Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Le arti belle in Toscana da mezzo secolo XVIII ai dì nostri

254880
Saltini, Guglielmo Enrico 1 occorrenze
  • 1862
  • Le Monnier
  • Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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E quando gl’Italiani ammirarono di nuovo quest’ultimo suo lavoro all’Esposizione Nazionale dell’anno decorso, insieme a quella Saffo, che diserta d’ogni umano conforto, sembra avere abbandonato la vita anche prima dell’estremo sacrifizio; a que’graziosi e tanto differenti fanciulli, festante l’uno per la grassa vendemmia, afflitto l’altro per le uve perdute; e a quella Vergine santa che tutta rivela nel muto sembiante la disperata desolazione materna; fu una la voce che lo salutò tra coloro che servendo col pensiero agli affetti, fanno rispondere le arti ai divini concepimenti. Nè vogliamo tacere che nel 1857 il Duprè inviò al concorso di Londra un modello pel monumento a Wellington, lavoro qua da pochi veduto, ma che gli meritò premio dalla sapiente Albione; nè delle due grandiose opere a cui attende adesso, il bassorilievo da collocare sulla porta maggiore della facciata di Santa Croce, esprimente l'Esaltazione del sacro simbolo, e il monumento sepolcrale di una gentildonna morta in Toscana pochi anni sono. — Torello Bacci di Firenze, uomo sui quarantacinque, scolpì nel 1844 la statua di Piero Capponi pel portico del Vasari; crediamo però che oggi abbia lasciato l'arte. — Pietro Costa pure fiorentino (n. 1819), studia con amore ed opera con coscienza. La statua di Francesco Redi che fece (1854) tra le ventotto degli illustri toscani, per la naturale movenza e per un certo gusto nella composizione merita lode; e quella sua graziosa americana del Sud (1859) che è adesso all’Esposizione di Londra, e il monumento della cantatrice Angiolina Bosio inaugurato nel 1860 nel campo santo cattolico di Pietroburgo, gli fruttarono anche appresso degli stranieri onorata menzione.— Luigi Cartei fiorentino (n. 2 settembre 1822), modellò nel 1847 per il portico degli Uffizi la statua dello storico Francesco Guicciardini; fece un’assai graziosa figura allegorica pel palagio dell'Esposizione italiana, e attende oggi con desiderio a scolpire una Pietà che ha da essere collocata nella nuova chiesa di Santa Caterina in Firenze. — Vincenzio Consani di Lucca, giovane artista, amante dei classici studj e del vero, scolpì (1856) non senza abilità la statua di Pier Antonio Micheli, famoso botanico, pel portico vasariano, e nell’anno appresso il monumento a Carlo III di Borbone duca di Parma. Merita anche di esser ricordata la sua Musica Sacra, molto gentile figuretta di garzone che canta. — Tito Sarrocchi di Siena, giovane che assai promette di sè, mandò all’Eposizione Nazionale del decorso anno un suo vago gruppo di una sorridente fanciulletta che insegna la prima preghiera al fratellino. — Salvino Salvini di Livorno (n. 26 marzo 1824) ha nome tra i più valenti scultori toscani. La statua d’Archimede, che inviava all’Accademia fiorentina, come saggio de’ suoi studi di Roma, e quella desolata figlia di Sion Ehma, modellata nel 1852, sono òpere degne di grandissima lode. Questa in special modo, dalle cui labbra par che di nuovo prorompa il disperato lamento dei biblici canti, destò già l’ammirazione degli Italiani e forma adesso quella dei forestieri nel palagio di Londra. Il Salvini oggi professore nella R. Accademia di Bologna, ha inalzato a questi giorni nel camposanto di Pisa un’assai bella statua a Niccola Pisano, e va modellando la statua equestre di Re Vittorio Emanuele, vinta al concorso del 1860, che poi gettata in bronzo, adornerà la gran piazza dell’Indipendenza a Firenze.

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

Sono abbandonato da tutti, e voglio meditare fortissimi fatti! E impreco colla voluttà della sfida: «Dammi ancora maggiore tormento!»... Oh se non ci fosse stata lei! Ella mi supplica nel giorno, nella notte: «Vieni, cercami, fammi giurare, precipitati e vinci!» La voglio! La voglio mia fosse pure in mezzo ad un fuoco che per secoli non si spegna! Imilda, dimmi che sei viva! Ti supplico! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E Imilda? Ritorniamo a Rupemala. Imilda, in quel momento in cui Ugo aveva riso, senza più una coscienza al mondo, fu afferrata e salvata da Oberto, spinta fuori della cappella. Ildebrandino, a cui le vampe vividissime e sibilanti avevano impedito di vedere gli atti e di ascoltare i gemiti di quelle povere anime disperate, Ildebrandino abbracciò Ugo, uscito lentamente dalle fiamme, e volle che Oberto l'abbracciasse, gridando: - Gran mercè! Nipote mio, questo è un esempio! - Imilda fu trasportata in una camera e soccorsa. Ugo s'involò dal portone: e nulla a Rupemala si seppe di lui. Il dì dopo, continuando l'incendio, per quanti sforzi si fossero usati a vincerlo, Ildebrandino decise risolutamente di resistere ad Adalberto, contendendogli mattone per mattone dell'irreparabile ruina: e disse ad Oberto: - Qui dobbiamo morire con esempio non unico certo nella nostra famiglia. Avesti gli sproni d'argento: dunque sii contento, e ricordati che la ubbidienza agli esperti è grande virtù di guerra. Oberto era tetro. E a quelle parole rise amaramente. - So che vuoi dirmi, Oberto. Ti paiono pochi gli sproni? Sii contento: non a tutti è data l'audacia delle cose fortissime. Hai parlato con Imilda stamattina? - No. - No? - Ha domandato di me? - Sì: e ringrazia Iddio.... - Ringrazi messer Ugo. - A tutte l'ore! - Dannato sia! - imprecò Oberto. - Come? Come? Quanto fu valente per noi! Sì! - affermò Ildebrandino. - Per la impresa? - rise Oberto, invelenito: guardando lo zio con degnazione, quasi gli dicesse: - Mi accontenterò io dei vostri giudizi? - Oberto, l'hai veduto nelle fiamme? - Troppo ho veduto! - E per la impresa, tu dici? Ugo ha pugnato, come un forte, e l'amo! Ma Dio ci maledisse. - Perchè c'era lui! - Oberto, che hai? La tua ira mi piace! Contro chi? - si accese Ildebrandino. - Contro di voi - ardì Oberto. - Ti sono amare queste parole? - Zio! - rispose Oberto ad un tratto: - Voglio sposare Imilda, anche oggi! - Quando Ildebrandino consenta - rimproverò lo zio. Allora Oberto con astio e con ironìa: - Ah volete combattere voi? Ugo sarà con noi? - E, meditando una offesa verso Ildebrandino e una vendetta contro Ugo, domandò tra sè stesso: - Venti anni fa, quando Adalberto mosse qui, come combattè lo zio?... Che gloria!... E voi, messer Ugo, perchè avete spezzato l'uscio della cappella sacra? Era meglio che Imilda morisse, là, sola! Volete ch'io parli al vescovo di Saluzzo? - E Oberto, dopo un silenzio beffardo collo zio, si espresse così: - Fate che, morendo voi, io abbia un castello, o la memoria di un castello: e voi le esequie da cristiano. - Duri la guerra un mese, duri un anno! - rispose Ildebrandino, offeso più che mai e più che mai dignitoso: - Perchè mio nipote parla così? Ch'io non sappia combattere? Ch'io non conosca i valenti? Ebbene, senza messer Ugo io sfiderò Adalberto. Oberto fu contento. - Senza Ugo, sì: e mio nipote ascolti: - Ildebrandino andò al fondo di torre dove sapeva che era stato chiuso Guidello: lo trovò rabbioso di fame, lo trasse su, lo fece rifocillare, poi lo accommiatò così: - Va, araldo del malanno, tromba di vergogna. Io ti lascio e ti comando questo: torna al tuo signore e digli che con Ildebrandino c'è Oberto. Digli che Oberto vuole un castello per sè e per i suoi: il castello può essere quello di Adalberto. Madonna Marzia, Manfredo e Bello domandano vendetta. Che pensi Baldo non so: so che i vili e i traditori non sono più sotto il suo tetto. Io ti lascio e ti ho comandato. E Ildebrandino e Oberto s'apparecchiarono a disperatissima difesa e a furioso conquisto. Oberto un giorno disse: - Zio, lasciate ch'io vada a domandar benedizione al vescovo di Saluzzo. Ildebrandino crollò la testa: ma Oberto volle proprio uscire dal castello. Tornato di lì a poco tempo, con volto soddisfattissimo, domandò: - Ov'è madonna Imilda? - come se dicesse: - La mia! Voglio sposarla oggi, col piacere suo e con quello di Ugo! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Madonna Imilda non era più con Ildebrandino. Questi, per toglierla dai pericoli dell'armi, l'aveva segretamente affidata alla custodia dei figliuoli del povero Federigo e della vecchia Agnese, e fatta partire per una casetta di boscaiuoli, lontano, su una delle montagne, che, con quelle su cui sorgevano le castella dei cavalieri e del signore Adalberto, formava il contrafforte che si spicca dal Monviso. Questo contrafforte coll'altro staccatosi dal monte Meidassa chiude la valle ove nasce il Po: al di qua la valle di Varaita, di là quella del Pelice, all'apertura Saluzzo. Là su stette madonna Imilda, un giorno, e due, e tre... Le diceva la vecchia Agnese: - Madonna, oggi si combatte. Preghiamo. Imilda rispondeva: - C'è un cavaliero che vince sempre e tutto. Alla sera venivano sulla montagna i figliuoli di Agnese a portare le nuove: e le donne domandavano: - Nessuno sa niente? che Imilda è qui? - Nessuno. - E quel cavaliero? I boscaiuoli intendevano di Oberto e rispondevano: - Coll'usbergo è un san Giorgio. Ma sa niente! Oh come pregava Imilda in tutti i momenti! - Madonna del cielo, non dovevi mandarmelo! Sarei morta su i tuoi gradini e tu mi avresti dato il paradiso! Non avrei conosciuto l'inferno in questa vita! Amare come amo io! Come volle Dio che amassi!... E non so nulla di lui! E non oso domandare di più.... Ma è questo l'amore?... E che mi disse egli perch'io abbia diritto ad amarlo? Che fece! Vinse il fuoco!... E che era morire a confronto di questo vivere? Ugo, Ugo cavaliero, Ugo infelicissimo! Perchè non vieni? Forse che t'hanno ucciso? Forse che m'hai dimenticata?... Ucciso!... Chi può avere alzato la mano su di te?... L'anima mia non sa combattere l'incertezza tremenda! Così disse: «Sono il figlio di Guidinga!» E chi era Guidinga? Un'innamorata? Ma ella forse fu un angiolo. Io sono condannata in questa vita e nell'altra.! L'amore cominciò tra le fiamme, e tra le fiamme inestinguibili sarà eterno tormento!... Pietà, madre dei pentiti: io non so quello che dico! E tu m'avresti dato il paradiso! Ma se già mi hai condannata, questo è troppo strazio: e lo spezzarmi così è indegno di te che tutto puoi. Puoi volere anche in me la bestemmia.... Non sono io che parlo: è Ugo in me! No, no, Ugo sarebbe perduto, ed io voglio invece la sua eterna salvazione! Non è Ugo, ti giuro, ti scongiuro! È il cuore straziato! E la vergine una sera si fece raccontare da Agnese i casi di Guidinga. E Agnese concludeva: - Dite, se la conobbi! Come conosco voi. Giusto, come voi, la piangeva sempre quando il suo Adalberto era lontano. Voi perchè piangete? - Ho paura! - rispondeva Imilda. - Conoscete la fantasma fiammante di bianco? - La madonna perduta - È l'anima di Guidinga fino al dì del giudizio. - È così disperato l'amore! Chi ci resiste? - lamentava Imilda. - Come reggerò al rimanermi quassù? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ugo da quattro giorni, sempre chiuso nel suo castello, si combatteva atrocemente. E così: - Ildebrandino ed Oberto ieri vinsero. I servi prigionieri nel castello di Aginaldo l'altra notte uccisero il capitano di Adalberto. Baldo con Manfredo e Bello s'apparecchia a muovere qui per guadagnare la taglia.... E tu che fai, Ugo? Tu capo dell'impresa, tu redentore, tu giovanissimo conte!... Se Dio ci faceva vincere! se i morti di là avessero supplicato coll'ardore delle fiamme! E tu hai pensato ad essi? Oh i morti ora si levano ferocemente ad imprecarti! E la viva sorride!... Il padre già dalla culla ti condannava alla vergogna e al furore, e tu che avresti dovuto maledire la donna, tu per la donna sei maledetto!... Temi la taglia? Ma che vale la tua testa? Vale oro, non onore. Temi la morte? Ma che vale la tua vita? Fu già carica d'onte. Speri la vittoria? Speri l'amore? C'è la morte! Oh questo sì ch'è strazio ineffabile! E anch'io supplico: «Pietà!» come supplicò Imilda. Pietà della mia vita! Ecco la vilissima preghiera! Preghiera di donna!... Sì, ti sogno ancora nella cappella avvampante: giungo a te, ti stringo: e tu chini il capo sulla mia spalla, ed io ti dico: «Ti odio!» Ecco l'anima mia, ecco il mio dovere!... Che faccio ora? Io che mi sento la forza e la ruina dei turbini. Io che voglio uccidere, e crollare le torri, e sghignazzare fra il suono di cento trombe, e morire pur che Dio mi ascolti!... Dio non ascolta mai!... È così muto il sepolcro del padre! È così trista l'ironia del nulla!... Voglio vita, vita strapotente, ed ogni vita è in queste parole: «Ti odio! Femmina, ti odio!» O viva, o morta, sii detestata!

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Contro le arti del Mago combattere ti è forza abbandonato a te stesso. Rammenta i miei consigli. Premio della vittoria è il possesso di colei che è regina del tuo cuore. WOLFF: Se l'amore non vincesse, qual altra forza in terra o in cielo, potrebbe mai rompere l'incanto? VAMPA: Passerai per tre prove una più ardua dell'altra. Se ti scoraggi un istante, la tua impresa è perduta. Cadrai in potere del Mago, diverrai suo schiavo in eterno; e Milda sarà sua, e, immortali, s'ameranno lassù tra noi. WOLFF: Se l'amore non vincesse, qual altra forza in terra o in cielo, potrebbe mai romper l'incanto? VAMPA (chiamando, portando la mano alla bocca): Rospus! Rospus! ROSPUS (apparendo da dietro la roccia, con finta umiltà) : Benvenuti, amici! Ospitale fu sempre, questa mia grotta. Riposatevi, ristoratevi, quantunque nulla io abbia che sia degno della possente fata Vampa: succhi d'erbe benefiche, liquori distillati con arte meschina ... VAMPA (con intento): Tu sai perché venuti noi siam qui. ROSPUS: Pietà, pietà d'un povero vecchio. Insuperbito dei miei trionfi sulle forze nascoste della Natura, io chiesi agli Spiriti il Cibo che li rende giovani e immortali. VAMPA: Il Fato rispose: Fatti amare dalla prima fanciulla che incontrerai, giacché l'amore è il divino cibo che rende sempre giovani e immortali. WOLFF (con dolcezza): Ma Milda, che tu incontrasti la prima sul tuo sentiero, Milda era mia! Te la contendo, e son qui per la gran prova. ROSPUS (c.s.) Per te il mondo ne ha mille altre! VAMPA: Gliel'ho cercata io fra mille. ROSPUS: Amano tutte ugualmente! WOLFF: Nessuna potrà amare come lei! ROSPUS: Pietà, pietà d'un povero vecchio. WOLFF: Hai tu avuto pietà di me? VAMPA: Hai tu avuto pietà di lei? WOLFF: Io sento, qui, la infallibile voce del cuore, che mi dice: vincerai! Vincerò! Non è possibile che due cuori amanti debbano esser divisi così crudelmente! Mentirebbe il sole che assentiva ai nostri baci, mentirebber le stelle che assentivano ai nostri abbracci! Mentisca Rospusl ROSPUS: Bada, non sei certo di vincermi! VAMPA: Ne sei tu certo? Io ti lascio. (Vampa ha indietreggiato a poco a poco, si ferma un momento e poi sparisce dietro una porta. La scena rimane in una quasi completa oscurità.) ROSPUS (chiudendo la porta dove è sparita Vampa, dice con voce terribile a Wolff): Ora a noi! CORO (di dentro si ode un lamento): Ahimè! Ahimè! Ahimè! WOLFF: Il cuore mi si è turbato! ROSPUS: (L'opra del filtro è compiuta!) (Afferrando un terrorizzato) (Entra disordinatamente il Coro facendo gesti di terrore) Che sono questi lamenti? Che cosa avvenne? Parlate. (Portano fuori Milda sopra una barella, la depongono in terra nel fondo della grotta.) CORO: È morto il fiore gentile! Morto il sorriso di bellezza! Milda è morta, ahimè! È morta, è morta, ahimè! ROSPUS (simulando dolore, rivolgendosi a Wolff): Morta? La tua voce l'ha uccisa. WOLFF: Ella è morta? Morta quando si avvicinava l'ora della liberazione? Lasciatemi vedere! Lasciatemi toccare! Questa è un'infernale illusione! Fredda! Fredda! Ti scalderò coi miei baci, colle mie grida ti desterò. Ah, se mi amasti davvero udrai, anche dall'inferno, questo suono. (Suona replicatamente il corno da caccia. Alla prima chiamata del corno è silenzio e Raspus ride con scherno, alla seconda Milda dà segno di vita e Rospus tremando vorrebbe impedire la terza e magica chiamata del corno, e minaccioso si avanza verso Wolff; ma troppo tardi, che Milda si desta, e salta in piedi trasognata.) ROSPUS: Maledizione! MILDA: Era il forte cacciatore che mi salutava e parea ripetermi: Milda, t'amo, t'amo! CORO: Non era morta, dormiva! Il fiore gentile si è destato! WOLFF: ROSPUS: L'ha destata il richiamo Non lo previdi, stolto che fui! dei nostri giorni felici! Stolto che fui, non lo previdi! ROSPUS: Hai vinto la prova più facile. Strappa, strappa ora alla fanciulla un giuramento d'amore. WOLFF: Lasciami solo con lei. ROSPUS (ironicamente ): Lasciamoli soli. (Volgendosi alla folla) E voi che vi siete rallegrati della mia sconfitta, portate via tormenti roditori dentro le ossa! CORO (andando via molto rapidamente come per incanto zoppicando e contorcendosi): Ahi! Quai cani arrabbiati ci divorano internamente! Ahi! Ahi! Cessa un momento! Perché straziarci così?Ahi! Ahi! (Rospus e il Coro escono.) WOLFF (sorpreso del continuo silenzio di Milda): Non mi riconosci? MILDA (trasognata non riconoscendolo): Chi siete? WOLFF: Non udisti quel suono di corno? MILDA: Era il suo corno, lo intesi. WOLFF: Non mi riconosce! Ha offuscato la sua mente il triste Mago. Milda! MILDA: Chi v'apprese il mio nome? WOLFF: Son io, Wolff, il tuo Wolff! MILDA: Lo attendo da un anno, un mese e un giorno! Mi ha dimenticato! Vorrei, vorrei non poterlo amare più! WOLFF: M'ami dunque sempre? Ripeti questa parola possente. Son io, Wolff, il tuo Wolff! MILDA: Andate! Vorrei non poterlo amare più ... (Da sé) Eppure c'è un fascino irresistibile nella voce di costui! Come di ricordi dolcissimi rifiorenti nel cuore! ... Ma egli crede di trarmi in inganno, colle finte blandizie ... No, all'infuori di lui, a nessuno io dirò: t'amo! No. WOLFF: Chi lui? ... Il Mago forse? Qual lampo! Attendi un istante. (Esce precipitosamente.) MILDA (c.s.): Eppure vi è un fascino irresistibile nella voce di costui! Ma perché, giunte al labbro, mentiscono le parole del cuore? Ah, egli crede di trarmi in inganno colle finte blandizie! ... No, all'infuori di lui, a nessuno io dirò: t'amo! No. ROSPUS (affaccia la testa dal suo nascondiglio): È andato via? Si è perduto d'animo? (Rientra Wolff mascherato da Mago, coll'identico vestito di Rospus, la grande barba fluente, ed imita l'andare e i gesti di quello.) ROSPUS (sta per nascondersi di nuovo, ma Wolff lo ha scorto e lo trae fuori dal suo nascondiglio e lo getta in disparte): Quale travestimento? Che intendi di fare? WOLFF: Non nasconderti; assisti alla tua disfatta. ROSPUS: Che intendi di fare? WOLFF: Vedrai. Milda! Milda! MILDA (da sé): Non ho trasalito! Non provo più repugnanza all'aspetto del Mago. (Scorge anche Rospus, si nasconde il viso tra le mani, atterrita, cercando di fuggire, ma udendo il canto di Wolff si arresta affascinata.) Sono due, ahimè! WOLFF: Ti canterò la più soave canzone, quella che tu cantavi filando, i buoi levavan la testa lunata, gli usignuoli tacevano per ascoltarti. ROSPUS (da sé): Vo' ripeterla anch'io. WOLFF (cercando d'imitare la voce di Milda) : Le mie dita inumidite traggon fili dorati così fili il destino giorni d'oro al mio amore! Il mio pensiero è confuso col pensiero di lui. Da lontano o da vicino, io vivo pel mio amore! (Rospus ripete la stessa canzone ma un po' goffamente.) MILDA: WOLFF E ROSPUS (insieme c.s.): Che tormento d'incertezza. La rugiada non l'offenda, È questa, è questa la mia canzone quand'ei va mattiniero, quella che io cantavo filando! nel più folto del bosco, cacciatore il più ardito. Il mio pensiero è confuso col pensiero di lui. Da lontano o da vicino io vivo pel mio amore! MILDA: Che tormento d'incertezza! ... Chi, se non lui, lui solo, potrebbe ripetermi la mia canzone prediletta? ... Ma quest'aspetto ... ahimè! ... Ma pure ... nella sua voce c'è qualcosa che mi attira ... che mi soggioga, che mi vince! ... (Milda al suono della voce di Wolff si avvicina e segue il canto, mentre Rospus procura d'imitare la canzone perché non svanisca l'incanto.) MILDA: Wolff, amor mio, sei tu, sei tu! (Si getta fra le braccia di Wolff.) WOLFF: Milda, amor mio, son io, son io! ROSPUS: Maledizione! Maledizione! Non lo previdi neppure! MILDA: Mi desto da un sogno da un sogno orribile! ROSPUS (da un angolo della caverna trae fuori una spada precipitandosi verso Wolff): No, non hai vinto ancora, ne rimane un'altra prova, una prova di morte! WOLFF (liberatosi dal suo travestimento da Mago, sciogliendosi dall'abbraccio di Milda) : Ed eccomi a te! Difenditi. Questa mia spada saprà ben trovare il solo punto vulnerabile del tuo corpo fatato. Difenditi! ROSPUS: Pria che tu giunga a cavarmi una sola goccia di sangue, verserai fin l'ultima stilla del tuo sangue superbo! WOLFF: Difenditi! MILDA (scostatasi, mentre i due si battono, si inginocchia): Se nel cielo c'è uno spirito più pietoso di tutti gli altri pei cuori che si amano, dia baldanza al suo petto e diriga egli stesso il colpo che segnerà l'ultima ora del mago! ROSPUS: Ferito! WOLFF: Non è nulla! ROSPUS: Ferito! WOLFF: Scalfitture! MILDA: Oh, cielo! ROSPUS: Ferito! Tu impallidisci e vacilli. WOLFF: No, ho ancora tanto sangue da poter far rosso l'oceano! ... Prendi! ROSPUS: Ah! ... Son morto! ( Milda nel veder cadere Rospus, si getta nelle braccia di Wolff che vacilla esangue; in quest'istante apparisce la fata Vampa che toccando le ferite con la sua magica bacchetta le risana per incanto.) (Nel medesimo tempo una luce più bella rischiara la scena, che si è trasformata in un bel giardino. Accorre il Coro. Uomini e donne han già ripreso la loro forma umana.) MILDA: CORO: Oh, felicità insperata! Vittoria! Vittoria! Ora sono tua per sempre! Invincibile in cielo e in terra è Amore! WOLFF: VAMPA: Oh gioia senza confine! Vivrete felici, Ora sei mia per sempre! vivrete per amarvi! E rivivrete in lunga progenie di figliuoli. Cala il sipario.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

la figura di quel Cristo agonizzante su la croce, abbandonato laggiù nello stanzone del mezzanino, con la testa, le mani e le ginocchia fuori dai brandelli del lenzuolo roso dalle tignuole, come egli lo aveva inattesamente visto quel giorno ... che cosa poteva farci? ... quella figura gli dava un senso di inquietudine, di malessere ogni volta che gli invadeva l'immaginazione. E meno male se, col fantasma di essa, altri ed ugualmente tetri, non gli si fossero ripresentati davanti, altri che egli già credeva scacciati lontano e da parecchio tempo! E così ora ecco Rocco Criscione, a cavallo della mula, nell'oscurità, tra le siepi di fichi d'India di Margitello, che veniva avanti, canticchiando sotto voce - gli era rimasto nell'orecchio! - Quannu passu di ccà, passu cantannu e non aveva avuto tempo di dire: Gesù! Maria! ... con quella palla ben assestata che gli avea fracassato la testa! E il tonfo del corpo! ... E lo scalpito della mula che fuggiva spaventata! ... E il gran silenzio nell'oscurità, terribile, seguito allo scoppio della fucilata! ... E così, ora ecco Neli Casaccio che dal gabbione delle Assise, alzando la mano destra e piangendo, gridava: «Sono innocente! Sono innocente!». E tanto forte, che il suo giuramento sembrava si trasformasse in urlo, in quegli urli del vento, la nottata della confessione, e ch'egli assumesse le sembianze di don Silvio, pallido, con la stola, e inesorabile: «Bisogna riparare il mal fatto! Ah, marchese!». Nervi! Immaginazione esaltata! ... Se lo ripeteva cento volte, n'era persuasissimo. Ma che cosa poteva farci? Era andato a sorvegliare, con altri della Commissione municipale, la distribuzione delle minestre e del pane alla povera gente; e Padre Anastasio, guardiano del convento di Sant'Antonio, parlava di una gran processione di penitenza, a piedi scalzi, con corone di spine e disciplina per placare lo sdegno divino. Dovevano intervenirvi persone di ogni ceto, sacerdoti, signori, maestranze, contadini, senza distinzione alcuna, come egli si era sognato che gli ordinasse Sant'Antonio, due notti di seguito. Il marchese tentennava il capo. Quel padre Anastasio, alto, nerboruto, col naso a tromba e gli occhi che gli scoppiavano fuor dell'orbita, non era tenuto per stinco di santo nei dintorni del convento. Caso mai, Sant'Antonio sarebbe andato proprio da lui per ordinargli la processione? Ma gli altri della Commissione approvavano. «E col simulacro della Regina degli Angioli», proponeva uno. «È miracoloso!» «Con la statua del Cristo alla Colonna», suggeriva un altro. «È più miracolosa ancora! Si dice: "Ora per la pioggia, ora pel vento. Non si fa la festa del giovedì santo!". Ed è quella del Cristo alla Colonna.» «Ho un gran Crocifisso. Ve lo regalo per la vostra chiesa, padre Anastasio. E farete la processione trasportandolo da casa mia.» L'idea gli era balenata in mente tutt'a un tratto. Il marchese si stupiva di non averci pensato prima. «Quando il Crocifisso non sarà più laggiù nel mezzanino, col lenzuolo roso dalle tignuole», egli rifletteva, «i miei nervi rimarranno certamente tranquilli, e tutto il resto si cheterà anch'esso. Che diamine!» E sorrideva in faccia a padre Anastasio profondentesi in ringraziamenti con quel naso che pareva volesse squillare proprio come una tromba, con quegli occhi che, dalla gioia, si sgangheravano più dell'ordinario ... «Che fortuna pel convento! Un Crocifisso grande?» «Al naturale.» «Di carta pesta?» «Scolpito in legno duro e con una croce immensa. Non lo reggeranno due uomini. Figuratevi che un giorno ... » Suo malgrado, senza poter ritenersi, il marchese si sentì spinto a raccontare quel che gli era accaduto quel giorno. «Ha avuto paura?» «Un pochetto.» «Ah! Lo credo ... Una notte, anni fa, nel convento di Nissorìa ... » E padre Anastasio rideva anticipatamente di quel che stava per dire: che paura anche la sua! Nell'andare dalla cella in fondo al corridoio ... in un certo posto ... miseria umana! ... si doveva passare davanti a un gran San Francesco, dipinto nella parete, con le braccia aperte e rapito in estasi dal suono del violino di un angelo a cavalcioni delle nuvole. Lo vedeva almeno venti volte al giorno, da sei mesi che si trovava in quel convento, passando e ripassando pel corridoio. Ma quella notte, al lume della lampadina recata in mano ... Come se quel San Francesco - che alla dubbia luce sembrava vivo e parlante, con gli occhi travolti in su - come se quel San Francesco gl'imponesse: «Padre Anastasio, di qui non si passa!». E non era passato, con tutta l'urgenza! Che cosa fosse allora accaduto, miseria umana! ... Ora rideva, ma in quel momento! ... E la pancia di padre Anastasio sobbalzava sotto la tonaca; e gli occhi gli erano diventati lustri dal convulso provocato dalle grosse risate.

