe stato tempo benedetto! L'anno avanti non si era raccolto neppur tanto da compensare della semenza gettata nei solchi. Le ulive si erano rinsecchite su le piante. Per ciò tutti si sforzavano di raddoppiare la sementa, risparmiando il grano da molire, stringendosi le cigne dei calzoni attorno allo stomaco, sperando di rifarsi col nuovo raccolto. E il marchese parlava poco e senz'alzare la voce, ora passeggiando su e giù per la spianata, dal bastione allo zoccolo della croce, ora seduto su uno scalino di esso, sentendosi lentamente compenetrare dalla costernazione che si leggeva su tutti i volti e dalle parole di tristezza che uscivano dalla bocca di quei poveretti. Essi se ne andavano a uno a uno, a due, voltandosi indietro per dare un'ultima occhiata a quel cielo limpidissimo, a quelle campagne riarse, a quei monti lontani che non si erano coperti di neve e dietro i quali non si affacciava da mesi uno straccio di nuvoletta. Anche quei del Casino che venivano lassù non a godere il fresco ma a spiare, come la povera gente, il cielo di bronzo, l'orizzonte senza vapori e l'Etna che fumava, anche quei del Casino non discutevano più del sindaco, degli assessori, di tutte le loro misere gare municipali per cui ordinariamente si accapigliavano trovandosi insieme. «Sarà una mal'annata peggiore della precedente!» «I piccoli furti non si contano più!» «Che volete? La fame è cattiva consigliera!» «Dobbiamo pensare ai fatti nostri, marchese!» «Ognuno ha i suoi guai!», egli rispondeva. E siccome, una sera, assieme con altre persone, era venuto lassù anche il cavalier Pergola, suo cugino, col quale stava in rottura, il marchese fu costretto a rivolgere la parola pure a lui che si era avvicinato salutandolo il primo. Il cavaliere, ad arte o no, lo aveva toccato nel debole, domandandogli se era vero che quell'anno avrebbe adoperato la trebbiatrice a Margitello. «Forse, per prova, togliendola in prestito dal Comizio agrario provinciale.» «Voi potete farlo; ma i piccoli proprietari?» «Si tratterebbe di trasportare i covoni. La spesa verrebbe largamente compensata dalla celerità e dalla perfezione del lavoro. Margitello è un punto centrale ... Noi abbiamo quel che ci meritiamo», aveva soggiunto il marchese. «Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, né correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino ... Vogliamo la pappa bell'e preparata!» «Parole d'oro!» «I nostri vini se li prende la Francia, con quattro soldi, e ce li rimanda trasformati in Bordeaux. I nostri olii sono buoni appena per saponi o per macchine, e abbiamo intanto le migliori ulive del mondo. Io ho prodotto vini, così, per saggio, da mettersi in tasca tutti i Bordeaux, tutti gli Xeres, tutti i Reni dell'universo; olii da dar dei punti a quei di Lucca e di Nizza ... Ma bisognerebbe produrre in grande, esportare ... E non parlo dei formaggi, del burro ... !» Erano rimasti soli lassù, senz'accorgersi che la sera si era inoltrata; il plenilunio ingannava. All'ultimo, il cavalier Pergola gli aveva detto: «Pur troppo è così! Siamo ancora mezzi barbari! ... Ecco: per parlare di noi, giacché l'occasione è capitata, noi ci guardiamo da un bel pezzo in cagnesco. Perché? Per un pregiudizio. Non ho sposato in chiesa! È il mio gran delitto. Vostro zio non vuol vedere in viso, nemmeno da lontano, sua figlia! Voi avete fatto lo stesso con me». «Il torto è vostro, cugino! Siete scomunicato, non lo sapete? E fate vivere in peccato mortale anche quella poveretta!» «Perché un prete sudicio non ci ha buttato addosso due gocce di acqua salata?» «Benedetta, cugino! Dio vuole così!» «Quale Dio? Chi lo ha visto cotesto Dio?» «Io vi rispondo come don Silvio La Ciura, quando don Aquilante voleva provargli che le persone della Santissima Trinità sono quattro: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo e il Dio che vien formato dalla riunione di tutti e tre.» «E che rispose quel bestione?» «Tre! Tre! Tre! E s'inginocchiò e baciò per terra ... Lasciamo andare questo discorso.» «Ebbene, scomunicato qual sono, io sto bene quanto gli altri. Che mi fa la pretesa scomunica? Niente. Se fosse vera, dovrei vedermi cascare i panni d'addosso; le mie campagne non dovrebbero fruttare; i miei affari andare a rotoli. Invece! Guardate là. Che cosa concludono quei gonzi che si affollano dietro a don Silvio, recitando il rosario del Sagramento, con la croce e i lanternoni, in processione per le vie? Sciupano scarpe e fiato. Da mesi, ogni sera, essi vanno attorno, mettendo malinconia alla gente, invocando la pioggia. Se esistesse davvero un Dio che fa la pioggia e il bel tempo, avrebbe dovuto muoversi a compassione. Non piove e non pioverà fino a che le leggi della Natura ... » «La Natura? Che cos'è?» «Il mondo, il cielo, l'universo, la materia; non c'è altro! E piove quando deve piovere, quando può piovere. E se noi crepiamo di fame, la Natura non si turba per ciò. Siamo insetti impercettibili di fronte al Creato.» «Ma cotesta Natura chi l'ha fatta?» «Nessuno. Si è fatta da sé, e da per sé ... » «Chi ve l'ha insegnate tutte queste fandonie?» «Chi? I libri che voialtri non leggete. Fandonie? Verità sacrosante; e i preti che hanno paura di perdere la cuccagna, se esse si diffondono nel popolo ... » «Voi l'avete sempre coi preti!» «Sono nemici d'ogni bene dell'umanità.» Tacquero, per guardare la folla fermatasi e inginocchiatasi laggiù davanti a la chiesa di Sant'Isidoro recitando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio che portava la croce nera, tra una dozzina di lanternoni. Si udivano distinte le parole cantate: «E cento mìlia volte sia lodato e ringraziato ... !». In quel momento la campana del convento di Sant'Antonio dava il segno dell'un'ora di notte. Il marchese si avviò. Al lume di luna, si vedeva la folla dei preganti che sfilava inoltrandosi per la via di rimpetto, dietro la croce nera e le fiammelle gialle dei lanternoni che pareva traballassero.

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

disse Eugenia, abbandonando affettuosamente la testa sul petto di Patrizio. "Poco fa, nella selva" egli rispose, con umile accento di preghiera "che intendevi? Parla! ... Guardami in faccia ... Ti sfuggì di bocca: "È un'altra cosa!"." Ella appoggiava più fortemente la testa sul petto di lui, invece di sollevarla e guardarlo in faccia. "Che cosa intendevi?" "Sciocchezza! Non badarci!" "Dimmelo; tanto meglio, se è una sciocchezza!" "Te l'ho già detto: mi pareva che tu fossi cambiato. Dio mio!" soggiunse, voltando la testa perché la voce suonasse più chiara. "Potremmo esser felici, e soffriamo tanto! Tu non hai fiducia in me; sei chiuso nuovamente. Se sono malata, che colpa ne ho io? Ebbi torto, tacendo. Ma ora sto meglio. Ora sto bene. Non ho voluto ingannarti. La mia malattia ti tiene di cattivo umore, non negarlo. Che colpa ne ho io? Ho detto tutto al dottor Mola; ho detto tutto anche a te! Avevo vergogna. Non credevo che fosse così grave. Guarirò presto; vedrai. Senti? Il profumo è quasi sparito. Oggi, forse, è un po' più di ieri. Sono stata agitata in questi giorni. Domani diminuirà. Sparirà presto. Non dirmi più niente. Dio mio! Dio mio! ..." ella cominciò a singhiozzare. Patrizio la stringeva fra le braccia. La commozione gli impediva di parlare, quasi stesse per rompersi dentro di lui qualcosa da cui era stato lungamente avvinto e impedito in tutti i movimenti del cuore ... Uno sforzo, un piccolis- simo sforzo, e la sua liberazione sarebbe avvenuta! Ma i suoi occhi si volsero con ansietà verso l'uscio di rimpetto, pa- ventando un'improvvisa apparizione; e le braccia gli si rallentarono, e la parola gli rimase a mezza gola.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Se vi fosse venuta rompendo altri legami, abbandonando piú sicure speranze, sacrificando ad un'illusione il suo nome, la sua felicità presente, il suo avvenire, ogni cosa? Che avrei allora fatto? Quale responsabilità non mi sarei assunta? Ero forse sicuro di mantenere quel che le mie calde parole promettevano senza esplicitamente spiegarlo? Non mi accumulavo una larga messe di noie, di impacci, di dolori, di disinganni? Ma chiudevo gli occhi, mi stringevo alle spalle e lasciavo fare al cuore; ero troppo esaltato da dar retta alla ragione. E forse è bene che l'uomo sia cosí! Senza questa irragionevolezza di certi giorni, la vita correrebbe troppo uniforme, troppo noiosa; e molte cose grandi, e tutte le cose belle rimarrebbero spesso nell'oscurità del nulla, da cui soltanto la passione le fa sbalzare alla luce. Venne. La scorsi da lontano, in fondo al viale, e le mossi incontro quasi trepidando. Avevo le puerili esitazioni del primo amore. I polsi e le tempie mi martellavano con violenza. Era anch'ella un pochino turbata; la sua mano infatti tremava. Le diedi braccio e andammo un pezzetto silenziosi, guardandoci negli occhi, con quel sorriso che monta alle labbra quando ci troviamo impacciati e non sappiamo che dire, forse perché abbiamo troppe cose da dire. In tali casi è sempre la donna quella che mostra piú spirito. - Mi avvedo - ella disse - di aver avuto torto a dar retta alle sue insistenti sollecitazioni. Da lontano si è piú liberi e piú forti! - Grazie, signora! - feci io. - Non si penta di un'opera buona. - Ebbene - ella riprese - che vuole da me? - Poco, nulla! ... Se fosse possibile ... essere riamato! - Dica tutto! - ella esclamò sorridendo. - E quando l'avessi riamato? - L'amore è fine a se stesso. - Forse nei cieli; ma in terra ...! - Osservi - le dissi; - a trentadue anni mi vede impappinato come un meschino collegiale. Questo può darle la misura dell'affetto che provo per lei -. E dopo una breve pausa soggiunsi: - Sono libero, solo, non ho parenti e possiedo una discreta fortuna. Faccio una vita ritirata, un po' studiosa; ma piú volentieri ozieggio fantasticando, contento di osservare il mondo a traverso una nebbia la quale gli dà sovente l'aspetto di un'apparizione che si dissolve, e rassegnato a veder arrivare la volta che dovrò dissolvermi anch'io. Il suo incontro mi ha destato da un sonnambulismo che suol essere l'ordinaria condizione del mio spirito, e mi ha richiamato alla gioconda realtà della vita. Son liet o di sapere che c'è ancora al mondo qualcosa che può farmi amare e sperare ... Mi sono ingannato? Sotto a questo nostro incontro nascondesi forse una delle solite e terribili ironie del caso che uccidono gli animi fiacchi? Non lo capisco ancora e, quasi, non vorrei mai capirlo. - Ho marito! - ella rispose sospirando e chinando il capo addolorata. - Che importa? - feci io. - Il mondo è crudele! - ripigliò. - C'impone dei doveri che potrebbero dirsi una violazione della natura, e il pudore spesso ci fa vittima perfino nostro malgrado. Non mi pare di esser brutta; molti mi hanno ripetuto preciso il contrario. Prima e dopo della legale separazione da mio marito, che io dovetti domandare, sono stata spesso circondata da tentazioni superiori alle deboli forze di una donna; e benché in questo momento sia proprio sicura di non esser creduta, soggiungerò che son uscita tremendamente abbattuta e straziata sí da quelle lotte del cuore, ma vittoriosa; anche quando mi sarei facilmente rassegnata a rimaner vinta! ... Non glielo dico né per orgoglio, né per artifizio di donna. - Oh le credo! - risposi. - Sarò franca; è mio costume. E comincerò dal confessarle che non sono qui venuta per mera cortesia, o per cedere soltanto a un impulso di curiosità femminile. C'è un altro sentimento che io non so come chiamare, (è cosí incerto e confuso!) il quale ha lusingato il mio spirito e mi ha spinto a porgere facile orecchio al suo invito. Ho capito appena qui giunta, e gliel'ho detto subito, che ho fatto male a venire. - Invece ha fatto benissimo! - Le sue parole dell'altra volta, il persistere a ricordarsi di me dopo tanti giorni, le sue lettere che mi rivelano un animo gentile e troppo aperto a dei sentimenti che non sono piú di moda, hanno naturalmente fatto impressione nel mio cuore. Piú che ogni altra donna e per la condizione in cui mi trovo io sento un bisogno di continui conforti. Illusioni o realtà, non mi confondo a discerner bene quello che mi si presenta a consolarmi. L'unica realtà che io cerchi è la mia consolazione, la soddisfazione di un bisogno ineffabile che mi agita e mi fa soffrire; e spesso non è davvero l'illusione quella che sappia meno soddisfarlo. - Come son lieto - le dissi - di sentirla parlare a questo modo! - Non si imagini nulla che possa secondare qualche suo desiderio; si troverebbe ingannato. - Le giuro - risposi (e in quel momento ero sincero) - che i miei desideri, le mie speranze non vanno piú in là di quello che ora mi si concede. - Oh! Si dice sempre cosí! - Avrà la conferma del fatto. - Non è un uomo lei? - Ma un po' diverso dagli altri. - Ecco, dunque: ho assecondato il suo desiderio, son venuta, le ho detto forse piú di quello che non avrei dovuto dirle; non rimane che separarci da buoni amici e ... dimenticarci. - Perché dimenticarci? - Perché sarebbe meglio. Non le pare? - Ma se fra noi due non può, come lei dice, esservi luogo per l'amore, potrebbesi invece trovar un posto all'amicizia. - L'amicizia tra un uomo ed una donna si riduce ad un amore che ha vergogna di mostrarsi a viso aperto, ed io ho in uggia gli equivoci. - Cediamo dunque al destino! - dissi fermandomi. E presi tra le mie le sue mani e la guardai fisso nelle pupille, con le labbra atteggiate a un sorriso di speranza ed esprimendo cogli occhi un'intensa preghiera. - Ed è cosí ch'ella è diverso dagli altri! - esclamò tentennando amaramente la testa e alzando gli sguardi al cielo. - Interpreta male le mie intenzioni! - Interpreto giusto! - E riprese il mio braccio. - Non ci vedremo piú - mi disse dopo con accento commosso. - Ella tornerà alle tranquille occupazioni della sua vita; io ... alle noie ed alle lotte della mia. Ciò che mi fa rifuggire da un legame, creda, è un puro calcolo. Se io ora cedessi alle sue premure, se credessi alle sue proteste, non farei che prepararmi un disinganno crudele. Un mese, due mesi, sei mesi, un anno! E poi tutto sarebbe finito, e l'apparizione celeste diventerebbe un fantasma intollerabile. Non vi è peggiore umiliazione pel nostro amor proprio: è una ferita che non sana. Ho ragionato sempre cosí quando il cuore ha tentato di trascinarmi dietro le seducenti appariscenze di una felicità che mi si faceva brillare vagamente sotto gli occhi; e il ragionamento mi ha salvato. Parlo schietta: non mi faccio piú virtuosa di quel che sono. Forse non ho ancora avuto occasione di provare una di quelle passioni che non dan campo a ragionare, e quando verrà, gliel'assicuro, non me ne lagnerò; ma intanto la sfuggo. Bisogna mi colga all'improvviso, alla sprovveduta! - Ma se tutte le donne la pensassero come lei - interruppi scherzando - che sarebbe del mondo? - Ciò che salva il mondo - rispose - è che si predica bene e si razzola male. Io stessa, forse, non isfoggio in questo momento tante belle teoriche che per giustificarmi dell'inconseguenza di esser qui venuta. - Senta - dissi; - lei ragiona troppo! Ami invece! - E strinsi il suo braccio col mio. Restò a capo chino, come assorta improvvisamente in una riflessione penosa. - Ami! - le ripetei all'orecchio. - No! - disse, sciogliendosi dal mio braccio e passandosi le mani sulla fronte. Si era fatto tardi senza che ne fossimo accorti. Il viale era deserto; i lampioni brillavano qua e là fra i tronchi e i rami degli alberi come pupille investigatrici di ciò che può avvenire nelle ombre notturne; e il rumore delle acque del canale daccanto faceva meglio avvertire la solitudine e il silenzio onde eravamo circondati. Di tanto in tanto il sordo strepito delle carrozze e degli omnibus, che si accresceva o si affievoliva secondo l'avvicinarsi o lo scostarsi accelerato, rammentava che a cento pass i di distanza le vie della città formicolavano ancora di gente. - Abbia l'amabilità di accompagnarmi un pochino - ella mi disse avviandosi verso il Naviglio. - Come passano presto le ore! - Mi promette che ci rivedremo? - feci prendendole una mano. - Non insista - rispose. - Rimanga colle impressioni che ha ricevuto finora. Forse, conoscendomi meglio, mi troverebbe molto diversa da quel che si è imaginato: e lo stesso probabilmente sarebbe per me. Ci scapiteremo tutti e due. - Rivediamoci! - ripetei. - Sento che l'amo di piú dopo di averla conosciuta da vicino: l'istinto del cuore non mi ha ingannato. - Abbiamo scherzato col fuoco - ella disse ridendo: - non ripetiamo lo scherzo -. Per un buon tratto rifacemmo la stessa via del giorno in cui le andai dietro la prima volta. L'incertezza ov'ella mi teneva era quasi piú dolce del sí che avrei voluto strapparle. - Addio, signore - disse fermandosi: - mi lasci ora andar sola. - Ubbidisco - risposi, - ma però non mi tolga affatto la speranza. - Addio! - replicò sorridendo. E fino alla sera dopo io non vissi che di quel sorriso. Era davvero divisa dal marito, e non per sua colpa? Era davvero rimasta sempre vittoriosa di tutte le seduzioni che dovevano, cosí bella e sola, circondarla da ogni parte? Era stata proprio sincera parlando a quel modo? Queste interrogazioni mi si affacciavano ripetutamente allo spirito, ma non volevo fermarmici su per trovar loro una risposta. Ho sempre amato un che d'indefinito, di digradato, di incerto nei sentimenti e nelle cose, e son riuscito per questo poco adatto agli affari. Possiamo noi forse, colle nostre indagini, toccare proprio il fondo della realtà? Non avviene, nel passaggio dai sensi allo spirito, un alterarsi, un modificarsi, un trasformarsi dell'impressione del di fuori per cui spesso vediamo non già quello che è, ma quello che ci pare, il contrario? Dall'altra parte in ciò che io provavo riguardo a lei non c'era evidentemente nulla di preciso e di determinato. Se ella non avesse avuto il marito? Se fosse stata una donna che non trovavasi piú alla sua prima relazione? Se, illuso da una vernice di gentilezza, di cultura e di eleganza io non avessi capito quello che altri avrebbe compreso di primo acchito, cioè ch'ella era una delle solite pericolose femmes de proie, come le dicono i francesi, nelle quali un'arte sopraffina simula le piú squisite, le piú pudiche ritrosie della virtú per irretire gli allocchi? Che cosa sarebbe avvenuto allora del mio povero cuore, delle fervide espansioni di un amore che viveva di rugiada, tra cielo e terra, quantunque avesse i suoi quarti d'ora nei quali sarebbe rimasto molto volentieri sulla terra? Ma io mi seccavo di tante supposizioni, di tante indagini, e lasciavo correre. Amavo! Mi bastava. Amavo infatti da amatore, da dilettante. Succedeva da qualche giorno dentro di me uno strano e delizioso sdoppiamento dello spirito; metà di esso subiva gli incanti della passione, metà stava ad osservare, e spesso chi godeva di piú era la metà che faceva da spettatrice tranquilla. Ciò intanto non impediva la spontaneità degli slanci e delle esaltazioni dell'altra. Forse vi era un che di artificiale in tutto cotesto rimescolarsi di sentimenti. Un lavorio della imaginazione, combinando alla sua guisa e sviluppando sensazioni, impressioni, sentimenti vecchi e dimenticati, ricostruiva di bel nuovo il mondo fresco e sorridente della giovinezza e mi dava un'illusione simile a quella del miraggio del deserto, che si sposta a seconda del punto di vista del viaggiatore. Ora io vedevo innanzi a me quel che già mi sembrava fosse rimasto alle mie spalle. E poi, che giovava preoccuparsi di quanto poteva avvenire? Tanto, non era in mia mano l'impedire che avvenisse. Volevo quindi andar spensieratamente incontro all'ignoto; era un viaggio divertentissimo benché pieno di pericoli. Maritata o no, donna di mondo o femme de proie, vi era infine in lei una cosa innegabile e indiscutibile: la bellezza. Quando la natura si perde tutt'intiera nella creazione di un corpo perfetto (e il suo era tale) non ha mica tempo di confondersi molto col resto. Una linea di quel corpo equivale benissimo al cuore; un'armonia di quelle forme equivale senz'altro allo spirito; una bella e forte sensazione non la cede in nulla al piú bello e piú generoso dei sentimenti. Pensavo tutte queste cose alla rinfusa e non mi fermavo a lungo e in particolare su nessuna. Avevo ancora nell'orecchio l'armonia della sua voce, provavo ancora il blando tepore della sua mano e del suo braccio; e a traverso i globi azzurri del fumo della mia sigaretta di lathachié scorgevo intanto qualcosa di luminoso, di sorridente, che poteva anche esser l'effetto del tabacco orientale voluttuosamente aspirato, e non era per questo meno amore e meno ideale di qualsivogliano amori e ideali di piú alta pro venienza. Per due sere di seguito non venne; le scrissi e non rispose. La terza sera, quando già cominciavo a disperare di rivederla, me la sentii alle spalle, col suo passo lesto e cadenzato. Piovigginava. Le gocce dell'acquerugiola facevano un rumore gradevole tra le foglie degli ippocastani. Il sole, prossimo a tramontare, dorava di un colore rosso ranciato le frondi degli alberi che, trasparenti, lucidissime, stillanti, parevano proprio di smeraldo. Per l'aria rinfrescata errava diffuso l'odor speciale che si lev a in primavera, dal terreno inzuppato dalla pioggia. - Mi aspettava? - ella disse, mostrandosi sorpresa di trovarmi. - Sicuramente - risposi stringendole forte la mano. - Come è buono! - La pioggia aumenta - soggiunsi offrendole il braccio; - verrà giú un rovescione. Andiamo a ripararci nel Caffè dei Giardini; saremo soli, solissimi; potremo ragionare a bell'agio. - Abbiamo ben poco da dirci! - ella fece, chiudendo il suo ombrello per prendere il mio braccio e reggere con l'altra mano il lungo strascico della veste. Nel Caffè dei Giardini c'era soltanto un vecchietto. Avrei voluto, entrandovi insieme a lei, far rivolgere almeno un centinaio di occhi su noi; avrei voluto sentire quel mormorio di ammirazione e vedere quei sorrisi di piacere che l'aspetto di una bellissima donna suol sempre produrre al suo primo apparire in un salone. Oramai quella donna in qualche modo mi apparteneva, e credevo di avere un po' il diritto di insuperbirmi della sua bellezza come di qualcosa di mio. La conversazione fu piú sentimentale, piú vaporosa dell'altra volta. Ella era contenta di vedermi già savio. Finché duravo cosí, quelle scappatelle da giovani innamorati potevano continuare. Come non appagarsi di una felicità modesta, soave, che trovava nella sua stessa natura una guarentigia di durata? Io sorridevo, dicevo di sí; ma gli leggevo nell'intonazione della voce e negli occhi qualcosa di simile a quello che sentivo accadere nel mio interno, e raffrenavo la gioia. Non avrei saputo dire perché, ma mi sembrava che le parole della nostra conversazione esprimessero quel giorno preciso l'opposto di quello che valevano nel loro ordinario significato. Piú intendevamo dirizzare le ali per l'alto, e piú mi pareva si radesse terra terra. Parlando di unione di cuori, mi sembrava che di accordo volessimo sottintendere; corpi; parlando di sentimenti ineffabili, eterni, mi sembrava evidentemente parlare di sensazioni ineffabili sí, ma fugaci, alle quali ci pareva mill'anni non pot erci inaspettatamente abbandonare, senza dirci una parola, come trascinati nostro malgrado. Che pause eloquentissime! Che sorrisi accompagnati da tentennamenti espressivi del capo, quasi per dire: guarda un po' come si va di carriera! E intanto ella parlava di mille piccole cose, del tempo, della pioggia la quale non voleva piú smettere, della sorella con cui viveva e dei suoi vasi di fiori; ed io progettavo una passeggiata alla Certosa di Garignano e a un mio villino in quei pressi; ed ella rispondeva di no, specie pel villino di cui, diceva, era molto giusto diffidare. Voleva che il nostro piccolo sogno di amore non si allontanasse mai e poi mai dal ristretto orizzonte dei viali dei Boschetti e dei Giardini Pubblici. Fiore delicatino, sarebbe subito appassito a trapiantarlo in terreno e sotto clima diversi. E poi, m'imaginavo forse che quel sogno dovesse durare molto a lungo? Oibò! Mi sarei presto annoiato, stancato; già ella mi secondava unicamente per provarmi che aveva ragione a diffidare di piú larghe profferte e di dichiarazioni piú solenni. - Che brutta cosa è la vita! - conchiudeva sospirando. Ma un sorriso gli lampeggiava a un tratto sulle labbra e negli occhi, e pareva dicesse all'opposto: - Com'è bella cosí la vita! Ed io internamente esclamavo di conserva: - Divina! Divina!- Da quel giorno in poi ci rivedemmo regolarmente con un'assiduità che non diminuiva affatto il piacere di ogni nuova passeggiata. Parlavamo meno che mai di qualunque progetto sul nostro avvenire. Ma annoiarci? Stancarci? Non se ne scorgeva l'ombra di un indizio. E cosí la Cecilia diventava di grado in grado meno diffidente, piú espansiva, e le nostre passeggiate si prolungavano sui bastioni di Porta Nuova fino a Porta Garibaldi. Una volta rientrammo tardi per la via Principe Umberto e per la via Manzoni. La serata era stata dolce; un magnifico lume di luna faceva impallidire le fiammelle del gas; la gente andava attorno allegra, chiassosa, contenta di godersi, dopo molti giorni di pioggia, una vera serata primaverile. Avevamo tanto ciarlato e tanto riso anche noi come due veri ragazzi! Ed ora camminavamo muti, raccolti, governati intimamente da una tristezza soave e tenevamo, quasi senza avvedercene, la mano dell'una stretta in quella dell'altro con pressione tenera e casta, da nuovi sposini. Passando parecchie volte per la via Manzoni, innanzi alla casa ove abitavo, io le avevo sempre indicato con piacere i terrazzini delle mie stanze. - Son belle? - mi aveva chiesto una volta. - Perché non viene a vederle? - le avevo subito risposto. Ma ella aveva affrettato il passo, dicendo di no. Quella sera, come al solito, ci fermammo innanzi al portone e con un semplice accenno degli occhi le chiesi, per grazia, di salir su. Esitò sospettosa e la rassicurai collo sguardo. Forse, se avessi pronunciato una parola, ella non si sarebbe indotta a salire; ma quel linguaggio intimo, intenso, che pareva non potesse celare una menzogna perché veniva diritto dal cuore senza l'intermediario della voce, corrispondeva tanto bene in quel punto allo stato dell'animo nostro, ch'ella sorrise languidamente quasi le fosse impossibile opporre della resistenza e fece il primo passo per entrare. Montammo le scale lenti, a capo chino. Dal suo respiro indovinavo che il cuore doveva batterle con l'uguale violenza del mio. Come siamo sciocchi e ridicoli in certi momenti della vita! Entrò guardando attorno, quasi spaurita di aver osato venir su. Nel salotto non volle sedersi, e rimase in piedi accanto al tavolo di mezzo, con una mano appoggiata sur un album e tenendo l'altra sospesa come preparata a respingere un assalto. Io accendevo tutti i lumi e volevo perfino accendere la lumiera; il salotto doveva risplendere a festa pel gran ricevimento della serata. Poi me le appressai, battendo le mani dalla gioia, e le chiesi che gliene sembrava. - Bello! - esclamò un po' distratta. - Visiti ora le altre stanze - le dissi porgendole il braccio. - No - rispose - mi basta: andiamo via. - Cosí presto? - È già tardi. - Si segga qui un momentino - feci, tentando di prenderla per la mano onde attirarla presso una poltrona. - No! no! - esclamò con voce soffocata, incrociando le dita e mettendo tra lei e me il tavolo sovraccarico di gingilli chinesi. Quest'atto di paura mi fece capire che significasse lo stordimento e l'affluire del sangue al capo che provavo in quell'istante. Dovevano certamente lampeggiarmi negli occhi le mille cupidigie che l'influenza del ristretto ambiente del salotto mi aveva all'improvviso destate. Ebbi vergogna ch'ella sospettasse potessi io usarle violenza in casa mia; e benché mi passasse un istante per la mente l'idea che quella paura poteva anch'essere uno dei tanti gestri del pudor femminile i quali vogliono ordinariamente esser intesi all'incontrario, pure preferii di parer un po' semplice, e con un accento da cui traspariva l'emozione: - Cecilia! - dissi - non dimentichi di trovarsi in casa d'un gentiluomo! - Grazie - rispose stendendomi la mano e stringendo con riconoscenza la mia. - Ma ... - soggiunse - la prego, andiamo fuori! La precessi col lume. Ella non parve pienamente rassicurata che quando fu sul pianerottolo. Lí riprese il suo sorriso, la sua vivacità e scese le scale lesta come un augellino che saltelli fra i rami. Non aveva mentito. Scopersi per caso che un mio amico conosceva il marito, lei, la sua famiglia e lo interrogai destramente. Era di buona nascita e aveva ricevuto un'educazione raffinata. Indotti da improvvisi rovesci di fortuna, i parenti la sposarono a un ricco piú vecchio di lei, un uomo brutale e vizioso con cui poté stare insieme appena sei mesi. Morti i genitori, conviveva al presente con la sorella, vedova di un impiegato governativo. Il marito, intrigato in brutti affari di speculazioni equivoche, e ra fuggito in America; ma libera e senza lo spauracchio di una vendetta minacciatale spesso da quell'uomo brutale, ella non aveva mai dato nulla a ridire sulla sua condotta. - Però - conchiuse l'amico - non sarei niente sorpreso di sentire un giorno o l'altro che sia anch'essa caduta: ha troppo cuore quella donna ed ha troppo sofferto; e la fortezza del carattere non sempre riesce a scacciar via le tentazioni di fuori e quelle di dentro, che son le piú pericolose perché ne diffidiamo assai meno -. Di primo lancio, apprendendo che non aveva mentito, provai una grande allegrezza; indi a poco a poco cominciai a riflettere sulla serietà di quel che stavo per fare. Ma quando la rividi e mi parve che lo splendore della sua bellezza fosse quasi offuscato da un raggiare mite e soave proveniente dalla bontà affettuosa e rassegnata scoperta nel suo carattere, sentii divamparmi piú forte nel petto il fuoco dell'amore destatovi da lei. Fui piú dimesso, piú gentile, piú premuroso; la trattavo, senza volerlo, come una di quelle convalescenti che hanno bisogno di cure minute e continue, da prevenirne i desideri, da indovinarne i capricci; e rimanevo ammaliato anch'io dall'incanto che scaturiva da questa nuova fase della nostra relazione. Ella n'era commossa e nello stesso tempo atterrita. Ne capiva meglio di me le conseguenze e avrebbe voluto evitarle; ma si sentiva oramai raggirata da un vortice che la trascinava rapidamente via e che l'avr ebbe inghiottita. Avevamo fatto dei giardini pubblici il nostro nido: non ci passava per mente di allontanarci di lí. Vi eran dei viali che ci sembravano esclusivamente nostri, quasi parte di noi stessi: delle piante, delle aiuole, dei punti di veduta che, ammirati le cento volte, entravano come elementi necessari nella vita spirituale dei nostri cuori, e piú non sapevamo come poterne far di meno. Una sera che provammo ad andar diritto, fuori Porta Venezia, lungo il viale di Monza, non riuscivamo a raccapezzarci; provavamo q ualcosa che c'impacciava; non ci sentivamo piú intimi come nei giardini; e quando ci persuademmo di tornare indietro e trovammo chiusi i cancelli, girammo silenziosi attorno ad essi fermandoci ad osservare dietro le sbarre di ferro. Le ombre della notte erano dense; gli alberi stormivano leggermente; i zampilli tacevano; di tratto in tratto mostravasi tra le cime degli alberi qualche strappo di oscurità e un po' di cielo stellato faceva risaltare sur un fondo scuro e diafano i neri frastagli delle frondi. Avevamo il cuore oppresso; ci agitava un vago rimorso; da quel silenzio, da quell'ombre partivasi un misterioso pispiglio di rimproveri: chi sa se domani vi avremmo trovato nuovamente le nostre sensazioni di tutti i giorni! E ci fermavamo e ci stringevamo l'una al braccio dell'altro, quasi per rimpiangere con quella stretta una felicità perduta; ed io ricercavo la sua mano ed ella me l'abbandonava come suol farsi nei momenti di grave dolore. - Eccoci scacciati dal nostro piccolo paradiso terrestre! - disse la Cecilia con voce che tremava delle strane emozioni di quel momento. - Oh mia Eva! - risposi, pronunciando quest'esclamazione con una serietà e con uno slancio che in altra occasione mi sarebbero parsi ridicoli. E le girai un braccio attorno il busto, e stringendomela al cuore le impressi ripetutamente i primi baci sulla fronte. Ella taceva come venuta meno, agitata per tutto il corpo da un ineffabile fremito. Gustavamo una quasi fisica voluttà nell'indugiarci con arte inconscia un momento che tutti e due eravamo certi dovesse finalmente arrivare. La Cecilia diventava sempre piú triste: mi guardava con quella occhiate lunghe e piene di tenerezza cosí speciali alla donna, ove si leggeva: - Tu mi farai del male, ma per questo non posso né voglio amarti di meno! - Io evitavo ogni parola, ogni frase che potesse sembrare un accenno a quel che stava per accadere, e lasciavo che il caso, una piccola circostanza imprevista assumesse l'ufficio della gocciolina che fa traboccare la tazza già ricolma fino agli orli. Ma, come al solito, la donna fu piú schietta e nello stesso tempo piú coraggiosa. Un giorno che io parlavo dell'eternità del nostro amore: - T'inganni - mi disse; - esso non fu mai cosí prossimo a finire come in questi momenti che tu ti compiaci di crederlo eterno! - Perché mai? - chiesi stupito di sentirla parlare a quel modo. - Perché la prova - rispose mestamente - sarà infallibile e breve ... Ma è meglio non pensarci! - No, non può essere! - dissi. - Credi dunque che io mentisca? - È il cuore - replicò - è la natura che verrà meno! Siamo entrambi in buona fede. - Vedrai! - Oh! Vedrai! - Quel giorno i giardini erano tuttavia illuminati dal bel sole dei primi del giugno. Brillava, cantava attorno una gran festa di luce, di colori, di sussurri che faceva bollire il sangue ed eccitava le menti. In che maniera ci trovammo, da lí a poco, a salire le scale di casa mia? Non lo saprei dire davvero. Appena passato l'uscio, la strinsi tra le braccia e la baciai sulla bocca, esclamando: - È l'investitura del tuo regno! - Sorrise triste, incerta, ma non rispose nulla. Entrò in salotto con un incredibile abbattimento sul viso: le pupille nuotavano nelle lagrime che non si decidevano a venir giú. Io ero piú commosso di lei, ma in un'altra guisa. Le stavo attorno pregandola cogli sguardi di non mostrarsi cosí, e intanto l'aiutavo a cavarsi i guanti e il cappello. - Che sbaglio stiamo per fare - esclamò. E nello stesso punto abbandonossi singhiozzando tra le mie braccia e mi coperse di baci Il giorno appresso le mie stanze mi parvero un giardino improvvisamente fiorito sotto la bacchetta di una fata. Ella andava, veniva, sorrideva, mi interrogava, mi faceva delle proposte per disporre meglio certi mobili, mi parlava di tanti piccoli nulla che pel suo genio di donna avevano una grande importanza; ed io non sapevo persuadermi fosse quello il primo giorno ch'ella stesse con me ed abitasse la mia casa. C'era dappertutto un nuovo colorito vivace, chiassoso che mi abbagliava: c'era un profumo soavis simo che deliziava le narici e penetrava fino all'anima; c'era una musica paradisiaca, come di un'orchestra invisibile, destata dal voluttuoso fruscio della sua veste di seta: mi pareva strano, quasi impossibile che tutte queste cose non ci fossero mai state fino allora! Presi per mano, andavamo in salotto senza sapere perché; tornavamo addietro girando per le altre stanze, fermandoci innanzi un quadro, una stampa, un gingillo di porcellana, cosí spensierati, cosí contenti, cosí felici da non metter fuori nemmeno un'esclamazione per dircelo a vicenda con un semplice monosillabo. Parlavano piú efficacemente, piú profondamente gli sguardi; e quando essi non bastavano aiutavano i baci. Che baci, Signore Iddio! Che baci! La sua stanza da letto fu adornata come un piccolo santuario dell'amore: tutta cortine candidissime, tutta ombre e frescura, pareva, entrando, prendervi un bagno vivificante di giovinezza e di felicità. Come ero superbo di quel santuario cosí elegante e civettuolo, intorno al quale avevo speso tante cure meticolose quasi si fosse trattato di un'opera d'arte! E come ero beato di vederla il mattino uscire di lí avvolta nel suo bianco abbigliamento da toeletta, con la cuffiettina da notte che ratteneva a stent o i capelli disciolti, coi nastri di essa che le svolazzavano per le spalle e sul petto, e coi piedi entro le microscopiche pantofoline rosse che affasciavano di quando in quando la punta sotto gli orli della veste come due linguette di serpenti! Pensavo alle belle apparizioni delle dee antiche sognate dai greci e sentivo diffondersi per l'aria attorno un odore soavissimo come di cosa sovrumana. Per piú settimane i limiti del nostro quartierino segnarono per noi gli estremi confini del creato! Vi era intanto un che di austero in quel sogno di amore! Cecilia, benché si sforzasse di non mostrarmelo, provava in tanta felicità una tristezza che giornalmente diventava piú intima e piú profonda. I suoi occhi avevano spesso degli sguardi di un abbandono inesprimibile; sulle labbra le appariva frequente un sorriso che toccava il cuore come un rimpianto. Non era, lo capivo, a una felicità sparita che rivolgevasi quell'indefinito sospiro dell'anima; ma ad una felicità che le pareva fuggisse via di mano in mano che ella si accorgeva diventasse piú intensa. E ques to metteva nella nostra vita un'intonazione elevata, austera che me la rendeva piú cara. La mia stanza da studio fu adornata per suo consiglio di vasi di fiori. Rimpetto al tavolo dove leggevo o scrivevo, ella situò il suo tavolino di lacca intarsiato in madreperla, col cestino del lavoro e qualche libro; e sedeva lí sur una poltroncina bassa, covandomi coi suoi sguardi e coi suoi sorrisi pieni di un sentimento di premura quasi materna, di qualcosa insomma che trascendeva qualunque straordinaria espressione di amore. Spesso mi levavo dal tavolo, andavo a sedermele accosto per terra e, la testa sui suoi ginocchi, le domandavo con un gesto delle labbra la mia elemosina di baci. Altra volta era lei che mi s'avvicinava in punta di piedi per dirmi dolcemente all'orecchio - Maurizio, ti affatichi troppo! E mi distraeva dallo studio coll'accarezzarmi e col baciarmi. Ingrati come tutti gli amanti, non ritornammo piú ai giardini pubblici, non ne parlammo nemmeno una volta. Ella si chiuse in casa pari a quelle femmine di uccelli, che nel tempo della cova non abbandonano mai un solo momento il lor nido e vi son nutrite dal maschio che va in busca di preda. Non voleva piú veder nessuno, nemmeno la sorella; tutto il suo mondo era circoscritto in quelle nostre stanze; che le importava del resto? Mi pregava intanto di non sacrificarmi per lei. Amici, conoscenze, relazioni sociali, tutto dovevo coltivare come prima, senza mutare un'abitudine, senza venir meno a un dovere, senza mancare a una convenienza! ... Per carità, non la facessi accorta che mi fosse già diventata un impaccio! ... Pur troppo questo momento sarebbe arrivato! Che arrivasse almeno il piú tardi possibile! Tanta insistenza a dubitare dell'avvenire m'irritava un pochino e mi costringeva mio malgrado a riflettere. Ero forse mutato? No. Provavo dei sintomi di stanchezza e non mi accorgevo di mostrarli? Neppure per ombra. La Cecilia, conosciuta intimamente, superava perfino l'ideale che me n'ero formato al solo vederla. Ma quel suo lamento rassegnato mi feriva. In confuso capivo forse anch'io che qualcosa di ciò che ella prevedeva dovesse finalmente avvenire; ma m'illudevo volentieri e m'ostinavo a credere che invece non sarebbe punto avvenuto. - Perché sempre cosí triste? - le dissi un giorno. - Mi fai soffrire! - Io triste? - rispose sorridendo, ma in maniera che il sorriso ne smentiva le parole. - Non son mai stata tanto felice! - Temi sempre che il nostro amore ... - Chi ama teme! - m'interruppe. - Però tu mi hai giurato che il giorno in cui ti accorgeresti di non piú amarmi, saresti tanto generoso e leale da dirmelo subito. - E lo torno a giurare. - Del resto poi non aspetterò che tu me lo dica; lo saprò anche prima che tu stesso abbia coscienza del mutamento avvenuto. Con una donna che ama davvero è cosa inutile il mentire -. E sorrideva. Intanto le tremava la voce e aveva gli occhi imbambolati. Divenne, e mi pareva impossibile, piú tenera, piú espansiva. Sentivo nei suoi baci come un furore di affetto. Dalle sue carezze traspariva una smania, un tormento di volerne esaurire tutt'intera la dolcezza e uno scontento di non riuscire. Spesso mi chiamava a nome due, tre volte di seguito, unicamente pel piacere di pronunciare: "Maurizio! Maurizio!" - Matta! - le dicevo abbracciandola, e battendole sulla guancia colla punta delle dita, quasi per castigarla come una bimba cattiva. Insomma sembrava avesse fretta di godersi una felicità che vedeva dileguarsi a poco a poco. Io intanto vivevo tranquillo. Non scorgevo nei miei sentimenti e nei miei modi nessun mutamento. Naturalmente mi trovavo assai piú calmo; lo stato di esaltazione febbrile non poteva durare in perpetuo; ma quel godimento sereno, sempre uguale che vi era succeduto, mi sembrava piú dolce, piú intimo e per conseguenza piú duraturo. Le smanie della Cecilia, le sue tenerezze eccessive m'inquietavano stranamente, come un cattivo presagio. La rimproveravo con un accento che sembrava preghiera; e in seguito mi stizz ivo di non averla rimproverata con bastante energia; quella fiacchezza di rimproveri mi sembrava un delitto dalla mia parte. - Tu hai pianto! - le dissi un giorno, sorprendendola cogli occhi rossi e asciugati malamente in fretta nel sentirmi rientrare in casa. - No - rispose; - ho dormicchiato sulla poltrona; ho un po' di emicrania -. Mi appagai di quella risposta; ma rimasi inquieto fino a sera. Perché m'ero appagato? Non ero forse sicuro che la Cecilia aveva voluto nascondermi la verità? Sí, ella aveva pianto! E non mi era passato pel capo di dirle una parolina sola di conforto. Ingrato! Ma non trovavo il verso di riparare al mal fatto. Era un po' dimagrita da qualche tempo in qua, e un po' pallidina. Mi persuasi dopo alcuni giorni che doveva dormir poco. Una notte fui di un tratto svegliato da un fruscio di veste nella mia stanza. Apersi gli occhi con un senso d'indefinito terrore, e vidi la Cecilia accoccolata sul tappeto accanto al mio letto, coi capelli sciolti sulle spalle, colle mani aggrappate attorno un ginocchio, gli occhi spalancati, immobili sopra di me, le guance irrigate da lagrime che scorrevano silenziose. - Dio mio! Cecilia, che fai? - le dissi. E tentavo rimoverla da quella posizione attirandola per un braccio verso di me onde spingerla a levarsi. - Lasciami star qui! - rispose, - lasciami star qui, te ne prego! - Ma ti ammalerai! Sei fredda! Cecilia! - Lasciami stare! - Non rispondeva altro, né si asciugava le lagrime e continuava a guardarmi fisso. Mi posi a sedere sul letto accostandomi alla sponda, in modo di prendere la sua testa fra le mie mani, e cominciai a baciarla sui capelli, mormorando affettuosamente: - Cecilia mia! Levati su, per carità! Levati su! Parla che è stato?- Si alzò lentamente, come un'apparizione, ricacciò dietro le orecchie i capelli e mi tese le mani sorridendo sconsolata. I capelli nerissimi sciolti pel collo, l'accappatoio bianco, il pallore del viso, alla luce del lumino da notte che ardeva sul comodino entro un vaso di alabastro, davano a quella figura di donna un fascino sacro ... In quel momento ero superstizioso e credevo a qualcosa di un altro mondo. - Parla, che è stato? - tornai a balbettare. - Tutto è finito! - rispose con un filo di voce che parve quello di una moribonda. Poi, dopo una breve pausa, diessi a divorarmi dai baci per parecchi minuti di seguito in modo da togliermi il respiro e fuggí via. Rimasi fino al mattino cogli occhi fissati all'uscio da cui l'avevo vista sparire come un fantasma, incerto se avessi assistito ad una realtà o sognato a occhi aperti. Nella giornata non osai interrogarla sull'accaduto della notte. Ero sbalordito: credevo di aver ricevuto un gran colpo sulla testa e non mi stupivo di non riuscire a riordinar bene le idee. La vidi affaccendata a far dei preparativi che mi sorprendevano: ma non trovavo modo di aprir bocca per domandargliene ragione. Mi pareva che facesse un'operazione convenuta di accordo fra noi. Per un viaggio? Per una villeggiatura? Non lo rammentavo preciso; però quei preparativi erano tristi, mi stringevano il cuore, mi riempivano gli occhi di lagrime. Finalmente il mio spirito acquistò ad un tratto una sorprendente lucidità. Tutto era finito! Come? Cosí lentamente, cosí segretamente che non me n'ero accorto io medesimo; ma pur troppo tutto era finito! La Cecilia aveva detto una cosa che la mia mente non avrebbe saputo esprimere per cento ragioni, e sopratutto perché si rifiutava a credere quello che imaginava non avrebbe dovuto accadere. La Cecilia era calma. Ripiegava i suoi vestiti di mano in mano che li toglieva dall'armadio e li situava nelle casse. Ogni abito era per me un ricordo di un giorno di beatitudine, di un'ora felice, e a vederlo riporre, mi pareva assistere alla tumulazione di una particella del mio povero cuore ... Soffrivo un dolore compresso, un acuto limío, ma non avevo il coraggio di accostarmi a lei per dirle: - Rimani! Ricominciamo daccapo! - Non volevo mentire; non avrei neanche saputo. Sentivo tutta ora la stanchezza di una situazione irregolare, nella quale ci eravamo imbarcati io colla spensieratezza di un uomo appassionato, ella colla rassegnazione del sagrificio di una donna che ama! Pensavo con tristezza: - Perché non può durare? Perché non deve durare? - E la riflessione rispondeva tranquillamente: - È la legge! - Tornai dopo alcuni giorni ai giardini pubblici per rintracciarvi un passato che piú non trovavo dentro di me. Era la stessa stagione del nostro primo incontro, la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e qua e là fiorite; il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi fra le foglie agitate dai venticelli della sera. Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano piú nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei canali torbide, verdastre, riflettevano il cielo e gli oggetti in un tono di colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava pretenzionoso e volgare. Gironzolai qua e là, facendo ogni sforzo per evocare una sensazione, un sentimento; ma invano. Il viale dei Boschetti mi parve tristo, lungo, basso da mozzare il fiato; dal canale accanto esalava un cattivo odore di borraccina che non avevo mai avvertito. E andando via rimuginavo: - Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del nostro spirito, uno scherzo, un'illusione? Povera Cecilia! Tu non avresti mai creduto che perfino il mio rimpianto di amore sarebbe un giorno sfumato perdendosi fra le nebbie di un problema di metafisica!

Racconti 2

662698
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Ella storse gli occhi e aprí la bocca, annaspando con le braccia che ricaddero subito inerti, abbandonando la testa sui cuscini, pesantemente. - Santa! Santuccia! ... - Nino ruzzolò le scale come un pazzo e, aperto l'uscio di strada, si mise a urlare: - Aiuto, santi cristiani! ... Zia Peppa! ... Zia Pina! ... Mastro Paolo! ... Aiuto! - E alla zia Peppa, che s'era affacciata alla finestra, disse: - Accorrete, per carità! È venuto male a mia moglie ... Io volo dal medico! - E pareva dovesse fiaccarsi il collo pel vicolo, tanto andava di corsa. Cosí l'infelice Nino Spaso si trovò vedovo con quattro bambini su le braccia, quasi senza saper come. Sua moglie s'era sgravata felicemente; e poche ore prima, quantunque coi dolori del parto, gli aveva preparato la minestra e aveva messo a letto i bambini, bella e florida, allegra come al solito, scherzando coi figliuoli che non volevano addormentarsi: - Domani, se siete buoni, vi regalerò il fratellino o la sorellina, che troverò nella sporta dietro l'uscio -. Ed ora stava distesa là, morta, e pareva dormisse, con le mani in croce sul petto, la candela di cera accesa al capezzale, e da piè l'orfanello nato da poche ore, che non avrebbe conosciuto la mamma! - Come mai? Come mai? ... Ah bella Madre santissima! Che tirannia avete commesso, portandovi in paradiso la mamma di queste quattro creaturine! Che tirannia! - Le vicine piangevano zitte, sedute attorno, soffiandosi il naso di tanto in tanto, lasciando sfogare il pover'uomo che se la prendeva con la Madonna e con Gesú Cristo. Bisognava compatirlo; non sapeva quel che si dicesse, balordo, con gli occhi asciutti, fuor di sé dal gran dolore. E si aggirava per la camera, fissando il cadavere a cui avevano coperto la faccia con un fazzoletto bianco; e chiamava: - Santa! Santuccia! - quasi Santuccia avesse potuto udirlo e svegliarsi dal sonno della morte, impietosita da quelle grida. Si erano svegliati invece i tre bambini nella cameretta accanto, e domandavano se dalla mamma c'era già il fratellino o la sorellina trovata nella sporta dietro l'uscio, come aveva promesso. Poveri innocenti! Saltati ignudi fuor dal lettuccio, con gli occhi ancora ammamolati dal sonno e i capelli arruffati, festeggiavano il fratellino baciandolo, toccandolo, prendendolo per le manine; e non sapevano di essere orfani. Né lo avrebbero capito domani, quando non avrebbero piú visto la mamma, come non capivano le smanie del babbo che, affacciatosi piú volte dall'uscio, aveva esclamato: - Ah Cristo! Perché non avete preso questi qui e non m'avete lasciato la moglie? - Farneticava allo stesso modo ancora dopo due giorni, e non sapeva persuadersi che sua moglie fosse morta davvero. - Fatevi coraggio, compare Nino! - E a queste creaturine chi baderà, quando dovrò andare attorno per guadagnarmi il pane? - Rispondeva cosí, tenendo la testa fra le mani, accasciato sulla seggiola, ogni volta che le vicine tentavano di consolarlo. - Non siamo qua noi? - rispondevano in coro le vicine. Infatti esse erano là da mattina a sera; specialmente Nela della zia Peppa, bruna, magra, con grandi occhi neri; Ciccia di mastro Paolo, bionda, pallida, grassottina, con occhi cerulei, seria e lenta; e Carmela di comare Pina, rossa e paffuta, con tanto di spalle e di braccia e tanto di seno; tre ragazze piene di carità, che gli vestivano, gli lavavano i bambini, gli ravviavano la casa, gli preparavano il desinare e la minestra la sera; quasi intendesse ro persuaderlo che, invece d'una sola moglie, ne aveva ora tre; una meglio dell'altra, diceva maliziosamente qualche burlone. - Volete scommettere che compare Nino sarà imbarazzato nella scelta? - conchiuse la 'gna Rosa, la carbonaia lí di faccia. Eh, via! Quel povero compare Nino poteva aver il capo a rimaritarsi cosí presto, con quel gran dolore nell'anima? Infatti, egli se ne stava rincantucciato in casa, piagnucolando, lamentandosi, senza neppur pensare al mulo e al carretto che davano da campare a lui e ai figliuoli. Aveva le braccia e le gambe stroncate, la testa vuota, e pareva trovasse gusto a grogiolarsiI nella propria disgrazia. Era verità però: invece d'una, ora aveva tre mogli in casa, l'una meglio dell'altra; senza cattive intenzioni, s'intende, perché egli badava poco a quelle tre ragazze che gli si affaccendavano attorno e gli apprestavano ogni cura. Né s'accorgeva, poverino, che esse, dopo tre giorni, si guardavano in cagnesco, quasi se lo disputassero, facendo a chi meglio potesse servirlo, precorrendone i desideri, cercando ognuna di mostrarsi piú attenta, piú accorta, piú lesta dell'altra. Era assai ch'egli già notasse il letto sprimacciato molto meglio di quando viveva la sant'anima; la biancheria piú bianca e piú odorosa; i bambini piú ravviati e piú puliti; il desinare e la cena, piú saporiti. - La Provvidenza mi aiuta con la carità delle buone vicine! - E benediva quelle mani che sprimacciavano il letto, le santi mani di Nela; e benediva le belle mani di Ciccia, che lavavano e stiravano la biancheria; e benediva le mani di Carmela, che tenevano cosí ben ravviati i bambini e la casa. E se Ciccia voleva sprimacciar lei il letto, e Nela le diceva, stizzita: - Lascia stare! -; e se Nela voleva vestire e lavare i bambini lei, e Carmela glieli levava di mano con poco garbo: - Bada a fare qualcos'altro -; e se Carmela voleva mescolarsi del desinare o della cena, e Nela la mandava via di cucina, brontolando: - Qui basto io! - il povero vedovo sorrideva tristamente. E quando Carmela arrivava la prima, di buon'ora, e non mancava mai di dirgli: - Che ci vengono a fare quell'altre? Ho braccia solide io - e faceva osservargli che Ciccia era d'impaccio con quel suo fare lento, da tartaruga, e che Nela non era buona neanche ad arrostire due fave, Nino si stringeva nelle spalle e le dava tacitamente ragione. E dava ragione a Ciccia, se ella gli parlava male di quel fagotto della Carmela, che s'affannava e si dimenava tutta senza conchiuder nulla; e dava ragione a Nela, se cos tei gli susurrava all'orecchio che quelle altre erano due pettegole buone a niente, e non sapevano dove stesse di casa il governo d'una famiglia, ma pensavano alle pompe, a lisciarsi, a pettinarsi, a pararsi coi quattro stracci che possedevano. Che poteva mai fare, pover'uomo? Doveva dar ragione a tutte e tre, per vivere in pace. Ciccia e Carmela però, vedendo Nela star troppo attorno al vedovo, brontolavano insieme: - Che civetta! - Cosí Carmela e Nela si trovavano di accordo nel dir male di Ciccia, allorché, seduta in un canto presso il vedovo, faceva lunghi pissi pissi con lui, quasi fosse stata la padrona e avessero dei segreti fra loro! Allo stesso modo, Nela e Ciccia levavano i pezzi di Carmela, se si metteva in maniche di camicia, per darsi l'aria di massaia, mostrando le belle braccia e il resto, senza vergogna di sciorinarglieli sotto il muso; ma compare Nino neppur le badava! Compare Nino, veramente, badava a godersi quella grazia di Dio, né parlava piú della morta, né sospirava piú, quantunque rimanesse sempre in casa, anche dopo che i giorni del lutto erano terminati. Stavasene seduto in un angolo, tutto rannicchiato, o si stendeva sul letto, con le braccia dietro il collo, e si faceva cercar in capo, per svago, perché provava una specie di sollievo nel sentirsi formicolar fra i capelli quelle dita di ragazze, stando con gli occhi socchiusi, quasi tentasse di addormentarsi per addormentare cosí la pena della propria disgrazia. Un giorno, dopo desinare, Nela, che lo cercava, con le dita fra i capelli, uscí a un tratto a domandargli: - Compare Nino, e ora che pensate di fare, con quattro bambini su le braccia? - Compare Nino aperse gli occhi, e la guardò fisso, meravigliato di questa domanda. Quel giorno gli parve che le dita di Nela fossero piú delicate in quel lavoro di solletico tra i capelli e su la cute del capo. Ma il giorno appresso, venne la volta di Ciccia, che disse: - Compare Nino, chi sa quali mani vi cercheranno in capo da qui a sei mesi? - Compare Nino aperse gli occhi, e la guardò fisso, come aveva fatto con l'altra; e ci corse poco non rispondesse: - Quali altre mani posso trovare meglio delle vostre? - Il giorno dopo però, si rallegrò di non esserselo lasciato scappar di bocca. Carmela gli passava e ripassava le dita fra i capelli, rimescolandoglieli, grattandogli delicatamente la cute; e le belle braccia ignude gli sfioravano le guance e gli orecchi, quasi volessero unire al solletico una dolce carezza. Ella intanto non gli diceva nulla; non gli domandava che pensasse di fare con quattro bambini su le braccia; né si preoccupava delle mani che gli avrebbero cercato in capo di lí a sei mesi; ma cercava, ce rcava delicatamente, con le dita tra i folti capelli, e talvolta gli posava il braccio nudo sulla guancia, senza malizia forse; ed egli sentiva come avesse sode, fine e fresche le carni. Il povero vedovo la lasciava fare, non apriva gli occhi, e cacciava giú, in fondo al cuore, il rimorso che saliva a morderlo. - Appena otto giorni da che quella poveretta era spirata su quel letto, e già stava per dimenticarla! - Avrebbe preferito che le cose fossero andate in lungo sempre cosí; ma una mattina venne su la zia Peppa, mamma di Nela, con rocca e fuso, seria seria. - Compare Nino, io mi chiamo Santa Chiara; e a voi il parlar chiaro non deve dispiacere. - Dite pure, comare Peppa. - Se siete uomo di onore, e c'è la volontà del Patriarca san Giuseppe ... - Ma non poté continuare, perché sopraggiunse mastro Paolo, con la fetida pipa in bocca. Veniva a visitare il compare, e si rallegrava di vederlo star bene. Mastro Paolo, tiratolo in disparte, gli chiese scusa se Ciccia non sarebbe salita piú da lui. - La gente sparla. Debbo fare un omicidio? ... Se voi, compare, avete buone intenzioni ... - Quel giorno, venne soltanto Carmela; e si sbracciò, com'era solita, e ravviò la casa, sprimacciò il letto, cucinò il desinare. Impastò anche il pane, zitta zitta, e fece le focacce pei bambini; e quando, piú tardi, giunse la balia che allattava l'orfanellino, glielo tolse dalle braccia, disfece le fasce, gli ricambiò i panni, proprio come una mamma, quasi già fosse abituata; e poi domandò: - Compare Nino, debbo dare una manciata di fave alla balia? - La zia Peppa torse il muso, e nell'andar via disse a compare Nino in un orecchio: - Che le costano a lei le fave? - Anche mastro Paolo, ripulita la pipa e battendola sul pomo della seggiola, si alzò imbroncito; e stringendogli la mano, brontolò sottovoce: - Ho capito, compare: vi piace mangiare nel piatto dove altri ha mangiato prima di voi. Buon pro vi faccia! - Carmela, che aveva udito ogni cosa, rimettendosi il grembiule, disse: - Compare Nino, mi dispiace pei bambini ... - E fu interrotta dal gruppo di pianto che le strinse la gola. - Lasciateli dire. So che sono calunnie; parlano per rabbia - rispose Nino. - Fatelo per quelle creaturine, comare Carmela -. Il giorno dopo però erano lí tutte e tre; e non si scambiavano una parola, rabbiose, intolleranti, ognuna levando di mano all'altra i servigi da fare. Cosí il desinare andò a male e prese il bruciaticcio; i bambini rimasero sporchi e spettinati; la casa, tutta sossopra; e nel letto mal rifatto le materasse parevano riempite di sassi. Nela ruppe due piatti, e se la prese con Ciccia e Carmela, sporcaccione disadatte. Ciccia rovesciò il catino per terra e inondò la camera, e per poco non venne alle mani con Ca rmela, cialtrona, che non era altro, da non averci che fare. E Carmela rispostò con tanto di bocca e le mani sui fianchi, urlando che compare Nino era un grullo, e si lasciava menare pel naso da quelle due sgualdrinelle! - Che c'entro io? - diceva compare Nino. Quella notte, tra pel frastuono di tutta la giornata e tra pel letto pieno di gobbe, il povero vedovo non chiuse occhio. - E pretendono che ci ho tre mogli, invece di una! Troppa grazia, sant'Antonio! - egli esclamava, dopo due altri giorni di quella baraonda. - Bisogna decidersi; cosí non può andare. Se non ci fossero i bambini ... Ma poiché il Signore ha voluto cosí! ... - E si decise la sera dopo. Le braccia fresche, sode, dalla pelle fina, che gli avevano accarezzato la guancia, non le aveva piú dimenticate; e appena Carmela, che in quel momento si trovava sola in casa di lui, vistolo arrivare col carro, scese giú nella stalla per aiutarlo a levar gli arnesi al mulo, egli la prese per una mano: - Sentite, comare Carmela ... - Lasciatemi stare, compare Nino ... - Sentite, comare Carmela: se mi giurate che è un'infamità quel che di voi dice la gente! ... - E quando vi avrò giurato? Mi crederete? - Vi crederò, per l'anima santa della morta! - Allora ... ve lo giuro, per questa croce di Dio! - rispose Carmela, baciandosi i pollici incrociati. Il giorno delle nozze, al ritorno degli sposi dalla chiesa, Nela e Ciccia, già ridiventate amiche per far dispetto a quell'altra, erano in istrada, fra le altre vicine, e si sforzavano di parere allegre. La gna Rosa gettava manate d'orzo addosso agli sposi: - Salute e figli maschi! - Non c'è pericolo - borbottò malignamente mastro Paolo. - La prova è stata fatta! - Nela e Ciccia scoppiarono a ridere sgangheratamente. Allora Carmela, fingendo d'avere la tosse, sputò tre volte dietro a sé, e infilò l'uscio: - Crepate! - Catania, aprile 1888@. 1888.