Minacciavano di avventarsi e mordere chi si accostava alla loro padrona, stesa rigida sotto le coltri, col capo abbandonato sui guanciali, e tra i capelli sotto la cuffia, i diavolini voluti farsi fare la sera avanti perché da anni ed anni ogni sera aveva praticato così. La marchesa pensava ancora dopo un mese alle parole della baronessa: «Sei felice, è vero?», e alla sua risposta: «Sì, zia!». Ora la baronessa doveva vedere di lassù che ella le aveva mentito per non turbarle quegli ultimi giorni di vita. Non si era mai sfogata con lei, come con la mamma e la sorella; la baronessa non avrebbe avuto la prudenza di confortarla e di tacere col nepote; e Zòsima non voleva che tra il marchese e lei vi fossero intermediari; preferiva soffrire. Poi era stata distratta dalle cure di scartare, di mettere a posto i mobili, i quadri, gli oggetti diversi che il marchese aveva fatto trasportare in casa dal palazzotto della baronessa lasciato in eredità alla nepote maritata col cavalier Pergola, a cui premeva di uscir presto dal vicoletto dove ora gli pareva di sentirsi mancar l'aria e di non avere a bastanza luce. La marchesa aveva riposto assieme con quelle di famiglia le gioie antiche, di molto valore, destinate a lei dalla zia. E un giorno che ella ammirava, tra gli altri oggetti ereditati, due vestiti di broccato laminati in oro, della prima metà del Settecento, conservati perfettamente con tutti gli accessori e le scarpine - la baronessa li mostrava raramente tanto n'era gelosa - si era sentita fin prendere dalla curiosità di indossarne uno che, a occhio, sembrava tagliato e cucito proprio per lei. Il marchese, tornato inattesamente da Margitello, l'aveva sorpresa mezza vestita, e l'aveva, con insolita compiacenza, aiutata nel travestimento. Quel cantusciu si adattava perfettamente alla sua persona. Ma ella, appena terminato di abbigliarsi, e guardatasi nello specchio, si era vergognata della sua curiosità, quasi si fosse mascherata fuori stagione. «Vi sta benissimo; sembrate un'altra persona», le disse il marchese. «Il marchese grande raccontava che, ogni volta che la marchesa bisnonna indossava questo vestito, egli soleva ripeterle: "Marchesa, approfittate della circostanza; in questo momento non saprei negarvi niente!". Ma la marchesa», egli soggiungeva, «non ne approfittò mai.» «Da donna prudente», rispose Zòsima. Il marchese fece una mossa interrogativa. «Perché una signora», ella spiegò, «non deve chiedere, ma attendere che il suo desiderio sia indovinato.» Per un istante si era illusa intorno alla intenzione del marchese. E vedendolo pensieroso, un po' accigliato, aveva aspettato che le dicesse: «Indovino il vostro desiderio. Sarà fatto come voi volete». Invece egli cambiò discorso. «Verrete domani a Margitello? Faremo l'assaggio dei vini ... È la prima festa della Società Agricola .» «Grazie», ella rispose freddamente. E la mattina dopo finse di dormire per evitare che il marchese ripetesse la proposta sul punto di andar via. Egli si era aggirato un po' per la camera, esitante se dovesse svegliarla o no; si era fermato a guardarla, e la marchesa che teneva gli occhi socchiusi fu meravigliata di vedergli fare un gesto, quasi volesse scacciare con le mani qualche tristo pensiero che lo tormentava, tanto dolorosa era stata l'espressione del suo viso in quell'atto. Soffriva dunque anche lui? Di che cosa? Per qual motivo? Aveva dunque ragione la sua mamma dicendo che tra marito e moglie c'era di mezzo un malinteso, un equivoco, e che il non tentare da una parte o dall'altra di chiarirli o dissiparli, serviva unicamente a prolungare quel penoso stato d'animo e a renderlo peggiore? «Come? La cugina non viene?», domandò il cavalier Pergola che era già montato nella carrozza fermata davanti al portone. «È un po' indisposta», rispose il marchese. «Gli altri ci attendono alla Cappelletta», disse il cavaliere dopo di aver acceso un sigaro. «Ecco don Aquilante!» Don Aquilante arrivava di corsa scusandosi di essere in ritardo. Titta fece schioccare la frusta e le mule partirono di buon trotto. Il cavalier Pergola non poteva trovarsi insieme con l'avvocato senza cavarsi il gusto di provocarlo a qualche discussione. Quando la carrozza raggiunse le altre due coi soci dell' Agricola alla Cappelletta e passò avanti per la discesa, il cavaliere gli disse: «Oggi voglio vedervi prendere una sbornia. In vino veritas ; così ci direte la vera verità intorno ai vostri Spiriti ... Ma ci credete, proprio?». «Non ho mai preso sbornie in vita mia; né ho bisogno di essere ubriaco per dire la verità», rispose severamente don Aquilante. «Bevono vino anche gli Spiriti?» «Potrei dirvi sì; e vi parrebbe una sciocchezza.» Il cavaliere scoppiò in una risata: «Meno male. Se nel mondo di là non si dovesse più bere vino, mi dispiacerebbe assai. Avete udito, cugino? Bisogna turar bene le botti a Margitello; c'è il caso di trovarne qualcuna già vuotata.» E rideva, pestando i piedi, strofinandosi le mani, come soleva quando era di buon umore. «Quel che gli Spiriti non possono vuotare, sono certi cervelli dove non c'è niente», replicò don Aquilante, socchiudendo gli occhi e scrollando compassionevolmente la testa. Il marchese non aveva risposto subito. Da qualche tempo in qua andava soggetto a certe intermittenze di pensiero dalle quali si riscoteva tutt'a un tratto quasi rinvenisse da uno sbalordimento. Doveva fare uno sforzo per rammentare l'idea, o il fatto dietro a cui si era sperduto, e qualche volta non riusciva a rintracciarlo. Gli sembrava di aver camminato, camminato in mezzo a densa nebbia senza distinguere niente attorno a lui, in uno spazio deserto, silenzioso, o su l'orlo di un abisso dove poteva porre il piede in fallo, e di cui risentiva l'orrore rientrando in sé. Aveva fatto un lieve balzo all'interrogazione del cavaliere, e atteggiava le labbra a un sorriso stentato indovinando a chi andasse la risposta di don Aquilante. «Mio cugino è incorreggibile», egli disse mentre il cavaliere rideva. «Ha però in serbo le solite reliquie per quando si vede in pericolo!», rispose don Aquilante senza scomporsi. «Se credete di chiudermi la bocca col rinfacciarmi una debolezza di moribondo!», esclamò il cavaliere. «Ecco, ora son qua in perfetta salute e posso tener testa a voi e a tutti i preti della terra. E a Margitello farò un bel brindisi al Diavolo davanti a la botte grande col migliore vino della Società ... Evviva Satana! Ribellione, O forza vindice Della ragione! ... Li ho letti ieri in un giornale; versi di un gran poeta, diceva il giornale.» «Ai poeti è permesso affermare e negare nello stesso tempo.» «Affermare e negare? ... » «Se non m'intendete, è colpa mia forse? Voi vi figurate di fare chi sa che cosa con un brindisi al Diavolo. Credete in lui dunque; e vi proclamate libero pensatore!» «Siete più irragionevole voi che credete negli Spiriti. Almeno il Diavolo è una potenza, che tenta, induce al male e porta, lui solo, più anime all'inferno che non tutti gli angioli e i santi in paradiso. E a questo suggerisce: "Ruba!". A quegli insinua: "Ammazza!". A uno: "Fornica!". A un altro: "Tradisci! ... ". E tutti ubbidiscono, e tutti gli vanno dietro ... se è vero che esiste! ... » «Volgarità vecchia, stantia, caro cavaliere! Voi siete addietro di un secolo, a dir poco!» «E voi all'infanzia dell'umanità!» «Intanto con questi discorsi facciamo addormentare il marchese», disse don Aquilante. Il marchese era ricaduto in quello stato di intermittenza di pensiero da cui si era destato un istante poco prima; solamente gli risuonavano negli orecchi fioche, quasi indistinte, la parole del cugino: «A quegli insinua: ammazza! A questi insinua: ammazza!». Sì! Sì! Il diavolo gliel'aveva soffiata, ohimè! un'intera settimana la terribile parola ... Ed egli aveva ammazzato! ... Così, dopo, il diavolo aveva suggerito a compare Santi Dimauro: «Impiccati! Impiccati!». E quegli si era impiccato! ... Non si sarebbe dunque mai sbarazzato di questi incubi? Non dormiva, come diceva in quel punto don Aquilante. E dormiva poco da parecchie settimane, nel letto, a fianco della marchesa; giacché non poteva dirsi sonno quel chiudere gli occhi per qualche quarto d'ora e destarsi di soprassalto col terrore che ella, accorgendosene, gli domandasse: che cosa avete? C'era già una incessante interrogazione negli occhi di lei, in quella chiusa rassegnazione, in quelle brevi risposte, che sembravano insignificanti e che significavano tanto, quantunque egli fingesse di non prestarvi attenzione. Aveva un tristo significato anche il rifiuto di andare quel giorno a Margitello. E il notaio Mazza glielo rammentava scendendo dalla carrozza nella corte: «Peccato anche manchi la nostra cara marchesa!». Intanto doveva mostrarsi allegro con gli ospiti, dare una cert'aria solenne a quell'assaggio, battesimo dell'impresa per la quale aveva speso tanti quattrini, tante cure e tanto entusiasmo, e suscitato tante avidità e tante speranze. Fortunatamente erano allegri i soci. Il notaio Mazza si era quasi prostrato in ginocchio davanti a la botte grande, levando in alto le braccia ed esclamando in latino: « Adoramus et benedicimus te !». Il cavalier Pergola, tra una bestemmia e l'altra, parlava di tipi di vini. «Se non si arriva a creare un tipo , tutto è inutile!» E così, da lì a poco, anche il marchese era già eccitato allorché i dieci soci si trovarono coi bicchieri in mano, ascoltando, con qualche impazienza, le spiegazioni ch'egli dava intorno ai tagli operati e alle manipolazioni dovute fare appunto per creare il tipo, che doveva chiamarsi Ràbbato, bello e strano nome da portare buona fortuna. Poi il vino sgorgò dalla cannella della botte Zòsima limpido, di un vivo color di rubino, coronando con lieve cerchio di spuma rosseggiante i bicchieri; ma il notaio Mazza, assaggiatolo, nel punto di fare un brindisi, si era arrestato, assaporando, facendo scoppiettare le labbra, tornando ad assaggiare, guardando negli occhi tutti gli altri che assaggiavano come lui, senza che nessuno si decidesse a dire il suo parere, quasi ognuno avesse paura di essersi ingannato. «Ebbene?», fece il marchese. «Cavaliere, dica lei ... » «Oh! ... Voi, caro notaio, siete assai più fino conoscitore di me.» «Allora, don Fiorenzo Mariani ... », riprese il notaio. «Io?», lo interruppe questi, atterrito di dover pronunziare un parere in faccia al marchese. «Parli l'avvocato, e questa volta da giudice ... » «Dichiaro la mia incompetenza», s'affrettò a rispondere don Aquilante che aveva già riposto nel vassoio il bicchiere ancora colmo. «Tipo Chianti, ma più forte», disse il marchese, dopo aver assaggiato. «Troppo forte, forse!», soggiunse maliziosamente il notaio. «E poi, i vini si gustano a tavola.» «Dice benissimo il cavaliere!» Erano usciti d'imbarazzo così. E a tavola, con la scusa che i vini nuovi sono traditori, tutti avevano bevuto il vino vecchio; e il cavalier Pergola che voleva far prendere una sbornia a don Aquilante, l'aveva presa invece lui, leggerina, sì, come quella di don Fiorenzo Mariani che gli sedeva dirimpetto, ma chiassona e con la fissazione: «Don Aquilante, evocate gli Spiriti, o li evoco io!», mentre don Fiorenzo, levato in piedi col bicchiere in mano, per dimostrar che la sua testa era serena, ripeteva sfidando il cavaliere: «Pietro ama la virtù! Qual è il soggetto della proposizione?». Soltanto il notaio mangiava e beveva zitto zitto. «Tipo Chianti», rifletteva, «un po' più forte! ... Aceto addirittura! ... » «Mi sono ingannato io, o pure? ... », lo interrogava sottovoce il socio che gli sedeva accanto. «Da condire l'insalata, volete dire?» «Questo è il Ràbbato bianco.» Il marchese andava attorno egli stesso per riempirne i bicchieri dei commensali, e giunto dietro al cavaliere, che continuava a gridare: «Don Aquilante, evocate gli Spiriti, o li evoco io!», gli disse in tono severo: «Cugino, via, finitela con questo stupido scherzo! ... ». «Scherzo?», rispose il cavaliere rosso in viso, con gli occhi accesi e la lingua un po' incerta. «Ma io parlo seriamente ... Carte in tavola! ... Dove sono cotesti suoi Spiriti? Vengano, vengano qui. Io vi evoco in nome ... del Diavolo: "Spiriti erranti, che non potete abbandonare il posto dove siete morti ... In nome del Diavolo!". Ah! Ah! Ah! Si fa così ... O ci vuole per forza il tavolino? C'è la tavola qui pronta e c'è il vino ... e anche l'aceto che il cugino ha manipolato ... Cugino mio, questa volta, aceto da peperoni! ... Aceto Ràbbato! ... » Il notaio Mazza e gli altri volevano turargli la bocca, condurlo di là. «Buona persona il cavaliere, ma un dito di vino di più lo mette subito in allegria ... » Il notaio tentava di attenuare la brutta impressione di quella scena, vedendo il viso scuro del marchese che scrollava le spalle e voleva far le viste di non dare importanza alle parole del cugino. Il quale, mentre don Aquilante, appoggiati i gomiti su la tavola, con la testa fra le mani e gli occhi socchiusi non gli dava ascolto, seguitava a ripetere: «Si fa così? Si fa così, gran mago? Evocate compare Santi Dimauro! ... Evocate Rocco Criscione! ... Devono essere in queste vicinanze ... Spiriti erranti! ... O voi siete un mago impostore!». Il marchese, impallidito, gridò forte: «Cugino!». E quel grido di rimprovero parve che tutt'a un tratto gli snebbiasse il cervello; il cavaliere tacque sorridendo stupidamente. Don Fiorenzo, dall'altra punta della tavola, urlava intanto: «Chi non è ubriaco risponda: Pietro ama la virtù! Qual è il soggetto della proposizione?».

PROFUMO

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Così (ed erano già trascorsi due mesi dal loro arrivo) una mattina, dopo colazione, si era abbandonato a raccontare l'unico episodio della sua fanciullezza. "Vieni, vieni!" Eugenia lo aveva trascinato carezzevolmente per un braccio, lungo il corridoio dove il Padreterno faceva sollevare, spazzando, un nugolo di polvere dai mattoni. "Padreterno, un po' di pioggia" disse Patrizio, celiando. "Non siete Padreterno per nulla!" "Se fossi Padreterno davvero, farei piovere vino schietto." E il borbottìo della risposta, un po' mangiato dallo spazio, un po' dal fruscio della granata nuova, era appena arrivato fino a loro. Un istante il Padreterno li aveva sentiti ridere in cima alla scala che conduceva alla selva. Presi per mano, sotto il pergolato, poco dopo non ridevano più. Al ronzio delle api attorno le macchie di spigo e di rosmarino, al cinguettio dei passeri e dei cardellini tra i cipressi e gli aranci, al mormorio dello zampillo della fontana, una parola di Eugenia era bastata per evocare il più caro dei ricordi ch'egli teneva chiusi in fondo al cuore. Oh, là si sentivano segregati dal mondo, tra l'alta muraglia che cingeva la selva, e la facciata interna del convento nascosta da gli alberi, col campanile torreggiante in alto, sgretolato, sormontato da una banderuola di ottone, che stride- va mossa dal vento. Qual luogo più opportuno per una confidenza di quel genere? Non ne aveva mai parlato con nessuno; era proprio un'esumazione. Gli sarebbe parso di profanare quel ricordo ra- gionandone con altri. "Di' dunque ..." "Allora ero magro, pallido, di quel pallore dei bimbi malaticci che paiono vecchini. Tutto il mio svago, nella misera casetta dove la mamma nascondeva i dolori, le privazioni, le umiliazioni della vedovanza, consisteva ordinariamente nell'uscire sul pianerottolo e passarvi le ore pomeridiane baloccandomi, solo solo, con pezzetti di legno, trucioli, fram- menti di carta colorata, sassolini. "Un pigionale dell'ultimo piano, che scendeva tutti i giorni a ora fissa, mi accarezzava la testa passando; e la tacita tenerezza di quel vecchio mi faceva piacere. Curvo, bianco di capelli, con gran barba gialliccia che gli scendeva fino a metà del petto e sotto braccio un ombrellone rosso, quel vecchietto un giorno mi aveva fatto un cenno strano. Lo com- presi poco dopo, quando vidi comparire una bambina che, dubbiosa, esitante, si fermò a metà degli scalini, guardando- mi con curiosità. ""È vero che vuoi giuocare con me? Me l'ha detto don Antonio." "La guardai stupito. Non l'avevo veduta mai. Don Antonio doveva essere quel vecchietto. ""È vero?" ella replicò. "E senza aspettare la risposta, venne su. Mi parve della mia età, tra gli otto e i nove anni. Bruna, gracile, con indosso una vestina di mussola azzurra un po' stinta e i neri capelli sciolti per le spalle, teneva stretta al seno una bambola sciu- patina in viso e a cui mancavano le braccia dentro le maniche. Addossata al vano della finestra, stette a osservare in si- lenzio i miei ninnoli, dandomi occhiate interrogative quando alzavo la testa. ""Tieni, gioca con la bambola. Giochiamo assieme." "La mamma, affacciatasi all'uscio, la guardò con aria sospettosa, la interrogò e si fermò più a lungo, probabilmente per accertarsi che non fosse una cattiva compagna. Ella continuò a giocherellare co' miei legnetti, mentre io tenevo tra le mani la bambola, senza sapere che cosa farmene. Appena la mamma rientrò, la bambina, accarezzandomi il viso e sor- ridendo, mi disse: ""Non sai fare il chiasso dunque?" "E cominciò a insegnarmi." La voce di Patrizio era un po' turbata. Il suo sguardo pareva ricercasse, lontano, nel pianerottolo di quella meschina casetta, la bruna e gracile figurina dai capelli neri, sciolti dietro le spalle, che gli aveva preso il volto tra le mani con af- fettuosa compiacenza da sorellina maggiore. Ed Eugenia, che ascoltava intentissima, si mordeva lievemente le labbra sentendosi già invadere da vago senso di rancore contro quella creaturina che doveva aver lasciato nel cuore di Patrizio orme profonde, se questi rammentava così bene tanti minuti particolari d'un avvenimento d'infanzia. Egli continuò. "Il vecchio, che scendeva curvo e lento con l'ombrellone rosso sotto braccio, ci trovava ora sempre assieme; e sco- tendo la gran barba gialliccia, stendeva la mano scarna all'una e all'altra delle nostre testine, evidentemente compiaciuto dell'opera sua. Gli badavamo appena. Stufi di ripetere i soliti giochi, ci prendevamo per mano, o ci passavamo le braccia attorno al collo; ed era il momento delle confidenze. Lei mi parlava del suo babbo, della sua mamma, di tante cosettine di casa sua; o stavamo abbracciati a lungo, muti sovente. Un giorno ella non comparve. Ne sentii sgomento, quasi mi si fosse fatto buio improvviso nel cuore. Non comparve nemmeno il giorno appresso. Il vecchietto passò, curvo, col solito ombrellone rosso sotto braccio; nè mostrò di aver notato che l'altra non c'era. "E se non fosse più mai venuta?" Non rimpiangevo i giochi che non potevo fare assieme con lei; rimpiangevo lei, rimpiangevo le sue manine tra le mie, le sue braccia attorno al mio collo, il suo sorriso, il suono della sua voce, qualcosa che non capivo bene che cosa fosse e di cui soltanto molti anni dopo mi resi ragione. Sai quando?" Eugenia, accigliandosi, accennò di no. "Quando attendevo che tu venissi a sederti al terrazzino di casa tua, dietro la ringhiera di ferro ricurvo, tra le graste in fiore, nelle prime settimane che ti conobbi. Tu non t'eri ancora avvista che io stavo a guardarti dietro la tenda della mia finestra e che già ti amavo. La stessa smania, la stessa angosciosa aspettativa! Finalmente ella ricomparve. Era stata malata di febbre. Ci baciammo, e restammo un gran pezzo abbracciati. Sentivo affollarmisi alle labbra tante e tante cose da dirle; e non riuscivo a dir niente. La mamma, trovatici così, domandò brusca: ""Che cosa fate?" "Ci sciogliemmo dall'abbraccio, quasi vergognosi di esserci lasciati sorprendere in un atto che avremmo dovuto fare di nascosto; e per scusa, risposi: ""È stata malata." "Il vecchietto da allora in poi, invece che su gli scalini del pianerottolo, ci trovava seduti a metà della scala del piano superiore. Ci nascondevamo, per baciarci e abbracciarci senza che la mamma potesse coglierci all'improvviso e doman- darci: "Che cosa fate?". Io mi sentivo scotere tutto, quando Giulietta mi abbracciava. Si chiamava Giulietta. Ella, mera- vigliata, mi domandava: ""Che hai? Perché tremi? Senti freddo?" "E mi abbracciava più forte. "Era tranquilla, con grande soavità di sguardo e di sorriso, con fare benevolo di protezione. Un giorno tutt'a un trat- to, mi domandò: ""Mi vuoi bene? Io ti voglio bene." ""Sì, ti voglio bene." "E levàtasi in piedi, di faccia a me, tenendo incrociate le manine dietro la schiena, seria seria, soggiunse: ""Quando saremo grandi, ci prenderemo per marito e moglie, come il babbo e la mamma. È vero?" ""Sì sì!" ""Ora la bambola è nostra figlia." "Son vissuto molti anni col cuore invasato da Giulietta, dal ricordo, dalla visione di lei, quasi ella fosse venuta cre- scendo di mano in mano ch'ero cresciuto io; quasi le parole: "Quando saremo grandi ..." fossero state giuramento, indissolubile legame." "La rimpiangi forse?" lo interruppe Eugenia impallidita. "Cattiva! ... Cose da bambini!" "Sei così commosso!" "Ricordo com'è morta." La selva era piena di sole. Le api ronzavano più numerose per le macchie di timo e di spigo. Patrizio si era fermato a osservare una lucertolina, che, affacciàtasi alla estrema punta del banco di pietra dove sedevano, spingeva la testina verdognola, quasi fosse stata ad ascoltare e volesse sentire la fine del racconto. "Una mattina" egli riprese "appena uscito sul pianerottolo, ecco un urlo, poi stridi e pianti e tutto il casamento sos- sopra! La mamma, che era venuta ad accompagnarmi fino all'uscio, mi afferrò per un braccio, e mi spinse subito dentro. Poco dopo, picchiarono. Una casigliana chiedeva urgentemente non so che cosa. Il nome di Giulietta, misto alle frasi interrotte e confuse che le uscivano di bocca, mi gelò il sangue. Appena quella donna andò via, la mamma mi si accostò, severa: ""Hai sentito? ... Quando si è scapati! ... È precipitata giù dalla finestra ... È moribonda!". "Rimasi di sasso. Che nottata! La mamma mi avea messo a letto di buon'ora. Avevo paura, con l'urlo e le grida e il tumulto della mattina negli orecchi. Terribile cosa precipitare da una finestra! Essere moribonda! Di questo però non sapevo formarmi un'idea precisa. Il cuore mi batteva violentemente nel petto. Dove s'era fatta male? Alla testa? Alle braccia? Alle gambe? "E nel silenzio della notte tendevo l'orecchio, per udire qualche rumore nel piano sottostante ... Non si udiva niente. La mattina dopo, la mamma non voleva neppure permettermi di uscire sul pianerottolo. ""Non mi moverò di qua!" supplicai. "Avevo però in testa il mio disegno: scendere in fretta le scale, andare da Giulietta e subito subito risalire, avanti che la mamma se ne accorgesse. La gente entrava ed usciva muta, commossa. Mi feci animo; entrai anch'io. Giulietta, stesa sul letto, allungata, bianca, con le manine incrociate sul seno, pareva dormisse. Nessuno badava a me. Mi accostai, le toccai un braccio. Era rigido, inerte. Mi rincanttucciai a piè del letto, sbalordito, dubbioso se fosse morta davvero o pure assopita. Una donna la tolse in braccio baciandola e la portò verso la cassa. Ficcatomi tra le persone che stavano là at- torno, ve la vidi riporre. Le aggiustavano la testina, i capelli, le manine. Ma non appena il becchino, abbassato il coper- chio, girò la chiave della serratura, scoppiai in urli, in pianto: ""Giulietta! Giulietta!" "Diventato furioso, strappavo i vestiti delle persone, davo calci e pugni, volevo mordere tutti: ""Giulietta! Giulietta! ..." "E caddi in convulsione." "Basta, non ti commuovere troppo!" disse Eugenia con durezza gelosa nella voce, levandosi da sedere. Patrizio le prese una mano. "Ora Giulietta sei tu!" "No, io sono Eugenia" ella rispose, ritirando la mano vivamente. Patrizio stava per slanciarsi ed abbracciarla, ma l'arrestò l'apparizione della signora Geltrude, che veniva avanti sen- za far rumore pel viale, simile a un fantasma, con la ruga della fronte più severa che mai. "C'è il sindaco" disse. E prese il braccio di suo figlio, senza neppur guardare la nuora. Pareva volesse portarglielo via. Eugenia li seguiva, canticchiando per dissimulare il dispetto.

È mia l'idea, perché l'edificio non andasse in rovina, abbandonato ai topi e ai pipistrelli. Se occorre qualche riparo, non deve far altro che aprire bocca. Il municipio è ai suoi ordini. E dicendo municipio, intendo me, me solo. Ho mezza giunta in dimissione. Inevitabile guaio dei partiti! ... Potrei dirgliene delle belle! ..." Patrizio non l'ascoltava da un pezzo. I suoi sguardi erano fissati su l'uscio della camera attigua. Dietro i battenti soc- chiusi avea visto affacciarsi un istante il viso scurito di Eugenia, la quale pareva attendesse impazientemente che il sin- daco si fosse congedato. Patrizio non aveva mai visto sua moglie con un viso a quel modo. "Che cosa è avvenuto tra la mamma e lei?" E frenava a stento la smania che cominciava ad agitarlo. "Mi avvedo che lo annoio" s'interruppe il sindaco. "Le pare!" rispose Patrizio distrattamente. Sentiva rinnovarsi quel senso d'oppressione e di impaccio provato poc'anzi nella selva, alla vista di sua madre. Da qualche settimana ella metteva una specie di caparbietà nel preparargli di tratto in tratto simili sorprese. Appariva su la terrazza a ora tarda, quando egli ed Eugenia la credevano già a letto. "Che cosa fate qui? L'aria è umida" diceva con voce così esile che si sentiva appena. "No, mamma." "È umida e può farti male; sarà meglio rientrare." La voce s'elevava, assumendo l'accento di chi vuol essere ubbidito anche quando dà un consiglio. Appariva in fondo ai corridoi un po' fuori mano, dove Eugenia attirava Patrizio col pretesto di farsi spiegare una vecchia carta geografica, o una grande incisione rimasta, chi sa come, ancora intatta alla parete, rappresentante l'albero genealogico dell'Ordine del Carmelo, con la Madonna in alto, tra le nuvole, col bambino Gesù su le ginocchia e gli abi- tini pendenti dalle mani. "Che cosa fate qui? ... Volevo domandarti ..." ella aggiungeva, strascicando le parole. E quella che pareva dovesse essere una domanda urgente, si riduceva a una cosa da nulla, per la quale non occorreva che fosse uscita, a posta, di camera lei, che non ne usciva quasi mai e fosse andata fin là, pian piano, in punta di piedi, da sentirsela addosso prima di avvedersi che si avvicinava. "Che cosa fate qui? Che cosa fate?" Proprio come quando lo aveva trovato sul pianerottolo abbracciato con Giuliet- ta! Allora però essi si erano rifugiati su per gli scalini del piano superiore, sicuri di non essere sorpresi; ora, invece, non si sentiva mai tranquillo ogni volta che Eugenia: "Vieni! Vieni!" lo attirava qua e là pei diversi angoli del convento, con un pretesto o con un altro, quasi istintivamente cercasse così sottrarlo all'importuna sorveglianza dell'inevitabile: "Che cosa fate?". Ed egli, che pure aveva attinto dall'amore tanta forza da resistere alla misurata, sì, ma inesorabile opposizione al suo matrimonio, non riusciva intanto a ribellarsi contro quell'astio geloso; così profonda era l'impronta di venerazione per la madre lasciatagli nel carattere da quei lunghi solitari e tristi anni vissuti assieme, senza intervallo; quando non aveva dovuto mai avere altra volontà che la volontà di lei, quando il più lieve movimento dell'animo suo era stato ripercussio- ne, eco dei sentimenti materni, talvolta indovinati e intravisti assai prima che espressi. "Che cosa fate qui! Che cosa fate qui! ..." Vuole insomma strappare a ogni costo dagli occhi di Eugenia la benda che le impedisce di vedere? E il viso scurito di lei, apparso e scomparso rapidamente dietro i battenti socchiusi, lo teneva in quel punto così tur- bato, che del vertiginoso ragionamento del sindaco gli sbattevano dentro gli orecchi soltanto lembi di frasi o parole sle- gate, di cui non si curava di afferrare il senso. Infatti, all'ultimo, allorché il sindaco gli domandò a bruciapelo: "E lei, lei che ne dice?" Patrizio lo guardò in viso con così ingenuo stupore, che colui potè benissimo interpretarlo per assentimento a dirittura. E scattò dalla seggiola, dandogli una stretta di mano. Scattò dalla sua pure Patrizio; ma si limitò ad accompagnarlo fino alla stanza dove i commessi lavoravano appunto sugli in-folio dei ruoli suppletivi. "Vede?" accennò, facendogli un profondo inchino. Eugenia attendeva dietro l'uscio, mordicchiandosi le labbra, strizzandosi le mani. "Senti" ella balbettò, con voce arrochita dalla commozione. "Sono o non sono tua moglie?" "Che domanda!" "Rispondi: sono o non sono tua moglie?" Lo teneva fermo per le mani, spalancandogli in faccia i grandi occhi castagni e dominandolo con tutta la persona rizzata ansiosamente su la vita. "Ma che cosa è accaduto?" egli disse. "È accaduto ... che tu hai mentito!" "Io?" "Sì" replicò Eugenia con forza "hai mentito, facendomi credere che sarei stata, sono tue parole, la regina di casa tua!" "Che cosa sei?" "Niente! Persona che tua madre tollera appena" soggiunse, lasciandolo libero "e perché non può fare diversamente." "Ti ha detto questo? ... Ti ha detto questo?" domandò Patrizio stringendo i denti. "No; ma l'ho capito, e da mesi!" Patrizio (gli si erano intorbidati gli occhi in un terribile baleno di furore, come ne provano, qualche volta, soltanto le persone tranquille) a quel: No! sentì passarsi un soffio fresco sul volto, che lo fece rinvenire. "T'inganni" rispose per calmarla. "Oh! È inutile" ella riprese duramente "vuoi celare il sole con le mani. È inutile. Tu sei buono, tu soffri più di me. Sono buona anch'io, fino a un certo punto. Più oltre, no; preferisco di essere cattiva." "Insomma, che cosa è accaduto?" egli insisteva. "Quel che accade tutti i giorni, da sei mesi, da che ho messo piede in casa tua, a Castroreale e qui; quel che conti- nuerà ad accadere ... qui e altrove, se ..." "Non è vero!" la interruppe "Tu tenti di nascondermi qualcosa." "Te l'ho nascosto finora; ma non ne posso più. Che cosa ho fatto da meritarmi quest'odio?" "Taci, Eugenia!" "Dimmelo! Sì, ella m'odia!" "Taci! Non ripeterlo! Taci!" "Mi scoppia il cuore. Vorrei urlare, vorrei gridare tanto forte che tutto Marzallo mi udisse. Perché mi odia? Tu lo sai, certamente." "So che t'inganni." "Così fosse! ... Dimmelo! ... Dimmelo! ..." singhiozzava. Egli le andava dietro per la stanza, accennandole con le mani di abbassare la voce, supplicandola, col gesto, di cal- marsi, di prestargli fede. Le andava dietro, atterrito dell'opera di sua madre, che gli distruggeva in un istante la pace, la felicità, come gli attestavano quei cupi sguardi di Eugenia, quelle labbra contratte da angoscia ineffabile, quelle mani nervosamente agitate che brancicavano il vuoto, quello strazio scoppiato nel grido: "Dimmelo! ... Dimmelo! ...". E aveva ragione. "L'hai vista poco fa, l'hai vista?" riprese Eugenia con voce tremante. "Perché dovrebbe odiarti?" la interruppe Patrizio. "Me lo domando anch'io: Perché? Ed è stato fin dal primo giorno!" Egli l'area fermata presso la finestra, prendendola per le braccia, accostandosela al petto, quasi volesse così impedir- le di proseguire. Ma Eugenia proseguiva, agitatissima: "Sin dal primo momento! Non ho mai potuto dimenticare, mai! quel suo glaciale: "Siate la benvenuta in casa no- stra!" e il bacio più glaciale ancora con cui ella rispose al mio, così rispettoso e affettuoso, il giorno in cui ci sposammo. Ma allora io dissi dentro di me: "Non mi conosce; mi ha vista appena due o tre volte, non può amarmi. Sono quasi u- n'intrusa in casa sua" lasciami dire, lasciami sfogare! "Spetta a me sapermi a poco a poco cattivare il suo cuore!" Non sono riuscita. Ho tentato tutti i mezzi. Non sono riuscita! Ogni volta che ti accennavo lo strano contegno di tua madre, tu mi rispondevi: "Carattere! Le sventure domestiche, la vita solitaria l'hanno irrigidita: non è espansiva nemmeno con me che sono suo figlio ... Non badarci!". Ma come non badare alla continua diffidenza con cui mi vedevo osserva- ta, al suo continuo inframmettersi tra te e me, quasi il mio contatto avesse qualcosa di nocivo per te e ch'ella voleva in- frenare o combattere? ... Tu mi ripetevi: "Non badarci!". Allora, vedendo che ti angustiavi e che ne soffrivi, non te ne dissi più niente; ma continuai a badarvi più di prima. Come no? Come no?" "Calmati, Eugenia, calmati! ..." "Lasciami sfogare. Ho taciuto tanto; non ne posso più!" "Abbassa almeno la voce!" egli pregava. "Perché tua madre non senta? Ma dovrà sentirmi, lo voglio; voglio che mi dica: "T'odio per questo!". E sarò conten- ta. Così non può durare." "Oh Dio! oh Dio!" smaniava Patrizio. "Sono stata paziente, troppo. Il vaso era colmo fino all'orlo; una goccia è bastata per farlo traboccare. Non è colpa mia. Volevo risparmiarti questo dolore. Ormai! ... Dimmelo dunque, dimmelo: Perché m'odia? Perché?" "La tua immaginazione ti fa travedere" diceva Patrizio. "Persuaditene. Te lo giuro! La mamma è buona, incapace d'odiare una persona come te, che non le hai fatto niente di male. Dovrei dire lo stesso per conto mio, se guardassi sol- tanto ai suoi modi; sarebbe assurdo. È stata inasprita dalle sventure, povera donna, e dalle malattie. Tu sai la vita che vive: cupa, silenziosa, tra il letto e una poltrona. L'ho vista sempre così; non ha mai sorriso, mai! Non ne ha mai avuto occasione, povera donna, dopo la morte del babbo e la rovina della nostra casa!" "E che c'entro io?" "È per spiegarti ..." "Non spieghi nulla. Lasciami, non mi stringere così!" Egli se la stringeva forte al petto" l'accarezzava per rabbonirla, per farle intendere che non si trattava d'odio, no. E, sentendola tremare tra le braccia, scossa da fremito convulso, addolciva ancora più l'accento, accostava la fronte a quel- la di lei con amoroso abbandono, come raramente soleva, mormorandole su la faccia: "E poi, che te n'importa? Non t'amo io? Che te n'importa?" "Ah!" ella esclamò, svincolandosi con vivacissimo sforzo. "Ecco perché me ne importa!" La sua voce era piena di singhiozzi e gli occhi di lagrime che le solcavano le gote, senza che ella badasse ad asciu- garle. "Ecco perché me n'importa! Sento qualcosa di duro, d'impenetrabile, che si è già frammesso tra noi due, contro di cui urto con la testa e non riesco a spezzarlo. Picchio e non mi senti. Chiamo e non mi rispondi. Il tuo cuore è invasato da sentimenti che non intendo. Oh! Tu hai paura di lei. Non negarlo. Hai paura!" "Paura di mia madre?" "Sì! Sì! Sì!" Patrizio rimase interdetto. Colei che si vedeva davanti, altera e bella nel disordine dei capelli, nel turbamento dell'aspetto e della voce, nella durezza insolita della parola, non gli pareva più la sua dolce, la sua sommessa, la sua quasi timida Eugenia. Quel non so che di fanciullesco, di spensierato, di allegro, di verginale che ne formava l'incanto era sparito. Tutti i lineamenti di lei parevano cambiati di punto in bianco, con quelle sopracciglia aggrottate, con quegli occhi dallo sguardo incerto, con quelle labbra aride e contratte, con quella persona che pareva ingrandita, tanto il busto si ergeva fiero in quell'istante, elevando la testa e il collo gonfio dallo spasimo. "Sì" continuava fissandolo "hai paura di lei! Ebbene, che pretende tua madre? Ora sei mio. Sei suo figlio, ma sei mio! Mio, perché ti voglio bene quanto lei, anzi più di lei. Ella ti ama come madre, io come moglie; ed è diverso. Ella ti ha dato il latte ... Io, il mio amore, l'anima mia, tutta me stessa! ... Ti appartengo, come tu mi appartieni." E l'afferrò tra le braccia furiosamente, quasi fosse là qualcuno che volesse rapirglielo. "Mi appartieni ... Sei mio! Non sei più suo! No! ... Non sei più suo! No! No! ..." E, al balbettio di queste ultime parole, Patrizio sentì irrigidire tutto il corpo di lei, che si stirava con le braccia tese in avanti e i pugni stretti. "Eugenia! Eugenia! ... Mamma! ..." La sollevò, l'adagiò sul letto, cercando di frenare il dibattito di tutte le membra nella convulsione crescente, e tornò a chiamare più forte: "Mamma! Mamma!" Eugenia si agitava, mugolando, svincolandosi a scatti. La signora Geltrude picchiò ripetutamente dietro l'uscio di comunicazione delle due camere. Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

Racconti 1

662671
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Mentre Eugenio, passato il primo bollore della passione, si staccava da lei mezzo annoiato, mezzo sazio, naturalmente, senza che la riflessione vi concorresse per nulla; la signora Viotti - che aveva abbandonato il marito da cui si sapeva adorata e che aveva adorato anche lei fino a sei mesi addietro, essendosi sposati per amo re - la signora Viotti, all'opposto, si sentiva attaccare, di giorno in giorno piú strettamente, da uno di quei violenti legami pei quali la ragione non vale. Da Treviglio, dove Eugenio trovavasi a villeggiatura a villa Savini, invitato da un amico, essi eran volati a nascondersi nell'immensità della capitale, in quell'elegante quartierino di via Modena, al terzo piano. E durante il primo mese, uscivano soltanto la sera, a braccetto, per passeggiare pei quartieri nuovi, baciandosi furtivamente lungo le vie solitarie, quasi in tutta la giornata gliene fosse mancato il tempo! E non facevano altro, Dio mio! Erano proprio insaziabili. Andando attorno posatamente, par landosi all'orecchio e stringendosi le mani, ella gli ripeteva spesso: - Mi par di sognare. - Anche a me - rispondeva Eugenio. Conosciutisi in una scampagnata, egli aveva avuto appena l'occasione di susurrarle qualche parola di semplice galanteria, senza nessun preconcetto, senza nessun'idea di far colpo, sapendo bene che quei due, marito e moglie, s'erano sposati per amore. Ma una sera, sul tardi, ritornando alla villa da una passeggiata faticosa, avvedutisi di esser rimasti molto indietro da la compagnia, eran diventati a un tratto silenziosi, impacciati di trovarsi cosí soli tra i filari dei gelsi che costeggiavano la via, sotto quel cielo senza luna, nella penombra della sera che invadeva tacitamente la campagna al leggiero stormire delle fronde. In che modo i loro sguardi s'erano incontrati? In che modo era spuntato sulle labbra di tutti e due lo stesso sorriso pieno di stupore? ... E in un baleno, ella gli si era buttata tra le braccia, singhiozzante: - Che gran male mi avete fatto! ... Mi sento impazzire! - Eugenio, interdetto, turbato, rispose a stento: - Ci chiamano! ... - Nella nottata però non poté chiuder occhio; quella voce singhiozzante, piena di tanta passione, gli aveva sconvolto cuore e cervello. Non credeva a se stesso: - Amato fino a questo punto! - E due mesi dopo, nelle loro passeggiate serali per le vie della nuova Roma essi ridevano ancora del terrore provato in camera di lei, a villa Savini quella volta che suo marito aveva dovuto correre da Treviglio a Milano per un affare urgentissimo. A notte avanzata, essi avevano udito un rumore, secco secco. - Han chiuso l'uscio della stanza di passaggio! - ella balbettò, stringendogli un braccio, convulsa - Oh Dio! Saremo scoperti, tra le risa mal celate della servitú, tra le ipocrite indignazioni delle altre villeggianti! ... E mio marito, quando saprà ...! - La signora Viotti si disperava, si torceva le mani, si strappava i capelli. - Non può essere ... Zitta! ... Vo a vedere -. E andato di là, per accertarsene coi propri occhi, Eugenio era subito tornato addietro pallidissimo, mordendosi i baffi ... Terribile quarto d'ora! Smarrita, tremante da capo a piedi, vincendo ogni pudore, s'era levata anche lei, e presi per mano, barcollanti, erano andati insieme di là, dinanzi a quell'uscio fatale, per forzarlo a ogni costo! ... E che infrenabile convulsione di risa, vedendolo ancora aperto com'egli, venendo, lo aveva lasciato! - Ero cosí agitato, per te, da travedere fino a quel punto! - Ed io, ricordi?, balbettai: "Un sorso d'acqua!" Quasi svenuta sulla poltrona, tremavo e ridevo! ... - Cosí riandavano spesso i piú lievi fatti del breve passato; ella senza nessun rimpianto di quel che, fuggendo, avea lasciato dietro di sé; egli senza nessun pensiero dell'avvenire quasi la loro felicità di amanti avesse dovuto durare eternamente! Quando la signora Viotti, ammonita dal suo fino istinto, sorprese in Eugenio i primi sintomi di raffreddamento, rimase stordita come da un colpo di martello su la testa. Non pianse, non gli disse nulla. E messasi a osservarlo, dissimulando l'intensa ambascia, a ogni sintomo che le rendeva piú evidente la propria sciagura, si sentiva correre per tutto il corpo un veleno sottile sottile che le guastava il sangue rapidamente. Da prima, Eugenio la vide deperire con indefinibile sentimento d'inquietudine: - Che cosa ti senti? - Io? Niente. - Pure, mi sembra ... - T'inganni -. Egli non insisteva. Sicuro del suo segreto, aspettava di poter scoprire qualcosa di simile nel cuore di lei; allora lo scioglimento della crisi sarebbe riuscito facilissimo. Né disperazioni, né lagrime; una stretta di mano, una parola di rimpianto per la felicità volata via ... e festa! Il marito pronto a perdonarle e ad aprirle le braccia, non aveva scritto ultimamente a un amico perché s'interponesse? E questi s'era presentato alla signora con la gravità d'un diplomatico. Ella, sí, aveva avuto il torto di rispondere: - Non c'è perdono per una colpa come la mia! - Umile alterigia a sproposito. Dopo quella risposta però egli le aveva susurrato, abbracciandola: - T'amo piú di prima. Sei stata sublime! ... - E aveva mentito. Compresa finalmente la vera ragione di quel muto dolore, Eugenio provò un vivissimo senso di dispetto, come per una prepotenza, per una inqualificabile soverchieria. Ma non ebbe il coraggio di rinfacciargliela; e rodendosi dentro, diventava a ogni minima occasione e per futili pretesti incontentabile, stizzoso, continuamente aizzato da quel suo dispetto ingiustissimo - ne conveniva, qualche volta, internamente. E con tutto questo non gli riusciva di provocare un po' di resistenza, qualche scena da parte di lei! Ne arrabbiava. La signora Viotti, zitta, rassegnata, deperiva intanto con incredibile rapidità, per quella vampa interna che le inaridiva il sangue e le struggeva le carni. - Meglio lasciarmi morire! - aveva deciso. Eugenio, per convenienza, per scrupolo anche, una mattina condusse in casa il dottore; ma la signora ricusò di riceverlo. - Che dottore! Perché? - ella diceva sforzandosi di parere tranquilla. - Sto benissimo -. E non si lamentava della sua sorte, neppure quand'era sola: - Se Eugenio non mi ama piú, che posso farci? Forse son io che non ho saputo farmi amare durevolmente; forse, questo è il mio gastigo! E sia. L'amo, l'amerò fino al mio ultimo respiro. Voglio morir qui, in casa sua; non potrà scacciarmene morente! - Poi cedette, per contentarlo. A ogni visita, ella guardava fisso il dottore; voleva leggergli sul volto la propria sentenza. - Parli schietto: è cosa grave? - gli domandò una volta che Eugenio era assente. Il dottore tentò di rispondere: - Ma ... se ... - Non ho paura di morire - ella lo interruppe per farlo uscire dalle reticenze. - Sappia che se fossi in pericolo avrei importanti disposizioni da dare. - Per cautela, provveda, - allora conchiuse il dottore. - Ah! ... Va bene - ella mormorò. Avvertito dal dottore che lo aveva incontrato per le scale, Eugenio entrò da lei insolitamente commosso; e vedendo affondato nei guanciali il volto quasi irriconoscibile della bellissima donna un giorno amata, s'arrestò, quasi non lo avesse mai osservato fino a quel momento. - Povera donna! ... Se deve morire, muoia almeno credendosi ancora riamata! - La signora Viotti lo guardava con occhi dolenti, da vittima invocante misericordia dal carnefice; e quegli sguardi lunghi, quasi addio pieno di strazio, parevano domandargli dimessamente: perché non m'ami piú? Da quel giorno però Eugenio cominciò a sembrarle di bel nuovo mutato. - Guarisci presto - le diceva, accarezzandole il volto dimagrito, ravviandole le ciocche di capelli arruffate su la fronte. - Siamo ne la bella stagione. Andremo in campagna, o a Sorrento come tu desideravi una volta. Cercheremo un nido, un paradiso di verdura e di sole, degno del nostro amore, degno di te ... - Ella non rispondeva, non sorrideva neppure a quelle carezze e a quelle promesse, tuttavia incredula, decisa di lasciarsi divorare dalla gastrite. Ma da che Eugenio rimaneva giorno e notte in came ra, presso il letto, dormicchiando spesso sopra il canapè, per esser piú pronto a somministrarle la medicina e a cambiarle le pezze ghiacciate alla testa; da che gli sentí ripetere, con lo stesso accento d'una volta, le dolci parole d'amore che l'avevano inebriata fino ad offuscarle la ragione, fino a spingerla ad abbandonare un marito cosí buono da perdonarla s'ella avesse accettato il perdono - quelle parole piene d'incanto che Eugenio non le aveva mai ripetute da un pezzo - ella pensava: - Oh Dio! ... Mi sono forse ingannata? ... - Eugenio medesimo in certi momenti non avrebbe saputo distinguere s'egli continuava a rappresentare una pietosa commedia o se diceva davvero. Il rimorso d'aver contribuito, quantunque involontariamente, alla distruzione di quell'innamorata creatura lo spingeva a esagerare: - Poverina! Muoia almeno contenta. - Senti - gli disse un giorno l'ammalata. - Debbo confessarti una cosa ... - Con le mani dimagrite, tremule per debolezza e che scottavano, gli aveva preso le sue e gliele stringeva forte: - Fatti piú accosto; posa la testa sul guanciale ... Ascolta. Prima di morire, voglio confessarti ... - Eh! ... Non siamo a questo punto. - Forse -. S'era arrestata per guardarlo da vicino nelle pupille; e gli passava una mano sulla guancia, con l'incerta carezza di persona rifinita dalla malattia. - Ti vedevo cambiato. Credevo che tu non mi volessi piú bene e che ti fossi diventata peso insopportabile, dura catena ... - Ma ... - Lasciami dire. Non ti accusavo, non ti maledicevo. Vedi? Muoio per questo, e sarei morta disperata, se non te lo avessi fatto comprendere. Perdonami! ... Ingannata dalle apparenze, ti calunniavo indegnamente ... Perdonami! - Su quel volto pallido e scarno, le lagrime scorrevano, sgorgando piú abbondanti dalle ciglia a ogni parola, a ogni frase, le scendevano fino alle labbra, ed ella se le beveva con voluttà, impedendo che Eugenio gliele asciugasse: - No, lasciami piangere ... È cosí dolce! ... Lasciami morire cosí -. Interrogando il dottore, egli era tormentato dall'ansia di vedere indovinato il proprio egoismo, la freddezza di cuore sopravvenuta. In alcuni momenti cercava di mentire fin con se medesimo, se l'intima voce della coscienza lo rimproverava, inesorabile, a ogni domanda con cui egli sperava di accertarsi che, presto o tardi, quella tortura sarebbe finita. E dopo tre eterne settimane passate presso la malata, giorno e notte, senza andare a respirare un soffio d'aria libera, si sfogava in soliloqui brutali: - Farà morir di sfinimento anche me! - E subito, quasi per ammenda, la povera ingannata che smaniava dalla febbre si vedeva sopraffatta da effusioni di carezze e di parole affettuosissime, che parevano scaturire dal piú profondo del cuore. Ed erano invece mera finzione, artifizio, per attutire la voce interna che insorgeva contro di lui. Aveva forse due anime? Vivevano insomma due diverse persone nel suo corpo, una buona e una cattiva? Egli non sapeva spiegarselo. Il dottore intanto non si lasciava scappare affermazioni recise: - La malattia, gravissima perché non curata in tempo, segue il suo corso; la signora può guarire, lentamente; ma ... - A quel ma lasciato cosí sospeso, Eugenio sentiva, suo malgrado, un po' di sollievo. - Per certe anomale situazioni della vita, non c'è altra soluzione! - rifletteva freddamente. - Non l'ho provocata, né agevolata - aggiungeva subito per scusarsi con se stesso. E spiava ogni sintomo, e notava ogni minimo cambiamento, aggirandosi smanioso attorno a quel letto dove la povera signora, riarsa dalla febbre, soffocava gli atroci dolori per non gridare, per risparmiargli l'angoscia di vederla soffrire, ora che si credeva ancora amata! - Mi sento assai meglio, sai? - E le visceri le si torcevano sotto la coperta, intanto ch'ella gli sorrideva e gli chiedeva baci. La mattina che la signora Viotti, già convalescente, si affacciò allegra su l'uscio del salotto, augurando all'amante il buon giorno, Eugenio, di cattivo umore, non seppe neppure usarle la cortesia di alzarsi subito da sedere e andarle incontro. - Sono felice; non voglio piú morire! - ella mormorava abbandonata deliziosamente su la poltrona. Eugenio, in piedi, la guardava; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso - quasi contrazione - di chi, non piú amante, vede ribadirsi la catena creduta già vicina a spezzarsi. Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Racconti 2

662697
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Si lamentava, si lamentava, senza trovar ristoro su lo strame duro, in fondo alla botteguccia buia, dove moriva a poco a poco, abbandonato come un cane, con gli occhi rivolti alla scure che luccicava dalla parete: - Se campo, mi farà giustizia quella lí! - E gli occhi fissi e spalancati parevano ancora vivi! Roma, 10@ 10 maggio 1883@. 1883.

Da che s'era fitto in testa che doveva prendere l'incantesimo della Grotta dalle sette porte , mastro Rocco aveva abbandonato la sua bottega di pizzicagnolo; e se ne stava lassú, in cima al Monte, arrostendosi la gran gobba al sole, scavando qua e là da mattina a sera, per trovar qualche traccia del tesoro incantato, secondo lui, dai Saraceni in quei dintorni. In verità, non gli era mai accaduto d'incontrare fra le macchie e le siepi di fichi d'India il Mercante dal berrettino rosso che teneva in custodia il tesoro incantato; ma sapeva benissimo che parecchi l'avevano veduto, da vicino o da lontano; ed erano quasi morti di paura. Egli però si sentiva un coraggio da leone, e non si sarebbe impaurito degli urli e dei versacci di colui, se si fossero incontrati faccia a faccia. Colui doveva fare a quel modo, per non lasciarsi strappar di mano l'oro e le pietre prezi ose affidate alla sua custodia; ma se in quella circostanza ci si fosse trovato un uomo, un vero fegato d'uomo, il Mercante non avrebbe potuto fargli niente di male, né impedirgli di entrare per le sette porte in fila, fin in fondo alla grotta dove il tesoro aspettava da secoli la fortunata creatura che doveva impadronirsene. Mastro Rocco ne ragionava quasi lo avesse visto proprio con que' suoi occhietti orlati di rosso e lo avesse palpato con quelle mani callose che ora maneggiavano la zappa giorno e notte, scavando sepolcreti antichi. Di giorno, egli scavava nel suo fondicello che pareva una Gerusalemme distrutta, tutto buche spalancate e mucchi di terra torno torno; di notte, nei fondi dei vicini, al lume di luna o a quello di una lanternina quand'era buio, perché i vicini non volevano rovinato il terreno, e si burlavano dell e sue trovature di vasetti inservibili e di monete antiche, con cui non si poteva comprare neppure un soldo di pane. Mastro Rocco rideva sotto il naso di quei tangheri di contadini che non capivano niente. Lui sapeva, per prova, che quei vasetti - specie se con le figurine - e quelle monete ossidate diventavano subito quattrini sonanti quando li portava al barone Padullo, che si metteva gli occhiali per osservarli e sfogliava certi libroni grossi quanto un messale, tutti pieni di figure, per fare i riscontri. Cosí s'era persuaso che il mestiere di salumaio valeva assai meno di quest'altro di scavatore di cose antiche; e f aceva il sornione e alzava la gobba allorché i contadini gli dicevano - Perché non scavate le fosse per le fave, invece di rompervi le braccia a disotterrare ossa di morti? - E rideva loro in faccia, canzonando in cuor suo chi gli ripeteva la solita burletta: - Sapete dove c'è una trovatura, mastro Rocco? - Dove? - Nella vostra gobba. - La trovatura tu l'hai in testa, e te l'ha messa tua moglie! - rispose una volta stizzito. E quasi venne alle mani con Taccareddu che, cornuto pacifico, non voleva intanto sentirselo dire. Mastro Rocco però non la perdonava a quell'asino calzato e vestito di don Ottavio Giglio, proprietario della Grotta dalle sette porte, il quale non permetteva che nessuno andasse là a smuovere un sasso. Don Ottavio credeva anche lui che in quella grotta ci fosse un tesoro incantato dai saraceni e che il Mercante dal berrettino rosso vi facesse la guardia; ma era convinto che per rompere l'incantesimo occorrevano i libri di Rutilio. E se mastro Rocco lo tastava su questo soggetto, dalla lontana, sape ndolo orso e ombroso di tutto, gli rispondeva secco secco: - Minchionerie! - Ma persone con tanto di barba, - insisteva mastro Rocco - il decano Vita, padre Mariano d'Itria, il dottor Puglisi, mi assicurano che la cosa è possibile. - Ve la danno a bere. E poi, ci vuole il Rutilio! - Questo: "E poi ci vuole il Rutilio!" don Ottavio lo diceva cosí solennemente che tagliava corto a ogni discorso. Per due pagine di Rutilio, di quello autentico - correva attorno il falsificato e non valeva uno spicchio d'aglio! - mastro Rocco avrebbe dato tutta la sua pizzicheria e l'asino e le due vacche e chi sa che altro ancora. Ma chi possedeva quel libro se lo teneva caro e non voleva nemmeno farlo sapere, perché correva voce ci fosse la pena della vita e la scomunica della santa chiesa! Mastro Rocco se ne sarebbe infischiato della scomunica, quantunque fosse timorato di Dio e ascoltasse la messa le domeniche e l e feste comandate e comunicasse a Pasqua come ogni fedele cristiano. Impadronitosi del tesoro, sarebbe andato subito a Roma, a confessarsi dal papa, per ottenere l'assoluzione; e sarebbe finita. Ma l'oro e le pietre preziose sarebbero rimaste a lui; e allora avrebbe fatto il signore, lui e i suoi figliuoli; si sarebbe fabbricato un palazzone, avrebbe comprato dei feudi, e non avrebbe piú mangiato pane e cipolla, come gli toccava ora che doveva abbrustolirsi al sole, e bagnarsi alla pioggia, rompendosi la schiena a scavar sepolcreti, spesso non trovando altro che stinchi e cr ani, o lagrimatori da nulla. Anche al tempo dei saraceni - e per mastro Rocco voleva dire al principio dei secoli - la società era stata allo stesso modo: molti poveri e pochi ricchi; si vedeva dalle tombe. Allora però fino i miserabili avevano una moneta da farsi mettere in bocca per pagare il pedaggio nell'altro mondo; mentre oggi, con le tasse che si mangiano viva viva la gente, nessuno ha piú un soldo da portar via nella sepoltura; serve a coloro che restano, per comprare un pane da sfamarsi. Egli faceva queste considerazioni dando colpi di zappa sodi ma cauti, per non rovinare gli oggetti, caso mai sotterra ce ne fossero. E quando gli accadeva di tornare con le mani vuote alla grotta antica e scavata nel vivo masso, della quale, murandovi un uscio, s'era fatto una casa di campagna comoda e sicura, malediva la propria sorte e quel porco di don Ottavio che non gli permetteva di scavare nella Grotta dalle sette porte! Costui lo aveva fin minacciato di tirargli addosso una schioppettata, se l'avess e incontrato, di giorno o di notte, dalle sue parti; ed era capace di farlo. Invece, quando gli scavi davano buoni risultati, e venivano fuori al sole qualche bel vaso, belle monete d'argento o d'oro che parevano uscite allora allora dal conio, o qualche braccialetto di bronzo, mastro Rocco non capiva nella pelle. Si fregava le mani indolenzite, accarezzava delicatamente quegli oggetti, li ripuliva, li lustrava con la manica della camicia, quasi gli si dovessero guastar fra le dita toccandoli sgarbatamente. E ammirandoli da tutti i lati, interpretava le figure a modo suo, ora che ci aveva un po' di pratica, e calcolava il valore e il prezzo meglio d'un dotto: - Questa volta il barone Padullo deve snocciolarne parecchi de' suoi scudi colonnati! - E, nella grotta affumicata, la minestra di farina di cicerca o le fave allesse gli sapevano piú saporite; e il vino se lo sentiva scendere giú giú per la gola, dal fiasco di terra cotta, come balsamo ristoratore ... Quelle però erano tutte cosine da nulla; se non gli riusciva di prendere la trovatura del Mercante , aveva fatto un buco nell'acqua. Intanto ci voleva il Rutilio, come diceva non Ottavio. Dove pescarlo? - Il Rutilio è qui! - venne a dirgli un giorno don Tino il mussolinaio, andato a trovarlo a posta lassú col pretesto di ammazzare un coniglio in quelle fratte, per non dare nell'occhio ai vicini. E aveva cavato fuori uno scartafaccio squadernato, unto e bisunto. - Quello vero? - Quello vero. Guardate: è stravecchio -. Infatti si vedeva. Caratteracci grossi cosí; cartaccia ingiallita, e figure di pianeti, circoli, triangoli, ghirigori seguiti da sfilate di numeri da far perdere il cervello. Lui, don Tino, aveva stentato due mesi per raccapezzarvi qualcosa: - Perché, capite, bisogna trovare la chiave. - E l'avete trovata? - Mi par di si. Proveremo, con la sonnambula di don Micio il crivellatore, che vede fino a trenta metri sotto terra, come io vedo qui voi e quest'alberi e questi sassi e quei fichi d'India ... Ma, zitto! - Venite a prendere un boccone -. Mastro Rocco lo condusse nella grotta per essere al sicuro da sguardi traditori. E, mangiato e bevuto, tornarono a scartabellare quel libro miracoloso; tanto piú sorpresi e piú ammirati, quanto meno aveano capito della profonda scienza colà nascosta. Presi gli accordi per condurre lassú don Micio il crivellatore e la sua sonnambula, don Tino disse: - Dev'essere di venerdí, a mezzanotte. Avete paura? - Di chi? Del Mercante ? Mi conoscete male, don Tino! - E glielo provò la notte di quel venerdí. Notte tempestosa: lampi, tuoni, vento, pioggia, grandine! Pareva si fossero scatenati tutti i diavoli della Làmia e del lago della Vúria dove è il prete che balla con la nipote, portati via dai diavoli ai tempi dei tempi; infatti l'acqua di quel lago, con sotto il gran fornello dell'inferno, bolle e ribolle. Il vento aveva già smorzata la lanterna; la sonnambula tremava a verga a verga, e non voleva guardare sotterra, come don Micio gli ordinava tenendo le braccia tese e strabuzzando gli occhi che gli luccicavano nel buio a ogni scoppio di saetta. - Coraggio! coraggio! - ripeteva mastro Rocco. La voce però gli tremava e le braccia gli vagellavano nel dare, insieme con don Tino, i colpi di zappa nel posto indicato dalla sonnambula, prima che la lanterna si spegnesse, appena don Tino aveva compitato lo scongiuro del Rutilio. E il vento soffiava, urlando tra gli ulivi e le rocce attorno; e la pioggia veniva giú a catinelle; e i lampi incendiavano la vallata e le coste del Monte; pareva il finimondo. Ma dopo tre ore di fatiche e di stenti, avevano dovuto smettere; ed erano tornati alla grotta piú mor ti che vivi, inzuppati fino al midollo delle ossa, col Rutilio mezzo rovinato; il peggio guaio, perché di quei libri non se ne trova piú, nemmeno a pagarli a peso d'oro. - Siamo stati tante carogne! - disse mastro Rocco il giorno dopo, mordendosi le mani nell'osservare la gran buca scavata quella notte e già ripiena d'acqua e di fango. - Siamo stati tante carogne ... o il vostro Rutilio è falso! Don Tino cominciò a sacramentare: - Corpo! ... Sangue! ... Falso questo Rutilio? ... La colpa è nostra; non abbiamo saputo trovare la chiave -. E non la seppero trovare né allora, né poi. Don Ottavio Giglio però, quantunque non avesse testimoni del fatto, sporse querela contro quel gobbaccio che gli aveva rovinato il fondo. E ora stava, giorno e notte, in guardia lassú tra i fichi d'India, per fargli fare una fiammata con lo schioppo a due canne, a quel gobbaccio. Aveva una gran paura che non gli rubassero davvero l'incantesimo della Grotta dalle sette porte, dopo aver saputo da don Tino che il Rutilio, quello proprio autentico, era nelle loro mani. Forse mancava la chiave. Don Tino gli aveva mostrato il libro con una pagina strappata. - Giusto quella della chiave, sacro Dio! ... Ma può darsi che c'inganniamo -. Dal canto suo, mastro Rocco stava in guardia contro don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula. Gli era entrato il sospetto che volessero operare soli, da quella domenica in cui aveva visto don Tino in stretti ragionamenti con don Ottavio, sotto il portone di casa di costui. Don Tino gesticolava, si strappava i capelli, e don Ottavio approvava, serio serio. - Perché smisero di parlare, appena mi accostai? - Ma egli non era uomo da lasciarsi canzonare da quei due. Si lasciò canzonare però da Zangàra, Perillo e Passolone, tre burloni che, avuto vento degli scongiuri fatti da mastro Rocco con don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula, volevano divertirsi. Mastro Rocco se li vide arrivare lassú una mattina, Zangàra col trombone, Perillo col clarinetto e Passolone col corno di caccia; e assordavano le gole di Rosignolo, dell'Arcura e di Santa Margherita. Tru! Tru! Titiri tru! - Ehi! Fate la mattinata alle mulacchie? - Andiamo per una scorpacciata di fave novelle, da un amico qui vicino - rispose Perillo. - Buon pro! - E voi, la trovatura quando la prenderete? - gli domandò Zangàra, ridendo. - La prenderà don Tino, - aggiunse Passolone - ora che possiede il Rutilio -. Mastro Rocco alzò la gobba, tentennando il capo, mostrando indifferenza: - La vera trovatura sono i quattrini in tasca -. Passolone raccontò di aver inteso dallo stesso don Tino che egli l'avrebbe presa certamente l'ultimo venerdí di marzo, a mezzanotte, perché quella notte aveva luogo lassú, presso la Grotta dalle sette porte, la fiera delle fate e degli spiriti che accade ogni dieci anni. Fortunato chi ci si trova! - Non lo sapete che il pecoraio di massaio Ravagna, anni fa, ci capitò in mezzo per caso, e le Fate gli vendettero tre arance per un soldo? Il grullo le diede al padrone, senza sapere che fossero di oro massiccio; cosí è arricchito massaio Ravagna -. Mastro Rocco lo guardava in viso con tanto di occhi, pensando allo scellerato di don Tino che voleva fargli quel tradimento; e si tenne la notizia in corpo, fingendo di non averne saputo niente, fino all'ultimo venerdí di marzo, che era il venerdí santo. Quel giorno non vedeva l'ora che annottasse; e seduto su di un sasso davanti la grotta, non senza un po' di terrore in corpo, - con gli spiriti non si canzona - guardava quel fioco chiarore di luna tra le nuvole dense, dietro i colli di Daguara, che illumin ava la campagna silenziosa; non s'udiva cantare neppure il rosignuolo che soleva cantare ogni notte laggiú, tra i pioppi dell'Arsura. Poi egli era andato ad appostarsi su d'un masso per sentire il rumore dei passi di coloro che dovevano arrivare: don Tino, don Micio e la sonnambula. Non stormiva foglia nell'oscurità, e non si scorgeva ombra umana a quel po' di barlume del cielo nuvoloso. I tronchi degli alberi gli mettevano paura; e i macigni e le macchie già gli parevano strane figure di mostri. Verso la m ezzanotte fu buio pesto, appena la luna venne intieramente velata dalle nuvole fosche ... Ed ecco, qua e là, tra le macchie, lumicini che vanno e vengono, e si spengono e si riaccendono; ed ecco colpi di cembalo coi sonaglini che si agitano, e tacciono, e si rispondono; ed ecco grandi fiammate che spariscono subito. - Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - E i lumicini erravano qua e là tra le macchie, dietro i fichi d'India, tra i melagranati di massaio Baccannello e il pagliaio di Cudduzzu; e le fiammate scoppiavano dietro i massi, tra gli ulivi, al suono dei sonaglini del cembalo agitati continuamente ... - Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - I lumicini si accostavano da tutte le parti, stringendolo in un cerchio, e le fiammate pure: e mastro Rocco si sentí diventare piccino piccino quando scorse, al chiarore d'una fiammata, una figura mostruosa che gli parve di fuoco e spari. Poi, da destra, da sinistra: - Psi, psi, psi! - Gli spiriti gli accennavano: - Psi, psi, psi! - - Ah, madonna santissima! Perché tremo? Mi lascerò scappar di mano la fortuna? - E mosse incontro agli spiriti che continuavano a fargli: - Psi, psi, psi! - Tratteneva il fiato, vacillando, inciampando, senza una goccia di sangue nelle vene, fino a che gli spiriti non gli saltarono addosso, picchiandogli forte sulla gobba. - Mamma mia! ... Santissimo Cristo alla colonna! Santa Agrippina protettrice! - egli urlava, segnandosi per cacciarli via, correndo a rotta di collo verso la grotta, inseguito fino alla porta dagli spiriti, che picchiavano sulla sua gobba, facendo scrosciare catene infernali! ... E non ritentò piú, quantunque don Tino e don Micio il crivellatore lo stuzzicassero; neppure quando si convinse che la burletta degli spiriti gli era stata fatta da Zangàra, Perillo e Passolone. A chi gliene parlava, giurava che non era vero; giurava che quella nottata egli si trovava a Palagonia per la festa del Santo Sepolcro; e rigiurava con le mani in croce, per non far ridere alle proprie spalle. Intanto si divorava il fegato, e scavava, scavava, dopo trovate certe belle figurine che il barone Padullo gli aveva pagato dieci scudi. Chi sa quanto valevano, se colui si era spinto fino a pagarle dieci scudi! Allora il barone lo vide arrivare piú spesso, insieme con un vecchietto che mastro Rocco diceva compagno di scavi. Visto però che essi portavano sempre figurine simili alle prime, tutte sporche di terra, un giorno il barone disse a mastro Rocco: - Trovate qualcosa altro, o risparmiatevi di venire. Di queste, guardate, ne ho già pieno un armadio -. E gli additava le statuette - Cerere seduta e con le mani sui ginocchi - schierate in fila dietro i vetri dell'armadio, tra vasi greci, lucerne, bronzi e monete antiche d'ogni grandezza ... Mastro Rocco stette un bel pezzo senza farsi vedere. Quando gli si ripresentò, insieme col solito vecchietto, posata delicatamente per terra la cesta coperta di fieno portata sotto il braccio, cominciò a gesticolare, annunziando a quel modo i meravigliosi oggetti riposti nella cesta e coperti di fieno: - Signor barone, gran novità! Voscenza resterà incantato! - Il barone si era messo gli occhiali per ammirare meglio; e vedendo quelle quattro figurine di Cerere simili in tutto alle altre ma con tanto di pipa in bocca, invece di restare incantato cominciò a urlare: - Ah, mastro Rocco ladro! Ah, mastro ladro! - E avrebbe, con una pistolettata, sfracellato il cranio a quei due, se non fossero saltati dalla finestra a pian terreno, senza neppur badare che potevano rompersi il collo. Mastro Rocco si ruppe soltanto un braccio; e fece dire una messa al suo santo protettore che lo aveva aiutato in quella circostanza. E col braccio legato al collo, imprecava al tristo compagno da cui gli era stata suggerita la bella novità della pipa! - Non bastava aver fatto cosí bene la forma dell'idoletto che aveva ingannato il barone Padullo? - D'allora in poi, mastro Rocco si contentò soltanto di scavare e scavare. E se don Tino e don Micio gli riparlavano del Rutilio, rispondeva: - Non me ne parlate. È falso! - Pure non disperava di poter avere in mano, un giorno o l'altro, l'autentico, quello del Cinquecento, come gli aveva detto il decano Vita. L'anno dopo, mentre padre Mariano d'Itria, confortandolo in punto di morte, gli raccomandava di chiedere a Dio la grazia dell'anima: - La vera grazia sarebbe stata un buon Rutilio! - esclamò mastro Rocco con voce mezza spenta. E gli voltò la gobba.