CENERE

663036
Deledda, Grazia 1 occorrenze

In poco tempo egli si trasformò, ingrassò e diventò addirittura un signore, abbandonando il rozzo costume fonnese per un abituccio di fustagno scuro. Inoltre cominciò a parlar nuorese e ad assumere i modi spigliati di Bustianeddu. Ma il suo cuoricino non cambiava, non poteva cambiare. Strani sogni di fughe, di avventure, di avvenimenti straordinari si confondevano, nella piccola anima, con l'istintiva nostalgia per il luogo natìo, per le persone e le cose perdute; col desiderio della libertà selvaggia fino allora goduta, ed infine col sentimento arcano di pietà e di vergogna, col pensiero costante, col segreto anelito per la madre lontana. Egli anelava a qualche cosa d'ignoto, voleva sua madre perché tutti avevano la madre, e perché il non averla gli causava, più che dolore, umiliazione. Capiva che ella non poteva stare col mugnaio, perché costui aveva un'altra moglie; ma fra i due, egli avrebbe preferito vivere con lei. Forse istintivamente intuiva già che ella era la più debole, e anche per ciò si sentiva dalla sua parte. A misura che il tempo passava, questi sentimenti si attenuavano, ma non scomparivano dal piccolo cuore; come nella piccola memoria si trasformava ma non spariva la figura fisica e morale della madre lontana. Un giorno poi egli venne a sapere da Bustianeddu, che lo perseguitava con la sua amicizia subìta più che accettata, una cosa straordinaria. «Mia madre non è morta», gli confidò il ragazzetto, quasi vantandosene. «Si trova anch'essa in continente, come la tua: scappò una volta che mio padre stette in carcere. Ma quando sarò grande andrò a trovarla; eh, sì, te lo giuro! Eppoi io ho anche uno zio, che studia in continente; ed egli scrisse d'aver veduto mia madre passare in una via, e voleva bastonarla, ma la gente lo tenne fermo. Ecco, questo berretto rosso era di mio zio.» Questa breve storia confortò Anania, e lo legò di viva amicizia con Bustianeddu. Essi trascorsero molti anni assieme: nel frantoio, nella casa di zia Tatàna, per le straducole del vicinato. Bustianeddu aveva quasi la stessa età di Zuanne, l'amico perduto, e in fondo era generoso e ardente. Andava o diceva d'andare a scuola, ma spesso il maestro scriveva un bigliettino al padre per chiedere notizie dell'invisibile scolaro: allora il genitore, che era un piccolo negoziante di lana e di pelli, legava il bimbo con una corda di pelo e lo chiudeva in una stanza, imponendogli di studiare. Come i delinquenti dal carcere, Bustianeddu usciva da questa specie di prigionia più astuto e indurito di prima. Solo durante le lunghe e frequenti assenze del padre, egli, solo in casa, diventava serio: pareva sentisse la responsabilità della sua posizione; guardava la casa, scopava, preparava da mangiare, lavava la biancheria. Spesso Anania lo aiutava di gran cuore; in cambio Bustianeddu gli dava qualche consiglio e gli insegnava molte cose buone e moltissime cattive. Passavano buona parte delle giornate e delle lunghe sere fredde nel molino, ove Anania grande, - come lo chiamavano per distinguerlo dal figlio, - lavorava per conto del ricco signor Daniele Carboni, al quale il frantoio apparteneva. Il mugnaio, - che secondo le stagioni si trasformava in contadino, in ortolano, in vignaiuolo, - dava al signor Carboni il rispettoso titolo di padrone perché lo serviva da lunghi anni, ma in realtà il suo lavoro era molto indipendente, ben rimunerato e non privo di incerti. Il frantoio dava da una parte su un cortile e dall'altra su un orto che scendeva fino allo stradale sopra la valle; un bell'orto alquanto selvatico, con roccie, siepi di biancospino e di fichi d'India, peschi e mandorli e una quercia dal tronco corroso, nido di grosse termiti, di cavallette, di bruchi e d'uccelli. Anche quest'orto apparteneva al signor Carboni, ed era il sogno di tutti i monelli del vicinato; ma zio Pera Sa Gattu, il vecchio ortolano sempre armato d'un randello, non lasciava mai penetrare nessuno. Da quest'orto si vedevano le belle ed agili fanciulle nuoresi scendere alla fontana con l'anfora sul capo come le donne bibliche: e zio Pera le sbirciava con occhi da satiro mentre seminava le fave e i fagiuoli, mettendo tre semi per buco, e gridando per spaventare i passeri. Dal finestrino del molino Anania e Bustianeddu guardavano anch'essi con intenso desiderio l'orto soleggiato, aspettando che l'ortolano si assentasse: ma zio Pera, ch'era un ometto secco, dal viso rosso-terreo, sbarbato e sarcastico, amava troppo le sue fave e i suoi cavoli per abbandonarli durante la giornata: solo verso sera saliva al molino per riscaldarsi e chiacchierare. Era un'annata abbondante di olive; anche i proprietari dei paesi vicini s'affannavano per ottenere l'opera del frantoio che funzionava giorno e notte; per ogni macinata di circa due ettolitri d'olive si lasciavano due litri d'olio. Accanto alla porta c'era una latta per l'olio da alimentar la lampada di questa e quella Madonna, e le persone devote non mancavano mai di versarvi un po' del prodotto delle olive macinate durante la giornata. Sacchi d'olive nere lucenti, sansa fumante, barili ed altri recipienti sporchi ingombravano sempre l'ambiente nero, caldo e sucido del molino; e in questo ambiente, intorno alla ruota trainata dal lungo cavallo baio, davanti alla caldaia bollente, accanto al torchio sempre in moto, sempre stillante olio, fra l'odore non sgradevole ma troppo forte della sansa e dei rifiuti dell'olio, muovevasi di continuo una folla di tipi caratteristici. La sera, poi, si riunivano intorno al fuoco della caldaia le persone più freddolose del vicinato: per lo più la compagnia veniva composta, oltre che dal mugnaio e dai clienti, che aiutavano a spingere la sbarra del torchio, da cinque o sei individui sempre alticci. Uno di questi, Efes Cau, già ricco possidente, ridotto in estrema miseria dal vizio del vino, dormiva quasi ogni notte nel molino, infestando di insetti l'angolo dove si coricava. Una sera, appunto, sorse questione fra il mugnaio ed un ricco contadino che aveva trovato un brutto insetto in un sacco di olive. «Dovresti vergognarti, per Dio!», gridava il contadino. «Perché lasci entrare qui tutti i vagabondi di Nuoro?» «Dopo tutto egli era ricco, più ricco di te!», gridò il mugnaio, difendendo il Cau. «Questo non impedisce che ora egli viva di elemosine e sia pieno di insetti», rispose l'altro con disprezzo. Allora zio Pera l'ortolano, che stava seduto accanto al fuoco col suo randello fra le ginocchia, recitò una canzonetta: Onzi pessone Nde juchet de munnia. - E tue chi lu ses nende Nde juches unu andende Issu collette! Il contadino si toccò istintivamente il colletto e tutti risero. Anche il contadino rise, si calmò ed anzi fece portare da casa sua un bottiglione di vino. Anania e Bustianeddu, seduti in un angolo, sulle sanse calde, si divertivano nell'udire i discorsi dei grandi: e quando arrivò Efes, come sempre ubriaco, barcollante, vestito d'un vecchio abito da caccia del signor Carboni, Bustianeddu gli andò incontro e gli cantò la canzonetta di zio Pera. Onzi pessone bia ... Efes lo guardò coi suoi occhi vitrei, rotondi e sporgenti, e mentre sulle sue guancie gialle e cascanti passava come un brivido di disgusto, la sua mano palpava il lurido collo della giacca abbottonata. La gente ricominciò a ridere, e l'infelice si guardò attorno e barcollò; poi si mise a piangere accorgendosi che lo deridevano. «Efes!», gridò zio Pera, mostrandogli un bicchiere colmo che al riflesso del fuoco pareva di rubino. L'ubriaco si avanzò, sorridendo fra le lagrime con un sorriso ebete. «No», disse Franziscu Carchide, il giovane calzolaio, nonché ricamatore di cinture, bel giovine galante, dal viso roseo, «se tu non balli non bevi.» E preso il bicchiere dalle mani del vecchio lo sollevò in alto, mentre Efes guardava e tendeva le braccia animato dal brutale desiderio del vino. «Dammi, dammi ... » «No, se non balli, no.» Egli fece un giro intorno a sé, reggendosi in equilibrio. «Bisogna anche cantare, Efes!» Ed egli aprì la bocca puzzolente ed emise una nota rauca: Quando Amelia sì pura e sì candida ... Egli tentava sempre questo motivo; ma arrivato all'ultima parola contorceva la bocca come spasimando per la vana ricerca dell'altro verso che non ricordava. Anania e Bustianeddu ridevano sgangheratamente, accoccolati sulle sanse, simili a due pulcini. «Senti», propose Bustianeddu, «mettiamogli delle spille, nel posto dove si corica». «Perché vuoi mettergli delle spille?» «Perché si punga, ecco: allora ballerà davvero. Io ho le spille.» «Mettiamole», rispose l'altro, sebbene a malincuore. L'ubriaco ballava ancora, barcollante, cascante, tendendo le mani verso il bicchiere; e la gente rideva. Ma l'allegria giunse al colmo quando entrò nel molino Nanna, l'ubriacona. Quella sera, però, ella era sana, aveva le vesti pulite e la faccia meno ripugnante del solito; i suoi occhietti brillavano d'una certa intelligenza. Era stata durante il giorno a cogliere erbe mangereccie selvatiche, e veniva a domandare un po' d'olio per condirle. Vedendo Efes in quello stato, fatto ludibrio della gente, ella ebbe un lampo negli occhi; si avanzò, prese l'infelice per un braccio e nonostante le comiche proteste del ricco contadino, lo costrinse a sedersi su un sacco di olive. «Non ti vergogni, Efes Cau? Non hai occhi? Non vedi che tutti questi mendicanti, tutte queste immondezze ridono di te? E perché hanno raddoppiato le risa vedendomi? Eppure oggi io ho lavorato, come è vero Dio, ho lavorato. Ah, Efes, Efes! Ricordati come era ricca la tua casa! Io venivo per portare l'acqua dalla fontana, e mi ricordo che tua madre aveva bottoni d'oro della camicia grossi come il mio pugno: la tua casa sembrava una chiesa, tanto era ricca e lucente. Se tu ti fossi guardato dal vizio, ora tutti avrebbero cercato di raccoglierti come si raccoglie un confetto. Invece tu ora sei schernito dai più miserabili pezzenti; e tutti ridono di te come dell'orso che balla per le strade ... Ecco che ridono ancora, eppure essi sono più ubriachi di noi, come è vero Dio. Suvvia, mugnaio, dammi un po' d'olio: tua moglie è una santa, ma tu sei un diavolo: quando lo trovi il tesoro?» «Veramente egli lavora un po' più di te; perché te la prendi con lui?» chiese zio Pera, accennando al mugnaio. «Vecchio peccatore», rispose la donna, «voi state zitto, quando ci sono io ... » «Poh! Poh!» disse il vecchio con disprezzo. «Tu fai la predica, oggi, perché non hai vino in corpo.» «Io so tenere in corpo il vino ed altre cose ancora ... Dammi l'olio, Anania Atonzu; oggi nella valle ho visto una cosa; sembrava una moneta d'oro.» «Tu non l'hai raccolta?», gridò il mugnaio, rizzandosi sulla sua pala nera. «Eccola», rispose Nanna, frugandosi in tasca e avvicinandosi al mugnaio, che si pulì le mani passandosele sulle ginocchia, e poi esaminò la moneta di rame fatta nera-verde dal tempo. Bustianeddu ed Anania corsero anch'essi a vedere. Intanto Efes, seduto sul sacco, piangeva ricordando la madre e la ricca casa paterna e invano il Carchide cercava di consolarlo offrendogli il bicchiere. No, neppure il vino poteva lenire il dolore di quei ricordi. Tuttavia egli prese il bicchiere e bevette piangendo. Il ricco contadino ed il padre di Bustianeddu, giovine olivastro con gli occhi turchini e la barba rossa, congiuravano per far ubriacare Nanna onde ella dicesse ciò che sapeva sul conto di zio Pera; e intanto l'ortolano gridava contro i due uomini che spingevano la spranga perché, secondo lui, essi non spiegavano abbastanza le loro forze. «Che una palla vi trapassi il fegato; conservatevi bene, ragazzi», diceva con ironia. «Come sono poltroni i giovani d'oggi!» «Provate un po' a mettervi qui, voi, al posto delle olive, per sentire la nostra forza.» «Che una palla vi trapassi la milza, che una palla vi trapassi il calcagno», continuava ad imprecare zio Pera. «Bene!», esclamò Maestro Pane, il vecchio falegname gobbo, che aveva un solo baffo grigio sulla gran bocca sdentata; poi egli andò e mise il chiodo sotto. Seduto contro il muro sotto il finestruolo, egli si batteva di tanto in tanto i pugni sulle ginocchia, ma nessuno badava a lui, che usava parlare fra sé ad alta voce. «Nanna», disse il contadino, «ora si porta la cena da casa mia. Resta.» «Tu vuoi divertirti?», disse la donna, guardandolo maliziosamente. «Non ti basta Efes?» Tuttavia ella restò; andò presso il poveretto che piangeva sempre, e ricominciò a rimproverarlo, consigliandolo di non bere più, di non essere più il disonore dei suoi parenti; ma intanto avveniva una cosa strana. Il Carchide le mostrava il bicchiere colmo, facendo dei cenni con la bocca, invitandola silenziosamente a bere, ed ella guardava il vino affascinata. «E dammelo!», proruppe alfine. Bustianeddu ed Anania, ritti dietro i due disgraziati ubriaconi, ridevano a più non posso. «Perdio, come sei brutto!», disse Maestro Pane, sempre parlando fra sé. Nanna prese il bicchiere, bevette e cominciò a raccontare brutte storielle sul conto di zio Pera. Sì, il vecchio ortolano aspettava la mattina per tempo che qualche ragazzetta passasse nello stradale; la chiamava promettendole fave e insalata, e quando l'aveva attirata entro l'orto cercava ... «Ah, otre schifosa!», gridò zio Pera, minacciandola col randello. «Aspetta, aspetta un po' ... » «Ebbene, cosa dico io? Voi cercavate d'insegnarle l'ave-maria ... » Tutti ridevano, ed anche Anania rideva, sebbene non capisse perché zio Pera volesse insegnare per forza l'ave-maria alle ragazzette che andavano alla fontana. Intanto Bustianeddu aveva seminato le spille sul posto ove Efes soleva coricarsi, Anania se ne accorse e non si oppose, ma appena fu a casa, coricato nel gran letto di zia Tatàna, provò un impeto di rimorso. Non poteva dormire; si voltava e rivoltava, sembrandogli d'esser anche lui tormentato da migliaia di spille. «Che hai, bambino?», chiese zia Tatàna, con l'usata dolcezza. «Ti fa male il ventre?» «No, no ... » «Ma che hai dunque?» Egli non rispose subito, ma dopo qualche momento rivelò il segreto. «Abbiamo sparso tante spille sul posto ove dorme Efes Cau ... » «Ah, cattivi ragazzi! Perché avete fatto ciò?» «Perché egli si ubriaca ... » «Ah! Santa Caterina mia!», sospirò la donna. «Come sono cattivi i ragazzi d'oggi! E se qualcuno mettesse delle spille dove dormite voi? Vi piacerebbe? No, vero? Eppure voi siete più cattivi di Efes. Tutti nel mondo siamo cattivi, agnellino mio, ma bisogna che ci compatiamo a vicenda: altrimenti guai, ci divoreremmo come i pesci del mare. Re Salomone disse che spetta soltanto a Dio giudicare ... Hai capito?» E Anania pensò a sua madre, a sua madre che era stata così cattiva da abbandonarlo. Un giorno, verso la metà di marzo, Bustianeddu invitò Anania a pranzo. Il negoziante di pelli era dovuto partire improvvisamente per affari, e il ragazzetto trovavasi solo a casa, solo e libero dopo due giorni di prigionia per una delle solite assenze dalla scuola: inoltre serbava sulla guancia destra il segno d'un poderoso schiaffo somministratogli dal genitore. «Vogliono che io studi!», disse ad Anania, aprendo le mani, col solito fare da uomo serio. «E se io non ne ho voglia? Io desidero fare il pasticciere: perché non me lo lasciano fare?» «Sì, perché?», chiese Anania. «Perché è vergooogna!», esclamò l'altro, allungando la parola con accento ironico. «È vergogna lavorare, apprendere un mestiere, quando si può studiare! Così dicono i miei parenti: ma ora voglio far loro una burletta. Aspetta, aspetta!» «Che cosa vuoi fare?» «Te lo dirò poi: ora mangiamo.» Egli aveva preparato i maccheroni: così egli chiamava certi gnocchi grossi e duri come mandorle, conditi con salsa di pomidoro secchi. I due amici mangiarono in compagnia d'un gattino grigio che con lo zampino bruciacchiato prendeva famigliarmente i gnocchi dal piatto comune e se li portava furbescamente in un angolo della cucina. «Come è curioso!», diceva Anania, seguendolo con gli occhi. «A noi ce l'hanno rubato, il gatto.» «Anche a noi. Ce ne hanno rubati tanti! Scompaiono e non si sa dove vadano a finire.» «Scompaiono tutti i gatti del vicinato! Chi li ruba cosa ne fa?» «Ebbene, li fa arrostire. La carne è buona, sai; sembra carne di lepre. In continente la vendono per lepre: così dice mio padre.» «Tuo padre è stato in continente?» «Sì. Ed anch'io ci andrò, e presto.» «Tu?!», disse Anania, ridendo con un po' d'invidia. Bustianeddu allora credé giunto il momento di svelare all'amico i suoi pericolosi progetti. «Io non posso più viver qui», cominciò a lamentarsi; «no, io voglio andar via. Cercherò mia madre e farò il pasticciere; se vuoi venire, vieni anche tu.» Anania arrossì d'emozione, e sentì il suo cuore battere forte forte. «Non abbiamo denari», osservò. «Ecco, noi prendiamo le cento lire che sono nel cassetto del comò; se vuoi, le prendiamo subito; poi le nascondiamo, perché se partiamo subito mio padre si accorge che le ho prese io; aspettiamo finché passa il freddo, poi partiamo. Vieni.» Condusse Anania in una camera sucida e disordinata, ingombra di pelli d'agnello puzzolenti; cercò la chiave del cassettone in un nascondiglio e si fece aiutare ad aprire il cassetto: oltre il biglietto rosso delle cento lire c'erano altre carte-monete e denari in argento, ma i due ladruncoli domestici presero soltanto il biglietto rosso, richiusero, rimisero la chiave. «Ora lo tieni tu», disse Bustianeddu, ficcando il biglietto in seno ad Anania; «stanotte lo nasconderemo nell'orto del molino, nel buco della quercia, sai; poi aspetteremo.» Ancor prima che avesse potuto opporsi, Anania si trovò col biglietto nel seno, sotto l'amuleto di broccato; e passò una giornata febbrile, piena di rimorsi, di paura, di speranze e di progetti meravigliosi. Fuggire! Fuggire! Come e quando non sapeva, ma oramai sentiva che il sogno stava per avverarsi, e ne provava gioia e terrore. Fuggire, passare il mare, penetrare nel regno fantastico di quel continente misterioso dove si nascondeva sua madre! Che ansie, che sogni, che gioia! Le cento lire gli sembravano un tesoro inesauribile; ma intanto sentiva d'aver commesso un grave delitto, rubandole, e non vedeva l'ora che arrivasse la notte per liberarsene. Non era la prima volta che i due amici penetravano nell'orto coltivato da zio Pera, scavalcando la finestruola che dalla stalla attigua al molino dava nell'orto; di notte, però, non c'erano stati mai, quindi spiarono a lungo prima d'azzardarsi. Cadeva una sera chiara e fredda; la luna piena sorgeva fra le roccie nere dell'Orthobene, illuminando l'orto con un chiarore d'oro. Giungeva ai due bimbi affacciati alla finestruola un disperato miagolìo di gatto che pareva un lamento umano. «Che cosa è? Pare il diavolo!», disse Anania. «Io non scendo, no, io ho paura.» «E rimani qui, allora! È un gatto, non senti?», rispose l'altro con disprezzo. «Scendo io; nascondo il denaro entro la quercia, dove zio Pera non guarda mai; poi torno. Tu resta qui a guardare; se c'è pericolo, fischia.» In che consistesse poi questo pericolo i due amici non sapevano; ma entrambi provavano un acuto piacere a render fantastica l'avventura, alla quale il chiarore della luna e quel lamento straziante di gatto davano un sapore ancor più piccante. Bustianeddu saltò nell'orto, ed Anania rimase alla finestra, un po' avvilito dalla paura che lo rendeva tremante, ma tutto occhi e tutto orecchi. Ed ecco, appena il compagno fu scomparso in direzione della quercia, due ombre passarono sotto la finestruola; Anania sussultò, emise un fischio sottile sottile, e si nascose sotto il davanzale. Che impeto di terrore e di piacere strano provò in quel momento! Come si sarebbe salvato Bustianeddu? Che avveniva laggiù? Ecco, i lamenti del gatto raddoppiarono, si fusero tutti in un gemito rabbioso e straziante; poi cessarono. Silenzio. Che mistero, che orrore! Anania sentiva il cuore spezzarglisi in seno. Che accadeva all'amico? L'avevano preso, l'avevano arrestato? Ora lo porterebbero in prigione; ed anche lui, anche lui subirebbe la sua parte di guai. Tuttavia non pensò un solo istante a mettersi in salvo, ed attese coraggiosamente sotto la finestra. Ed ecco un passo, un respiro ansante, una voce sommessa e tremula. «Anania? Dove diavolo sei?» Anania balzò su, porse la mano al compagno salvo. «Diavolo», disse Bustianeddu, ansante, «l'ho scampata bella.» «Hai sentito il fischio? Eppure ho fischiato forte.» «Niente. Ho sentito invece il passo di due uomini, e mi sono nascosto sotto i cavoli. Ecco, sai chi erano i due uomini? Zio Pera e Mastru Pane. Sai che hanno fatto? Ebbene, c'è un laccio pei gatti; il gatto che miagolava era preso al laccio, e zio Pera lo ha ammazzato col randello. Maestro Pane prese la povera bestia sotto il mantello e disse, tutto contento: "Per Dio, come è grasso! Meno male", disse zio Pera, "quello di avantieri sembrava uno stecco". Poi andarono via.» «Oh!», esclamò Anania a bocca aperta. «Ora lo fanno arrostire, capisci, e cenano. Sono loro che rubano i gatti, così, prendendoli al laccio! Meno male che non mi hanno veduto!» «E i denari?» «Nascosti. Andiamo, mammalucco; non sei buono a niente.» Anania non si offese: chiuse la finestra e rientrò nel molino, dove si svolgeva la solita scena. C'era Efes che si grattava le spalle contro il muro, cantando Quando Amelia si pura e si candida ... e il Carchide che raccontava d'essere stato in un paese vicino, per certi suoi affari. «Il sindaco era amico di mio padre, quando noi eravamo ricchi», diceva il bel giovine, la cui famiglia era stata sempre miserabile. «Appena sa che io arrivo nel paese, mi manda a chiamare e mi ospita in casa sua. Accidenti, che gente ricca! Trenta servi e sette serve: per arrivare alla casa bisogna attraversare tre cortili, uno dentro l'altro, con muri altissimi: i portoni di ferro, le finestre della casa tutte munite d'inferriate.» «E perché?», chiese il mugnaio. «Per i ladri, caro mio. Perché il sindaco è ricco come il Re.» «Boumh! Boumh!», gridò un uomo che spingeva la spranga. «Cosa ne sai tu?», riprese il Carchide, guardando l'uomo con disprezzo. «Il sindaco ed i suoi fratelli, quando morì il loro padre, si divisero le monete d'oro con una misura capace d'un ettolitro! La moglie del sindaco, poi, ha otto tancas in fila, irrigate da fiumi, con più di cento fontane! Ebbene, dicono che il padre del sindaco trovò un ascusorju, dove il re di Spagna, quando fece la guerra con Eleonora d'Arborea, nascose più di cento mila scudi in oro.» «Ah!», esclamò il mugnaio, con un fremito d'emozione, appoggiandosi sulla pala nera. «Quelli sì, quelli son signori ricchi», riprese il Carchide. «E dunque i rognosi Nuoresi?» «Il mio padrone è ricco!» protestò il mugnaio. «Possiede più lui nell'angolo della scopa che tutti i tuoi sindaci pulciosi.» «E va!», gridò il giovine, facendo le fiche. «Tu non sai quel che dici.» «Tu, non sai quel che dici, tu!» «Il tuo padrone è pieno di debiti: ne vedremo la fine, ne vedremo.» «Che tu possa diventar cieco, prima!» «Che tu possa schiantare prima!» Per poco il mugnaio ed il giovane calzolaio non vennero alle mani: ma la loro lite fu interrotta da un assalto di delirium tremens che colpì il povero Efes Cau. Egli cadde sulle sanse, avvoltolandosi, contorcendosi, saltando come un verme, con gli occhi spaventosamente aperti e i lineamenti contratti. Anania si gettò in un angolo, gridando e piangendo per lo spavento, mentre Bustianeddu corse, assieme col mugnaio ed altri, per aiutare il disgraziato. A poco a poco Efes tornò in sé, si sedette sulle sanse sparse, guardò attorno con quei suoi grandi occhi sporgenti pieni di terrore, ancora tutto contorto e tremante. Gli diedero da bere, lo confortarono. «Chi ... chi mi ha assalito? Perché mi avete bastonato? Ah, non mi ha abbastanza castigato Dio perché abbiate a bastonarmi anche voi?» Poi si mise a piangere. Lo fecero coricare, ed egli si assopì, delirando, chiamando sua madre ed una sorellina morta. Anania lo guardava con terrore e pietà: avrebbe voluto fare qualche cosa per aiutarlo, ed intanto provava un istintivo disgusto per quell'uomo una volta ricco, ora ridotto ad un involto di cenci puzzolenti, buttato sulla sansa come un mucchio di immondezze. Chiamata da Bustianeddu venne zia Tatàna: si chinò pietosamente sul malato, lo toccò, lo interrogò, gli mise un sacco sotto il capo. «Bisogna dargli un po' di brodo», disse sollevandosi. «Ah, il peccato mortale, il peccato mortale!» «Figliolino mio», disse ad Anania, «va dal signor padrone a chiedere un po' di brodo per Efes Cau. Va: vedi come riduce il peccato mortale? Va, prendi questa scodella, va.» Egli andò con piacere, e Bustianeddu lo accompagnò. La casa del padrone non era lontana, ed Anania vi si recava spesso per farsi dare la prebenda del cavallo, i lucignoli per la candela del molino, e per altre commissioni. Le strade erano qua e là illuminate dalla luna; gruppi di paesani passavano cantando un coro melanconico ed appassionato. Davanti alla casa bianca del signor Carboni si stendeva un cortile quadrato recinto d'alti muri e con un grande portone rosso. I due ragazzetti dovettero picchiar forte per farsi aprire; ed Anania porse la scodella, esponendo il caso di Efes Cau alla domestica che dischiuse il portone. «Non sarà per voi, il brodo, eh?», sogghignò la serva, squadrando sospettosa i due amici. «Va al diavolo, Maria Iscorronca, noi non abbiamo bisogno di brodo», gridò Bustianeddu. «Animaletto, ora ti pago gli insulti», disse la serva, rincorrendolo per la strada. Ma egli fuggì, mentre Anania penetrava nel cortile illuminato dalla luna. «Chi è: cosa vogliono?», chiedeva una vocina sottile, dall'ombra di una tettoia sotto cui aprivasi la porta della cucina. «Sono io!», gridò Anania, avanzandosi, con la scodella fra le mani. «Efes Cau è malato, nel molino, e mia madre prega la signora padrona che dia un po' di brodo al disgraziato.» «Oh, vieni!», rispose la vocina. In quel momento rientrò la serva, che non avendo potuto raggiungere Bustianeddu prese a spintoni il piccolo Anania. Allora la bimba che aveva detto «vieni» balzò fuori e difese il figlio del mugnaio. «Lascialo: che ti ha fatto?», disse, tirando la sottana alla serva. «Dagli subito il brodo. Subito!» Questa protezione, quel tono da padrona, quella figurina grassa e rossa, vestita di flanellina turchina, quel nasetto prepotente rivolto all'insù fra due guancie molto paffute, quei due occhi scintillanti alla luna, fra due bende ricciolute di capelli rossicci, piacquero immensamente ad Anania. Egli conosceva già la figlia del padrone, Margherita Carboni, come la chiamavano tutti i bimbi che frequentavano il molino; qualche volta ella gli aveva dato i lucignoli ed anche l'orzo per il cavallo, e quasi tutti i giorni egli la vedeva nell'orto e ad intervalli anche nel molino, dove essa si recava con suo padre; ma mai s'era immaginato che quella signorina grassa e rossa e dall'aria superba fosse così affabile e buona. Mentre la serva entrava in cucina per prendere il brodo, Margherita domandò ad Anania qualche particolare sulla malattia di Efes Cau. «Egli oggi ha mangiato qui, in questo cortile», ella disse con serietà. «Pareva sano.» «È un male che viene agli ubriaconi», spiegò Anania. «Si contorceva come un gatto ... » Appena dette queste parole egli arrossì ricordando il gatto preso al laccio da zio Pera, e le cento lire rubate e nascoste nell'orto. Cento lire rubate! Che avrebbe detto Margherita Carboni se avesse saputo che lui, Anania, lui, il figlio del mugnaio, lui, l'abbandonato, lui, il servo, verso cui la piccola padrona si degnava mostrarsi affabile e buona, aveva rubato cento lire e che queste cento lire erano nascoste nell'orto? Ladro! Egli era un ladro, e di una somma enorme! Solo in quel momento percepì tutta la vergogna della sua azione, e sentì dolore, umiliazione, rimorso. «Come un gatto, ah!», disse Margherita stringendo i denti e torcendo il nasino; «Dio mio, Dio mio; è meglio che egli muoia.» La serva tornò, con la scodella colma di brodo. Anania non poté più aprir bocca: prese la scodella e andò via piano piano, badando di non versare il brodo. Sentiva una strana voglia di piangere, e quando raggiunse Bustianeddu, nello svolto della strada, ripeté le parole di Margherita: «È meglio che egli muoia». «Chi? È caldo quel brodo? Ora lo assaggio ... », disse l'altro, allungando il collo verso la scodella. Ma Anania si irritò. «Non toccare!», gridò. «Tu sei cattivo; tu diventerai come Efes. Perché hai preso i denari?» aggiunse, abbassando la voce. «È peccato mortale, rubare. Va a riprenderli e rimettili nel cassetto.» «Poh! Poh! Sei matto?» «Ed io lo dico a mia madre!» «Tua madre!», disse l'altro con ironia. «Va a cercarla!» Intanto camminavano lentamente, ed Anania guardava sempre la scodella. «Siamo ladri!», disse a bassa voce. «Il denaro è di mio padre, e tu sei un mammalucco. Andrò via io solo, io solo ed io solo!» «Va, che tu non possa più ritornare! Ma io ... io lo dirò a ... a zia Tatàna» (sì, ora si vergognò di dire mia madre!). «Spia!», proruppe Bustianeddu, minacciandolo coi pugni stretti. «Se tu parli ti ammazzo come una lucertola, ti rompo i denti con una pietra, ti faccio cacciar le viscere per gli occhi.» Anania abbassò le spalle, pauroso di rovesciar il brodo e di ricevere i pugni dell'amico, ma non ritirò la minaccia di rivelare ogni cosa a zia Tatàna. «Che diavolo ti han detto dentro quel cortile?», proseguì l'altro, fremente. «Che ti ha detto quella servaccia? Parla.» «Niente. Ma io non voglio essere un ladro.» «Tu sei un bastardo», gridò allora Bustianeddu, «ecco cosa sei. Ed io ora vado, riprendo i denari e non ti guardo più in faccia.» S'allontanò di corsa, lasciando Anania colpito da un dolore profondo. Ladro, bastardo, abbandonato! Era troppo, era troppo! Egli pianse e le sue lagrime caddero entro la scodella. «Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

E come ci si sta bene ... " soggiunse, mettendosi a sedere e abbandonando la persona sullo schienale. "Dovreste regalarmela." "Pigliatela." "Dico per celia ... No, no, son venuta invece per parlarvi di una cosa seria, che voi sapete già. Eravate forse già venuto apposta per parlarmene, ma io vi ho confusa la testa colle mie storie." "Oggi a me domani a te" mormorò Demetrio, tanto per dire qualche cosa, senza badare se la sentenza che gli usciva di bocca tornava piú o meno a proposito. "Avrete già capito di che cosa si tratta." "Di che cosa?" dimandò ingenuamente Demetrio, che in quel momento non era ancora entrato nell'idea di Beatrice. "Non avevate una certa lettera da consegnarmi?" "Ah!" esclamò rimpicciolendo gli occhi, "è vero ... l'ho persa." "E io l'ho trovata." "Do ... dove l'avete trovata?" "Indovinate." "Ma, non saprei ... ." "Tra la sponda e la coperta del letto." Beatrice non seppe trattenere un altro trasporto di ilarità. "To' ... " disse Demetrio, socchiudendo quasi del tutto gli occhi, mentre imponeva a sé stesso di non essere troppo imbecille. "Trattandosi di uno sposo, è quasi un augurio ... ." "E ... avete ... letto?" "Naturale." "Meglio, già, la lettera era per voi. E avete ... avete anche pensato?" "Non vi so dire, caro voi. Mi pare una cosa cosí strana!" "Che cosa?" soggiunse l'altro, stiracchiando le parole per sostenere un dialogo, che minacciava di cascare d'ambo le parti. "L'idea che io possa rimaritarmi." "Ebbene?" continuò Demetrio, pesando e compesando le parole, mentre si tirava la coltre piú sopra la bocca. "Ho voluto prender tempo a riflettere e per questo non sono venuta a trovarvi prima, perché temevo che me ne parlaste ... ." Beatrice disse queste parole cogli occhi bassi, seguendo colla punta del suo parasole le screpolature dell'ammattonato. Seguí un po' di silenzio. "E adesso avete deciso?" chiese finalmente il malato. "Adesso non so. Se devo rimaritarmi non lo faccio per me, ma per i miei figliuoli. Non posso fare un matrimonio di slancio come si dice, né di poesia, si sa, è naturale; ma devo riflettere a molte cose, dico bene? L'offerta del signor Paolino fa onore al suo buon cuore. È un galantuomo, un uomo di gran cuore e penso che se il povero Cesarino legge nelle mie intenzioni, non può che approvarmi. Anche la sua posizione è buona. Dicono che sia molto ricco. Anche l'idea di andare in campagna non mi dispiace. Ho patito tanto in questo brutto Milanaccio, che mi sembrerà d’essere un uccello fuori di gabbia. Penso anche a quel povero uomo di mio padre, che invecchia e peggiora tutti i dí. Non c'è piú nulla a sperare nelle sue cause e anche il sogno della dote è sfumato. Voi non potreste continuar sempre nei vostri sacrifici, e poi dovete pensare anche ai casi vostri. La Carolina ... vi ho detto che è stata a Milano? Sicuro, fu a trovarmi ieri l'altro dopo forse vent'anni che non si moveva dalle Cascine, e me ne disse tante che mi ha quasi persuasa. Povera donna! Un gran cuore anche lei ... ." "Che cosa vi ha detto la Carolina?" interruppe Demetrio con voce soffocata dall'emozione. "Che cosa si diceva? Ah ... ! mi ha detto che voi avete già dovuto ricorrere piú d'una volta per grosse somme a Paolino per far fronte a molte spese. Il matrimonio metterebbe un bel saldo a tutto ... ." "È vero," esclamò con improvvisa eccitazione Demetrio. Le sue guance s'infiammarono un momento, poi d'un tratto impallidirono. "È vero," seguitò "a questo non ci avevo pensato. Il matrimonio salda tutto. Va benissimo, e poi?" "E poi siamo rimasti intesi che prima dell'agosto il matrimonio non si abbia a fare anche per rispetto ai morti e per riguardo alla gente. Paolino ... ." "È stato a Milano anche lui?" "Sí, ieri ... ." "O bello ... bello ... " esclamò Demetrio, con uno scoppio nervoso d'ilarità. "Perché ridete?" "Cosí, per nulla ... So che egli è tanto innamorato ... ." "È buono ... Mi ha fatto già un mucchio di regali." "Sí, sí ... non guarda a spendere ... " soggiunse Demetrio ridendo sempre e asciugando col lenzuolo l'umore che l'immensa soddisfazione gli spremeva dagli occhi. "E che cosa ha detto Paolino?" "Ha detto che il matrimonio si può fare in campagna, e preferisco anch'io cosí. Ma per questo bisogna che la sposa scelga il suo domicilio legale in campagna, tre mesi prima del matrimonio, nel Comune dove vuol maritarsi. Paolino mi ha detto di chiedere a voi che passi si possono fare." "Io non saprei che passi ... " fece Demetrio con un sorriso morto e penoso. "Nel qual caso si sceglierebbe il Comune di Chiaravalle, che è a quattro passi dalle Cascine." "Benissimo." "Cosí si possono fare le cose quiete." "Giusto." "Paolino ha detto anche che vi scriverà e verrà egli stesso a trovarvi." "Mi farà piacere." "Dovrò poi ringraziarvi anche voi." "Di che cosa?" "Di aver pensato al mio bene e a quello de’ miei figliuoli." Demetrio questa volta non aprí bocca, ma sollevò uno sguardo umile e quasi pauroso. "E ora pensate a guarire" soggiunse Beatrice, alzandosi. La sua persona pareva quasi ingrandita nell'angustia della stanza. Raccolse i lembi del velo, se lo aggiustò un poco nei capelli, alzando le braccia, e fece qualche passo per uscire. Ma si ricordò di essere venuta anche per un altro motivo importante. "A Paolino, naturalmente, non ho detto nulla di quell'altra storia." "Quale?" "Quella del braccialetto e del cavaliere. È una storia noiosa e stupida che è meglio lasciar cadere, anche per voi, non vi pare? Solamente fatemi il piacere, con vostro comodo, quando sarete guarito, di consegnare al portinaio di quel signore il suo regalo, che io non voglio assolutamente tenere (Beatrice levò da una tasca del vestito l'involtino e lo collocò sul tavolino) e se non vi disturba, di unire anche le cento lire. Queste ve le restituirò alla prima occasione, risparmiando qualche spesa inutile: ma a Paolino non dite nulla, come se non fosse capitato nulla; e nemmeno a quel signore non dite nulla: capirà da sé." "Va bene ... " disse Demetrio con voce fredda e asciutta. "Ve lo lascio qui il prezioso regalo?" "Sí, lasciatelo lí ... ." "E che ne dite voi?" "Di che cosa?" "Di questo matrimonio." "Bene, benissimo, tutto bene ... ." Beatrice si fermò ancora un poco a parlare di Arabella, dei Grissini e di cose indifferenti: diede ancora un'occhiata alla bella vista: passò anche sulla ringhiera, lasciando l'ammalato solo nel suo letto di spine: rientrò, gli raccomandò di nuovo di guarir presto, e se ne andò via quasi di furia, chiamata dall'improvviso pensiero dei figliuoli, ch'erano rimasti in casa soli e l'aspettavano per la colazione. E cosí la bella storia finiva, come doveva finire. Chi aveva detto a lui d'innamorarsi? che colpa aveva quella povera donna s'egli era pazzo? di tutti i suoi tormenti e di quel gran male, che gli faceva il cuore gonfio, Beatrice non s'era manco accorta. Quel po' di bene ch'egli aveva fatto a lei e a’ suoi figliuoli era stato saldato dai denari di Paolino. Ecco, signor Demetrio, come vanno le cose del mondo. Un'altra donna forse ... , ma che altra donna! è il mondo fatto cosí, è la sorte degli ingenui, era il suo destino, il suo pianeta ... Non valeva la pena di voler male per questo a una povera creatura, che pensava al bene de' suoi figliuoli, e nemmeno a un galantuomo che operava con sincerità e con bontà d'intenzioni. Fossero felici tutti quanti! A lui rimaneva il suo tormento, la sua brace nel cuore. La ruota della fortuna non gira senza schiacciare qualcuno. Egli ricuperava la sua vecchia libertà, rientrava nel suo guscio, tornava alle sue erbe — povere erbe tanto dimenticate, — a’ suoi canarini, a rattoppare le sue scarpe, a trascriver protocolli e rapporti, precisamente come prima, forse piú sicuro di prima, come un uomo che si desta da un sogno di tre mesi, durante i quali abbia vissuto una vita diversa e stravagante. Provava il senso di chi torna al suo paese dopo un lunghissimo giro per il mondo, colle scarpe rotte, bisognoso di riposare, di chiudere l'uscio di strada, di rivedere i vecchi mobili ricoperti di polvere, in attesa che le mani e la testa rientrino nelle vecchie abitudini, dalle quali forse sarebbe stato meglio non uscire. Ecco i pensieri che lasciò dietro di sé, nell'uscire, quella donna, e che vennero a sedersi sul letto del malato. Ma al disotto di questa stanca rassegnazione, Demetrio sentiva un gran vuoto, come se nell'uscire quella donna avesse portato con sé qualche cosa di cui un uomo non può far senza per vivere. Non era il cuore, no: il cuore, a furia di colpi, si indurisce e impara a resistere. Ciò che lo pungeva era un pensiero che non avrebbe saputo mettere in carta, ma che egli riassumeva all'ingrosso in una parola: la fede ... Sí, egli aveva creduto per un momento di esser buono a qualche cosa in questo mondo. Colla sua fede aveva abbracciato i dolori di una povera famiglia, sollevata un'anima dal purgatorio, salvato dal disonore il nome di una famiglia, creato il sentimento di quella donna ... Oh sí, quella donna l'aveva in certa qual guisa creata lui. La gente non aveva che scherno e disprezzo per la povera bambola; ed egli s'era illuso per un momento che la bambola avesse sangue e lagrime e sentimento ... e che gli volesse infine un poco di bene. E invece nulla, nulla, nemmeno una parola di carità. Essa era venuta piú per sbrigarsi di una convenienza e di un braccialetto che per chiedergli un consiglio, piú per pregarlo a fare dei passi per lei, che non per consolare un povero malato. Si vedeva che la felicità era seduta come in un trono nel suo cuore: le gote, gli occhi, la voce, i movimenti mandavano fuori la contentezza da tutte le parti. Essa stendeva avidamente le mani all'occasione per paura che il momento la portasse via. Aveva ragione, ciò forse era giusto e naturale in quella donna ... ma una parola di carità costa cosí poco! E invece niente, niente per lui. Demetrio si sollevò e si pose quasi a sedere sul letto: sentendo mancare il respiro, chiuse strettamente gli occhi, abbandonando la testa senza forza sul cuscino, e lasciò che queste idee monche e cozzanti tra loro finissero d'agitarsi. Beatrice era morta per lui, era morta e sepolta nel cuore che l'aveva creata. Tranne la sua mamma, nessuno gli aveva voluto bene a questo mondo. Eppure egli non aveva mai fatto male a nessuno, anzi ogni occasione era stata buona per lui per lavorare, per struggersi, per far mortificazioni e sacrifici. Povero illuso, povero scemo! Il mondo ama piú le apparenze che la sostanza, e non c'è nulla che piú offenda la gente incapace di bene quanto la vista del bene che fanno gli altri. Non potendo difendersi dal bene che ricevono, gli uomini cercano di non accorgersene e di dimenticarsene presto, fin che giunge opportuno il momento di vendicarsi con un piccolo trionfo d'ingratitudine. Oh, la sua povera fede! sí, era questa che moriva in quel profondo abbattimento di tutte le forze, in quella crisi nervosa di malinconia. Ora che l'idillio della sua vita era finito e che il lume dell'ultima illusione erasi spento come un razzo nelle tenebre, non gli rimaneva che di morire. Morire! — questa brutta parola risonò come un fischio nelle sue orecchie attutite dal male. — Gesú di misericordia! che idea gli passava ora per il capo? anche a lui, anche a lui lo spettro della morte doveva presentarsi come una liberazione? che avesse perduta veramente ogni fede nelle cose di questo e dell'altro mondo? che Dio e la sua mamma lo avessero proprio abbandonato del tutto? Ah Cesarino! Spalancò gli occhi per bere la luce del giorno e per liberarsi da quel tremendo incubo che lo trascinava a rivedere suo fratello disteso sotto una stuoia fra le ruote d'una carrozza: e gli occhi andarono a posarsi sopra la tazza di vetro, in cui Arabella aveva collocate le belle rose di maggio. Fisso in quei fiori lasciò che le lagrime colassero un gran pezzo in silenzio, come se dentro di lui si sciogliesse veramente qualche cosa di duro e di irrigidito.

Durante il tempo che lo zio Demetrio stette allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia, abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la trascinavano colla forza di una corrente, di cui sentiva nella testa il frastuono. La stazione era andata di mano in mano popolandosi di gente che si aggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolío delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiar dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccío di tante persone mosse e sospinte anch'esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch'era giunta l'ora d'andarsene. Giovann dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la scala d'ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi, col corpo in preda a piccole scosse, colle rughe del volto tese a uno sforzo supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire, e lí sulla soglia, sotto gli occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con lui. E si divisero senza piangere. Demetrio, quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d'un torbido lampadino giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor soggezione di sé stesso, alla piena dei varii pensieri, che in quell'epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l'anima. Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l'aria con le labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo. Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla vista del viaggiatore in tutta l'ampiezza del corso, co’ suoi bianchi edifici, — e già splendevano di lumi case e botteghe — la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri. Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e piú in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch'essa aveva lavorato per il bene de' suoi. " Ciao , mamma ... " disse una voce, che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all'orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall'acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un'ombra sull'aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! C'erano, in quell'antico convent o degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c'erano dei corridoi cosí lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c'era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra. In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sí un'altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell'angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura "To-to ... finito."

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

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Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E fùggono, abbandonando i caduti, fùggono verso le loro trincèe, già imaginando nel trèpido orecchio il pestìo degli inseguenti, già sentèndone l'ombra sul dorso gelato. Ma, purtroppo! i nemici non sono loro alle spalle. A un tratto, dalle case di Gualdo, colpi di schioppo, strilli di donna, e l'uggiolìo di un cane. Una colonna di fumo vi si alza, e in mezzo al fumo, una fiara. I nemici son là: l'incendio è con essi. Nereggia l'ossatura dei tetti su 'n vìvido rosso; indi, uno schianto. Le pòlveri sono scoppiate. Impòrpora il cielo, solcato da incandescenti carboni; è un istante; poi, tutto riabbuja. E, oh quante riabbùjano insieme, fatiche e speranze!

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Essi abbandonando il manubrio avrebbero abbandonato al precipizio i tre naviganti dell'aerea nave, se non fossero accorsi a sostegno il padre guardiano ed il frate canovaio attratti al ricevimento. Allorché il canestro areostatico afferrò al promontorio, sbarcandone i tre ascensori, sull'altipiano del convento si palesò un'agitazione maravigliosa, come se abitanti di un altro pianeta vi avessero data la scalata. La devozione eterizzata a superstizione a sei mila metri sul livello del mare propagò in tutti i monaci la credenza che la signora Nerina fosse veramente l'arcangelo Gabriele travestito da fraticello. Il volto della signora era veramente tale da miracolo mostrare . Si determinò nei fratacchioni la follia collettiva di adorarla, e la accompagnarono processionalmente al sublime altare della chiesuola. Dall'altare essa domandò di ritirarsi ad orazione solitaria in sacristia. Quivi, per un trucco combinato dalla fantasia orientale di Marco Antonio Canini, essa traendo dal paniere laminato d'argento una vestaglia e un velo femminile, comparve al Sancta Sanctorum trasformata da Madonna. Ma una Madonna procace. Onde il sospetto e il bisbiglio, che fosse una tentazione diabolica. In quelle carni fratesche addormentate e condensate dall'astinenza si risvegliò terribile il furore erotico di cacciare il diavolo nell'inferno. Come in una fossa di affamati si avventerebbero al gettito di un pane per isbranarlo, si sarebbe fatto scempio della signora Meraldi, se Marco Antonio Canini non avesse salvata la situazione con il suo fascino di vecchio mago. Egli poté aggiungere un nuovo portento al vanto di aver ucciso con un'orazione funebre un assassino. Si dirizzò col mento grigio barbuto su quell'orda di energumeni envergondés assillati dal Demone della libidine; e con voce tonitrua da Deus ex machina : * Questa è per Voi la Madonna; ed io sono il Padre Eterno. Guai a chi le tocca un capello! ... Rispettate, venerate! O vi getto nello spazio! Cadde la minace cupidigia dei fratacchioni sedati. Essi videro spiritualmente in Marcantonio un Gesù invecchiato a Pater noster che proteggeva ex Coelis la ringiovanita Madre divina; e parve loro di penetrare un lembo del mistero della santissima Trinità. Liberi i tre ascesi poterono da quella elevatezza meteorica studiare il panorama dell'Europa da percorrere. I due sposi disegnarono di risalire nella polita frigida Germania per ismorbarsi di quel grassume e tepore d'Oriente. Però la signora Nerina prima di scendere volle ancora confessarsi dal più gagliardo di quei monaci, e dopo la confessione riconciliarsi alle ginocchia del più estatico ed idealizzato novizio. Lasciato Marco Antonio Canini diretto a Costantinopoli con i suoi sogni garibaldini di impero orientale, i neoconiugi Meraldi si diressero a Vienna, dove sotto gli auspicii della poesia metastasiana e all'eco lontana della musica di Cimarosa e Paisiello, la signora Nerina volle ricominciare la sua grande opera dello Studio comparativo di baci nelle Società indo- europee. Per descrivere quest'opera occorrerebbero le Memorie di una nuova signora Casanova di Seingalt. Imperocché Nerina era alla più alta potenza di avventuriera erotica un redivivo Giacomo Casanova di Seingalt. Ma all'inesauribile successo dello spirito avventuriero erotico, e dell'intrigo diplomatico e scientifico, onde riescono pornografiche e mirabolanti le memorie del Casanova, essa univa un predominio assoluto. Sempre più avvalorata di una sensualità combustibile e comburente sopravanzava l'imperatrice Caterina di Russia nello scegliere, comandare e licenziare i suoi amanti. Meritava di pigliare il titolo di Terribile , come la fregata più costosamente agguerrita. Riusciva pallido il paragone classico, che il professore Spirito Losati faceva di lei con l' Ecatomfila di Leon Battista Alberti. Essa era la superdonna per un nuovo Nietzsche; era la Sultana che si riservava un variante harem maschile. Altro che metamorfosi metastasiana! Da Vienna sirena di cabalette e madrigali per improsciuttire quegli arciduchi in tunica bianca, essa passò a Berlino con l'elmo di Minerva armata di tutta la sapienza d'amore: e alla sapienza d'amore univa il brivido fantastico della Dama Bianca. Dal brivido fantastico di fatale spettro notturno essa usciva come una fanciulla vestita da fiore, una fanciulla floreale, che tosto appassisce, se non è amata. Pretendeva sempre essere un fiore incarnato con i suoi amori prepotenti nella più grande varietà. La ricchezza borsuale, di cui non si era mai scordata nelle follie erotiche (anche da fanciulla sotto la rilassatezza del regime paterno si era fatto un ben pinzo borsot ), le permetteva lo sfogo economico dei suoi capricci , che oramai erano più che per pianoforte , erano da organo mastodontico. Ed Adriano Meraldi, il novello sposo, ben poteva tenerle bordone, poiché corrispondente ricercato dai più lucrosi giornali francesi ed inglesi non solo empiva l'Europa delle sue brillanti lettere europee ma gonfiava il suo portafoglio delle più rilevanti ed accreditate banconote. Così la signora Nerina Meraldi, ex contessa De Ritz poté figurare in Russia, come una vergine Nichilina ammirata dai più intellettuali nichilisti non che dai più alcoolizzati arciduchi rispondenti ai nomi di Nicola, Alessio e Sergio. In Danimarca appariva una pazzerella fluida Ofelia, che univa al bruciore delle ghirlande di ortiche il profumo balsamico dei gelsomini lattemiele dei fossi. In Ispagna passava dal tamburello della gitana al crocifisso di Santa Teresa d'Avila modellata nelle più procaci curve dalla bianca lana. In Inghilterra era una perfetta lady, con una gorgiera da Maria Stuarda, a Parigi rappresentava la Dea Ragione per i pronipoti di Robespierre, e una floreale regina Ortensia per la Corte decadente del piccolo Napoleone. Vittor Hugo le dirigeva dallo scoglio di Guernesey un'epistola in versi con un clangore di epopea dei secoli, i cui distici alessandrini coglievano al volo concetti, sentimenti ed antitesi rimando baleni sopra una lavagna azzurra di cielo. Ma quell'epoca erotica spaziante per tutta l'Europa non la appaga ancora. Essa sente reincarnata in sé Ur-Teufelin la più antica diavolessa, la Hölle Rose , la Rosa dell'Inferno, la bandiera dell'eterno diabolico femminile, quella che fu già Erodiade e Kundry, Kundry, che vide il Redentore in croce e ne rise, e ne porta con sé lo sguardo di rimprovero omnipresente. Onde il bisogno di una lavanda spirituale nel Giordano. Lesto lesto essa propone un viaggio in Terra Santa. *** Lo stesso Meraldi rotto a tutte le avventure del romanzo e della vita non può nascondere una ripugnanza di profanazione. Ma Nerina dopo tante avventure profane vuole assaporare l'avventura sacra. Come i raggi diffusi dalla Croce avevano redento il genere umano, essa vuole ricondurre alla originale sorgente benefica del Calvario non solo Erodiade, che pretese la testa di S. Giovanni Battista, non solo Kundry condannata pel sogghigno al patimento del Redentore, non solo Aasvero condannato per la crudeltà di negargli un attimo di sollievo dalla Croce ma altresì Medea furiosa, Fedra tiranna tragica, Giocasta incestuosa col figlio, Mirra incestuosa col padre e tramutata in vacca, tutte le bellezze insidiose insidiate, superbe, abbiette, crudeli, tutte le nequitose o brutali bellezze del mondo classico profano in lei impersonate; e con un supremo compenso spirituale di dedizione e devozione intensificata ottenere l'assoluzione di tutti i vizii, che abbiano sollazzato protervamente od inaridito teneramente il genere umano. Essa comprese in una ascensione areostatica dalla brutalità, che troppo volgare è la filosofia del piacere umano, ristretto alla formola di empir la pelle, vuotar la pelle e fregare la pelle. Tale filosofia è significata eziandio dall'asino in panciolle, che si culla, sgambetta e raglia trionfalmente sfregacciando il dorso sull'erba rasa. Invece alla Terra Santa si va umanamente divinizzandosi anche la bestia più zoliana. Con la sua potenza miracolosa di trasformismo psicologico essa si santificò immediatamente di volontà tanto intensa, che non solo si dichiarava, ma si sentiva offesa allo spettacolo dell'imbottatura, che un Trust turco-nord-americano faceva eseguire dell'acqua del Giordano per distribuirla con un'etichetta commerciale alle varie parti del mondo. Così anche i figli dei Nababbi della City a Londra e di Wall Streett (Via dei Milioni) a Nuova York potevano battezzarsi nelle acque del fiume, dove dal Precursore San Giovanni Battista venne originalmente battezzato oriundo del presepe il divino redentore del mondo ... Profanazione, abbominio per la santità improvvisata della pellegrina signora Meraldi già Contessa Vispi De Ritz! Essa sospirava evocando un bel principe giudio cristianizzato, il Ben Hur del colonnello diplomatico americano Lewis Wallace, che con una spada di Arcangelo sfondasse quelle botti. Essa si era costituita nelle condizioni psicologiche più opportune per entrare nella ragna tesale fino colà da Suora Crocifissa. Mentre il Gesuitismo rappresentato da una rappresentante di Suor Crocifissa aiutava la conversione della signora Nerina al Santo Sepolcro, la Massoneria rappresentata da un Console, agente della compagnia di Esploatazione delle acque del Giordano lavorava per il distacco di Adriano Meraldi da lei. Ambedue le rappresentanze delle suddette forze, che si dividono l'impero sociale del mondo civile ed incivile, riuscirono nel comune intento. Suora Ermellina Diotamo, l'ambasciatrice di Suor Crocifissa, avvolse nell'estasi più vellutata quella grande, splendida convertita, che voleva applicare a se stessa i versi manzoniani: maggiore altezza * al disonor del Golgota * giammai non si chinò. Per compire il miracolo, Suora Ermellina, che era una stupenda gerosolomitana scalza, assunse una voce da arpa davidica: * Senta, signora! Vi è in Piemonte, nell'onda dolce del caldo Monferrato una valletta fresca e romita, una Tempe arcadica, dove il bacio di Dio scende con predilezione e ne sigilla con una delizia, che invano si cercherebbe altrove. Che sono mai le battaglie, le vittorie, le ricchezze, le lautezze, le voluttà di questo mondo, se non si riallacciano alla Misericordia Divina, ossia alla Immensità dell'infinito nel tempo e nello spazio? Sono miserie di zanzare e di mosconi, io sono figlia di un rajah indiano e di una principessa armena signora di cento monasteri. Nacqui nell'immagine terrena della celeste Gerosolima, avrei potuto lisciare la barba più azzurra al mitrato più fulgido di perle; pulsare sul cuore del più glorioso guerriero. E volli consacrarmi a Dio, senza offendere il mio volto con un ferro rovente come fece la martire giapponese per rendersi accetta al cenobio e senza imbrattarmi di fetore, come fece il gesuita per salvare la sua castità dalla moglie del Putifarre indiano. Che merito consacrarsi a Dio, quando siamo repellenti presso l'umanità? * Suora Ermellina! Voi siete divinamente bella; ed io mi lascierò condurre da Voi al Santo Oblio, che mi predicate. Ma io nacqui schiava e regina degli Dei Capricci: tutti i pianoforti suonati a questo mondo, dopo la loro invenzione ad oggi, sommati insieme non hanno ricevuto sulle loro tastiere la percussione di tanti capricci musicali, quanti ne accolsi e vibrai io sola. E sono venuta qui apposta per liberarmi da tale schiavitù e per rinunziare a tale signoria. Sono venuta apposta su queste rive miracolosamente redentrici. Senza che mi sia laureata dottoressa, io veggo il miracolo nella storia: che poveri ed umili pescatori e battezzatori di queste acque, sotto l'influsso di un vero, ma sconosciuto e crocifisso figlio di Dio, abbiano potuto cambiare faccia e fondamento ad una progredita, elevata civiltà umana. Queste acque, che hanno redento il mondo, potranno redimere anche me, ed affrancarmi dai miei capricci. Ma, suora Ermellina, ancora di grazia, mi permetta lo sfogo di un capriccio, in cui annegare tutti gli altri. Mi sia concesso detergermi in queste acque originali del Giordano. E tu, suora Ermellina, siami gemella nel bagno sacro. Suora Ermellina nella lavanderia del Monastero gerosolimitano chiusa da grate verzicanti fece rizzare due botti piene dell'acqua del Giordano destinata all'esportazione nel Canadà. Scoperchiatine i mezzuli superiori, la maestra e la catecumena entrarono nel rispettivo cocchiume, come immersione di anime bianche. A un tratto la signora Nerina emerse, come gentile bàbau da una scatola a sorpresa, e gridò: * Non basta, non basta! Non basta ridursi a giocattoli di Norimberga per attuffare nell'oblio la ricchissima collezionista di amanti e mariti, che sono stata io. Bisogna rinnovare all'aperto il miracolo, che ha lavato e levato i peccati del mondo. Voglio lavarmi con te nel fiume sacro, libera, libera come la Natura e l'Immaginazione. Sai nuotare? * Sì! * Nuoteremo insieme. Si radunò un concilio di badesse e patrassi per consultare, se si poteva concedere quell'ultimo capriccio idraulico. La bocca fiorita di un colto, giocondo e santo francescano, padre Alessandro Bassi, rivendicatore di Emaus, perorò favorevolmente, citando l'esempio del Poeta Divino, che sulla sommità del Purgatorio si era autorizzato un bagno nei fiumi Lete ed Eunoe con promiscuità di sessi (Matelda, Dante e Stazio) davanti le virtù Cardinali e teologali, davanti la stessa Teologia Beatrice e davanti una interminabile processione di luminari della Santa Fede. Fu arriso un consenso a quel Capriccio della signora Nerina, tanto era l'interesse spiegato dal gesuitismo per attrarla al Santo Oblio. Furono prese le disposizioni dal governo Turco con i consoli cristiani e venne scaglionato alla debita distanza un servizio di giannizzeri, perché nessun occhio profano potesse intorbidare il lavacro di quelle bellezze sante o destinate a santificarsi, come nella leggenda di Santa Godiva si chiusero ermeticamente tutti gli usci, le finestre e gli abbaini per la nuda cavalcata della pietosa, che a tale prezzo affrancava la terra dalla esosa imposta. Dove l'onda del Giordano è più tiepida e romita sotto l'ombra verdeazzurrata degli alti palmizi e dei cedri, la signora Nerina, che aveva preteso la scioltezza delle chiome ad entrambe, volle la mano di Suor Ermellina. Plasmate da un velo bianco di vergini martiri cristiane entrarono nel primo solco delle acque; e si diffusero nel gorgo, come se menassero un ballo in tondo acquatico. La signora Nerina guidava la danza subacquea; Suora Ermellina si piegava al capriccio. Le chiome diffuse, parevano alghe natanti, seguaci cappelliere alle rose divine dei volti di ninfe. La signora Nerina provava una letizia sovrumana nel rompere coi seni floreali quelle onde somme nella storia religiosa della umanità. Essa aveva provato con un principe romano il pizzicore salubre mordente delle acque albule nell'originale laghetto d'Averno; essa aveva provato con un arciduca russo l'ebrietà esilarante di un bagno in una vasca ripiena di vino spumeggiante ed aromatico di Sciampagna. Ma tali sensazioni erano state un nulla di fronte all'estasi divina procuratale dal bagno nel Giordano. Le pareva da una valle di baci divini vogare a un oceano di baci divini. Là dentro sentiva annegarsi definitivamente la sua numerosa collezione di mariti ed amanti umani, là dentro affogarsi per sempre i suoi capricci per pianoforte. Essa diveniva cosa di Dio, persona di Dio, spirito di Dio. Neppure la satiriasi cattolica di Barbey d'Aurevilly sarebbe capace di abbarbicarla. Essa scomunicava le immagini degli eresiarchi, che la fantasia le portava sulle rive del Giordano per accivettarla ancora. Via Eutichio antecessore di Strauss e di Renan nello spacciare che in Cristo sia soltanto la natura umana! Via Eutichio della castagna! Ad Ario altr'aria! Via straccio di Strauss! Via, rinnegato di Renan! Via Stefanoni! Via asino, asinone di Podrecca! Indarno le balenavano ancora diaboliche tentazioni di inciprignire le gelosie tra le potenze protettrici del Santo Sepolcro; scagliare nuovamente la Germania contro la Francia, escludere maggiormente la già sempre esclusa Italia ... aggrovigliare le unghie dei carmelitani nelle barbe dei cappuccini ... La signora Nerina emerse dalla santissima onda, in cui era trascorsa allargatasi beatamente lieve come spola, emerse con la chioma stillante come se avesse espuntato dalla superficie dell'acqua un fascio di raggi solari, emerse sentendosi capace di vincere in armi, lettere e scienze l'imperatore Giuliano l'apostata. Con tale sentimento di capacità essa si consegnò spirito e corpo a Suor Ermellina, perché la traducesse al Santo Oblio. Il distacco dal novello marito, che pareva crisi di gran momento, invece fu cosa agevolmente naturale, come lo spicchio di due castagne da un riccio maturo calpesto da un bove. Adriano Meraldi, sebbene serbasse una perennità copiosa di orgasmo, lutulenza e flatulenza nella attività letteraria, era un cervelletto rammollito, un cuoricino rammollito. Aveva adottata la filosofia dell'intrepido maresciallo di Francia settecentista, che avendo colta la moglie nel boudoir tra le braccia del cavaliere servente, chiese scusa di non aver bussato alla porta prima di entrare e levò l'incommodo. Così, se egli avesse sorpreso la moglie carolare nel Giordano non con la candida suora Ermellina, ma con un bronzeo e barbuto monaco armeno, avrebbe reso il saluto militare e se ne sarebbe andato in altra parte. La Massoneria mercantile gli diede occasione di allontanarsi. Speculando sulla sua prodigiosa forza di reclame , lo associarono al Trust per l'esportazione dell'acqua del Giordano, e lo incaricarono di una perlustrazione boschiva in Anatolia e poi in Persia a fine di realizzare una vistosa economia nella confezione delle botti. * * * Ritornando in Occidente sulla fregata o meglio vaporiera mercantile Stella d'Oriente con la dolce e serafica guida di Suora Ermellina, la signora Nerina si paragona trionfalmente a quella principessa del Boccaccio, che navigando sposa venne rapita dai corsari, e dopo averne fatte più che Carlo in Francia e subite più che Taide nella Suburra reddì a casa per vergine. Come di primavera i poggi brulli e secchi dall'inverno trasudano, esprimono una nuova lanuggine di verde verginale, così essa sentiva rinverdire, ringemmare, rifiorire l'anima sua di una virginità rifatta. L'ago dell'anima sua segnava definitivamente una declinazione magnetica verso il Santo Oblio, mentre il Suo ultimo marito ed amante Adriano Meraldi zoppicava arditamente verso le agognate foreste vergini dell'Anatolia, della Persia e forsanche dell'Indostan. Per tal modo allo spirito della signora Nerina si presentava in ombra una commedia o tragedia spirituale intitolata I due zoppi , degna di essere scritta da Spirito Losati: due zoppi calanti per diverse bande dal sommo dantesco emisfero di Gerusalemme. A Genova la Signora Nerina venne ricevuta in un abbraccio da Suora Crocifissa. Alla peccatrice pentita e redenta sembrò di sentire in quell'abbraccio la gloria della Santa Croce Cristiana. Condotta nel Monastero della Visitazione, vide aspettarla in un angolo della foresteria la figura ingrandita di suo padre, che aveva messo pancia. Il Comm. Atanasio Vispi, che aveva risoluto di scontare nell'ultima parte della sua vita i soverchi capricci concessi nella prima parte alla figlia, per riuscire nel magnanimo intento aveva assimilato l'energia democratica del macellaio Baciccia Calzaretta, la cavalleria romantica e l'inflessibilità puritana del suo genero Federico De Ritz, ed egli droghiere emerito di Augusta Taurinorum (direbbe l'abate prof. Vigo Razzoni) si sentiva investito della patria potestà come un antico cittadino romano. Invano Nerina si prosternò davanti quella arcigna figura. Egli non si curvò a sollevarla. Solo la ammonì: * Sii costante a purgare nella penitenza e nella santità il tuo, il nostro disonore. E scenderà ancora sulla tua fronte il bacio di tuo padre con il perdono celeste di tua madre. E forse, forse ... Così dicendo, egli guardava dall'alta finestra nel basso della via, dove pareva sostasse in attesa il fantasma di un cavaliere mortalmente offeso e tradito. Quel fantasma si sollevava, come in una nube ossianesca; era il conte Federico De Ritz proclamato deputato al Parlamento dal suo cappellano maggiore professore Vigo Razzoni; era una camicia rossa di Garibaldino; sotto l'ascella sinistra la gruccia di Mentana; nella mano destra la spada per colpire la moglie infedele, e liberare Roma serva del maggior prete, che deve tornare alla rete. Papà Vispi fece comprendere poco opportunamente all'anima spontaneamente avvinta della figlia, che, se essa fallisse al ritiro del Santo Oblio, c'erano le succursali regie Carceri per una rea di adulterio e bigamia, malgrado l'oscillante giurisprudenza del caso. Accompagnata da Suor Crocifissa e da Suora Ermellina la signora Contessa Nerina fece il suo auspicato ingresso nell'Ospizio del Santo Oblio. Era stata lungamente annunziata a quel popolo preceduto di spirituali recluse. La più sardonica di esse, una sbiobba, quasi per vendicarsi d'essere stata soprannominata dessa supa mitonà , l'aveva preconizzata come una contessa d'coule ch'ai na sta sent su na rama . E contessa cento su na rama fu il nomignolo preparato al Sant'Oblio per la Contessa De Ritz. La capricciosa avventuriera, che aveva fatta una indigestione di amori mondani, ora provò l'estasi del digiuno carnale. In quell'estasi come le parvero abbietti i romanzi sensuali scritti e perpetrati nella bassa vita! cronache, lenocinio di concubiti! Ma come mantenersi alta nell'estasi? Fanciulla inginocchiata davanti al padre e davanti al busto di gesso della mamma non aveva giurato di divenire una moglie onesta? E come aveva mantenuto il giuramento? Opportunamente al Santo Oblio avevano introdotto l'adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Non mai dovevano mancare due adoratrici genuflesse davanti all'altare di Gesù Sacramentato, sotto il lumicino della lampada mantenuto perpetuo come il fuoco delle Vestali. Si era assegnato il turno alle ricoverate; e la signora Nerina, oltre il proprio turno, richiedeva e volontieri soddisfaceva il turno delle compagne indisposte. Quell'abbandono prosternato ad un punto altissimo, immenso, infinito le riempiva l'anima. Un'altra soddisfazione liberatrice le era dato dal godimento del paesaggio. Quella vita verginale le aveva acuito, raffinato il senso delle bellezze naturali, come se la signora Nerina in quel ritiro avesse acquistato la squisitezza artistica dei paesisti Corot e Fontanesi. Essa sentiva, gioiva estremamente la bellezza della primavera nelle delicatezze ceramiche e profumate, con cui fiorivano il biancospino, il pesco, e il ciliegio; godeva e sentiva estremamente il mantello lionato delle messi estive; godeva e sentiva estremamente di primo autunno l'azzurreggiare, il rosseggiare o l'ambrare dei grappoli di uva, zinne vegetali per l'ilarità umana; e nell'ultimo autunno, quando le brine tessevano filigrane danzanti sulle ragnatele delle siepi, e il sole mattinale le risvegliava in brilli di diamante, essa inneggiava a Dio artista. D'inverno la neve le dà il riposo del candore, che confonde ogni cosa nella purezza abbacinante, il riposo del candore, quanto diverso dal riposo, che dà il verde, in cui pullula l'annunzio di nuova vita! Quando la serenità invernale consentiva agli occhi suoi il nitido panorama, essa indugiavasi a godere il diadema delle Alpi, marosi arrestati dal Dito di Dio: sulla pianura del Po e dei confluenti suoi, dai piedi delle Alpi ai candidi poggi monferrini, spaziava, dilagava la nebbia. Allora alla romita contemplatrice pareva di contemplare lo spettacolo da una specola sopra le nubi, da un altro pianeta, dal Paradiso. Il sole saettava la nebbia padana, la illustrava e diradava a fiocchi di bambagia, che principiava a lasciarsi traforare dai campanili; poi negli screpoli, nelle radure comparirono chiese, interi villaggi, isole; poi tutta la pianura del Po scintillante nei solchi e nelle punte, come un'argenteria libera dall'imballaggio. E la Contessa, resasi suora del Santo Oblio, batteva le mani e benediceva all'omnipotenza del Creatore. Prosa non ispregievole dopo tanta poesia. A compire la felicità della reclusa, essa accorgevasi, che la rinunzia al lusso e alla lussuria le aveva anche impreziosito il gusto dei cibi semplici e delle bevande schiette. Ma non ancora è spenta la razza dei diavoli di Dante e della Basvilliana, che si contendono le anime. I diavoli di Nerina sono i capricci. Soddisfattone uno, spregiarlo, e intraprendere la serie degli altri. Che fate, angeli tutelari di Nerina? Dormite? Dormi, anima della madre sua? Dormi un sonno marmoreo, come nel busto del Cimitero di Torino, o sei ingessata, come il modello nel salone di San Gerolamo? Svegliatevi! Provvedete! Non mirate voi, quale sconvolgimento si prepara, quale pervertimento si opera nella psiche complessa, multipla di Nerina? Essa era ormai stanca di regnare su quel piccolo mondo di segregate. Supa mitonà , Bimblana, Gibigianna, Gilda ecc., le preparate a schernirla come Contessa Cento su 'na rama , erano state facilmente avvinte al carro della sua solitudine religiosa, e la riconoscevono regina di rarissime virtù. Ma che diventa mai la solitudine, se l'anima interiore non è riempita dalla grazia di Dio? Dopo una piova primaverile, Nerina contempla sitibonda la pianura del Po, che si rimbarba di verde. E sente poco per volta vuotarsi l'interno dell'anima sua, e incrostarsi la superficie di nuovi desiderii e prudori voluttuosi. Che è mai un eremo alla sua nuova vista? È un buco, un vuoto schiacciato, seppellito, dimenticato dalla Natura, maledetto, escluso dalla Vita; si chiami il convento delle Meteore o l'Ospizio del Santo Oblio. Peggio le pare un'ingiuria, una ritorsione della Natura, che nessuna forca può espellere. La reclusa del Santo Oblio sente il bisogno irrefrenabile di riallacciarsi alla vita mondana. E rapidamente accumula in sé tanta energia di elettricità psicologica, da superare l'orrenda riverenza delle pitonesse nella mitologia antica, o la forza medianica sorgente in Eusapia Paladino. È la precorritrice di una stazione radiografica ultrapotente per una telegrafia senza fili, per una trasmissione telodinamica del pensiero e della volontà femminile. La sua possa di magnetismo animale, per le correnti maravigliose, che la scienza ha già lealmente riconosciuto, sebbene non sia ancora riuscita a spiegarle, arrivava, toccava persino il suo secondo marito nel penultimo Oriente. Adriano Meraldi, lasciando ai colleghi affaristi del Trust per l'esportazione delle acque del Giordano la ricerca del legname più resistente e più economico per le botti, si era dato alla caccia della pantera e della iena con una passione scientifica da imitare il naturalista Michele Lessona, e con una felicità artistica da aspirare a Nembrodt del fucile e della penna. Dalla Persia era calato nell'India sacra, dove aveva incontrato la truppa signorile dei battifolli torinesi in cui era incorporato il baroncino Svembaldo Svolazzini, angelico rampollo del fiero neofeudatario di S. Gerolamo. Le accoglienze oneste e liete, che si fecero il letterato e il baroncino dello stesso paese d'origine, ricordano quelle di Virgilio e Sordello nel purgatorio di Dante. A tanta distanza da S. Gerolamo sparvero le differenze sociali tra il figlio dell'economo cadastraro e il figlio del nobile Mecenate. Che importa, se il professorino aveva nelle ripetizioni delle vacanze annoiato con i latinetti il baroncino? La carità del natio loco, il dolce suon della comune terra livellava in quella lontananza plebeo e patrizio, Chirone ed Achille, lasciando soltanto emergere i vincoli dei soavi ricordi ed affetti. * Illustre professore! * disse il baronetto saltando al collo di Adriano Meraldi. * Dolce tirone! * gli rispose Meraldi, stringendoselo al petto. Il professorino Meraldi a S. Gerolamo aveva trascurata la popolana Gilda per correre dietro alla capricciosa tota Nerina . Ed il baroncino Svembaldo aveva raccolta per sé la purissima popolana; e come un giovane Dio se ne era fatto l'altare della sua religione. I ricci, gli occhi, la luce della fronte e dell'anima di Gilda erano per lo Svembaldo tesori impagabili, non surrogabili. * Umanità! * egli esclamava a se stesso: * Rispetta le pure simpatie dell'amore, che sono tramiti divini. Egli si era afforzata la sua fede amorosa nelle fatiche del viaggio e della caccia alle Indie. L'incontro e la presenza di Adriano Meraldi gli rinfocolò nel cuore un braciere non mai spento. In quella vegetazione feconda di tutto l'amplesso dell'acqua e del sole, egli, come se possedesse il pennello e la poesia di Tullo Massarani, divinizzò l'immagine di Gilda a nuova Sacuntala. Clemente Corte, artiglieria piemontese fusa nel coraggio e nel genio garibaldino, studiava le conquiste inglesi nelle Indie ad ammonimento e correzione delle velleità coloniali d'Italia. Svembaldo Svolazzini anelava ritornare in Italia per la piena, santa, perenne conquista della sua Gilda. Meraldi e il baroncino, sulle rive del sacro Gange, come per un contagio spirituale, risentono insieme gli stimoli dei primi amori di S. Gerolamo; e tali stimoli vengono maggiormente acuiti da una inopinata comparsa. Sbarcava, col suo manto di madonna gerosolomitana, con il collo lungo, che pareva tornito da Fidia, e con il profilo greco non scismatico, Suora Ermellina Diotamo, che dal Santo Oblio veniva a dirigere un Collegio di Dame inglesi a Calcutta. Quando essa si era accomiatata dalla Contessa Nerina, questa con una prosternazione, che mascherava la lampeggiante voglia di un tradimento, la aveva pregata: * Madre santa, se Ella vede quel ... signore, gli dica, gli dica ... * E di più non aveva detto. Suora Ermellina riportò ad Adriano Meraldi il profumo tentatore della diavolessa lontana, i cui tentacoli per vie incognite ritornavano direttamente imperiosi a lui. Provò a disperdere quel profumo nella danza serpentina di una bajadera. Inutilmente desiderò l'incolumità di un fachiro. Egli soggiacque alla terribile ripresa di malore ignobile; per cui si rinnovò la minaccia dell'amputazione chirurgica della gamba sinistra. Ed egli pure dovette adottare l'uso d'una stampella. Invece quale balzo di elasticità angelica darà l'orgasmo di Svembaldo Svolazzini, allorché apprenderà da Suora Ermellina, che anche Gilda è assicurata al Santo Oblio? Appena potranno, Svembaldi e Svolazzini partiranno in guerra contro il Santo Oblio. Ma d'altra parte, che dovrebbe importare irosamente del Santo Oblio a Federico De Ritz? Perché se ne cruccia e se ne tormenta? Che desidera di più? Egli con una votazione magnifica, quasi plebiscitaria, è stato eletto deputato al parlamento Nazionale dal suo ligio feudale collegio di Ripafratta. Si sarebbe detto un compenso popolare alla sua sventura matrimoniale, solatium uxorium , friggeva a se stesso, per paura che l'aria lo sentisse, l'abate prof. Eleuterio Vigo Razzoni, primo cappellano della sua corte, e suo grande, eminentissimo elettore. L'on. Conte nel palazzo dei Cinquecento a Firenze, per votare sì, alzava la gloriosa stampella, come faceva l'eroico Benedetto Cairoli. E l'alzata era più animosa, quando si trattava di sollecitare la liberazione della madre Roma; ciò che induceva a bisbigliare qualche gufo clericaleggiante: * Veh! l'idea nazionale di Roma o Morte si regge sulle grucce. I buzzurri andranno a Roma di gamba zoppa in die judicii. Crepi l'astrologo clericaleggiante! rispose la Fortuna d'Italia; e l'Italia al 20 Settembre del 1870 compiva il suo fatale ingresso a Roma per la breccia di Porta Pia. Federico De Ritz non imitò Enotrio Romano che fece squacquerare le oche del Campidoglio contra l'Italia, come se questa vi salisse a scappellotti e calci. Non mostrò il contorcimento di budella mostrato da Giuseppe Mazzini, per la nobile invidia, di non averla condotta lui l'Italia a Roma. Federico De Ritz con il suo buon senso e con il suo buon cuore sentì che l'Italia compiva a Roma il miglior ingresso patriottico e cristiano con la maschera guerriera e gianduiesca di re Vittorio, con la probità catoniana del flebotomo Giovanni Lanza e con la scienza moderna di Quintino Sella, anzi che con i sonagli della vieta retorica e con i barili di fiele dei profeti in malora. Federico De Ritz ne provò una così sana ed alta soddisfazione, da poter rinunziare alla stampella destra, surrogandovi un bastoncino. Ma come la liberazione di Roma aveva tolto al partito avanzato italiano il programma, per cui combatteva, e inflittagli la necessità di cercare un altro programma di riforme progressive, così a Federico De Ritz quell'estrema soddisfazione patriottica e politica riapriva l'animo ad altre cure personali. Le corna rodono! * Rodono le corna! lo avvertiva un proverbio romanesco sonettato dal Belli. E gli rivogava in seno tutta la complessa filosofia delle corna. Non si addiceva a lui la filosofia allegra, con cui Massimo D'Azeglio terrificava il nipote prossimo ad ammogliarsi: le corna sono la pace di casa, perché la moglie fedele fa scontare la sua fedeltà con le bizze domestiche, mentre la moglie infedele copre la sua infedeltà con le moine al marito. Né meno gli entrava l'erudizione latina, che avrebbe potuto confermargli l'abate Vigo Razzoni: significare le corna presso gli antichi romani forza, potenza. Onde la laude oraziana del vino " addis cornua pauperi" , aggiungi corna, cioè forza al povero che in grazia sua più non trema davanti le Altezze reali e le baionette del Regio Esercito, è una laude, che più delle preghiere cristiane può far parte del programma minimo dei socialisti. Se non che quell'eterno buffo dell'avvocato Ilarione Gioiazza applicava il precetto oraziano " adde cornua pauperi" al ricco padrone di casa, che si godeva la bella mogliera del povero portinaio. Appunto per ricreare, rifiorire l'anima, Federico De Ritz si rivolse all'amico avvocato Ilarione Gioiazza, domandandogli: * Ed ora, che dobbiamo fare, dopo la presa di Roma? * Per me, * gli rispose Gioiazza, a cui le maggiori batoste maritali dell'amico De Ritz non avevano tolto del tutto il rimorso pella supposta primizia peccaminosa di Capri, * per me lasciami fare l'avvocato. Commetti pure un delitto o un crimine. Ed io ti difenderò volontieri davanti al Tribunale Correzionale o la Corte d'Assisie. Commetta un delitto il papa, ne commetta il Re fuori della costituzione; ed io li difenderò volontieri davanti il Senato costituito in alta corte di Giustizia; ma lasciatemi fare l'avvocato. Una simile domanda Federico De Ritz rivolse al prof. Spirito Losati; e ne ottenne questa risposta: * Tolto il potere temporale al Papa bisogna studiare, se occorra togliergli il potere spirituale, o piuttosto spiritualizzare il Papa stesso. Finora non ho risolto a quale appigliarmi delle due corna del dilemma. Federico De Ritz ragionava non potersi dire di lui, che portasse magnificamente le corna, poiché era riuscito ad internare la moglie in un luogo di santità immune. Anzi quasi quasi vantava la gloriola vendicativa, crudele del secondo marito della Pia dei Tolomei. Ma ad ogni modo della sua già empia, ed ora Pia, gli ritornava l'ossessione. Desiderava mortificarla con amplessi tirannici carcerarii, ripugnando al suo carattere nobile il sistema del terribile Orsenigo (novellato da Vittorio Imbriani), il quale Orsenigo uccise di lenta vergogna la moglie con amplessi retribuiti a similitudine meretricia. Il Conte Federico domanda al suocero papà Vispi il consiglio, se visitare Nerina; e papà Vispi gli risponde romanamente: no! * Nerina isolata nel ritiro può divenire una santocchia per un'altra vita. Ad ogni contatto di questa vita si disfarà, come la materia, che resiste sotto la campana pneumatica, e si scioglie al minimo soffio d'aria. Federico De Ritz domandò il permesso di visitare Nerina al Canonico Puerperio, cioè Giunipero. Questi, che aveva già dovuto soffiare: "la Contessa è un diavolo, anzi una donna da perderci l'anima" , gli rispose amabilmente, dimostrativamente di no: * Senta, veda ... ciò che è capitato a un mio collega direttore spirituale ed amministrativo di un manicomio, ossia casa di Salute. Vi era stato ritirato per necessità di decenza un giovine signore, già valoroso ufficiale di artiglieria. La giovine signora volle pietosamente visitarlo. Il marito violò la moglie. Che ne nascerà? Non vorrei accadesse il rovescio a Lei, perché la sua signora contessa è stata certamente una pazza morale o meglio imm ... Lasciamola alla guardia di Dio e della Madonna Salvatrice! Tutte queste ripulse non domarono le voglie di Federico De Ritz verso Nerina. Forse le basse voglie gli sarebbero state vinte da una ripetuta, quasi violenta chiamata telegrafica, che il partito gli fece al Parlamento. Se non che dal Parlamento, dalla smunta politica italiana lo distorse la notizia pubblicata dai giornali di Torino: che vi era giunto l'egregio scrittore piemontese Adriano Meraldi divenuto celebrità europea. La notizia perveniva pure al Sant'Oblio , dove la contessa Nerina, acquistando sul personale un ascendente, da disgradarne quello della superiora suor Crocifissa, aveva organizzato un perfetto servizio postale clandestino a suo comodo, e mediante la speciale abilità di un affascinato curatino si procurava il frutto proibito di giornali freschi, sotto la specie di nocciolo di gomitoli o modelli di vestiario. A quella notizia la Contessa Nerina si sentì secretamente invasata, trionfata dal suo antico carattere meccanico divenuto simbolico: il carattere capriccioso deleterio della signora di Challant, macina di maschi, secondo il novelliere vescovo Bandello, e secondo il poeta drammaturgo Giacosa, Venere sanguinaria, che prometteva e dava mille deliziose agonie, e spingeva l'un contra l'altro armati gli amanti, e baciandole, fatava le spade, che vicendevolmente li trafiggessero. * Ah! Meraldi a Torino! Come lo cercheranno, lo ustoleranno, se lo disputeranno, se lo divoreranno quelle smorfie di signore torinesi, cagne, gatte, carogne! Essa spedì immediatamente due biglietti. L'uno: All'eg.o scrittore Sig.re Adriano Meraldy celebrità europea * Torino "Sempre tua Nerina sposa amante." L'altro: * All'on. sig.re Conte avv. Federico De Ritz * Torino "Tua pentita, penitente Nerina, ma sempre tua, tua per sempre." * * * Adriano Meraldi aveva divisato di partire quella mattina per isciogliere il più santo voto del suo cuore, recandosi ad abbracciare i suoi vecchi genitori a san Gerolamo. Invece il biglietto di Nerina gli diede un altro dirizzone. Il Conte Federico De Ritz nell'accostarsi all'Ospizio del Sant'Oblio sopra una timonella del signor Barolla di Passabiago noto concessionario di vetture pubbliche, si sentiva scalpicciare di dietro un altro veicolo più veloce. Discesero quasi contemporaneamente Federico De Ritz ed Adriano Meraldi al cancello del Santo Oblio; ed ambidue licenziarono le rispettive vetture. Si posero di fronte, ambidue appoggiata l'ascella sinistra sopra una gruccia; e si guardarono. Balenò loro l'esempio di quei due eminenti letterati e patrioti subalpini, rivali anche nella poesia e nella politica, i quali una sera si trovarono sullo stesso pianerottolo, davanti lo stesso usciolino di una famosa e distratta principessa cosmopolita, da cui avevano avuto un appuntamento alla stessa ora precisa? Quei due cavalieri moderni, mostratisi i biglietti come uno scambio di poteri, e filosoficamente persuasi, che niuna bellezza di questo mondo vale la spesa di un rancore, tirarono a sorte chi dovesse entrare. Ma la farsa filosofica qui non era possibile. Invece di una principessa cosmopolita, che dispensava le sue grazie benefica a tutti, come il sole, si annidava al Santo Oblio Nerina dotata dell'incantagione, per cui le serpi affascinano mortalmente gli uccelli. Invece della farsa essa esige la tragedia. Il Conte Federico De Ritz, premendo sulla stampella, alza il bastoncino e grida fieramente ad Adriano Meraldi: * Difenditi! * Ecco i due zoppi di fronte ad avvelenarsi con gli occhi, prima di percuotersi coi bastoni; i due zoppi: Federico azzoppato da Marte per l'amore della patria e dell'umanità; Adriano azzoppato da Venere o più precisamente da lue venerea. Era un vespro del caduco autunno; e l'atmosfera pareva impregnata di vapori e versi ossianeschi cesarottiani. I belligeranti, fiancheggiando la muraglia del Santo Oblio, combattevano sotto una pianta di fischianti foglie. Il loro piede zoppo diveniva piè di vento per scavalcarsi e saltalenare a mo' dei galletti. Ma essi combattevano come i primi uomini, che con la clava si contesero le prime donne (non di teatro); combattevano come i primi uomini selvaggi. E si bastonavano, come burattini al teatrino Gianduja. Nerina accoccolata, contorta, mentre si sbattocchia la battaglia tra Meraldi e De Ritz, grida a se stessa: * Che colpa è la mia, se Dio mi ha creata serpe? * Poi geme: * Sant'Oblio! Sant'Oblio! Soffro, perché sento qualche cosa spegnersi in me. Saranno mortali le bastonature dei due zoppi? Se non di bastone, c'era da morirne di vergogna.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676096
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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L'Immolata si ritrasse con ribrezzo; ma appena il sacerdote le ebbe mormorato all'orecchio una misteriosa parola, abbandonando il suo braccio a quello del mostro, ella salì con lui nella gondola e disparve.

La scuola di ballo

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Loria, Arturo 1 occorrenze

«Le sarà largo» rispose abbandonando subito la preda, poi prese a spogliarsi dopo aver dato incarico al giocoliere di scegliergli un costume a modo. C'era nell'andito stretto un pigia pigia silenzioso, un sospirar d'uomini lenti, chini a slacciarsi le scarpe, a cercare il gemello caduto, a sfibbiare una cintola. La porta fu ancora aperta: s'affacciò il padrone. «Le babbucce» avvertì «sono tutte in quello scaffalino. Chi ha le mutande lunghe le arrotoli fino a mezza gamba» e disparve, richiudendo. «Chi è pronto aspetti gli altri» gridò poi attraverso il legno. «Voglio vedere il colpo d'occhio» e i poveri diavoli dentro lo stambugio si sentirono fatti schiavi di un perfido tiranno che li obbligava ad una ridicola parata. «Poteva dircelo di questi maledetti costumi» brontolò il grosso commerciante «che non saremmo venuti» ed esitava a togliere i piedi dalle scarpe e a stamparli caldi sul pavimento per andar in cerca di un paio di babbucce. I più eran pronti ormai, ma il lavorio non era finito. Ciascuno rivoleva i propri abiti per prendervi il fazzoletto, il sigaro, i fiammiferi, pretesti delicati per toglier dalle tasche i portafogli e gli orologi d'oro. Il cameriere, entrato per dare il suo aiuto, sorrideva, avvezzo alla sfiducia, e non s'azzardava a toccar nulla. «Andiamo, adesso.» Come attesi da un pubblico curioso del quale avevan paura, quelle comparse si disposero in fila. Il primo aprì la porticina. «Avanti, avanti» fece il caffettiere piantato lì vicino per scrutarli al passaggio, come il graduato che ispeziona i soldati alla porta della caserma. «Bene! Magnifico, Lei! Cos'è quello sbrendolo? Tiri, tiri su. Ci dev'essere un laccio.» E andava da l'uno all'altro per dar consigli e ritocchi. «Si siedano, ora. Prendano posto. Ci sono i bigliettini con i nomi, è facile.» In quel momento gli ospiti capirono bene d'esser morti come clienti del caffè. La coscienza d'offrire, una volta tanto, dava al padrone un tono un po' imperioso, un'aria d'esigenza assai spiacevoli. Cominciò la ricerca dei posti, lunga per lo scontento e la malavoglia di chi doveva sedersi a quel banchetto forzato. Tutti si guardavano intorno negli specchi: i tre occhialuti della compagnia provavano a togliersi e a rimettersi gli occhiali, strumenti doppiamente necessari a ritrovare la perduta somiglianza con la consueta immagine di se stessi. Quando tutti furono seduti, due posti rimanevano liberi, senza cartellini. Erano per i due anonimi, per il giovane e la ragazza che non bisognava più attendere: l'ora dell'appuntamento era passata da un pezzo. Tutti fissavano ai due posti vuoti, scoraggiati, come se quell'assenza fosse di cattivo augurio o li privasse dell'unico piacere rimasto da sperare. «È già tardi! Se ne saran dimenticati» disse il caffettiere in tono di rabbioso rammarico. «Avranno avuto meglio da fare» commentò uno dei professori, poi temendo d'aver offeso con la sua frase l'ospite, si perse a insistere su quel che pensava fosse "meglio", mentre la sua faccia sotto il turbante perdeva la gravità solita e si ringiovaniva d'una espressione cupida della bocca, bianca nel ghigno e barbara. «Non vengono. Non hanno gradito il mio invito, si vede!» gridò il padrone. «Tu, servi» fece al cameriere «ma leva prima quei piatti: mi danno fastidio.» Immediatamente dopo, ciascuno si trovò di fronte all'impegno di mangiare e di bere senza voglia, senza calore collettivo a incoraggiarlo. L'osservarsi reciproco non era ancor finito. Pareva che ogni commensale non persuaso dai volti degli altri, cercasse sotto i mantelli e i casacchini le linee note degli abiti e delle forme a riempirli, e al tempo stesso di tale ricerca si sentisse il solo non travestito e quindi in diritto di compierla. Per questo, quando lo sguardo gli ricadeva sul proprio petto, n'aveva un soprassalto di meraviglia, e poi un abbandono triste alla irrimediabile fatalità comune. Alta splendeva sulla tavola una grossa lampada: le altre più piccole intorno eran fredde di luce riflessa, così che solo il centro del caffè era chiaramente illuminato. Il perdersi dei tavolini nelle nicchie e negli angoli più lontani tra le colonnine gialle era inquietante, lasciava le spalle senza sicurezza, spiate da invisibili testimoni. Qua e là chiazze sul muro, macchie sul pavimento, fili di luce elettrica fuor di posto, abbandonati e lenti, denunziavano uno squallore insospettato, una rovina troppo d'accordo con la decisa chiusura del caffè. Dietro il banco sguarnito di bottiglie un usciolo aperto lasciava vedere un passaggio stretto, di pietra nera e scabra, come un foro di grotta. Era la via per la quale il cameriere partiva a corsa verso la cucina per ritornare carico di piatti, quando una chiamata del padrone non lo faceva riapparir con viso tra curioso e spaventato ciondolando con le mani in agitazione il tovagliolo della sua insegna. Ad uno dei suoi ritorni lo si vide con quel tovagliolo arrotolato in capo a mo' di turbante. Esitò, così contraffatto, a farsi vicino al caffettiere, poi prese ardire, e sorrise a se medesimo, contento che fosse andata liscia. Il coraggio di parlare non l'aveva nessuno degli ospiti: solo il meticcio scambiava qualche parola col giocoliere seduto accanto a lui, e in quella loro intesa, parevano il principe dissoluto e il furbo confidente, entrati in incognito nella casa del buon mercante. Gli altri mangiavano, ma i loro sguardi si posavano con discrezione sul caffettiere nero e truce, poi si nascondevano, paurosi di vederlo a un tratto balzare in piedi brandendo come clava una bottiglia, rovesciar la tavola e menar strage in un accesso di pazzia provocato dal rimorso dei denari spesi così male. Quello, afflitto di come andava la sua cena, tentò di reagire al disastro: prese a masticare e a grugnire di piacere esagerato per far festa alle vivande e creare un'atmosfera cordiale e sbottonata d'uomini soli e buoni intenditori di cucina. «Ma cari signori» disse, vedendo che non approdava a nulla, «bisogna bere. Che cos'è quest'astinenza? Siamo arabi, è vero, ma di Maometto ce ne infìschiamo, noi!» L'assemblea rise, finalmente, sollevata. Il giuocare all'arabo che beve vino a dispetto del Corano aveva per tutti un fascino curioso, geografico e infantile. Ciabattando intorno alla tavola il cameriere riempì i bicchieri di bel vino rosso. Ad ogni sosta dietro uno dei commensali batteva un piede a terra a marcarla, sorridendo da solo della propria trovata a fare allegria. S'ebbe un'occhiataccia padronale che lo rese strisciante e silenzioso come un rettile, ma scoraggiato, piantò le bottiglie in mezzo alla tavola e partì per altri traffici in cucina. Venne quindi un momento di pericoloso silenzio. Fu allora che gli occhi di tutti si volsero dove quelli del caffettiere fissavano intenti. Dietro una delle grandi finestre rispondenti sulla strada, s'intravedeva l'ombra nera di una testa ferma a spiare. Si allontanava dal vetro, si riavvicinava: a tratti la forma di un copricapo sporgeva disopra l'arabesco della smerigliatura, nel vetro chiaro, e pareva proprio quella del berretto di un agente di città che fosse insospettito del caffè chiuso ad ora insolita, con dentro buon numero di gente. Gli ospiti si sentirono subito in fallo con qualche regolamento di polizia e temettero un'inchiesta tra ironica e brutale sul banchetto e su quei loro travestimenti, che nell'immaginazione turbata perdettero di colpo la loro innocenza. Nella tavolata c'era un mistero; sorgeva per ognuno il senso di partecipare a un rito, ad una strana cerimonia d'iniziazione segreta, per uomini soli. Nel silenzio perfetto, mentre ognuno fissava il padrone a gravarlo di quella responsabilità, un ticchettìo multiplo divenne avvertibile come la voce di una colonia di tarli dentro la tavola. Erano gli orologi portati sul ventre, legati a qualche laccio interno delle brachesse arabe. Fu una sorpresa rassicurante, un ripiombar nell'occidente borghese. Le mani cercarono là dove palpitava lo strumento civile, quasi volessero esser pronte ad esibirlo come una prova d'identità, un documento di rettitudine e di buoni costumi. «Vado a dirgliene due, io, a quel curioso» fece il caffettiere alzandosi. Corse al vetro, e là, ritto in punta di piedi, cercò di guardar fuori. Gli altri lo videro saltellar d'improvvisa gioia, mentre l'ombra nera spariva per paura. Al suo ordine secco il cameriere aprì di furia la saracinesca e il padrone balzò in strada dietro al grido rugginoso. Si udirono i suoi passi ciabattanti correre intorno al lato del viale, entrar nella strada tra le esclamazioni esilarate di alcuni cocchieri seduti in serpa, poi tornò silenzio. Finalmente egli riapparve trascinando qualcuno che spinse dentro, mentre il servo aggrappato alla saracinesca la riabbassava contro il mondo esterno, curioso e nemico. «Ecco qua la nostra invitata!» gridò trionfalmente il caffettiere, e per esporre all'ammirata curiosità dei suoi ospiti la ragazza che avevan veduto nel caffè giorni prima, andò a girare due o tre chiavette, aumentando la luce. Tutto il lampadario splendette sulla vergogna di lei che si copriva gli occhi con le mani. Magra, in piedi e così afflitta, smentiva ella un felice e lussuoso ricordo: ora l'abito scollato che appariva dal mantello aperto davanti, mostrava una ricchezza falsa di vetrini mal cuciti sopra una stoffa fragile, e quella miseria le diventava fìsica come s'ella uscisse di malattia. «Avanti, avanti» la incoraggiò il caffettiere spingendola a sedere nel proprio posto. «Aprite gli occhi: guardateci. Gli arabi son cavalieri con le donne. Siamo belli, non è vero?» La maliziosa curiosità del già intravisto, portò lei a scoprirsi gli occhi e a girarli intorno sorridenti. Gli arabi seduti a mensa le facevano inchini gravi e rispettosi. «Lei è quel signore che era seduto là, l'altra sera.» La voce fresca, vicina al riso, colpì tutti gradevolmente. L'interpellato a mostrar la propria soddisfazione per esser stato riconosciuto s'alzò un poco e aprì il mantello per far vedere gli abiti europei che aveva sotto: scoprì soltanto un gran groviglio di spaghi e i pantaloni un po' aperti sul ventre. Tutti risero e si accomodarono meglio sulle sedie: il meticcio e il suo compare parevano due raffinati spettatori che escon dalla noia dello spettacolo consueto per l'arrivo del numero che a loro interessa. Quando la ragazza si trovò a incontrar lo sguardo del meticcio n'ebbe un'occhiata così spogliatrice che trasalì e abbassò il capo. «E come va» chiese il caffettiere rimasto in piedi presso la seggiola di lei «che il vostro amico non è qui? Io avevo invitato anche lui.» Ella abbassò gli occhi e non rispose subito. «Non l'ho più visto da martedì: non so dove sia.» Ci fu un silenzio dopo la confessione come se quell'assemblea di capitribù ascoltasse un naufrago raccontare di un barbaro trattamento avuto presso un popolo limitrofo; poi il padrone non potette trattenersi. «Non ve l'abbiate a male,» sbottò «ma è un bel mascalzone... Non si pianta così una ragazza come voi!» Senza voce gli altri assentirono, e il silenzio pareva lasciato perché ella potesse piangere a suo agio di confortata vergogna. Troppo invitata a questo, la ragazza ruppe in singhiozzi. «Non più venuto: non l'ho più visto. Speravo di trovarlo qui perché mi son ricordata che voleva venirci.» « Può darsi che venga » disse il magrino dagli occhiali, guardandola di sotto i vetri con occhi enormi e troppo bianchi. «Ma mangiate intanto. Avete l'aria patita.» «Diciamo la verità, figliuola» intervenne il padrone «da quanto tempo non avete mangiato?» «Io? Perché? Ho mangiato... ho mangiato.» «Sarà, ma non ci credo. Il signorino è andato e non v'ha lasciato neanche da cenare. Fanno tutti così, questi giovanotti!» Ella non fece proteste: allentò la mano che stringeva un pezzo di pane, lasciò cader la forchetta sulla tovaglia come avesse disgusto di un cibo che le costava così caro. «No, no. Non c'è niente di male. La verità è la verità. Siam felici per noi che siate venuta. Non è vero? Mangiate, dunque, e pensate a cose allegre. Tu, versale del vino e preparami un posto, qui, accanto a lei.» Il cameriere obbedì in fretta e propose: «Non sarebbe bene scaldar prima un po' di brodo, per la signorina?» «Sicuro. Corri in cucina e porta il brodo.» Nell'attesa ella cominciò a mangiare un panino ripieno. Faceva bocconcini e masticava adagio come chi è quasi sazio. Gli uomini la guardavano con l'aria di scoprire una donna che mangia per la prima volta, e si scambiavano occhiate di soddisfazione ad ogni boccone ingoiato da lei, come bimbi che ristorano un passerotto trovato mezzo morto nella neve. Estraneo a questa commozione, il meticcio indagava con acutezza d'intenditore le braccia nude e il busto della ragazza, che, avvertito un pericolo da quella parte, una volontà sicura del fatto suo, evitava di dirigere a lui gli occhi ridenti e ancor lacrimosi. Il giocoliere, vedendo quell'interesse del meticcio si spiegava finalmente la sua voglia d'intervenire alla cena e la sua delusa apatia di prima. Mosso da istinto cortigiano, ammiccando e sussurrando prese a far giudizi e a esprimere parolette lusinghiere per la ragazza. «È un tipo, non vi pare? Bisognerebbe allevarla noi e poi lanciarla insieme al nuovo teatro. Un po' di denaro speso su di lei, un po' di smaliziatura e avremo un'attrazione stupenda. Guardatela bene: ha il magro che piace adesso. Cercate di parlarle, dopo. Quelle ragazze lì non sognano che il palcoscenico.» Il meticcio sempre muto sorrideva, e il padrone, accortosi di quel maneggio, teneva d'occhio tutti e tre, gelosamente. Anche lui cominciava ad avere il suo piano intorno alla ragazza. S'alzò per prendere qualcosa dietro il banco e tornò esibendo un costume arabo da donna, bianco a ricami d'argento. «È per un'odalisca» disse e si mise a illustrarlo in ogni particolare alla ragazza che gridava: «Bello! Bello!» palpando amorosamente la seta. «E mettetevelo, dunque » pregò egli « vi starà tanto bene.» La curiosità per l'immagine nuova persuase tutti ad esigere il travestimento. Anche il meticcio uscì dal suo silenzio per dire: «Ma sì, vestitevi da araba, signorina. Sarete più graziosa di tante che si vedono al "Casino".» «Non credo, ma dove vado io a vestirmi?» «Di là, signorina» fece il padrone. «Vengo con voi per accendere la luce.» La partenza dei due dalla tavola lasciò un vuoto impressionante. Ognuno guardava dalla parte dello spogliatoio dove il caffettiere buttando a terra abiti e camicie scopriva nella parete uno specchio. «Vi lascio: chiudo l'uscio.» Senza indugio, quello tornò in sala col viso di un asciutto cavaliere. Ormai tutti tenevano d'occhio la porta giallina, dove il buco della serratura apriva la sua frastagliata fauce nera. La coscienza che a pochi metri da loro una donna si spogliava agiva come un fluido. I discorsi eran rotti da risatine, da ammicchi, da sorrisi nervosi. Solo il caffettiere restava impassibile, deciso a parere il più discreto di tutti, ma cercava di ascoltare le parole che si scambiavano il meticcio e il suo compare, potenti nemici delle sue intenzioni, come aveva già capito. «Son quasi pronta» annunziò la ragazza di là dall'uscio, suscitando la visione di un disordine spumeggiante tra il quale la sua bellezza fiorisse di mal celate nudità. «È quasi pronta» ripete una voce, e tutti risero, fauni discreti e sicuri di dominarsi. Ella aprì la porta e uscì, finalmente, a passo di danza, agitando un velo verde. Felice d'indossare il costume e al tempo stesso un po' confusa del proprio coraggio, era bellissima. Il caffettiere, impallidito e a bocca aperta, senza sorriso, la fissava incantato da quell'immagine prepotente che confondeva ogni suo ricordo. «È troppo!» gridò poi tra lo stupore generale e, pentito, abbassò lo sguardo. Una perfezione sognata, un'odalisca da gran principe era davanti ai suoi occhi e li sentiva ciechi, abbacinati. Bevve, si alzò, venne vicino a lei che il grido aveva impaurito e: «Brava! Brava!» mormorò con una voce arrochita di cui gli altri uomini provarono disgusto e gelosia. «Brava!» ripetè. «Lasciatevi vedere, odalisca. Questa è la gran notte del mio povero Caffè arabo. Ho sempre sognato d'esser arabo» confessò traboccando di mescolate emozioni. «L'amore dev'esser più bello per loro.» L'uscita destò una secca, ironica ilarità negli ospiti e l'irritata protesta del magrino dagli occhiali che si mise a spiegare come ogni popolo abbia delle idee sbagliate a questo proposito sugli altri. Per sua esperienza tutto il mondo era paese. Trascinato da una foga vendicativa, non si peritò a dire che molti uomini capiscono l'amore solo in maschera, dimostrandosi degni di quella o di quell'altra categoria internazionale di viziosi. La ragazza, tornata al suo posto per mangiare il dolce e la frutta, appariva impensierita di tutto quello sfogo contro il fascino orientale, e un po' s'accigliava e un po' rideva con un'altra se stessa che l'era allegra compagna nell'avventura. Il meticcio ridacchiava coi professori e i commercianti, affermando che le città europee insegnavano a tutti i popoli in materia d'amore, perfino a lui, misto di razze lussuriose e raffìnatissime. Il caffettiere taceva non sapendo se sentirsi offeso o no dal discorso del magrino, però, siccome aveva l'odalisca seduta accanto, prendeva vantaggio di arie da padrone tenendo la mano sulla spalla di lei che non ci faceva caso: ogni tanto s'alzava a offrir vino in giro per ricordare agli altri che erano suoi ospiti. Fu bussato alla saracinesca. «È mia moglie certamente» fece il giocoliere per calmare la nuova inquietudine che veniva a tutti da quel colpo. «Viene a prendermi: siam d'accordo così.» Intanto l'inserviente aveva aperto. La donna meschina e grigia esitò sulla soglia, smarrita di non riconoscer nessuno di quegli uomini travestiti. «Entrate, entrate presto» ruggì il padrone. «Avete paura, o volete che tutti ficchino il naso negli affari nostri?» Impaurita ella si fece avanti: scrutava tutti con gli occhi rossi di piagnona. Scoprì finalmente il marito: allora corse a lui come a un porto di salvazione. «Beh! Sedetevi, mangiate, bevete, già che siete venuta» gli fece il caffettiere indispettito da quella presenza miserevole e di cattivo augurio. «E voi, presentatela, vostra moglie, a questi signori. Mi dispiace proprio, ma per lei non ho un altro costume da odalisca.» Tutti risero forte, anche il giocoliere che l'aveva messa a tavola e le porgeva i piatti di dolci come a dirle: "To', godi, e poi va' a raccontare alla gente ch'io son cattivo!". Si vide tentennar d'ira la testa grigia di lei. «Non lo vorrei neanche» rispose umilmente e, reclinando il capo, si mise a piangere. «Siete cattivo» disse la ragazza al caffettiere, e si mosse per offrir le sue consolazioni alla vecchia. Egli le tenne dietro, scusandosi che aveva voluto fare uno scherzo innocente, senza offese. Volle versar da bere alla sua vittima, riempirle di biscotti una gran borsa nera di tela cerata, protestando la sua amicizia con parole e carezzine. Rasserenata la vecchia, e finiti quei convenevoli, il padrone annunziò che il caffè sarebbe stato servito nel sotterraneo. «Molti di loro non lo conoscono, perché non si son mai azzardati a scenderci anche quando era una cosa allegra. Andiamo?» In fondo alla sala una ringhiera faceva riparo al pericolo di precipitar giù per una scala aperta al livello del pavimento. L'ospite scese per primo. Contro l'ultimo scalino una porta tagliata entro una nicchia portava scritto: "Notti d'Oriente". «Vedete?» fec'egli volgendosi a guardar gl'invitati che scendevano dietro a lui. Spinse la porta e girò una chiavetta di luce elettrica. Insieme a un odore un po' sgradevole di cantina e di stoffe rinchiuse usci dall'antro una fioca luce verde, rossa e azzurra, che si divise in macchie oleose sulla pietra degli scalini. «Avanti a tutti l'odalisca» fece il caffettiere che sentiva la ragazza ridere, premuta dagli uomini complimentosi e struscioni. Ella si liberò e fu la prima a entrar nel sotterraneo. Era una saletta quadrata, dal soffitto a volta dipinto a stelle e ad arabeschi d'oro su fondo cupo: nel muro opposto all'ingresso una gran nicchia aveva dentro una sorta di trono o di alcova sormontata da un baldacchino a mezzelune d'argento. Intorno alla tazza asciutta di una fontanina posta nel centro c'eran divani e tavolinetti sui quali enormi vassoi d'ottone velati di polvere riflettevano sordamente il lume composito delle lampadine a vetri colorati, sospese in alto, giro giro. Dai tappeti e dai cuscini dei vari giacitoi veniva un seccume ch'entrava nelle nari e dava il sospetto di prurigine per. le parti che dovevan sedervisi. Il caffettiere cercò sotto una botola una chiavetta e il primo getto gorgogliante e faticoso della fontana sprizzò alto, si spense e risalì fino a una zona dove si caramellò di verde e di rosso. «Bene! Molto bello!» approvarono gli ospiti, ma rimanevano in piedi, aggirandosi tra i divani e i tavolini come se cercassero un pretesto per andarsene. «Sedetevi, signori. Avremo qui il caffè e i liquori.» Vinta l'esitazione, qualcuno cominciò a sedersi sui divani scricchiolosi provocando il cadere a terra di una pioggerella minutissima d'imbottiture ridotte in polvere. Era rimasta libera l'alcova. Là il padrone condusse la ragazza a sedersi. Egli aveva gli occhi un po' lustri e la mano carezzevole sulla schiena di lei. Vennero il caffè e i liquori. Essere in pena che non trovava posto né pace, la moglie del giocoliere cercava l'unica vicinanza del marito, il quale faceva di tutto per scansarla, seccato di vedere il suo meticcio scontento. Tenace, ella lo seguiva ad ogni cambiamento di posto. L'uomo, allora, insieme ad uno sguardo di minaccia, le offriva bicchierini di liquore in segno di squisita attenzione e tentava poi di lasciarla lì, accanto al vassoio delle bottiglie. Quando vide che la sua manovra era inutile, si buttò furibondo in un sofà, e l'attirò giù a sedere, fingendo una di quelle improvvise tenerezze ch'esibiscono i vecchi sposi tra molta gente. Il rumor dell'acqua e il vederla fornivano un senso fresco che ingoiava il secco entrato nelle nari insieme all'odore delle stoffe tarlate e imbevute di polvere. In quella tregua venne ad ognuno di prendere un aspetto indolente e orientale. Chi era già recline sul divano, vi si coricò, e con la testa in basso e le gambe alzate su qualche appoggio lasciava lo sguardo perdersi nelle nuvole di fumo odoroso che mandavano gl'incensi accesi dal padrone accanto all'alcova, o nella contemplazione dei piedi chiusi dentro le babbucce ricamate. Le voci eran divenute discrete, velate. Poi ci fu un silenzio, un invito al sogno e al sonno che i passi del cameriere che scendeva la scala, ruppero di sorpresa. Ognuno si ricompose e guardò all'alcova. Caffettiere e odalisca eran decentemente seduti un po' discosti l'un dall'altra, e meditavano, seri seri. C'era però intorno a loro il senso di una inquietudine dominata, di quella forse che segue al rifiuto della donna offesa da un troppo ardito tentativo. L'immobilità trasognata di lei poteva nascondere lo sdegno, la fissità quasi sofferente di lui, rivelava piuttosto quello speciale atteggiamento del punito che chiede perdono per poter ricominciare l'assalto col vantaggio di un tacito discorso che ha rotto i primi pudichi preliminari. Comunque ebbero tutti coscienza che un lavoro di seduzione spicciola era stato iniziato nel momento del loro riposo, e l'invidia creò un'ira serpeggiante da l'uno all'altro, tanto più che la ragazza, volgendosi al padrone sempre assorto nella sua afflizione, sorrise come a concedergli quel perdono. Un sottile desiderio di guastare l'intesa e prender vendetta invase gl'invitati maschi: la vecchia rideva e tuffava il capo grigio in seno al suo uomo, sguaiatamente letificata da quella atmosfera, ma dopo alcune parole di lui, sussurratele all'orecchio fra tigreschi sorrisi, finì in un pianto ancor più molesto dello sghignazzare di prima. Il caffettiere aveva preso una mano della ragazza e gliela carezzava sorridendo. La coppia seduta nell'alcova si isolava così, senza pensiero degli altri, che si sentiron considerati come dei cari eunuchi, testimoni obbligatori di un tale approccio amoroso. Nessuno protestò con un grido o con un gesto all'orrore dell'immagine, ma ad un vendicativo resultato ciascuno giunse ugualmente fissando la ragazza ed esprimendole senza vergogna il proprio bisogno di consolazione fisica, chiedendo, implorando per pietà un segno, un cenno che lo chiamasse il favorito. Il caffettiere, turbato dai suoi ricordi e dalla ricchezza delle impressioni e delle speranze nuove, s’era distratto; però manteneva la mano sulla spalla di lei. Quell'avanzata collettiva di desiderio e di passione fu una rivelazione improvvisa per la ragazza che sussultò di sgomento. Il suo compagno, così avvertito, rise imprudentemente con la prontezza con la quale grida lo scottato, e gli altri aggiunsero alla loro ira quella per esser stati scoperti nel tentativo malizioso. Tutti risero, dopo, ma silenziosamente, come se capissero la loro sfortuna e disincantati vi si rassegnassero. Ma un resultato lo avevano ottenuto togliendo a lei l'incoscienza della sua posizione. La ragazza sorrideva, ora, non sapendo cos'altro fare, mentre da ogni parte le veniva risposto con una amorevolezza che prendeva impegno di nutrirla, di vestirla, di mantenerla e amarla quanto una sposa. Emanava da quegli egoismi una bontà nuova per lei, avvezza a star coi giovani: era una rinuncia a tormentarla per gelosia del suo passato, era un comprender largo, un prometter più cure che passione; ed ella capì il proprio valore relativo agli uomini ch'aveva d'intorno. Non le parvero più vecchi, né ripugnanti nelle loro profferte, anche perché il costume esotico li salvava da una rivelazione precisa delle brame, concedendo al loro contegno una fantastica libertà da attori che fanno la pantomima. Però uno tra tutti la turbava: era il meticcio. In lui non c'era influsso del travestimento: prometteva in modo chiaro larghi compensi. Eppure lo vedeva bello, così bruno di pelle e armonioso nei movimenti, ne indovinava come un futuro pericolo i successi tra le invidiate donne dei varietà, ne subiva il fascino d'uomo notturno, danzatore e bevitore vizioso. Era tentata e provocata da quella fredda attesa, e avrebbe voluto vederlo goloso e ridicolo come gli altri per non trovarsi più davanti al rischio che lui rappresentava d'una vita per la quale ricordava l'orrore appreso da bambina nei discorsi uditi in casa, pieni d'ingiurie e di maledizioni. Dovette volger sugli altri lo sguardo per sentirsi la bianca caduta in un'oasi di predoni paciocconi e paterni. «È vero:» confessò liberamente «ero affamata stasera. Da ieri mattina non mangiavo» e le parve con quella frase di rinunziare ad ogni attrattiva per il meticcio lussuoso, di ritornare a un mondo capace di sentir certe miserie di buona figliola. Un sospiro affannoso le ridette coscienza che il caffettiere era seduto accanto a lei. Si volse a guardarlo e sorrise di gratitudine quand'egli mormorò: «Poverina! Poverina!». Reclinando il capo si vide indosso il bel costume di donna araba e n'ebbe vergogna, desiderò di distogliere da sé tanti sguardi che dopo la sua confessione eran divenuti speranzosi e vivaci quasi per effetto di un liquore generoso. Un po' inquieta si accomodò, raccogliendosi tutta in un gesto pudico, poi vide l'altra donna dai capelli grigi come una protezione, un'ancora di salvezza, e con un cenno gentile la chiamò a sé. Quella venne correndo: il marito lanciò al meticcio un'occhiata di trionfo. Da quel momento il caffettiere temette le male arti della vecchia e non pensò più che al modo più sbrigativo di sbarazzarsi di lei e di tutti i suoi ospiti. S'alzò e salì nel caffè. Ci fu un silenzio d'attesa. La vecchia aveva strinto affettuosamente la ragazza e: «Bimba mia» le sussurrava «la fortuna va presa per i capelli. C'è qui un signore che può farvi un avvenire. Pensate che a giorni sarà padrone di un teatro di varietà. M'avete capito?». Intanto il meticcio s'era avvicinato fingendo d'osservar gli arabeschi dipinti nell'alcova, ma niente sfuggiva agli altri che sorridevano e ammiccavano, sebbene il giocoliere esprimesse a gesti che non ne vedeva il perché. Silenzioso e monumentale il padrone riapparve sulla porta del sotterraneo. Comprese il maneggio avvenuto nella sua assenza: la megera tentava, a favore del suo rivale, la bella fanciulla, ma si tenne calmo, per non compromettere con un errore la vittoria che sentiva di meritare. «Mi dispiace molto» annunziò «ma l'ora di chiusura per un locale come il mio è già passata. Non vorrei trovarmi a delle seccature.» Tutti si levarono in piedi. «No, no: c'è tempo ancora per un bicchierino. Lo dicevo così, tanto per avvertire.» Il magrino dagli occhiali s'avanzò risolutamente verso l'alcova. «Signorina» disse «le sono molto grato. Lei ha dato un po' di sorriso a noi uomini per solito poco allegri» e le baciò rispettosamente la mano. «Spero d'incontrarla ancora.» Fece un inchino al caffettiere. «Serberemo il ricordo di questa bella serata. Vi auguro di trovar presto un'iniziativa felice.» I due professori fecero dei saluti più sbrigativi e lo seguirono su per la scaletta. «La scienza è partita» gridò il padrone, e c'era nella sua voce la maliziosa attesa di veder presto partire anche l'industria e il commercio. I rimasti compresero e vennero a salutare la ragazza. «È tardi» disse ella scendendo dall'alcova «anch'io devo partire.» «Allora signorina, io e mia moglie possiamo accompagnarvi.» Il caffettiere lanciò un'occhiata furibonda al giocoliere, ma lo vide corazzato, imperturbabile, allora tentò una estrema difesa del suo bene. «Vi dico che la signorina l'accompagnerò io. Sta lontano di casa e intendo offrirle il viaggio in carrozza.» «Se è così, m'arrendo» rispose l'altro vedendo che il meticcio gli faceva segno di lasciar andare, e si diresse con la moglie verso la scala. Il meticcio, il padrone e la ragazza lo seguirono. Giunti su nel caffè, le voci dei primi chiusi nello stambugio col servizievole cameriere ricordarono che bisognava mutar d'abiti. «La signorina aspetterà che i signori abbiano finito» disse il caffettiere col tono di un ordine, e spinse tutti, anche la vecchia, nell'anditino. «Andate ad aiutar vostro marito» le impose. La porta dello spogliatoio nessuno l'aveva rinchiusa. Gli ospiti pigiati là dentro buttavano via i mantelli e i giubbetti restando in camicia con acrimoniosa, deliberata mancanza di rispetto verso la donna destinata a un altro. Qualcuno veniva in sala ancor sbracalato per abbottonarsi, tossicchiava e rientrava nell'andito donde un terzo usciva già vestito, tornando alla solita vita disadorna e compassata. Gli addii furono cortesi, ma senza gratitudine. Il meticcio venne a stringer la mano del caffettiere, gli sorrise come a un rivale buon vincitore, poi si volse a salutar lei che lo sentì tanto sicuro della sua rivincita che con un gesto vago gliela promise per l'avvenire. «Quando han fatto andrò anch'io a vestirmi» disse ella. «Come? Anche voi?» sussurrò piano ma disperatamente il caffettiere e girò gli occhi intorno per sincerarsi che nessuno poteva udire. «Restate ancora un po', ve ne prego. Ho da dirvi una cosa» e si precipitò ad aiutare un ospite che faticava a infilarsi la giacca. Mentre tutti salutavano al passaggio della saracinesca alzata a metà, egli si teneva accanto a lei, vigile, e sospettoso come un carceriere che teme d'aver concesso troppo ai visitatori. L'ultima schiena nera s'abbassò sotto il bandone: egli n'afferrò l'appiglio, tirò giù con forza e spinse fino in fondo, aiutandosi col piede. S'accorse allora del cameriere. « Quanto hai fatto di mancia?» domandò. «Poca roba, se devo dire la verità.» «Pigliati quello che c'è nel cassetto e va' a dormire. Per i nostri conti ci vedrem domattina a casa mia.» Commosso, il cameriere volle stringere in un abbraccio il suo padrone, poi a inchini esprimere alla ragazza la sua devozione anche per lei. Indugiava a partire, fermo nel centro della sala, come volesse fare un malinconico saluto al caffè. Infine sentendosi di troppo, sparì silenziosamente per il corridoio della cucina. «E ora torniamo giù» propose dolcemente il caffettiere. «Parleremo meglio. Voi siete la mia gazzella, non è vero?» e gli tremava d'ansia la voce. Non attese risposta: girò la chiave della luce per spegnere i tre ordini illuminanti della sala. Gli altri di fuori videro il caffè sparire nel buio, la casa ricomporre la sua architettura fin giù al marciapiedi solo un lucore rimase dietro ai vetri che veniva da. profondo mistero della notte araba.