CENERE

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Deledda, Grazia 3 occorrenze

Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

Ladro, bastardo, abbandonato! Era troppo, era troppo! Egli pianse e le sue lagrime caddero entro la scodella. «Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

Egli aveva sofferto perché sua madre aveva peccato, perché lo aveva abbandonato ed era vissuta nella colpa! Sciocco! Che importava tutto ciò? Che importavano queste sfumature nel quadro grandioso della vita? Non bastava che Olì lo avesse fatto nascere, perché ella rappresentasse per lui la più meritevole delle creature, la madre, ed egli dovesse amarla ed esserle riconoscente? Egli singhiozzò ancora: ma attraverso la sua angoscia sentiva sempre più intensa la gioia di vivere. Sì, egli soffriva: dunque viveva. La vedova gli si avvicino, prese fra le sue le mani di lui, strette convulsivamente, lo confortò, gli fece coraggio, poi lo supplicò d'allontanarsi. «Andiamo giù, figlio, andiamo. No, non tormentarti: ella è morta perché doveva morire. Tu hai fatto il tuo dovere, ed essa ... forse anch'essa fece il suo, sebbene il Signore ci abbia dato la vita per penitenza, imponendoci di vivere ... Andiamo giù.» «Era giovane ancora!», disse Anania, calmandosi alquanto e fissando i capelli neri della morta. «No, non ho paura, zia Grathia, aspettate, restate un momento. Quanti anni aveva? Trentotto? Ditemi», chiese poi, «a che ora è morta? Come ha fatto? Raccontatemi tutto. È stato qui il pretore?». «Andiamo; ti dirò tutto, vieni», ripeteva zia Grathia, dirigendosi verso l'uscio. Ma egli non si mosse: guardava sempre i capelli della morta, meravigliandosi che fossero così neri ed abbondanti, ed avrebbe voluto ricoprirli col lenzuolo, ma provava una strana paura ad avvicinarsi nuovamente al cadavere. La vedova tornò presso il letto, ricoprì i capelli, e preso Anania per la mano lo trascinò fuori. Egli si voltò per guardare il tavolinetto appoggiato al muro, ai piedi del letto; poi, quando furono usciti, si mise a sedere su un gradino della scala. La vedova depose il lume per terra, sedette anch'essa sulla scaletta, e cominciò a narrare una lunga storia, della quale Anania serbò sempre nella memoria questi tristi frammenti: «Ella diceva sempre, sempre: "Oh, me ne andrò, vedrete, me ne andrò, anche se egli non vuole. Gli feci abbastanza del male, zia Grathia mia: ora bisogna che lo liberi di me, in modo che egli non senta più il mio nome. Lo abbandonerò una seconda volta, ora che non vorrei lasciarlo più ... lo abbandonerò nuovamente per espiare la colpa del primo abbandono ... "». «Ella fece arrotare il coltello a serramanico, che teneva sempre con sé ... » « ... Quando ricevemmo il sacchettino entro il fazzoletto colorato, ella diventò livida; poi squarciò un po' il sacchettino e pianse ... » « ... Sì, ella s'è tagliata la gola. Sì, stamattina alle sei, mentre io ero alla fontana. Quando rientrai la trovai in un lago di sangue: era ancora viva, con gli occhi spalancati orribilmente ... » « ... Tutta la giustizia, - il brigadiere, il pretore, il cancelliere, - invase la casa. Ah, pareva l'inferno! Il popolo s'affollò nella strada, le donne piangevano come bambine. Il pretore sequestrò il coltello, mi guardò con occhi terribili, mi chiese se tu avevi minacciato tua madre. Poi vidi che anch'egli aveva le lagrime agli occhi ... » «Ella visse fin quasi a mezzogiorno; agonia per tutti. Figlio, tu sai se nella mia vita io vidi cose terribili; ma nessuna come questa. No, non si muore di dolore e di pietà, poiché io oggi non sono morta. Ah, perché siamo nati?» ella concluse, piangendo. Anania provò un indicibile turbamento nel veder piangere quella donna strana, che il dolore pareva avesse da lungo tempo pietrificato; ma egli, egli che la notte prima aveva pianto d'amore fra le braccia di Margherita, egli non poté piangere di rimorso e d'angoscia: solo qualche singhiozzo convulso gli stringeva ogni tanto la gola. Si alzò e pregò la vedova di lasciarlo rientrare un momento nella camera. «Voglio vedere una cosa ... » disse, con voce tremula da bambino. La vedova riprese il lume, riaperse l'uscio, lasciò passare Anania, e attese: così triste e nera, con quell'antica lucerna di ferro in mano, ella pareva la figura della Morte in attesa vigilante. Anania si avvicinò in punta di piedi al tavolinetto, sul quale aveva notato il suo sacchettino, squarciato, deposto su un piatto di vetro. Prima di toccarlo lo guardò quasi con diffidenza, poi lo prese e lo vuotò. Ne uscì fuori una pietruzza gialla, e cenere, cenere annerita dal tempo. Cenere! Anania palpò a lungo, con tutte e due le mani, quella cenere nera che forse era l'avanzo di qualche ricordo d'amore di sua madre; quella cenere che aveva posato lungamente sul suo petto, sentendone i palpiti più profondi. E in quell'ora memoranda della sua vita, della quale capiva di non sentire ancora tutta la solenne significazione, quel mucchiettino di cenere gli parve un simbolo del destino. Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l'uomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quell'ora suprema, vigilato dalla figura della vecchia fatale che sembrava la Morte in attesa, e davanti alla spoglia della più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, egli ricordò che fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul letto. Il vecchio si scosse da' suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che egli faceva dentro di sé e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio nell'angolo oscuro. La stanza s'immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine, percorreva la storia della sua vita. Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell'ingrandimento grottesco ed esagerato o nella riduzione che sopportano, si manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni qualche volta s'intende la vita come dal commento il poema. Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d'impressioni non bene afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito. Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo stomaco saliva al capo, effetto forse d'un forte vin "brulé", che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui vassoi. Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po' per uno. La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno morbido e caldo, chiamandola il suo bell'angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di parenti, di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell'uscio guardava in su per non farsi vedere a piangere. C'era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in cuor loro: "Povera diavola, dove sei capitata!" E stava in mezzo alla folla coll'animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà. Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava d'essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L'immagine dell'infelice rimasta impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perché essa si sgomentasse di rivederla in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l'aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e nell'abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero... Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de' suoi pensieri, si accostò al letto. Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall'incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sé, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere. Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che un gran bianco, un gran bianco... "Perché piange?" "Non so, un brutto sogno." "Non si sente mica più male?" "Non mi pare." "Devo aprire le imposte?" "Sì: ho dormito un pezzo?" "Forse un'ora." "Lorenzo, dov'è?" "È stato qui: ha visto che dormiva..." "Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto. Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu: "Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..." E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono: "Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue." Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso che faceva vibrare tutto il corpo. Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra. "Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.

Gli sembrò d'essere abbandonato da tutti, e che il tuono, il lampo, la pioggia congiurassero con tutti gli uomini per fargli la guerra. Riprendendo il filo delle supposizioni, provò di nuovo a immaginare che Arabella avesse veramente sorpresi gli amanti o in un caffè, o in un teatro, o per via, che fosse nata una scena, che Lorenzo l'avesse maltrattata, cacciata via, che le fosse venuto male - era così debole ancora! - che la gente si fosse impadronita di lei, per buttarla domani in bocca alla cronaca delle gazzette. "Ah se l'ha maltrattata! guai se l'ha toccata!" e tutto contorto nei muscoli, coi pugni stretti, fino a conficcar l'unghie nelle carni, colse se stesso in un atteggiamento quasi feroce, in atto di scagliarsi contro qualcuno... Contro suo figlio! Il rumore d'una carrozza, che risalendo dal Carrobbio venne per tutta la via Torino ad arrestarsi sotto la casa, lo strappò all'aspra battaglia ch'egli combatteva colle ombre e con se stesso. Forse era lei; o forse l'Augusta tornava con qualche notizia. Andò incontro alla donna fino sulla scale. L'Augusta e il portinaio venivan su cicalando, ed egli cercò d'indovinare dal tono delle loro voci se portavano qualche buona notizia. A un certo punto provò un tal senso di paura, che si nascose nel vestibolo dell'uscio. "Dalla siora Arundelli non c'è" disse l'Augusta con voce rotta da una mesta compassione "e non c'è nemmeno dai siori Borrola." "Con chi hai parlato?" "Ho parlato con la signora Sidonia che venne ad aprir la porta. Non l'ha vista né oggi né ieri. Rimase incantata anche lei a sentire che non la si trovava più. Non fidandomi del tutto, ho fatto chiamare in portineria la Carmela che non ha segreti per me. Siamo dello stesso paese. E anche la cameriera mi ha giurato che non s'è mai vista. In quanto alla signora Arundelli è cascata dalle nuvole. E intanto la vien che Dio la manda." L'Augusta non seppe trattenere due piccole lagrime, che fece scomparire coll'angolo del grembialetto bianco. Essa voleva bene alla sua siora e vedeva troppo da vicino come la facevano soffrire. Ma non era più un mistero per lei che gli omeni sono tutti traditori, che non si contentano di una, ma le voglion tutte. In qualche altra maniera era passata anche lei attraverso a questi tradimenti, e non le mancava il cor de compatir e de maledir . Il vecchio Maccagno si ritirò nelle sue stanze, vi si chiuse dentro, ma non si spogliò, non toccò il letto. Una tremenda inquietudine, una convulsa irritazione di tutti i nervi, un dolore nuovo e acuto che gli forava il cuore, un avvilimento di tutte forze che lo trascinava verso la disperazione, non che permettergli di dormire, non gli lasciarono nemmeno la quiete e la facoltà di esaminare e di ragionare sugli avvenimenti. Cento pensieri, cozzando tra loro, finiscono col rompere il filo del raziocinio. Stanco e come fiaccato nella testa e nelle gambe, cadde sopra una sedia, e rimase tutta la notte, così appoggiato, coll'occhio aperto e fermo nel buio, in agguato se mai sentisse venir su un passo. Essa non tornò più. Non tornò nemmeno lui, nemmeno lui, l'assassino. I tristi avevano avvelenata l'unica fonte non amara della sua vita. I tristi… Arabella li aveva giudicati tutti. E cogli occhi spalancati nel buio, quanto fu lunga quell'eterna notte, il vecchio affarista, mezzo febbricitante, percorse a galoppo la storia della sua vita, parlando affrettato con se stesso, come chi vuole persuadere un ostinato o ingannare un diffidente, attonito, intimorito davanti a una coscienza nuova, che sorgeva a rimproverarlo e ch'egli cercava di spaventare come si caccia via un uccellaccio notturno. E finalmente il giorno, colla sua luce chiara e, se si può dir così, ragionevole, venne a por fine a un tormento inutile. Si mosse più risoluto, e, uscito sul pianerottolo, trovò l'uscio ancora aperto, l'appartamento vuoto, silenzioso, morto. La lampada del salotto mandava gli ultimi guizzi contro i raggi d'oro del sole che battevano sulla finestra. Il temporale della notte lasciava dietro una giornata splendida. Si mosse per le stanze deserte, spinse le portine della stanza da letto, vi entrò, come se sperasse di ritrovarla a una più diligente ricerca. Il letto nella sua fresca copertura di drappo era intatto. Egli vi posò una mano e coll'altra si fregò fortemente gli occhi per rimuoverne la nebbia della notte e ne portò via un umor pungente. Non sapeva piangere e se ne sentiva un acre bisogno. Si ricordò che fanciulletto di cinque o sei anni si era buttato sul cadavere di una sorellina a piangere e a strillare perché non gliela portassero via. Se avesse potuto far lo stesso! Arabella nel correr dietro a suo marito non aveva che un'idea, raccogliere una prova di più, vedere, toccare con mano fin dove era tradita e avvilita, di questo documento farsene una forza per uscire con diritto, giustificata e compatita, da un'abbietta schiavitù legale; romperla insomma con una gente a cui l'ignoranza e l'egoismo incosciente de' suoi l'avevano venduta e che faceva scontare al suo corpo e all'anima sua le conseguenze di colpe e d'abitudini irrimediabili. Aveva bisogno di vedere e d'essere veduta per poter dire domani: basta! qui comincia la mia dignità... S'illudeva della sua stessa forza come tutte le anime semplici, che non ne hanno che una, quella del dolore. Riguardo a suo marito inutilmente esso aveva eccitate le più scapigliate furie che la gelosia manda fuori e mette nel cuore delle povere donne tradite e ingannate: il cuore non le diceva nulla contro di lui. Il cuore, anche lui, non cercava che un documento di più per la sua liberazione. Gli avvenimenti si erano inseguiti e incalzati con tanta rapidità, che essa non ebbe quasi il tempo di riflettere sulle conseguenze del suo passo. Sentiva in un modo duro e violento che in qualunque maniera l'opera sua in quella casa era finita, che non avrebbe potuto più mangiarne il pane senza rimorso e senza nausea; che il bene non può in nessuna maniera derivare dal male, come la luce non può derivare dalle tenebre. A codesta gente essa aveva ormai sacrificato più di quel che avesse ricevuto o potuto ricevere. I denari si possono trovare e restituire, ma nessuno ti renderà mai la fede che t'ha rubata e messa sotto i piedi. Dio solo onniveggente e misericordioso avrebbe potuto dire a qual prezzo essa aveva pagata la beneficenza fatta da questa gente alla sua famiglia; la coppa della pazienza era esaurita o non dava che fiele. Uscì dunque non tanto per respirare l'oltraggio, quanto per sentire fin dove una donna può essere oltraggiata, come il malato desidera che gli portino uno specchio per la curiosità di vedersi livido e consumato dal suo male. Era la prima volta che usciva sola di sera: e al primo trovarsi in mezzo alla gente, sotto le luci vive delle botteghe, si sentì come travolta da un vortice pauroso. Nell'esaltazione del suo sentimento essa non capiva se avesse ceduto all'impeto d'una passione o all'insidia di una tentazione. Due volte una voce interna le comandò di tornare indietro e di provvedere in altro modo alla sua difesa; ma una folla di oscure smanie, di cieche furie, di non so quali forze maligne seguitava a incalzarla in una direzione, ed essa vi cedeva come a un istinto. Voleva vedere, solamente vedere... Dopo sarebbe tornata a casa più convinta e più rassegnata: non osava dire più soddisfatta, ma il cuore sperava anche questo. Anche il cuore ha il suo egoismo. Per quanto ci possa recare dolore e disgusto sorprendere chi ci ruba, con la roba rubata in mano, l'orgoglio vuol la sua parte, e gode quando il ladro colto in flagrante è un nostro acerbo creditore, un nostro persecutore e nemico. Ecco perché voleva vedere. Oh! non avrebbe fatto scene... no, no: né tragedie, né commedie. Le bastava d'aver tanto in mano per poter dire a' suoi padroni: il conto è pagato: me ne vado: non abbiamo più nulla in comune tra noi: datemi la mia libertà e io vi lascio la vostra responsabilità innanzi a Dio e innanzi agli uomini. I vostri peccati vi hanno tradito: i vostri peccati vi puniranno. Vi perdono il male e la nausea che mi avete fatto. Camminando colla fretta di chi vuol sfuggire agli occhi dei curiosi, sotto la sferza di questi pensieri, raggiunse in pochi minuti Lorenzo, poco più in là di San Giorgio, mentre egli stava per entrare a comperar delle sigarette in una bottega. Sempre cedendo a quella forza d'istinto che la guidava, essa traversò tutta la strada per non mettersi sopra i suoi passi e si fermò in attesa, davanti alla vetrina di un piccolo orefice, la quale servì di specchio. Dietro i gioielli e gli orologi disseminati nella bacheca, la via grande e popolosa coi lumi e colle botteghe aperte disegnavasi nello sfondo, come un'altra città, non mai vista, dove andava vagando una signora coperta d'un dolman bigio con in testa un tòcco d'astrakan, una signora pallida e smarrita... Quando Lorenzo uscì dalla bottega coll'elegante astuccio delle sigarette, la signora dal dolman bigio stette un poco a osservare i suoi passi. Egli traversò il crocicchio del Carrobbio e scomparve precisamente nella porta indicata. Il cuore di Arabella dette tre colpi duri e dolorosi. Aveva visto abbastanza. Poteva tornar indietro... Era una casa maledetta, dove il suo povero papà aveva cercata la morte. C'è una mano cattiva che conduce e rimescola le cose. In quella casa, suo marito, dopo aver cicalato una mezz'ora in una poltrona, accanto a sua moglie, nell'obesità della digestione, veniva a distrarsi con un'altra donna. Voltò per tornare indietro, con un velo di lagrime steso sugli occhi, nell'umiliazione; ma poi le parve che al suo interesse non bastasse il vedere, bisognava essere veduta, e carpire una prova di più contro i sofismi della bugia. Sciocca e indegna del nome di creatura umana, se non osava rivendicare i diritti della sua dignità di donna onesta! La natura, la legge, l'opinione pubblica, la religione erano dalla sua parte. Dove manca uno scopo al martirio, non può essere santo il prosternarsi nel fango e il permettere che altri ti passi coi piedi sul corpo... Di questi concetti non rilevava che le ombre gettate rapidamente sul fondo dell'anima, come le immagini sfigurate d'una lanterna magica, in mano a un ragazzo inquieto, balzano sul muro. I piedi obbedirono all'istinto e la portarono alla casa. Entrò, e, prima che avesse tempo di pentirsene, si trovò nel bugigattolo del portinaio. Il Berretta non c'era. Il signor Tognino gli aveva trovato un altro posto. Sul tavolo fumigava in mezzo ai frastagli alle pezze e alle filaccie una meschina lampadina a petrolio, che riempiva del suo puzzo e della sua luce rossastra il piccolo covo disabitato. La fiamma non bastava a rischiarare che una porzione del portico e i primi gradini della scala. Nel resto il buio fitto involgeva la corte e gli anditi segreti di quella vecchia casa, dove Lorenzo veniva a cercare un compenso all'ineffabile noia della sua casa fresca, pulita, illuminata e impregnata d'una soverchia quantità di virtù casalinghe. Arabella, aspirando con fremito nervoso l'odore acuto del petrolio, non sentì paura di trovarsi sola, in quell'ora, in quel luogo, in quell'avventura, come se le tenebre e il triste silenzio della tana suscitassero in lei delle seduzioni meno buone, delle vertigini dall'alto in giù; ma la voce di Lorenzo e il suo passo pesante che tornava indietro l'invasero di un subito spavento. Non potendo fuggire, si ritirò dietro un pezzo di paravento logoro, che nascondeva la cucina del portinaio. Lorenzo scese di corsa, soffiando. Chiamò due o tre volte: "Carlino!" Ma non vedendo uscir nessuno, andò nella strada brontolando. "C'è 'sta carrozza?" domandò dal mezzo della scala una bella voce di contralto, che fece scattare Arabella dallo sgabello su cui s'era accovacciata.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

La donna che voi amate non è morta, non v’ha abbandonato, è sempre vicina a voi; ma sapete che avviene? Ella non è più la stessa che conosceste un giorno. L’assiduità con la quale l’avete contemplata, esaminata, studiata, ha finito per alterare le linee del suo viso, della sua persona; per farvi scoprire in lei degli aspetti, delle attitudini, delle espressioni, che prima non avevate visti. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo in cui nacque l’amore; per questo, la rimettete nella stessa luce in cui prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei… Le sue carezze d’ora non sanno più come le prime, le sue parole d’ora non hanno il suono delle antiche. Voi comprendete che uno stesso fenomeno accade in lei, ma nessuno di voi ha il coraggio di dirlo. Ella vi domanda di ripeterle le parole innamorate che le prodigaste; voi le ripetete, e un’ironia amara vi torce le labbra. Lontano da lei, vi proponete di dirle tutto, sinceramente, di non rappresentare più oltre una commedia; trovate le parole, cominciate una lettera, ma non avete la forza di compiere il vostro proposito. Se qualche momento di tenerezza ritorna, dovreste esultare, non è vero? Invece, il vostro scontento s’accresce; vi accusate di fiacchezza, di imbecillità; avreste voglia di percuotervi, di insultarvi… – L’ultima luce agonizzava, un chiarore verdastro si diffondeva sotto le nuvole pesanti, illividiva i volti dei tre uomini al cui sguardo la desolata campagna e il mare flagellato formavano come un paesaggio appartenente a un altro mondo, più vuoto, più freddo, più lugubre. – Chi non ha conosciuto questo – riprendeva Ludwig –, non sa nulla delle agonie sentimentali, della vanità degli affidamenti, dei giuramenti umani. Per sempre!… Non è una potenza ineluttabile, non è una volontà estranea alla vostra che distrugge questa promessa; è il vostro stesso cuore; siete voi che ridete di voi! La fine più brusca, la rottura più repentina non hanno nulla di tanto lacrimevole quanto questa agonia. La pietà si mescola allo sdegno ed al sarcasmo; in certi momenti, dimenticate il vostro scontento, pensando al dolore che si rovescerà su voi due quando le parole irrevocabili saranno pronunziate… E prolungate l’inganno, e soffrite, e fate soffrire; finché, un giorno, quando meno ve l’aspettate, a proposito di nulla, tutto finisce… Sapete allora quello che accade? – Nessuno rispose. L’oscurità invadeva la stanza; nessuno pensava a fare accendere un lume. – Accade, al morale, qualcosa di simile a quel che avviene al fisico, quando una parte del vostro corpo, mortificata, distrutta, è portata via dal ferro del chirurgo. Sapete quel che si legge nei libri: l’infermo, spasimante, s’acqueta sotto l’azione torpente dell’etere. Dapprima, un senso di liberazione, un’aura esilarante gli rinfrescano il cervello. Egli ride, si sente diventato più leggiero, quasi trasportato su per l’etere, per quell’altro etere, l’imponderabile. Poi s’accascia, s’addorme, non sente più nulla. Quando riapre gli occhi alla luce, tutto è finito; il suo piede sfracellato, il suo braccio incancrenito non sono più attaccati al suo corpo. Egli guarda il posto vuoto; ma che cosa è il nuovo portento che adesso si compie? Egli sente che il suo piede, che il suo braccio portati via aderiscono ancora a lui; le sue sensazioni vi si localizzano ancora; egli avverte come un formicolìo, crede di poterli muovere, adoperare… Così accade nell’anima. Quando la passione mortificata ne è stata staccata, quando il ragionamento vi dice che non potrà più tornare, il vostro sentimento si proietta ancora in essa e, più di ogni altro modo reale, di ogni altro affetto presente, l’anima avverte la presenza dell’amore perduto… – La notte era fonda e la voce moriva.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Solo, abbandonato nel vasto parco dai miei amici dispersi, ascoltavo i colpi echeggianti dei fucili che potevano ben essere le archibugiate d'una partita di caccia in sul fluire del '600 o sul principio del '700, quando la corte si riposava in ozi arcadici o venatorii, dopo i giorni terribili dell'assedio. Il Castello, la mole rossigna di mattoni grezzi, traspariva tra il verde; e come lo stile del Juvara si armonizzava con la ramaglia degli alberi testimoni dei secoli andati! Vagai tra i boschi, dove la mia nostalgia poteva illudersi di vivere ai giorni di Carlo Emanuele II; visitai il Castello dei Laghi, sostai alla Bizzarria, il convegno di caccia, mi dissetai al Passatempo delle Dame. Malinconia non traducibile di quel passato, quando la Corte Sabauda aveva qui la sua sede, riflesso un poco provinciale delle consuetudini di Francia e del fasto boschereccio dei re Luigi! Rientrai in paese. Chi l'ha vedû Turin e nen la Venaria A l'ha vedû la mare e nen vedû la fia. Sì, ma una figlia più vecchia di una madre, una zitella di età immemorabile! Strana mistura di borgo campestre e di pretesa cittadina, con quella Piazza d'Armi dove un giorno rombavano i mortai di Madama Reale e quella Chiesa barocca dell'Alfieri e le due colonne marmoree della piazza, la Piazza dell'Annunziata, segnata dallo stile del Juvara essa pure, con gli edifici a cinque piani e i portici pretensiosetti. - Già, la Garibaldina è ritornata da Palermo ... - La Garibaldina, - e la mia memoria ebbe un lampo, - La signora Ortensia N.? N.?- Precisamente. - Dove abita? - Qui a destra: sotto i portici. - Che donna è? Il tabaccaio mi guardò con qualche curiosità. - È una vecchia in gamba, che porta i suoi settant'anni come se fossero venti. È di Venaria. Ma passa gran parte dell'anno dai parenti di suo marito, il Garibaldino: per questo la chiamano così. È stata allevata da uno zio, un prete; il parroco che avevamo una volta. È una donna molto istruita, molto originale e troppo schietta; letica con tutti, ma tutti le vogliono bene. Uscii, suonai alla porticina di legno scolpito e tarlato. Quale prigione doveva essere quella casa e quale tanfo di chiuso là dentro! Ma quando la porta s'aperse, mi salutò una luce vivissima che veniva da un bel giardino verde e m'accolse un profumo di glicine e di rose così acuto che vinceva l'odore di muffa delle stanze secolari. Una fantesca pingue m'introdusse in un salotto, in attesa. Due finestroni a telaietti davano nella mezza ombra tetra della via settecentesca, ma verso il giardino era la luce verde e sempre giovane, un tremolìo d'acquario luminoso, attraverso i pampini delle pergole folte. Osservavo. Un magnifico mobilio dell'Impero, a fasce lilla e gialle, due canterani a mezzaluna di legno intarsiato, desiderabilissimi, alcune tele di pregio; e tutte queste cose profanate dai sopramobili di mezzo secolo di cattivo gusto: fiori e frutti sotto campane, uccelli imbalsamati, ecc. ... tutti gli arredi indispensabili dei salotti atroci. Miniature, dagherrotipi, fotografie a profusione deturpavano il ricco damasco delle pareti, viola a losanghe gialle, e alle due estremità due grandi oleografie: Pio IX e Leone XIII - omaggio allo zio defunto - stavano di fronte a Vittorio Emanuele II e Garibaldi, omaggio al defunto marito. Udii un passo giù per le scale, nel corridoio: ecco la vecchia. Ma non era una vecchia che mi fissava dalla porta. Eretta sulla persona snella, i capelli divisi in due bande lustre - quei capelli castani e lisci che non diradano e non incanutiscono mai - la signora Ortensia mi guardava dalla porta ed il suo volto sembrava un volto giovane, lievemente truccato da "madre nobile" da un filodrammatico maldestro. Tanto che la riconobbi subito, da una miniatura, fissata a lungo poco prima, appesa alla parete. - Per carità! Badi che non l'ho chiamato qui per farmi dei madrigali! Quella miniatura ha cinquant'anni precisi. Ne avevo diciotto. Ma prima di tutto, mi dica, come mai s'è fatto desiderare due anni. Che cosa temeva? La voce era brutta come una brutta voce maschile, con un che di pretesco, ereditato certo dallo zio, un porgere quasi rude, ereditato certo dal marito, ma le cose che diceva erano piene di grazia e giovani come il suo volto e come la sua persona. Vidi in un cestello da lavoro una copia dell'illustrazione, della Nuova Antologia Antologia- Era già abbonato mio marito buon'anima. Ho sempre letto molto e leggo oggi più che mai. Non rimane altro alla nostra età. Ma i bei libri si vanno facendo sempre più rari; o sono io che invecchio terribilmente ... Parlai, la feci "parlare letteratura". Non era una divoratrice di libri soltanto. Era una donna intelligente, ma d'un'intelligenza che s'era fermata a Carducci e a De Amicis. Ostile a D'Annunzio, indifferente a Pascoli, non aveva varcata la soglia letteraria della nuova generazione. Ma come conosceva bene e come amava i maestri d'un tempo, quali cose esatte e profonde - la profondità è così rara in una donna! - diceva su Carducci e su Victor Hugo. E come conosceva tutta la letteratura storica, e il Risorgimento e la critica bibliografica alle gesta di Giuseppe Garibaldi. Due, tre volte mi prese in fallo, mi corresse rudemente su date, nomi, episodi. Salvai la mia ignoranza deviando il discorso. - Suo marito? - Precisamente. La signora Ortensia s'alzò, staccò dalla parete una fotografia colorita: camicia rossa, naturalmente, ma un volto non garibaldino, nonostante la chioma e la barba stilizzata; un bel tipo siciliano, bruno, dagli occhi profondi. - Mah! Era destino che il compagno della mia vita mi piovesse di lassù. E la vecchia signora accennò al soffitto a grosse travature. Pensai certo che volesse alludere ai disegni imperscrutabili della Divina Provvidenza. - Si creda in un Dio o in un Fato soltanto, tutto piove di lassù, cara signora. - Ma no, lei non m'ha capito. Mio marito è veramente piovuto di lassù in questa sala. E ho fatto la sua conoscenza così. Senza di questo non ci saremmo sposati mai. Guardai la vecchia signora, con qualche inquietudine. - Le ho detto che io ero orfana e che fui allevata da mio zio, un sacerdote d'antico stile, ligio al passato, con tricorno, codino e calzaretti: un cuore d'oro, al quale devo tutto, ma che m'ha amata a suo modo, tenendomi prigioniera fino a vent'anni e che io ho amato a mio modo, tormentando la sua vecchiaia con un'irruenza maschile e ribelle che non s'è modificata mai ... Lei, loro della nuova generazione non possono immaginare che cosa fosse un'anima ardente che si schiudeva alla vita in quei giorni, tra il '60 e il '70; un'anima chiusa, guardata a vista tra queste pareti, mentre fuori, d'intorno, rombava come un vento di vittoria il nome dell'Italia che si compiva e il sogno fatto realtà balenava di figure d'eroi d'una bellezza e d'una grandiosità delle quali oggi s'è perduta financo la specie; eroi da far dar di volta a tutti i cuori diciottenni d'Italia. E io avevo diciott'anni, caro signore, e forzavo la clausura di questa casa con tutta la merce più invisa: Aleardi e Fusinato, Mazzini e fogli rivoluzionari; leggevo, capivo e sognavo. Sopra tutto sognavo; e, come ogni fanciulla d'allora, deliraro per Garibaldi. Non l'avevo mai visto, non l'avrei visto mai; forse per questo l'adoravo di più. Conoscevo tutto di lui, attraverso libri e giornali, possedevo una raccolta segreta di litografie dove potevo seguirlo in ogni sua gesta: l'incontro con Anita, Garibaldi duce della Legione di Montevideo, Garibaldi agricoltore a Caprera, Garibaldi che medita la spedizione dei Mille, Garibaldi ferito dopo i giorni d'Aspromonte. Il nome dell'eroe era bestemmia in questa casa. Chi aveva detto "Roma o morte" si era dannato per sempre, in questa vita e nell'altra. Bisognava tacere e adorare in silenzio. E venne il '70, vennero i giorni balenanti. E in questa casa, tra zio e nipote, correva il più stridulo contrasto e il più tacito disaccordo di sentimenti. L'una esultava e adorava, l'altro esecrava e malediva. Povero zio! A tavola lo vedevo leggere le notizie con volto di giorno in giorno più corrucciato. Ed io godevo del suo rammarico. Si è crudeli a vent'anni! Ma il destino fu per quel sant'uomo più crudele di me. Venne ad abitare al primo piano una famiglia siciliana, ricchi mercanti d'olio e d'agrumi, e poco dopo venne un giovanotto che mi colpì subito per gli occhi nerissimi e i denti bianchissimi e una cert'aria nei capelli e nella barba, nella figura e nel passo marziale che mi pareva di riconoscere, d'aver già visto altra volta, in sogno forse, ma visto certo. Tanto che quando la cuoca mi annunziò tremando: abbiamo qui sopra una famiglia di eretici; quel giovanotto è un Garibaldino: uno dei dannati di Porta Pia - io esclamai esultando: Un Garibaldino! L'avrei giurato! E da quel giorno mi parve di vivere in una ballata del Prati. Mio zio, a tavola, aveva un volto convulso, quasi cianotico; m'ammonì solennemente: - È proprio così. Evita di salutare quelle signore, anche quando le incontri per le scale. Il cielo ci vuol provare mettendoci a contatto di gente sciagurata. Da parte tua non sarà mai troppo il riserbo. Promisi. E il giorno dopo, quando vidi passare sulla piazza il giovane sciagurato, esposi, agitai per un secondo dietro i vetri di questa stessa finestra, una stampa del Generale. Il giovane vide, si fermò trasecolato. - Non dimenticherò la sua espressione mai più. - S'avvicinò ai vetri: io sorrisi e scomparvi. Il giorno dopo egli passò indossando la camicia rossa. Era la prima volta ed era un omaggio che faceva a me: fu uno scandalo in paese. Io deliravo, in silenzio; deliravo non per lui, ma per la sua divisa, per quanto di garibaldino emanava dalla sua figura; amavo in lui - che m'era sconosciuto e indifferente - l'Eroe dei miei sogni. E non potergli parlare! - Quello spudorato ostenta in paese la divisa sacrilega. Il cielo saprà punirlo. Oimè, il cielo precipitò le sorti in tutt'altro modo e favorendo il nostro idillio silenzioso con una catastrofe inverosimile. Da qualche giorno si sentiva in casa uno strano odore di bruciaticcio, acre e soffocante che mozzava il respiro. In questa sala poi, l'aria si faceva irrespirabile e velata: - Dev'essere preso fuoco ad un camino; questa è fuliggine che brucia, - diceva mio zio, ansimando più che mai. - Sono quelli di sopra, - sosteneva la cuoca, - quel dannato di figliuolo dorme precisamente qui sopra. Chi può dire che cosa stia macchinando? Giurerei che prepara la polvere per far saltare in aria la cristianità. Furono chiamati manovali competenti, fu visitata accuratamente tutta la casa nostra, la casa dei "dannati", che protestavano, allarmati essi pure. Ma la ragione dello strano fenomeno non si trovava. Fu persin necessario un abboccamento tra mio zio e il vecchio di sopra, per la questione d'un camino in comune. - Sembra un uomo dabbene, nessuno lo direbbe il padre di quell'anticristo. E mio zio tossiva, tossiva e tossivo anch'io; e l'aria in questa sala si faceva sempre più irrespirabile. Ed una notte l'incredibile catastrofe avvenne. Fu nel buio e nel silenzio un fragore, un rombo che scosse la casa dalle fondamenta. Tutti ci trovammo in piedi, in camicia, nell'oscurità: io, lo zio, la cuoca, urlando impazziti. - Il terremoto! Le mine! Una bomba! I ladri! Quando furono accesi i lumi e ci precipitammo verso la sala, l'aria era annebbiata di fumo e di calce. La prima cosa che mi vidi venire incontro fu il cane dei nostri vicini di sopra, che guaiva lamentosamente. E nella sala, alla luce delle nostre candele, apparve una rovina spaventosa. L'ultima trave era spezzata, un buon terzo del soffitto sfondato; nella sala, tra un cumulo di macerie, si distingueva un letto, due sedie, materassi e lenzuola disperse e un uomo che si agitava non più in eroica camicia rossa, ma in prosaica camicia da notte - invocando soccorso. - Ortensia, ritirati! Mi rifugiai nel corridoio, ascoltando. - Ma come mai lei s'è introdotto nella mia casa? - Introdotto? Ci sono precipitato, non vede? - Ma che cosa macchinava lassù? Chi ha fatto quel buco? - Lo domando a lei! Non io certamente! Sono salvo per miracolo! Ma una gamba non mi regge e vedo le stelle ... - Vediamo, vediamo, - e la voce di mio zio si rabboniva, - si accomodi intanto e si copra. Io mi vesto e vengo subito. S'udivano dall'alto, dall'orlo della buca, le grida di spavento, le invocazioni della famiglia di sopra che domandava notizie dello scomparso e la cagione dell'accaduto. Era accaduta una cosa strana e semplicissima. Una scintilla del camino aveva carbonizzato la trave del soffitto, minandola come può fare un tarlo, per settimane e settimane, pur lasciandone intatta la superficie. E nell'ora fatale aveva ceduto. - Mio figlio! Mio figlio! Cesarino? Sei vivo? - Vivo, mamma! Non ti disperare. Subito tutta la famiglia di sopra fu nella nostra casa. Un dottore, chiamato d'urgenza, giudicò la gamba non grave, ma temibilissima una congestione per lo shock del capitombolo, necessaria l'immobilità assoluta ed il silenzio. Fu improvvisato un letto in questa sala stessa, là, in fondo. E il ferito restò qui tre settimane. - E lei lo vegliò amorosamente, come nei romanzi d'una volta. - Proprio, ma non sola. C'erano la madre e la sorella che si davano il turno; e mentre noi si vegliava, il padre di lui e mio zio giocavano a carte, bevendo, ciarlando, presi da quella reazione di simpatia improvvisa che segue sovente le avversioni silenziose ed ingiustificate. L'ammalato migliorava. Ma verso sera sopraggiungeva la febbre ed il delirio. Una sera, per adattargli la vescica del ghiaccio sulla nuca, fui costretta a sollevare la folta chioma nera sulla bella fronte pallida. Egli mi baciò la mano che ritirai subito; aprì gli occhi, arrossì come un fanciullo. - Perdoni, signorina, l'avevo presa per mia sorella. Un altro giorno, dopo un lungo silenzio, soli questa volta, io fissavo nel sonno quel bellissimo volto, quando m'accorsi che il giovane mi guardava tra le lunghe palpebre appena socchiuse: - Signorina, io sono umiliato. - Umiliato di che? - Non le so dire. Della figura grottesca che ho fatto, che faccio con lei. Penso che nella mia vita avrei potuto conoscerla in dieci occasioni gloriose ed apparirle un eroe. E invece le sono precipitato in casa come un sacco di legumi. Avrei voluto averla infermiera a Milazzo, quando sbaragliammo le truppe di Bosco. Fu una lotta a corpo a corpo contro i Borboni. Non guardavano più a noi. Tutte le sciabole erano dirette a Lui, era Lui che volevano uccidere. E il Dittatore sarebbe stato finito se Missori, se Statella, se noi più fidi non gli avessimo fatto scudo. E fu nel fargli scudo che mi presi questa graffiatura. E Cesarino scoperse il petto sopra una larga cicatrice obliqua. - Fui dieci giorni in un fienile tra la vita e la morte: e avevo a vegliarmi una vecchia quasi scema ... Penso oggi, con rimpianto, che quella vecchia avrebbe potuto esser lei. - Sono giunta troppo tardi, - sospirai, ad arte, - sono giunta troppo tardi, signor Cesarino. - Troppo tardi per la gloria, ma non per l'altra cosa. - Qual cosa? - La cosa che penso, - mormorò fiocamente il malato. E non parlò più. E chiuse gli occhi. Ma quando gli posai il ghiaccio sulla fronte ardente, mi baciò la mano ancora una volta. E non mi disse più di avermi prosa per sua sorella. *** E così, sei mesi dopo, sposavo l'uomo che fu per quasi quarant'anni il compagno della mia vita. - Ed è stata felice? - La domanda è indiscreta; ma le mie confidenze gliene dànno il diritto. Non felice, - la felicità non è di questo mondo, - serena. Certo non si prolunga per mezzo secolo la poesia dei vent'anni. Se penso a quei giorni mi par d'averli letti in un bel romanzo. - Signora, temo che lei non abbia amato suo marito, mai. - Signore, l'ho adorato! - Mi spiego. Ha amato in suo marito l'eroe dei suoi diciott'anni: Giuseppe Garibaldi. Penso che molti cuori diciottenni abbiano avuto in Italia, in quei giorni, la stessa illusione e abbiano sposato un garibaldino non potendo sposar Garibaldi ... - Per copia conforme, - e la vecchia signora sorrise, col suo bel sorriso giovanile - per copia conforme: può darsi anche questo ...