Teresa

678431
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Caramella si fermò dal tabaccaio, abbandonando la carriola sul marciapiede, ed entrò a bere un bicchierino di grappa. - Vuol venir presto l'inverno - disse la tabaccaia, alzandosi sulla punta dei piedi, per togliere dalla scansia la bottiglia. Il fruttaiolo non rispose subito, intento ad assicurare i calzoni intorno alle reni. Prese poi il bicchierino in sul vassoio di latta, e lo tracannò d'un colpo, spalancando la bocca e facendo poi scoppiettare la lingua. - Ma! - disse allora - il peggiore di tutti gli inverni, è quello che ci sentiamo sulle spalle. Diede un'occhiata, fuori, alla carriola e un'altra al cielo bigio. - Mele per la vostra bambina non ne volete? - Oggi no; la tengo a letto, che la voglio purgare. Caramella si fece sulla soglia, colle mani in tasca. La tabaccaia gli venne presso, con una faccia misteriosa, sorridendo in pelle in pelle. - Voi che andate in casa Portalupi non sapete niente? - Di che? - Della seconda ... dicono le faccia la corte il sottoprefetto. - Crederci! Lo zoppo non disse altro. Abbrancò la carriola, lentamente, col muso per aria, l'occhio intento alle finestre. La tabaccaia lo vide allontanarsi, e lo seguì collo sguardo distratto, pensando a tutt'altro, finché un nuovo avventore la fece rientrare nella sua botteguccia. - Oh le belle pere! ... pere! ... pere! ... Al palazzo Varisi, Caramella non guardò neppure; e non guardò la casa attigua, dove stava la Calliope, quella stramba, nemica degli uomini, a cui faceva gli sberleffi come un monello, dietro le ferriate del piano terreno. Si fermò invece dirimpetto all'abitazione del pretore, e bussò alla porta, come uomo sicuro. Là difatti gli comperavano sempre le sue pere, perché il pretore aveva sei o sette marmocchi da mandar a scuola, e le pere cotte fanno bene ai bambini. Anche nel palazzo Portalupi, l'emulo del palazzo Varisi, lo zoppo aveva le sue entrate libere; forniva la dispensa dei signori Portalupi, marito e moglie, ricconi, con tre ragazze da marito; e serviva la vecchia Tisbe, una cameriera in ritiro, alla quale i Portalupi avevano ceduto due camerette al secondo piano. Niente da fare con don Giovanni Boccabadati, don Giovanni di nome e di fatto, la cui vita misteriosa ed equivoca lo additava alla curiosità delle donne e all'invidia degli uomini. Nella casa dove egli viveva, solo, con un vecchio servitore, si vedevano qualche volta entrare ed uscire ombre femminili, sulle quali la vecchia Tisbe appuntava invano i suoi occhiali, e che le tre ragazze Portalupi guardavano sdegnosamente, mordendosi le labbra. Fra la casa Boccabadati e quella del pretore, stavano i Caccia; e anche lì lo zoppo fece una breve sosta, poiché la signora Soave, udendolo passare, aveva detto a Teresina: - Compera un paio di pere per le gemelle. Teresina, mezzo assonnata ancora, tirandosi su i capelli colle mani, aveva mandato la serva sulla porta, e lei erasi messa alla finestra, guardando Caramella che sceglieva le pere, delicatamente, e le poneva sulla bilancia - belle pere piccoline e dolci, dalla buccia liscia, che si era indorata cuocendo, e che fumavano ancora in un bagno di brodetto denso. - Oh le belle pere! ... pere! ... pere! ... Lo zoppo si allontanava, giù, verso piazza, colla carriola che si lasciava dietro un buon odore, e quasi come un dolce calore di famiglia, di focolari accesi, di bambini allegri col grembialino aperto e teso; odore e calore che si fondevano in una sensazione complessa di benessere, spandendosi lieve, salendo, in quella rigidità bigia di mattino autunnale. Teresina, alla finestra, seguiva coll'occhio la carriola, e quando non la vide piú, rimase ancora a guardare la strada lunga, colle sue case allineate - quella bianca della Calliope; quella dei Varisi, annerita, e dei Portalupi, tutta gialla, colle cimase delle finestre ad uso marmo; la casaccia larga e bassa, dipinta in rosa, dove abitava il pretore colla sua numerosa famiglia; la casina misteriosa di don Giovanni colle gelosie verdi e la porticina stretta; e poi tutte le altre, in fila, serrate, perdentesi a destra ed a manca, sotto la linea irregolare dei tetti, nella striscia di cielo pallido che appariva in alto. Sulle braccia, coperte appena da un abitino di percallo, Teresina si sentiva scorrere un brividuccio punzecchiante, non molesto, simpatico quasi; e i suoi capelli giovanilmente scomposti le danzavano sulla fronte e sul collo, producendole un solletico gradito, come di carezza. Se la brezza cessava, ella scuoteva il capo per sentire ancora quelle lievi ondate attraverso il collo, e ne prolungava l'impressione con una ingenuità infantile, collo sguardo sempre errante nella lunga via, osservando con interesse l'acciottolato fitto e la rada erbetta e i due marciapiedi rossicci, fatti di mattonelle posate in costa, avvallate in molti punti. In fondo, dalla piazza, spuntò il portalettere trascinando di mala voglia gli scarponi a punta quadrata, colla borsetta di pelle nera sul fianco, la faccia burbera. Sparve un momento. Teresina pensò subito che fosse entrato in farmacia. Riapparve, facendo la strada a biscia, da destra a sinistra e da sinistra a destra, lasciando La Mode nouvelle alle signorine Portalupi e il Corriere di Cremona al loro babbo; tre lettere a don Giovanni Boccabadati. Passò davanti alla sua casa senza fermarsi; posò una grossa lettera gialla e alcuni stampati alla porta del pretore; poi riattraversò la strada, e andò a sollevare il battente irrugginito della casa della Calliope. Un sentimento incompleto, indeterminato ma nuovo, si impadroní di Teresina; una specie di mortificazione e di dispiacere. Tutti quei giornali, tutte quelle lettere portavano a chi erano destinati un mondo di sensazioni. Nella borsetta nera del procaccio c'erano gioie, dolori, speranze, ebbrezze, promesse, curiosità, fantasia, affetti - tutto l'ignoto, il desiderato, quello che la fanciulla non sapeva. C'era la vita lontana, i fili simpatici che uniscono gli assenti, il principio di storie future, l'ultima parola di cento storie passate. In quella borsetta volgare che un indifferente portava in giro di porta in porta, mille cuori sussultavano; mille interessi si incrociavano; affari e passioni, arte e fame, nobili sacrifici, raffinate vendette, viltà ignobili, santi eroismi. Ogni segreto della vita era là. Teresina non disse tutto ciò a se stessa, ma lo pensò vagamente con un recondito senso di invidia, con una avidità ignota che sorgeva in quell'istante dentro a lei, per la prima volta, e che le gonfiava il petto di un sospiro lungo, amaro. La casa della Calliope continuava a restare sbarrata, silenziosa, al pari di un sepolcro. Il procaccio, appoggiato al muro, sceglieva intanto le lettere, cavandole dal fondo della sacca: lettere larghe, colla soprascritta breve, chiara, a caratteri allungati, commerciali: lettere bianche linde, accurate, scritte su falsariga, col francobollo simmetrico, come sogliono mandarle le educande: lettere chiuse in una busta inglese, di carta consistente, color perla, profumate, misteriose: lettere con inchiostro violetto, scritte bene, a larga iniziale dorata, corrispondenza da donna a donna: grosse lettere, mal piegate, coll'inchiostro dilatato, con traccie di mani poco pulite, due righe di soprascritta e quattro errori. E la falange delle cartoline scritte verticalmente, orizzontalmente, diagonalmente; moltissimo, molto, poco, pochissimo, quasi nulla, una parola; le circolari, gli annunci, gli inviti, gli opuscoli - tutto passava rapidamente sotto la mano esperta del procaccio, che rimetteva ogni cosa nella borsa, tenendo solo una lettera in mano, e bussando per la terza o la quarta volta all'invincibile porta. Teresina non conosceva Calliope; non l'aveva mai veduta bene, ma solamente intravista tra una sbarra e l'altra della finestra, colla faccia seminascosta sotto un ampio fazzoletto giallo, parlando da sola e dicendo improperi a tutti gli uomini che passavano. Da troppo poco tempo Teresina si era fatta donna, per aver considerato la Calliope diversamente da quello che la consideravano i ragazzi del paese: una matta che faceva ridere. La sua storia l'aveva sentita raccontare a brandelli, con molte lacune tra un episodio e l'altro; lacune che l'immaginazione sobria della fanciulla non si era mai data la briga di colmare. Sapeva che era stata accolta, piccina, da una contessa, ed allevata quasi come figlia. E qui le si affacciava la prima lacuna; essendovi parecchie persone le quali affermavano che Calliope fosse veramente figlia della contessa - affermazione che sembrava assurda a Teresina - ma, comunque, la contessa le aveva voluto bene, e l'aveva fatta istruire da un vecchio prete occupandosi ella stessa di quello che poteva mancarle per la parte femminile. Vivevano allora tutte e due in un podere solitario, e già si sapeva che la Calliope aveva gusti bizzarri, uscendo sola per le campagne, coi capelli sciolti sulle spalle, un piccolo fucile ad armacollo; ardita, violenta, selvaggia. I pochi che avevano occasione di traversare il podere, la udivano zuffolare nei boschi di pioppi, imitando il canto degli uccelli, e qualche volta la vedevano correre sfrenata attraverso i campi, saltando le siepi, colle mani graffiate dalle spine e gli abiti strappati. Era stata bella, di una bellezza virile e forte. Il dottor Tavecchia, che l'aveva curata una volta, in occasione che cadendo da un albero si era fratturata un braccio, la diceva una delle piú belle donne ch'egli avesse mai viste. Gli abiti bizzarri che portava, si addicevano al suo corpo da amazzone, robusto e snello. Quando si copriva il capo, lo faceva con un cappello da uomo, nero, ampio; non portava mai trine, nastri, gioielli; vestiva di nero o di bianco; spesso si cuciva tutto in giro alla gonna dei fiori freschi e tutta di fiori si fabbricava una acconciatura strana, originale, che sarebbe stata goffa per chiunque, e nella quale ella appariva incantevole. Seconda lacuna: Teresina aveva udito sussurrare misteriosamente, di un ufficiale francese, di fuga, di tradimento, di altre cose che non capiva bene e che non l'avevano mai interessata fino allora. Poi balzava fuori la Calliope monaca. Era stata in convento due anni, modello di abnegazione e di penitenza; improvvisamente, alla vigilia di pronunciare i voti, era sparita. Terza ed ultima lacuna; la quale abbracciava una quindicina d'anni e che aveva condotta la strana donna - rimasta sola al mondo - a chiudersi in quella casa da cui non usciva mai, e dove il paese le usava la carità di non occuparsene, lasciandola in pace colla sua pazzia inoffensiva. Ma tutta quella storia, arruffata e inverosimile, si presentava ostinatamente al cervello di Teresina, intanto che il procaccio aspettava; e quando finalmente si apersero le persiane della solita finestra a pian terreno, e che la testa stralunata della Calliope apparve tra le sbarre, la fanciulla la guardò intensamente, con una pietà nuova. Non ebbe agio di osservarla molto, perché, presa sgarbatamente la lettera, la mattoide rinchiuse subito le gelosie scagliando due o tre grosse invettive contro il procaccio. Teresina rimase cogli occhi fissi come magnetizzata, sulla finestra chiusa della Calliope; lasciandosi cullare in quel fenomeno comune della mente, per cui sembra di sognare, desti. Giù, sotto i raggi del sole che si mostrava lentamente, la via usciva dalla nebbia grigia del mattino, per entrare in un bagno di luce. Qualche porta si era dischiusa. La vecchia Tisbe, fedele alle abitudini mattiniere della sua antica carica, aveva distese sul davanzale della finestra le coperte del letto; e tratto tratto appariva nel vano, grattandosi la cuffia, gettando di sbieco occhiate sospettose alla casina dirimpetto, dove le gelosie verdi restavano assolutamente chiuse, nell'isolamento tiepido e dolce di misteri ignoti ai profani. Passò il dottor Tavecchia, un po' curvo per gli anni, colla palandrana di panno scuro e il bavero di velluto; passò a capo basso, pensando a' suoi ammalati. Passò la cuoca di Monsignore, una grossona, ruvida, burbera, che pareva lei la padrona di tutto il paese, e pretendeva dai bottegai la roba migliore perché, diceva: era per Monsignore. Passò Luzzi, il segretario di Prefettura, snello, arzillo, con un soprabito di mezza stagione di un bel colorino chiaro, attillato alle reni; guardò in su a tutte le finestre, voltando un po' la testa per osservare Teresina. Passò la moglie del sindaco, tutta imbacuccata in un velo nero tenendo fra le mani un grosso manuale color pulce, spellacchiato negli angoli; andava a messa a San Francesco. Si spalancarono con gran fracasso le finestre di casa Portalupi - la vecchia Tisbe, dalla finestra in alto, ritirò subito le sue coperte - e le signorine Portalupi apparvero, l'una dopo l'altra, in mezzo alle tende di pizzo, sfoggiando tutte e tre una cuffietta rosa. Si assomigliavano in modo strano, brutte tutte e tre senza rivalità. Accennarono lievemente col capo a Teresina, tenendo la bocca stretta, le spalle alte, le braccia serrate alla vita, l'occhio socchiuso, in una posa nobile e dignitosa. Stettero un momento appoggiate al davanzale - o piú precisamente a un guancialetto lungo, imbottito, ricamato dalle loro preziose mani - e poi si ritirarono l'una dopo l'altra, com'eran venute. Dalla porta del pretore irruppero quattro bambini, seguiti dalla mamma, la quale, povera signora spettinata e in ciabatte, si affannava a rabbonire il piú piccolo, che non voleva andare a scuola, e piangeva come un rubinetto aperto. La vista dei bambini fece fare un salto a Teresina. E le sue sorelline? Ella le aveva dimenticate. Corse subito al letto delle gemelle, e le trovò che si mettevano le calze, alla rovescia, litigando per le pere di Caramella, perché ognuna pretendeva la piú grossa. Le aiutò a vestirsi in fretta, le lavò, le pettinò, fece recitar loro le orazioni, preparò le pere nel panierino, ponendovi accanto due grossi pezzi di pane. - Io non voglio quel pane lì! - Perché non lo vuoi? - Non mi piace. - Ed io voglio il cacio insieme alle pere. - La mamma non lo ha detto. - Lo voglio, lo voglio ... - Zitte, non gridate, che la mamma dorme; poverina, non ha mai chiuso occhio tutta notte in causa dell'Ida, ma l'Ida è piccina piccina, ha appena due mesi e non sa di ragione. Voi altre dovete essere buone, capite? Avete otto anni, e otto anni son molti. Le mandò a scuola, raccomandando loro di essere bravine, baciandole sulle guancie, con una tenerezza composta di giovane madre. Le guardava allontanarsi, ferma in piedi, lasciandosi riprendere da un torpore fantastico che la spingeva, quel mattino, a sognare desta.

Pagina 29

Oro Incenso e Mirra

678752
Oriani, Alfredo 2 occorrenze

Ella riprese il libro dal tavolo, e abbandonando il capo sulla spalliera con un morbido atto di civetteria, che contrastava colla dura marmorea bellezza del suo volto, riprese: - Bonghi ha ragione: naturalmente, voi, suo avversario politico e filosofico, non potrete convenirne, troverete forse questa sua prefazione al Fedone fiacca e pesante, ma chi potrebbe oggi scriverne una degna? Forse noi non lo possiamo più. - Perchè? - Non me lo domandate, giacchè lo sapete fin troppo. Io, una signora, che ha letto poco e capito meno, non posso spiegarvelo, ma noi sentiamo oggi diversamente dai greci, giudichiamo con altri criteri, amiamo un'altra bellezza. Nessun oratore parlando alla Camera si fa accompagnare da un flauto, nessun avvocato come Iperide sveste oggi la propria accusata davanti alle Assise: il nostro abbigliamento troppo complicato darebbe tempo ai carabinieri d'intervenire, mentre la stessa accusata non sentirebbe forse più la forza di tale argomento. - Siete ben sicura che l'aneddoto d'Iperide non sia una favola? - egli ribattè cercando evidentemente d'irritarla. - In questo caso non sarebbe che più vera: credete che se ne potrebbe inventare una simile sui nostri giurati? Bonghi ha tradotto Platone... - Perchè? - Se mi aveste domandato per chi, vi avrei risposto: per noi, per tutti coloro, che ignorano il greco; vedete bene che dedica la prefazione alla principessa di Teano, la più bella signora d'Italia. Certo una traduzione dovrebbe essere come un ritratto, ma Bonghi non è un artista, non sarà forse nemmeno un filosofo, come voi sostenete, però è un ingegno. Come quegli scienziati, che vanno a studiare le flore dei paesi lontani e ritornano con una cassetta di fiori secchi, egli ci reca un Platone vizzo, senza colore e senza profumo. Non importa, io ringrazio Bonghi. - Ma egli - proseguì l'illustre critico, rattenendo un moto di dispetto ed ammirando involontariamente la superba bellezza della duchessa - pretende di tradurre davvero. Non è il gentiluomo, che tenta l'impossibile per una signora affrontando magari il ridicolo e trionfandone con un sorriso. Voi siete troppo buona con lui, e vi dimenticate che il nostro secolo possiede ancora un uomo capace di tradurre Platone: perchè non lo ha voluto? Indovinate il suo nome? - E chi non indovinerebbe? Vi sono forse due scrittori come lui? Come mi dispiacque di vederlo a Firenze per il congresso degli orientalisti! Io, che me lo ero immaginato con una bella testa di filosofo antico ammorbidita da una eleganza femminile, non vidi che un fattore volgare ed atticciato, cui l'essere stato quasi prete dava ancora un impaccio indefinibile, e due occhi troppo belli facevano una fisonomia inaccettabile. Evidentemente quegli occhi li aveva rubati. - A chi? - Ad una donna, che avrebbe dovuto essere un poeta se Dio avesse consentito alle donne di esprimere la poesia invece d'ispirarla. Avete ragione Renan solo poteva tradurre Platone. Vi ricordate la sua preghiera sull'Acropoli di Atene? Avete ancora letto l'ultimo capitolo del suo Ecclesiaste? È uscito ieri. La lingua francese può rendere la greca? A giudicare da Cousin m'hanno detto di no: a leggere Renan io, che non so il greco, affermo intrepidamente di sì. - Forse Renan non ha mai ricevuto complimento più bello. Invano Zola disperato d'imitarlo tenta d'impicciolirlo paragonandolo a Gauthier: Renan scrive e Gauthier bulina, a Gauthier il pensiero deriva quasi sempre dalla frase, Renan ha la frase del proprio pensiero. La loro lingua è diversa: quella di Gauthier a girandole di fiori e di fuochi, piena di ricercatezze recondite e profumate, di parole rare come le gemme, scoppiettanti d'iridi e di baleni. I suoi periodi oscillano come incensieri, in tutti i suoi disegni predomina il rabesco, la confusione prodiga ed inesauribile dell'ornato, la ricchezza che impazza nella ricchezza, la melodia che si perde nel labirinto delle variazioni. - Vi è del Talberg in lui. - Forse... Renan è semplice, non si può essere bello altrimenti. Guardate Zola, che combatte Gauthier e Victor Hugo: ebbene, il suo stile è una fusione dei loro due, talvolta nelle qualità più spesso nei difetti, mentre la sua arte discende da Balzac, che confessa, e dai romanzieri inglesi, che nega. La sua originalità di artista e di pensatore sta nei soggetti prescelti; Zola oggi è il più grande perchè è il più moderno. Un passo ancora e le finezze linguistiche e sensistiche di Gauthier si cambieranno pei Goncourt in vanità di astruserie, che annebbieranno loro sovente la verità dei quadri. Il fino diventerà impalpabile, l'indicibile sarà detto, ma l'incompreso sarà aumentato. La duchessa ebbe un sorriso. - E Renan? Parlatemi di Renan, di questo uomo, che discutendo è sempre della opinione del proprio avversario. - Vi piace questa ultima formula del suo scetticismo? - Se tutti gli uomini fossero scettici con noi alla sua maniera, e se Renan fosse bello! - Lo è. A chi paragonarlo per farvelo meglio sentire? Egli non è un pensatore nel senso altissimo della parola, non ha il genio, che apre o chiude una epoca. Tutte le creazioni sono informi, tutte le sintesi incompiute: nelle prime la forma recalcitra, nelle seconde la materia sfugge. Egli non ha inventato nulla, ma sa quasi tutto, ha percorso la storia e la geografia del mondo: l'Oriente gli ha ceduto coi propri colori le sorgenti della poesia e della pittura, la Grecia gli ha dato la bellezza, Roma antica il senno dell'equità, la Germania moderna la critica per tutte le dottrine. Scettico vero, egli concilia in sè stesso le contraddizioni di tutti i sistemi, come la vita risolve nel proprio fatto l'antagonismo di tutte le forze. Michelet ha detto che la storia è una resurrezione, ma scrivendola non ha sempre potuto trionfare della morte; Renan ha giudicato la vita un romanzo, e ha scritto quello di un uomo oggi ancora creduto da quasi tutti un Dio. Il romanzo è per lo più una tragedia indebolita, nella quale la disperazione diventa malinconia e il singhiozzo sorriso. Renan sorride. Egli credente solo nella vita, non ne accetta che la formula più alta, impossibile a tutti i sistemi, la bellezza. La vita è un fatto che la scienza cerca di decomporre, la storia di raccontare, l'arte di ripetere: l'arte è ancora la più fortunata. Forse Schelling aveva ragione affermando in essa l'ultimo momento del pensiero, se la creazione fu il primo momento della vita. - Oh! - Non mi credete? Ritorniamo dunque a Renan. Che direbbe oggi di lui Balzac morto nell'ammirazione di Gauthier? Uno scrittore per diventare veramente bello non deve essere novatore né del pensiero, né della forma; forse questa affermazione scritta susciterebbe polemiche e spropositi, ma io mi vi ostino perchè ogni individuo non può essere perfetto che adulto. La Grecia rappresenta la perfezione del pensiero moderno, quella del nostro secolo non so dove o quando avverrà. Uno scrittore per sperare di essere perfetto deve trovare tutto fatto attorno a sé, nel meriggio di un sistema, il quale abbia felicemente maturato tutto lo spirito di un popolo. Vedete, Renan giunge dopo che i romantici hanno rinnovellato la vecchia lingua classica e prima che i nuovi naturalisti la rimettano nel crogiuolo: ecco forse perché egli scrive meglio di tutti. Però Renan è ancora più scrittore che artista, non rappresenta ma dice; solamente per questo non basta la sapienza della lingua, giacchè Littré sapendo la storia intima di ogni parola gli rimane incalcolabilmente inferiore. Filologia e chimica formano le parole e i colori, la natura e i pittori inventano i toni. E si fermò. - Renan, Renan! - tornò a provocarlo la duchessa senza lasciargli nemmeno il tempo di respirare - fatemi il suo ritratto. Avete cominciato e vi siete ancora distratto: volete Bonghi in compenso? Ve lo cedo, sebbene incominci a diventarmi simpatico, oggi, che tutti si vantano d'insultarlo. - Non crediate così di chiedermi poco e di offrirmi troppo - rispose con certa amarezza.- voi, duchessa, che sapete tanto bene il latino, vi ricordate senza dubbio la definizione della bellezza data da Cicerone: la bellezza si può esprimere talvolta, più raramente raffigurarla, analizzarla mai. Non vi è spesso sembrato che una pagina di Renan rassomigli a una pagina di Mozart, ne abbia la stessa malinconia latente, lo stile puro quantunque capriccioso, l'inimitabilità dell'espressione precisa nella parola e illimitata nel sentimento? Balzac ha detto che la prima qualità di un libro è di far pensare; per un libro di filosofia, forse, ma per un libro d'arte ne dubito. Renan ottiene di meglio: la sua prosa è una musica che vi fa sognare; ecco il prestigio, il fine ultimo dell'arte, dare all'anima una seconda vita, sostituire alla creazione della natura quella dello spirito. L'arte non può avere sistemi. Vedete come Zola, che sarebbe benissimo dotato, sia costretto ad esagerare le scene per sostenere l'esagerazione delle proprie polemiche. In tutte le opere di Renan non vi è forse una sola vera negazione; egli sa che un'idea ne vale un'altra, e che per un'idea come per un individuo il fatto di esistere ne implica il diritto e ne contiene la ragione. La negazione, che pretende distruggere, è al tempo stesso un'impotenza ed una assurdità; essa deve semplicemente essere il limite di ogni individuo attorno a sé medesimo, l'orbita della sua attività. Quindi, se Cousin disse impropriamente che l'errore è la forma della verità nella storia, Renan più fortunato comprese che la verità non può risultare se non da tutte le contraddizioni, ed affermò che solo nel contraddirsi sempre e sinceramente stava la speranza di avere qualche volta ragione. Volete un libro, che contenga la verità? - C'è? - Sì. - Datemelo. - Ma non avrete né il tempo né la pazienza di leggerlo. Pigliate il catalogo di una biblioteca, e se la biblioteca ha qualche milione di libri quel catalogo contiene la verità. - Non si potrebbe farne un estratto? - Si è tentato, si tenterà ancora inutilmente. Nessun ingegno sarà mai così vasto da abbracciare tutto, nessuna vita così lunga da concederne il tempo; l'arte sola, essendo come la vita una creazione, può talvolta essere vera mantenendosi inconscia. Intervenga la coscienza, e subito una sensazione o un'idea facendosi dell'arte un baluardo per difendersi o un monumento per glorificarsi, l'opera d'arte sarà un'opera morta. Vi siete mai domandata se Renan creda in Dio con una fede più forte che in qualunque altro principio? Domandate a voi stessa, dopo averlo letto, se ci credete: non ne saprete nulla. Vi parrà di essere in alto, nell'azzurro, che le stelle vi guardino con sorrisi di bontà, che la terra vi richiami col sospiro dei fiori, che le nubi si aprano per accogliervi, che il vento si rattenga per sostenervi; vi sentirete l'anima più pura, il pensiero più vivido, il cuore più caldo. E Dio? Forse quella non è che la sua presenza: domandatelo a Renan, domandatelo a voi stessa, e non otterrete risposta. L'arte vi avrà barattate l'estasi della natura, una strofa avrà avuto lo sfondo di una prospettiva, una pagina vi sarà parsa un panorama; le due creazioni si saranno valse, ma se vorrete analizzarle, la scienza non vi darà che dei misteri e dei cadaveri, la critica che delle contraddizioni e delle parole. Si può forse, esprimere in altro modo ciò che la musica dice? Sarebbe essa ancora l'ultimo sforzo del linguaggio, il verbo dei pensieri muti altrimenti? Ebbene, anche la bellezza è una musica ineffabile come la vita stessa. - Triste musica, allora! - Siete pessimista? - Sì. Egli sorrise. La duchessa si alzò per offrirgli da un tavolino prezioso d'intarsi l'astuccio delle sigarette, e rimase qualche istante in piedi guardandolo. La sua bella testa pallida aveva sempre la stessa espressione di freddezza quasi crudele. - La prefazione di Bonghi conclude per la vita - egli soggiunse con accento leggero di provocazione. Io potrei ripetervi la sua frase: poiché siete tanto bella, tutto non è dunque dolore quaggiù. - Allora perché la bellezza non basta alla felicità dell'amore e l'amore spesso non si cura nemmeno della bellezza? Bonghi ha ragione quando afferma contro la falsa serenità dei nuovi pagani che il mondo antico è stato infelice quanto il moderno, e che la malinconia non è un male cristiano. Noi siamo tutti infelici! - Voi! - egli esclamò con accento duro, forse irritato seco medesimo dalle troppe idee sciupate in quel dialogo, e che avrebbero potuto bastare a parecchi dei suoi articoli. Ma ella non si degnò nemmeno di notare l'interruzione. - Lo so - proseguì vivamente - ormai si è detto tutto sul dolore e sul piacere, si è preteso che siano l'uno la cessazione dell'altro, poi due gradi di una stessa sensazione. Vundtz e Lotze, vedete che sono bene informata, me lo diceva ieri il professore Tommasi-Crudeli, presso a poco sostengono questa tesi: ma vi è una obbiezione. Se il dolore deriva dalla vibrazione troppo violenta di un nervo, perché una parola fa spesso più male di una pugnalata, e la frattura di una gamba è meno spasmodica talvolta di una rottura galante? Il dolore morale è dunque diverso dal dolore fisico? La fame crea l'accattonaggio, mentre la vergogna di aver fame produce sovente il suicidio. Perché nella maggior parte dei casi noi affrontiamo il dolore per arrivare al piacere? Perdonate se io, donna, oso gettare con le mie mani lo scandaglio in certi abissi, ma la questione ci interessa tutti, grandi e piccoli, uomini e donne. - Non vi farò che una obbiezione la più volgare ed insieme la più forte: se la vita è infelice, perché tutti l'accettano? - Perché dimenticate voi i suicidi? Coloro che accettano, sperano, ecco tutto. - La speranza deriva essa pure dalla vita: ma volete davvero una ragione irresistibile? - seguitò con evidente intenzione di sarcasmo guardandola negli occhi. - poiché ogni fenomeno è doppio, pigliate i due estremi della gamma, la generazione e la morte: la voluttà dell'una è più intensa del dolore dell'altra. Anzi, Leopardi, un pessimista che non potete rinnegare, sosteneva con ragione che la morte sola è senza dolore. - Siete ben sicuri che in ogni fenomeno della vita il piacere sia maggiore del dolore? - Il fatto della vita è per me, esaminatelo imparzialmente. - Lo volete? - ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona. Egli tornò a sorridere. Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona. - Alì - ella si volse chiamando il magnifico gatto d'Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello. La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino. La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l'altra alla bocca gli presentò l'uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido. Alì lo teneva già addentato sino al dosso. - Che cosa fate? - esclamò balzando in piedi l'illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla. - Vi confuto - rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo. Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripeté con indefinibile sorriso: - Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.

Poi morì abbandonando il giovane dissoluto con due bambini, solo e povero. Il giuoco gli aveva già fatto perdere quasi tutte le masserizie, senza che il suo temperamento ne fosse domo: lasciò i figli crescere nel rigagnolo e iniziò per sé stesso un sistema di scroccherie basato sulle antiche relazioni di famiglia. L'arguzia dei primi espedienti aiutata dalla sfacciataggine delle maniere gli diede per qualche anno un abbondante ricolto; in seguito slargò le operazioni, come soleva egli stesso dire ironicamente, circuì ogni forestiere signorile capitasse nel paese, fece da scrivano e da segretario, fu sensale e mezzano, visse di tutto e di tutti. Avendo una eccellente calligrafia, qualche studio grammaticale e potendo firmare "conte" e "cavaliere", due titoli che davano una grande rispettabilità alla sua volontaria sventura, poté spillare quattrini al vescovo, poi a quanti gli successero, finché giunto il '59 ed eletti i deputati si credette quasi ricco. Per molti anni gabbò tutti quelli della provincia col darsi a credere a volta un Giobbe e a volta un grande elettore, o partendo talora cogli abiti più sdruciti a fare il giro della diocesi si presentava ovunque e sempre col migliore italiano, mentre nel villaggio per dispregio della gente non discorreva mai che nel più sordido dialetto, ma ritornando invariabilmente senza un soldo dopo averli tutti perduti in qualche bettola. Però non sentiva rimorsi. E oltre il giuoco aveva ancora un vizio ed una passione: era goloso, nauseantemente goloso di dolciumi, e pazzo per la caccia alle reti. Nei giorni migliori, quando colla vendita di qualche uccello poteva comprarsi delle paste, veniva subito nel caffè per mangiarle dinanzi alla gente con ogni sorta di lazzi e d'ingiurie contro i signori del paese, che facevano la più miserabile vita e non erano nemmeno da tanto che sapessero come lui cavarsi un capriccio. - Perché non le dai piuttosto ai tuoi bambini? - gli fu chiesto un giorno. - Il bambino sono io. Ma poi ci pensò e gli parve con un certo senso di umiliazione che la risposta fosse più vera di quanto volesse. Infatti era stata accolta da una risata significativa. Alcuni parenti umiliati da quella sua vita di mendicante si offersero più di una volta a trovargli un impiego, ma egli rifiutava ostinatamente. - Se lavorassi nessuno mi crederebbe più conte. - Allora mandate almeno a bottega i ragazzi. - Prima di tutto sono conti anche loro se lo sono io: però se ci vogliono andare, non mi oppongo. Naturalmente i ragazzi se ne guardavano bene. Poi venne il '66 ed essendo allora quasi due giovanotti diventarono due garibaldini. Alla partenza, siccome in paese si era fatta una colletta per i volontari e ad essi n'era già toccata una parte, il padre li chiamò. Erano presso un'osteria. - I tedeschi sono sempre stati nostri nemici, ma questa volta dev'essere finita per sempre: battetevi tutti da bravi - concluse dopo un lungo discorso alla presenza di molta plebaglia, che gli batté fragorosamente le mani. - E adesso beviamo. - Vorreste mangiarci quei due soldi che abbiamo - rispose il maggiore dei due figli, il più lacero. - Ti ho detto di bere - ribatté il conte rattenendosi. - Dove avete i quattrini voi? - Il vecchio, che si vide penetrato, gli lanciò una occhiata sinistra; la plebaglia rideva e fermava quanti passassero per farli assistere alla scena. - Il conte, il conte! - vociavano i bambini. Il conte era diventato livido. - Tu dunque vai a batterti per la patria? - replicò con voce stridula. - Sai che cosa ti darà la patria, dopo? - Non voglio niente io. - Te lo darà ugualmente: ti darà la galera. Il figlio alzò la mano, ma la gente s'interpose. Nullameno il conte trovò modo di farsi ubbriacare da un altro volontario, e prima di sera incontrandosi coi figli: - Ohé! - gridò loro barcollando - io ho fatto bene la mia prima tappa. Questo scherzo li rappattumò. Ma come il vecchio aveva predetto accadde: dopo cinque o sei anni ambo i figli quantunque non malvagi finirono in galera. Egli proseguiva la solita vita, solamente era stato nominato organista della parrocchia con cento lire annue di stipendio e, ciò che maggiormente importava, con una nuova facilità a scroccare buoni pranzi. D'allora non fu festa di campagna alla quale si suonasse o no l'organo senza di lui. Arrivava primo, nel tempo della caccia, colle reti e i richiami, per cacciare in qualche campo vicino ove in mancanza d'uccelli s'ingegnava colla frutta o altro; d'inverno col solito mantello bucherellato di panno turchino, un residuo dell'antica eleganza, e il caldanino sotto. Partiva ultimo non senza qualche cartoccio nelle tasche, giacché a tavola domandava quasi per ogni pietanza il permesso di conservarne un ricordo, esagerando questo uso già troppo sfacciato di molti preti. Nella primavera, a caccia proibita, invescava le cingallegre, d'estate arretiva gli ortolani, nel settembre le passere, d'ottobre trovava qualche paretaio disusato per i fringuelli; e d'inverno tornava colla pania ai tordi, o saliva malgrado la neve al paretaio, ne spazzava la platea, e lì nel casotto, semivestito, gelato, con una pignattina di caffè, nella quale intingeva un pezzo di pane, aspettava tutto il giorno che un fringuello più affamato di lui venisse a beccare l'erba presso il boschetto. Era una caccia rabbiosa e desolata. Spesso il vento alzando turbini di neve glieli sbatteva sul volto incorniciato dal finestrino, immobile come un ritratto: aveva i diacciuoli nella barba, il naso pavonazzo, le lagrime agli occhi, e nullameno raggomitolato nel vecchio mantello, il caldanino sulla pancia e le mani sul caldanino, i piedi dentro una vecchia sporta piena di paglia, aspettava sempre. L'uccello arrivava pigolando: allora i suoi occhi scintillavano, un brivido più freddo lo faceva tremare sulla panca, afferrava colla mano dritta la ciambella del tiratoio e attendeva senza respirare. Ma se l'uccello saltarellando per la platea s'involava prima di essere entrato fra le reti, la sua passione scoppiava in un delirio di collera. Poneva il caldanino sul parapetto e alzando le corna al cielo chiamava Dio ad alte grida come un nemico personale, che si compiacesse a torturarlo vigliaccamente. - Nemmeno un uccello... To'! - e un gesto intraducibile conchiudeva la bestemmia. La sera giù nel villaggio, vedendolo arrivare mezzo morto dal freddo senza nemmeno un passerotto, gli davano la berta: egli tornava ad inviperirsi. Poi il governo mise una forte tassa di trentacinque lire sui paretai, di quaranta sulle reti a mano, di dieci per le panie, e proibì i lacciuoli. La nuova legge, soggetto, prima e dopo la promulgazione, di tutti i discorsi del villaggio, fu pel conte causa di nuove tragedie. Egli aveva giurato di cacciare senza nessuna licenza, ma nonostante tutti i riguardi dei carabinieri, che fingevano di non vederlo, cadde più volte in contravvenzione, e dovette scontarla con la perdita degli attrezzi e parecchi giorni di carcere. Le sue bravate al caffè, dove parlava dei carabinieri col più insultante disprezzo, li aveva costretti a catturarlo. Allora fu eroico: colle cento lire dell'organo, la sua unica rendita, comprò tutte le licenze e venne trionfante al caffè ad inveire contro quei signori che per paura della nuova tassa avevano dismessi i paretai. - E quest'inverno? - gli chiese un bracciante che giuocava a scopa. - Sai leggere tu? - No. - Io so scrivere - rispose sardonicamente, e una risata in coro gli diede ragione. Infatti le lettere restavano sempre la sua migliore risorsa, anche quando giuocava. Ma questa frenetica passione del giuoco, che gli aveva fatto perdere i lenzuoli, le sedie e una volta persino i tortellini di Pasqua, prima di cuocerli, a un centesimo l'uno, non riusciva oramai più a soddisfarla. I due o i cinque franchi spillati ai gonzi sfumavano tosto in dolciumi, se il gioco non era pronto: nullameno se ne rifaceva alla meglio. Talora nel paretaio, mentre passava un branco di passeri e dava loro lo zimbello, aveva scommesso: - Cinque soldi che piglio almeno tre passere? - Intanto gli uccelli giungevano al tiro. - Scommettiamo, tiravia: cinque soldi... - Ma come vuoi fare? Potresti prendere anche tutto il branco. - Ebbene in questo caso avrò perduto - rispondeva il giuocatore indiavolato. Un'altra volta gli dettero tre lettere da portare a tre parrocchie: erano inviti per un funerale. Egli partì sollecitamente; cinque soldi per lettera e senza dubbio una pagnotta e un bicchiere di vino dal prete che la riceveva. A un miglio dal paese si incontrò in un altro giuocatore, vecchio contadino, già possidente andato a male. Si fermarono a chiacchierare presso il parapetto di un ponte: ambedue non avevano sciaguratamente giuocato da un pezzo, quindi il conte mostrò le tre lettere e gli espose l'incarico. - Eh! - mormorò l'altro invidiosamente - quindici soldi con poca fatica. - Vogliamo giuocarli? - Non ho le carte - ribatté il contadino con tono amaro. Il conte ebbe un sorriso umiliante di superiorità. - Ecco, sono tre lettere a cinque soldi l'una, vanno a tre parrocchie: scommettiamo. Se indovini la parrocchia hai vinto tu, se non la indovini ho vinto io. - Ma se non ho un soldo! - replicò l'altro solleticato dal giuoco e forse anche dalla sua stranezza. Poi una idea lo illuminò. - Facciamo così: se vinco, tu mi cedi l'incarico e le porto io; così tu non metti fuori niente. - E se perdi? - L'altro si grattò la testa. - Va là, imbecille, l'ho trovata io: se perdi mi accompagnerai nel giro senza guadagnare nulla. Invece perdette il conte. Così erano passati molti anni, poi i figli uno alla volta tornarono dalla galera: il maggiore ripartì dal villaggio e andò a fare il manovale a Roma, l'altro si acconciò nel paese da stalliere presso un oste. Il conte viveva solo. Stava lassù in un solaio screpolato, quasi senza porta, col tetto troppo incline, attraverso il quale si vedevano le stelle: d'inverno la neve gli cadeva intorno al letto alta sino al ginocchio senza che egli pensasse a spazzarla, non aveva camino, e d'altronde gli sarebbe mancata la legna. Il fornaio gli riempiva gratis il caldanino di carbonella: del letto non aveva rimasto che il pagliericcio, entro il quale si cacciava tutto vestito, poi col mantello si faceva una coperta e col vecchio cappellaccio una specie di berrettone. Nei giorni di gran freddo non si alzava più; passava le lunghe ore a guardare i propri uccelli chiusi dentro un abbaino sporgente sul tetto e difeso da una rete di ferro, rifacendo forse per la milionesima volta gli stessi sogni di giuoco, di caccia o di dolciumi. Aveva pochi bisogni e meno rimorsi; se fosse ridivenuto ricco si sarebbe nuovamente rovinato. Oramai in paese la sua miseria e le sue stravaganze si erano talmente invecchiate nell'abitudine di tutti che nessuno gli badava più. Egli tirava dritto. Finalmente si ammalò. Un giorno la ruota di un biroccino pigliandogli il mantello lo fece cadere; parve cosa da nulla, ma non si rimise più. Gli vennero meno le gambe, si mise a letto. Il figlio per rispetto mondano, fors'anche per un rimasuglio di pietà, venne ad usargli qualche cura, a portargli qualche zuppa. Egli non si lagnava. Era d'inverno. Nel solaio aperto a tutti i venti sarebbe gelato il vino: le pareti scrostate e sudicie annebbiavano la poca luce, il pavimento era tutto rotto, la porta sgangherata metteva certi urli ai buffi del vento, che parevano umani. Solo gli uccelli nell'abbaino saltellavano o canticchiavano di quando in quando. Nessun altro mobile o soprammobile occupava un poco di quella nudità desolata, tranne un fiasco spagliato, sospeso per un chiodo a capo del letto. Una volta, quando lo poteva ancora, vi faceva il caffè attaccandolo alla catena del focolare; adesso era vuoto, impolverato, e per coperchio aveva un guscio d'uovo. E, sintomo di morte vicina, egli aveva venduto quasi tutti gli attrezzi di caccia, meno un sacco di reti che gli servivano da guanciale. - È morto? - domandava talvolta la gente al figlio. Questi si stringeva indifferentemente nelle spalle. Ma un giorno l'arciprete si credette in dovere di visitare il suo organista, che da sei mesi non suonava più e si faceva sostituire dal capobanda del villaggio, un giovane di carattere dolcissimo. Quando il conte scorse l'arciprete: - È venuto per darmi il buon viaggio? - esclamò. - Mi dispiace che dovrà accompagnarmi gratis al cimitero, ma io non ce ne ho colpa; l'uso l'hanno inventato loro. Per me ne farei anche a meno. - Non volete dunque i conforti della religione? - Il conte ebbe un sorriso spavaldo. Egli si era sempre vantato d'empietà pur bazzicando nelle chiese, ma la sua fisonomia era così disfatta che il prete credette di non essere venuto inutilmente. Il medico aveva già dichiarato da tempo che il conte oltre la paralisi alle gambe soffriva di un aneurisma. Nullameno l'occhio dell'infermo era sicuro. Allora s'impegnò una lunga discussione fra il prete, che voleva convertire il conte, e questi che, rabbrividendo a qualche sua ragione, non voleva mostrarlo per un'ultima bravata di morire senza sacramento. Erano le tre dopo mezzogiorno; il figlio uscito da un'ora non sarebbe ritornato che a notte. Il vecchio colla testa appoggiata sulle reti, nascosto dentro il pagliericcio, col vecchio mantello sopra il cappellaccio che gli si rialzava come una sporta sulla fronte, non mostrava che la faccia bianca sotto la barba bianca cresciutagli nell'ultimo mese. Ad un tratto si sentì male. Il prete gli si chinò sopra premurosamente: - Aspettate, vado a prendere i sacramenti - mormorò vedendolo mutare fisonomia. Ma l'altro mise fuori una mano e lo rattenne. - È tardi. - Raccomandatevi a Dio. - Ma c'è? - Ne dubitereste proprio? - Il vecchio dubitava davvero. Ma il prete richiamato a tutta la serietà del proprio ufficio da quella agonia improvvisa, si trasse di tasca una grossa medaglia e presentandogliela perché la baciasse: - È la Madonna delle Grazie, vi sono due mesi di indulgenza a dirle un'avemaria. Il vecchio tese la mano. - Baciatela dunque. - Ma c'è? - Chi? - Dio - e tacque; poi facendo uno sforzo per voltarsi a guardare in faccia l'arciprete, gli mostrò la medaglia. - Scommettiamo: io prendo testa, voi lettera. - Disgraziato! - gridò il prete, offeso nella propria fede da quello che egli prendeva per uno scherzo brutale. - Avete paura di perdere; scommettiamo: non c'è. - Dio?! - Testa... - chiamò l'infermo gettando la medaglia in mezzo alla stanza, e piegò subitamente il capo. Rantolava: il prete si voltò al tintinnìo della medaglia, ma attratto dal rantolo del morente non poté raccoglierla. Il conte moriva, aveva gli occhi vitrei, un filo di bava sulla bocca. A un tratto, mentre il prete suo malgrado agitato da quella suprema scommessa stentava a trovare le parole rituali per raccomandargli l'anima, il vecchio sbarrò gli occhi: parve voler parlare. - Raccomandatevi a Dio! - La testa ricadde, era morto. Il prete si chinò atterrito per vedere se respirava ancora, ma sentendolo già freddo provò un brivido alla schiena. Allora confuso, quasi palpitante in un dubbio che non avrebbe voluto sentire, andò a raccogliere la medaglia: era dentro un crepaccio del pavimento. Così al buio non si discerneva da che parte fosse voltata. Si abbassò. - Testa! - Il conte aveva vinto l'ultima scommessa.