Teresa

678635
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Scrisse alla fanciulla: "Ho abbandonato lo studio di Sandri e la carriera legale. Ho un progetto grandioso; te lo comunicherò a voce. Sta di buon animo; tutto va bene ed io ti adoro come sempre". Il progetto era la fondazione di un giornale politico-letterario; indipendente da qualsiasi partito, non soggetto a scuole od a chiesuole. Si doveva proclamare la verità sempre, a qualunque costo; aiutare i deboli e gli ignoti, sprezzare i prepotenti, smascherare i birboni. Orlandi era entusiasta del suo programma. Tutto quanto vi era di buono in lui, cuore e ingegno, voleva dedicarli a quest'opera. Non si sarebbe piú detto che era uno scioperato; e sorrideva pensando che quel lavoro non gli costava nessun sacrificio, che avrebbe potuto fare del bene senza vincolare la propria libertà, né annoiarsi soverchiamente. Nelle liete prospettive dell'avvenire, non mancava la sorpresa che avrebbe manifestato il signor Caccia, quando Orlandi chiedendogli per la seconda volta la mano di Teresina, gli getterebbe in volto, come una sfida, il suo titolo di direttore di un giornale. Ma, per l'onore di Egidio, bisogna dire che la gioia piú delicata, piú intimamente cara, era quella di pensare alla felicità di Teresina. Come tutti gli esseri forti e buoni egli amava la debolezza e si faceva un dovere di proteggerla. La vita che conduceva la fanciulla gli sembrava così miserabile, che doveva essere per lei una somma ventura il poterla cambiare. Questa persuasione spiega la frase compassionevole che egli pronunciava spesso: "Povera Teresina!" Nell'amore del giovane la passione assorbente entrava poco; egli non aveva bisogno di quella fanciulla per essere felice, ma la trovava un complemento alla sua felicità. Non la desiderava ardentemente, subito, colla avidità di un assetato; egli non aveva sete, la teneva in serbo piuttosto. Era giusto. Comprendeva l'enorme differenza che passa fra l'amore di un uomo e l'amore di una fanciulla, come tutto per il primo è piacere, è conquista, e per la seconda non è il piú delle volte che tormento. Che farci? Egli non poteva cambiare l'ordine della società e non era nato per gli eroismi solitari. L'idea di negare a se stesso ciò che ella non poteva avere, questa idea non gli passava nemmeno pel capo. Le donne d'altra parte nascono collo spirito del sacrificio. Tutto quello che egli poteva fare per Teresina era di sposarla, quando le circostanze lo avrebbero permesso. Negli ultimi giorni dell'anno le scrisse: "Devo andare a Milano. Speravo di venire prima a salutarti, ma non posso. Gli affari vanno a gonfie vele; almeno quanto a promesse. Al mio ritorno saprò dirti qualche cosa di positivo. Starò assente otto, dieci giorni, secondo le circostanze. Scrivimi fermo in posta. Ti amo e penso a te continuamente". Teresina andava al funerale della Calliope. La mattoide era morta improvvisamente e misteriosamente come era vissuta. Nella mattina dell'Epifania la trovarono distesa sul letto, vestita, col suo fazzoletto giallo intorno al capo e la fisionomia calma. Era agghiacciata. Il dottor Tavecchia dichiarò che una sincope aveva determinata la morte, ma già la povera donna soffriva mal di cuore. Al trasporto era accorso tutto il paese, anche coloro che non avevano mai vista la Calliope e la conoscevano soltanto di nome. Siccome non c'erano parenti per regolare la cerimonia, nasceva un po' di confusione. Tutti entravano ed uscivano a piacer loro. - Vieni anche tu, mamma - disse Teresina. La signora Soave non usciva mai di casa; il solo pensiero di doversi levare dalle spalle lo sciallino cenere, la spaventava; e poi soffriva mille incomodi; la folla le faceva venire il mal di capo, le emozioni l'abbattevano; temeva anche le vertigini. Teresina attraversò la strada colla sua fida amica, la pretora. - Andiamo a vedere la camera? - Ma si può? - Vedi bene che entrano anche gli altri. Si parlottava a bassa voce. Quanti anni aveva la morta? Cinquanta, sessanta, quarantacinque. Aveva fatto testamento? Sì, no. Lasciava ai poveri? No, alle orfane? No, alle ragazze da marito? Nemmeno, tutto il suo avere realizzato, lo si doveva mandare in Francia a un indirizzo che il notaio solo conosceva. La vecchia storia tornò a galla. Il dottor Tavecchia ripeté che la Calliope, a vent'anni, era bella come una dea. Si bisbigliò il nome della contessa che l'aveva allevata qual figlia, si disse che era sua figlia davvero. L'ufficiale francese, nessuno lo aveva conosciuto, ma parlarono di lui a lungo, colla curiosità simpatica che destano le storie d'amore, quando il tempo ne ha velate tutte le gelosie e tutte le invidie. Il letto della morta, vuoto, coperto da un lenzuolo, prospettava la finestra; la testiera, appoggiata al muro, era sormontata da un quadro sacro, pittura piú antica che bella; e sotto, in una cornicina di legno nero, tre fiori di campo, legati insieme, giacevano come una reliquia. - Avrei creduto questa casa piú piccola. Che stanze ampie! La pretora sollevava il capo a guardare il soffitto; Teresina guardava invece i tre fiorellini smunti. - Ebbene? Che c'è di interessante? Che cosa guardi? - Quei fiori. Mi mettono addosso una malinconia strana. Se potessero parlare! - Eh! certo, se potessero parlare! Teresina non disse altro, ma pensò: "Quante memorie: belli e freschi in un giorno di primavera ella forse li colse per ornamento della persona; forse le furono dati; rapiti forse o meglio còlti insieme ..." Le venne una tentazione grandissima di prenderli e portarli via. Chi sa in quali mani sarebbero caduti! - Ecco, - disse la pretora - tutto è finito. Dio solo sa se la povera donna era piú savia o piú matta di noi. Teresina capì di non poter resistere alla tentazione. Le pareva che la morta, dal fondo della cassa dove stavano coprendola di fiori freschi, gemesse chiedendo i suoi fiorellini appassiti. Staccò la cornicina e, non vista, la fece scivolare sotto il coperchio del cofano. - Piangi adesso? Via! Piangeva veramente, con una commozione in tutte le fibre, esaltata per la storia della Calliope, chiedendosi sommessamente se anche il suo amore finirebbe così. S'avviarono alla chiesa di San Francesco, che si riempì subito di gente. Quelli della contrada c'erano tutti; i bambini della pretora, insieme alle gemelle Caccia, la madre Portalupi coll'ultima figlia non ancora maritata, la vecchia Tisbe che non moriva mai, come se avesse fatto un patto col diavolo. Anche don Giovanni Boccabadati apparve un momento sulla soglia della chiesa, floscio, portando attorno di malavoglia la pancia che incominciava a pesargli. - Ho freddo - mormorò Teresina. - È una giornataccia - rispose la pretora sprofondando le mani nel manicotto. - Vuoi andare fino al cimitero? - Fa come credi. Sarebbe meglio. Dopo l'ufficio funebre il corteo si pose in fila; davanti il carro, i preti, poi le donne e qualche uomo in ultimo. Tirava un vento frizzante di tramontana. - Vuol nevicare. - Ho paura di sì. Non dissero altro per tutta la strada prese entrambe dal freddo e dalla tristezza, coi veli abbassati sulla faccia e gli occhi semichiusi. Pochi furono quelli che giunsero al cimitero; un piccolo circolo si formò intorno alla fossa scavata di fresco, dove calarono lentamente la bare. - I morti non soffrono piú - disse Teresina volgendo altrove la testa. - No. È una consolazione. - Non soffrono piú, ma forse sentono ancora ... - È assurdo. La pretora disse questa parola distrattamente pensando a' suoi bambini che erano tornati indietro. Successe un lungo silenzio. Le due amiche rifacevano la strada. A un tratto Teresina sospirò così dolorosamente sotto il suo velo, che la pretora comprese subito dove andava quel sospiro. - È un pezzo che non hai notizie? - Dieci giorni! - esclamò Teresina, ascoltando con sbigottimento il suono della propria voce, sembrandole che dieci giorni pronunciati forte si raddoppiassero di lunghezza. - Sono molti nevvero? - Molti? non saprei; tutto è relativo ... - È andato a Milano. - Allora si capisce! - Ma no, non è una ragione. Tanto può scrivermi da Milano come da Parma. - Se è andato per affari ... - Sicuro. Ha tutti quei progetti in mente ... Passò un prete alto, ben vestito, colle calze pavonazze e le scarpe lucide ornate di grosse fibbie d'argento. La pretora urtò col gomito Teresina, sussurrando: - È Monsignore. La fanciulla gli volse uno sguardo indifferente. Di lì a poco incontrarono la signora Luzzi, con un cappellino bizzarro, fatto di stoffa d'oro. - Guarda! - esclamò la pretora. Ma la fanciulla questa volta non girò nemmeno il capo. Allora l'amica riprese il discorso di prima. - Tuo padre non s'è mai accorto che continui la corrispondenza? - Se lo sapesse, povera me. - La mamma però? ... - Oh! la mamma ... le dico tutto. - Fai bene - sentenziò la pretora - e sai perché la mamma ti compatisce? Perché è donna. Non c'è che le donne per comprendere l'amore. - Amano anche gli uomini però. - Sii ... alla loro maniera; ma non è mai come le donne. Incominciava a nevicare. Dal cielo tutto bigio cadevano le falde bianchissime, non molto larghe, fitte, quasi pungenti. - Dio che brutta giornata! - A casa ci riscalderemo. Teresina scosse la testa, quasi fosse persuasa di non potersi riscaldare mai piú. Aveva freddo nell'anima; sentiva una tristezza invincibile, sempre crescente, come un veleno che le circolasse a poco a poco nel sangue. "Che farà egli ora? Penserà a me? Sarà triste come me?", così sospirava colla bocca soffocata nel velo, oppressa da un irresistibile bisogno d'amore. All'imboccatura della via di San Francesco trovarono il procaccio Egli aveva una lettera per Teresina. - Allegra - esclamò la pretora. - Ora non avrai piú freddo. Le due amiche si lasciarono senza quasi salutarsi; l'una correva a vedere i suoi bambini, l'altra a leggere la lettera. "Non ti ho scritto prima, ma credi senza colpa. Appena giunto mi trovai ingolfato in un ginepraio d'affari e di divertimenti, di piaceri e di seccature che non mi lasciarono un momento libero. Non hai idea della vita giornalistica, come non puoi averla di Milano. Ho già fatto una quantità di conoscenze; ho trovato dei compatrioti, degli amici, dei compagni d'università. Tutte le sere vado a teatro. Alla Scala c'è uno spettacolo stupendo; la Wrozlinger è la piú bella prima donna che io abbia mai vista; anche il ballo è spettacoloso. Insomma mi vedi in estasi come un vero provinciale. Invece di una settimana prolungherò il mio soggiorno a tutto gennaio. Avvennero dei cambiamenti che non posso spiegarti per lettera; modifico i miei progetti relativi alla fondazione di un giornale. Persone competenti me ne hanno sconsigliato, almeno per ora. Non rinuncio però alla carriera di pubblicista; il mio avvenire è qui. Vorrei dirti mille tenerezze, ma sono interrotto. Domani, quando riceverai questa lettera sarò a pranzo della contessa Bernini, una parente degli Arese". Non c'era altro. Per quanto Teresina voltasse e rivoltasse il foglio da tutte le parti, la parola d'amore che essa cercava, Egidio non l'aveva scritta. Egidio si divertiva, Egidio era felice ... La sua tristezza crebbe del doppio, sentì tutto l'orrore dell'isolamento. Quegli amici, quei teatri, quei balli le rubavano il suo innamorato, e per quanto le sembrasse egoistica l'invidia, ebbe invidia di tutte quelle persone che lo vedevano, che parlavano con lui, che gustavano la gioia de' suoi sguardi e de' suoi sorrisi, che gli portavano via il tempo, i pensieri, la vita. Che valeva il suo ardente amore? che valevano quattro anni di pensieri non interrotti, di aneliti smaniosi, di aspettative agonizzanti, di insonnie, di torture, di martirio continuo? Eccola sola a piangere, sola a soffrire. Guardò la neve che continuava a scendere lentamente e le parve che tutta la cingesse di un mantello di ghiaccio. Rabbrividì, un vago desiderio di morte le attraversò il cervello, insieme al pensiero della povera donna che avevano seppellita allora. Poi si gettò sulla lettera, stringendola appassionatamente, cogli occhi pieni di lagrime, col cuore che le si schiantava fra l'amore e il dolore, mormorando tra i singhiozzi: - Egidio! Egidio! Egidio!

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CAINO E ABELE

678793
Perodi, Emma 3 occorrenze

La piccola signora si portò il bicchiere alle labbra; Costanza ebbe un sussulto di gioia e con una premura insolita le slacciò il vestito; le tolse le scarpe e non si allontanò se non quando la vide a letto, col capo abbandonato sui guanciali; addormentata profondamente. In casa quella notte, non era rimasto che il cuoco, e Velleda di buon'ora aveva, chiuso il cancello e sciolti i cani. Costanza prese le chiavi che la signora aveva posato sul comodino, scese scalza e attirando i mastini col leccume di un pezzo di carne, potè acchiapparli e legarli; poi con passo rapido si diresse al cancello. Alessio attendeva dall'altra parte. Ci sei? - domandò lei. Son qui, - rispose l'operaio. La chiave girò nella serratura. Entra! - disse Costanza. - La tua accusatrice dorme; sta' sicuro che non si desterà fino alle sei. Alessio entrò, ma appena vide le ombre dei palmizj che si allungavano sul viale, appena udì il fruscio del vento fra le foglie come nella notte fatale, si fermò. Vieni, devi aiutarmi, - disse la donna. Non voglio, - rispose l'altro assalito dal rimorso e dalla paura. - Questa casa mi porta disgrazia. I cani s'erano messi ad abbaiare e Alessio sfuggendo a Costanza, che lo aveva afferrato per la manica, retrocesse fino al cancello. Vieni, - gli ripetè lei impazientita. Non verrò; porta qui la mia nemica; in casa del padrone non voglio entrare. Costanza mandò una imprecazione, ma risali sola. Alessio, che era rimasto sul cancello, fu assalito da un vago timore e guardavasi intorno tremante. Se qualcuno mi vedesse! - pensava sgomento ed ebbe per un momento la tentazione di attaccarsi alla campana, di chiamare i guardiani dello stabilimento, d'impedire che si commettesse un'azione nefanda. Ma in quel momento vide Costanza comparire nel viale camminando a stento, curva sotto il peso che si era caricato sulle spalle. Era una notte scura; sopra alla villa scintillavano rare le stelle, ma verso il mare e dal lato di terra le nubi formavano un cerchio, che aveva la forma e l'aspetto della testa di un cappuccino. Da quei nuvoloni neri ogni tanto si sprigionava un lampo e allora come un fremito di luce biancheggiava dietro la cortina densa e nel punto ove s' era prodotto il lampo le nuvole acquistavano strane forme. Il tuono non si faceva udire, ma una raffica di vento; annunziante la burrasca, passava di tanto in tanto attraverso le palmette e gli alti palmizj, producendo un fruscio che somigliava allo scrosciar della pioggia. Sotto quelle raffiche il mare si agitava, mandava sordi mugolii e ogni tanto un'onda più forte delle altare infrangevasi con un colpo secco, quasi tagliente, contro la riva. Prendi, - disse Costanza abbassandosi, affinchè Alessio la liberasse dal peso di quel corpo. Il giovine lo sollevò nelle braccia poderose. Velleda era vestita di una sola camicia, sulla quale Costanza aveva gettato uno scialle. Quando Alessio sentì il contatto di quelle carni morbide, il profumo sottile che emanava da quel corpo delicato e vide quella testina riversa che a ogni passo che egli faceva inchinavasi all'indietro come la testa di un cadavere, fu preso di orrore e disse a Costanza: Riportiamola a letto, io non voglio essere il tuo complice. E troppo tardi; il cancello è chiuso, il duca ci aspetta, vieni! E fecero ancora alcuni passi in silenzio fra la sabbia coperta di piante e Alessio fermandosi di nuovo riprese : Costanza, perché vendicarci? Non sono libero forse? Vieni, - ripetè la donna a denti stretti afferrandolo per un braccio. - Sei libero, sì, ma per lei saresti in galera e io mi dannerei. Non parlarono più e quando penetrarono nel fondo della grotta Alessio depose il bei corpo bianco sulle alghe e, acceso un fiammifero, si mise a guardarlo. Franco non vi era ancora e Costanza, uscendo sulla spiaggia, non lo vide neppure al bagliore dei lampi che si facevano più fitti. Quando rientrò nella grotta sorprese il giovane in ammirazione. È bella? Ti piace? Godine, io non sarò gelosa, anzi la vendetta sarà più grande quanti più saranno gli uomini che l'avranno insozzata, la maledetta! Taci! Taci; strega, - diceva Alessio rivoltato da quel cinismo. Velleda era bella davvero col piccolo capo appoggiato sopra un mucchio di alghe e il corpo circondato dalle scure piante. La camicia sottile seguiva le curve del seno e delle anche e i piedi soltanto erano nudi. Pareva una giovinetta pudicamente coricata, una giovinetta composta e casta anche nel sonno. Eccolo! - disse Costanza udendo un rumore di passi sulla sabbia indurita dall'acqua. Alessio si alzò e usci, mentre il duca entrava. Perché così tardi? - gli domandò Costanza. Sono passati i doganieri e ho avuto paura di esser sorpreso. Hai scelto invero un luogo molto strano. Non dubitate; c'è chi veglia, - ella rispose. - Lei è là e dorme. Non v'indugiate troppo, - aggiunse con intonazione sarcastica. - Venite, - e presolo per la mano lo condusse accanto alla dormente. Ci vedi anche nelle tenebre! - osservò Franco. È l'odio che mi guida; voi non sapete odiare come me. Addio, - e uscì per andare in cerca d'Alessio. Franco, eccitato dalla lunga attesa, si gettò come un pazzo su Velleda, ma appena sentì quelle carni ghiacciate dall'aria della notte e quella bocca che non rispondeva ai suoi baci, fu preso da un vago terrore. Non così aveva sognato di possederla; non così. Se l'era figurata nelle lunghe veglie, piena di ardori, di ribellione forse; aveva vagheggiato di lottare con lei, di domarla alla fine con l'impeto della sua passione, ma mai aveva pensato di stringerla a sé inerte, insensibile. Oh! non era quello il premio dopo un così lungo delirio : non era un premio! Velleda! Velleda! - le diceva scotendola, ma ella dormiva sempre sotto l'azione del potente narcotico, dormiva così profondamente che a Franco a momenti veniva il sospetto che fosse morta, ma quel sospetto si dileguava sentendola debolmente gemere. Allora la baciava di nuovo, l'accarezzava tutta, cercava di riscaldarla al contatto della sua carne, della sua carne ardente, fremente di desiderio e di brama, e per un istante illudevasi di averla scossa dal letargo, di averle comunicato il suo fuoco, di averla fatta fremere, ma l'illusione svaniva presto lasciandolo spossato e non pago. Ma poiché tutti i tentativi per destarla riuscivano vani, Franco si alzò dal giaciglio di alghe e, fattosi sull' imboccatura della grotta, chiamò Costanza. Nessuno rispose. Intanto il vento aveva rinforzato, i lampi eransi fatti più spessi e il mare s'infrangeva con fracasso sulla spiaggia, spingendo lingue listate di spuma sulla sabbia asciutta. Franco chiamò di nuovo e credè di sentire una voce die gli rispondesse : Vengo! Egli era così turbato, così scosso da quell'ora di amore senza corrispondenza, da quelle carezze smaniose prodigate a un corpo inanimato, sentiva tanto forte il disgusto di sé, che non vedeva il momento di fuggir lontano da Velleda e dal luogo che gli ricordava la sua ignominia. Gli pareva d'essere abbietto e vile, come quei satiri che vanno a scoperchiare le tombe delle giovinette per violarle. Ah! il freddo di quel corpo, lo sentiva ancora sulla carne, lo agghiacciava ancora, mentre il sudore della angoscia gli scendeva dalla fronte. Fuggire! Non voleva altro che fuggire! Egli si diede a correre sulla spiaggia, travergando quel terreno coperto di colonne infrante e di massi biancheggianti fra l'appio e le palme, che al chiarore dei lampi parevano tombe, ora inciampando, ora rialzandosi, preso da un terrore che toglievagli il respiro. E l'impressione di quelle carni gelide, di quella bocca che non si schiudeva a nessuna carezza, a nessun grido, lo perseguitò anche nella sua camera, ove appena giunto accese molti lumi, per scacciare i fantasmi che lo perseguitavano. Quando ebbe fumata una sigaretta e si fu alquanto calmato, esclamò con un ghigno di rabbia: Sono sempre un inetto, anche nel male! Ho forse goduto? L'ho forse umiliata? No, Velleda non saprà nulla e domattina, destandosi nel suo letto, ignara di tutto, correrà a stender le braccia, a offrire la bocca desiosa di baci a Roberto! No, non lo farà, si vergognerà di farlo; questo almeno voglio - e ubbidendo a un pensiero improvviso, andò alla scrivania e tracciò sulla carta queste parole: Velleda, mentre stanotte tu credevi di dormire nel tuo letto, giacevi nella grotta in riva al mare, su un letto d'alghe. Su quel letto, come una belva mi sono gittate sul tuo corpo nudo e ti ho fatta mia. Voglio che tu lo sappia affinchè il pensiero di quest'onta tu lo senta anche nelle braccia di mio fratello, affinchè tu lo respinga inorridita. Si, sei stata mia, rammentalo sempre. Tu arrossirai ora dinanzi a me, tu non potrai più trattarmi con disprezzo, poiché tu mi appartieni; ma non è inerte, insensibile che ti voglio ancora. Ti voglio, viva, animata, fremente; ti voglio subito, poiché il mio desiderio ,si è fatto più vivo, più imperioso. A quando? Il duca non firmò la lettera, ma dopo averla chiusa in una busta e avervi fatto l'indirizzo la sigillò con l'anello di smeraldo, che portava incisa la mano che spezza il pane, con lo stemma dei Frangipani. Domattina saprà tutto, - disse, e accesa un'altra sigaretta prese a fare con cura minuziosa la sua toilette toiletteda notte.

Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

- gridò la malata dopo una scossa violenta e poi ricadde col capo abbandonato sui guanciali e chiuse gli occhi. Roberto, spaventato, le prese la fronte fra le mani e le accostò la bocca alla bocca per sentire se respirava ancora, Vive! - esclamò, e due lagrime mute gli scesero lungo il viso. Egli non aveva mai passato una notte così straziante, così angosciosa, mai! Dopo quell' accesso, Velleda non riaprì gli occhi. Respirava affannosamente e pareva assorta in una specie di letargo. L' aria, entrandole direttamente nella gola, produceva un lieve gorgoglio, come un rantolo cadenzato, che Roberto non poteva udire. Dio, come si sentiva isolato su quella spiaggia lontana, senza soccorsi della scienza, senza poter calmare la sua ansia, senza poter chiamare al capezzale della malata tutti i medici possibili; a fine di trovarne uno almeno che sapesse suggerire il rimedio pronto, il rimedio sicuro! Vedeva don Calogero dubbioso, ricorrere ogni momento alla farmacia, chiedendo forse il suggerimento al cartellino di una boccetta; lo vedeva preparare ora una ricetta e ora un'aura, incerto forse sulla natura del male, che egli al solito aveva battezzato per infezione malarica, scosso nella sua fede nel chinino, che non faceva punto scemare la febbre, perplesso di fronte a certi sintomi che non sapeva spiegare. Quel sonno stesso lo sgomentava e a un certo punto; rialzando gli occhi dal volto alterato della malata, incontrò lo sguardo di Roberto. È imminente il pericolo? - domandò questi con voce strozzata. Non so, non so nulla, le idee si confondono; speriamo nelle forze dell'inferma. Segui a queste parole un lungo e penoso silenzio; il medico non esperimentava più rimedi, solo rinnovavate il ghiaccio sulla testa e usciva ogni tanto per andarlo a spezzare in una stanza di toilette, dove lo aveva fatto megere; Saverio si era addormentato sul ripiano delle scale e Roberto rimaneva solo presso la malata, solo a piangere senza neppure avvertire quelle lagrime, che dal cuore gli salivano agli occhi. Ora, Velleda, da rossa si era fatta livida, le labbra eransi scolorate e gli occhi chiusi parevano due globi scuri in mezzo a quel pallore terreo del volto. Ogni tanto una recrudescenza di dolore, o un brivido la faceva trasalire e ognuno di quei sussulti strappava a Roberto nuove lagrime. Gli occhi di lui erano velati dal pianto, la sua anima era immersa in un dolore infinito. Avrebbe dato la vita per veder risorgere quella creatura adorala e non poteva far nulla; - nulla! Umiliato da quella impotenza; chinava il capo non rassegnato, ma affranto, sentendo tutta la insufficienza dell'amore, tutta la insufficienza della volontà. A un tratto Velleda fece un movimento con la persona e da supina si mise di fianco; allora il gorgoglio cessò e lentamente le labbra si chiusero. Dottore, - urlò Roberto, assalito da un dubbio atroce, che non poteva esprimere con parole. Don Calogero prese il polso dell' inferma e dopo un momento disse : Le pulsazioni si fanno più regolari, la febbre accenna a declinare. Un lieve filo di speranza s'insinuò nel cuore di Roberto a quelle parole e nuove lagrime gli scesero lungo le guance. Una di quelle cadde sulla mano di Velleda; ella aprì gli occhi, fissò Roberto, e gli sorrise. Oh! quel sorriso! La vista del sole per un cieco non potrebbe procurargli piacere più intenso, gioia più grande che quel -sorriso non procurasse a Roberto. Ella, con quel sorriso gli aveva affermato che viveva, che voleva vivere per amarlo. Dopo, Velleda richiuse gli occhi e si assopì, e Roberto rimase a vegliarla con lo sguardo fisso in lei, con l'anima anelante, ma piena di speranza. I primi albori del giorno nascente penetrarono in camera senza che Velleda si destasse. Il respiro si era fatto eguale e le labbra avevano ripreso una lieve tinta vermiglia. Don Calogero, vedendola calma, si era gettato sul lettino di Maria e dormiva, ma Roberto non sentiva il sonno, non sentiva la stanchezza; sentiva di vivere per quell'affetto immenso che lo legava a Velleda, accresciuto dal timore di perderla. Egli era seduto per modo da volgere le spalle alla porta; udendo un lieve rumore alzò gli occhi e vide, nello specchio che aveva davanti, la figura di Costanza. La donna, credendo che il padrone dormisse al pari di don Calogero, si fermò e, vedendo l'inferma riposare tranquilla, volse su di lei un'occhiata sinistra, un'occhiata che non sfuggì a Roberto, il quale ebbe una percezione subitanea, e non ben definita, dei sentimenti della nutrice, che gli apparve sotto un nuovo aspetto. Egli si volse improvvisamente per non darle il tempo di ricomporre il viso e le domandò: Che cosa significa il tuo sguardo, Costanza? La donna, tremò vedendosi scoperta e tacque. Che cosa significa il tuo sguardo? - ripetè Roberto. Nulla, signore. Non mentire, - le disse accostandosi e parlandole con la bocca accosto al viso. - Che cosa ti ha fatto la signora? Nulla, poveretta, nulla. Ho dormito vestita, mi sono svegliata facendo un brutto sogno e avrò avuto la faccia sconvolta. Poveretta, sta meglio, eh! Roberto non insisté sulla domanda. La sua natura rifuggiva dall'ammettere il male e il cuore fiducioso accettava ogni giustificazione che avesse apparenza di verità. Del resto; Costanza si mostrava così premurosa per Velleda e in punta di piedi andava riordinando la stanza e faceva sparire tutto ciò che attestava delle cure affettate della notte, chiudeva le imposte perché la luce troppo viva non turbasse il senno della malata, e a vederla così attenta, così silenziosa; pareva una creatura, devota. Roberto si alzò per andare a destar Maria con un bacio, come le aveva promesso, e la perfida creatura, non sentendosi più osservata, si chinò su Velleda e mormorò fra i denti: Vivi, vivi pure per la mia vendetta, e io saprò convertire la tua vita in una agonia, in un supplizio! -Al ritorno di Roberto, Costanza era ritornata umile e. premurosa e soltanto dietro invito di lui lasciò la camera per andare a vestir Maria. Ma prima di uscire gli raccomandò di chiamarla se c'era bisogno. Don Calogero, dopo un sonno di, poche ore; si destò e dal polso capì cubito che la febbre non avrebbe continuato con violenza. "Declinava, anzi; rapidamente e il viso della malata era coperto di sudore. Credo che non ci sia più nulla da temere; andate pure ai vostri affari; - disse a Roberto. L'assenza del Varvaro obbligava Roberto a recarsi allo stabilimento. Egli non pensava più alla seduta, eletforale del giorno precedente, ne al discorso dell'Orlando ; tutto spariva dalla sua mente, eccettuato la malattia di Velleda. Col cuore riaperto alla speranza, egli si diresse dunque alla vasta fabbrica che sorgeva sulla riva del mare e dalla quale s'inalzavano pennacchi di fumo. Appena vi pose il piede, traversò con passo rapido il piazzale e andò nel suo studio ad aprire la posta. I capi-officina, vedendolo giungere, si erano affrettati a recarsi da lui. Che cosa volete? - domandò loro Roberto. Padrone, gli operai hanno letto il discorso dell'avvocato Orlando. Ebbene? Essi c'inviano per sapere se sono vere le intenzioni che vi si attribuiscono. Vere! - esclamò Roberto meravigliato. - Non mi conoscete forse? Non vi ho provato che il mio scopo consiste nel dar lavoro e nel far guerra con questo alla miseria del paese? Come può nascervi un sospetto sulle mie intenzioni? I capi-officina uscirono per riferire le parole del padrone, ma esse non distrussero il sospetto destato dallo affermazioni dell'Orlando. Quando lo avremo eletto, - diceva Giovanni ai compagni, battendo svogliatamente sui cerchi dei fusti, questi li farà fabbricare con le macchine che ha già pronte, per nulla non ha fatto quella spesa. E i falegnami ripetevano con rabbia: - E' vero; per nulla non ha fatto quella spesa! La stessa scena avveniva sul piazzale fra quelli che rotolavano i fusti, nei lunghi magazzini, dove gli operai travasavano il vino. Quando due si incontravano; accennando gli elevatori già montati accanto ai pozzi; dicevano: Quando gli avremo dato il voto, metterà in moto quelli e noi saremo licenziati. E questo timore, che si traduceva in malcontento; aveva invaso tutti e delle macchine; del tram, di quelle innovazioni che avrebbero ridotto a una proporzione ineschinissima il numero dei lavoranti, si parlava da tutti, e il lavoro languiva. Roberto, dopo aver letto le lettere, andò a sorvegliare gli operai. Perchè questa rilassatezza? - domandò a Giovanni. Perché è inutile lavorare, quando sappiamo che ci manderete via, padrone. Sì, i pigri non fanno per me e neppure i turbolenti, rispose egli. Udiste? - domandò Giovanni ai compagni appena Roberto fu uscito. - Saremo mandati via; l'Orlando aveva ragione. Roberto non aveva prestato se non una fugace attenzione a quegli incidenti: il suo pensiero era inchiodato presso l'inferma, presso la sua cara. Egli salì un momento da Franco, per dirgli che l'avvocato di Roma aveva avuto una proposta di acquisto per una vigna sulla via Salaria. Rispondigli tu; io non ho tempo ne voglia, aggiunse. Sta meglio la signora? - disse Franco. Credo, spero; ma ora deve giungere il professor Angelini da Palermo e io corro alla villa. Nonostante le esortazioni dei capi-officina, gli operai non lavorarono più non appena il padrone ebbe lasciato lo stabilimento. Soltanto il vecchio Federigo e pochi altri portavano il vino da un punto all'altro dei vasti magazzini deserti. L'officina dei fusti era vuota e Giovanni e gli altri malcontenti erano adunati sul piazzale, discutendo. Franco vedevali dalla finestra di camera sua e gioiva.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679346
Praga, Emilio 2 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Perchè dunque vi ha abbandonato nelle mani di uno che non ha nessun affetto per voi? ... - Oh non è stato lui, ne sono sicuro ... quel giorno che io lasciai la mia queta stanzuccia del Presbiterio, egli mi prese in disparte mi abbracciò stretto e piangendo mi disse: - Povera creatura, mi ti vogliono levare e mi strappano il cuore, io ti terrei tanto volentieri. - Poi si fe' promettere ch'io sarei venuto spesso a trovarlo e che in ogni mio bisogno avrei ricorso a lui. E diffatti tutte le volte che ha potuto in qualche modo aiutarmi egli l'ha fatto ed io gli devo tutte le poche gioie che m'ebbi in questi otto anni di purgatorio. - Ma colui là, il sindaco, vi reclamava forse? - Non so ... se l'ha fatto non è stato certo per tenerezza ... e, ne son sicuro, nemmanco di sua volontà. Ricordo perfettamente tutte le circostanze che precedettero e accompagnarono la mia disgrazia: c'è di mezzo un mistero che non ho mai potuto penetrare. Otto anni sono, in aprile, il Vescovo venne a Sulzena ad impartir la cresima e si intrattenne due giorni al Presbiterio. Lo accompagnava un canonico, parente del signor Bazzetta; andò ad alloggiare da costui e la sera stessa dell'arrivo lo condusse qui a parlare con Monsignore. Veggo ancora lo speziale vestito in abito di cerimonia farsi strada in mezzo alla gente che ingombrava la soglia ed entrare tutto superbo del singolare favore. Non so perchè ho sempre sospettato che quel ciarlone sia l'autore dei miei mali. Il mattino seguente di buon'ora fui svegliato da un discorso animato che si teneva sotto il mio bugigattolo, nella stanza del Vescovo, quella stessa che adesso voi occupate. Monsignore faceva ad intervalli non so quali domande, brevi, come quelle di un confessore o di un esaminatore; il curato rispondeva sommesso, - non sentivo che il mormorio confuso delle sue parole, - seguivano delle lunghe pause. Ad un tratto il curato proruppe con maggior vivacità; - «ma io feci a fin di bene» e la voce del Monsignore incalzava tosto più severa, più diffusa e accentuata, persisteva su certe parole che venivano sino al mio orecchio: decoro… convenienza ... riguardo. Poi tacquero entrambi; io sentivo dallo scricchiolar degli scarpini nuovi sul pavimento di legno che Monsignore passeggiava, Dopo mezz'ora il colloquio ricominciò: e vi si era aggiunto una voce, quella cupa del signor Angelo. Egli pareva preso da una gran collera, che frenava a stento e che irrompeva in esclamazioni e in interiezioni. Il Vescovo lo riprendeva vigorosamente ogni volta, e continuava a parlare in tono di rimprovero. Mi ricordo d'aver inteso il signor Angelo a strillare: - le prove, le prove, - e Monsignore rispondergli con recisa fermezza: - le prove ci sono, le abbiamo. In quella Mansueta venne a prendermi; mi vestì in furia e mi condusse abbasso: la buona zia mi parve più amorosa del solito: era inquieta - ed anch'io lo ero. Il colloquio durò quasi due ore: finalmente il signor Angelo discese, quel suo viso sinistro che ci faceva scappare noi bambini, era sconvolto dal furore. Io mi trovavo sulla soglia e non fui in tempo a cansarlo: egli mi diè un gran calcio che mi mandò ruzzoloni sui ciottoli della strada. Fu quello il suo primo atto di autorità a mio riguardo. - Voi sapete che non è stato l'ultimo di tal genere ... Povero ragazzo, mi faceva compassione. Era tanto avvilito che non poteva neppure nutrire rancore contro il proprio aguzzino. Egli continuò: - Qualche giorno dopo, la zia cominciò a parlarmi di andare col signor De Boni. Aggiunse per ispiegazione che egli era parente del padre mio e che egli voleva così e ch'io dovevo obbedire. Figuratevi il mio spavento; gridai, piansi, - la zia cercò di tranquillarmi dicendo che il signor De Boni, se ero saggio, mi avrebbe trattato bene, che mi avrebbe portato amore ... ma finiva sempre col piangere desolatamente; non credeva nemmanco lei a quelle sue parole. Un giorno fui condotto dal cavallante nel seminario di Novara. Quando, sopraggiunto l'autunno tornai a Sulzena, entrai per la prima volta in casa del signor Angelo; egli mi trattò sempre come un cane malvisto. Le mie vacanze sono una tal tortura che io anelo sempre al collegio come ad una liberazione. Dopo una pausa conchiuse: - Ecco tutto quel che conosco della mia storia: nessuno mi ha mai detto qual sia il diritto che vanta sulla mia persona il sindaco - e che egli esercita con tanta malavoglia come fosse il più odioso dei doveri. - Ma voi, - dissi io, senza riflettere, spinto dalla curiosità, ma voi che ne pensate? La domanda era indiscreta e me ne accorsi subito e studiavo il modo di ritirarla ... ... Ma, con mio stupore, il giovinetto non se ne adontò punto; - mi guardò con amichevole timidezza come volesse farmi una confidenza e rispose misteriosamente: - Ho paura che la mia parentela con colui ..... sia assai più stretta di quel che volesse farmi credere la zia. Questo sospetto è il mio tormento, la mia disperazione. Nei suoi frequenti accessi di collera il Sindaco mi da i nomi più oltraggiosi mi chiama ... mi chiama ... voi capite; - urla che sono la vergogna della sua casa, - ed io domando bestemmiando perchè Dio congiunga coloro che non possono volersi bene ..... Un lampo di odio sfolgorò nelle sue pupille e tosto si spense nella triste rassegnazione di prima, le sue parole terminarono in un angoscioso singhiozzo. Come il fiotto del torrente mi parve lugubre in quel punto! - Usciamo fuori, dissi io, e quando fummo all'aperto, e che l'aspetto sereno del cielo, la vista dei monti rivestiti dal raggio di un roseo tramonto ebbe dissipata un po' la mia commozione, presi il mio compagno a braccetto e, sforzandomi di dare una gaia intonazione alla mia voce, gli dissi: - Ringrazio il caso che mi ha condotto a pescare un amico in fondo alla cascata. - Forse non è il caso ... soggiunse l'abatino. - Può darsi non sia il caso. - È la prima volta che mi accade di parlare di queste cose con alcuno e mi ha fatto bene. Questa dichiarazione non mi meravigliò punto. Egli non era il primo a farmela e non fu l'ultimo: ebbi molte volte a ricevere confidenze da gente che mi vedevano per la prima volta. Io sono stato così il depositario di molti dolori. È una triste prerogativa: ho dovuto persuadermi per esperienza mia e per l'esempio di quelli che la dividono con me che non è segno di fortuna: è una attrattiva che una sciagura esercita su altre sciagure. In tutti i casi consimili non è mai stato mio vezzo di far del sentimentalismo: ho veduto che i dolori sono come i ragazzi viziati: più li accarezzi e più si fanno impertinenti. Io preferisco strapazzarli: è una cura quasi sempre efficacissima. Però rivolto all'abatino dissi: - Badate però ch'io voglio sgridarvi; alla nostra età la rassegnazione è, scusate la parola, dappocaggine, La vostra condizione vi par un mantello troppo pesante? ebbene gettatelo dietro le spalle. Il mondo ha tante strade, sceglietene una, e tirate innanzi senza voltarvi indietro. Mi guardò stupito: nessun pensiero di ribellione aveva mai attraversato quel suo animo umile e mansueto. Si strinse a me rabbrividendo. Superbo di farla da Mentore o meglio da Mefistofele, io ripresi: - Il signor Angelo vi tratta come un cane; mostrategli che siete un uomo col respingere i suoi oltraggiosi beneficii; lasciate la sua casa, buttate il suo pane e fate da voi. - scommetto ch'egli non vi correrà dietro a farvelo accettare per forza. - Guardate, dissi poi, accennando al libro di Rousseau che faceva sempre capolino dalla sua tasca, voi avete lì un bell'esempio. Non vi fermate alle sue melanconie, ai suoi piagnistei: guardate al sodo della sua vita: tutte le volte che Gian Giacomo ha voluto cercare il successo, il successo gli è venuto incontro: colpa sua se sovente egli l'ha rinnegato per rinchiudersi daccapo nella chiocciola della sua pigrizia. Eravamo così arrivati a Sulzena. Fin là l'abatino aveva camminato al mio fianco dritto e spedito. Ma all'ultimo svolto del sentiero, quando apparvero le case del villaggio e più eminente da una parte del paese, solitaria, più vasta ma non più appariscente dall'altre, quella del signor De Boni - non potè contenersi. Tolse il suo braccio di sotto al mio e fe' capire colla sua inquietudine che non voleva essere visto in mia compagnia. Non insistei e lasciai che prendesse un viottolo di traverso che girava dietro alle case. - Ci rivedremo, caro ... come ti chiami? gli domandai. - Il sindaco mi fa chiamare Ignazio, per un suo fine di ironia, ma il mio nome è Aminta. - Curioso nome! ... vuoi ch'io venga a prenderti qualche volta? - No, fu lesto a rispondere, verrò io. E così ci separammo amici, di quella vecchia e durevole amicizia che a dieciott'anni si fa in un'ora.

Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest'ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l'Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato. La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l'uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l'ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela. Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l'aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo. Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita. Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, - rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, - era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l'unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza. Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell'Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l'influenza dei versi ... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna! Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine? Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, - finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell'andarsene a zonzo, - che adocchiava, dalle vetrine dei librai, - le nuove edizioni, - nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. - Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo. L'idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi. Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo. - È innamorato di miss Jenny! - È il suo amante, - ripetè il secondo. - Quel vecchio babbeo! ... osservò il terzo. E così di seguito. Che c'era di vero in tutto ciò? Eccolo detto in poche parole: De Emma non era l'amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. - De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva. Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno. Venne l'ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo. Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d'ambrosia, l'altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c'erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest'ultimo. Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l'indomani; era sottoscritto «Jenny». Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all'invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri. Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l'angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll'alba, quando l'orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l'esistenza sua tutta intiera? Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora. Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell'animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d'improvviso sull'ultima vetta dell'Imalaia, o all'estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l'abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta ..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell'abbrutimento e della pazzia. Guardata faccia a faccia la via del dovere, l'angusta via del dovere come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino. Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l'alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell'amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall'allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore. Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all'involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione. Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov'era l'uomo serio d'una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici. Con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca. La sirena del suicidio venne a cantargli nell'animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell'orgie: il ritornello vi trascina. E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell'uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi. Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L'acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo. Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c'era ragione di rimanervi. Ma s'ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita. A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia. Subitamente gli colpì l'occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell'onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero. Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche. Si mosse istintivamente e discese anch'egli alla riva. Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento. - Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume. De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio. Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell'infelice. Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell'impresa. Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna. I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell'uscio in faccia alla curiosità invadente della folla. Dopo qualche minuto, un finestrello s'aperse; una voce gridò: - Un medico! ... - Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo. L'uscio si riaperse e fu introdotto nella camera. La donna distesa sopra un mucchio di reti non s'era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente. Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo. Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita. De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane. Dopo un quarto d'ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano. Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all'operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere. Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamo: - Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò: - Sta qui vicino? - A due passi. Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua. Colà nessuno s'era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora. Attraversando l'appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d'uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo. I meno cotti, all'inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all'ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti. Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria. Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni. Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l'articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia. Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta. Dopo un'ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe' una smorfia di disgusto. Volle sapere come c'era tornata e bisognò contentarla. Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo: - Prendi, spetta a te; io l'avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po' troppo sollecitamente, - ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino. - Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto. De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo. Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito. Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l'inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate. Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d'averla vinta scoprì d'aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l'aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile. Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole: - Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll'indice sul suo seno ansimante per l'asma, eh! che ne dite, patria? - Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione. - Davvero? ebbene proviamo. Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita. Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione. Un po' la nuova speranza, un po' la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie. Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva: - Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno. Voleva dire il De Emma. Nessuno l'aveva mai veduto. Qualche volta egli veniva mentre c'era gente; e la Rosilde s'alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia. Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi. Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico. De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia. La sua riputazione si estese nella alta società di Londra. Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga. La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l'importanza dell'igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo. La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza. Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton. L'aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione. De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l'accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione. Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all'amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, - a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso. Una mattina di estate, all'ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny. Costui gli tenne questo strano discorso: - Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela. Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l'un dell'altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c'era presente una giovanetta un po' pallida che singhiozzava di gioia. Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente. Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione. Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia. Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze. Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde. Solo aveva risaputo ch'ell'era tornata verso il fine dell'estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico. Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l'Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita. Una mattina, era pressapoco l'anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l'invito dì passare da lei. La poveretta era ricaduta malata: l'aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore. Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell'inverno. Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata. Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente. La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l'Inferma. Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai. Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza. Ella non aveva più parenti all'infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto? Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch'egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla. La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall'inferma e tanto fece e tanto disse che l'indusse a seguirli in Italia. Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l'accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell'avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità. Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio. Il sereno non tardò ad intorbidarsi. Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po' tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza. Qualche ciarla cominciò a salire fino all'orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare. Il sospetto è un miraggio che ha l'aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un'apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s'incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà. La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l'espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole. Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì. Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto. La triste scoverta la fe' pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all'incerto avvenire, ma sovr'ogni altra cosa all'umiliazione di essere a carico de' suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l'aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com'egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L'amicizia si contenta spesso della somiglianza, l'amore esige quasi sempre l'antitesi dei caratteri; cerca l'armonia nelle differenze. Per invaghire un'indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo Ella deliberò di lasciare senz'indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l'aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l'indomani, - così senz'altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l'imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l'impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l'ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: - tornerete? Rosilde le rispose: - A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l'Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla. Il dottore s'era accorto all'ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla. La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale. La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L'infelice s'era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton. La quiete del Presbitero l'aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant'anni sonati. Per certe donne l'amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità. Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c'è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura. La triste solitudine di quest'uomo così buono, così degno d'affetto la commosse. Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione. Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso. Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un'idea, di un sentimento soprannaturale l'interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta. Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell'orto, e là rimanere immobile per dell'ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, - ella s'immaginava che fossero le torture di un'indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè. Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l'ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, - potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, - il quale penetra l'umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell'arcano principio onde si congiunge l'elemento morale colla materia. Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all'improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, - e riesce spesso a sopraffarla. Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani. Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, - eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia. Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo. Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall'una all'altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni. Egli non tardava a scorgerla. Non l'evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll'agilità di una farfalla dall'uno all'altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde. Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l'altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione. Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l'alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei. Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse. Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, - questi ossessi dell'idea e dell'immagine, - dovrebbero trovare sempre sull'aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell'uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell'evangelo. Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi. Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, - e sempre ne attribuiva il merito al padrone: - don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest'altro. Ell'erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d'uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano: - Che dite mai, che dite mai .... un piacere, un dovere .... Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato. Don Luigi aveva soggiunto: - Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità. La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d'invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile. Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità. Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: - umile e sublime missione! Il suo mestiere l'aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, - ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l'aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità. Però fu con viva gioia ch'ella si accorse d'essergli cara. Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo. Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l'effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi. Ella ci teneva a non farsi illusioni, - e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni. Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, - ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere. Ella non pensò mai a calcolar sull'avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di .... Ma non precipitiamo gli avvenimenti. Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine. A quell'ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll'abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza. Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L'aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l'epopea splendida delle spighe d'oro. In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti. Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l'umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz'altro Rosilde. Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L'attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell'anacoreta. Riguardava con uno sgomento d'ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore. Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente. Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente. Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl'incanti ch'ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, - e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza. Nè l'uno nè l'altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l'idillio era incominciato: - e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi. Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l'amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell'amicizia, nulla sarebbe accaduto. Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un'aspirazione, un desiderio ... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.

La tregua

679904
Levi, Primo 2 occorrenze

Rintracciò mia madre, le consegnò la lettera (e fu l' unico mio segno di vita che in nove mesi giunse a destinazione), e le descrisse confidenzialmente come io mi trovassi in condizioni di salute estremamente preoccupanti: naturalmente non lo avevo messo nella lettera, ma ero solo, ammalato, abbandonato, senza soldi, in urgente bisogno di aiuto; secondo la sua opinione, era indispensabile provvedere immediatamente. Certo l' impresa non era facile: ma lui Cravero, mio amico fraterno, era lì a disposizione. Se mia madre gli avesse consegnato duecentomila lire, in due o tre settimane mi avrebbe riportato a casa a salvamento. Anzi, se la signorina (mia sorella, che assisteva al colloquio) avesse voluto accompagnarlo .... Va ascritto a lode di mia madre e di mia sorella di non aver concesso immediata fiducia al messaggero. Lo rimandarono, pregandolo di ripassare di lì a qualche giorno, perché la somma non era disponibile. Cravero scese le scale, rubò la bicicletta di mia sorella che stava sotto il portone, e scomparve. Mi scrisse dopo due anni, a Natale, una affettuosa cartolina di auguri dalle Carceri Nuove. Nelle sere in cui Tramonto ci esentava dalla ripetizione del processo, era spesso di scena il Signor Unverdorben. Rispondeva a questo nome strano e bello un mite, anziano e ombroso ometto di Trieste. Il Signor Unverdorben, che non rispondeva a chi non lo chiamava "signore", e pretendeva di essere trattato con il "lei", aveva trascorso una lunga duplice esistenza avventurosa, e come il Moro e Tramonto era prigioniero di un sogno, anzi di due. Era inesplicabilmente sopravvissuto al Lager di Birkenau, e ne aveva riportato un orrendo flemmone a un piede; perciò non poteva camminare, ed era il più assiduo e il più ossequioso fra coloro che mi offrivano compagnia e assistenza durante la mia malattia. Era anche molto loquace, e se non si fosse spesso ripetuto, secondo il costume dei vecchi, le sue confidenze potrebbero costituire un romanzo a sé stante. Era musicista, un grande musicista incompreso, compositore e direttore d' orchestra: aveva composto un' opera lirica, "La regina di Navarra", che era stata lodata da Toscanini; ma il manoscritto giaceva inedito in un cassetto, perché i suoi nemici tanto avevano scrutato nelle sue carte, con immonda pazienza, che infine avevano scoperto come quattro battute consecutive dello spartito si ritrovassero identiche nei Pagliacci. La sua buona fede era ovvia, lampante, ma su queste cose la legge non scherza. Tre battute sì, quattro no. Quattro battute sono un plagio. Il Signor Unverdorben era troppo signore per sporcarsi le mani con gli avvocati e le querele: aveva virilmente dato l' addio all' arte, e si era fatta una esistenza nuova come cuoco di bordo sui transatlantici di linea. Così aveva molto viaggiato, e aveva visto cose che nessun altro ha visto. Principalmente, aveva visto animali e piante straordinari, e molti segreti della natura. Aveva visto i coccodrilli del Gange, che hanno un solo osso rigido che va dalla punta del naso alla coda, sono ferocissimi e corrono come il vento; ma, appunto per questa loro singolare struttura, non possono spostarsi che in avanti e indietro, come un treno sui binari, e perciò basta collocarsi di fianco, al di fuori anche di poco della linea retta che costituisce il loro prolungamento, per essere al sicuro. Aveva visto gli sciacalli del Nilo, che bevono correndo per non essere addentati dai pesci: di notte i loro occhi brillano come lanterne, e cantano con rauche voci umane. Aveva anche visto i cappucci della Malesia, che sono fatti come i cavoli nostrani, ma molto più grossi: e basta toccare le loro foglie con un dito, che non si riesce più a districarsene, la mano e poi il braccio e poi l' intera persona dell' incauto vengono attirati, lentamente ma irresistibilmente, nel mostruoso cuore appiccicoso della pianta carnivora, e digeriti a poco a poco. L' unico rimedio, che quasi nessuno conosce, è il fuoco, ma bisogna agire prontamente: basta la fiammella di un fiammifero sotto la foglia che ha ghermito la preda, e il vigore della pianta si scioglie. In questo modo, grazie alla sua prontezza e alle sue conoscenze di storia naturale, il Signor Unverdorben aveva salvato da sicura morte il capitano della sua nave. Ci sono poi certi serpentelli neri che dimorano confitti nelle squallide sabbie d' Australia, e che si avventano all' uomo di lontano, per l' aria, come palle di fucile: un loro morso basta a fare cadere riverso un toro. Ma tutto in natura si ricollega, non vi è offesa contro cui non ci sia difesa, ogni veleno ha il suo antidoto: basta conoscerlo. La morsicatura di questi rettili guarisce prontamente se viene trattata con saliva umana; non però quella della persona aggredita. Perciò, in quelle terre, nessuno viaggia mai solo. Nelle lunghissime sere polacche, l' aria della camerata, greve di tabacco e di odori umani, si saturava di sogni insensati. È questo il frutto più immediato dell' esilio, dello sradicamento: il prevalere dell' irreale sul reale. Tutti sognavano sogni passati e futuri, di schiavitù e di redenzione, di paradisi inverosimili, di altrettanto mitici e inverosimili nemici: nemici cosmici, perversi e sottili, che tutto pervadono come l' aria. Tutti, ad eccezione forse di Cravero, e certamente di D' Agata. D' Agata non aveva tempo di sognare, perché era ossessionato dal terrore delle cimici. Queste incomode compagne non piacevano a nessuno, naturalmente; ma tutti avevamo finito col farci l' abitudine. Non erano poche e sparse, ma un esercito compatto, che col sopraggiungere della primavera aveva invaso tutti i nostri giacigli: stavano annidate di giorno nelle fenditure dei muri e delle cuccette di legno, e partivano in scorreria non appena cessava il tramestio del giorno. A cedere loro una piccola porzione del nostro sangue, ci saremmo rassegnati di buon grado: era meno facile abituarsi a sentirle correre furtive sul viso e sul corpo, sotto gli abiti. Potevano dormire tranquilli solo quelli che avevano la fortuna di godere di un sonno pesante, e che riuscivano a cadere nell' incoscienza prima che quelle altre si risvegliassero. D' Agata, che era un minuscolo, sobrio, riservato e pulitissimo muratore siciliano, si era ridotto a dormire di giorno, e passava le notti appollaiato sul letto, guardandosi intorno con occhi dilatati dall' orrore, dalla veglia e dall' attenzione spasmodica. Teneva stretto in mano un aggeggio rudimentale, che si era costruito con un bastoncello e un pezzo di rete metallica, e il muro accanto a lui era coperto di una lurida costellazione di macchie sanguigne. In principio queste sue abitudini erano state derise: aveva forse la pelle più fina di noi altri? Ma poi la pietà aveva prevalso, commista con una traccia di invidia; perché, fra tutti noi, D' Agata era il solo il cui nemico fosse concreto, presente, tangibile, suscettibile di essere combattuto, percosso, schiacciato contro il muro.