CAINO E ABELE

678775
Perodi, Emma 1 occorrenze

Abbandonando Roma, mandava a monte la vendita del palazzo, non poteva impedire la dichiarazione del fallimento e privava suo fratello degli ultimi rimasugli del suo patrimonio. Rimanendo poteva impedire tutto questo e ottenere nel tempo stesso che l'opera del Governo contro i malandrini non si rallentasse, non sonnecchiasse. Resterò! - disse con calma e tolse dalle valigie i vestiti che vi aveva gettati in fretta nel momento della massima esaltazione, e stracciò la lettera all' avvocato. Assai prima delle otto riceveva un telegramma di urgenza spedito un'ora avanti da Castelvetrano. Velleda con quello gli annunziava che la notte era stata calmissima, che i carabinieri non lasciavano un momento la villa e che Maria, mentre ella scriveva il telegramma, dormiva ignara di tutto. Quel dispaccio era certo partito all'alba da Selinunte, per esser consegnato così presto a Castelvetrano, e Velleda aveva dunque voluto che gli giungesse prima che si mettesse in viaggio. "Era una delle tante delicate attenzioni di lei per tenerlo calmo. Oh! come benediva il momento che ella era entrata in casa sua, come benedivala per sapersi fare a volta a volta, amica devota, consolatrice sua e protettrice della sua bambina! Perché la sorte, che gli aveva fatto incontrare quella donna rara, quel cuore pieno d'affetto, poneva fra loro un ostacolo insormontabile alla piena, alla completa felicità? Sarebbe troppo! - mormorava egli chinando il capo rassegnato e cercava di scacciare quel pensiero, che era una chimera, un sogno, per abbandonarci alla contemplazione spirituale di Velleda. Roberto la vedeva vegliare tutta la notte accanto al letto di Maria, sussultare al più lieve rumore e tanto precisa era la visione evocata dalla fantasia; che tendeva l'orecchio come se volesse afferrare il fruscio che facevano le vesti leggiere di lei quando movevasi andando a origliare alla finestra o alle porte, aggirandosi inquieta e trepidante per quella stanza nella quale egli da molto tempo non aveva messo piede. L'ultima volta che vi era stato, se ne rammentava Bene, era la vigilia di Natale. Maria aveva la febbre e Roberto era entrato dietro al dottore e ne era uscito subito commosso. La stanza semplice era piena di lei, del profumo sottile che emanava dalla sua pelle delicata, dai piccoli oggetti che ella soleva usare di continuo. In uno scaffale chiuso vi erano i libri scritti da Veliera, che rappresentavano il passato, sotto, una tavola con i quaderni di Maria, i libri sull'insegnamento, che rappresentavano il presente, cioè un'occupazione arida da cui scompariva la personalità, l'ingegno; una rinunzia coraggiosa ai sogni dell'artista, un annichilimento volontario che ella aveva preferito alla gloria, che le prometteva grandi soddisfazioni, mescolate ed acerbi dolori. Lungamente Roberto s'indugiò con il pensiero in quella camera quasi verginale, ma ad un tratto si scosse rammentando che occorreva rimettersi agli affari, e dopo aver telegrafato a Velleda, annunziandole che non partiva più, andò al palazzo Astura ad attendere l'acquirente. Era questi uno svizzero grasso, sorridente, un vero uomo d'affari, il quale giunse puntuale al convegno e girando insieme con Roberto per le vaste sale del pianterreno, toccava le stoffe delle portiere, squadrava i mobili, i ninnoli e ripeteva sempre: Quanto danaro sciupato! Quanti capitali immobilizzati! Ora a venderla tutta questa roba non ci si prenderebbe nulla! nulla! Era quello il sentimento anche di Roberto, ma gli dispiaceva di sentirlo esprimere da un uomo volgare, al quale del resto, in quel momento, non voleva inffliggere un biasimo per non disgustarlo dall'acquisto, e silenziosamente lo seguiva nelle stanze, scendeva e saliva dietro a lui, con una pazienza impostagli dalla situazione. E sempre il grasso svizzero, per deprezzare il palazzo, diceva quanto avrebbe dovuto spendere per ridurre i piani superiori a uso d'albergo, i capitali che gli occorrevano per ammobiliare le camere, e tutte queste lamentazioni terminavano con il solito ritornello : Ho offerto anche troppo, non posso dar di più, non posso davvero. Se avessi calcolato meglio le spese da fare, avrei fatto un'offerta minore, ma la cifra è detta. Roberto faceva obbiezioni, si mostrava incerto, adducendo per pretesto che il palazzo non era suo, che cedendolo per quella somma si addossava una responsabilità troppo grande; cercava tutti i mezzi per strappare al compratore qualche migliaio di lire di più, ma l'altro teneva duro, e finalmente Roberto, per non mandare a monte l'affare, annuì. Lo svizzero era di quegli uomini che hanno sempre fretta e che non rimettono mai al domani quello che possono far subito. Egli volle che Roberto andasse insieme con lui dall'avvocato per firmare il compromesso e lì sul momento sborsava la caparra, rimettendo a otto giorni la stipulazione del contratto e il pagamento della intiera somma. Ora che l'affare era conchiuso, si mostrava raggiante e nella sua vanità di proprietario diceva che a Roma ne altrove vi sarebbe stato un albergo come il suo al quale voleva dare il nome pomposo di Hôtel dell' Urbe UrbeAnche Roberto era contento e si applaudiva di non essere partito. Con quella vendita rapidamente conclusa, evitava tante vergogne, tanti scandali, rigenerava moralmente suo fratello. Egli andò a recare la buona notizia alla vecchia duchessa d'Astura, che in quei giorni, tutta afflitta per Franco, che nella sua estrema indulgenza scusava con tenerezza materna, aveva scritto più volte a Roberto per sapere come stavano le cose. Figlio mio, - diceva ella vedendo Roberto e buttandogli le braccia al collo, - tu ci hai salvati. Che il Signore ti benedica e benedica la tua piccina! Prima di morire penserò a lei, non dubitare. Maria non ha bisogno di nulla, - disse Roberto rammentando l'ostilità della duchessa al suo matrimonio. Lo so che sei ricco, molto ricco, ma nel commercio si può perdere a un tratto un patrimonio, le imprese rovinano; vedi che cosa è successo a Franco. Zia, - rispose Roberto, - il suo esempio non mi sgomenta. Egli s'è condotto come un fanciullo; io sono un uomo. La vecchia dama chinò la testa dinanzi a quella sobria affermazione di forza, e per la prima volta pensò che suo marito avrebbe fatto meglio a istituire suo erede Roberto, nelle cui mani il patrimonio Astura non sarebbe stato sperperato. La duchessa voleva che il nipote lasciasse l'albergo e andasse a stare da lei e non sapeva più che cosa fare per dimostrargli la sua gratitudine. Roberto ricusò dicendo che da lui capitava tanta gente e di ogni conio, che non gli piaceva di riceverla nel palazzo. .Ma di quella offerta fu lieto; ormai i parenti, e avelie la vecchia dama, si ricredevano sul conto suo, ormai dimostrava loro che sua madre aveva avuto torto di pronosticargli che avrebbe dovuto vivere delle largizioni del fratello. Era una tarda riparazione, che lo compensava di molte amarezze. Prima di accomiatarsi promise che sarebbe andato una sera a pranzo dalla zia, e accompagnato dalle benedizioni di lei, uscì da quel palazzo che gli ricordava tante umiliazioni infantili, tanti piccoli dolori tenuti segreti, e ai quali doveva in gran parte l'impulso al lavoro, la febbre di conquistarsi un avvenire, di cui la famiglia gli negava il diritto. In quell'edifizio tetro, fra tutte quelle cose vecchie, sotto quelle grandi volte fregiate di rilievi pesanti e fino alle quali la luce saliva scarsa, pareva si fossero rifugiate tutte le idee, tutte le superstizioni di un mondo sparito e sotterrato. Il passato vi aveva conservato dimora, e nell'aria rarefatta e satura di quel forte odore che tramandano i mobili antichi, gli antichi parati serici, le porte tarlate, i cuoi irrigiditi dal tempo, Roberto si sentiva opprimere, come da bambino, allorché la zia, la vecchia duchessa, gli amici di casa e soprattutto la madre lo deridevano per le sue tendenze moderne, di lavoro e di sentimento di se, e gli facevano il doloroso pronostico; che egli aveva reso bugiardo con la pertinacia e la fede nelle proprie forze. I suoi forti polmoni furono sollevati quando ebbe varcato il portone del vecchio palazzo e lasciando dietro a sé le vie strette, fiancheggiate dagli alti palazzi e dalle case luride della Roma vecchia, si rivolse con passo spedito verso la nuova. Ma qui se era confortato dall'aria pura, che circolava nelle larghe vie assolate, quel sentimento d'arte che suo padre aveva destato in lui e che egli aveva sviluppato con lo studio dei ruderi di un'epoca classica, era offeso dalla vista delle case sproporzionate, sopraccariche di goffi ornamenti e nelle quali tutti gli stili si confondevano. Come l'aveva sognata diversa da quel che era, questa Roma moderna, questa Roma italiana di cui aveva seguito da lungi, con amore di figlio, la creazione! E camminava guardando in su, sostituendo alla brutta realtà il sogno, senza vedere chi gli passava d'accanto, procedendo spedito per la via Nazionale, fra la gente che s'avanzava lentamente per solo diporto. Ma nell'avvicinarsi all'albergo i ricordi del passato lontano, le considerazioni sulla Roma moderna, tutto svanì dal cervello di Roberto e sentì nel cuore come una martelleta annunziante il ritorno di un cocente pensiero, assopito momentaneamente, che reclamava l'assoluto dominio. E quel pensiero si riassumeva in Velleda. Mi avrà scritto? - susurrava. Ma un rapido calcolo distrusse ogni speranza. Anche se Velleda avesse risposto subito alla sua lettera, la replica non poteva essere a Roma altro che il giorno seguente. Il portiere dell'albergo gli presentò invece un telegramma del Varvaro, col quale gli annunziava la cattura dei due malandrini fuggiti e la morte di uno dei feriti. Aggiungeva che i due ultimi arrestati nè gli altri non erano dei d'intorni; Alessio solo era del paese e bisognava considerarlo come capo del complotto. Un respiro di soddisfazione uscì dal petto di Roberto. In quei due giorni s'era angustiato maggiormente all'idea che i malandrini fossero tutti operai, tutta gente beneficata da lui, tutti ingrati. Invece non c'era altri che Alessio che avesse appartenuto allo stabilimento. Alessio che egli aveva tante volte cercato invano di piegare a migliori sentimenti, Alessio il ribelle, il pervertito, il corruttore, che aveva dovuto licenziare per salvare alcuni altri operai, i quali subivano il fascino di quel vizioso, che si vantava delle sue turpitudini. Si rammentava che uscendo dallo stabilimento l'ultima volta, col salario della settimana nel palmo della mano, Alessio vi aveva sputato sopra, lanciando al padrone uno sguardo di sfida. Oh! se Maria fosse caduta nelle mani di quell'uomo! Gli si rizzavano i capelli a pensarci. Era ancora scosso da quella sensazione dolorosa, allorché fu bussato all'uscio. Un cameriere entrò e gli dette una busta grande, elegante, sulla quale era scritto il suo indirizzo con un carattere inglese di mano femminile. Roberto guardò a lungo quella lettera senza aprirla, Non conosceva nessuna signora a Roma, dove non capitava mai, e le sue relazioni si limitavano a deputati siciliani, banchieri, avvocati, creditori di Franco; chi poteva scrivergli dunque? Stracciò la busta e lo sguardo cercò subito la firma, ma nel leggerla scrollò il capo mestamente. La lettera era della marchesa Paola Salvati e la povera signora gli chiedeva di andar da lei quella sera e supplicavalo di entrare in salotto e di salutarla come se l'avesse già conosciuta, caso mai vi fossero altre persone. Poi gli avrebbe spiegato tutto, gli avrebbe detto il perché di quel mistero. " Venga, venga, - scriveva prima di firmarsi, - glielo chiedo in carità. " Quella supplica ardente turbò Roberto. Fra tante noie, non si aspettava che gli capitasse anche quella di liquidare gli amori di Franco, di consolare le vittime dell'egoismo e della vanità di lui; ma non volle rispondere con un rifiuto alla preghiera di una signora, che gl'ispirava tanta compassione, e dopo pranzo salì in carrozza e andò in via Condotti. Il vecchio servo doveva aver ricevuto ordini dalla padrona, perché lo introdusse subito annunziandolo. Donna Paola era sola, e lo sforzo che fece per sollevarsi dalla poltrona nella quale stava abbandonata, la magrezza della mano che stese a Roberto, rivelavano i patimenti di lei. Gli occhi soli pareva vivessero in quel viso concontratto e consunto: due occhi grandi, ardenti, pieni di tragica passione. Scusi, - gli disse con voce tremante, - scusi di averla disturbata, ma sono una grave malata e agli infermi si usa compassione. Mi dica, mi dica, è vero che Franco ... che il duca è partito per sempre? Mio fratello è partito da quindici giorni, - rispose Roberto, - ma non credo per sempre; nessuno lo costringe a stare assente da Roma. Ah! come mi consola! - esclamò donna Paola. Io sono stata molto ammalata, credevo di morire e non sapevo più nulla di quello che accadeva intorno a me ; la mia malattia data appunto dal giorno successivo al Derby e a un pranzo in casa del duca. Roberto ascoltava come se non sapesse nulla. Ma ogni giorno io vedevo il mio letto coperto di rose e mi dicevano che il duca mandava a prender notizie mie e m'inviava quel dono. Ieri una mia amica, la principessa San Secondo, è venuta. Non avevo ricevuto nessuno, non sapevo nulla di quello che è accaduto a Roma in questo tempo, ed ella mi narrò tante frivolezze che non rammento: rammento soltanto che mi disse che Franco era fuggito, che il palazzo era in vendita e si aspettava da un momento all'altro la dichiarazione del fallimento. Mandai al palazzo ed ebbi la conferma della partenza; mandai di nuovo per sapere l'indirizzo e il guardaportone disse che non poteva darlo, ma aggiunse che lei era a Roma all' Hôtel del Quirinale e lo rappresentava. Sono tanti anni che conosco don Franco, aggiunse arrossendo lievemente, - e non potevo rimanere indifferente alla sventura che lo colpiva. E poi quando uno è malato è più sensibile, è più eccitabile, non è vero? Roberto capiva lo sforzo di donna Paola per scusare il suo operato e finse di non accorgersi della passione che la divorava" Io la ringrazio, - disse, - di mostrar premura per mio fratello. È tanto raro di conservare gli amici nei giorni di sventura! Ma si rassicuri, Franco non è fuggito. La sua amica era male informata; Franco ha venduto il palazzo a buone condizioni, e non si tratta di fallimento, ma di sistemazione di affari, alla quale lavoro e lavorerò anche in seguito. E quelle rose? - domandò donna Paola sorridendo. Franco, sapendola ammalata, mi aveva detto di nasconderle la sua partenza mandandole ogni giorno quei fiori che le facessero credere che egli fosse ancora qui. Povero, caro amico! - esclamò riversando la testa sui guanciali accasciata da quell'insperata consolazione. Veda, io non posso ancora regger la penna e ho detto di sentirmi forte per poterla ricevere, ma gii scriva lei, gii dica che aspetto una lettera sua e che quelle rose-quelle care rose mi hanno tenuta in vita. Ormai la felicità le impediva di aver reticenze con Roberto, e la fisonomia dolce e compassionevole di lui la spingeva alla confidenza. Gli pareva di parlare a un amico e gli rifaceva la storia delle sue angosce di quelle ultime ore, gii diceva che il suo male derivava da una immensa gioia distrutta; lo supplicava di tornare a visitarla spesso, molto spesso. Roberto si sentiva a disagio. Non voleva cullarla con vane speranze, e lo stato veramente lagrimevole di Paola impedivagli di essere veritiero e di dirle che Franco non meritava quell'appassionata adorazione che ella gii portava. Ogni momento faceva atto di alzarsi, ma la marchesa con uno sguardo supplichevole lo tratteneva, dicendogli : È tanto difficile che mi trovi sola un'altra volta che possa parlare con lei liberamente come stadera; rimanga. E Roberto rimaneva ad ascoltare lo sfogo di quell'anima sensibile, divorata dall'amore, che pareva da un momento all'altro dovesse abbandonare il corpo. Ed era lei che Franco aveva chiamato a sparger di fiori e di lagrime il suo cadavere! La visita era durata due ore e Roberto, nello scender le scale, pensava con raccapriccio al grande, all'immenso egoismo di Franco che voleva morendo uccidere una povera creatura colpevole soltanto di amarlo. E il fratello allora gii apparve vile come quei Werther da strapazzo, che inducono una donna a farsi ammazzare da loro, esaltandola al pensiero di una riunione eterna nella morte, e quasi sempre tremano nello sparare contro se stessi e vi rinunziano o si feriscono leggermente. Povera donna! - esclamò, - se potesse dimenticarlo! ma non lo dimenticherà. Il cuore di Roberto era una di quelle arpe divine che vibrano al soffio di ogni umano dolore, che si commovono non in ragione della sventura maggiore o minore, ma del grado di resistenza dell'infelice che deve sopportarla. E Paola a gli occhi suoi apparve debolissima. Il sentimento era il perno della vita di quella donna, anzi era la vita stessa. Tutte le altre facoltà, lasciate sonnacchiose da una educazione sbagliata, erano subordinate a quello. Non lo sapeva. Paola non gli aveva fatto nessuna confidenza sulla vita anteriore al matrimonio, ma era sicuro che quella pallida creatura era cresciuta fra le mura claustrali di un convento, ove le tendenze appassionate dell' anima si erano manifestate ora nelle estasi della comunione con lo sposo celeste, ora nell'adorazione di San Luigi, ora nella passione per una compagna. La religione, questo balsamo delle anime forti, questo rifugio delle menti torturate dal dubbio, era stata un eccitamento troppo forte per quella sensitiva. Se le persone cui era affidata l'educazione di Paola, avessero capito il frutto che potevano trarre da quella sensibilità, avrebbero dato vigore alla mente della bambina, esercitandola in severi studi, costringendola a pensare più che a sentire, e nello stesso tempo con i! moto razionale, con l'aria, col cibo, avrebbero dato forza ai muscoli. Stabilito l'equilibrio fra quella triade di forze che costituisce la vita dell'individuo, data al sentimento una direzione più ragionevole, Paola sarebbe stata una donna onesta e utile, una di quelle donne che sono una benedizione per la famiglia, sulla quale spargono i tesori della loro tenerezza. Invece era una infelice; e un cenno di Franco sarebbe bastato a farne una colpevole. Ovunque guardava, Roberto non vedeva altro che vittime di una falsa educazione, che forze disperse a danno dell'umanità e del bene, che elementi buoni sviati dal grande scopo e convertiti in cagione di malessere sociale. Come benediva suo padre di averlo diretto, educato; di aver fatto di lui un uomo! E quanto era grande il desiderio di far del bene che lo animava, ma quanto sentivasi impotente dinanzi a tanti dolori, a tanti pervertimenti. Doveva limitare l'opera sua a Franco, pensare a lui solo per non sperdere le forze in altri tentativi che avrebbe dovuto abbandonare subito. Franco bastava per il momento. E tornando in camera scrisse al fratello una breve lettera ringraziondolo di quello che aveva fatto, dimostrandogli una calda gratitudine. Si protestava suo obbligato per togliere all'altro una parte dell'onere della riconoscenza, che spesso è grave a portare e infonde nell'anima del beneficato un sentimento di avversione per il benefattore. Non voleva che Franco provasse rispetto a lui, nessuna avversione; voleva poter spargere nel cuore di quell'indifferente i semi dell'affetto e sperava raccoglierne i frutti, non perché avesse desiderio di farsi voler bene da Franco, ma per nobilitarlo con un sentimento buono. In quella lettera accennò alla visita a donna Paola, gli descrisse lo stato lagrimevole in cui avevala trovata e lo esortò a scriverle una buona lettera, da amico vero, senza sentimentalità e senza lamenti, per calmarla ancora più e trattenerla dal commettere atti inconsulti che potessero comprometterla. Quando ebbe terminata quella lettera, Roberto si sentì preso da un sonno prepotente. Era il fisico che riprendeva i suoi diritti, che reclamava alcune ore di riposo, dopo due giorni di continua angoscia, di continua tensione della mente. Tutto si confuse a un tratto nel pensiero di Roberto e quasi macchinalmente cercò il letto, e si addormentò di un sonno pesante, scevro di sogni, che sono il ricordo confuso di certe impressioni, che il letargo del pensiero e del sentimento non riesce a dileguare.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679089
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Essi portarono nelle poche chiese della città i loro bambini e quindi abbandonando le loro case agli invasori, mossero in processione, con i sacri stendardi spiegati, verso il bosco, dove sapevano di trovare colui che li aveva resi buoni, caritatevoli e pii. Ma appena furono usciti dalla città, videro, in mezzo alla strada, un uomo tutto vestito di nero e circondato da un numero infinito di vipere, le quali alzarono la testa, misero fuori la lingua e, come una schiera di saettatori, mossero all'attacco degli uomini salmodianti. Questi, spaventati, voltarono le calcagna e si diedero a fuga precipitosa, e una volta dentro la città sbarrarono le porte; ma le vipere, strisciando lungo le mura, salirono fino ai merli, e di lassù, con le fauci aperte, la testa eretta, parevano pronte a scendere nella misera Bibbiena. Intanto gli immondi animali, che già erano penetrati prima nelle case, avevano distrutto gran parte delle provviste e insozzate le altre, per modo che gli abitanti non avevano più da mangiare né da bere perché i pozzi e le cisterne erano pieni di bòtte e di serpi acquaiuole. Venne la domenica, giorno in cui il Romito soleva recarsi a Bibbiena, e gli abitanti, non vedendolo giungere, incominciarono a pensare che egli pure li avesse abbandonati, e, ritenendo inutili le preghiere, si diedero a mormorare contro il cielo e contro i santi. - A che ci è valsa la nostra devozione, se nessuno ci aiuta? - dicevano molti, che avevano veduti spirare i loro cari fra atroci spasimi, in seguito alle morsicature delle vipere. Intanto, nella lotta per non morire di fame, avvenivano risse; gli antichi rancori si riaccendevano e la gente, inferocita dallo spavento, dai dolori e dalle sofferenze, si allontanava dalla via del bene. Satana credé giunto il momento di impossessarsi di tutte le anime, e un giorno bussò alle porte della città. Aveva lasciato l'abito nero e nascondeva il volto maligno sotto il cappuccio di un frate francescano. - Chi è? - domandò l'uomo cui era affidata la guardia della porta. - Sono un francescano, - disse il Diavolo, facendo la voce umile. - Apritemi e vi libererò dal flagello che vi colpisce, Il guardiano della porta corse per il paese, cercando i cittadini più cospicui per riferir loro l'accaduto. Essi deliberarono che era meglio aprir subito, e mossero verso la porta, che si spalancò per lasciar entrare il finto frate. - Io vi prometto, - egli disse, - di liberare Bibbiena in poche ore dal flagello; ma voi dovete promettermi di non fare entrare più il Romito nel recinto della città; è lui che ha attirato sopra questo povero paese tanta maledizione. In quel momento i Bibbienesi dimenticarono i beneficî ricevuti dal pio Romito, e promisero tutto ciò che esigeva colui che si proclamava apportatore di salvezza. Il Diavolo incominciò a girare per le vie, a penetrare per le case e nei giardini pronunziando misteriose parole, che nessuno capiva. Però, a quelle parole, serpi, vipere, ramarri, salamandre, grosse lucertole, rospi e bòtte uscivano dai loro nascondigli, salivano su dai pozzi e dalle cisterne, sbucavano dalle tane, e intorno al frate si formava uno stuolo di quei ributtanti animali. Quando egli ebbe esplorato ogni luogo, mosse, seguìto da quel lurido corteo, verso la parte della città dalla quale era entrato, e, sceso nella pianura, disperse tutti i rettili pronunziando altre magiche parole. Dall'alto delle torri della città i Bibbienesi lo avevano seguìto con lo sguardo, e appena lo videro solo, gli andarono incontro riconducendolo a Bibbiena con grandi onori. Fu mandata subito gente nei paesi vicini a far provvista di vettovaglie, e la sera i signori della città offrirono al loro liberatore un banchetto. Il vino bevuto in grande quantità, dette alla testa a molti; nacquero delle dispute, un uomo fu ucciso, le osterie si ripopolarono, si riprese a giuocare, a bestemmiare, e nessuno pensava più al Romito né alle massime di pace, di rassegnazione e di carità che egli aveva predicato per tanto tempo. Una famiglia sola non partecipò alla baldoria generale. Questa famiglia si componeva di un vecchio padre e di due figli, i quali, prima che il Romito facesse udire la sua voce persuasiva ed ispirata, vivevano in continua discordia, con grande amarezza del vecchio. Un giorno, nel calore di una disputa, il maggiore di essi aveva preso un coltello ed erasi avventato contro il suo secondogenito, ferendolo al viso. La cicatrice di quella coltellata era ancora visibile, e il feroce e barbaro giovane, ora che si era pentito, la guardava di continuo. Appena un lampo di risentimento contro il fratello gli offuscava la ragione, la vista di quella ferita bastava a calmarlo e a suggerirgli sentimenti miti e buoni. Il vecchio e i due fratelli, udendo che il patto della liberazione di Bibbiena dal terribile flagello che li aveva colpiti si era che il Romito non riponesse più piede in città, li aveva indotti a non partecipare alla gioia generale e alle feste che si facevano in onore del liberatore. Essi erano tre poveri e rozzi uomini, ma facevano questi ragionamenti: - Se il frate ha paura del Romito, che aveva convertito tutta Bibbiena alla carità, alla tolleranza e al perdono delle offese, vuol dire che è un nemico del nostro bene, un ribaldo, forse il Diavolo in persona. E mentre tutti i cittadini bevevano, cantavano e giuocavano, padre e figli stavano rinchiusi nella loro casetta, pregando il Cielo di non abbandonare la loro città. E le loro preghiere furono udite in Cielo, dove le preci degli umili e dei buoni vengono trasportate dagli Angeli Custodi. E la Madonna s'impietosì sulla sorte di Bibbiena per l'intercessione di quel padre e di quei figli riconciliati dal Romito, e mandò loro una ispirazione. - Perché, - disse un giorno il padre, - non andiamo noi nel bosco a supplicare il Romito di riprendere le sue prediche? Egli, come quelli che sono mossi da vero spirito di carità, saprà affrontare i pericoli e trionferà del Demonio. Andiamo. E mentre la città era tutta immersa nei tripudî e nei sollazzi, il vecchio e i suoi due figli ne varcarono le mura, e andarono nel bosco. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Il conte Romano ebbe pietà di tanto e sincero dolore e fece cercare la mula dai servi; ma tutto fu inutile, e, per evitare di esser di nuovo sorpresi dalla bufera, dovettero tutti proseguire il cammino, abbandonando la mula alla propria sorte. Quell'abbandono costò molto dispiacere al poeta, il quale non sapeva rinunziare ai sette canti del poema su cui aveva sudato tempo. Egli si pentiva di avere lasciato Nipozzano e soprattutto di non essersi messo addosso quel manoscritto, senza il quale non avrebbe saputo continuare l'opera intrapresa. Ser Bindo giunse, dunque, molto a malincuore a Staggia; il paesaggio invernale gli pareva triste, e il castello una vera prigione. Appena poi ne ebbe oltrepassata la pesante porta ferrata e ebbe veduto una doppia fila di gente, stranamente vestita, che il conte Romano salutò, dicendo al nuovo ospite: "Eccovi i miei poeti!" il fiorentino si sentì ribollire il sangue nelle vene. È bene dire che ser Bindo aveva una speciale avversione per la ciurmaglia di fannulloni; e, in genere, i poeti da strapazzo appartenevano a quella categoria. In antico era uso che alla stessa tavola, all'ora di pasto, sedessero tanto il signore, quanto l'ultimo famiglio. Soltanto la differenza di grado si vedeva dalla diversità del posto. In capo tavola, vicino al signore, stavano le persone di riguardo, come ser Bindo; in fondo, la gente di nessun conto, come i poetastri. Ma anche questi udivano i discorsi che il signore faceva; e infatti la ciurmaglia dei poetastri udì il racconto del temporale, dello smarrimento della mula, e udì le lamentazioni di ser Bindo sulla perdita de' suoi canti. - Io non potrò più scrivere un verso, - diceva l'infelice, - finché quei canti non saranno di nuovo in mano mia. La loro perdita mi affligge tanto, che io non saprei più esser poeta. Avete sentito dire, signor di Staggia, che quando l'uomo perde il filo di una idea non è più capace di nulla, finché non l'ha ripreso? Ebbene, in questi sette canti sta il filo del mio grandioso poema, ed io non potrò riafferrarlo finché non li avrò sott'occhi. Tutti quei poetastri, che fino a quel giorno erano stati fra di loro come cani e gatti, udendo queste parole si scambiarono uno sguardo d'intesa, e appena tolte le mense si riunirono a combriccola in una stanza appartata del castello e stabilirono di muovere sul far del giorno alla ricerca della mula, affinché i sette canti del poema non capitassero mai più nelle mani di quel presuntuoso, che il signore trattava da pari a pari. Infatti, appena fu calato il ponte levatoio del castello di Staggia, i poetastri si misero in cammino, e giunti a un certo punto presero ognuno una direzione differente per meglio cercare la mula. Uno di essi, quello appunto che avea più livore contro ser Bindo per essere stato sloggiato per dato e fatto di lui dalla bella camera che occupava prima, esplorando il terreno a fianco della via maestra, rinvenne la mula mezza sotterrata dalla neve e morta stecchita in un fosso. Ciapo, che così era nominato il poetastro, vi scese con molta precauzione, rinvenne la valigia che ser Bindo aveva descritta, e, aprendola, trovò in essa la busta che conteneva i canti del famoso poema. In sulle prime ebbe voglia di gridare per attrarre l'attenzione dei compagni, ma subito un pensiero maligno gli traversò la mente. Perché non teneva per sé quei canti? Per ora poteva nasconderli in qualche luogo, e quando fosse passato un poco di tempo, per non destar sospetti, andarsene da Staggia alla Corte di un altro signore e gabellarli per suoi. Così avrebbe acquistata fama, onori e denari, senza torturarsi il cervello. - Così, così farò; - disse fra sé, - sarei un bello stupido se non mangiassi la pappa che trovo già scodellata. E senza impensierirsi per la cattiva azione che commetteva, ripose la busta nel farsetto, gettò manate e manate di neve sulla mula, affinché nessuno la potesse scorgere, e finse di cercare ancora, sempre avvicinandosi al luogo ov'erano gli altri compagni. - Quella mula doveva essere indemoniata, - diss'egli allorché li ebbe raggiunti. - Non si trova per quanto si cerchi, e di lei non c'è traccia. Intanto s'era fatto tardi e la comitiva, intirizzita dal freddo, fece ritorno al castello, dove disse di essere andata a caccia, invece che alla ricerca della mula. Ser Bindo e il suo ospite risentivano troppo gli strapazzi del viaggio per potersi mettere in campagna; ma il Conte aveva disposto che fosse dato un premio a quello dei suoi terrazzani che avesse riportato la mula, viva o morta, al castello; e questa notizia l'aveva fatta bandire a suon di tromba per tutta la terra di Staggia. Ciapo rideva fra sé e sé, sentendo i banditori che si sgolavano, e appena giunto nel palazzo si rinchiuse nella nuova camera che gli era stata assegnata, e togliendo con molta fatica due mattoni di sotto il letto, vi nascose la busta. Poi andò a cena, e gongolava vedendo l'abbattimento di ser Bindo e la desolazione che gli cagionava la perdita dei suoi canti. Gli altri poetastri, udendo bandire il premio per tutta la terra, avevano avuto una rabbia da non dirsi. Ormai non potevano più mettersi in campagna, poiché si sarebbero imbattuti nei terrazzani del conte Romano, i quali, più cogniti di loro del paese, avrebbero certo rinvenuta la mula. Ciapo, per non essere scoperto, diceva che avevano ragione, che quella risoluzione del Conte era una vera disdetta, che sarebbe stato tanto meglio se la mula fosse caduta in loro potere, per fare un dispetto a quell'intruso di fiorentino, tanto superbioso dell'opera sua. Quella sera i poetastri si separarono tardi, e appena Ciapo fu in camera, dette un'occhiata ai mattoni per assicurarsi che non erano stati rimossi, e poi, stanco morto, si addormentò come un ghiro. Ma il riposo fu di breve durata perché fece un sogno spaventoso e gli parve di vedere quei sette canti trasformarsi in altrettanti serpenti, avviticchiarglisi addosso e stringergli la gola in modo da soffocarlo. Gettò un grido, balzò dal letto, e al lume della luna, che penetrava in camera sua attraverso ai vetri, non vide né canti né serpenti. - È un fatto, - disse, - che quando uno è molto stanco dorme male. E col cuore che gli batteva ancora forte dallo spavento, ritornò a letto, e questa volta dormì fino alla mattina. Prima del mezzogiorno udì un gran scalpiccìo nel cortile. Si affacciò e vide là molti terrazzani che recavano la mula sopra una barella. Il Conte, avvertito, scese, e scese pure ser Bindo: il primo bramava di leggere i sette famosi canti, mentre l'autore desiderava di averli fra mano per incominciare l'ottavo e condurre a termine tutto il poema, col quale intendeva di sferzare i vizî de' suoi ingrati concittadini. Essi si curvarono sulla mula per afferrare la valigia, ma questa non v'era più, e sulla soma del morto animale non rinvennero che roba di vestiario e altri amminnicoli. - Sono rovinato! Sono morto! - urlò ser Bindo, sgranando sui terrazzani, che avevano recato la mula, certi occhi da spiritato. Ciapo, sull'alto della scala, osservava quella scena sorridendo. - Chi di voi ha osato impadronirsi della valigia? - domandò il conte Romano. - Noi non abbiamo preso nulla, - dissero umilmente i terrazzani. - Vedremo, - replicò il Conte. E, furente d'ira, ordinò che tutti quelli che avevano riportata la mula fossero rinchiusi in una prigione buia, umidissima e sotterranea, finché non avessero confessato il misfatto. Ser Bindo avrebbe voluto intercedere per loro, ma era più morto che vivo per quella speranza delusa, e fu assalito dal freddo e dalla febbre. Intanto il corpo della mula venne gettato in uno dei fossati del castello, e i terrazzani tenuti in prigione. Quella notte il conte Romano, che per il solito dormiva come un ghiro, non poté prendere sonno. Rivolta di qua, rivolta di là, gli pareva che nel letto ci fossero le spine, e ogni tanto sentiva una voce interna che gli diceva: - Ma sei proprio sicuro, conte Romano, di non aver colpito il giusto pel peccatore? E questa voce lo tormentava. Intanto che il Conte vegliava, le mogli e le figlie dei terrazzani, imprigionati da lui, passarono la lunga notte invernale piangendo e smaniando. A giorno esse si recarono a un piccolo oratorio, dove era conservata con molta venerazione una immagine miracolosa della Madonna, e togliendosi i pendenti dagli orecchi e i vezzi dal collo, li deposero sull'altare dicendo: - Vergine santa, restituiteci i nostri mariti. Non abbiamo di prezioso che queste gemme e noi ve le offriamo. La Vergine ebbe compassione delle lacrime delle donne e fu commossa dell'offerta che esse facevano. Ma prima di rivolgersi al Conte, volle impietosire Ciapo. Egli dormiva ancora, quando la Vergine gli apparve e gli disse: - Se tu hai cara la salvezza eterna, devi restituire i setti canti del poema di ser Bindo, affinché quell'infelice poeta, quel disgraziato esule, compia l'opera incominciata e tanti poveri innocenti rivedano la luce del sole. La visione era bellissima, poiché la Madonna, che un insigne artista aveva dipinta sul muro dell'oratorio, si presentava a Ciapo non irata in volto, ma con espressione benigna di supplica, e sulla testa le riluceva una corona d'oro, e dal collo le pendevano vezzi di perle e di ambra trasparente. Ciapo si destò, ma non aprì gli occhi, temendo che la bella visione sparisse come un sogno, e sentendo la dolce voce della Madre di Dio che gli parlava con tanta gentilezza, disse: - Madonna, io farò quanto tu mi comandi per compiacerti, e i sette canti del poema ritorneranno dentro oggi a chi li compose e li vergò. Sparì la Vergine dopo aver udita questa solenne promessa di Ciapo; ma questi, aprendo gli occhi alla luce, rise della promessa e del sogno, e invece di restituire ciò che aveva involato, passò la giornata a comporre un'ode in ottava rima, nella quale magnificava la generosità del conte Romano a fine di cattivarsi l'animo del Conte stesso. Quel giorno ser Bindo non comparve a pranzo. Egli era così debole da non reggersi ritto e aveva invano cercato di alzarsi dal letto per assidersi alla mensa del suo ospite. Questi si mostrava accigliato, e allorché Ciapo, tolte le mense, volle recitargli l'ode composta in suo onore, il Conte glielo impedì con mal modo, dicendogli: - Cessa, poetastro, dal gracidare. I tuoi versi mi annoiano. Va' a dirli a chi ti pare, ma non tediarmi più con la tua noiosa presenza. Era lo stesso che se gli avesse detto, chiaro e tondo, di far presto le sue valigie e di sloggiare dal castello. Ciapo capì benissimo, e stabilì di non restare un giorno di più là dov'era. In breve egli riunì le sue robe, tolse di sotto i mattoni la busta e, chiesto un cavallo al signore, gli fece i suoi saluti e se ne andò. Egli aveva appena discesa l'erta del castello, che vide attraverso la via un bove furibondo, il quale gli andò addosso a testa bassa, quasi volesse sollevarlo sulle corna. Smarrito dal terrore, Ciapo spinse il cavallo sulla proda di un fosso, ma il bove lo incalzava sempre più furibondo, e pareva che mirasse con le corna al farsetto, nel quale il poetastro teneva riposti i canti di ser Bindo. - Cavallo mio, salvami! - esclamò Ciapo. - Se riuscissi a portare in salvo questo tesoro e ad assicurarmi la fortuna e la gloria, darei anche l'anima al Diavolo! Non aveva finito di pronunziare queste parole, che il cavallo fece un lancio, varcò il fosso e si diede a corsa sfrenata. Il bove, per seguirlo, fece un lancio, ma invece di toccar la sponda opposta, precipitò nel fosso e vi rimase. Corri corri, Ciapo giunse verso sera al castello di Poppi, e chiese l'ospitalità. Il Conte, che era persona molto generosa, gliela concesse, e s'intrattenne dopo cena a parlare col nuovo venuto, cui dette una camera per riposare fino alla mattina, sentendo che voleva riprendere il viaggio per recarsi a Spoleto. In quella notte Ciapo fu assalito da un timore che non sapeva spiegarsi. Gli pareva che cento braccia lo afferrassero, che cento bocche gli gridassero: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! Eppure nella camera non c'era nessuno, e se anche prestava l'orecchio, non udiva nessuna voce. Gli è che le braccia che lo afferravano erano invisibili, e le voci gli parlavano al cuore e non all'orecchio. Ciapo, che non aveva spento la lucerna e si era coricato col farsetto per meglio custodire la busta, guardò da tutti i lati per vedere se scopriva un nascondiglio nella parete, e non vide nulla. Intanto le braccia lo stringevano sempre più, e cento voci minacciose gli ripetevano: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! - Mai! - esclamò Ciapo. - Satana, aiutami tu! A un tratto si videro molte fiamme invadere la camera e circondare il poetastro. Le braccia cessarono di stringerlo, le voci di parlargli al cuore, e nella parete a fianco del letto si aprì una specie d'imposta che lasciò vedere una cassa di ferro. Ciapo ripose dentro a quella la busta che conteneva i canti, e la cassa si richiuse con fracasso, l'imposta sbatacchiò, e nessun occhio umano avrebbe potuto trovarne traccia. Intanto ser Bindo, desolato per la perdita fatta, si struggeva come una candela, e i poveri terrazzani rinchiusi nelle prigioni del castello di Staggia vedevano sospesa di continuo sulla loro testa la tremenda pena di cui li aveva minacciati il conte Romano. Questi non osava ordinare che i terrazzani fossero messi a morte, e una notte che era seduto accanto al letto del poeta agonizzante, vide la immagine miracolosa della Vergine apparirgli e guardarlo con occhi supplichevoli, stendendo verso di lui le mani in atto di preghiera. Quella visione lo colpì, e nel momento istesso ser Bindo, con voce fievolissima, gli disse: - Messere il Conte, io mi accorgo che la mia fine è prossima. Ormai la gloria non mi alletta più e sento di essere staccato completamente dai beni terreni. Restituite la libertà ai terrazzani che tenete prigionieri; essi sono innocenti, poiché non avevano alcun interesse di defraudarmi de' miei canti. Io sono certo che il colpevole è già lungi, ma anche a lui, in questo estremo momento, io perdono. - Il colpevole è Ciapo! - disse il Conte, che ebbe in quell'istante come una rivelazione. E senza indugiare, ordinò ad alcuni uomini di salir subito a cavallo e ricondurglielo vivo o morto, volendo sollevare, con la vista dei canti, i momenti estremi del morente. E appena il sole indorò le vette dei monti, ordinò che la prigione fosse aperta ai suoi terrazzani e che essi venissero rimessi in libertà. Intanto Ciapo ingrassava per il dispetto fatto a ser Bindo, e, strada facendo per recarsi a Spoleto, ripeteva: - Que' canti non li avrò io, ma neppur lui, poiché li custodisce il Diavolo. Ora, mentre ser Bindo languiva nel castello di Staggia, capitò colà un vecchio e santo frate francescano, il quale, udita la ragione del malore dell'esule, disse che avrebbe ricorso all'aiuto del santo di Assisi per consolarlo. E per ottenere quell'aiuto, digiunò e pregò con fervore. Il frate, dopo questo, proseguì la via per recarsi alla Verna e chiese l'ospitalità al signore di Poppi. Questi, naturalmente, gliela diede e gli assegnò la camera abitata pochi giorni prima da Ciapo. Era costume del francescano di farsi dare l'aspersorio e di benedire ogni stanza che doveva abitare anche per una notte sola. Egli benedì pure la camera di Poppi, e quando la parete che conteneva il nascondiglio del Diavolo fu spruzzata dell'acqua santa, avvenne un fatto strano. L'imposta del muro si spalancò con fracasso, la cassa di ferro s'aprì, la busta cadde per terra e da quella incominciarono ad uscire tanti fogli. Naturalmente il frate raccolse busta e carte, e, appena vi ebbe gettato gli occhi, si accòrse che su quelle carte erano scritti i sette canti rimati da ser Bindo. La notte parve lunghissima al frate, perché non vedeva l'ora e il momento di portare una consolazione all'esule infelice, e appena giorno si rimise in cammino, e un passo dopo l'altro giunse a Staggia. Era sera quando fu ammesso nella camera del morente, il quale, vedendo la busta in mano al frate, non ebbe la forza di parlare né di stendere le mani per riceverla. Pianse, invece, lungamente, amaramente, l'infelice, e quelle lacrime lo sollevarono molto. Il giorno dopo stava assai meglio; la settimana seguente poté alzarsi, e un mese dopo che ser Bindo era di nuovo in possesso dei sette canti del poema, già dava mano all'ottavo, e senza interruzione portava a termine l'opera grandiosa. E ser Ciapo? Si dice che la sua anima irrequieta abbia abitato per anni e anni il nascondiglio del Diavolo nella camera del castello di Poppi. Infatti, in quella camera nessuno ci voleva dormire, perché dicevano che si sentiva una voce lamentevole talvolta, e talvolta stizzosa, che diceva per ore e ore: "Che cosa ho fatto mai! Che cosa ho fatto mai!" Ora quella stanza è murata da più di cent'anni, e qui la novella è finita. - Nonna, noi vogliamo una promessa, - disse l'Annina accostandosi alla vecchia e guardando dietro di sé per vedere se i fratelli e i cugini la seguivano per mostrare che ella aveva il diritto di parlare a nome di tutti. - Sentiamola; che cosa chiedi? - disse la Regina. - Vedete, questi piccinucci, benché si divertano tanto a sentirvi raccontare, pure fanno fatica a star desti fino a quest'ora. Da qui avanti non ci potreste dire la novella di giorno, sull'aia, prima che suoni l'avemmaria? Ora le giornate sono lunghe, ed essi si levan coi polli e coi polli vorrebbero andare a letto. - La tua domanda sarà esaudita, - rispose la nonna. - Ma staranno buoni, di giorno, quei monellucci, o non si alzeranno venti volte per correre dietro anche a una mosca che voli? - Non per nulla sono la maggiore di tutti. Io saprò tenerli fermi, e vi prometto che nessuno vi disturberà, rispose l'Annina con molto sussiego. Dopo questo breve colloquio, la matrigna di Vezzosa si alzò, ringraziò la Regina e le fece mille complimenti per la novella; quindi cominciarono gli addii alla sposina. Tutte le donne di casa Marcucci la vollero baciare, tutti gli uomini vollero dirle una buona e affettuosa parola, ed ella, commossa da tante dimostrazioni di simpatia, piangeva e rideva nel tempo stesso. - Via, è ora di andare a letto! - disse Momo per tagliar corto a quell'intenerimento che vinceva anche lui. I bambini accompagnarono Vezzosa per un pezzetto di strada, dicendole: - Domenica non te ne andrai! Anche Gigino le zampettava accanto, reggendola per la sottana e ripetendo ciò che sentiva dire agli altri. In mezzo a tutta quella gente che manifestava liberamente la gioia che sentiva, Cecco solo stava zitto e seguiva Vezzosa a testa bassa. - Sei forse pentito? - gli domandò la ragazza, quando i bimbi l'ebbero lasciata. - Pentito! - esclamò egli. - Sono così felice, che non posso parlare. Non sai che mancano otto giorni soli a domenica? - Sette, non otto, - disse Vezzosa guardandolo affettuosamente, - e fra sette giorni porteremo lo stesso nome e saremo uniti nella gioia e nel dolore. - Nella vita e nella morte, - rispose Cecco in tono solenne, stringendole la mano.

Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679350
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E volgendosi all'abatino che aveva ripreso la sua veste talare, - Figliuolo mio, a scarico di coscienza, debbo avvertirti che abbandonando la casa del sindaco tu rinunzi a una fondata speranza di fortuna. Aminta rispose vivacemente: - Oh don Luigi, per me non ci può esser fortuna maggiore della sua benevolenza. - Questa non ti può mancare mai, - ma puoi perdere delle sostanze .... - Non importa, non importa, purchè io non abbia a tornar più in quella casa, rinunziereì ad un regno .... - Sta bene, figliolo; fa il voler tuo. - Però ascolta, Mansueta è depositaria di documenti che comprovano i tuoi diritti verso il signor De Boni. Tua zia ed io abbiamo creduto conveniente, per motivi di delicatezza e nel tuo stesso interesse, di non farli valere che indirettamente. Adesso egli li ridomanda. - Oh glieli dia, che quell'uomo feroce cessi una volta di perseguitarmi. - No, li conserveremo fino a che tu abbia raggiunta la età maggiore. Allora tu sarai in grado di giudicare la nostra condotta e potrai o continuarla o ripararla. - So bene fin d'ora che lei ha agito sempre per il mio bene. Io non posso che ringraziarla lei e anche la zia ... ma da quell'uomo non voglio più accettar nulla, è tempo che io mi guadagni il mio pane. Mi vergogno di aver mangiato quello del signor Angelo .... - Oh quanto a lui, saltò su a dire la Mansueta ch'era presente, quanto a lui, ha fatto il peccato è giusto che faccia la penitenza. - Mansueta, l'interruppe don Luigi in tono di dolce rimprovero. - Aminta, soggiunse poi, i tuoi sentimenti sono onesti, e se, quando tu sarai padrone dei tuoi atti, la penserai ancora a quel modo, non sarò io a disapprovarti. Mentre eravamo in questi discorsi tornò il signor Bazzetta ad annunziare con gravità piena di mistero che il Sindaco era su tutte le furie, che pretendeva la restituzione di quei documenti e faceva, per il caso di rifiuto, i più grandi spergiuri di vendetta. Il curato, quella mite creatura, tutta indulgenza e dolcezza, fu irremovibile. - Voi sapete di che cosa è capace quell'uomo. osservò lo speziale. Don Luigi disse soltanto: - Fategli sapere che non lo temiamo. Egli non può farci altro male che quello che il Signore permetterà. E il signor Bazzetta dovette rassegnarsi ad uscire senza aver cavato della sua seconda ambasciata, maggior frutto che della prima.

Se non ora quando

680420
Levi, Primo 2 occorrenze

Poi si rimisero in cammino abbandonando la strada, e tirandosi dietro il cavallo, pigro e restio, e per di più ingombrante per il carico mal disposto, che si impigliava continuamente nei rami bassi. Camminarono a lungo in silenzio, poi Leonid disse: _ Io non so che cosa voglio, ma so di non saperlo. Anche tu non sai cosa vuoi, e invece credi di saperlo. Mendel, che era davanti e tirava il cavallo per la cavezza, non si voltò e non rispose, ma poco dopo Leonid lo attaccò nuovamente: _ Al tuo paese non c' era il cinematografo. Neppure cavalli c' erano? _ C' erano, ma io non ho mai dovuto occuparmene. Facevo un altro mestiere. _ Facevo anch' io un altro mestiere, ma un cavallo come quello non porta un carico così, o non lo porta a lungo. Lo vedrebbe chiunque. C' era poco da obiettare, e del resto era ormai troppo chiaro per proseguire. Si fermarono nel folto presso un ruscello, abbeverarono il cavallo, lo legarono a un tronco, gli diedero l' erba da mangiare e si addormentarono. Quando si svegliarono, a metà pomeriggio, il fagotto era finito, il cavallo aveva brucato i pochi arbusti che si trovavano alla sua portata, e tirava sulla corda per arrivare un po' più lontano; doveva proprio avere una gran fame. Peccato che i sacchi contenessero farina e non biada: provarono a mettergli davanti un po' di farina, ma la bestia si impiastricciò il muso fino agli occhi e poi cominciò a tossire minacciando di soffocare. Dovettero lavarle la bocca e le froge nel ruscello, poi si rimisero in cammino. Si sentiva nell' aria un odore nuovo, fresco e dolciastro: le paludi non dovevano essere lontane. A mezza giornata di cammino da Nivnoe si imbatterono in una contadina anziana e decisero di attaccare discorso. Il cavallo? La donna lo considerò con occhio esperto: _ Eh, povera bestia. Non vale certo molto, è vecchio, stanco, ha fame, e mi sembra anche ammalato. Per la farina è un altro discorso, ma io offerte non ne posso fare perché non ho niente da offrire. Non doveva essere una sciocca. Squadrò i due con occhio altrettanto esperto; quindi, come in risposta a una domanda sottintesa, aggiunse: _ Non abbiate paura, ce n' è tanti come voi da queste parti. Forse anche troppi, ma i tedeschi qui sono pochi e poco pericolosi. Quanto al cavallo e alla farina, ve l' ho detto, io non ho niente da darvi, ma ne posso parlare con l' anziano del paese: sempre che siate d' accordo. Mendel aveva fretta di liberarsi dell' animale; a loro serviva poco o niente, ed anzi, sembrava che con la sua sola presenza stimolasse il malumore di Leonid, il suo spirito critico e la sua voglia di litigare. Si consultò brevemente con lui. No, niente intermediari, era chiaro che la donna avrebbe cercato di fare la sua cresta sull' affare, grossa o piccola. Ma entrambi provavano diffidenza ad entrare nell' abitato. _ Va bene, _ disse Mendel. _ Vedi di combinarci un appuntamento con questo anziano, a metà strada, in qualche luogo appartato: è possibile? _ Era possibile, disse la donna. L' anziano arrivò puntuale, al tramonto, in un capanno che la contadina aveva indicato. Era sulla sessantina, di poche parole, canuto e solido. Sì, lui, o per meglio dire il villaggio, era solvibile: avevano uova, lardo, sale e mele, ma il cavallo valeva poco _ Non c' è solo il cavallo, _ disse Mendel. _ C' è anche un carretto e sei sacchi di farina; due qui e altri quattro nascosti poco lontano insieme col carretto. _ L' affare non è chiaro, _ disse l' anziano: _ Il cavallo e due sacchi si vedono, ma quanto valgono un carro e quattro sacchi che sono nascosti nel bosco, e tu non sai dove, e non sai neppure bene se esistono? Quanto vale un tesoro sulla luna? Leonid fece un passo avanti e intervenne con durezza: _ Valgono quanto vale la nostra parola e la nostra faccia, e se tu non .... L' anziano lo guardò senza perdere la calma; Mendel posò la mano sulla spalla di Leonid e si interpose: _ Fra persone ragionevoli si finisce sempre con l' intendersi. Vedi, la merce è vicina alla strada, presto o tardi qualcuno la troverà, se la porterà via gratis e sarà un danno per noi e per voi; e se ricomincerà a piovere, la farina non resisterà molto tempo. E noi siamo di passaggio; abbiamo fretta di proseguire. L' anziano aveva occhi piccoli e scaltri. Li puntò successivamente sul cavallo, sui sacchi e su Mendel, e disse: _ È brutto avere fretta e dovere andare piano. Se tenete il cavallo, andrete piano come lui. Se lo vendete, e non vendete i due sacchi, con mezzo quintale ciascuno sulle spalle non andrete né in fretta né lontano: tutt' al più andrete a contrattare con qualcun altro. Non avete molte scelte. Mendel colse uno sguardo di Leonid, rapido ma carico di gioia maligna: era la rivincita della sconfitta agli scacchi. Gli argomenti dell' anziano erano forti, e lui avrebbe fatto meglio a non parlare della loro fretta. Non c' era che ripiegare: _ Va bene, vecchio. Veniamo al concreto. Quanto offri per quello che vedi? Per un quintale di farina e il cavallo? Il vecchio si grattò la testa spostando il berretto sugli occhi: _ Uhm, del cavallo è meglio non parlare. Non vale niente, nemmeno come carne da macello. Forse solo la pelle, se conciata a dovere. Quanto alla farina, non si sa da dove viene: non me l' avete detto, potreste anche dirmelo, e io potrei crederci o no; chi fa commercio ha il diritto di dire bugie. Può essere russa o tedesca, comprata o rubata. Io non voglio saperne nulla, e vi offro in cambio otto chili di lardo e una treccia di tabacco, prendere o lasciare; è roba che non pesa troppo, ve la potete portare dietro senza fatica. _ Facciamo dieci, _ disse Mendel. _ Dieci chili, ma allora senza tabacco. _ Dieci chili, e il tabacco per la pelle del cavallo. _ Nove chili e il tabacco, _ disse il vecchio. _ Va bene. E quanto offri per la roba che non si vede? Due quintali di farina e il carro? Il vecchio spinse il berretto ancora più basso: _ Non offro niente. La roba che non si vede è come se non ci fosse. Se c' è, la troviamo anche se tu non dici dov' è; e se anche lo dici, e dici la verità, magari andiamo e non troviamo più niente. C' è tanta gente in giro per la foresta; e non solo gente, anche volpi, topi, corvi: lo hai detto tu stesso, che qualcuno la può trovare. Se ti facessi un' offerta, al villaggio mi riderebbero dietro. Mendel ebbe un' idea: _ Ti faccio una proposta: una notizia contro un' altra notizia, roba che non si vede contro altra roba che non si vede. Noi ti diciamo dov' è il carro e tu ci dici ... insomma, per strada abbiamo colto certe voci, che a Nivnoe, o vicino a Nivnoe, o nelle paludi, c' è o c' è stata certa gente .... Il vecchio rialzò la visiera del berretto e guardò Mendel fisso negli occhi, cosa che non aveva ancora fatta fino a quel momento. Mendel insistette: _ È un buon affare, no? Non ti costa niente: è come se il carro e la farina te li regalassimo; perché ci sono proprio, non ti stiamo imbrogliando, parola di soldato. Con sorpresa di Mendel e Leonid, l' anziano si fece più sciolto, quasi loquace. Sì, un gruppo c' era, c' era stato: una banda. Cinquanta uomini, o forse anche cento, del luogo e non del luogo. Alcuni, una mezza dozzina, erano ragazzi del suo villaggio: meglio darsi alla macchia che finire in Germania, non è vero? Armati, sì, e anche in gamba, delle volte un po' troppo. Ma erano partiti, da pochi giorni, con le armi, i bagagli e qualche bestia. Che fossero partiti era meglio per tutti. Verso dove? No, questo lui non lo sapeva con certezza, non aveva visto niente; qualcuno però li aveva visti in cammino, e sembrava che marciassero in direzione di Gomel o di Zlobin. Se loro due prendevano il sentiero di Zurbin, era una scorciatoia; forse avrebbero potuto raggiungerli. Se ne andò, tornò dopo mezz' ora con il lardo, il tabacco e una stadera, affinché i due potessero controllare che il peso era giusto. A controllo ultimato, Mendel gli spiegò con precisione dove era nascosto il carro. Inaspettatamente, il vecchio cavò dalla bisaccia una dozzina di uova sode: disse che era un di più, un regalo che faceva loro, perché erano persone simpatiche; ed anche un indennizzo, perché sarebbe stato suo dovere d' ospitalità offrire loro da dormire, ma il consiglio del villaggio si era opposto. Li guidò fino al sentiero e si congedò, tirandosi dietro il cavallo con i due sacchi. _ Se non ci avesse riconosciuti per ebrei, stanotte avremmo dormito in un letto, _ borbottò Leonid. _ Può darsi, ma anche se ce l' avesse offerto, è da vedere se avremmo fatto bene a accettare. Non sappiamo niente di questo villaggio, che gente ci vive, cosa pensano, se hanno solo paura o se lavorano per i tedeschi. Non so, è solo un' impressione, ma mi sarei fidato di più della vecchietta che di questo anziano: più che un amico mi è parso un mezzo amico. Aveva fretta di liberarsi di noi; per questo ci ha dato le uova e ci ha insegnato la strada. E del resto, ormai abbiamo preso una decisione, non è vero? _ Quale decisione? _ domandò Leonid ostile. _ Di raggiungere la banda, no? _ È una decisione che hai preso tu. Non mi hai chiesto niente. _ Non c' era bisogno di chiedere. Sono giorni che se ne parla, e tu sei sempre stato zitto. _ E adesso non sto più zitto. Se vuoi andare con la banda, ci vai da solo. Io di guerra ne ho abbastanza. Tu hai le armi e io ho il lardo: a me va bene così. Me ne torno al villaggio, e un letto lo trovo, e non per una notte sola. Mendel si voltò e si fermò di netto. Non era preparato a far fronte alla collera; tanto meno alla collera di un debole, e in Leonid sentiva un debole. Neppure era preparato all' uragano di parole che Leonid, fino allora così silenzioso, gli soffiava sulla faccia. _ Basta: basta! Ti ho incontrato nel bosco, ma non ti ho sposato. Ho creduto che tu ne avessi abbastanza quanto me: mi sono sbagliato, pazienza. Ma per me basta, non faccio un passo di più. Vacci tu nelle paludi: hai avuto paura a dormire nel villaggio, e adesso mi vuoi portare con gente che non sai neppure che lingua parlino, e se ci vogliano con loro, e da dove vengano e dove vadano. Io sono di Mosca, ma le braccia le ho buone, e la testa anche; di fame non muoio piuttosto vado a lavorare in un kolchoz, o nelle fabbriche dei tedeschi. Non faccio più un passo e non sparo più un colpo, mai più. Non è giusto, non è giusto che uno .... E poi neanche tu sai quello che vuoi: te l' ho già detto, credi di saperlo e non lo sai. Fai l' eroe, ma anche tu vuoi quello che voglio io, una casa, un letto, una donna, una vita che abbia un senso, una famiglia, un paese che sia il tuo paese. Vuoi andare coi partigiani, credi di volerlo, ma non sai quello che vuoi e quello che fai, me ne sono accorto con la faccenda del cavallo. Sei uno che racconta bugie a se stesso. Sei uno come me. Sei un nebech, un disgraziato e un meschugge _. Leonid si piegò lentamente su se stesso e si sedette a terra, come se avesse sputato l' anima e non avesse più la forza di reggersi sulle gambe. Mendel era rimasto in piedi, più incuriosito e sorpreso che incollerito. Si accorse che aspettava quello sfogo da parecchio tempo. Lasciò a Leonid il tempo di calmarsi un poco, poi sedette accanto a lui. Gli toccò la spalla, ma il ragazzo si ritrasse di scatto come se lo avesse toccato un ferro rovente. Nebech è un uomo dappoco, inerme, inutile, da commiserarsi, un quasi-non-uomo, e meschugge significa matto, ma Mendel non si sentiva offeso, né tanto meno in vena di restituire l' offesa. Si stava invece domandando perché Leonid, la cui lingua madre era il russo, si fosse servito del jiddisch, che parlava con stento, in quella occasione: ma il jiddisch, tutti lo sanno, è un immenso serbatoio di insolenze pittoresche, ridicole o sanguinose, ognuna con la sua sfumatura specifica: poteva essere una spiegazione. "Un ebreo ti dà un pugno sul naso e poi grida aiuto", pensò, ma non enunciò il proverbio ad alta voce. Disse invece, con una voce così calma che ne stupì lui stesso: _ Si capisce: neanche per me è una scelta facile, ma credo che sia la migliore. Un uomo deve pesare bene le sue scelte _. Ed aggiunse con intenzione: _ ... e anche le sue parole _. Leonid non rispose. Era ormai quasi buio; Mendel avrebbe preferito camminare di notte, ma quel sentiero era disagevole e mal segnato. Propose di bivaccare sul posto, dal momento che la sera era tiepida e la notte corta; Leonid accettò con un cenno del capo. Si avvolsero nelle coperte, e Mendel era già quasi addormentato quando Leonid, come se continuasse un discorso iniziato da tempo, prese a un tratto a dire: _ Mio padre era ebreo, ma non era credente. Era nelle ferrovie, poi è stato accettato nel Partito. Ha fatto la guerra del '20 contro i bianchi. E poi mi ha messo al mondo, e poi lo hanno mandato in prigione, e poi alle isole Solovki, e non è più tornato. Ecco come stanno le cose. Era già stato nelle prigioni dello Zar, prima che io nascessi, ma da quelle era tornato. Lo hanno mandato alle Solovki perché dicevano che aveva sabotato la ferrovia: che se i treni non partivano era colpa sua. Ecco. Detto questo, Leonid si girò sull' altro fianco voltando la schiena a Mendel, come se l' argomento fosse concluso. Mendel pensò che quella era una strana maniera di scusarsi, e subito dopo convenne con se stesso che era tuttavia una maniera di scusarsi. Lasciò passare qualche minuto, e poi chiese timidamente a Leonid: _ E tua madre? _ Leonid grugnì: _ Adesso lasciami stare. Per favore lasciami stare. Per questa volta basta _. Tacque e non si mosse più, ma Mendel si accorse bene che non dormiva: fingeva soltanto. Insistere perché continuasse era inutile, anzi nocivo; come raccogliere un fungo appena spuntato. Gli si impedisce di crescere, e non si porta a casa niente. Camminarono per due settimane, a volte di giorno, a volte di notte, con la pioggia e col sole. Leonid non parlò più, né per raccontare né per dissentire: accettava cupo le decisioni di Mendel, come un servo svogliato. Incontrarono poca gente, un villaggio bruciato, e tracce sempre più abbondanti della banda che li precedeva: ceneri dei fuochi di bivacco ai margini della pista, orme nel fango essiccato, avanzi di cucina, qualche coccio e qualche straccio; quella gente non prendeva molte precauzioni per non farsi notare. Sul luogo di una sosta notarono addirittura un albero tempestato di pallottole: qualcuno si doveva essere esercitato al tiro al bersaglio, forse avevano fatto una gara. Raramente furono costretti a domandare indicazioni alla gente del luogo; sì, erano passati di lì, diretti dalla tale parte. Sbandati, o disertori, o partigiani, o banditi, a seconda dei punti di vista; comunque, ed a parere di tutti, gente che faceva la sua strada senza dare troppi fastidi né pretendere troppo dai contadini. Li raggiunsero una sera: li videro e li sentirono quasi allo stesso tempo. Mendel e Leonid si trovavano sulla sommità di una collina: videro le anse pigre di un grande fiume, senza dubbio il Dnepr, e poco lontano dalla sponda, a tre o quattro chilometri da loro, brillava un fuoco. Iniziarono la discesa, ed udirono spari, disordinati, di fucile e di pistola; videro lampi rossi, seguiti dai colpi più sordi delle granate a mano. Un combattimento? E contro chi? E allora perché il fuoco? O una lite, una rissa fra due fazioni? Ma in una pausa fra gli spari distinsero il suono di una fisarmonica e grida e richiami allegri: non era una battaglia ma una festa. Si avvicinarono cautamente. Non c' erano sentinelle, nessuno li fermò. Intorno al fuoco c' era una trentina di uomini barbuti, giovani e meno giovani, vestiti in molti modi diversi, vistosamente armati. La fisarmonica suonava una canzone dal ritmo alacre, alcuni lo accompagnavano battendo le mani, altri ballavano con furia, con tutte le armi addosso, piroettando sui tacchi, in piedi e accovacciati. Qualcuno doveva averli visti; una voce impastata ma tonante gridò assurdamente: _ Siete tedeschi? _ Siamo russi, _ risposero i due. _ Allora venite. Mangiate, bevete e ballate! La guerra è finita! _ Seguì, in funzione di punto esclamativo, una lunga raffica di parabellum, sgranata contro il cielo arrossato dal fuoco e dal fumo. La stessa voce, improvvisamente incollerita e rivolta nella direzione opposta, riprese: _ Stiooopka, cretino, figlio d' un corvo, porta bottiglie e gavette, non lo vedi che abbiamo ospiti? Era oramai scuro, ma si intravedeva che l' accampamento, assai sommario, si condensava intorno a tre centri: il fuoco, attorno a cui era un andirivieni chiassoso di uomini in festa; una grossa tenda, davanti alla quale dormicchiavano due cavalli legati a due cavicchi; più in disparte, tre o quattro giovani silenziosi che armeggiavano intorno a qualche cosa. L' uomo dalla voce tonante venne loro incontro tenendo in mano una bottiglia di vodka. Era un giovane colosso biondo, con i capelli tagliati a spazzola e con la barba arricciata che gli arrivava fino a mezzo il petto. Aveva un bel viso ovale dai tratti regolari eppure fortemente segnati, ed era ubriaco al punto che stentava a reggersi in piedi: sull' uniforme dell' Armata Rossa che indossava non portava gradi. _ Alla vostra salute, _ disse, bevendo un sorso dal collo della bottiglia. _ Salute a voi, chiunque siate _. Poi porse la vodka ai due, che bevvero e restituirono il brindisi. _ Stiopka, scemo, lumacone, arrivi con questa zuppa? _ Poi continuò, rivolgendosi a loro con un sorriso radioso e candido: _ Bisogna perdonarlo, forse ha bevuto un po' troppo, ma è un bravo compagno. Anche coraggioso, tenuto conto che è un cuoco; ma svelto no, eh no, non è tanto svelto. Oh, eccolo qui. Speriamo che la zuppa non si sia freddata per strada. Su, mangiate, poi andiamo a sentire se ci sono altre notizie. Contrariamente all' opinione del colosso, Stiopka non appariva né tanto lento né tanto sciocco. _ No, Venjamìn Ivanovic, non si riesce proprio. Hanno provato un po' tutti, a turno, ma la voce è sempre più debole. Non si capisce più niente, si sentono solo le scariche. _ Sono dei buoni a nulla, che li porti via il diavolo! Proprio oggi dovevano guastarla! Giudicate voi stessi: la guerra finisce, da un momento all' altro deve venire fuori Stalin a dire che andiamo tutti a casa, e questi figli di puttana mandano la radio kaputt .... Ma come, voi non sapete niente? Gli americani sono sbarcati in Italia, noi abbiamo ripreso Kursk, e Mussolini è in prigione. È in prigione, sì, come un merlo in gabbia; lo ha messo in prigione il re. Su, compagni, bevete ancora una volta: alla pace! Leonid bevve, Mendel fece mostra di bere, poi seguirono Venjamìn al posto radio. _ È proprio la radio dell' usbeco! _ disse a Leonid Mendel, che alla luce delle lanterne aveva visto le targhette dell' apparecchio: _ Ma è chiaro che con batterie come queste non poteva andare avanti tanto tempo. È già un miracolo che abbia durato fino adesso _. Mendel riuscì ad interporsi fra Venjamìn, che continuava a tempestare improperi e futili minacce, e i tre ragazzi addetti alla ricezione. Ne nacque un' arruffata discussione tecnica che si trascinò per parecchi minuti, spesso interrotta dalle intemperanze di Venjamìn e di altri barbuti che erano venuti a curiosare e a dire il loro parere. _ Di radio, io ne capisco poco, ma questi non ne capiscono proprio niente, _ borbottò Mendel a Leonid. Alla fine prese corpo la proposta di provare a sostituire l' elettrolita delle batterie con acqua e sale. Venjamìn la fece subito sua, convocò Stiopka , diede ordini confusi: venne l' acqua e il sale, l' operazione fu compiuta fra visi intenti, in un' atmosfera di attesa religiosa, e le batterie furono nuovamente connesse, ma la radio diffuse soltanto una stupida musichetta per pochi secondi e poi ammutolì definitivamente. Venjamìn era diventato di cattivo umore e se la prendeva con tutti. Si rivolse a Leonid, come se lo vedesse per la prima volta: _ E voi due, da dove saltate fuori? Russi? Proprio russi non sembrate; ma oggi ci passiamo su, anche se avete sfasciato la radio, perché oggi è un giorno di festa _. Mendel disse a Leonid: _ Vedremo domani, quando gli sarà passata la sbornia, ma mi pare che non si metta tanto bene. Furono svegliati l' indomani dai rumori pacifici del campo. I cavalli stavano pascolando sulla riva del fiume, uomini nudi si lavavano o diguazzavano nell' acqua bassa, altri si rammendavano i panni o facevano il bucato, altri ancora stavano sdraiati al sole, e nessuno sembrava curarsi di loro due. Erano in maggior parte russi, ma si sentivano anche grida e canti in lingue che Mendel non riuscì a individuare. A mattina avanzata venne Stiopka a cercarli: _ Mi vorreste aiutare? C' è un malato, là dentro la tenda; si lamenta, ha la febbre, e io non so che cosa fare. Volete venire con me? _ Ma noi non siamo medici ... _ obiettò Leonid. _ Neanch' io sono medico, e neppure infermiere, ma sono il più anziano della banda; e poi ho perso le armi quando abbiamo fatto l' assalto alla stazione di Klintsy, e allora mi fanno fare un po' di tutto, ma in battaglia non mi mandano più. Faccio anche la guida, perché questi posti li conosco bene, meglio di tutti, meglio di Venja stesso; facevo già la guida nel 191., per i partigiani rossi, proprio da queste parti, e non c' è sentiero, guado o strada che io non abbia percorso dozzine di volte. Insomma, mi dànno anche da curare i malati, e voi mi dovreste aiutare: ha la febbre, e la pancia dura come una tavola di legno. Mendel disse: _ Non capisco perché insisti proprio con noi. Io non me ne intendo più di un altro. Stiopka fece una faccia imbarazzata: _ È perché ... dicono che voialtri, fin dai secoli lontani, siate bravi a .... _ Noialtri non siamo diversi da voi. I nostri medici sono bravi quanto i vostri, non più e non meno, e un ebreo che non sia medico, e curi un malato, rischia di farlo morire tanto quanto un cristiano. Tutto quello che ti posso dire, è che io sono un artigliere, e di gente con la pancia aperta ne ho vista anche troppa, dopo i bombardamenti, e chi ha la pancia aperta non deve bere: ma questa è un' altra storia. Leonid intervenne: _ Mi pare che il vostro capo sia un tipo in gamba: perché non lasci fare a lui? Ci sarà pure un paese o un villaggio nelle vicinanze; il malato portatelo là, starà certo meglio che qui nel campo, e un medico finirà col trovarsi. Stiopka scosse le spalle: _ Venjamìn Ivanovic è in gamba per altre cose. È coraggioso come un demonio, sa molti trucchi e altri li inventa, sa farsi rispettare e anche temere, non è mai sfiduciato, ed è forte come un orso: ma è bravo solo per la battaglia. E poi gli piace bere, e quando beve cambia umore da un momento all' altro. Seguirono Stiopka al giaciglio del malato, per non scontentarlo. Era un tartaro che aveva disertato dalla polizia tedesca, e ancora ne vestiva la divisa. A Mendel non parve tanto grave: aveva bensì il ventre un po' teso, ma non provava dolore alla palpazione, ed anche la febbre non doveva essere molto alta. Il suo stato di nutrizione era buono; Mendel cercò di rassicurare Stiopka, gli consigliò di tenerlo a digiuno per un giorno e di non dargli medicine. _ Nessun pericolo, _ disse Stiopka, _ medicine non ce n' è. Avevamo un po' di aspirina ma l' abbiamo finita. Uscendo dalla tenda si imbatterono in Venjamìn. Era irriconoscibile: non era più né l' ospite facilone, ubriaco di vodka e di vittoria, né il grosso bambino deluso per la radio guasta. Era un esemplare umano temibile, un giovane guerriero dalle movenze pronte e precise, dal viso intelligente e dallo sguardo intenso ma illeggibile. _ Un' aquila, _ pensò Mendel fra sé, _ bisognerà stare in guardia. _ Venite con me, _ disse Venjamìn con autorità tranquilla. Si appartò con loro in un angolo della tenda, e chiese loro chi fossero, da dove venissero e dove andassero; parlava con la voce sommessa e sicura di chi sa di essere obbedito. _ Io sono artigliere, questo è un paracadutista. Siamo dispersi, ci siamo trovati per caso nei boschi di Brjansk. Abbiamo avuto notizia di questa banda, vi abbiamo cercati e vi abbiamo raggiunti. _ Da chi avete avuto notizia? _ Dall' usbeco che ti ha venduto la radio. _ Perché ci avete inseguiti? Mendel esitò per un istante: _ Perché vorremmo entrare nella banda. _ Siete armati? _ Sì: un fucile mitragliatore, una pistola tedesca e un po' di munizioni. Senza cambiare tono, Venjamìn si rivolse a Leonid: _ E tu, perché non parli? Leonid rispose con imbarazzo che lasciava parlare Mendel perché era il più anziano, e perché le armi erano sue. _ Le armi non sono sue, _ disse Venjamìn: _ Le armi sono di tutti: le armi sono di chi le sa usare _. Tacque per un momento, come se aspettasse una reazione; ma anche Leonid e Mendel rimasero silenziosi. Poi riprese: _ Perché volete venire in banda? Rispondete separatamente. Tu? Leonid, preso alla sprovvista, si sentiva la lingua legata. Aveva l' impressione di essere retrocesso alle interrogazioni scolastiche; peggio ancora, all' interrogatorio umiliante che aveva subito quando lo avevano arrestato e rinchiuso alla Lubjanka. Mormorò qualcosa sui doveri del soldato e sul desiderio di riabilitarsi dalla condizione di disperso. _ Tu sei stato prigioniero dei tedeschi, _ disse Venjamìn. _ Come lo sai? _ intervenne Mendel sorpreso. _ Le domande le faccio io. Ma glielo si vede in faccia. E tu, artigliere: perché vuoi venire con noi? Mendel si sentiva pesato come su una bilancia, e irritato di essere pesato. Rispose: _ Perché sono disperso da un anno. Perché sono stanco di vivere come un lupo. Perché ho un conto mio da saldare. Perché credo che la nostra guerra sia giusta. La voce di Venjamìn si fece ancora più sommessa: _ Ci avete trovati ieri in un giorno strano, bello e brutto. Un giorno bello, perché la notizia che avete sentita è vera, la radio l' ha ripetuta due volte, Mussolini è caduto. Ma non è detto che la guerra finirà presto; ieri sera ce lo siamo gridati nelle orecchie l' uno con l' altro, ciascuno convinceva gli altri, e ciascuno era pronto a farsi convincere, perché la speranza è contagiosa come il colera. Ieri sera eravamo in vacanza, ma noi i tedeschi li conosciamo: stanotte ci ho ripensato, e credo che la guerra durerà ancora a lungo. E ieri è stato anche un giorno brutto perché la radio si è guastata. È più grave di quanto voi pensiate: una banda senza radio è una banda orfana, sorda e muta. Senza la radio noi non sappiamo dov' è il fronte, e a Mosca non sanno dove siamo noi, e non possiamo chiamare gli aerei per i lanci: tutto viene attraverso la radio, le medicine, il grano, le armi, perfino la vodka. Con le notizie della radio arriva anche il coraggio. E siccome senza grano non si vive, quando manca bisogna prenderlo ai contadini, così una banda senza radio diventa una banda di banditi. Queste cose è bene che voi le sappiate, e che ci pensiate sopra prima di decidere. Ed è bene che sappiate anche qualche altra cosa. Che otto mesi fa eravamo cento, e adesso siamo meno di quaranta. Che nella nostra guerra non c' è mai un giorno uguale a un altro: si è un po' ricchi e un po' poveri, un giorno sazi e un giorno affamati. E che non è una guerra per chi ha i nervi deboli: veniamo di lontano e andiamo lontano, e i deboli sono morti o se ne sono andati. Pensateci sopra; e prima di darvi una risposta ci penserò sopra anch' io. Si udì uno squillo metallico. La zuppa di mezzogiorno era pronta, e Stiopka aveva suonato l' adunata battendo con un sasso contro un pezzo di rotaia appeso a un ramo. Tutti si misero in fila davanti alla marmitta, anche Venja, Mendel e Leonid, e Stiopka fece la distribuzione. Quasi tutti avevano finito di mangiare, e molti si erano già stesi al sole a fumare, quando dalla sponda venne una voce che gridava: _ Arrivano tronchi! _ Arrivavano, infatti, navigando lenti sul filo della corrente: grossi tronchi senza rami, sparsi, alla spicciolata. Venjamìn si avvicinò all' acqua e si fece attento. Domandò a Stiopka: _ Da dove vengono? _ Di solito vengono dal molo di Smolensk, trecento chilometri più a monte; si è sempre fatto così, costa meno che mandarli per ferrovia. Vanno giù in Ucraina, per armare le miniere. _ Si è sempre fatto così, ma adesso le miniere lavorano per i tedeschi, _ disse Venjamìn fregandosi il mento. In quel momento, alla svolta del fiume, apparve qualcosa di più grosso: era un convoglio di zattere legate in fila fra loro, forse una decina, che comparivano una dopo l' altra da dietro una lingua di terra boscosa. _ Bisogna acchiapparle, _ disse Venjamìn. _ È un mestiere che io non ho mai fatto, ma l' ho visto fare, _ disse Stiopka: _ Più giù, a un chilometro, c' è un ramo morto; se facciamo svelti, arriviamo in tempo. Ma ci vogliono degli spuntoni. In un attimo Venja fu padrone della situazione. Lasciò dieci uomini di guardia al campo, mandò altri dieci con le scuri ad abbattere e diramare alberelli, e scese rapidamente lungo la riva con quelli che rimanevano, fra cui Leonid e Mendel. Arrivarono al ramo morto prima del legname, e poco dopo giunsero i dieci con gli spuntoni, ma il convoglio era già in vista. _ Presto, chi è il più bravo a nuotare? Tu, Volodia! _ Ma Volodia, fosse un vero impedimento o cattiva volontà, non riuscì a liberarsi in tempo degli stivali: stava accoccolato a terra tutto contorto, congestionato in viso dallo sforzo, e Venja si spazientì. _ Buono a nulla, fannullone! Su, dammi quel legno _. In un attimo fu scalzo e nudo. Un po' a guado, un po' nuotando con una mano sola, attraversò l' acqua morta, ma quando ebbe raggiunto la punta erbosa che separava i due rami del fiume, il convoglio di zattere la stava già sorpassando. Lo si udì bestemmiare e lo si vide riimmergersi nella corrente; altri uomini lo seguirono con altri spuntoni. Nuotò veloce incontro alle zattere, perse le prime, riuscì a salire sull' ultima, e subito manovrò con la pertica in modo da deviarla sulla punta erbosa, dove si arenò nella melma: ma si vide subito che non vi sarebbe rimasta a lungo, le altre zattere, trascinate mollemente dalla corrente, tiravano sull' ormeggio, e un solo uomo non avrebbe potuto resistere. Senza fiato, Venja gridò agli uomini di salire ciascuno su una delle zattere; puntando forte ciascuno con la sua pertica sul fondo fangoso, riuscirono ad allontanare il convoglio dalla sponda, a risalire la corrente, ad aggirare la punta, ed a spingere trionfalmente il legname nell' acqua ferma del ramo morto. _ Va bene così, _ disse Venjamìn rivestendosi, _ vedremo, magari lo tireremo poi a riva e gli daremo fuoco; basta che non vada alle miniere. Torniamo al campo. Nella breve marcia di ritorno, Mendel gli si affiancò e si complimentò con lui. _ Lo so bene, per i tedeschi non è stato un gran danno _, rispose Venjamìn. _ Ma per gente come questa, non c' è niente di peggio che l' inazione. E niente di meglio che l' esempio. Asciugatevi, voi due, e poi venite da me alla tenda. Nella tenda, Venjamìn entrò subito in argomento: _ Ci ho pensato sopra, e non è facile. Vedete, a modo nostro noi siamo degli specialisti: conosciamo questa zona, siamo allenati. Avervi con noi sarebbe una responsabilità. Ammetto che voi siate buoni combattenti; noi, vedete, più che combattenti siamo gente di retroguardia, siamo guastatori, diversionisti. Ognuno di noi ha i suoi compiti, che non si imparano in pochi giorni. E poi .... _ Stamattina non parlavi così, _ disse Mendel. Venja abbassò gli occhi. _ No, non parlavo così. Ecco, io non ho niente contro di voi; ho avuto amici ebrei fin da bambino, altri li ho avuti come compagni a Voronez, al centro di addestramento, e so che siete gente come tutti gli altri, né meglio né peggio, anzi, forse anche un po' più .... _ A me basta così, _ disse Leonid. _ Se non ci vuoi ce ne andiamo, e sarà meglio per tutti. Non ci metteremo in ginocchio per .... Mendel lo interruppe: _ Io però voglio sapere da te che cosa è accaduto fra questa mattina e adesso. _ Niente. Non è accaduto niente, nessun fatto. È solo successo che ho sentito gente parlare, e che .... _ Siamo soldati, tu e io. Portiamo la stessa divisa, e io voglio sapere da te chi ha parlato e che cosa è stato detto. _ Non ti dirò chi ha parlato: non ha parlato uno solo. Per me, io vi accetterei, ma non posso impedire ai miei uomini di parlare; e non so se avreste le spalle sicure. Qui c' è gente di diverse idee, e svelta di mano. Mendel insistette: voleva sapere, parola per parola, quello che Venjamìn aveva sentito, e Venjamìn glielo ripeté, col viso di chi sputa un boccone di cibo guasto: _ Dicono che a loro gli ebrei piacciono poco, e ancora meno quando sono armati. Intervenne Leonid: _ Noi ce ne andiamo, e tu dirai a quei tuoi uomini che a Varsavia, in aprile, gli ebrei armati hanno resistito ai tedeschi più a lungo dell' Armata Rossa nel '41. E non erano neppure bene armati, e avevano fame, e combattevano in mezzo ai morti, e non avevano alleati. _ Come sai queste cose? _ chiese Venjamìn. _ Varsavia non è così lontana, e le notizie corrono anche senza la radio. Venjamìn uscì dalla tenda, parlò sottovoce con Stiopka e con Volodja, poi rientrò e disse: _ Le armi ve le dovrei togliere, e invece non ve le tolgo. Avete visto chi siamo e dove siamo, non vi dovrei lasciare partire, e invece vi lascio partire: un giorno con noi è stato poco, ma forse quello che avete visto vi servirà. Partite, tenete gli occhi aperti, e andate a Novoselki. _ Perché a Novoselki? Dov' è Novoselki? _ Nell' ansa dello Ptic, centoventi chilometri a ponente, in mezzo alle paludi di Polessia. Pare che là ci sia un villaggio di ebrei armati, uomini e donne. Ce ne hanno parlato i guardaboschi, quelli girano dappertutto e sanno tutto, sono il nostro telegrafo e il nostro giornale. Forse là le vostre armi vi saranno utili. Con noi non potete restare. Mendel e Leonid si congedarono, attraversarono il Dnepr su una zattera fatta di quattro tronchi legati insieme, e ripresero la strada. Camminarono per dieci giorni. Il tempo si era guastato, pioveva spesso, ora in rovesci improvvisi, ore in uno spolverio fine e penetrante che era quasi una nebbia; i sentieri erano fangosi, e i boschi emanavano un odore pungente di funghi che faceva già presagire l' autunno. I viveri incominciavano a scarseggiare; dovettero fermarsi di notte presso le rade fattorie a disseppellire patate e barbabietole. Nel bosco c' erano mirtilli e fragole in abbondanza, ma dopo una o due ore di raccolta la fame cresceva invece di diminuire; la fame e l' irritazione di Leonid: _ Questa è roba buona per scolari in vacanza. Solletica lo stomaco invece di riempirlo. Mendel rimuginava tra sé le notizie apprese al campo di Venjamìn. Che peso potevano avere? Raccontate così, senza un commento, senza una valutazione globale, erano irritanti come i mirtilli, e lasciavano la mente altrettanto affamata. Mussolini in prigione, e il re ritornato al potere. Che cosa è un re? Una specie di Zar, bigotto e corrotto, una cosa di altri tempi, un personaggio di fiaba con alamari, pennacchio e spadino, arrogante e vile; invece questo re d' Italia doveva essere un alleato, un amico, dal momento che aveva fatto catturare Mussolini. Era un peccato che in Germania non ci fosse più il Kaiser, se no forse la guerra avrebbe potuto finire davvero, come diceva Venjamìn da ubriaco. Che in Italia fosse caduto il fascismo era certo una buona notizia, ma che importanza poteva avere? Era difficile farsene un' idea: negli articoli della Pravda l' Italia fascista era stata descritta volta a volta come un avversario pericoloso e infido, o come uno spregevole sciacallo nell' ombra della belva tedesca; di certo, i soldati italiani sul Don avevano resistito poco, erano male equipaggiati e male armati e non avevano voglia di combattere, questo lo sapevano tutti. Forse anche loro ne avevano abbastanza di Mussolini, e il re aveva seguito la volontà del popolo, ma in Germania non c' erano re, c' era solo Hitler: era meglio non farsi illusioni. Se un re è un personaggio da favola, un re d' Italia è due volte da favola, perché l' Italia stessa è favola. Era impossibile farsene un' immagine concreta. Come si può condensare nella stessa immagine il Vesuvio e le gondole, Pompei e la Fiat, il teatro della Scala e le caricature di Mussolini che si vedevano sul Krokodìl, quella specie di bandito da strada con la mascella da iena, il fez col fiocco, il pancione da capitalista e il coltello in mano? Eppure era stato proprio quel re che ... mah, impossibile capire. Mendel avrebbe dato un patrimonio per avere una radio, ma era un puro modo di dire: da barattare non avevano più niente, salvo il mitra e la pistola, e quelli era meglio tenerli. Chissà se c' erano ebrei in Italia. Se sì, dovevano essere ebrei strani: come puoi figurarti un ebreo in gondola o in cima al Vesuvio? Ma ci dovevano pure essere, ci sono ebrei perfino in India e in Cina, e non è detto che ci stiano male. È da vedere se avevano ragione i sionisti di Kiev e di Kharkov, che predicavano che gli ebrei stanno bene solo in Terra d' Israele, e che dovrebbero partire dall' Italia, dalla Russia, dall' India e dalla Cina e radunarsi tutti laggiù, a coltivare gli aranci, a imparare l' ebraico e a ballare la Hora tutti in cerchio. Forse per la stanchezza, forse per l' umidità, la cicatrice fra i capelli di Mendel aveva cominciato a prudere. Gli stivali di Leonid si erano scuciti, e i suoi piedi diguazzavano nell' acqua e nel fango. Mendel sentiva alle spalle la presenza negativa di Leonid, il peso del suo silenzio: lo impedivano nel cammino più del fango. Non era più solo il fango della pioggia, il fango fertile che viene dal cielo, e va accettato alla sua stagione: a mano a mano che avanzano verso ponente si imbattevano sempre più spesso in un fango diverso, permanente, padrone dei luoghi, che veniva dalla terra e non dal cielo. Il bosco si era diradato, si incontravano radure estese, ma senza traccia di opera umana. La terra non era più nera né argillosa, bensì di un pallore di cadavere; benché umida, era magra, sabbiosa, e sembrava gemere acqua dal suo stesso grembo. Pure non era sterile: alimentava aiuole di canne, piante succulente che Mendel non aveva mai visto, e vasti cuscini di arbusti dalle foglie appiccicose, proni a terra come se annoiati del cielo. Si affondava nel terreno, o nelle foglie marcite, fino al malleolo: Leonid si tolse gli stivali ormai inutili, e presto Mendel lo imitò; i suoi tenevano ancora bene, ma era peccato consumarli. Al settimo giorno di cammino divenne un problema trovare un lembo di terra asciutta per passare la notte, benché la pioggia fosse cessata. All' ottavo giorno si fece difficile anche mantenere la direzione: non avevano bussola, il cielo schiariva di rado, e il sentiero era interrotto sempre più spesso da specchi d' acqua poco profondi, che tuttavia li costringevano a deviazioni snervanti. Era acqua ferma, limpida, dall' odore di torba, su cui galleggiavano foglie spesse e rotonde, fiori carnosi e qualche nido di uccello. Vi cercarono invano le uova: non c' erano uova, solo frammenti di guscio e piume macerate. Trovarono invece rane, in abbondanza: rane adulte grosse un palmo, girini, e ghirlande vischiose di uova di rana. Ne catturarono diverse senza difficoltà, le arrostirono su stecchi e le mangiarono, Leonid con l' avidità ferina del ventenne affamato, Mendel stupito di percepire in sé la traccia della repulsione atavica per le carni vietate. _ Come in Egitto al tempo di Mosè, _ disse Mendel tanto per avviare un discorso. _ Ma non ho mai capito come potessero essere una piaga: gli egiziani avrebbero potuto mangiarle, come facciamo noi. _ Le rane erano una piaga? _ domandò Leonid masticando. _ La seconda piaga: Dàm, Tzefardéà; tzefardéà sono le rane. _ E qual era la prima? _ Dàm, il sangue, _ rispose Mendel. _ Il sangue lo abbiamo avuto, _ disse Leonid sopra pensiero. _ E le altre? quelle che vengono dopo? Per aiutare la memoria, Mendel prese a canticchiare la filastrocca che si recita a Pasqua per divertire i bambini: "dàm, tzefardéà , kinìm, 'arov ..."; poi tradusse in russo: sangue, rane, pidocchi, belve, scabbia, peste, grandine, cavallette .... Ma si interruppe prima di finire l' elenco per chiedere a Leonid: _ Tu, da bambino, non hai mai fatto Pasqua? Si pentì subito della domanda. Pur senza smettere di mangiare, Leonid aveva distolto il viso da lui, e il suo sguardo si era fatto fisso e torvo. Dopo qualche minuto, con apparente incoerenza, disse: _ Quando hanno mandato mio padre alle Solovki, mia madre non lo ha aspettato. Non lo ha aspettato molto tempo. Mi ha messo in un orfanotrofio, è andata a vivere con un altro, e di me non si è più occupata. Mi veniva a trovare due o tre volte all' anno, con quell' altro. Era un ferroviere anche lui, e parlava sempre sottovoce. Forse aveva paura di finire anche lui alle isole; aveva paura di tutto. A quanto ne so, stanno ancora insieme. E io adesso ne ho abbastanza. Abbastanza di camminare verso non si sa dove. Abbastanza di sangue e di rane, e vorrei fermarmi, e vorrei morire. Mendel non rispose: si rendeva conto che il suo compagno non era di quelli che si guariscono con le parole; forse nessuno che avesse sulla schiena una storia come la sua sarebbe guarito a parole. Eppure si sentiva in debito verso di lui, in colpa, in mancanza, come se si vedesse qualcuno che annega in poca acqua e non chiama aiuto, e siccome non chiama aiuto lo si lasciasse affondare. Per aiutarlo, bisognava capirlo, per capirlo bisognava che lui parlasse, e lui non parlava che così, quattro parole e poi silenzio, con lo sguardo che sfuggiva il suo sguardo. Era pronto a ferire e pronto a essere ferito. Se lui Mendel avesse provato a forzare la mano? Poteva essere pericoloso: come quando si imbocca male una vite nel bullone e si sente la resistenza; se si sforza col cacciavite, il filetto si spana e la vite è da gettare. Se invece si ha pazienza e si ricomincia da capo, si avvita tutta senza fatica, e poi rimane ben salda. Ci vuole pazienza, anche per chi non ce l' ha. Specialmente per chi non ce l' ha. Per chi l' ha persa. Per chi non l' ha mai avuta. Per chi non ha mai avuto il tempo e l' argilla per costruirsela. Stava per rispondergli: "Se davvero vuoi morire, non ti mancherà l' occasione"; invece gli disse: _ Dormiamo. Almeno stasera abbiamo la pancia piena. Al nono giorno di cammino il sentiero era praticamente scomparso: lo si poteva riconoscere a tratti, sulle lingue di sabbia che correvano tortuose fra gli stagni, e questi si facevano sempre più ampi e confluivano fra loro. Il bosco si era ridotto a macchie isolate, e l' orizzonte che li circondava non era mai stato così vasto, in tutto il loro viaggio. Vasto e triste, intriso dell' intenso odore funereo dei giuncheti; sulle acque immobili si specchiavano nitide le nuvole rotonde, bianche, immobili nel cielo. Allo sciacquio dei passi dei due uomini qualche anitra si involava dai canneti schiamazzando, ma Mendel non volle sparare, per non sprecare colpi e per non segnalare la loro presenza. Si profilò un edificio di legno. Quando lo ebbero raggiunto, videro che era un mulino ad acqua, abbandonato e semidistrutto; la ruota a pale arrugginita pescava in un' acqua melmosa che si faceva strada in meandri attraverso le paludi. Doveva essere lo Ptic: Novoselki non poteva essere lontana. Dall' altra parte del fiume il terreno era più solido: si distingueva in lontananza una modesta altura rivestita di alberi scuri, querce od ontani. Trovarono una vecchia pista di boscaioli, invasa da rovi e foglie morte. Mendel si rimise gli stivali, Leonid rimase scalzo, con le sole pezze da piedi a protezione contro le spine. Dopo mezz' ora di cammino esclamò: _ Toh! vieni a vedere! _ Mendel si volse e gli vide in mano una bambola: una povera bamboletta rosa, nuda, mutilata di una gamba. La accostò al naso, e percepì un odore dell' infanzia, l' odore patetico della canfora, della celluloide; per un attimo, evocate con violenza brutale, le sue sorelle, l' amichetta delle sorelle che sarebbe diventata sua moglie, Strelka, la fossa. Tacque, trangugiò, poi disse a Leonid con voce piana: _ Queste cose non si trovano nei boschi. Sulla destra della pista c' era una radura, e nella radura videro un uomo. Era alto, magro, pallido e stretto di spalle; quando si accorse di loro cercò goffamente di scappare o di nascondersi: gli diedero una voce e lui li lasciò avvicinare. Era vestito di stracci e portava ai piedi un paio di sandali ricavati da copertoni d' auto; teneva in mano un fagotto d' erbe. Non sembrava un contadino. Gli domandarono: _ È qui il paese degli ebrei? _ Qui non c' è nessun paese, _ rispose l' uomo. _ Ma tu non sei ebreo? _ Sono un profugo, _ disse; ma l' accento lo tradiva. Leonid mostrò la bambola: _ E questa, da dove viene? Lo sguardo dell' uomo si spostò di un piccolo angolo: qualcuno stava avvicinandosi, alle spalle di Leonid. Era una bambina, bruna e minuta; gli prese la bambola dalle mani, dicendo tutta seria: _ È mia. Sei stato bravo a trovarla.