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Non tutte, ma in gran parte, avevano abbandonato "volontariamente" il loro paese. Una volontà coartata, ricattata, distorta dalla menzogna e dalla propaganda nazista sottile e pesante, che minacciava e blandiva dai manifesti, dai giornali, dalla radio: tuttavia una volontà, un assenso. Donne dai sedici ai quarant' anni, centinaia di migliaia, contadine, studentesse, operaie, avevano lasciato i campi devastati, le scuole chiuse, le officine distrutte, per il pane degli invasori. Non poche erano madri, e per il pane avevano lasciato i figli. In Germania avevano trovato il pane, il filo spinato, un duro lavoro, l' ordine tedesco, la servitù e la vergogna: e sotto il peso della vergogna ora rimpatriavano, senza gioia e senza speranza. La Russia vincitrice non aveva indulgenze per loro. Tornavano a casa in carri merci, spesso scoperti, divisi orizzontalmente da un tavolato affinché fosse meglio sfruttato lo spazio: sessanta, ottanta donne per carro. Non avevano bagaglio: solo le vesti logore e stinte che portavano indosso. Corpi giovanili, ancora solidi e sani, ma visi chiusi ed acri, occhi fuggitivi, una conturbante, animalesca umiliazione e rassegnazione nessuna voce usciva da quei viluppi di membra, che si scioglievano pigramente quando i convogli fermavano in stazione. Nessuno le aspettava, nessuno sembrava accorgersi di loro. Di animali umiliati e domati erano la loro inerzia, il loro appartarsi, la loro dolente mancanza di pudore. Noi soli assistevamo con pietà e tristezza al loro passaggio, nuova testimonianza e nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l' Europa. Partimmo da Zmerinka alla fine di giugno, oppressi da una greve angoscia che era nata dalla delusione e dalla incertezza del nostro destino, e aveva trovato una oscura risonanza e conferma nelle scene cui a Zmerinka avevamo assistito. Compresi i "rumeni", eravamo millequattrocento italiani. Fummo caricati su una trentina di carri merci, che vennero agganciati ad un convoglio diretto a nord. Nessuno, a Zmerinka, seppe o volle precisarci la nostra destinazione: ma andavamo a nord, via dal mare, via dall' Italia, verso la prigionia, la solitudine, il buio, l' inverno. Malgrado tutto, stimammo buon segno che non ci fossero state distribuite scorte per il viaggio: forse questo non sarebbe stato lungo. viaggiammo infatti per soli due giorni e una notte, con pochissime fermate, attraverso uno scenario maestoso e monotono di steppe deserte, di foreste, di villaggi sperduti, di lente e larghe fiumane. Pigiati nei vagoni merci, si stava scomodi: alla prima sera, approfittando di una fermata, Cesare e io scendemmo a terra, per sgranchirci le gambe e trovare una migliore sistemazione. Notammo che in testa erano vari vagoni passeggeri, e un vagone infermeria: sembrava vuoto. _ Perché non ci saliamo? _ propose Cesare. _ È proibito, _ risposi io insulsamente. Perché infatti doveva essere proibito, e da chi? Del resto, avevamo già potuto constatare in varie occasioni che la religione occidentale (e tedesca in specie) del divieto differenziale non ha radici profonde in Russia. Il vagone infermeria non solo era vuoto, ma offriva raffinatezze da sibariti. Lavatoi efficienti, con acqua e sapone sospensioni dolcissime che attutivano le scosse delle ruote meravigliosi lettini appesi a molle regolabili, completi di lenzuola candide e coperte calde. Al capezzale del letto che avevo scelto, dono supererogatorio del destino , trovai addirittura un libro in italiano: "I ragazzi della via Paal", che non avevo mai letto da bambino. Mentre i compagni già ci dichiaravano dispersi, trascorremmo una notte di sogno. Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d' armi e di carriaggi. Il viaggio terminò poche ore dopo, in piena notte, nel culmine di un violento temporale. Fummo fatti scendere sotto il diluvio, in una oscurità assoluta, rotta a tratti dai lampi. Camminammo per mezz' ora in fila indiana, nell' erba e nella melma, ciascuno aggrappato come un cieco all' uomo che lo precedeva, e non so chi guidasse il capofila approdammo infine, bagnati fino alle ossa, in un enorme edificio buio, semidistrutto dai bombardamenti. Continuava a piovere, il pavimento era fangoso e fradicio, e altra acqua cadeva dalle lacune del tetto: attendemmo il giorno in un dormiveglia faticoso e passivo. Sorse un giorno splendido. Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Si fermarono all' alba a riposare in un capannone abbandonato, sul confine polacco. Verso mezzogiorno gli uomini di vedetta videro passare forze tedesche lungo la strada maestra; tutti si disposero alla difesa, ma la colonna proseguì senza curarsi di controllare il capannone. Ripresero la marcia a notte, ed in una brughiera le due squadre si separarono; Ulybin e i suoi piegarono a sinistra per rientrare in territorio sovietico, e la squadra di Gedale procedette verso Recitsa per campi incolti. Gedale li rassicurò: _ Il peggio è passato. Ancora una notte di cammino e saremo fuori. Ma Mendel e i suoi amici si sentivano più sicuri prima, nel campo di Turov, dove non si pativa la fame né il freddo, e ciascuno sentiva sopra la testa un tetto di solide travi ed un' autorità: Ulybin stesso, o i messaggeri venuti dal cielo, o un potere più lontano. Questi gedalisti (così chiamavano se stessi) era gente temeraria, randagia e povera. Jòzek, il luogotenente di Gedale, si arrotolò una sigaretta d' erbe in un brandello di carta da giornale, chiese a Leonid un fiammifero, lo spaccò in due per il lungo, accese con una metà e ripose l' altra in tasca. Le due vacche, gli disse, erano preda di guerra; le avevano prese pochi giorni prima, nel corso dell' attacco a Ljuban, "perché nella guerra bisogna anche pensare alla roba". Erano magre e restie, dove trovavano un ciuffo d' erba si fermavano testarde a brucarla resistendo agli strattoni e ritardando la marcia. Dove c' erano ancora chiazze di neve nell' ombra degli alberi, la aravano con gli zoccoli in cerca di licheni. _ Alla prima occasione le vendiamo, _ disse Jòzek in tono concreto. Jòzek non era russo ma polacco di Bialystok, e falsario di professione. Raccontò la sua storia a Mendel durante la prima tappa dopo la separazione; prima no, non sapeva come i russi l' avrebbero presa. _ È un buon mestiere, ma non facile. Io ho incominciato da ragazzo, nel 192.: ero litografo apprendista e falsificavo i francobolli. La polizia polacca, a quel tempo, aveva altro da pensare e non c' era gran pericolo, ma guadagnavo poco. Nel 1937 ho cominciato con i documenti, ero molto bravo nei passaporti. Poi è venuta la guerra, a Bialystok sono arrivati i russi, e nel '41 i tedeschi. Io ho dovuto nascondermi, ma vivevo bene: di documenti c' era richiesta, soprattutto di tessere annonarie per i polacchi e di carte d' identità ariane per gli ebrei. _ Sarei andato avanti tranquillo fino alla fine della guerra, ma un concorrente mi ha denunciato perché le mie tariffe erano troppo basse. Sono rimasto in prigione tre settimane; si capisce che anche i miei documenti personali erano falsi, risultavo cristiano da due generazioni, ma mi hanno fatto spogliare, hanno capito che ero ebreo e mi hanno spedito in Lager, a Sachsenhausen, a spaccare pietre. Jòzek si interruppe ed accese un' altra sigaretta con il mezzo fiammifero che aveva riposto. Era biondiccio, gracile, di media statura, con una lunga faccia volpina e occhi verdi quasi senza cigli, che teneva sempre socchiusi come per aguzzare lo sguardo. La squadra si era fermata in una radura; Jòzek stava sdraiato sull' erba umida di rugiada, fumava e raccontava con gusto. Molti lo circondavano in ascolto: conoscevano già la storia, ma amavano sentirla ripetere; altri dormivano. Leonid si era appartato con Line, e Sissl ascoltava stando un po' in disparte: aveva cavato fuori ago e filo, e rammendava una calza nella luce incerta dell' alba. _ Il mondo è strano, _ riprese Jòzek. _ Un ebreo muore, ma un ebreo falsario si salva. Alla fine del '42 nel Lager hanno affisso un avviso: i tedeschi cercavano tipografi e litografi. Io mi sono presentato, e mi hanno mandato in una baracchetta in fondo al Lager dove ho creduto di sognare. C' era un laboratorio molto meglio attrezzato del mio, e un gruppo di prigionieri polacchi, céchi, tedeschi ed ebrei che fabbricavano dollari e sterline false, e anche documenti per gli agenti dello spionaggio. Non per dire, io ero il più bravo e i lavori delicati li davano a me; ma ho capito presto che la faccenda scottava, era chiaro che nessuno di noi sarebbe uscito vivo. Allora mi sono dedicato a raccogliere oro, che nei Lager non mancava mai, e a fabbricarmi un ordine di trasferimento. _ E perché non un ordine di rilascio? _ chiese Mendel. _ Si vede che tu non sai cos' è un Lager. Non si è mai visto che un ebreo venga rilasciato; specie poi un ebreo come me. Mi sono fatto un ordine di trasferimento al Lager di Brest-Litovsk, perché un polacco è meglio se scappa in Polonia: un ordine in piena regola, su carta delle SS, con timbri e firme, intestato a Jòzef Treistman, n. 67703, Funktionshäftling, Prigioniero Funzionario. Rischiavo molto, ma non aver scelta è una scelta. Mi hanno messo su un treno con due accompagnatori, erano due militari anziani della Territoriale. Li ho corrotti con l' oro, non aspettavano altro; sono scappato poco prima di arrivare a Brest, ho vissuto alla macchia due settimane, poi ho trovato Gedale. Col passare dei giorni e con l' approfondirsi della conoscenza, a Mendel appariva sempre più naturale che fra Gedale e Ulybin non si fosse trovato un accordo. Al di là della secolare divaricazione fra russi ed ebrei, sarebbe stato difficile trovare due uomini più diversi: la sola qualità che avevano in comune era il coraggio, e questo non era strano, perché un comandante senza coraggio non dura a lungo. Ma anche i loro coraggi erano diversi: il coraggio di Ulybin era ostinato e opaco, un coraggio-dovere che sembrava il frutto di uno studio e una disciplina piuttosto che un dono naturale. Ogni sua decisione ed ogni suo ordine arrivavano come dal cielo alla terra, carichi d' autorità e di minaccia inespressa; spesso erano ordini ragionevoli, perché Ulybin era un uomo scaltro, ma anche quando non lo erano suonavano perentori, ed era difficile non obbedirli. Il coraggio di Gedale era estemporaneo e vario, non scaturiva da una scuola ma da un temperamento insofferente dei vincoli e poco propenso a scrutare l' avvenire; dove Ulybin calcolava, Gedale si gettava come in un gioco. Mendel riconosceva in lui, ben fusi come in una lega pregiata, metalli eterogenei: la logica e la fantasia temeraria dei talmudisti; la sensitività dei musici e dei bambini; la forza comica dei teatranti girovaghi; la vitalità che si assorbe dalla terra russa. Gedale era alto e magro, largo di spalle ma con membra esili e petto poco profondo. Il naso era arcuato e tagliente come una prua, la fronte bassa sotto il confine dei capelli neri, le guance incavate e solcate da rughe nella pelle conciata dal vento e dal sole, la bocca larga e piena di denti. Era svelto nei movimenti, ma camminava con una goffaggine che sembrava voluta, come un clown nel circo. Parlava con voce alta e sonora anche quando non occorreva, come se il petto gli facesse da cassa armonica; rideva spesso, anche in momenti poco opportuni. Mendel e Leonid, abituati alla gerarchia dell' Armata Rossa, furono disorientati ed allarmati dalle maniera dei gedalisti. Le decisioni venivano prese alla buona, in assemblee chiassose; altre volte si accettavano spensieratamente disegni temerari di Gedale, di Jòzek o di altri; altre volte ancora nascevano litigi, che però si placavano presto. Non sembrava che entro la banda ci fossero tensioni o disaccordi permanenti. I componenti si proclamavano sionisti, ma di tendenze svariate, con tutte le sfumature che si possono inserire fra il nazionalismo ebraico, l' ortodossia marxista, l' ortodossia religiosa, l' egualitarismo anarchico e il ritorno tolstoiano alla terra, che ti redimerà se tu la redimi. Anche Gedale si dichiarava sionista. Per parecchi giorni Mendel cercò di capire a quale tendenza appartenesse, ma alla fine ci rinunciò: seguiva simultaneamente diverse idee, o nessuna, o cambiava spesso. Certo era più portato all' azione che alla teoria, e i suoi scopi erano semplici: sopravvivere, portare ai tedeschi il massimo danno, e andare in Palestina. Gedale era curioso fino all' indiscrezione. Ai nuovi venuti non chiese alcun dato anagrafico e neppure li prese in forza ufficialmente, ma volle sapere la storia di ognuno, e l' ascoltò con l' attenzione candida dei bambini. Sembrava provare simpatia per tutti, apprezzare le virtù di tutti, ignorare le loro debolezze. _ L-khàyim, _ disse a Pavel dopo aver ascoltato la sua storia, _ alla vita. Benvenuto fra noi, sia benedetta la tua schiena. Abbiamo bisogno di schiene come la tua. Tu sei un bisonte ebreo: un animale raro, ti terremo prezioso. Magari non vorresti esserlo, ma chi nasce ebreo resta ebreo, e chi nasce bisonte resta bisonte. Sia benedetto colui che entra. Era la prima sosta tranquilla che la banda si concedeva dopo essere uscita dall' accerchiamento. Aveva passato la notte nel fienile di una casa colonica abbandonata, avevano trovato acqua limpida nel pozzo, l' aria era leggera e profumata, tutti i visi erano distesi, e Gedale si stava divertendo. Leonid compresse la sua storia nell' arco di due o tre minuti, ma Gedale non se ne adombrò e non volle saperne di più. Gli disse solo: _ Tu sei molto giovane. È una malattia che guarisce presto, anche senza medicine, ma può essere pericolosa ugualmente. Finché ce l' hai addosso, abbiti riguardo. Leonid lo guardò attonito e sospettoso: _ Che cosa hai voluto dire? _ Non mi vorrai prendere alla lettera. Anch' io ho sangue di profeta, come ogni figlio d' Israele, e ogni tanto gioco a fare il profeta. Con Line e Sissl abbandonò il vaticinio e sfoderò maniere da operetta. Le chiamò "mie nobili dame", ma volle sapere quanti anni avevano, se erano ancora vergini e chi erano stati i loro uomini. Sissl rispose intimidita, Line con fierezza chiusa, tutte e due mostrarono fretta di porre fine all' interrogatorio. Gedale non insistette e si rivolse a Mendel. Ascoltò attento la sua narrazione, e gli disse: _ Tu non reciti. Sei rimasto un orologiaio, non hai messo su le penne del pavone e neanche quelle del falco. Benvenuto anche tu, ci sarai utile perché sei un prudente, servirai da contrappeso. Qui tra noi la prudenza è andata un po' dimenticata. Abbiamo anche poca memoria, salvo che per una cosa. _ Quale? _ chiese Mendel. Gedale accostò solennemente l' indice al naso: _ "Ricòrdati quello che ti ha fatto Amalec nel cammino, dopo che voi eravate usciti dall' Egitto. Ti ha assaltato mentre eri in strada, ha ucciso tutti i deboli, i malati e gli affaticati che erano alla tua retroguardia; non ha avuto timore di Dio. Perciò, quando il tuo Dio ti avrà dato requie dai tuoi nemici, tu di Amalec spegnerai perfino la memoria: non lo dimenticare". Ecco, questo noi non lo dimentichiamo. Ho citato a memoria, ma questa volta non a sproposito. A metà maggio la banda di Gedale era accampata sulle rive del Gorin, bianche di mughetti e di margherite frettolose. Uomini e donne, nudi o quasi, si lavavano con gioia nell' acqua lenta del fiume. Jòzek, con due compagni armati, era partito per Recitsa con le due vacche e il cavallo di Pavel: a Recitsa, presso il confine ucraino, c' era mercato. Ritornò poche ore dopo; aveva barattato le vacche contro pane, formaggio, lardo, carne salata, sapone: il resto era in marchi tedeschi d' occupazione. Il Tordo incedeva glorioso e sudato sotto il carico. Sembrava quasi che la guerra fosse finita, comunque era finito l' inverno. Nella cittadina Jòzek non aveva visto traccia di tedeschi: se c' erano, se ne stavano acquattati. Non aveva avuto bisogno di dare spiegazioni né di mercanteggiare, i contadini avevano imparato da un pezzo che con i partigiani (di qualsiasi colore) non si doveva essere né curiosi né avari. Al ritorno, Jòzek vide una buona metà della banda schierata in silenzio sulla sponda del fiume; Gedale seduto su un ceppo, con i piedi nell' acqua e il violino a mezz' aria; ed Izu, uno degli uomini di Blizna, peloso come un orso e tutto nudo, che guadava lentissimo, passo dopo passo, verso uno scoglio in mezzo alla corrente. Tutti lo stavano guardando, e lui faceva cenno a tutti di non muoversi e non parlare. Quando fu ai piedi dello scoglio, si immerse completamente, sempre con estrema prudenza; si vide l' acqua agitarsi per un istante, ed Izu emerse stringendo fra le mani un grosso pesce che si dibatteva. Lo morse dietro la testa, e il pesce si afflosciò: era lungo due palmi, le sue scaglie color bronzo scintillavano al sole. _ Che cosa ha preso, Izu? _ chiese Gedale. _ Credevo che fosse una trota; invece è un sazàn! _ rispose Izu orgoglioso, risalendo la riva. _ È strano, nell' acqua così bassa _. Si accovacciò presso una pietra piatta, sventrò il pesce, lo lavò nell' acqua corrente, lo incise lungo il dorso con il coltello, e prese a staccarne la carne dai fianchi ed a mangiarla. _ Come, non lo fai cuocere? _ Il pesce cotto non ha più vitamine, _ rispose Izu masticando. _ Però è più gustoso. E poi ha più fosforo, e il fosforo fa diventare intelligenti. Si vede che voi di Blizna lo mangiate sempre crudo. Gedale salutò Jòzek da lontano, agitando la mano: _ Bravo, Jòzek, per una settimana siamo a posto _. Poi riprese a suonare il violino: si era spogliato fino alla cintura, ed aveva in viso un' espressione estatica, non si capiva se per la musica o per il pediluvio, ma Bella non gli dava requie. Delle tre donne che erano arrivate a Turov con la banda sembrava che Bella fosse la più vicina a Gedale, che si ritenesse la sua donna legittima e definitiva, e che Gedale fosse di opinione diversa oppure non si curasse di definire la questione. Insieme con altri, Bella stava montando una tenda militare, ma continuamente si interrompeva, ed interrompeva Gedale gridandogli all' orecchio come a un sordo; Gedale le rispondeva pazientemente, riprendeva a suonare, e di nuovo Bella lo interrompeva con le sue doglianze: _ Smettila con quel violino: vieni piuttosto a dare una mano! _ Appendilo ai salici, Gedale! _ gridò Dov di lontano. _ Non siamo ancora a Gerusalemme, ma non siamo più a Babilonia, _ rispose Gedale, e riprese a suonare. Bella era una biondina esile dal lungo viso imbronciato. Dimostrava una quarantina d' anni, mentre Gedale non doveva aver oltrepassato i trenta; distribuiva spesso rimbrotti e critiche, e dava ordini che nessuno eseguiva, ma non mostrava di risentirsene. Gedale la trattava con tenerezza appena tinta di ironia. Nella tarda mattinata le sentinelle avvistarono un uomo solo, che di lontano gridava "Non sparate!"; lo lasciarono avvicinare, ed era Piotr. Gedale lo accolse senza mostrare stupore: _ Bravo, hai fatto bene a venire con noi. Siediti, fra poco si mangia. _ Compagno comandante, _ disse Piotr, _ ho solo la rivoltella, il parabellum l' ho lasciato a quelli di Ulybin. _ Se lo portavi con te era meglio, ma non importa. _ Vedi, io lo so che non ho fatto bene, ma con Ulybin ho litigato. Era troppo duro, non solo con me ma con tutti. E una sera abbiamo avuto una discussione seria ... una discussione politica. _ E avete parlato dei gedalisti, non è vero? _ Come hai fatto a indovinarlo? Gedale non rispose, ma domandò a sua volta: _ Non manderà a cercarti? Guarda che noi con Ulybin non vogliamo questioni. _ Non manderà a cercarmi. È lui che mi ha cacciato via. Mi ha detto di posare il parabellum e di andarmene. Me l' ha detto lui di venire da voi. _ Te lo avrà detto da arrabbiato. O da ubriaco: magari poi ci ripensa. _ Era arrabbiato ma non era ubriaco, _ disse Piotr. _ E poi, adesso loro sono a quattro o cinque giorni di marcia. E io non sono un disertore. Non sono venuto con voi per paura; sono venuto per combattere con voi. Quella sera, senza un motivo preciso, nel campo di Gedale si fece festa: forse perché era stato il primo giorno fuori delle paludi e dei pericoli, e il primo giorno di primavera aperta; forse perché l' arrivo di Piotr aveva rallegrato tutti; o forse soltanto perché, frammezzo agli altri viveri accatastati sulla groppa del Tordo, Jòzek aveva riportato anche un barilotto di vodka polacca. Avevano acceso un fuoco fra due dune di sabbia e tutti sedevano intorno a cerchio; Dov disse a Gedale che forse era un' imprudenza, e allora Gedale spense il fuoco, ma il bagliore delle braci riscaldava gli animi ugualmente. Il primo ad esibirsi fu Pavel. Nessuno lo aveva chiamato, ma si mise fieramente in piedi presso le braci, prese un pezzo di carbone e si tracciò sul labbro superiore due baffetti, si tirò sulla fronte un ciuffo di capelli bagnati, salutò tutti col braccio teso all' altezza degli occhi, e incominciò a concionare. Dapprima parlò in tedesco, con rabbia crescente: il suo era un discorso improvvisato, contava più il tono che il contenuto, ma tutti risero quando lo udirono rivolgersi ai soldati tedeschi incitandoli a combattere fino all' ultimo uomo, e chiamandoli volta a volta eroi della Grande Germania, figli di puttana, cani celesti, difensori del nostro sangue e del nostro suolo, e buchi del culo. A grado a grado, la sua collera si faceva più rovente, fino a soffocargli la parola in un ringhio canino interrotto da accessi di tosse convulsa. Ad un tratto, come se fosse scoppiato un ascesso, lasciò il tedesco e continuò in jiddisch, e tutti si torsero dalle risa: era straordinario sentire Hitler, nel pieno del suo delirio, che nella lingua dei paria incitava qualcuno a massacrare qualcun altro, non si capiva se i tedeschi a massacrare gli ebrei o viceversa. Lo applaudirono con frenesia, gli chiesero il bis, e Pavel dignitosamente, invece di replicare il suo numero (che, spiegò, aveva collaudato nel 1937 in un cabaret di Varsavia) cantò "O sole mio", in una lingua che nessuno comprendeva e che lui sosteneva essere italiano. Poi venne sulla scena Mottel il Tagliagole. Mottel era un ometto dalle gambe corte e dalle braccia lunghissime, agile come una scimmia. Arraffò tre, poi quattro, poi cinque tizzoni, e se li fece volteggiare intorno, sopra la testa, sotto le gambe; sullo sfondo del cielo viola si disegnava un intrico sempre nuovo di parabole rutilanti. Fu applaudito, ringraziò inchinandosi ai quattro punti cardinali, e si ritirò imitando l' andatura sghemba dell' orango. Perché Tagliagole? Spiegarono a Mendel che Mottel non era il primo venuto. Era di Minsk, aveva trentasei anni, ed era tagliagole due volte. Nella prima metà della sua carriera era stato un tagliagole rispettabile: per quattro anni era stato il shokhèt, il macellaio rituale, della Comunità. Aveva superato l' esame prescritto, possedeva la licenza, ed era considerato un esperto nell' arte di mantenere affilato il coltello e di recidere con un solo colpo la trachea, l' esofago e le carotidi dell' animale. Ma poi (per colpa di una donna, si sussurrava) si era messo su una cattiva strada: aveva abbandonato la moglie e la casa, si era intruppato con la malavita locale, e, pur senza dimenticare il suo mestiere precedente e la preparazione teorica, era diventato bravo anche a tagliare le borse e a dare la scalata ai balconi. Aveva conservato il coltello rituale, lungo e con la punta ottusa; tuttavia, ad emblema del suo nuovo indirizzo, ne aveva spezzato obliquamente l' estremità, ricavandone una punta acuminata. Così modificato, il coltello si prestava anche ad altri usi. _ Una donna! Avanti una donna! _ gridò qualcuno con voce rauca di vodka. Si fece avanti Bella pettinandosi i capelli color della stoppa, ma Pavel, barcollando come un orso, la urtò con l' anca rimandandola nel cerchio degli spettatori, e riprese il suo posto. Non aveva ancora finito, e non si capiva se fosse ubriaco o fingesse soltanto. Questa volta era un rabbino chassidico; ubriaco, naturalmente, che snocciolava le preghiere del Sabato in preteso ebraico, di fatto in un russo da postribolo. Pregava a perdifiato, a velocità vertiginosa, perché (spiegò in un a parte) fra una stecca e l' altra non deve passare il porcellino: fra una parola sacra e l' altra non deve potersi far strada il pensiero profano. Questa volta gli applausi furono più moderati. Bella non si era arresa. Si accostò alle braci, levò in gesto grazioso la mano sinistra, pose la destra sul cuore e incominciò a cantare una romanza, "Si me ne andrò lontana"; ma non andò molto lontana, perché dopo poche battute la voce le si fece stridula e scoppiò a singhiozzare. Venne Gedale, la prese per mano e la condusse da parte. Da molte parti si faceva il nome di Dov. _ Vieni fuori, siberiano, _ gli disse Piotr, _ e raccontaci che cosa hai visto nella Grande Terra _. Gli fece seguito Pavel, che si era assunto il ruolo di maestro della festa: _ Ed ora, ecco per voi David Yavor, il più saggio fra noi, il più anziano e il più amato. Avanti, Dov, tutti ti vogliono vedere e ascoltare _. Era sorta la luna, quasi piena, e illuminava i capelli bianchi di Dov, che si avviò malvolentieri al centro dell' arena. Fece un riso timido e disse: _ Che cosa volete da me? Non so né cantare né ballare, e quello che ho visto a Kiev ve l' ho già raccontato troppe volte. _ Raccontaci di tuo nonno nichilista. _ Raccontaci della caccia all' orso al tuo paese. _ Raccontaci di quella volta che sei scappato dal treno dei tedeschi. _ Raccontaci della cometa _; ma Dov si schermì: _ Sono tutte cose che ho già raccontate, e non c' è noia più grande che ripetersi. Facciamo qualche gioco, invece; o qualche gara. _ La lotta! _ disse Piotr. _ Chi vuole misurarsi con me? Per qualche momento nessuno si mosse; poi ci fu una breve discussione fra Line e Leonid. Leonid intendeva accettare la sfida, e Line, per qualche motivo, cercava energicamente di dissuaderlo. Alla fine Leonid si svincolò; i due contendenti si sfilarono la giubba e gli stivali e si posero in guardia. Si afferrarono a vicenda per le spalle, cercando di ribaltarsi col gioco delle gambe; ruotarono più volte attorno, poi Leonid tentò di cingere Piotr alla vita e non ci riuscì. I due cani della banda abbaiavano inquieti, ringhiavano e rizzavano il pelo. Piotr, oltre che più forte di Leonid, era avvantaggiato dalle braccia più lunghe. Dopo una schermaglia confusa e non troppo corretta, Leonid cadde e Piotr gli fu subito sopra, facendogli toccare la terra con le spalle. Piotr salutò il pubblico con le mani levate, e si trovò davanti Dov. _ Che cosa vuoi, zio? _ chiese Piotr: era più alto di Dov di quasi tutta la testa. _ Lottare con te, _ rispose Dov, e si mise in guardia, ma con indolenza, con le mani che pendevano molli dai polsi, nell' atteggiamento che gli era abituale nei momenti di riposo. Piotr attese, perplesso. _ Ora ti insegno una cosa, _ disse Dov, e si fece sotto. Piotr arretrò tenendolo d' occhio. Il movimento di Dov, nel pallido chiarore della luna, non si distinse bene; si vide Dov tendere una mano e un ginocchio, abbassandosi leggermente, e Piotr vacillare sbilanciato e cadere sulla schiena. Si rialzò e si scosse via la polvere: _ Dove hai imparato questi colpi? _ chiese impermalito; _ te li hanno insegnati da militare? _ No, _ rispose Dov, _ me li ha insegnati mio padre _. Gedale disse che Dov avrebbe dovuto istruire tutta la banda in quel modo di lottare, e Dov rispose che lo avrebbe fatto volentieri, specialmente con le donne. Tutti risero, e Dov aggiunse che quella era la lotta dei Samoiedi: nel luogo dove lui era nato erano state deportate diverse famiglie di Samoiedi. _ Sono i russi che li hanno chiamati così, perché credevano che mangiassero carne umana: "Samo-jed" vuol dire "mangia-se-stesso", ma a loro questo nome non piace. Sono brava gente, e da loro si imparano molte cose; ad accendere il fuoco quando c' è il vento, a ripararsi dalla tormenta sotto un cumulo di fascine. Anche a guidare le slitte trainate dai cani. _ Questo, è meno facile che ci venga utile, _ osservò Piotr. _ Ma questo, invece, può servire, _ disse Dov. Dal cinturone che Piotr aveva deposto insieme con la giubba, estrasse il coltello; lo afferrò con le due dita per la punta, lo librò per un momento come per prendere la mira, poi lo scagliò contro il tronco di un acero, lontano otto o dieci metri. Il coltello volò volteggiando e si piantò profondo nel legno. Provarono altri, primo fra tutti Piotr, stupito e ingelosito, ma nessuno riuscì, neppure riducendo a metà la distanza dall' albero: nel migliore dei casi, il coltello colpiva il tronco col manico o di piatto e cadeva a terra. Gedale e Mendel non riuscirono neppure a centrare il tronco. _ Peccato che al posto dell' acero non ci fosse il Dottor Goebbels, _ disse Jòzek, che non aveva preso parte né allo spettacolo né ai giochi. Dov spiegò che per uccidere un uomo non va bene un coltello qualunque; ci vogliono coltelli speciali, sottili ma pesanti, e ben bilanciati. _ Capito, Jòzek? _ disse Gedale, _ tienilo a mente, la prossima volta che vai al mercato. Alcuni dormivano già quando Gedale prese il violino e cominciò a cantare; ma non cantava per essere applaudito. Cantava sommesso, lui che era così chiassoso quando parlava; altri gedalisti si unirono, alcune voci del coro erano armoniose ed altre meno, ma tutte erano convinte e risentite. Mendel e i suoi ascoltarono con stupore il ritmo, che era alacre, quasi di una marcia, e le parole, che erano queste: "Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all' offesa. Siamo i sarti, i copisti ed i cantori Appassiti nell' ombra della Croce. Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta, Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? I nostri fratelli sono saliti al cielo Per i camini di Sobibòr e di Treblinka, Si sono scavati una tomba nell' aria. Solo noi pochi siamo sopravvissuti Per l' onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall' Europa delle tombe: Saliamo insieme verso la terra Dove saremo uomini fra gli altri uomini. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?" Finito che ebbero di cantare, tutti si addormentarono avvolti nelle coperte; vegliarono solo le sentinelle, arrampicate sugli alberi ai quattro angoli dell' accampamento. Al mattino Mendel chiese a Gedale: _ Che cosa cantavate ieri sera? È il vostro inno? _ Chiamalo così se vuoi; ma non è un inno, è solo una canzone. _ L' hai composta tu? _ La musica è mia, ma cambia un poco, di mese in mese, perché non sta scritta da nessuna parte. Le parole invece non sono mie. Eccole, guarda, sono scritte qui. Dalla tasca interna della giubba Gedale cavò fuori un plico di tela incerata legato con uno spago. Lo disfece e ne estrasse un foglio quadrettato, sgualcito, intestato 13 Juni, Samstag. Era stato strappato senza garbo da un' agenda, ed era fittamente ricoperto di caratteri jiddisch tracciati a matita. Mendel lo prese, lo guardò con attenzione, poi lo rese a Gedale: _ Leggo a stento i caratteri stampati, e il corsivo non lo leggo affatto. L' ho dimenticato. Gedale disse: _ Io ho imparato a leggerlo tardi, nel '42, nel ghetto di Kossovo: in una occasione è servito come linguaggio segreto. A Kossovo c' era con noi Martin Fontasch. Di mestiere era carpentiere, si è guadagnato da vivere così fino alla fine, ma la sua passione era comporre canzoni. Faceva tutto da solo, le parole e la musica, ed era conosciuto in tutta la Galizia; si accompagnava con la chitarra, e cantava le sue canzoni ai matrimoni e alle feste di paese; qualche volta anche nei caffè concerto. Era un uomo pacifico e aveva quattro figli, ma è stato con noi nella rivolta del ghetto, è scappato con noi ed è venuto nel bosco, lui solo e non più giovane: tutti i suoi erano stati uccisi. Nella primavera dell' anno scorso eravamo dalle parti di Novogrudok e c' è stato un brutto rastrellamento; metà dei nostri sono morti combattendo, Martin è stato ferito ed è caduto prigioniero. Il tedesco che lo ha perquisito gli ha trovato in tasca un flauto: più che un flauto era un piffero, un giocattolo da quattro soldi che Martin si era fatto da sé intagliando un ramo di sambuco. Ora quel tedesco era un suonatore di flauto: ha detto a Martin che un partigiano si impicca e un ebreo si fucila, lui era ebreo e partigiano, e poteva scegliere. Però era anche un suonatore, e allora lui, essendo un tedesco che amava la musica, gli concedeva di esprimere un ultimo desiderio: ma che fosse un desiderio ragionevole. _ Martin chiese di comporre un' ultima canzone, e il tedesco gli concesse mezz' ora di tempo, gli diede questo foglio e lo chiuse in una cella. Trascorso il tempo, ritornò, si fece dare la canzone e lo uccise. È stato un russo che ci ha raccontato questa storia; da principio collaborava coi tedeschi , poi i tedeschi lo sospettarono di fare il doppio gioco e lo chiusero nella cella accanto a quella di Martin, ma riuscì ad evadere e rimase con noi qualche mese. Pare che il tedesco fosse fiero della canzone di Martin; la faceva vedere in giro come una curiosità e si riprometteva di farsela tradurre alla prima occasione. Ma non ha fatto in tempo. Noi lo tenevamo d' occhio, lo abbiamo seguito, lo abbiamo isolato, e una notte siamo entrati scalzi nell' isba requisita dove lui abitava. A me piace la giustizia e avrei voluto chiedergli qual era il suo ultimo desiderio, ma Mottel mi faceva fretta, così io l' ho strozzato nel suo letto. Gli abbiamo trovato addosso il flauto di Martin e la canzone: a lui non ha portato fortuna, ma per noi è come un talismano. Ecco, guarda qui: fin quaggiù è il testo che ci hai sentito cantare, e queste parole in fondo dicono così: "Scritto da me Martin Fontasch, che sto per morire. Sabato 13 giugno 1943". L' ultima riga non è in jiddisch ma in ebraico; sono parole che tu conosci, "Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è unico". _ Aveva composto molte altre canzoni, allegre e tristi; la più famosa l' aveva scritta molti anni prima che in Polonia arrivassero i tedeschi, in occasione di un pogrom: a quel tempo, a fare i pogrom ci pensavano i contadini. Quasi tutti i polacchi la conoscono, non solo gli ebrei, ma nessuno sa che l' ha composta Martin il carpentiere. Gedale rifece il plico e lo rimise in tasca: _ Adesso basta, pensieri come questi non sono per tutti i giorni. Vanno bene ogni tanto, ma se uno ci vive dentro se ne avvelena e non è più un partigiano. E tieni bene a mente che io credo in tre cose soltanto, alla vodka, alle donne e al parabellum. Una volta credevo anche nella ragione, ma adesso non più. Qualche giorno dopo Gedale decise che il riposo era durato abbastanza, ed era tempo di riprendere il cammino: _ ... ma questa è una banda aperta, e chi preferisce rimanere in Russia se ne può andare; senza le armi, s' intende. Può aspettare il fronte, o andare dove gli pare _. Nessuno scelse di lasciare la banda, e Gedale chiese a Piotr: _ Conosci questo paese? _ Abbastanza, _ rispose Piotr. _ Quanto è distante la ferrovia? _ Una dozzina di chilometri. _ Benissimo, _ disse Gedale. _ La prossima tappa la facciamo in treno. _ In treno? Ma tutti i treni sono scortati! _ disse Mendel. _ Ebbene, provare si può sempre. Con le scorte si ragiona _. A Gedale apparve più seria l' obiezione di Pavel: _ E il cavallo? Non vorrai mica abbandonarlo. Oltre a tutto ci serve, metà dei bagagli li porta lui. Gedale si rivolse di nuovo a Piotr: _ Che treni passano su questa linea? _ Treni merci, quasi tutti; a volte c' è a bordo anche qualche passeggero, gente che fa la borsa nera. Se portano materiale per i tedeschi, sono scortati, ma non è mai una grossa scorta: due uomini sulla locomotiva e due in coda. Tradotte militari di qui non ne passano mai. _ Qual è la stazione più vicina? _ È Kolki, quaranta chilometri a sud: è una piccola stazione. _ C' è il piano caricamento? _ Non lo so. Non ricordo. Intervenne Dov: _ Ma perché ci vuoi far prendere il treno? Gedale rispose con impazienza: _ E perché non dovremmo prenderlo? Camminiamo da più di mille chilometri; e la ferrovia è a due passi; e insomma io voglio entrare in terra polacca in una maniera che la gente si ricordi di noi. Ci pensò su un momento e aggiunse: _ Abbordare un treno in stazione è troppo pericoloso. Bisogna fermarlo in aperta campagna, ma allora il cavallo non può salire. Ecco, il grosso dei bagagli li prendiamo noi, tanto la tappa è breve; tu Pavel vai avanti col cavallo e ci aspetti a Kolki. Pavel non era convinto: _ E se non arrivate? _ Se non arriviamo ci vieni incontro col cavallo. _ E se il piano caricamento non c' è? Gedale scosse le spalle: _ E se, e se, e se! Solo i tedeschi prevedono tutto, ed è per questo che perdono le guerre. Se non c' è ci arrangeremo. Vedremo sul posto, il modo non ci mancherà. Parti, Pavel; ricordati che sei un contadino, e non farti vedere troppo nell' abitato. Da queste parti, i tedeschi i cavalli li requisiscono. Pavel partì al trotto, ma era ancora in vista quando il Tordo ricadde nel suo solenne passo abituale. Gedale e i suoi si misero in marcia e in poco più di due ore raggiunsero la ferrovia. Era a un solo binario, e tagliava la prateria da un orizzonte all' altro diritta come un raggio di luce. È facile confondere la speranza con la probabilità. Tutti si aspettavano che il treno venisse da nord e fosse diretto al confine polacco; dopo qualche ora di attesa lo videro invece arrivare da sud. Era un merci e viaggiava lentamente. Gedale fece appostare uomini armati dietro i cespugli ai due lati dei binari, poi, in maniche di camicia e disarmato, si pose fra le rotaie sventolando uno straccio rosso. Il treno rallentò e si fermò, e dalla cabina di guida incominciarono immediatamente a sparare. Gedale scattò via in un lampo e si defilò dietro un nocciolo; tutti gli altri risposero al fuoco. Mendel, mentre anche lui sparava cercando di centrare le feritoie della locomotiva, ammirò la preparazione militare dei gedalisti. Da quanto aveva visto delle loro maniere fino a quel momento, si sarebbe aspettato che fossero spericolati, come infatti erano; ma non aveva previsto la precisione e l' economia del loro fuoco, e la tecnica corretta con cui si erano disposti. Sarti, copisti e cantori, diceva la loro canzone: ma avevano imparato presto e bene il loro nuovo mestiere. L' inesperto e lo spaurito si riconoscono subito, perché cercano il riparo massiccio, la roccia o il grosso tronco, che proteggono sì, ma impediscono di spostarsi e di sparare senza esporre il capo. Invece tutti si erano appiattati dietro cespugli folti, e sparavano attraverso le foglie, spostandosi spesso per disorientare l' avversario. Anche la scorta del treno, al riparo delle lamiere, sparava preciso e fitto: dovevano essere almeno quattro uomini, e non facevano economia di munizioni. Nel vagone di coda, invece, non c' era difesa. Mendel vide a un tratto Mottel balzare fuori ed avventarsi al convoglio. In un attimo si arrampicò sul tetto dell' ultimo vagone; lassù era al riparo, e del resto dalla cabina non lo avevano visto. Aveva appesa alla cintura una granata a mano tedesca, di quelle a forma di clava, che esplodono a tempo, e correva verso la locomotiva di vagone in vagone, saltando le giunzioni. Quando fu sul tetto del primo vagone lo si vide strappare l' innesco della granata e aspettare qualche secondo; poi, con la granata stessa, ruppe il vetro del lunotto della cabina e lasciò cadere la granata nell' interno. Ci fu l' esplosione ed il fuoco cessò. Nella cabina trovarono che i tedeschi della scorta erano solo tre; uno era ancora vivo, e Gedale lo finì senza esitare. Anche il macchinista e il fuochista erano morti; peccato, disse Gedale, loro non c' entravano e ci sarebbero stati utili: beh, chi serve i tedeschi ha dei rischi e lo sa. Faceva il broncio come un bambino. L' iniziativa di Mottel era stata brillante ma aveva guastato i suoi piani: _ E chi la fa muovere, adesso? Chissà la tua bomba che guai ha combinato sulle leve di comando; e oltre a tutto bisogna invertire la marcia. _ Tu, comandante, sei una testa dura e non sei mai contento, _ disse Mottel che si aspettava un elogio. _ Io ti regalo un treno e tu mi critichi. Un' altra volta voi andate all' attacco e io accendo la pipa. Gedale non gli diede ascolto, e disse a Mendel di salire in cabina e di vedere se se la cavava a rimettere la macchina in moto. Altri uomini intanto stavano ispezionando il convoglio. Ritornarono delusi: non portava roba pregiata, solo sacchi di cemento, calce e carbone. Gedale fece sgomberare dal cemento due vagoni coperti, per gli uomini e per il cavallo: non aveva abbandonato l' idea della scampagnata ferroviaria. Era molto eccitato; ordinò di tagliare tutti i sacchi col coltello, poi ci ripensò e ne fece accatastare un buon numero fra i binari davanti alla motrice: _ Con meno fretta si sarebbe potuto fare un buon lavoro; ma anche così, con un po' di pioggia e un po' di fortuna, farà un bel blocco _. Poi salì in cabina da Mendel: _ Allora? Che cosa mi sai dire? _ Una locomotiva non è un orologio, _ rispose Mendel seccato. _ Nu, sempre ingranaggi sono, e la tua non è una risposta. Una locomotiva non è un orologio, e un orologiaio non è un ferroviere, e un bue non è un porco, e uno come me non è un capobanda, ma fa il capobanda e lo fa meglio che può; anzi, fa il capobandito _. Qui Gedale rise, di quel suo riso facile che rischiarava l' aria in un attimo. Rise anche Mendel: _ Adesso scendi, che proviamo. Gedale scese e Mendel armeggiò fra i comandi. _ Attento, ora do il vapore _. Il fumaiolo sbuffò, i respingenti gemettero, e il convoglio si spostò a ritroso di qualche metro; tutti gridarono "urrà", ma Mendel disse: _ C' è ancora pressione in caldaia, ma durerà poco. Non basta il macchinista, ci vuole anche il fuochista _. Quanto erano efficienti i gedalisti nel combattimento, altrettanto erano confusionari nelle scelte di pace. Nessuno voleva fare il fuochista; dopo un' intricata discussione, a Mendel fu assegnata come aiutante una donna, che però era forte come un uomo: Ròkhele Nera, che doveva scontare una punizione perché diversi giorni prima, nel corso della pulizia delle armi, aveva smarrito la molla di un moschetto. Si chiamava Ròkhele Nera per distinguerla da Ròkhele Bianca: era scura in viso come una zingara, magra e svelta. Aveva gambe lunghissime, lungo anche il collo, che reggeva un piccolo viso triangolare illuminato dagli occhi ridenti ed obliqui. Portava i capelli neri raccolti in una crocchia. Era anche lei una veterana di Kossovo, benché avesse poco più di vent' anni. Ròkhele Bianca invece era una creatura semplice e mite, che non parlava quasi mai, e quando parlava lo faceva con voce così bassa che si stentava a capirla. Per questi motivi nessuno sapeva nulla di lei, né lei sembrava desiderosa di far sapere qualcosa a qualcuno: seguiva passivamente il cammino della banda, obbediva a tutti e non protestava mai. Veniva da un remoto villaggio della Galizia ucraina. Mendel mostrò alla Nera come doveva fare per alimentare la caldaia, tutti gli altri salirono sui due vagoni liberi e il treno si mosse, spinto invece che trainato. Mendel bloccò la manetta del vapore su una velocità molto bassa, perché dalla cabina non poteva vedere la via. Jòzek si era installato col mitra nell' abitacolo del frenatore, sull' ultimo vagone che ora era il primo, e faceva da battistrada; ogni tanto si sporgevano entrambi, e Jòzek segnalava a Mendel se la via era libera. La fuochista rideva come a un gioco e impalava carbone con entusiasmo infantile; in breve fu tutta sudata, e nera sul serio, da capo a piedi, tanto che occhi e denti brillavano come fanali nel buio. Mendel, invece, non si divertiva affatto. La soddisfazione per aver domato quel bestione meccanico si spense presto; il sangue sul pavimento di lamiera lo metteva a disagio, si sentiva inquieto per quella marcia fatta quasi alla cieca, e l' intera impresa gli sembrava una follia gratuita e un' imprudenza estrema. Non capiva quali lontane intenzioni avesse Gedale. A metà strada si dovette convincere che Gedale aveva raramente intenzioni lontane, e preferiva improvvisare: si era sporto dal vagone e gli faceva cenno di fermare. Fermò, e scesero tutti e due. _ Senti, orologiaio, mi è venuto in mente che sarebbe bene danneggiare questo treno più che possiamo. Che cosa si può fare? _ Qui, proprio niente, _ rispose Mendel. _ Se andassimo per diritto invece che a rovescio, potremmo sganciare i vagoni e bloccarli in qualche modo, ma così è un altro discorso. Ecco, il solo lavoro che si può fare è di ribaltare le sponde dei vagoni scoperti; così, con le scosse, tutta la calce e il carbone finiranno sparsi sulla scarpata. _ E i vagoni stessi e la locomotiva? _ Ci penseremo dopo, _ disse Mendel. _ Quando tu ne avrai avuto abbastanza. Gedale ignorò la provocazione, mandò tre uomini a ribaltare le sponde, e il treno ripartì seminando allegramente il materiale dai due lati. Arrivarono a Kolki nel primo pomeriggio, e i vagoni erano quasi vuoti: Pavel col cavallo li aspettava sul piano caricamento. Nella stazioncina non c' era nessuno, salvo il capostazione, che però vide il mitragliatore in mano a Jòzek, fece una specie di saluto militare e si ritirò. Mendel frenò, caricò in un istante Pavel e il Tordo, e ripartì. Gedale era felice, e fece segno a Mendel di andare avanti, e più in fretta: "A Sarny! A Sarny!" Al di sopra dello strepito della macchina, dai due vagoni arrivavano fino a Mendel grida e canti, e i nitriti di Tordo spaventato. Poco dopo fu Mendel che prese l' iniziativa di fermare il treno presso un fiumiciattolo che solcava la steppa disabitata. Non solo per riposarsi e per dar modo a Ròkhele di lavarsi un poco, ma anche per avvisare che l' acqua del serbatoio stava per finire. Tutti si misero al lavoro, facendo la spola al fiume con i pochi recipienti disponibili: qualche pentola di cucina e un secchio trovato sulla motrice. L' operazione andava per le lunghe, e Mendel ne approfittò per ascoltare Pavel, che stava raccontando quanto aveva visto a Kolki. _ Non abbiamo corso nessun rischio, né il cavallo né io. Nessuno si è occupato di noi né ci ha rivolto la parola, eppure credo proprio che nessuno mi abbia preso per un contadino. Tedeschi non ne ho visti; ci devono pur essere, perché davanti al municipio c' erano i loro manifesti di propaganda, ma in strada non si fanno vedere. La gente non ha più paura di parlare, o ne ha meno di prima; sono entrato in un' osteria, c' era la radio accesa, e la voce era quella di Radio Mosca: diceva che i russi hanno ripreso la Crimea, che tutte le città tedesche sono bombardate di giorno e di notte, e che in Italia gli alleati sono alle porte di Roma. Ah, come è bello passeggiare nelle strade di un paese, vedere i balconi con i vasi di fiori, le insegne dei negozi, le finestre con le tendine! Guardate che cosa vi ho portato: l' ho staccato io dal muro, ce n' è su tutte le cantonate. Pavel mostrava in giro un manifesto, stampato in grossi caratteri su brutta carta gialliccia, in russo e in polacco. Diceva: "Non lavorate per i tedeschi, non date loro informazioni. Chi fornirà grano ai tedeschi verrà ucciso. Lettore, ti stiamo spiando; se strappi questo manifesto ti spareremo". _ E tu lo hai strappato? _ chiese Mottel. _ Non l' ho strappato, l' ho staccato: è un' altra cosa. L' ho staccato con rispetto, chiunque si sarebbe accorto che lo portavo via per farlo vedere a qualcuno; e difatti non mi hanno sparato. Vedete? è firmato dal Reggimento Stella Rossa: comandano loro. _ Comandiamo anche noi, _ interruppe Gedale con impeto. _ Entreremo a Sarny a modo nostro: in modo da farci ricordare. Chi conosce Sarny? La conosceva Jòzek, che ci aveva fatto il servizio militare nell' esercito polacco: una cittadina modesta, forse ventimila abitanti. Qualche fabbrica, una filanda e un' officina per la riparazione del materiale ferroviario. La stazione? Jòzek la conosceva benissimo perché ci era stato di presidio poco prima che scoppiasse la guerra; Sarny era l' ultima città polacca prima della frontiera, i russi ci erano entrati senza combattere, subito dopo l' inizio delle ostilità. Era una stazione abbastanza importante, perché ci passava la linea per Lublino e Varsavia, e per via dell' officina di riparazioni. C' era un gran capannone e una piattaforma girevole, appunto per avviare le locomotive all' officina. Gedale si illuminò, e disse a Mendel: _ La tua macchina farà una fine gloriosa _. Mendel disse che sperava di non farla anche lui. Gedale fece fermare il treno a notte, all' imbocco dello smistamento, e fece scendere tutti dai vagoni. Il cavallo, impaurito dal buio, si imbizzarrì: rifiutava di scendere, tentava di inalberarsi, nitriva convulso e scalciava contro la parete di fondo del vagone. Lo tirarono e spinsero, alla fine si decise a saltare, ma atterrò malamente rompendosi una zampa anteriore; Pavel si allontanò senza dire parola, e Gedale lo finì sparandogli nella nuca. Anche la stazione di Sarny sembrava deserta: nessuno reagì allo sparo. Gedale disse a Mendel di spingere i vagoni su un binario laterale, e a Jòzek e Pavel di andare avanti cauti, e di deviare gli scambi in direzione della piattaforma; tornarono a lavoro compiuto, e riferirono che il ponte della piattaforma era in posizione trasversale rispetto al binario di arrivo: benissimo, disse Gedale. Avrebbe mandato la locomotiva a fracassarsi nella fossa della piattaforma, l' officina sarebbe rimasta bloccata per almeno un mese. _ Non sei convinto, orologiaio? Ti ci sei affezionato, eh? Un poco anch' io, ma ad andare più avanti non mi fido, e non la voglio regalare ai tedeschi. E ti dirò una cosa che ho imparata nei boschi: le imprese che riescono meglio sono quelle che il tuo nemico non crede che tu possa fare. Su, spingi via i vagoni, metti in moto la macchina e salta giù. Mendel obbedì. La locomotiva senza equipaggio sparì nel buio, visibile soltanto per le faville che scaturivano dal fumaiolo. Tutti aspettarono col fiato sospeso; pochi minuti dopo si udì un fracasso di lamiere sfondate, un rombo di tuono, e un sibilo acuto che andò estinguendosi lentamente. Ululò una sirena d' allarme, si sentirono voci concitate, i gedalisti fuggirono in silenzio verso la campagna. Mentre camminava a tentoni, nel buio dell' oscuramento, inciampando nelle rotaie e nei cavi, ronzavano nella testa di Mendel, incongrue, le parole della benedizione dei miracoli: "Benedetto sii Tu o Signore Dio nostro, re del mondo, che hai fatto per noi un miracolo in questo luogo". In questo modo la banda di Gedale segnò il suo ingresso nel mondo abitato.