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Questa volta fu Gedale ad interrompere, in buon polacco, abbandonando per la sorpresa il giochetto dell' interpretariato: _ Come? Che cosa ha fatto? Dove lo avete catturato? _ Non lo abbiamo catturato, _ ringhiò il polacco, _ lo abbiamo salvato. E non lo andate a raccontare in giro: perché è la prima volta, sangue d' un cane, che le NSZ salvano un giudeo, e per di più russo e comunista, dalle pallottole dei tedeschi. Ma deve proprio essere un po' tocco: armato, in pieno giorno, senza neppure guardarsi intorno, se ne andava diritto verso il posto di blocco dei tedeschi .... _ Quale posto di blocco? _ Quello della centrale di Zielonka. A rischio di scatenare un finimondo; e senza pensare che l' energia di Zielonka serve anche a noi. Se volete fare dei sabotaggi, andate più lontano, che il diavolo vi porti. E informatevi della situazione politica. E soprattutto non mandate dei balordi come questo. _ Non lo abbiamo mandato noi: è stata una sua iniziativa, _ disse Gedale. _ Lo interrogheremo e lo puniremo. _ Ce lo ha detto anche lui, che l' iniziativa era sua: ci abbiamo già pensato noi a interrogarlo. Ma non ci prenderete per dei deficienti. O per dei bambini. È dal '39 che noi combattiamo su due fronti, e certi trucchi li abbiamo imparati. E voi li avete copiati dai nazi: tutto preciso come al tempo dell' incendio del Reichstag, si prende uno un po' debole di mente, lo si manda allo sbaraglio, e poi la rappresaglia cade come un fulmine dalla parte che fa comodo a voi. Il polacco si fermò per prendere fiato. Era alto, secco, non più giovane, e i mustacchi grigi gli tremavano per la collera. Gedale diede un' occhiata dalla parte di Leonid: stava seduto sulla soglia di pietra della baracca, con le mani legate appoggiate sulle cosce. Era lontano solo dieci passi, a portata di voce, ma sembrava che non stesse ascoltando. Il polacco osservava Jòzek con attenzione: _ Ma anche tu mi hai l' aria di essere ebreo. Ne abbiamo viste, di cose strane, ma questa le passa tutte: degli ebrei che vanno in giro per la Polonia con le armi rubate ai polacchi, e si spacciano per partigiani, puttane le loro madri! Gedale scattò. Con la sinistra strappò il mitragliatore dalle mani del polacco, e con la destra gli assestò un violento ceffone sull' orecchio. Il polacco vacillò, fece qualche passo incerto ma non cadde. Gli altri tre si erano avvicinati con aria minacciosa, ma il loro capo gli disse qualcosa, ed essi si ritirarono di qualche passo, tenendo però sempre le armi puntate. _ Sono ebreo anch' io, Panie Kondotierze, _ disse Gedale con voce tranquilla. _ Queste armi non le abbiamo rubate, e le sappiamo usare piuttosto bene. Voi combattete da cinque anni, e noi da tremila. Voi su due fronti, e i nostri fronti non si possono contare. Sia ragionevole, Signor Condottiero. Abbiamo lo stesso nemico da combattere: non sprechiamo le nostre forze _. Poi aggiunse, con un sorriso cortese: _ ... e neppure le nostre ingiurie _. Forse il "condottiero" sarebbe stato meno arrendevole se non si fosse visto circondato da una ventina di gedalisti dall' aria risoluta. Brontolò qualche misteriosa imprecazione a base di tuono e di colera, poi disse burbero: _ Non vogliamo sapere niente di voi e non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ripigliatevi il vostro uomo. E prendetevi anche quell' altro, che dice di essere dei vostri: noi non sappiamo che cosa farcene. A un suo gesto, i suoi seguaci afferrarono Leonid per le braccia, lo fecero alzare in piedi e lo spinsero verso Gedale, che tagliò subito la corda che gli legava le mani. Leonid non disse una parola, non sollevò gli occhi da terra, e si inserì nella schiera dei gedalisti fermi sul sentiero. L' altro uomo nominato dal polacco, quello che se ne stava in disparte a torso nudo a prendere il sole, si fece avanti spontaneamente. Era alto quanto Gedale, aveva un ardito naso da falco e un paio di maestosi baffi neri, ma non doveva avere molto più di vent' anni. Il suo corpo, muscoloso ed agile, sarebbe stato un buon modello per una statua di atleta se non fosse stato per il piede equino che gli deturpava una gamba. Aveva raccattato da terra un fagotto, e sembrava contento di cambiare padrone. Era tempo di ripartire; Gedale rese l' arma al polacco, e gli disse: _ Signor Condottiero, credo che possiamo essere d' accordo su un punto solo, e cioè che anche noi non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ci dica quale strada dobbiamo tenere. Il polacco rispose: _ Tenetevi alla larga da Kovel, da Lukov e dalla ferrovia. Non provocate i tedeschi nella nostra zona, e andate al diavolo. _ Ma che bel tipo! _ disse Gedale a Mendel quando ebbero ripreso la marcia, senza mostrare né collera residua né disprezzo. _ Proprio un tipo fantastico, da film di indiani. Secondo me aveva sbagliato secolo. _ Però lo hai preso a schiaffi! _ Per forza: ma che c' entra? L' ho ammirato lo stesso: come si ammira una cascata o un animale strano. È uno stupido, e forse anche pericoloso, ma ci ha offerto un bello spettacolo. Del resto, Gedale sembrava innamorarsi di ogni nuovo venuto, al di là di ogni considerazione morale o utilitaria. Girava intorno ad Arié, il giovane zoppo, come se volesse sentirne l' odore ed osservarlo sotto tutte le angolazioni. Nonostante il suo difetto, Arié non aveva difficoltà a seguire la fila, anzi, camminava agile e sciolto, e si rese subito popolare uccidendo una quaglia con una sassata e offrendola in omaggio a Ròkhele Bianca. Non parlava né capiva il jiddisch, e pronunciava il russo in un modo molto strano: era georgiano, Arié, e fiero di esserlo. La sua lingua materna era il georgiano, il russo lo aveva imparato a scuola, ma il suo nome, di cui era altrettanto fiero, era ebraico puro: Arié significa Leone. Pochi fra i gedalisti avevano incontrato prima un ebreo georgiano, e Jòzek, metà per scherzo, metà sul serio, osò addirittura mettere in dubbio che Arié fosse ebreo; chi non parla jiddisch non è ebreo, è quasi un assioma, e lo dice anche il proverbio: "Redest keyn jiddisch, bist nit keyn jid". _ Se sei ebreo, parlaci in ebraico: dicci una benedizione in ebraico. Il giovane accettò la sfida, e recitò la benedizione del vino con la pronuncia sefardita, rotonda e solenne, invece che in quella askenazita, sincopata e stretta. Molti risero: _ Ih, parli ebraico come lo parlano i cristiani! _ No, _ rispose Arié nobilmente offeso: _ noi parliamo come Abramo nostro padre. Siete voi che parlate sbagliato. Arié si integrò nella banda con rapidità sorprendente. Era robusto e volonteroso ed accettava di buona voglia tutti i lavori; accettò anche quel poco di disciplina partigiana che la banda aveva conservato. Mentre tutti erano curiosi di lui, si mostrò poco curioso delle finalità della banda: _ Se andate ad ammazzare i tedeschi, vengo con voi. Se andate in Terra d' Israele, vengo con voi _. Era intelligente, allegro, fiero e permaloso. Fiero di molte cose: di essere georgiano (discendente dai Macedoni di Alessandro, precisò, senza però essere in grado di dimostrarlo in alcun modo); di non essere russo, ma ad un tempo di essere compatriota di Stalin; del suo cognome Hazansvili. _ Ma certo! Gli assomigli perfino, _ rise Mottel. _ Non solo nei baffi, ma anche nel nome. _ Stalin è un grand' uomo e voi non lo dovreste prendere in scherzo. Mi piacerebbe assomigliargli nel nome, ma non è così. Lui è Dzugasvili, cioè il figlio di Dzuga, e io sono soltanto Hazansvili, che vuol dire il figlio del Hazàn, del cantore della Sinagoga. Era permaloso sull' argomento della sua deformità, e non gli piaceva che se ne parlasse, ma con ogni probabilità essa gli aveva salvato la vita: _ Alla leva militare mi avevano riformato, e al paese mi canzonavano, perché andare soldato per noi è un onore. Ma poi, nel '42, quando prendevano tutti, hanno mobilitato anche me, e mi hanno spedito nelle retrovie di Minsk a cuocere il pane nella panetteria militare. I tedeschi mi hanno preso prigioniero, ma come lavoratore civile, e questa è stata la mia fortuna. Che io fossi ebreo, non se ne sono accorti .... _ Tutto merito dei baffi, credi a me, _ disse Jòzek: peccato che pochi ci abbiano pensato, a farseli crescere. _ Dei baffi e della statura. E poi perché mi sono dichiarato contadino e specialista in innesti. _ Sei stato furbo! _ Ma no, è proprio il mio mestiere, io e mio padre e mio nonno abbiamo sempre innestato viti. E allora mi hanno messo in un' azienda agricola a innestare alberi che non avevo mai visti. Eravamo quasi liberi, e in aprile sono scappato. Volevo andare con i partigiani, e sono incappato in quelli che avete visti; con loro però non stavo tanto bene, mi dicevano "ebreo" e mi facevano portare i pesi come a un mulo. Gedale tendeva alle decisioni improvvisate, ma sulla questione di Leonid non se la sentiva di improvvisare. Chiamò da parte Jòzek, Dov e Mendel e non era il Gedale di tutti i giorni: non divagava, pensava a quello che diceva, e parlava sommesso. _ Le punizioni non mi piacciono: né darle né riceverle. Sono roba da prussiani, e per gente come noi servono a poco. Ma questo ragazzo l' ha fatta grossa: se ne è andato con le armi, senza ordini e senza permesso, e ha fatto quanto poteva per metterci nei guai tutti quanti. È stata una fortuna che il grosso delle forze delle NSZ era lontano, altrimenti ce la vedevamo brutta. Si è comportato da sciocco, ed ha fatto apparire sciocchi tutti noi: sciocchi ed intrusi, pasticcioni e guastamestieri. Già da queste parti non siamo mai stati molto amati; dopo questa faccenda lo saremo ancora meno, e la nostra strada è lunga, ed abbiamo bisogno dell' appoggio della popolazione. O almeno di una neutralità silenziosa. Leonid queste cose le deve capire: gliele dobbiamo far capire. Jòzek alzò la mano per chiedere la parola. _ Se fosse un altro uomo, io credo che il miglior rimedio sarebbe quello di picchiarlo un poco e poi di invitarlo a fare l' autocritica, come fanno i russi. Ma Leonid è un tipo strano, è difficile capire perché fa le cose che fa. Tu dici bene, comandante, che dobbiamo fargli capire certe cose; ebbene, secondo me, e almeno per il momento, quel ragazzo non è in grado di capire niente. Da quando lo abbiamo ripreso non ha più detto una parola: non una. Non mi ha guardato in faccia una volta, e tutte le volte che gli ho portato la gavetta ha fatto finta di mangiare e poi, appena io me ne andavo, versava via tutto: l' ho visto benissimo. Se fossimo in tempo di pace, so io che cosa ci vorrebbe per lui. _ Un medico? _ chiese Gedale. _ Sì, il medico dei matti. _ Voi due lo conoscete da più tempo, _ disse Gedale rivolto a Mendel e a Dov. _ Qual è il vostro pensiero? Parlò per primo Dov, del che Mendel fu lieto. _ A Novoselki mi ha dato qualche fastidio perché non era puntuale sul lavoro. L' ho mandato a fare un sabotaggio, per metterlo alla prova e per dargli un' occasione di far buona figura davanti agli altri: mi pareva che ne avesse bisogno. Se l' è cavata né bene né male, con coraggio e con precipitazione: lo hanno tradito i nervi. Secondo me è un bravo ragazzo con un brutto carattere, ma io non credo che si possa giudicare un uomo da quello che ha fatto a Novoselki; o del resto, anche da quello che fa qui. _ Non mi interessa giudicarlo, _ disse Gedale, _ mi interessa sapere che cosa dobbiamo fare di lui. Tu che dici, orologiaio? Mendel era sulle spine. Gedale sapeva, o aveva indovinato, la vera causa della sortita suicida di Leonid? Se sì, non parlarne era puerile e disonesto. Se no, se non lo aveva intuito, Mendel avrebbe preferito non fornire materia alla sua curiosità ed ai pettegolezzi di tutti. Insomma erano fatti suoi, non è vero? Suoi e di Line, fatti privati. Di aggravare la posizione di Leonid non si sentiva l' animo, e raccontare che Leonid aveva disertato per una faccenda di donne voleva dire aggravare la sua posizione. E aggravare anche la tua. Sì, certo: aggravare anche la mia. Si tenne sul vago, sentendosi intimamente bugiardo, e spregevole come un verme: _ È un anno che siamo insieme, ci siamo incontrati nel luglio dell' altr' anno nelle foreste di Brjansk. Sono d' accordo con Dov, è un bravo ragazzo con un carattere difficile. Mi ha raccontato la sua storia, la sua vita non è mai stata facile, ha incominciato a soffrire molto prima di noi. Secondo me, punirlo sarebbe una crudeltà, e per giunta inutile: si sta punendo da sé. E sono d' accordo anche con Jòzek; sarebbe un uomo da curare. Gedale si alzò di scatto e cominciò a camminare su e giù. _ Siete veramente dei bravi consiglieri. Curarlo, ma non si può. Punirlo, ma non si deve. Tanto valeva dirlo chiaro, che il vostro consiglio è di lasciare le cose come stanno, e che la faccenda si risolva da sé. Mi sembrate i consolatori di Giobbe. Va bene, per adesso lasciamola così; vedrò se la ragazza mi saprà dare un suggerimento più concreto: lei lo conosce meglio di voi, o almeno sotto un aspetto diverso. Dunque non sa, pensò Mendel con sollievo, e insieme vergognandosi del suo sollievo. Ma del colloquio fra Gedale e Line Mendel non seppe più nulla; o non era avvenuto, o (cosa più probabile) Line non aveva detto niente di essenziale. Il malumore di Gedale durò poco; nei giorni successivi era ritornato ai suoi modi consueti, ma, come già aveva fatto a Sarny, scomparve nuovamente ai primi di luglio mentre la colonna era accampata nei pressi di Annopol, non lontano dalla Vistola. Ricomparve il giorno dopo, con una giacca nuova di velluto, un cappello di paglia da contadino, una boccetta di profumo-Ersatz per Bella, e regalini anche per le altre quattro donne. Ma non era andato in città per fare acquisti; dopo di allora diverse cose cambiarono. Le precauzioni aumentarono: di nuovo, come in primavera, si marciava di notte, e di giorno la banda si accampava cercando di non dare nell' occhio; il che si faceva sempre meno facile, perché la zona era fittamente percorsa da strade, e cosparsa di villaggi e case coloniche. Gedale sembrava avere fretta; richiedeva tappe più lunghe, anche di venti chilometri per notte, e puntava in una direzione precisa, verso Opatòw e Kielce. Raccomandò a tutti di non allontanarsi dal gruppo e di non rivolgere la parola ai contadini che eventualmente si incontrassero: con la gente del luogo potevano intrattenersi solo quelli che parlavano polacco, ma anche loro il meno possibile. Sia nelle tappe, sia durante gli spostamenti, la presenza di Leonid era diventata penosa per tutti, e per Mendel in specie. Mendel dovette confessare a se stesso che di Leonid aveva paura: evitava la sua vicinanza, nelle marce in fila indiana si metteva in testa quando Leonid era in coda, o viceversa; ma invece, notò Mendel con disappunto, Leonid, consapevolmente o no, manovrava in modo da essergli vicino, pur senza rivolgergli la parola. Si limitava a guardarlo, con quei suoi occhi neri carichi di tristezza e di richiesta, come se volesse affliggerlo con la sua presenza, non lasciarsi dimenticare, vendicarsi affliggendolo. O forse anche sorvegliarlo? Forse: alcuni suoi gesti facevano pensare che Leonid fosse in preda al sospetto. Volgeva di scatto la testa guardandosi alle spalle. Durante le fermate, che avvenivano di giorno, e per lo più in casupole contadine abbandonate, si coricava per dormire scegliendo il posto più vicino alla porta, e dormiva poco; si svegliava di soprassalto, si guardava intorno inquieto, spiava fuori dalla porta o dalle finestre. In un mattino grigio di nuvole, dopo una tappa notturna che aveva affaticato tutti, Mendel stava raccogliendo legna nel bosco e se lo vide accanto, che raccoglieva legna anche lui, sebbene nessuno glielo avesse ordinato. Era dimagrito e teso, aveva gli occhi lucidi. Si rivolse a Mendel con aria complice: _ Lo hai capito anche tu, non è vero? _ Capito che cosa? _ Che siamo venduti. Non possiamo più farci illusioni. Siamo venduti, e ci ha venduti lui. _ Lui chi? _ chiese Mendel sbalordito. Leonid abbassò la voce: _ Lui, Gedale. Ma non poteva fare diversamente, lo ricattavano, era un burattino nelle loro mani _. Poi fece cenno con l' indice sulle labbra di fare silenzio, e riprese a raccogliere legna. Mendel non raccontò l' episodio a nessuno, ma pochi giorni dopo Dov gli disse: _ Quel tuo amico ha delle idee strane. Dice che Gedale lavora per l' NKVD o per non so quale altra polizia segreta, che loro lo ricattano, e che noi siamo tutti ostaggi nelle loro mani. _ Qualcosa del genere ha detto anche a me, _ disse Mendel. _ Che fare? _ Niente, _ disse Dov. Mendel si ricordò di avere paragonato Leonid a un orologio inceppato dalla polvere; adesso, invece, Leonid gli ricordava certi altri orologi che gli avevano portati da riparare: forse avevano preso un urto, le spire della molla si erano accavallate, un po' ritardavano, un po' avanzavano follemente, e finivano tutti col guastarsi in modo irrimediabile. L' estate era fulgida e ventosa, e i gedalisti si accorsero di essere entrati nel paese della fame. Le raccomandazioni di Gedale, di evitare i contatti con la gente del luogo, si rivelarono superflue, se non ironiche. Non c' era molta gente, in quelle campagne: nessun uomo, poche donne; sulle soglie delle fattorie devastate, solo vecchi e bambini. Non era gente di cui si dovesse avere paura, anzi, erano essi stessi sigillati dalla paura. Pochi mesi prima, i partigiani dell' Armata Interna polacca avevano scatenato un attacco ai presidi4 tedeschi della zona, mentre a sud di Lublino reparti paracadutati sovietici interrompevano le linee di comunicazione tedesche che portavano munizioni e rifornimenti al fronte. Altri reparti polacchi avevano fatto saltare in aria ponti e viadotti, ed avevano attaccato un villaggio da cui i tedeschi avevano allontanato con la forza i contadini nel 1942 per installarvi i coloni del Reich Millenario. La rappresaglia tedesca si era estesa a tutta la zona ed era stata feroce. Non si era rivolta contro le bande, pressoché inafferrabili, che si erano rifugiate nelle foreste, ma contro la popolazione civile. I tedeschi avevano fatto accorrere rinforzi dalle lontane retrovie; di notte accerchiavano i villaggi polacchi e li incendiavano, oppure deportavano tutti gli uomini e le donne in età di lavoro: gli concedevano mezz' ora di tempo per prepararsi al viaggio, poi li caricavano sui loro autocarri e li portavano via. In alcuni paesi avevano dedicato la loro attenzione ai bambini: deportavano in Germania i bambini dall' aspetto "ariano" e uccidevano gli altri. I villaggi, poveri da sempre, erano ridotti ad ammassi di ruderi affumicati e di macerie, ma i campi erano rimasti indenni, e la segala matura aspettava invano chi la mietesse. L' iniziativa venne da Mottel. Era andato a chiedere acqua ad un casolare isolato, a forse un chilometro dal villaggio di Zborz, e ci aveva trovato una vecchia sola, coricata sulla paglia della stalla, ma nella stalla bestie non ce n' erano più. La vecchia faticava a muoversi, aveva una gamba rotta che nessuno le aveva curato. Aveva detto a Mottel che andasse al pozzo, prendesse tutta l' acqua che voleva, e ne portasse un poco anche a lei. Ma che le portasse anche qualcosa da mangiare: qualunque cosa. Era digiuna da tre giorni, ogni tanto qualcuno del villaggio si ricordava di lei e le portava una fetta di pane. Eppure nel campo lì davanti c' era segala da nutrire una grossa famiglia, ma alla prima pioggia sarebbe marcita, perché per falciarla non c' era nessuno. Mottel riferì a Gedale, e Gedale decise all' istante. _ Dobbiamo aiutare questa gente. La nostra guerra è anche questo. È l' occasione buona per fargli capire che veniamo da amici e non da nemici. Jòzek storse la faccia: _ Da queste parti non ci hanno mai voluto bene; prima che i tedeschi bruciassero le loro case, loro bruciavano le nostre. Non vogliono bene agli ebrei, e neanche vogliono bene ai russi, e molti di noi sono ebrei e russi. Sanno che cosa è successo ai contadini russi negli anni venti, e hanno paura della collettivizzazione. Aiutiamoli, ma stiamo attenti. Tutti gli altri, invece, furono d' accordo senza riserve: erano stanchi di distruggere, stanchi delle opere negative e stupide a cui la guerra costringe gli uomini. I più entusiasti erano Piotr e Arié, che erano pratici dei lavori della campagna. Mottel aveva riferito che il tetto della "sua" vecchia era sfondato, e Piotr disse: _ Lo riparerò io. Sono bravo a rattoppare i tetti di canne, è un lavoro che facevo al mio paese, mi pagavano per farlo. Ma adesso, per riparare il tetto della tua vecchia, darei tanti rubli quanti me ne davano; se li avessi, beninteso, perché invece non li ho. La vecchia accettò, Piotr si mise al lavoro aiutato da Sissl, e pochi giorni dopo un uomo anziano dai baffi spioventi fu visto aggirarsi nei dintorni. Faceva le viste d' interessarsi d' altro: raddrizzava paletti, controllava le paratie dei fossati benché questi fossero disperatamente asciutti, ma spiava da lontano il lavoro dei due. Un giorno si presentò a Piotr e gli rivolse in polacco diverse domande; Piotr finse di non capire e andò a cercare Gedale. _ Sono il Burmistrz, il sindaco del villaggio, _ disse il vecchio con dignità, benché avesse piuttosto l' aspetto di un mendicante. _ Chi siete voi? Dove andate? Che cosa volete? Gedale si era presentato al colloquio disarmato, in maniche di camicia, in brache borghesi lacere e stinte, e con il cappello di paglia che aveva comperato. Parlava polacco senza accento jiddisch, e per chiunque sarebbe stato difficile appurare la sua condizione. Da principio fu cauto: _ Siamo un gruppo di dispersi, uomini e donne. Veniamo da diversi paesi, e non vogliamo farvi del male. Siamo di passaggio, andiamo molto lontano, non vogliamo disturbare nessuno, ma non vogliamo neppure essere disturbati. Siamo stanchi ma abbiamo le braccia buone: forse vi possiamo essere utili in qualche cosa. _ Per esempio? _ chiese il sindaco diffidente. _ Per esempio potremmo mietere, prima che la segala si guasti. _ Che cosa volete in cambio? _ Una parte del raccolto, quella che ti sembrerà giusta; e poi acqua, un tetto, e che si parli poco di noi. _ Quanti siete? _ Una quarantina; cinque sono donne. _ Sei tu il loro capo? _ Sono io. _ Noi siamo meno di voi: neppure trenta, contando anche i bambini. Guarda che denaro non ne abbiamo mai avuto, bestiame non ne abbiamo più, e non ci sono neppure donne giovani. _ Peccato per le donne giovani, _ rise Gedale, _ ma non è questo il nostro primo pensiero. Te l' ho detto, ci bastano l' acqua, il silenzio, e se possibile un tetto sotto cui dormire qualche notte. Siamo stanchi di guerra e di cammino, abbiamo nostalgia dei lavori di pace. _ Anche noi siamo stanchi di guerra, _ disse il sindaco; e subito aggiunse: _ Ma sapete mietere? _ Siamo fuori esercizio, ma ce la caviamo. _ A Opatòw c' è il mulino, _ disse il sindaco, _ e pare che funzioni. Falci ce ne sono, quelle ce le hanno lasciate. Potete incominciare domani. Andarono a mietere tutti gli uomini di Blizna e di Ruzany, e in più Arié, Dov, Line e Ròkhele Nera, a cui si aggiunse Piotr quando ebbe finito di rassettare il tetto: una ventina in tutto. Arié era il più pratico, e insegnò a tutti gli altri come si rizzano i covoni e come si affila la falce prima con il martello e poi con la cote. Anche Piotr si dimostrò bravo e resistente alla fatica. Line stupì tutti: esile com' era, mieteva dall' alba al tramonto senza mostrare segni di stanchezza, e sopportava senza disagio il calore, la sete e il nugolo di tafani e di zanzare che si era subito radunato. Non era la prima volta che faceva quel lavoro: lo aveva fatto mille anni prima, presso Kiev, in una fattoria collettiva in cui i giovani sionisti si preparavano all' emigrazione in Palestina, al tempo remoto in cui essere sionisti e comunisti non era ancora diventata una contraddizione assurda. Lavorava bene anche Dov, benché gli pesassero gli anni e le ferite. Neanche per lui era un' esperienza del tutto nuova: aveva mietuto i girasoli quando era confinato a Vologda, dove i giorni d' estate erano lunghi diciotto ore e bisognava lavorarle tutte. Gli altri della banda, fra cui Mendel, Leonid, Jòzek ed Isidor, si distribuirono nel villaggio a fare diversi lavori che il sindaco aveva indicati: c' erano pollai da rimettere in ordine, altri tetti da riparare, orti da zappare. Superata la prima diffidenza, si venne a sapere che c' erano anche patate da raccogliere, e furono le patate stesse a fare da cemento fra gli ebrei vagabondi e i contadini polacchi disperati, a sera, sotto le stelle dell' estate, seduti nell' aia, sulla terra battuta ancora calda di sole.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Se ne andarono abbandonando noi ammalati al nostro destino. Di quanto sia avvenuto alla signorina Drechsel, non so nulla. Forse non era colpevole se non di qualche bacetto nazista, e perciò spero che la piccola causa da me pilotata non le abbia arrecato gran danno: a diciassette anni una scarlattina guarisce presto e non lascia postumi. Comunque, non sento rimorsi per questo mio tentativo privato di guerra batteriologica. Ho saputo più tardi che altri, in altri Lager, avevano agito in modo più sistematico e meglio mirato. Là dove infuriava il tifo esantematico, che spesso è mortale e viene trasmesso dai pidocchi delle vesti, le prigioniere addette alla stiratura delle uniformi delle SS andavano in cerca delle compagne morte di tifo, prelevavano i pidocchi dai cadaveri e li infilavano sotto il colletto delle giacche militari. I pidocchi sono animali poco simpatici, ma non hanno pregiudizi razziali.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Comprese che un ritardo di pochi secondi era fatale, e, abbandonando l'anello di sughero, ma tenendo fra i denti il bowie-knife, si mise a nuotare con disperata energia verso la guide- rope. I tre mostri, però, per niente spaventati dall'immensa ombra che i due palloni proiettavano sull'oceano e dalle grida dell'ingegnere, non si erano arrestati. L'irlandese li udiva dietro di sé percuotere furiosamente l'acqua con le loro possenti code, agitare le lunghe pinne triangolari e mandare dei rauchi sospiri che somigliavano al tuono udito ad una grande distanza. Malgrado facesse sforzi disperati, stava per essere raggiunto da quei mostri, che sono dotati di una muscolatura potente e che possiedono uno slancio straordinario. Fortunatamente l'ingegnere stava per portargli soccorso. Comprendendo che O'Donnell sarebbe stato raggiunto prima di toccare la guide-rope, Kelly si era armato di una carabina a tiro rapido, di un winchester a dodici colpi, ed aveva aperto un fuoco infernale contro gli squali. Il primo, che si trovava a soli quindici metri dall'irlandese, colpito da parecchie palle, fece un balzo immenso, ricadde, dibattendosi furiosamente, poi si rovesciò, mostrando tutta intera la sua enorme bocca, che è situata sotto il muso, e la pelle del ventre, poi calò a picco, formando un piccolo risucchio. Gli altri due, vista la mala parata, s'arrestarono indecisi, poi si tuffarono di comune accordo. L'ingegnere, che li scorgeva benissimo attraverso l'acqua limpidissima, continuò il fuoco per impedir loro di giungere sotto le gambe dell'irlandese. "In guardia, O'Donnell!" gridò, vedendo i due mostri nuotare verso l'irlandese. "Sono salvo!" gridò il bravo giovanotto. "Presto. Mister Kelly, rovesciate i coni." Con un ultimo slancio, egli si era aggrappato alla guide-rope e con un ultimo sforzo si era issato sull'ancorotto, mettendosi a cavalcioni delle patte. Sfinito come era dalla fatica e per le terribili emozioni provate, non si sentiva, almeno per il momento, in grado di salire fino alla scialuppa. L'ingegnere, che vedeva avvicinarsi i due squali con fulminea velocità e che non ignorava che essi possiedono tale slancio da innalzarsi di parecchi metri sopra le onde, con una spinta rovesciò nell'oceano un sacco di zavorra del peso di sessanta chilogrammi, che aveva collocato sul bordo della scialuppa, poi con due furiose strappate capovolse i coni. Il Washington, scarico di quel peso, s'innalzò rapidamente, nel momento stesso in cui i due squali giungevano a fior d'acqua, proprio sotto l'ancora. Vedendosi sfuggire la preda, con un potente colpo di coda si slanciarono fuori dai flutti con le bocche spalancate, credendo d'inghiottire d'un sol colpo ancorotto e uomo; ma era troppo tardi. Il Washington che s'innalzava con estrema rapidità trascinando con sé l'irlandese, che si teneva aggrappato con estrema energia alla guide-rope fece perdere ai due feroci mostri ogni speranza: però rimasero in superficie, seguendo con sguardi ardenti la preda che fuggiva in aria. Il vascello aereo salì fino a mille metri, nonostante il grande salasso fattogli dall'ingegnere per riguadagnare gli strati inferiori dopo la caduta dell'irlandese e del negro; rimase alcuni minuti immobile, come indeciso sulla via da prendere, poi una corrente lo spinse verso il sud-sud-est con una velocità di dodici miglia all'ora. O'Donnell non lasciava la guide-rope ma non ardiva ancora risalire. Quell'immenso vuoto che lo circondava e quella spaventevole altezza che s'apriva sotto i suoi piedi fino alla superfìcie dell'oceano, lo atterrivano. Aveva per maggior precauzione chiuso gli occhi, temendo che lo cogliesse una vertigine. "O'Donnell, mio coraggioso amico," disse l'ingegnere "tenetevi saldo." "Non lascio la fune, Mister Kelly," balbettò il giovanotto: "vi confesso, però che questo vuoto mi spaventa e che mi pare che la testa mi cominci a girare." "Avrete forza abbastanza per salire?" "Lo spero, ma non ora. Sono sfinito ed ho le membra rattrappite. "Prendete, amico mio." L'ingegnere calò fino a lui una bottiglia di whisky già sturata e una cintola di pelle. "Bevete e legatevi alla guide-rope" disse. "Grazie, Mister Kelly" riprese l'irlandese. Si assicurò con la cintola per non cadere nel caso che lo cogliesse un capogiro per il forte liquore. "Mi pare che le forze ritornino" disse dopo alcuni istanti. "Cercherò di raggiungervi, Mister Kelly." "Volete che apra le valvole e che ci abbassiamo?" "No, Mister Kelly: avete sacrificato già troppo gas per raccogliermi. I nodi non sono lontani e mi riposerò" "Non guardate l'abisso." "Chiuderò gli occhi." Il coraggioso giovanotto sciolse la cintola, si issò, posando i piedi sulle patte dall'ancorotto, respirò alcuni istanti, poi cominciò quella pericolosa salita, adoperando i piedi, le mani e perfino i denti. Non osava guardarsi intorno, poiché si sentiva già prendere da un principio di vertigine, anche tenendo gli occhi chiusi: quell'immensità che si stendeva sotto di lui, lo attirava, lo affascinava. L'ingegnere, più pallido forse di O'Donnell, seguiva ansiosamente, col cuore stretto d'angoscia, le mosse di lui e cercava di tener ferma la fune, che l'àncora faceva ondeggiare.

Se l'irlandese avesse pensato, in quel supremo istante, che il Washington, scaricato di quel doppio peso, si sarebbe rapidamente innalzato a grande altezza, abbandonandoli tutt'e due in mezzo all'immenso oceano e rendendo assolutamente impossibile qualunque soccorso da parte dell'ingegnere, forse si sarebbe arrestato, abbandonando il povero negro alla sua sorte, ma era ormai troppo tardi per porvi rimedio. Quei due uomini, a meno di un miracolo, erano condannati a morire. Presto o tardi, l'Atlantico li avrebbe inghiottiti e trascinati nei suoi immensi baratri. Piombato tra i flutti, trascinato a fondo dal proprio peso e quantunque stordito da quella caduta di oltre trenta metri, O'Donnell con un vigoroso colpo di tallone risalì in superficie. Guardò in aria, non vide che le stelle brillare sul fondo cupo del cielo. Del pallone nessuna traccia! "Temo di aver commesso una grave pazzia, che forse mi costerà la pelle" mormorò sospirando. "Bah! Infine ero votato alla morte ... ! Consolato da questa riflessione, si mise a nuotare vigorosamente, girando lo sguardo. A pochi metri scorse qualche cosa di nero che si dibatteva a fior d'acqua. "Simone!" gridò. Una risata gli giunse alle orecchie. "Il bagno non gli ha fatto bene." disse O'Donnell. "Cerchiamo di salvarlo, poi accadrà quello che dovrà accadere" Si diresse da quella parte e raggiunse il negro, che si dibatteva come il diavolo nella pila dell'acqua benedetta. L'istinto della conservazione sopravviveva nel pazzo? Bisognava crederlo, poiché quel giovanotto lottava contro l'acqua che cercava di affogarlo. L'irlandese con poche bracciate lo raggiunse e lo afferrò per le ascelle, dicendogli: "Non commettere delle imprudenze, se non vuoi che l'oceano ti inghiotta. Appoggiati alle mie spalle, amico mio: sono robusto e un forte nuotatore, e per qualche tempo potremo reggerci." Il pazzo, invece di obbedire, gli sfuggì, si volse rapidamente e lo afferrò per il collo, stringendolo in modo da togliergli il respiro, mentre gli rinserrava le gambe fra le proprie. "Per mille corna di Belzebù, giù le zampe!" gridò l'irlandese, cercando di sottrarsi a quella terribile stretta. "Vuoi affogarmi?" Il negro proruppe in uno scroscio di risa, e invece di abbandonarlo, gli si aggrappò addosso con suprema energia: era invaso da quella paura che più non ragiona e che invade le persone prossime ad affogare, o voleva trascinare il suo salvatore negli abissi marini? L'irlandese atterrito, pallido per l'emozione, cominciava a pentirsi di essersi precipitato in mare per salvare un pazzo. Cercò di liberarsi da quelle mani che lo strangolavano e da quelle gambe che paralizzavano i suoi movimenti, facendolo affondare, ma pareva che il negro possedesse, in quel momento, una forza straordinaria. "Giù le zampe, Simone!" urlò con voce strozzata. "Giù, o ... " La frase gli fu troncata da un'onda che lo coperse, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata. Sprofondò, ma con uno sforzo disperato riuscì a liberare le gambe e a rimontare alla superficie, trascinando seco il pazzo, che non voleva abbandonarlo. "Lasciami!" rantolò. Il negro continuò a stringere, facendo balzi disordinati per trascinarlo sott'acqua. Alzò il pugno e percosse quel disgraziato sul viso, ma inutilmente: quelle mani non lo abbandonavano, anzi gli conficcavano le unghie nel collo. "Ah! Non vuoi lasciarmi?" disse l'irlandese. "Ebbene, muori tu solo!" Allora, fra quell'oscurità, in mezzo a quelle onde che a volta a volta coprivano i due uomini, s'impegnò una lotta suprema. Il negro resisteva con disperata energia e faceva udire, di tratto in tratto, i suoi scoppi di risa; l'irlandese cercava di liberarsi da quelle strette mortali e lo tempestava di pugni per stordirlo, emettendo grida sempre più rauche, più strozzate. Scendevano, risalivano a galla, si rotolavano fra le onde, si mordevano, urlavano. O'Donnell, già strozzato per tre quarti, si sentiva venir meno le forze, i suoi occhi non scorgevano più l'avversario se non attraverso una nebbia, e si sentiva trascinare negli abissi misteriosi dell'Atlantico, aperti sotto di lui. Con un supremo sforzo trascinò ancora il negro alla superficie, poi si lasciò andare nuovamente a picco. A un tratto si sentì urtare bruscamente e quasi strappare l'epidermide da un corpo ruvido, e gli parve di udire, fra le onde che lo inghiottivano, un grido orribile. Quasi subito sentì allentarsi la stretta e si trovò libero. Senza perdere tempo rimontò a galla, girando all'intorno uno sguardo smarrito. A tre passi vide sorgere bruscamente una forma nera, girare su se stessa un istante, poi sparire. Mandò un grido d'orrore: quella forma nera era un tronco umano, che pareva fosse stato tagliato a metà da una gigantesca forbice. Allora si ricordò dell'urto, dello sfregamento e del grido udito sotto le onde e comprese tutto. Uno squalo aveva tagliato in due il disgraziato Simone. L'irlandese era coraggioso: lo si è già visto alla prova, ma nel ritrovarsi da solo in mezzo all'oceano, forse spiato dai pesce-cani con dinanzi agli occhi l'orribile fine del negro, credette di impazzire per lo spavento. Rimase parecchi istanti immobile, come istupidito, livido, agghiacciato dal terrore, non osando fare il più lieve movimento per paura di attirare gli squali e raggrinzando le gambe, per timore di sentirsele mozzare da un istante all'altro. Una lontana detonazione, che pareva scendesse dal cielo, lo strappò da quell'immobilità, che a poco a poco lo trascinava sotto le onde. "Mister Kelly ... " mormorò. "Ah! Se sapesse in quale situazione mi trovo ... !" Alzò gli occhi e guardò in aria, ma non riuscì a scorgere l'aerostato. Attese alcuni minuti in preda a una tremenda ansietà, poi verso il sud, a una distanza di due miglia vide brillare a grande altezza una striscia luminosa, poi udì un'altra lontana detonazione. "Vi comprendo," disse, "mi segnalate la vostra direzione, ma non posso rispondervi e nemmeno raggiungervi. A quale altezza si troverà il Washington? Questo doppio capitombolo lo pagheremo forse caro." Abbassò gli occhi sul mare, e gli sembrò di vedere qualche cosa di nero agitarsi in mezzo alla spuma di un'onda. "Che cosa può essere?" si chiese. "Che Mister Kelly, nel momento che il pallone si alzava, ci abbia gettato degli oggetti galleggianti? Ho veduto dei salvagente fra le casse della scialuppa. Orsù, non debbo rimanere qui in eterno: se i pesce-cani mi spiano, possono tagliarmi in due anche qui." Rabbrividì a quel pensiero, pure si fece animo e si diresse, procurando di non far rumore, verso quell'oggetto che le onde trastullavano. In pochi istanti lo raggiunse e lo ghermì strettamente. "Non mi ero ingannato!" mormorò, respirando più liberamente. "Grazie, Mister Kelly, di aver pensato a me ! " L'oggetto che aveva afferrato era uno di quei grandi cerchi di sughero, avvolti in tela grossa e robusta e che le navi usano portare attaccati alle murate, per gettarli ai marinai o ai passeggeri che cadono accidentalmente in mare. Sorreggono comodamente una persona per quanto sia pesante, mantenendola a galla anche in mezzo alle più grandi ondate. Ma se l'ingegnere aveva pensato a dare un punto d'appoggio ai due naufraghi, non aveva dimenticato di fornirli di mezzi di difesa contro i formidabili assalti dei mostri marini. Infatti, O'Donnell trovò appesi al salvagente due lunghi e affilati coltelli, due di quei bowie-knives usati dagli americani del Nord. "Se gli squali vorranno mangiarmi, avranno un osso duro da rodere." disse l'irlandese, passandosi le armi nella cintola. "Orsù, in viaggio, e cerchiamo di seguire il pallone." Si passò il salvagente sotto le ascelle e, meravigliosamente sorretto da quell'anello di sughero, si spinse verso il sud, gettando però degli sguardi inquieti sulle acque circostanti e fermandosi di tratto in tratto ad ascoltare se qualche mostro lo seguiva. Le detonazioni erano cessate, ma ormai sapeva che l'aerostato si trovava verso il sud, e ciò gli bastava. Era certo che in quel momento l'ingegnere stava sacrificando il suo gas per discendere verso la superfìcie dell'oceano. Aveva percorso circa seicento metri, quando vide verso il sud, ma quasi a fior d'acqua, balenare un lampo, e poco dopo intese una debole detonazione. "To'!" esclamò. "Che vi sia una nave laggiù, o che l'ingegnere sia già disceso?" Si arrestò, guardando attentamente in quella direzione, e gli parve di distinguere, sul fondo azzurro del cielo, che cominciava a tingersi dei primi riflessi dell'aurora, una massa oscura sospesa a breve distanza dalla superficie dell'oceano. "Dev'essere il Washington" mormorò. "Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c'è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel ... " S'arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo. "Qualche pesce-cane?" mormorò battendo i denti. "Che sia destinato anch'io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C'è da impazzire, anche senza essere paurosi." Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell'oceano. L'onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall'aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo. Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell'orizzonte, avvicinandosi rapidamente l'alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s'avvicinassero sott'acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un'angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore. "Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest'oceano?" si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

Fortunatamente possediamo delle scuri, e avremmo tagliato senza fatica la fune, abbandonando l'ancora. Tò! Un vascello! Guardate là verso il nord." L'irlandese guardò nella direzione indicata, e là dove l'oceano pareva confondersi con l'orizzonte vide un grosso punto nero, sormontato da due pennacchi di fumo. Pareva che si dirigesse verso l'ovest. "Sarà un transatlantico europeo che va in America" disse l'ingegnere. "Che si diriga verso di noi?" "È probabile. L'incontro d'un aerostato in pieno oceano è una cosa che non si è mai veduta, e l'equipaggio ci crederà forse dei disgraziati spinti qui contro la nostra volontà." "Mi pare, che abbia modificato la rotta, Mister Kelly" disse l'irlandese, che aveva preso un cannocchiale, puntandolo sullo steamer. "Non mi spiacerebbe andare a bere un bicchiere di Bordeaux su quel legno." "Disgraziatamente non possiamo discendere, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Bisognerebbe aprire le valvole e lasciare sfuggire una certa quantità di gas; e questo è troppo prezioso per noi." Il transatlantico, che doveva aver scorto il vascello aereo, il quale si librava in un'atmosfera purissima, aveva modificato subito la sua rotta e si dirigeva verso gli aeronauti per portare a loro soccorso. Senza dubbio il suo equipaggio credeva che fossero stati spinti sull'oceano da qualche uragano, e accorreva per raccoglierli. "Approfitteremo per dare notizie ai nostri amici d'America" disse l'ingegnere, strappando alcuni foglietti dal suo libricino e coprendolo di una calligrafia fitta. Lo steamer ingrandiva a vista d'occhio. Era uno di quei superbi transatlantici che dalle coste dell'Europa si recano in America e viceversa, compiendo il viaggio in una dozzina di giorni e anche meno. Misurava quasi cento metri, portava quattro alberi e due ciminiere, le quali vomitavano torrenti di fumo misto a scorie. Il ponte era pieno di passeggeri, i quali seguivano ansiosamente la rotta dell'aerostato. Le loro grida, data la calma che regnava sull'oceano, giungevano distintamente agli orecchi degli aeronauti. In capo a mezz'ora lo steamer che filava verso l'ovest, fu quasi sotto al Washington trecento voci s'alzarono, gridando: "Scendete! Scendete!" L'ingegnere si curvò sulla prua della navicella, agitando la bandiera degli Stati dell'Unione e gridando: "Buon viaggio! Andiamo in Europa!" Lo sentirono. Un "hurrah" immenso s'alzò dal transatlantico, e quei trecento passeggeri si misero a sventolare i fazzoletti, mentre il capitano faceva ammainare tre volte la bandiera in segno di saluto. "Desiderate qualche soccorso?" chiese il comandante, imboccando il portavoce. "Grazie, signore" rispose l'ingegnere: "abbiamo il necessario. Vi prego solo d'incaricarvi della mia posta." Aveva avvolto le lettere in un astuccio di tela e le aveva poi richiuse in una scatola di latta. Gettò il pacco, che cadde in mare a venti braccia dallo steamer. Una scialuppa fu calata dalla gru di babordo assieme a due marinai, i quali s'impadronirono della scatola, ritornando a bordo. "Buon viaggio!" gridarono i passeggeri affollati sulla tolda. "Grazie, signori" rispose l'ingegnere, vivamente commosso. Poi, mentre un nuovo e più formidabile "hurrah" salutava gli intrepidi, il transatlantico riprese la rotta, filando verso l'ovest. Per alcuni minuti si videro i passeggeri sventolare entusiasticamente i loro fazzoletti e si udirono le loro grida, poi, avendo l'aerostato ripreso la sua marcia ascensionale a causa della dilatazione dell'idrogeno, lo steamer impicciolì rapidamente, e tutte quelle voci si cambiarono in un lontano sussurrio. "Dove andrà quello steamer?" chiese O'Donnell che non era meno commosso dell'ingegnere. "A Boston, è probabile" rispose Kelly. "Almeno lo suppongo dalla sua direzione o dal nostro incrocio in queste latitudini." "Vi confesso, Mister Kelly, che ho provato una forte emozione in questo incontro. Mi è parso d'aver trovato un lembo dell'America o dell'Europa." "Vi credo, O'Donnell" Intanto l'aerostato continuava a salire, riscaldandosi l'aria: superò dapprima i mille metri, poi i duemila: ma giunto ai duemila cinquanta si arrestò. L'ingegnere che pareva in preda ad una certa agitazione e che non staccava gli occhi dal barometro, corrugò più volte la fronte e represse un sospiro. La forza ascensionale del Washington cominciava a diminuire e non raggiungeva più la grande elevazione di prima. Il gas sfuggiva attraverso i pori della seta quantunque questa fosse stata tessuta con la massima cura. Se la grande corrente si fosse mantenuta stabile come il primo giorno, spingendoli verso l'Europa, l'ingegnere non si sarebbe inquietato, possedendo ancora quattrocento metri cubi d'idrogeno immagazzinato nei cilindri e circa settecento chilogrammi di zavorra da gettare; ma ora che l'aerostato veniva trascinato verso l'equatore, per esser poi forse respinto verso le coste americane dagli alisei, o verso l'Atlantico meridionale, la cosa era diversa, e quella grande traversata cominciava a diventare assai problematica. Tuttavia non disperò, e nulla disse per non impressionare il suo compagno. Confidava sempre sui grandi mezzi che aveva ancora disponibili. L'aerostato, dopo aver raggiunto i 2500 metri, si mise a filare verso sud-est con maggior velocità di prima, avendo incontrato una corrente più fresca. Ora si avanzava a 700 metri per minuto primo, avvicinandosi sempre più al tropico del Cancro. L'oceano, dopo la scomparsa del transatlantico, era ridivenuto deserto. Perfino gli uccelli marini erano scomparsi. Però di quando in quando si vedeva apparire a fior d'acqua qualche pesce-cane, e si vide anche un pesce martello di dimensioni ragguardevoli. Essendo il sole assai ardente, O'Donnell tese sopra il battello una tenda, per riparare anche il negro, il quale continuava a dormire profondamente. A mezzodì l'ingegnere fece il punto e constatò che l'aerostato si trovava a 36o 7o di lat. nord e a 32o 5o di long. ovest. "Dove ci troviamo?" chiese O'Donnell. "Sui paralleli della Virginia," rispose Kelly. "Tanto siamo discesi?" "Purtroppo." "A quale distanza dalle coste americane?" "A 1250 miglia, in linea retta: ma dovete tener conto della curva rientrante che il continente descrive dal Capo della Nuova Scozia al Capo Hatteras." "E dall'Isola Brettone!'' "In linea retta distano 800 miglia. "Abbiamo percorso un bel tratto. Mister Kelly, in poco più di due giorni." "Non dico di no. O'Donnell. Disgraziatamente, questa marcia così rapida non ci ha avvicinati all'Europa, anzi ci ha allontanati" "Se l'aerostato seguisse il nostro parallelo senza deviare, dove andrebbe a terminare?" "Nei pressi dello stretto di Gibilterra." "Entrerebbe allora nel Mediterraneo?" "Sì: ma invece il vento continua a spingerci verso il sud-est e ci porterà quindi sulle coste dell'Africa. "Ebbene, cadremo in Africa invece che in Europa. L'Atlantico l'avremo ugualmente attraversato." "È vero: ma possiamo cadere su di una costa deserta o in mezzo a qualche tribù di selvaggi." "Bella occasione per farci credere figli del cielo e farci nominare sceicchi di qualche grande tribù." "Zitto!" "Che succede?" "Simone si sveglia."

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682229
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I due cavalieri che erano stati scavalcati, approfittando dei crepacci e delle rocce, si erano rapidamente allontanati, strisciando come serpenti ed abbandonando i loro cavalli moribondi. I loro compagni, trovandosi nell'impossibilità di riprendere la carica e per paura di venire a loro volta smontati, si erano trincerati dietro una roccia, sparando alcuni colpi d'archibugio. Non dovevano essere cattivi bersaglieri, poiché al terzo sparo il bel l'andaluso del fiammingo si rizzò di colpo, mandando un lungo nitrito, sferrò alcuni calci e poi cadde di quarto, tre metri piú innanzi della spaccatura. - Ecco una vera disgrazia, - disse il guascone. - Quell'animale valeva almeno duecento piastre e non potrò piú rimandarlo a S. E. il marchese di Montelimar. È vero che non avevo proprio quest'intenzione. Le sue scuderie sono piú ben fornite delle mie, diamine. Ohé, signor Mendoza, dormite sui vostri allori? - Aspettate un po' e vedrete che cosa sanno fare i filibustieri. Cerco di gettare a terra un uomo ed un cavallo insieme. - E quel cavalleggiero cerca di spaccare la mia testa, - rispose il guascone, gettandosi precipitosamente a terra, mentre il suo feltro, forato da una palla, balzava lontano parecchi passi. - Questa è una vera battaglia! ... - I guasconi sono sempre stati battaglieri, quindi non vi dispiacerà, - disse il fiammingo, colla sua solita calma. - Preferiscono sempre però un corpo a corpo, a colpi di spada. - Fate per ora un corpo a corpo a palle di piombo. - Sono troppo traditrici, perché ammazzano senza nemmeno dire: ohé, guardatevi che vi mando a visitare l'altro mondo. - Già, è un brutto affare. Un colpo d'archibugio aveva interrotto il loro discorso. Il filibustiere aveva fatto fuoco e, come aveva promesso, aveva ammazzato un altro cavallo e l'uomo che gli stava dietro. - Signor Mendoza, - disse l'incorreggibile chiacchierone. Voi siete un tiratore veramente tremendo. - Come il fiammingo è un brabantino, io sono un filibustiere, rispose Mendoza. - Avete ancora delle munizioni? - Tre colpi soli: S. E. il governatore ci ha forniti poco bene. - Forse presentiva che noi li avremmo adoperati contro i suoi armigeri, - rispose il guascone. Una scarica in quel momento partí ed un altro cavallo del governatore, dopo d'aver spiccato un salto, cadde fulminato. - È il mio, - disse il guascone, bestemmiando. - Non valeva la pena di regalarci dei cavalli cosí splendidi, per farli poi massacrare dai suoi cavalleggieri. - Se ci avesse dati dei muli sfiniti, sarebbe stata la medesima cosa. - Signor fiammingo, guardate troppo il vostro archibugio. Sono tutti cosí lenti i brabantini quando devono sparare? - Anch'io aspetto la mia occasione, - rispose l'avventuriero. - Tiriamo insieme dunque: scommetto un doblone, da bersi alla taverna d'El Moro, che io abbatterò un cavallo e due uomini. - Bum! - fece Mendoza. - Altro che bucaniere! ... - Accettato, - rispose il fiammingo. Fecero fuoco contemporaneamente e fu il brabantino che gettò giú un altro cavallo. - Per centomila code del diavolo! - esclamò don Barrejo. - Si vede che i guasconi non sanno tirare che gran colpi di spada. Signor fiammingo, terrò in serbo il doblone per berlo alla vostra salute. Corpo di Belzebú! ... Ecco che la faccenda diventa proprio seria. Gli spagnuoli, furibondi di essere tenuti in iscacco da quei tre terribili avventurieri, sparavano senza posa, tenendosi coricati dietro le sporgenze del terreno. Rispondevano colpo per colpo alle archibugiate del basco, del fiammingo e del guascone, cercando di avanzarsi. Non avevano però fortuna. Sia che un certo panico si fosse manifestato fra di loro; sia che i loro archibugi avessero una portata assai minore, le loro palle passavano sopra le teste degli avventurieri, senza causare alcun danno. Il guascone ed i suoi compagni, ben nascosti dietro ai cavalli, dei quali due non davano piú segno di vita, resistevano con tenacia ammirabile. Ma dopo un quarto d'ora si trovarono tutti tre senza munizioni. Non avevano che le pistole e le spade. - Ladro d'un governatore! - borbottò don Barrejo. - Poteva essere piú generoso. Non ha badato a darmi dei cavalli di valore ed ha economizzato sulle munizioni. Ora verrà il buono. Poi, volgendosi verso i suoi due compagni, disse: - Non usate le pistole che all'ultimo momento e tenetevi pronti a caricare colle spade. - lo non ne ho, - disse il fiammingo. - Caricherete colla sella del vostro cavallo, - disse il guascone. Gli spagnuoli non avevano cessato di avanzarsi. Ben risoluti ad impadronirsi dei tre avventurieri, prendevano però le loro precauzioni, non ignorando ormai d'aver da fare con persone risolute e pronte a qualunque sbaraglio. Strisciavano fra i massi, cercando di non esporsi e scivolavano fra i crepacci. Anche essi dovevano aver lasciati gli archibugi presso i cavalli. Erano cosí pervenuti ad una distanza di una ventina di metri, quando si udirono in aria due sibili acuti. Tutti avevano alzata la testa. - Delle freccie! - aveva esclamato il guascone. - Benissimo! ... Gli spagnuoli dinanzi e gl'indiani in alto. Si stava meglio a Pueblo-Viejo. Sette od otto uomini dalla pelle ramigna, quasi interamente nudi, colle teste adorne di piume variopinte e che tenevano in mano dei lunghi archi, erano comparsi fra le alte rocce del vallone. Non correvano però in aiuto né degli spagnuoli, né degli avventurieri, perché lanciavano i loro pericolosi dardi tanto contro gli uni che contro gli altri. Per essi l'uomo bianco rappresentava il nemico, a qualunque nazione appartenesse. - Don Barrejo, che cosa facciamo? - chiese Mendoza, il quale si era prontamente riparato dietro una sporgenza dell'enorme roccia, insieme al fiammingo. - Carichiamo gli spagnuoli, che sono per ora i piú pericolosi, rispose il guascone. I cavalleggieri, che si trovavano maggiormente esposti alla pioggia di dardi, non avanzavano piú, anzi balzavano a destra ed a sinistra per evitare d'essere colpiti. - Approfittiamone, amici, - disse il guascone. I tre avventurieri balzarono innanzi, scaricando un colpo di pistola ognuno, non volendo rimanere affatto senza munizioni, poi il guascone ed il basco caricarono colle loro draghinasse, urlando ferocemente. Gli spagnuoli che già si trovavano a mal partito in causa delle freccie e che avevano perduto un altro uomo, colpito in pieno petto da una palla di pistola, fuggirono precipitosamente su pel vallone, traendosi dietro i cavalli rimasti vivi. - Io spero di non rivederli piú, - disse il guascone, rifugiandosi precipitosamente dietro la roccia, per non prendersi qualche freccia attraverso il corpo. - Non sono però scappati gl'indiani, - disse il fiammingo. - Non sarà facile a loro di colpirci. Bisognerebbe che girassero il vallone e noi sappiamo quanto è lungo. - Mi pare che si siano divisi, - disse Mendoza. - Alcuni di loro inseguono i cavalleggieri: vedo infatti lassú volare dei dardi. - Cosí affretteranno la loro ritirata, signor basco. - E gli altri assedieranno noi, don Barrejo. - Aspetteremo la notte. - Ed intanto ci ammazzano l'ultimo andaluso! - gridò il fiammingo. Infatti l'ultimo andaluso, colpito da cinque o sei freccie, era caduto addosso agli altri due, nitrendo lamentosamente. - Ah! ... furfanti! ... - gridò il guascone. - Non ne avevano abbastanza della carne qui, senza ammazzarci anche quella povera bestia. - Ci impediscono di fuggire, - disse Mendoza. - Quante piastre perdute! ... - Un migliaio per lo meno, don Barrejo. - Ci rifaremo al saccheggio di Pueblo-Viejo. Per bacco! ... Mi viene una superba idea. - Dite. - Di far pagare questi tre cavalli a quel furfante di taverniere. Se riesco a scovarlo, lo farò urlare come una coyota. Mentre si scambiavano quelle parole, tranquilli come se fossero al sicuro dentro un castello, gl'indiani non cessavano di scagliare freccie e di mandare, di quando in quando, il loro acutissimo urlo di guerra. Sprecavano però inutilmente i loro dardi, poiché i tre avventurieri si guardavano bene dal lasciare l'angolo della roccia. - Suppongo che non avranno delle migliaia di freccie, - riprese il guascone, dopo un breve silenzio. - Ne hanno già scagliate parecchie dozzine. Ah! ... Se avessi un po' di polvere! ... - Non abbiamo che tre cariche, - disse Mendoza. - E di pistola ... - Tiro troppo breve. - Lo so, signor basco. Io continuo a tormentarmi il cervello per trovare un mezzo qualunque che ci permetta di andarcene, e non trovo nulla. Ciò m'inquieta. - Qui non corriamo alcun pericolo, - disse il fiammingo, il quale masticava l'ultimo pezzo del suo sigaro. - Non sono gl'indiani che m'inquietano, - rispose il guascone. - Il sole, forse? - Me ne infischio del caldo. Sono gli spagnuoli. - Se sono scappati! ... - E se ritornassero con dei rinforzi e ci trovassero ancora qui? ... - Che frittata! - esclamò Mendoza. - Fortunatamente Pueblo-Viejo non è tanto vicina ed i cavalleggieri sono quasi tutti smontati. - E quelli montati possono correre innanzi e tornare alla testa di qualche squadrone. - Ah diavolo! - brontolò Mendoza, grattandosi furiosamente la testa. - Voi mi avete messo una pulce terribile in un orecchio. È necessario prendere una risoluzione eroica. Credete che questa roccia sia proprio inaccessibile? - Io non l'ho ancora osservata attentamente, - rispose il guascone. - Si può provare. - Non ci colpiranno gl'indiani? - chiese il fiammingo. - Non credo, perché l'angolo della roccia si prolunga. - Tentiamo, - disse Mendoza, risolutamente. - State attenti alle freccie; non sono già molto pericolose in pieno giorno. Presero gli archibugi, armi troppo preziose, anche se pel momento scariche, per lasciarle agli altri, impugnarono le tre pistole cariche e scivolarono lungo la parete dell'enorme roccia, girandola verso l'opposta parte del vallone. Gl'indiani non potevano accorgersi di quella ritirata, impedendo la frana di osservare ciò che succedeva in basso. I tre avventurieri, procedendo cauti e nel piú profondo silenzio, riuscirono finalmente a raggiungere l'altro angolo, il quale si appoggiava contro la parete rocciosa del vallone. Per un caso assolutamente straordinario, l'enorme rupe, nel precipitare, si era per cosí dire smussata verso la base, lasciando un passaggio fra il proprio angolo e la parete che scendeva a picco. - L'ho sempre detto io, che tutti gli avventi hanno la loro stella! - esclamò il guascone, trionfante. - Un cavallo non potrebbe passare, ma un uomo sí. Prenderemo quei signori indiani alle spalle! ... - Infatti noi abbiamo una fortuna veramente straordinaria, disse Mendoza. - Chi avrebbe potuto supporre che qui esistesse un passaggio? - Dentro, amici, - comandò don Barrejo. - Spicciamoci, giacché gl'indiani non si sono ancora accorti della nostra scomparsa. Odo sempre le freccie fischiare dall'altra parte della frana. Si curvò e si mise a strisciare sotto la rupe, seguito tosto da Mendoza e dal fiammingo. Quella specie di galleria si prolungava per una quindicina di metri, ingombra di terriccio e di macigni. I tre avventurieri l'attraversarono rapidamente e giunsero dietro la frana. - Laggiú mugge il Chagres, - disse il guascone. - Dobbiamo attaccare alle spalle gl'indiani o scappare? I"Veramente ad un guascone ripugna di mostrare i talloni al nemico. - Io direi di dare l'attacco, - rispose Mendoza. - Se si accorgono della nostra fuga non cesseranno di perseguitarci. Io so quanto sono testardi quei maledetti uomini rossi. - Voi meritereste di essere promosso generale. - Perché, don Barrejo? - Gli uomini si conoscono nei momenti difficili. Scappano almeno gl'indiani quando odono dei colpi di fuoco? - Come conigli. - Allora cerchiamo di sorprenderli. Che cosa dite voi, signor fiammingo? - Conosco anch'io quella gente che ha la pelle color rame e vi posso dire che è sempre meglio dare l'assalto. - Riusciremo noi a sorprenderli? - Basta arrampicarsi sulla roccia, - rispose Mendoza. - Qui è piú accessibile che dall'altra parte. - Noi siamo gente sempre straordinariamente fortunata, - disse il guascone. - Se gl'indiani non si accorgono della nostra scalata, faremo una carica a fondo. Compare Mendoza, insegnateci la via. Non siete piú giovane, questo è vero, però potete competere con un gatto selvaggio. Questi filibustieri sono veramente meravigliosi! ... - Ora vi darò una prova di che cosa sono capaci i figli della Tortue, - rispose il basco. - Se non faccio fuggire gl'indiani, che un giaguaro mi divori. - Brutta scommessa, - disse il guascone, scuotendo la testa. Il filibustiere osservò attentamente l'enorme frana, poi, avendo scoperto una specie di gradinata, si mise a salirla. Non era già una gradinata regolare, tuttavia il lupo di mare aveva dato arditamente l'assalto, ansioso di piombare alle spalle degl'indiani, i quali non cessavano di scagliare freccie nel vallone, per impedire la fuga agli assediati. Il guascone ed il fiammingo gli si erano messi dietro, pronti ad aiutarlo nella temeraria impresa. Puntando i piedi sulle sporgenze ed aggrappandosi agli sterpi, il lupo di mare raggiunse senza troppa fatica la cima e scivolò inosservato verso gli alberi che coprivano il margine del vallone. - Ecco il momento di mostrare a quel terribile guascone che anche i baschi valgono qualche cosa, - brontolò. - Che tutta la gloria spetti a lui, perché abita dall'altra parte del mar di Biscaglia, comincia un po' a seccarmi. Canarios! ... Anche noi siamo famosi per menare le mani e per uccidere, sia pure a colpi di navaja. Don Barrejo ed il flemmatico fiammingo lo avevano raggiunto, senza che le pelli-rosse se ne fossero accorte. - Signor Mendoza, - disse don Barrejo, - non sarebbe questo il momento di dare una prova della vostra abilità? - Che cosa volete dire? - chiese il filibustiere. - Abbiamo gl'indiani a soli venti passi da noi e ci voltano le spalle ed io ho udito vantare la straordinaria abilità dei baschi. - A giuocare di spada? - Le spade sono le armi dei guasconi, - disse don Barrejo. È il colpo della navaja che io vorrei vedere. Si risparmierebbe una carica di polvere. - Ho capito, - rispose il basco, sorridendo. - L'avete sempre la vostra navaja? - Preferirei lasciare la spada per la mia arma nazionale. - Fate un buon colpo dunque! Vedremo se la pelle degl'indiani è piú dura di quella degli uomini di razza bianca. Una cosí tremenda stoccata, data a distanza, potrebbe produrre un effetto straordinario. - Vi contenterò, - rispose Mendoza. - Sarà una palla risparmiata. Fermatevi qui e non fate rumore! GI'indiani si trovavano a trenta o quaranta passi, nascosti dietro gli enormi massi della frana. Credendo che gli avventurieri si trovassero sempre riparati dietro l'angolo dell'enorme roccia, non cessavano di lanciare delle freccie, senza guardarsi alle spalle. - Sotto, Mendoza, - disse il guascone. - Lasciate fare a me, - rispose il basco. - Tenetevi pronti a caricare a colpi di spada, se non volete consumare le nostre ultime munizioni. Silenzio! Si era allontanato, strisciando, dopo essersi sbarazzato dell'archibugio il quale non poteva essergli piú di nessuna utilità. Sulla mano allargata teneva la terribile navaja basca, colla punta rivolta verso il polso ed il manico al di fuori. Strisciava come un serpente, senza produrre il menomo rumore. Il guascone ed il fiammingo lo seguivano a breve distanza, tenendo pronte le pistole, pronti a portargli aiuto nel caso che il colpo fosse mancato. Ad un tratto Mendoza si fermò dietro il tronco d'una grossa palma. GI'indiani non erano che a dieci o dodici passi e gli volgevano le spalle, intenti a lanciare, senza interruzione, delle freccie. Si udí un leggiero sibilo e qualche cosa scintillò in alto. La navaja era stata lanciata, piantandosi fra le spalle d'un selvaggio e con tanta violenza da troncargli di colpo la colonna vertebrale. I suoi compagni, vedendolo cadere, avevano fatto tre o quattro salti innanzi, urlando spaventosamente. Il guascone sparò un colpo di pistola, poi caricò colla sua terribile draghinassa. Era una carica affatto inutile, perché i figli delle foreste, spaventati di vedersi dinanzi quei tre uomini bianchi, si erano precipitati sotto la vicina boscaglia, correndo come lepri. Quasi nel medesimo istante si udirono rimbombare nel vallone parecchi colpi d'archibugio. - Gli spagnuoli! - gridò il guascone, mentre il basco s'impadroniva della navaja. - Gambe, amici!

IL RE DEL MARE

682268
Salgari, Emilio 4 occorrenze

- Abbandonando il Re del Mare al suo destino, ve lo dissi già. - No, sir Moreland. Finchè sventolerà la bandiera delle tigri di Mompracem, Darma, la protetta di Sandokan e Yanez, non lascerà la nave. - E non sapete dunque che essi sono destinati a perire tutti? Le migliori e le più possenti navi della marina inglese fra poco piomberanno su questi mari e spazzeranno via il corsaro. Fuggirà, vincerà forse altre battaglie, eppure presto o tardi dovrà soccombere sotto le nostre artiglierie. - Ve lo dissi ancora: noi sapremo morire da valorosi, al grido di: Viva Mompracem! - Bella e coraggiosa, come una vera eroina! - esclamò sir Moreland, guardandola con ammira rione. - Ed il fiotto di sangue sarà fatale a tutti! ... Yanez si era in quel momento accostato con precipitazione. - sir Moreland! - esclamò. - Una nave a vapore corre su di noi. È stata già segnalata dal comandante. - Che sia il Re del Mare! - esclamò Darma. - Si sospetta che sia una nave da guerra. Guardate: i marinai si preparano al combattimento. La fronte di sir Moreland si era oscurata, mentre un rapido pallore si era diffuso sul suo viso. - Il Re del Mare, - mormorò con voce sorda. - Esso viene a spezzare la mia felicità. Il tenente lo aveva raggiunto, tenendo in mano un cannocchiale. - Sir James, - disse. - Una nave e molto grossa, se non m'inganno, punta su di noi. - Che sia una delle nostre? - chiese il capitano. - No, perchè viene dal nord-est, mentre la nostra squadriglia si è diretta verso Sarawak colla speranza di trovare il corsaro in quella direzione. Un punto nero, che ingrandiva rapidamente, sormontato da due nere colonne di fumo, era apparso all'orizzonte e pareva che si dirigesse verso il gruppo di Mangalum, muovendo a grande velocità. Sir Moreland aveva puntato il cannocchiale e guardava con estrema attenzione. Ad un tratto l'istrumento gli sfuggì dalle mani: - Il Re del Mare! - esclamò con voce rauca, mentre gettava su Darma uno sguardo ripieno di tristezza. - Sandokan! - esclamò Yanez. - Nemmeno questa volta mi appiccheranno! - È il corsaro? - chiese il tenente. - Sì, - rispose sir Moreland. - Daremo battaglia e l'affonderemo, - disse il tenente. - Volete farvi colare a picco? Fra pochi minuti nave e uomini saranno in fondo al mar della Sonda. Ci vuole ben altro, che un incrociatore di terza classe per affrontare quella nave, la più moderna, la più rapida e la più formidabile di quante ve ne siano. - Eppure non mi lascerò catturare senza combattimento, - rispose il tenente. - Non lo vorrei nemmeno io, amico; credo però che noi lo eviteremo. Le conseguenze sarebbero per noi disastrose. - In quale modo? - Fate calare in acqua una scialuppa e lasciate che io vada prima a parlamentare colla Tigre della Malesia. Voi perderete i due prigionieri, io perderò molto di più, ve lo giuro, ma voi salverete la vostra nave e il vostro equipaggio. - Vi obbedisco, Sir James. Mentre i marinai calavano una baleniera, il Re del Mare che avanzava con una velocità di dodici nodi all'ora, piombava sull'incrociatore. Le sue possenti artiglierie delle torri di prora, erano già state puntate e si preparavano a coprire di fuoco e d'acciaio il minuscolo nemico ed a colarlo a fondo alla prima bordata. Il lungo nastro rosso, segno di combattimento, era salito sventolando sull'albero di prora, mentre la bandiera rossa di Mompracem, adorna d'una testa di tigre veniva innalzata su quella di poppa. Sandokan, vedendo l'incrociatore inglese arrestarsi, issare bandiera bianca e calare in mare una scialuppa, aveva ordinato macchina indietro, fermandosi a milleduecento metri dall'avversario. - Pare che l'inglese non si senta abbastanza forte per misurarsi con noi, - aveva detto a Tremal-Naik che lo aveva raggiunto nella torretta. - Che voglia arrendersi? Non saprei cosa farne di quella nave. - Le prenderemo le artiglierie e le munizioni, oltre il carbone, - rispose l'indiano. - Potranno servire ai nostri amici dayaki di Sarawak. - Sì, eppure mi spiacerebbe perdere altro tempo, - disse la Tigre della Malesia. - Dobbiamo cercare Yanez e Darma. - Speri di trovarli ancora sullo scoglio? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Non ne dubito. Io li ho veduti approdare, prima che le tenebre coprissero quell'isolotto. Oh! Un capitano nella baleniera! Che venga a offrirci la sua spada? Avrei preferito un combattimento, giacchè sento una smania furiosa di tutto distruggere. - Tigre della Malesia, - disse in quel momento Sambigliong, il quale aveva puntato un cannocchiale sulla scialuppa. - È mai possibile! Che io mi inganni o che sia realmente lui! Guardate! Guardate! - Che cosa hai veduto? - È lui, vi dico, è lui! - Chi lui? - sir Moreland. - Moreland! - esclamò Sandokan, prima impallidendo e poi arrossendo, mentre un lampo di speranza gli balenava negli sguardi. - Moreland a bordo di quel legno! Allora Yanez ... Darma ... Come possono trovarsi su quella nave? È impossibile, ti sei ingannato, Sambigliong. - No, guardate, ci ha scorti e ci saluta agitando il berretto. Sandokan si era slanciato fuori dalla torretta. Un grido di gioia gli sfuggì. - Sì, è lui, sir Moreland! ... La baleniera, sotto la spinta di dodici remi, s'avanzava rapidissima. L'anglo-indiano, in piedi a poppa, salutava ora col berretto, senza abbandonare la barra del timone. - Abbassate la scala! - gridò Sandokan. L'ordine era stato appena eseguito che la baleniera abbordava. Sir Moreland salì rapidamente a bordo, dicendogli con una certa freddezza: - Sono lieto di rivedervi, signore, e di potervi dare una notizia che gradirete assai. - Yanez ... Darma? ... - gridarono ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Sono a bordo di quella nave. - Perchè non li avete condotti qui? - chiese Sandokan aggrottando la fronte. L'anglo-indiano che era diventato estremamente serio e che parlava con voce quasi imperiosa, rispose: - Vengo per intavolare delle trattative, signore. - Che cosa volete dire? - Che il comandante vi consegnerà il signor Yanez e miss Darma a condizione che voi lasciate tranquilla quella nave, che come ben vedete non sarebbe in grado di misurarsi con la vostra. Sandokan ebbe un istante di esitazione, poi rispose: - Sia pure, sir Moreland. Saprò ritrovarla più tardi. - Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri. Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez. - sir Moreland, - disse Sandokan, - dove vi ha raccolti quella nave? - A Mangalum, - rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima. - Vi eravate salvati sullo scoglio? - Sì, - rispose il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni. La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre. Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli: - Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero? La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne. - No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore. Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò. - Signori, - disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez, - spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici. - Vi aspettiamo, - rispose freddamente Sandokan. S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste: - Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss. La fanciulla che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola. L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro. Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto. - Yanez, - disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. - Perchè lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso. - Ed un pericolo per Darma, - rispose Yanez. - Essi si amano. - Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma ... chissà? Dopo la campagna. Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese: - Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finchè le squadre ci cercano nelle acque di Sarawak, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.

Le doppie scialuppe, vedendo avanzarsi quel colosso di ferro, si erano affrettate a scappare verso l'isola, abbandonando il giong alla sua sorte, tanto più che non avevano più nemmeno l'appoggio della scialuppa a vapore, scomparsa già verso il sud coi prigionieri. Il veliero, colpito già da tre obici, si era inclinato su un fianco, imbarcando acqua per lo squarcio che doveva essere stato gravissimo. I suoi uomini, dopo d'aver scaricato i loro pezzi contro la nave, cominciavano a saltare in acqua per non venire attratti dal gorgo. - Amici! - gridò Yanez. - Ai remi! Andiamo a cercare il pellegrino! Mentre la nave a vapore metteva in acqua due scialuppe, montate da due dozzine d'uomini armati di carabine, i pirati di Mompracem, impadronitisi dei remi, spinsero il praho addosso al giong il quale cominciava ad immergersi. A bordo non erano rimasti che dei morti e qualche ferito. Tutti gli altri nuotavano disperatamente verso l'isola, dove erano già giunte le scialuppe doppie. Yanez, Kammamuri e Sambigliong si issarono rapidamente a bordo del veliero, slanciandosi verso il cassero dove supponevano si trovasse il pellegrino. Non si erano ingannati. Il loro misterioso ed implacabile avversario, giaceva su una vecchia vela, coi pugni stretti sul petto, comprimendosi una ferita prodotta probabilmente dalla palla della carabina di Yanez. Non era morto, poichè appena si vide presso quei tre uomini, con uno scatto improvviso s'alzò sulle ginocchia e strappatesi dalla cintura una pistola dalla canna lunghissima, tentò di far fuoco. Kammamuri, a rischio di ricevere la scarica in pieno petto, gli si era gettato prontamente addosso, strappandogli l'arma. - Credevo che fossi morto, - disse il maharatto, - ma giacchè ti ritroviamo ancora vivo, ti ricacceremo all'inferno. Aveva volta l'arma contro il pellegrino e stava per fracassargli il cranio, quando Yanez gli trattenne il braccio. - È più prezioso vivo che morto, - gli disse. - Non commettiamo la sciocchezza di finirlo. Sambigliong, prendi quest'uomo e portalo sul praho. Lesti; il giong affonda! Il veliero continuava a inclinarsi sul fianco squarciato, minacciando di rovesciarsi. Yanez ed i suoi compagni saltarono sul praho, mentre una delle due scialuppe gettava un cavo per rimorchiarlo verso la nave, la quale erasi arrestata a due gomene di distanza. Tutto l'equipaggio, che era piuttosto numeroso, era salito sulle murate del vapore, seguendo con viva curiosità l'opera di salvataggio. - Sono europei! - aveva esclamato Yanez, appena ebbe terminato di far legare il pellegrino. - Che siano inglesi? - Per lo meno parlano inglese, - disse Kammamuri, che aveva udito un comando dato dall'ufficiale che guidava la scialuppa. - Sarebbe comica che dovessimo la nostra salvezza a dei nemici non meno accaniti dei dayaki. Poi, con un profondo sospiro, aggiunse: - E Tremal-Naik? E Darma? Che cosa sarà accaduto di loro? Ah! Mio Dio! - La scialuppa a vapore è scomparsa verso il sud, signor Yanez. - Non si è diretta verso la foce del Kabatuan? Sei proprio sicuro? - Sicurissimo: non sono stati consegnati ai dayaki. - Ma allora chi erano costoro? Dove li avranno condotti? Una scossa lo interruppe. Il praho aveva urtato contro la piattaforma inferiore della scala che era stata subito abbassata. Un uomo sui cinquant'anni, solidamente piantato, con una barbetta brizzolata tagliata a punta, che indossava una divisa di panno azzurro cupo con bottoni dorati ed un berretto con gallone, attendeva sulla piattaforma superiore. Yanez pel primo balzò sui gradini e salì rapidamente, dicendo al comandante della nave, in inglese: - Grazie, signore, del vostro aiuto. Ancora qualche minuto e la mia testa andava ad aumentare la collezione di quei terribili cacciatori di crani. - Sono ben felice, signore, di avervi salvato, - rispose il comandante, tendendogli la destra e dandogli una stretta vigorosa. - Qualunque altro uomo bianco, d'altronde, avrebbe fatto altrettanto. Con quei furfanti non ci vuole misericordia, come non ci vogliono mezze misure. - Ho l'onore di parlare al comandante? - Sì, signore ... - Yanez de Gomera, - rispose il portoghese. Il comandante aveva fatto un soprassalto. Prese Yanez per una mano, traendolo sulla tolda per lasciare il passo libero a Sambigliong ed agli altri che portavano il pellegrino e si mise a guardarlo con viva curiosità, ripetendo: - Yanez de Gomera! Questo nome non mi è nuovo, signore. By God! Sareste voi il compagno di quell'uomo formidabile che anni or sono ha detronizzato James Brooke, lo sterminatore dei pirati? - Sì, sono quello. - Ero a Sarawak il giorno in cui Sandokan vi entrò coi guerrieri di Muda Hassim e le sue invincibili tigri. Signor de Gomera, sono ben felice di avervi prestato un po' d'aiuto. Ma che cosa volevano quegli uomini da voi? - È una istoria un po' lunga a narrarsi. Ditemi, signore, voi non siete inglese? - Mi chiamo Harry Brien e sono americano della California. - E questa nave che è così poderosamente annata, meglio d'un incrociatore di prima classe? - Oh molto meglio! - disse l'americano, sorridendo. - Credo che finora non ve ne sia una seconda in tutta la Malesia e nel Pacifico. Forte, a prova di scoglio, con artiglierie formidabili e rapida come una rondine marina. Si volse verso i marinai che stavano loro d'intorno, interrogando curiosamente i compagni del portoghese, mentre il medico di bordo prodigava le prime cure al pellegrino, dal cui petto usciva un filo di sangue. - Date la colazione a quelle brave persone, - disse loro. - E voi signor de Gomera, seguitemi nel quadro. Ah! Che cosa devo fare del vostro praho? - Abbandonatelo alle onde, comandante, - rispose il portoghese. - Non vale la pena di prenderlo a rimorchio. - Dove desiderate che vi sbarchi? - Più vicino a Mompracem che vi sarà possibile, se non vi spiace. - Vi condurremo direttamente colà, si trova quasi sulla mia rotta e la visiterò volentieri. Venite, signor de Gomera. Si diressero verso poppa e scesero nel quadro, mentre la nave, dopo che i marinai ebbero issato le due scialuppe e tagliati gli ormeggi del praho, riprendeva la sua corsa verso il sud. Il comandante fece portare una colazione fredda nel salotto poppiero e invitò Yanez a dare l'assalto. - Possiamo discorrere anche mangiando e bevendo, - disse amabilmente. - La mia cucina è a vostra disposizione, signor de Gomera, al pari della mia cantina particolare. Quando il pasto fu finito, l'americano conosceva già tutte le disgraziate avventure toccate al suo commensale sulla terra dei dayaki, per opera del misterioso pellegrino e anche la pericolosa situazione in cui trovavasi Sandokan. - Signor de Gomera, - disse, offrendogli un manilla profumato, - vorrei proporvi un affare. - Dite, signor Brien, - rispose il portoghese. - Sapete dove stavo per recarmi? - Non lo saprei indovinare. - A Sarawak per cercare di vendere questa nave. Yanez si era alzato, in preda ad una visibile commozione. - Voi volete vendere la vostra nave! - esclamò. - Non appartiene alla marina da guerra americana? - Niente affatto, signor de Gomera. Era stata costruita nei cantieri d'Oregon, per conto del sultano di Shemmerindan, il quale voleva vendicare, a quanto mi fu detto, suo padre uccisogli dagli olandesi nella sanguinosa sconfitta inflitta a quei predoni molti anni or sono. - Nel 1844, - disse Yanez. - Conosco quell'isola. - Il sultano aveva già versato ai costruttori un'anticipazione di ventimila sterline, promettendo l'intero pagamento alla consegna della nave, ed un forte regalo se fosse riuscita tale da poter sfidare impunemente le navi olandesi. Non abbiamo lesinato e, come avete potuto osservare, questo piroscafo vale meglio d'un incrociatore di prima classe. Disgraziatamente quando condussi la nave alla foce del Cotti, fui informato che il sultano era stato assassinato da un suo parente, ad istigazione degli olandesi, a quanto pare, per evitare una nuova campagna. Il suo erede non ne volle sapere della nave, abbandonandoci l'anticipo fattoci. - Quello là è una bestia, - disse Yanez. - Con un simile piroscafo avrebbe potuto far tremare anche il sultano di Varauni. - Da Ternate ho telegrafato ai costruttori e mi hanno incaricato di offrirla al rajah di Sarawak o a qualche sultano. Signor de Gomera, vorreste acquistarla? Con questa voi potreste diventare il re del mare. - Vale? - chiese Yanez. - Gli affari sono affari, signore, - disse l'americano. - I costruttori chiedono cinquantamila sterline. - Ed io, signor Brien, ne offro sessantamila, pagabili sul banco di Pontianak, a condizione che mi lasciate il personale di macchina a cui offrirò doppia paga. - Sono gente che non rifiuterà, avventurieri della più bella razza, pronti a chiudere ed aprire una valvola ed a sparare il fucile. - Accettate? - By God! È un affare d'oro, signor de Gomera, e non me lo lascerò sfuggire. - Dove volete sbarcare col vostro equipaggio? - A Labuan possibilmente, per prendere il postale che va a Shangai, da cui troveremo facile imbarco per San Francisco. - Quando saremo a Mompracem farò mettere a vostra disposizione un praho onde vi sbarchi in quell'isola, - disse Yanez. Estrasse un libriccino che teneva gelosamente nascosto in una fascia che portava sotto la camicia, si fece dare una penna e appose delle firme su diversi biglietti. - Ecco degli chèques per sessantamila sterline, pagabili a vista sul banco di Pontianak, dove io e Sandokan abbiamo un deposito di tre milioni di fiorini. Signor Brien, da questo momento la nave è mia e ne assumo il comando. - Ed io, signor de Gomera, da comandante divento un pacifico passeggero, - disse l'americano, raccogliendo gli chèques. - Signor de Gomera, visitiamo la nave. - Non mi occorre mi è bastato uno sguardo per giudicarla. Solo desidero conoscere il numero delle bocche da fuoco. - Quattordici pezzi, fra cui quattro da trentasei, un'artiglieria assolutamente formidabile. - Mi basta: devo occuparmi del pellegrino. O egli mi dice dove la scialuppa ha condotto Tremal-Naik e Darma o lo martirizzo fino a che esalerà l'ultimo respiro. - Conosco un mezzo infallibile per costringerlo a parlare, l'ho appreso dalle nostre pelli-rosse, - disse l'americano. - Sempre la rotta su Mompracem, signor de Gomera? - Ed a tiraggio forzato, - rispose il portoghese. - È probabile che in questo momento Sandokan stia per misurarsi cogli inglesi e non ha che dei prahos. - E voi, signor de Gomera, avete a disposizione una nave da cacciare tutti a fondo. Pezzi da 36! Faranno saltare le cannoniere di Labuan come giuocattoli. Lasciarono il quadro e salirono in coperta. La nave filava a tutto vapore verso il sud-ovest, con una velocità assolutamente sconosciuta ai piroscafi di quell'epoca. Quindici nodi all'ora e sei decimi. Chi avrebbe potuto gareggiare con quel piroscafo americano che filava come una rondine marina o poco meno? Yanez ne era entusiasmato. - È un fulmine! - aveva detto ad Harry Brien. - Con tale nave, nè gli inglesi di Labuan, nè il rajah di Sarawak mi fanno paura. Sandokan, se volesse, potrebbe dichiarare la guerra anche all'Inghilterra! Kammamuri in quel momento gli si appressò, dicendogli: - Signor Yanez, la ferita del pellegrino non ha alcuna importanza. La vostra palla deve aver colpito prima qualche cosa di duro, probabilmente l'impugnatura del tarwar, che quell'uomo portava alla cintura e l'ha colpito solamente di rimbalzo, strisciando su una costola. - Dov'è? - In una cabina di prora. - Signor Brien, volete accompagnarmi? - Sono con voi, signor de Gomera, - rispose l'americano. - Cerchiamo di strappare il velo che nasconde quel misterioso personaggio. Scesero nella corsia di babordo di prora ed entrarono in una stanzetta che serviva d'infermeria. Il pellegrino giaceva su una branda, guardato da Sambigliong e da un marinaio della nave. Era un uomo sui cinquant'anni magrissimo, dalla pelle assai abbronzata, coi lineamenti fini come quelli degli indiani delle alte caste e gli occhi nerissimi, penetranti, animati da un fuoco sinistro. Aveva i piedi e le mani legate e conservava un mutismo feroce. - Capitano, - disse Sambigliong a Yanez, - ho veduto or ora il petto di quest'uomo e vi ho scorto un tatuaggio rappresentante un serpente con una testa di donna. - Ecco la prova che egli è veramente un thug indiano e non già un arabo maomettano, - rispose Yanez. - Ah! Uno strangolatore! - esclamò l'americano, guardandolo con vivo interesse. Il prigioniero udendo la voce di Yanez aveva trasalito, poi aveva alzato il capo, fissandolo con uno sguardo ripieno d'odio. - Sì, - disse, - sono un thug, un amico devoto di Suyodhana, che aveva giurato di vendicare su Tremal-Naik, su Darma, su te e più tardi sulla Tigre della Malesia la distruzione dei miei correligionari. Ho perduto la partita quando credevo di averla vinta: uccidimi. Vi è qualcuno che penserà a vendicarmi e più presto di quello che credi. - Chi? - domandò Yanez. - Questo è il mio segreto. - Che io ti strapperò. Un sorriso ironico sfiorò le labbra dello strangolatore. - E mi dirai anche dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i miei Tigrotti sfuggiti al fuoco dei tuoi lilà. - Questo non lo saprai mai! - Adagio, signor strangolatore, - disse l'americano. - Permettetemi di avvertirvi che io conosco un mezzo infallibile per farvi parlare. Non resistono nemmeno le pelli-rosse, che sono d'una cocciutaggine incredibile. - Voi non conoscete gli indiani, - rispose il thug. - Mi ucciderete, ma non mi strapperete una sillaba. L'americano si volse verso il suo marinaio dicendogli: - Prepara sul ponte un paio di tavole ed un barile d'acqua. - Che cosa volete fare, signor Brien? - chiese Yanez. - Ora lo vedrete, signor de Gomera. Fra due minuti quest'uomo parlerà, ve lo prometto. - Voi, - aggiunse poi rivolgendosi a Sambigliong e a Kammamuri, - prendete quest'uomo e portatelo in coperta.

Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bengalow e le tettoie. - Come! - esclamò Tremal-Naik. - Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa? - Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza, - rispose Yanez. - Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki. - La palizzata interna non è molto solida. - Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, - disse Yanez ridendo. - Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra. - Si ubriacheranno, ne sono certo. - È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore. - Tippo Sahib, il Napoleone dell'India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano. - Quella non era una tigre di Mompracem, - disse Yanez con comica serietà. - Cadranno nel laccio i dayaki. - Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

- gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. - Sgombrate la prora! In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d'acciaio irte di punte sottilissime. I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso. Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini. - Stringete le file attorno alle spingarde! - gridò. I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all'abbordaggio. Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori. I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori. Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta. Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull'albero istesso. Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria. - Dentro colle spingarde! - gridò Yanez che li aveva lasciati fare. Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello. Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto. Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti. I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue. La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem. Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d'acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare. Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo. I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un'altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe. - Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, - disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. - Ciò v'insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem. La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più. Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume. - Se ne sono andati, - disse Yanez. - Speriamo che ci lascino tranquilli. - Ci aspetteranno nel fiume, signore, - disse Sambigliong. - E vi daranno nuovamente battaglia, - aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze. - Lo credi? - chiese il portoghese. - Ne sono certo, signore. - Daremo loro un'altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d'importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong? - Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo. - Quanti uomini abbiamo perduto? - chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo. - Ve ne sono otto nell'infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti. - Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! - esclamò Yanez. - Orsù, così è la guerra, - aggiunse poi con un sospiro. Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine: - La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

La flottiglia dà di volta, abbandonando i disgraziati alla loro sorte, per non compromettere l'esito della spedizione, poiché la guerra ha le sue crudeli esigenze, e si dirige rapidamente verso la riva per mettersi al coperto dai tiri della corvetta. Hurrà fragorosi, lanciati dagli americani, salutano la splendida difesa dei corsari la cui nave continua a sparare, tirando ora verso i forti di Boston, ora verso la foce del fiume per impedire un nuovo tentativo. Non era però una vittoria definitiva. Il generale Howe, accortosi del pericolo, chiama nuovi rinforzi, fa sbarcare le sue genti alla foce e rinunciando, per il momento, all'idea d'impadronirsi dei due ridotti, attacca risolutamente la bastita. Gli assiani ed i brunswickesi, furibondi per quella prima batosta e sapendo che i loro compagni hanno cacciato i nemici da Charlestown, dànno un assalto formidabile. Incoraggiati dalle grida degl'inglesi, i quali ormai hanno occupato il ridotto di Bunker's Hill, ed aiutati da uno stuolo di fanti leggeri, si fanno sempre innanzi, gelosi della vittoria dei loro compagni. Le baionette, temute dagli americani, hanno finalmente ragione sui calci dei fucili e le truppe mercenarie entrano nella bastita, pur subendo perdite gravissime. Anche in quella parte i generali americani fanno suonare la ritirata e le bande provinciali, dopo un'ultima scarica, si ritirano con un ordine così perfetto, che nessuno si sarebbe aspettato da parte di soldati raccogliticci e che combattevano per la prima volta. La battaglia era perduta per le truppe federali, ma non era stata nemmeno per gl'inglesi una vera vittoria, poiché se erano riusciti ad espugnare la altura di Bunker's Hill, non si erano impadroniti di quella di Breed's Hill. Gli americani non erano ancora giunti alla fine delle loro disgrazie. Una sola via era rimasta loro per ritirarsi, quella serpeggiante attraverso la penisola di Charlestown, dove gl'inglesi avevano collocata una grossa fregata. Per di più il nemico li incalzava alle spalle colla speranza di sbaragliarli prima che riuscissero a mettersi in salvo. Gli americani, peraltro, passando attraverso i boschetti che coprivano le coste dell'istmo, non soffrivano gran danno dalle bordate della fregata e dalle due batterie galleggianti che la spalleggiavano. Anima della ritirata era il dottor Warren, un uomo che avrebbe potuto competere anche con Washington in fatto di arte guerresca. Infaticabile, malgrado la rotta, non cessava di raccogliere i ritardatari, gridando loro con voce stentorea: - Ricordatevi delle nostre insegne: esse portano da una parte il motto: Appello al cielo e dall'altra: Qui sustulit sustinet, - ciò che voleva significare che la Provvidenza, la quale aveva condotto in salvo i loro antenati in mezzo a tanti pericoli, avrebbe provveduto a salvare i loro pronipoti. Non doveva però sopravvivere quel valoroso a così triste giornata. Un ufficiale dell'avanguardia inglese, che lo aveva riconosciuto, strappò ad un granatiere l'archibugio appena caricato, prese la mira e con un colpo ben aggiustato lo colpì in mezzo al petto fulminandolo. La ritirata degli americani si effettuava rapidissima. Alle otto di sera gl'inglesi bivaccavano sulla posizione conquistata, cantando a squarciagola l'inno inglese, mentre gli americani, vinti sì, ma non disfatti, ripiegavano verso le rive della Mistica, mettendosi sotto la protezione della corvetta, i cui pezzi continuavano a tuonare con grande furia per impedire alle navi nemiche di accostarsi.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Le giunche si affrettavano a dirigersi verso le rive, mentre i pescatori, pazzi di terrore, balzavano in acqua, abbandonando le loro barche alla corrente. - Un drago! Un drago! - urlavano tutti. Gli abitanti delle sponde, udendo quei clamori, si precipitavano fuori delle capanne, ma, appena scorto il mostro volante, s'affrettavano a rientrare, gridando e facendo gesti disperati. Rokoff e Fedoro si divertivano immensamente del terrore dei cinesi e anche il capitano pareva che si compiacesse dell'effetto che produceva la sua macchina volante, la quale seguiva le capricciose curve del fiume, tenendosi a un'altezza di soli cento metri. A un tratto però le loro risa si tramutarono improvvisamente in un'esclamazione di sorpresa e anche d'angoscia. Lo "Sparviero" aveva superato una curva, quando d'un tratto un colpo di cannone rimbombò sulla riva destra, in mezzo ad un folto gruppo di pini seguito subito dal ben noto ronfo metallico d'un grosso proiettile. Un fortino, nascosto fino allora dalle piante, si era improvvisamente delineato all'estremità d'un piccolo promontorio dominante il corso del fiume ed alcuni artiglieri, che occupavano una bastionata, avevano fatto fuoco contro il mostro, scaricando un grosso pezzo d'artiglieria. La palla, di grosso calibro di certo, era passata pochi metri sopra il fuso, perdendosi poi fra le boscaglie della riva opposta. Un po' più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata. - In alto! In alto! - aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista. Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente. In quell'istante un secondo sparo rimbombava all'estremità del bastione, dietro un terrapieno. Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d'aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l'ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell'armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso. Il capitano aveva mandato un grido di furore. - Canaglie! Ci rovinano! Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

- esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. - Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote. Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l'animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno. Giunto là, s'alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò. A trenta soli passi di distanza egli scorse l'orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d'acqua che crescevano stentatamente fra la neve. Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava. Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato. Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell'aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l'orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli. Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove. Mancava il tempo di ricaricare l'arma e anche di fuggire, poichè l'orso non era più che a pochi passi. Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d'animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l'animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso. Disgraziatamente l'arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme. Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe. Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l'attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano. Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure. - Cos'hai? - gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. - Che ti è accaduto? Chi ti insegue? - Fuggite! Fuggite! - esclamò Koninson rimettendosi in piedi. - Ho un orso bianco alle spalle. - Un orso! E dov'è? - L'ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile. - Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov'è il tuo moschetto? - Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo. - Bisogna andarlo a riprendere, o quell'animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere. - Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi. - Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto? - Sono intatto. - Allora silenzio e avanti. Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l'altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario. - Dove si sarà nascosto? - si chiese. - Forse dietro a quelle macchie - rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine. - Non ti ha inseguito? - Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro. - Scendiamo, amico mio. Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta. Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l'orso bianco non c'era e, quello che era più sorprendente, non c'era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere. - Tò! - esclamò il tenente al colmo della sorpresa. - Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca. Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso. - Che ne dici? - chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa. - Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, - rispose Koninson. - Che l'orso abbia portato con sè l'arma? - E per che farne? - Non lo so davvero, Koninson. - Che sia venuto qui qualche indiano? - Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell'orso. - E allora? - Che sia un orso ammaestrato? - Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup. - Ma vi possono essere degli indiani. - E voi credete ... - Io non credo nulla, ma dico che quell'orso può appartenere a qualche banda d'indiani. - E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni? - Così deve essere. - Cosa dobbiamo fare? - Inseguire il ladro. - Ben detto, signor Hostrup. - Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani. - Allora andiamo, ma ... e la nostra slitta? - La ritroveremo nel ritorno. - Ma i lupi la saccheggeranno. - Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino. Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l'opposto pendio entrando in un'altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni. Le traccie dell'orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l'impronta del calcio del fucile. - Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone - disse Koninson. - Deve essere un gran burlone! - rispose il tenente. - Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento. - Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi. Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane. - Un accampamento? - chiese Koninson. - Senza dubbio! - rispose il tenente. - Andiamo innanzi? - Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male. - Vedete? - esclamò Koninson, - le traccie dell'orso si dirigono verso quell'accampamento. - Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti. Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l'uno puntando il fucile e l'altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili. Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

I banditi, arrestati in piena corsa da quelle scariche terribili, si gettarono in mezzo alle dune, abbandonando i loro corridori. "Come li abbiamo fermati!" esclamò Ben. "Questi, ma non gli altri," rispose il marchese. "Stanno per piombarci alle spalle." Il secondo drappello, trovando la via sgombra, s'era spinto velocemente innanzi, occupando il margine dell'oasi. Alcuni spari rimbombarono, senza offendere i due coraggiosi europei, i quali si slanciarono sui loro cavalli e partirono al galoppo, salutati da una seconda scarica dei pari inoffensiva. "Che pessimi bersaglieri," disse il marchese. "Sono i loro fucili che valgono poco," rispose Ben. Vedendoli fuggire, i predoni si erano messi ad inseguirli vigorosamente, eccitandosi con alte grida e sparando di quando in quando qualche colpo di fucile, i cui proiettili non potevano certo giungere a buona destinazione a causa delle scosse disordinate dei mehari. Il marchese e Ben, attraversata; l'oasi in tutta la sua lunghezza, si slanciarono fra le dune di sabbia. La carovana aveva già percorso due miglia e continuava la fuga. Rocco ed Esther, la quale aveva fatto abbassare la tenda per essere più libera, stavano alla retroguardia, coi fucili in mano. "Cerchiamo di mantenere la distanza," disse il marchese, rallentando la corsa del cavallo. I predoni si erano nuovamente riuniti, vista l'impossibilità di sorprendere la carovana, ed eccitavano i loro mehari per guadagnare via. Quattro o cinque, meglio montati, in pochi minuti si trovarono a soli quattrocento passi dai fuggiaschi. "Ben," disse il marchese. "Arrestiamoli.". "Gli uomini od i mehari?" Si fermarono dietro una duna e incominciarono il fuoco. Bastarono dieci secondi a quei valenti bersaglieri per smontare tre uomini. I tre mehari, gravemente feriti, erano caduti a poca distanza l'uno dall'altro. Il marchese stava per ricominciare il fuoco, quando il suo cavallo s'impennò bruscamente mandando un nitrito di dolore, poi cadde sulle ginocchia posteriori, sbalzando di sella il cavaliere. "Marchese!" esclamò Ben, spaventato. "Un semplice capitombolo," rispose il corso, risollevandosi prontamente. "Hanno colpito solamente il cavallo." Gettò uno sguardo furioso sui Tuareg. Il predone che gli aveva mandato quella palla stava ritto sul suo mehari, col fucile fumante ancora teso. "Me la pagherai, briccone!" gridò il corso. Le parole furono seguite da uno sparo, ma non fu l'animale che cadde, bensì il cavaliere. Poi il corso guardò il suo cavallo. Il povero animale, colpito fra le zampe anteriori da un grosso proiettile, rantolava disteso sulla sabbia. "È perduto!" esclamò egli con rammarico. "Salite dietro di me e raggiungiamo la carovana," disse Ben. "Presto, i Tuareg arrivano al galoppo!" Il corso si slanciò sul cavallo, s'aggrappò a Ben ed entrambi partirono a corsa sfrenata, mentre i predoni, furiosi di vedersi sfuggire ancora una volta la preda, si sfogavano con imprecazioni e minacce senza fine.

Vista un'apertura, già in gran parte ostruita, vi si erano lestamente cacciati dentro per mettersi al riparo dal turbinio sempre più impetuoso delle sabbie, abbandonando fuori il cammello. Quel rifugio, molto più ampio di quello che avevano trovato il marchese ed Esther, era una caverna che pareva avesse già servito di covo ad animali feroci, essendo ingombra di ossami spolpati di recente. Vi erano appena entrati, quando avevano udito al di fuori le grida del mehari seguite da ruggiti terribili. Nella fretta di rifugiarsi nella caverna, si erano dimenticati di prendere i fucili, sospesi ancora alla sella. Fortunatamente le pareti del rifugio erano solcate da crepacci ed in un angolo avevano scoperto una piattaforma, la quale s'innalzava fino presso la volta. L'avevano prontamente scalata, mettendosi in salvo. Un momento dopo i due leoni erano entrati, poi erano giunte delle antilopi che il simun aveva cacciato dalle dune. I leoni però, forse molto spaventati dalla furia crescente dell'uragano, si erano accovacciati in un angolo, senza pensare ad assalire né gli uomini, né gli agili corridori del deserto. Solamente dopo il franamento delle sabbie e la fuga delle antilopi, i leoni avevano sentito ridestarsi la loro istintiva ferocia. Vedendo entrare la luce, si erano provati, senza esito però, a balzare sulla piattaforma per strappare i due disgraziati, poi erano fuggiti, forse colla speranza di procurarsi una preda più facile o di banchettare colle carni del povero mehari. "Vi assicuro, marchese," disse Ben, "che dei brividi ne ho provati durante le ore angosciose della nostra prigionia. Credevo ad ogni istante di provare i denti dei leoni e di trovarmi nei loro intestini." "Ed anch'io non ero certo allegro," aggiunse Rocco. "Avevo preparato bensì i miei muscoli per strangolare uno di quei bestioni, però non vi nascondo che avevo la pelle d'oca e che sudavo freddo." "Vi credo, amici," rispose il marchese. "Ora però tutto è finito e anche il simun se n'è andato senza causarci danni." "Ma il simun ha assorbito quasi tutta l'acqua degli otri e fra qualche giorno saremo alle prese colla sete," osservò El-Haggar. "Ne abbiamo però due ancora pieni, quelli che aveva il mio mehari e che abbiamo portato con noi nel rifugio," osservò a sua volta Ben. "Magra risorsa in questo deserto: non sarà che un giorno guadagnato, mentre ce ne occorrono ancora dieci o dodici per giungere ai pozzi di Marabuti." "Non vi sono altri pozzi più vicini?" "Quelli d'El-Gedea che si trovano verso l'ovest: forse la distanza è eguale a quella che ci separa da Marabuti e poi dovremmo deviare di molte miglia." "Preferisco proseguire verso il sud onde raggiungere la carovana," concluse il marchese, dopo un momento di riflessione. "Economizzeremo l'acqua più che ci sarà possibile e spingeremo i cammelli più rapidamente che potremo." "Allora partiamo senza indugio, signore," disse El-Haggar. "Un'ora perduta può esser fatale." Giunta la carovana, e fatta una rapida visita agli otri, tutti furono convinti che il moro non aveva affatto esagerato il tremendo pericolo che li minacciava. L'acqua si era evaporata sotto i soffi ardentissimi del simun e ne rimaneva così poca da non poter durare più di tre o quattro giorni, e usandone colla più grande economia. "Se ci vedremo minacciati dalla morte, uccideremo i miei cammelli," aveva detto Ben Nartico al marchese. "Dell'acqua ne hanno sempre nel loro serbatoio." Mangiato un boccone senza nemmeno sedersi, la carovana aveva continuato la marcia, girando attorno alla colossale roccia la quale si prolungava per parecchie miglia verso l'est, formando un bastione grandioso. Esther aveva ripreso il suo posto sul cammello, riparata dalla tenda; il marchese, Ben e Rocco erano risaliti sui loro cavalli, mentre il moro ed i due beduini spingevano i cammelli a sferzate per costringerli ad affrettare il loro pigro passo. Il deserto, anche al sud del bastione, era stato spaventosamente sconvolto dal simun. Era un caos di dune, di avvallamenti, di solchi giganteschi che parevano scavati da migliaia di titani, e di colline sventrate in centomila modi. Non più un filo d'erba, né un cespuglio, né un palmizio; il vento caldissimo aveva disseccato tutta la magrissima vegetazione del Sahara o l'aveva estirpata o sepolta sotto ammassi di sabbia, privando in tal modo i cammelli del loro cibo ordinario. "Questo simun è un vero flagello," disse il marchese, i cui sguardi erravano tristemente su quella regione desolata; "d'ora innanzi saremo costretti a nutrire i nostri animali con farina di datteri e con fichi secchi." "Domandano così poca cosa!" disse Ben Nartico. "Un pugno di farina appena inumidita per loro basta. Essi avranno la forza di andare anche più oltre; saremo noi che forse non riusciremo a spingerci fino a quei pozzi." "Berremo il sangue delle nostre bestie, ma non ci arresteremo," disse il signor di Sartena con suprema energia. Mentre si scambiavano quelle parole, la carovana si avanzava sotto una vera pioggia di fuoco. Il cielo, cessato il simun, aveva riacquistato la sua purezza ed il sole dardeggìava perpendicolarmente ì suoi raggi, scaldando le sabbie a bianco. Quel calore che rendeva l'atmosfera d'una elasticità straordinaria, unitamente alla calma assoluta che regnava sopra la sconfinata pianura sabbiosa, e la rifrazione di quell'oceano di luce intensa, abbagliante, producevano di frequente delle strane illusioni ottiche, le quali di quando in quando facevano battere di speranza i cuori dei due isolani e strappavano alle loro labbra grida di sorpresa. Quando meno se l'aspettavano, apparivano ai loro sguardi meravigliati distese d'alberi, palme superbe che pareva dovessero promettere oasi ridenti; oppure lunghe file di cammelli o di cavalli montati da beduini e da marocchini sfilanti all'orizzonte; o vedevano aprirsi improvvisamente, fra le sabbie, canali profondi che parevano colmi d'acqua, dei veri fiumi. Ahimè! Non erano che semplici illusioni ottiche. Era il miraggio, che giuocava ai loro occhi inesperti dei tiri birboni, simili ai crudeli disinganni provati dai soldati francesi nella famosa spedizione d'Egitto. Questi fenomeni sono comunissimi nei deserti, più specialmente nel Sahara, e hanno ingannato più volte perfino dei vecchi viaggiatori, i quali credendo in buona fede di aver veduto cose reali, hanno raccontato cose meravigliose, come di laghi scorti fra le sabbie, di oasi popolose e ricche di palagi e simili altre fantasticherie. I miraggi sono dovuti al forte riscaldamento del suolo, alla disuguaglianza di densità degli strati d'aria e anche alla rifrazione dei raggi luminosi. La carovana che il marchese ed il corso scorgevano non era che la loro che si rifletteva all'orizzonte; i gruppi di palmizi che parevano formassero boschi non erano altro che due o tre palme perdute chissà a quale distanza; i laghi erano il cielo capovolto per effetto di ottica, e degli strati d'aria dilatati pel contatto del suolo troppo ardente. Tuttavia che terribili delusioni per persone già alle prese colla sete, che non sognano che fiumi e pozzi d'acqua! ... Vi era di che diventare furiosi e perdere anche la pazienza. Alla sera la carovana fu costretta ad arrestarsi intorno ad un'alta duna. I cammelli non si reggevano più e si erano lasciati cadere al suolo l'uno dietro l'altro, resistendo ostinatamente alle grida e alle busse dei beduini e del moro. Si sarebbero fatti uccidere piuttosto che alzarsi a fare qualche miglio ancora. Il marchese alla presenza di tutti aprì un recipiente e diede a ciascuno la razione d'acqua, poco più d'un bicchiere di un liquido caldo, che puzzava di muschio pel continuo contatto colla pelle ed era assolutamente insufficiente a spegnere la terribile sete che li divorava. La cena fu triste. La farina di dattero, le pallottole di kuskussu o la carne conservata in scatole non andavano giù che con sforzi supremi in quelle gole arse dall'infuocata temperatura del deserto ed irritate dalla polvere impalpabile che si librava sopra le dune. Terminato il magro pasto, ognuno si stese sui tappeti, cercando d'ingannare la sete colle pipe. Una tranquillità assoluta regnava sul deserto, un silenzio perfetto. Nessun rumore si notava in alcuna direzione, né alcun alito di vento soffiava da quegli sconfinati orizzonti. Era la gran calma del Sahara, quella calma che infonde negli animi dei viaggiatori un senso di strano benessere, tuttavia non disgiunto da una profonda tristezza. Si sente fortemente l'isolamento, si sente l'immensità, si sente la paura dell'ignoto. La luna si era alzata in tutto il suo splendore e seguiva silenziosamente il suo corso, attraverso miriadi di stelle, prolungando indefinitamente le ombre proiettate dalle dune, dalle tende e dai cammelli. I suoi raggi azzurrini, d'una grande trasparenza, si riflettevano vagamente sulle sabbie, le quali avevano strani scintillii. Pareva che l'astro si specchiasse nelle acque d'un lago stendentesi attorno all'orizzonte. Il marchese aveva lasciato cadere la sua pipa, e guardava, rapito da quella scena meravigliosa, a fianco di Esther, la quale si era sdraiata sul tappeto, fuori dalla tenda. "Che notte!" esclamò finalmente. "Dove se ne può vedere una simile? Bisogna venire nel deserto per goderne di uguali. "Ora comprendo l'amore che nutrono i Tuareg pel loro Sahara, nonostante le tante tribolazioni che sono costretti a soffrire." "E anche voi cominciate ad amarlo questo deserto, è vero, marchese?" chiese Esther. "Sì, e quasi invidio la vita dei predoni del Sahara." "Eppure la morte ci minaccia, marchese." "Noi forse, ma non voi," rispose il marchese. "Perché dite questo?" "Perché serberemo a voi gli ultimi sorsi d'acqua." "E credete che io accetterei un simile sacrificio? Ah! no, marchese; e poi non potete privare gli altri per me." "Chi m'impedirà di dare a voi la mia parte? Posso disporne a mio piacere senza che nessuno abbia a ridire." Poi prendendo la fiaschetta che teneva sospesa al fianco, e porgendola ad Esther, disse "Io e Rocco abbiamo lasciato qualche sorso per voi, Esther. Dovete soffrire più di noi." "La razione mi è stata sufficiente, marchese," rispose la giovane, con voce commossa. "No, mi sembrerebbe di commettere un delitto privandovi anche d'una sola goccia." La tentazione però di bere era irresistibile. La povera giovane, non abituata agli ardori del deserto, si sentiva disseccare le carni e aveva la gola in fiamme; pure ebbe ancora il supremo eroismo di rifiutare. "No, marchese, no ... " Il signor di Sartena con un rapido gesto le accostò la fiaschetta alle labbra e gliela vuotò in bocca. "Grazie," ella ebbe appena il tempo di mormorare. Come se quei pochi sorsi le avessero spenta d'un colpo la sete che la tormentava, Esther si era lasciata cadere sul tappeto, in preda ad una specie di torpore. Il marchese, dopo aver fatto il giro del campo, interrogando ansiosamente l'orizzonte, si era sdraiato a pochi passi dalla giovane, a fianco di Rocco, A mezzanotte, El-Haggar, come gli era stato ordinato, suonò la sveglia col suo corno d'avorio, e mezz'ora dopo la carovana riprendeva le mosse, bastonando senza misericordia i cammelli recalcitranti. Attraversavano allora un tratto di deserto frequentato ordinariamente dalle carovane. Era la gran via battuta dai mercanti sahariani che dalle coste di Berber vanno verso le oasi del deserto centrale, e se ne vedevano purtroppo le lugubri tracce. Erano lunghe file di scheletri biancheggianti sotto i raggi della luna, scheletri di cammelli, di asini, di cavalli e d'uomini che il simun aveva di certo dissepolti e dispersi fra le dune. Quando si arrestarono, erano tutti morenti di sete. Avevano le labbra screpolate, la gola infuocata e la lingua talmente secca da non poter articolare parola. "Acqua! Acqua!" era il grido che usciva da tutte le bocche. Anche i cammelli si lamentavano e facevano sforzi disperati per lambire la pelle degli otri ed inumidirsi almeno la lingua. Il marchese però, quantunque soffrisse forse più degli altri, rimaneva sordo a tutte le preghiere. "Quell'acqua è la vita," rispondeva. "Non ne avrete una goccia fino alla fermata notturna. Io devo rispondere delle vostre vite e non cederò nemmeno dinanzi alle armi." Il cuore gli sanguinava soprattutto vedendo soffrire la povera Esther, ma se in quei momento avesse osato offrirgliene qualche goccia, i cammellieri, già furiosi, non avrebbero di certo tollerato quella parzialità. Non fu che verso le quattro, quando il calore cominciava un pò a decrescere, che la carovana si ripose in cammino. Il marchese, che cominciava a diffidare dei beduini, aveva messo alla testa della carovana i due cammelli che portavano gli otri, onde averli sotto gli occhi ed impedire una sorpresa che avrebbe avuto conseguenze incalcolabili. Ne aveva affidato la sorveglianza a Rocco, il solo forse che non dimostrasse di soffrire troppo la mancanza d'acqua. Il pericolo stava specialmente dalla parte dei due beduini, uomini di una fedeltà assai dubbia, capaci di qualsiasi bricconata. I loro volti avevano già, fin dal mattino, assunto un aspetto feroce, e più volte il marchese li aveva sorpresi a ronzare, in attitudine sospetta, attorno ai due cammelli che portavano la provvista. "Stiamo in guardia, marchese," disse Ben, vedendoli lanciare cupi sguardi ripieni d'ardente bramosia sui due cammelli. "Essi tramano qualche cosa, e faremo bene a vegliare durante le fermate." "Monteremo la guardia a turno," rispose il corso. Anche quella terza marcia, la più dolorosa di quante ne avevano fatte fino allora, si protrasse fino a tarda ora, attraverso a pianure immense prive di qualsiasi filo d'erba. Il marchese stava per dare il segnale della fermata, quando la sua attenzione fu attirata da uno stormo immenso d'uccelli di rapina, il quale ora s'alzava ed ora si abbassava fra le dune, con un gridio assordante. "Cosa c'è laggiù?" si chiese fermando il proprio cavallo. "Qualche motivo deve aver radunato qui quei volatili che sono pur rari in questo deserto." "Se voi vedete gli uccelli, io sento un puzzo orrendo," disse Rocco, che da qualche istante fiutava l'aria. "Si direbbe che dietro quelle dune vi sia un carnaio che sta putrefacendosi." "Un'ecatombe forse?" chiese il marchese, impallidendo. "Qualche massacro compiuto dai predoni del Sahara, dai feroci Tuareg?" "Od una carovana morta di sete?" aggiunse Ben. "Rocco, rimani a guardia della provvista d'acqua e di Esther, ed io con Ben andiamo a vedere." Fecero fermare la carovana e spinsero i cavalli attraverso le dune spronandoli vivamente, perché s'impennavano, nitrivano, fiutavano l'aria, scuotevano le folte criniere e sferravano calci. A mano a mano che s'accostavano alle dune, dietro le quali si vedeva piombare l'immenso stormo degli uccelli da preda, l'odore diventava così pestilenziale, che il marchese, quantunque abituato alle stragi dei campi di battaglia, si sentiva quasi venir meno. Sorpassata l'ultima duna, un orribile spettacolo si offerse ai loro occhi.

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non ci vogliate usare scortesia, aggiunse abbandonando le mani che teneva strette nelle sue - qui vi sono uomini che hanno ammirato il vostro coraggio, e che sanno di dovervi rispettare .... Sono lieto di aver fatto il vostro incontro, e vorrei dimostrarvi in qualche modo la gratitudine che ho pel vostro paese .... Il governo pontificio in Italia mi offre un posto di capobanda con un corpo di quattrocento uomini; io sono disposto a cedervi il comando di questa onesta brigata ... accettate? - No, mormorò Rosen, è impossibile ...; dei legami di famiglia .... dei doveri ... duolmi sinceramente di dover respingere un'offerta così onorevole; anzi io devo accommiatarmi; sono atteso per stassera al villaggio. - Bene, bene, disse l'altro, sia come non detto; aggradite ad ogni modo prima di partire un attestato della mia ammirazione per voi e della mia gratitudine pel vostro paese. Così dicendo si tolse dal dito un anello di molto valore, e lo fece passare nel dito di Rosen; quindi, riconsegnandogli le sue pistole, ordinò a due dei suoi soggetti che lo accompagnassero fuori del bosco per difenderlo da qualunque malvivente; e lo abbracciò con effusione, mentre molti dei masnadieri venivano a stringergli la mano e offrirgli rispettosamente i loro servigii. * * * Rosen, giunto a casa, si pose a letto; era malato, aveva la febbre: ciò che gli era successo era stato superiore a tutte le sue previsioni più scoraggianti. Oramai gli era venuto meno il coraggio di tentare altre vie, e doveva risolversi a tornare in Inghilterra. Dieci giorni dopo stava per riprendere il suo viaggio, quando gli giunse all'orecchio la notizia di un disastro accaduto in quel giorno lungo la via che egli doveva percorrere. Una carrozza, il cui cavallo aveva perduto il freno era precipitata, in un abisso profondissimo che costeggiava la strada, e che era chiamato il Picco del diavolo; non una persona si era salvata. Una nuova luce si fece allora nella mente di Rosen; andò a visitare quell'abisso, e conobbe che era impossibile sopravvivere a quella caduta: risolse sull'istante, uscì solo in vettura, spinse il cavallo alla carriera più concitata, e si precipitò giù dal picco. La carrozza, discendendo orizzontalmente, si impigliò nelle liane che crescevano lungo il fianco dell'abisso, e si rovesciò rimanendovi sospesa, quando non rimaneva più che un terzo della rupe a raggiungere il fondo. Rosen ne fu sbalzato fuori, e cadde sul corpo del cavallo che era morto. Raccolto da alcuni terrieri fu trasportato all'albergo, dove aveva lasciato Lamperth. Da principio fu creduto estinto, ma alcune ore dopo la sua caduta rinvenne; e il chirurgo constatò che si era spezzato il femore sinistro, e che era d'uopo amputare la gamba nello spazio di quattro ore, prima che si sviluppasse la cancrena di cui avrebbe dovuto morire. Quando Rosen, che era già poco meno che morto per la meraviglia di ritrovarsi vivo, udì parlare della cancrena, sentì finalmente che tutto era finito, che tutto era compensato; e rivolgendosi al chirurgo gli disse: - Voi potete ritirarvi .... io non mi farò amputare mai .... io sono vile dinnanzi al dolore .... preferisco morire. - Pensateci, rispose l'altro, ripasserò fra due ore, e mi lusingo che sarete di parere diverso. Partito il chirurgo, Lamperth entrò nella stanza dove Rosen era stato lasciato solo; e levandosi gli occhiali dal naso, ciò che non era solito fare che nelle circostanze solenni, e assumendo un nuovo tuono di voce gli disse: Signor Alfredo di Rosen, è tempo che noi definiamo la nostra posizione, è tempo che io cessi dal rappresentare una parte che mi affligge per quanto sia doverosa, e che io desista da una finzione che è oramai divenuta inutile. Io sono un'agente della Società d'assicurazione. Quando ella è venuta ad assicurare la vita di sua moglie, la nostra società non ignorava la di lei posizione finanziaria e le gravi perdite che ella aveva subite al giuoco nella notte precedente. Si sospettò ciò che era vero, che ella volesse, cioè, ingannare la società con una morte volontaria; e io fui incaricato di seguirla e procurarmi le prove che avessero constatato questa determinazione. Questa è la lettera che ella mi ha incaricato di rimettere alla signora baronessa sua moglie, e nella quale ella dichiara di voler morire spontaneamente per darle diritto all'assegnamento vitalizio. Ancorché ella avesse ora a morire, a questa lettera che i doveri della mia qualità m'impongono di consegnare alla società, priverebbero la signora Rosen di qualunque compenso. Ella intende ora che non le rimane una via più onorevole e più doverosa che quella di sottoporsi a questa amputazione e di tentare di vivere per compiere quei doveri di uomo e di marito che ha troppo trascurato finora. In quanto a me io non ho fatto che obbedire alle esigenze della mia carica. Rosen stette lungo tempo senza poter rispendere, tanto il dolore, lo sdegno e la meraviglia lo avevano reso muto e agghiacciato. Quando fu in grado di pronunciare alcune parole, disse: Oh Lamperth, voi mi avete rovinato .... Un colpo simile in questo momento! ... una rivelazione di questo genere nell'istante in cui io stava per raggiungere la mia felicità! ... ah, voi avete un cuore di tigre, Lamperth! ... fingere in questo modo ... trascinarmi a questo punto ... senza una gamba! ... Ma noi ci batteremo, per l'inferno noi ci batteremo; io vi domanderò conto di questa indegna simulazione. - È inutile, non avrete più che una gamba. - Ci batteremo alla pistola, seduti. - Via, via, disse Lamperth riponendosi gli occhiali; sono un padre di famiglia io, ho sette figli, e ci penso alla mia vita e a miei doveri. Voi avete profusa una fortuna, avete tenuta una condotta riprovevole, avete tentato d'ingannare una società di onesti speculatori, l'avete tentato a costo della vita degli altri; vergognatevi, io sento in questo momento tutta la superiorità morale che ho sopra di voi .... Non costringetemi ad abusare del vostro stato. - Avete ragione, esclamò Rosen piangendo come un fanciullo, oh! avete ragione; voi siete ciò che io non sono più, un uomo onesto ... Io vedo troppo tardi il male che ho fatto. - No, no, non è troppo tardi, riprese in tuono affettuoso Lamperth, tornandosi a levare gli occhiali, e stringendo le mani del malato. Ecco qui, io vi restituisco la lettera che vi accusa dinanzi alla società; voi guarirete, me ne ha accertato il chirurgo; e io vi farò ottenere un posto elevatissimo in questa stessa società di cui avete voluto eludere le disposizioni. Potrete essere ancora felice, perché potrete ancora meritarlo. Due mesi dopo, Rosen amputato e guarito, ritornava in Inghilterra, dove Lamperth che ve lo aveva preceduto, manteneva la sua promessa. La natura che gli aveva ricusato fino allora le gioie della paternità gli diede ora dei figli. Lamperth divenne il suo subordinato e ad un tempo il suo amico. Nulla turbò più da quel giorno la sua vita. Alfredo di Rosen è il più esemplare dei padri e dei mariti.

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