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Storie naturali

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Levi, Primo 1 occorrenze

Montesanto raccontava; della sua spietata iniziazione professionale, sui campi e nelle trincee dell' altra guerra; del suo tentativo di carriera universitaria, intrapreso con entusiasmo, continuato con apatia ed abbandonato tra l' indifferenza dei colleghi, che aveva fiaccato tutte le sue iniziative; del suo volontario esilio nella condotta sperduta, alla ricerca di qualcosa di troppo mal definibile per poter mai venire trovato; e poi la sua vita attuale di solitario, straniero in mezzo alla comunità di piccola gente spensierata, buona e cattiva, ma per lui irreparabilmente lontana; il prevalere definitivo del passato sul presente, ed il naufragio ultimo di ogni passione, salvo la fede nella dignità del pensiero e nella supremazia delle cose dello spirito. "Strano vecchio", pensava Morandi; aveva notato che da quasi un' ora l' altro aveva parlato senza guardarlo in viso. Dapprima aveva tentato a varie riprese di condurlo su di un piano più concreto, di domandargli dello stato sanitario della condotta, dell' attrezzatura da rinnovare, dell' armadietto farmaceutico, e magari anche della propria sistemazione personale; ma non vi era riuscito, per timidezza e per un più meditato ritegno. Ora Montesanto taceva, col viso rivolto al soffitto e lo sguardo accomodato all' infinito. Evidentemente il soliloquio continuava nel suo interno. Morandi era imbarazzato: si domandava se era o no attesa una sua replica, e quale, e se il medico si accorgeva ancora di non essere solo nello studio. Se ne accorgeva. Lasciò ricadere d' un tratto la sedia sui quattro piedi, e con una curiosa voce sforzata disse: _ Morandi, lei è giovane, molto. So che lei è un buon medico, o meglio lo diverrà: penso che lei sia anche un uomo buono. Nel caso che lei non sia abbastanza buono per comprendere quello che le ho detto e quello che le dirò ora, spero che lo sia abbastanza almeno per non riderne. E se ne riderà, non sarà gran male: come lei sa, difficilmente ci incontreremo ancora; del resto, è nell' ordine delle cose che i giovani ridano dei vecchi. Soltanto la prego di non dimenticare che sarà lei il primo a sapere di queste mie cose. Non voglio adularla dicendole che lei mi è sembrato particolarmente degno della mia confidenza. Sono sincero: lei è la prima occasione che mi si presenta da molti anni, e probabilmente sarà anche l' ultima. _ Mi dica, _ fece Morandi semplicemente. _ Morandi, ha mai notato con quale potenza certi odori evochino certi ricordi? Il colpo giungeva imprevisto. Morandi deglutì con sforzo; disse che lo aveva notato, e possedeva anche un tentativo di teoria esplicativa in proposito. Non si spiegava il cambiamento di tema. Concluse fra sé che, in definitiva, non doveva trattarsi che di un "pallino", come tutti i medici ne hanno, superata una certa età. Come Andriani: a sessantacinque anni, ricco di fama, di quattrini e di clientela, era arrivato ancora in tempo per coprirsi di ridicolo con la storia del campo neurico. L' altro aveva afferrato con le due mani gli spigoli della scrivania, e guardava il vuoto corrugando la fronte. Poi riprese: _ Le mostrerò qualcosa di inconsueto. Durante gli anni del mio assistentato in farmacologia ho studiato abbastanza a fondo l' azione degli adrenalinici assorbiti per via nasale. Non ne ho cavato nulla di utile all' umanità, ma un solo frutto, come vedrà piuttosto indiretto. _ Alla questione delle sensazioni olfattive, e dei loro rapporti con la struttura molecolare, ho dedicato anche in seguito molto del mio tempo. Si tratta, a mio parere, di un campo assai fecondo, ed aperto anche a ricercatori dotati di mezzi modesti. Ho visto con piacere, ancora di recente, che qualcuno se ne occupa, e sono al corrente anche delle vostre teorie elettroniche, ma il solo aspetto della questione che ormai mi interessa è un altro. Io posseggo oggi quanto credo nessun altro al mondo possegga. _ C' è chi non si cura del passato, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti. C' è chi, invece, del passato è sollecito, e si rattrista del suo continuo svanire. C' è ancora chi ha la diligenza di tenere un diario, giorno per giorno, affinché ogni sua cosa sia salvata dall' oblio, e chi conserva nella sua casa e sulla sua persona ricordi materializzati; una dedica su un libro, un fiore secco, una ciocca di capelli, fotografie, vecchie lettere. _ Io, per mia natura, non posso pensare che con orrore all' eventualità che anche uno solo dei miei ricordi abbia a cancellarsi, ed ho adottato tutti questi metodi, ma ne ho anche creato uno nuovo. _ No, non si tratta di una scoperta scientifica: soltanto ho tratto partito dalla mia esperienza di farmacologo ed ho ricostruito, con esattezza e in forma conservabile, un certo numero di sensazioni che per me significano qualcosa. _ Questi (le ripeto, non pensi che io ne parli sovente) io chiamo mnemagoghi: "suscitatori di memorie" Vuol venire con me? Si alzò e si diresse lungo il corridoio. A metà si volse e aggiunse: _ Come lei può immaginare, vanno usati con parsimonia, se non si vuole che il loro potere evocativo si attenui; inoltre non occorre che le dica che sono inevitabilmente personali. Strettissimamente. Si potrebbe anzi dire che sono la mia persona, poiché io, almeno in parte, consisto di essi. Aprì un armadio. Si vide una cinquantina di boccette a tappo smerigliato, numerate. _ Prego, ne scelga una. Morandi lo guardava perplesso; tese una mano esitante e scelse una boccetta. _ Apra e odori. Che cosa sente? Morandi inspirò profondamente più volte, prima con gli occhi su Montesanto, poi alzando la testa nell' atteggiamento di chi interroga la memoria. _ Questo mi sembrerebbe odore di caserma _. Montesanto odorò a sua volta. _ Non esattamente, _ rispose, _ o almeno, non così per me. È l' odore delle aule delle scuole elementari; anzi, della mia aula della mia scuola. Non insisto sulla sua composizione; contiene acidi grassi volatili e un chetone insaturo. Comprendo che per lei non sia niente: per me è la mia infanzia. _ Conservo pure la fotografia dei miei trentasette compagni di scuola di prima elementare, ma l' odore di questa boccetta è enormemente più pronto nel richiamarmi alla mente le ore interminabili di tedio sul sillabario; il particolare stato d' animo dei bambini (di me bambino!) nell' attesa terrificante della prima prova di dettato. Quando lo odoro (non ora: occorre naturalmente un certo grado di raccoglimento), quando lo odoro, dunque, mi si smuovono i visceri come quando a sette anni aspettavo di essere interrogato. Vuol scegliere ancora? _ Mi sembra di ricordare ... attenda .... Nella villa di mio nonno, in campagna, c' era una cameretta dove si metteva la frutta a maturare .... _ Bravo, _ fece Montesanto con sincera soddisfazione. _ Proprio come dicono i trattati. Ho piacere che lei si sia imbattuto in un odore professionale; questo è l' odore dell' alito del diabetico in fase acetonemica. Con un po' più d' anni di pratica certo ci sarebbe arrivato lei stesso. Sa bene, un segno clinico infausto, il preludio del coma. _ Mio padre morì diabetico, quindici anni fa; non fu una morte breve né misericordiosa. Mio padre era molto per me. Io lo vegliai per innumerevoli notti, assistendo impotente al progressivo annullamento della sua personalità; non furono veglie sterili. Molte mie credenze ne furono scosse, molto del mio mondo mutò. Per me, non si tratta dunque di mele né di diabete, ma del travaglio solenne e purificatore, unico nella vita, di una crisi religiosa. _ ... Questo non è che acido fenico! _ esclamò Morandi odorando una terza boccetta. _ Infatti. Pensavo che anche per lei questo odore volesse dire qualcosa; ma già, non è ancora un anno che lei ha terminato i turni d' ospedale, il ricordo non è ancora maturato. Perché avrà notato, non è vero? che il meccanismo evocatore di cui stiamo parlando esige che gli stimoli, dopo aver agito ripetutamente, collegati ad un ambiente o ad uno stato d' animo, cessino poi di agire per un tempo piuttosto lungo. Del resto è di osservazione comune che i ricordi, per essere suggestivi, devono avere il sapore dell' antico. _ Anch' io ho fatto i turni di ospedale ed ho respirato acido fenico a pieni polmoni. Ma questo è avvenuto un quarto di secolo fa, e del resto da allora il fenolo ha ormai cessato di costituire il fondamento dell' antisepsi. Ma al mio tempo era così: per cui oggi ancora non posso odorarlo (non quello chimicamente puro: questo, a cui ho aggiunto tracce di altre sostanze che lo rendono specifico per me) senza che mi sorga in mente un quadro complesso, di cui fanno parte una canzone allora in voga, il mio giovanile entusiasmo per Biagio Pascal, un certo languore primaverile alle reni e alle ginocchia, ed una mia compagna di corso, che, ho saputo, è divenuta nonna di recente. Questa volta aveva scelto lui stesso una boccetta; la porse a Morandi: _ Di questo preparato le confesso che provo tuttora una certa fierezza. Quantunque non ne abbia mai pubblicato i risultati, considero questo un mio vero successo scientifico. Vorrei sentire la sua opinione. Morandi odorò con ogni cura. Certo non era un odore nuovo: lo si sarebbe potuto chiamare arso, asciutto, caldo .... _ ... Quando si battono due pietre focaie ...? _ Sì, anche. Mi congratulo con lei per il suo olfatto. Si sente questo odore in alta montagna quando la roccia si riscalda al sole; specialmente quando si produce una caduta di sassi. Le assicuro che non è stato facile riprodurre in vetro e rendere stabili le sostanze che lo costituiscono senza alterarne le qualità sensibili. _ Un tempo andavo spesso in montagna, specialmente da solo. Quando ero giunto in cima, mi coricavo sotto il sole nell' aria ferma e silenziosa, e mi pareva di aver raggiunto uno scopo. In quei momenti, e solo se vi ponevo mente, percepivo questo leggero odore, che è raro sentire altrove. Per quanto mi riguarda, lo dovrei chiamare l' odore della pace raggiunta. Superato il disagio iniziale, Morandi stava prendendo interesse al gioco. Sturò a caso una quinta boccetta e la porse a Montesanto: _ E questa? Emanava un leggero odore di pelle pulita, di cipria e di estate. Montesanto odorò, ripose la boccetta e disse breve: _ Questo non è un luogo né un tempo. È una persona. Richiuse l' armadio; aveva parlato in tono definitivo. Morandi preparò mentalmente alcune espressioni di interesse e di ammirazione, ma non riuscì a superare una strana barriera interna e rinunciò ad enunciarle. Si congedò frettolosamente con una vaga promessa di una nuova visita, e si precipitò giù dalle scale e fuori nel sole. Sentiva di essere arrossito intensamente. Dopo cinque minuti era fra i pini, e saliva furiosamente per la massima pendenza, calpestando il sottobosco morbido, lontano da ogni sentiero. Era molto gradevole sentire i muscoli, i polmoni e il cuore funzionare in pieno, così, naturalmente, senza bisogno di intervenire. Era molto bello avere ventiquattro anni. Accelerò il ritmo della salita quanto più poté, finché sentì il sangue battergli forte dentro le orecchie. Poi si sdraiò sull' erba, cogli occhi chiusi, a contemplare il bagliore rosso del sole attraverso le palpebre. Allora si sentì come lavato a nuovo. Quello era dunque Montesanto .... No, non occorreva fuggire, lui non sarebbe diventato così, non si sarebbe lasciato diventare così. Non ne avrebbe parlato con nessuno. Neppure con Lucia, neppure con Giovanni. Non sarebbe stato generoso. Per quanto, in fondo, ... soltanto con Giovanni ... ed in termini del tutto teoretici .... Esisteva mai qualcosa di cui non si potesse parlare con Giovanni? Sì, a Giovanni ne avrebbe scritto. Domani. Anzi (guardò l' ora), subito; la lettera sarebbe forse ancora partita con la posta della sera. Subito.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Quanto a Hans Castorp, in questi mesi è lui il centro dei pettegolezzi dell' intero Parco: ha abbandonato la Signora Chauchat, con cui conviveva dal 1925, ha avuto una breve avventura con la Signora delle Camelie, e adesso si è accasato con Madonna Laura. Gli sono sempre piaciute le francesi. Antonio stava ad ascoltare, percorso da emozioni varie e discordi. Il racconto di James lo affascinava come una fiaba, e insieme risvegliava in lui un prepotente interesse professionale (a corto di idee com' era, questo Parco Nazionale avrebbe fatto una stupenda novella), e insieme ancora provava soddisfazione ed intimo compiacimento: quel James Collins era simpatico, era vivo al di là di ogni dubbio, parlava con precisione e coerenza, ed era pure opera sua, a dispetto di certe discrepanze nella figura fisica. Era lui che lo aveva tratto dal nulla, come un figlio, anzi, più di un figlio, perché di una moglie non aveva avuto bisogno: e adesso era lì davanti a lui, vicino e caldo, e gli parlava da pari a pari. Gli venne voglia di ricominciare subito, di rimettersi di buona lena a scrivere racconti, e di spararne giù altri a bizzeffe, altri dieci o venti o cinquanta personaggi, che poi venissero come James a tenergli compagnia, e a dargli conferma del suo vigore e della sua fecondità. Poi ricordò di non aver ancora formulato la domanda che gli frugava dentro fin dall' inizio della visita: ma non c' era da stupirsi, perché James aveva parlato quasi senza interruzioni, e non sembrava un tipo a cui fosse facile tagliare la parola in bocca. Gli versò da bere, e mentre beveva disse: _ Lei però non mi ha ancora raccontato perché è qui. Non dev' essere un avvenimento tanto frequente, che un personaggio esca dal Parco per venire a trovare il suo autore: io, di autori e di personaggi ho ormai una certa pratica, ma di un fatto del genere non avevo mai sentito parlare. James prese la cosa un po' alla lontana: _ Bisogna che prima le parli degli ambigeni. Se lei ci pensa, la nostra categoria non è poi così ben definita: ci sono molti casi in cui il soggetto è persona e personaggio insieme. Noi li chiamiamo ambigeni, e c' è una commissione che decide se devono essere ammessi al Parco o no. Prenda per esempio il caso di Orlando, sì, quello di Roncisvalle: è storicamente provata la sua esistenza reale, ma il personaggio prevale in tale misura sulla persona, che è stato accettato al Parco senza discussione. Lo stesso è avvenuto per Robinson Crusoe e per Fedone. Per san Pietro e per Riccardo I I I c' è stata qualche controversia; invece, per fortuna di tutti, Napoleone, Hitler e Stalin sono stati bocciati. _ È interessante, _ disse Antonio, _ ma non vedo ancora il rapporto fra la sua visita, il Parco, e questa storia degli ambigeni. _ Le spiego subito: è che ... lei è un ambigeno. _ Io? _ Lei, sì. L' ho reso ambigeno io. Ho scritto dei racconti (eccoli qui, in questa busta) che hanno lei come protagonista. Non per ritorsione, e neppure per gratitudine: semplicemente, laggiù ho molto tempo libero (tutte le sere: sa bene, là non c' è una grande vita notturna, non c' è neppure la luce elettrica), e lei mi interessava, la conoscevo bene, così ho scritto di lei. Spero che non le dispiaccia. _ Episodi veri? _ chiese Antonio deglutendo. _ Beh, sostanzialmente sì. Un po' arrotondati: lei che è del mestiere sa cosa intendo dire. Ecco qui: In crociera, Antonio e Matilde .... _ Un momento! Che cosa ci faccio, o, con questa Matilde? Io sono sposato, e lei lo sa, e sa anche che non ho mai avuto niente da spartire con nessuna Matilde, né prima del matrimonio né dopo. _ Ma, mi scusi, lei che cosa ha fatto con me? Non ha scritto tutto quello che ha voluto? _ Sicuro, ma io ... insomma, io esisto e lei no. Lei, l' ho creata io, dalla prima pagina all' ultima, mentre io ero vivo anche prima, e lo posso dimostrare. Basta una telefonata all' anagrafe. _ Non le sembra che esista anch' io? _ disse cinicamente James. _ Non vedo che cosa conti l' anagrafe, un polpettone di burocrati e di cartaccia: quello che conta, sono le testimonianze, e lei ne ha scritto un bel numero con le sue stesse mani, e, per comune consenso, sono valide. Le sarebbe disagevole dimostrare che James Collins non esiste, dopo di aver impiegato 500 pagine e due anni per dimostrare che esiste. Quanto poi a quella Matilde, sta tranquillo, non intendo farle del male né metterla in imbarazzo; anzi, è questa appunto una delle ragioni per cui sono qui: questi racconti glieli vorrei far leggere, così lei taglia quello che non le va. Ma non mi venga a dire che lei è libero di fare di me quello che vuole, e io di lei no: questo è un sofisma bello e buono. Io sono vincolato a fare di lei un personaggio coerente con la sua persona, ma lei anche lo era, una volta che mi ha concepito: ebbene, è sicuro, lei, della sua coerenza nei miei riguardi? Non le è mai nato il dubbio se le fosse lecito o no farmi morire in quel bel modo (sì, morfinomane in preda ad un accesso: non finga di averlo dimenticato), quando fino a metà del libro mi aveva descritto come un giovane sano, equilibrato e padrone di sé? Lei aveva tutti i diritti di farmi morire per droga, ma allora ci doveva pensare prima, scusi se glielo dico così apertamente: e se proprio le premeva liberarsi di me, poteva farmi morire in dieci altri modi meno arbitrari. Tutto questo non per polemizzare, ma per convincerla che siamo pari. _ In conclusione: qui ci sono i manoscritti, se gli vuole dare un' occhiata. Come ho cercato di dimostrarle, non sarei tenuto a sottoporglieli, ma lo faccio ugualmente, per sua tranquillità e perché tengo al suo giudizio: se c' è da tagliare, taglierò. Ho avuto per questo una licenza di tre giorni più due: non la dànno che in casi rari, per esempio a personaggi che hanno subìto dai loro autori offese gravi, e intendono chiedergliene conto. Ma, per quanto ne so, il mio caso è unico: benché molti scrivano, laggiù, a nessuno era ancora venuto in mente di scrivere sul proprio autore. _ Devo leggerli qui, in sua presenza? _ chiese Antonio preoccupato. _ Sì, preferirei. Non sono lunghi, in tre orette se la cava. Sa, ho fretta di avere un suo giudizio, e ho poco tempo: poi vorrei chiedere un appuntamento al suo editore. Urtato dall' improntitudine di quest' ultima frase, Antonio diede inizio alla lettura, mentre l' altro beveva, fumava e scrutava sul suo viso le tracce di un' opinione. Si accorse fin dalle prime pagine che quei racconti erano deboli, e ne trasse sollievo, perché non aveva voglia di finire nel Parco. No, non c' era alcun pericolo: che James Collins lo definisse pure un ambigeno, ma non c' era confronto fra la pienezza della sua vita vera e le favole confuse ed inconsistenti che James gli aveva costruite intorno. Nessuna commissione avrebbe esitato: oltre a tutto, poi, un personaggio come quello, non che diventare immortale, sarebbe svanito nel giro di una stagione editoriale. Lesse tutti i racconti, confermandosi nel suo giudizio iniziale; poi li rese a James, e gli disse apertamente quello che pensava. _ Io le consiglierei di non continuare a scrivere. Ha un altro mestiere, non è vero? Ebbene, le darà di certo più soddisfazioni di questo. Non lo dico per me, né per l' altro Antonio che lei ha cercato di costruire: lo dico per lei. Lei è un inventore: bene, abbandoni le ambizioni letterarie e faccia l' inventore. Vada pure dall' editore, se crede, ma vedrà che le dice quello che le ho detto io. James ci rimase molto male. Raccattò i manoscritti, salutò seccamente e se ne andò. Questo episodio segnò un punto cruciale nella carriera di Antonio Casella. Non subito, ma molti anni dopo, quando già i capelli gli si erano fatti bianchi, e i fogli davanti a lui sempre più si ostinavano a rimanere bianchi come i suoi capelli, le sue opinioni e le sue aspirazioni si fecero diverse. Incominciò a pensare che un posto nel Parco, specie se unito ad una ragionevole speranza di immortalità, non gli sarebbe dispiaciuto: ma sapeva bene che, per questo scopo, non poteva contare sui suoi confratelli, e tanto meno sui suoi personaggi. Perciò concepì l' idea di fare da sé: di scrivere la propria autobiografia, e di scriverla così ricca, viva e colorata da estinguere ogni dubbio della commissione. Chiamò a raccolta tutte le sue forze, e si accinse al lavoro. Lavorò per tre anni, senza gioia, ma con diligenza e tenacia: si dipinse volta a volta audace e cauto, intraprendente e sognatore, arguto e malinconico, magnanimo ed astuto; accumulò insomma nel suo altro io tutte le virtù che non aveva saputo costruire dentro di sé nella sua vita reale. Creò un mondo più vero del vero, al cui centro stava lui, soggetto di avventure splendide, spesso e intensamente sognate, mai osate; pagina su pagina, pietra su pietra, si murò intorno un edificio armonioso e solido, fatto di viaggi, di amori, di combattimenti e di scoperte: una vita piena e molteplice, quale nessun uomo aveva mai vissuta. Limò, corresse, aggiunse e filtrò per altri sei mesi, finché non si sentì intimamente contento, e sicuro di ogni foglio e di ogni parola. Non erano passate due settimane dal giorno in cui aveva consegnato il manoscritto all' editore, quando si presentarono alla sua porta due funzionari del Parco. Portavano un berretto di foggia quasi militare, e vestivano una uniforme grigia, elegante e sobria. Erano gentili, ma avevano fretta: non concessero ad Antonio che pochi minuti per dare sesto alle sue cose, poi lo presero con loro e lo portarono via.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Le guardie del rajah non avendo potuto seguire le tracce dei fuggiaschi in causa del fiume dovevano aver abbandonato l'inseguimento. - Bindar, - disse Sandokan salendo a bordo della barcaccia, - governa in modo da farci giungere in città a notte inoltrata. Non voglio che ci vedano entrare nel palazzo di Surama, che dovrà servirci da quartier generale. - S'imbarcarono levando l'ancora, ritirarono l'ormeggio ed imboccarono il canale che doveva condurli nel Brahmaputra remando lentamente, non avendo molta fretta. Una gran calma regnava sulla palude e sulle sue rive. Solo di quando in quando qualche uccello acquatico s'alzava pesantemente, descrivendo qualche curva intorno alla bangle, poi si lasciava cadere fra i gruppi di canne. In mezzo alle piante del loto, mezzo affondati nel fango, sonnecchiavano dei grossi coccodrilli, i quali non si degnavano di muoversi nemmeno quando la barca passava accanto a loro. Fu verso le sei della sera che Sandokan ed i suoi compagni raggiunsero il Brahmaputra. Due poluar, specie di navigli indiani, i più adatti alla navigazione interna, perché assai leggermente costruiti, colla prora e la poppa ad eguale altezza e muniti di due piccoli alberi che sorreggono due vele quadrate, navigavano a poca distanza l'uno dall'altro radendo quasi la riva opposta, dove la corrente si faceva sentire più forte. - Che siano barche in crociera? - si chiese Sandokan, che le aveva subito notate. - Non vedo seikki a bordo, - disse Tremal-Naik. - Mi hanno più l'apparenza di navigli mercantili. - Vedo una spingarda sulla prora di uno di essi. - Talvolta quelle barche sono armate non essendo sempre sicuri i corsi d'acqua che attraversano queste regioni. - Tuttavia li sorveglieremo, - mormorò Sandokan. - Possiamo accertarci subito se sono dei semplici trafficanti od esploratori. - In quale modo? - Rimanendo noi indietro o sopravvanzandoli. - Proviamo: giacché non abbiamo fretta facciamo ritirare i remi e lasciamoci portare dalla corrente. - I malesi, subito avvertiti, ritirarono le lunghe pale e la bangle rallentò la sua corsa, andando un po' di traverso. I due poluar continuarono la loro marcia, aiutati dalla brezza che gonfiava le loro vele ed in pochi minuti si trovarono considerevolmente lungi dalla bangle, sparendo poi entro la curva del fiume. - Se ne sono andati - disse Tremal-Naik. - Come vedi io non m'ero ingannato. - Sandokan crollò il capo senza rispondere. Non pareva affatto convinto della tranquillità di quei due piccoli navigli. - Dubiti? - chiese Tremal-Naik. - Un pirata fiuta gli avversari a grandi distanze, - disse finalmente la Tigre della Malesia. - Io sono più che sicuro che quei due poluar perlustrano il fiume. - Ci avrebbero fermati ed interrogati. - Non siamo ancora giunti a Gauhati. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682239
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Erano il conte ed i suoi tre spadaccini, i quali, dopo essersi provveduti di cavalli e d'armi da fuoco, avevano abbandonato frettolosamente la fonda della bella castigliana per gettarsi sulla via di Guayaquil, prima che venisse loro tesa qualche nuova imboscata da parte del marchese e di don Juan de Sasebo. Attraversato il ponte levatoio senza che le guardie vigilanti all'entrata e all'uscita della galleria aperta attraverso il bastione dessero loro alcun impaccio, allentarono le briglie e lanciarono i cavalli al galoppo attraverso la silenziosa campagna. Mendoza che già conosceva benissimo quasi tutto l'istmo di Panama che aveva attraversato con Morgan alcuni anni prima, si era subito messo alla testa del drappello, poiché i suoi compagni non sapevano dove si trovasse Guayaquil. - Signor conte - disse il guascone, il quale già non poteva star zitto cinque minuti. - Che questa volta riusciremo finalmente? Vostra sorella ci ha fatto correre un bel po'. - Io spero di non ritrovare piú sulla mia via né il marchese di Montelimar, né don Juan de Sasebo - rispose il signor di Ventimiglia, il quale, quantunque la sua ferita gli desse non poca noia si manteneva magnificamente in sella. - Preferireste trovare invece la buona marchesa? - disse il guascone. - Ah, quella sí e ben volentieri, - rispose il conte. Non l'ho mai dimenticata. - La rivedrete prima di lasciare l'America? - Non farò ritorno in Europa senza prima salutarla. - Ed esporvi a qualche nuovo pericolo. - A quale, don Barrejo? - A quello del matrimonio. - Diavolo d'uomo! - esclamò il conte, ridendo. - Vedete bene lontano voi. - Sarebbe uno splendido partito, signor conte. - Lasciate andare e occupiamoci per ora del marchese. È lui che. in questo momento rappresenta il piú grave pericolo. Sapete che un dubbio mi tormenta da quando sono montato a cavallo? - Che quel meticcio mi abbia ingannato? Non lo credo, signor conte, parlava troppo seriamente e poi si sa che il vino fa dir sempre la verità e ne aveva bevuto l'amico ricciuto. - Non è ciò che mi tormenta: sono anzi certissimo che mia sorella si trovi a Guayaquil. È un bel po' che i filibustieri di Grogner e di Raveneau de Lussan minacciano Panama, quindi credo benissimo che abbiano mandata mia sorella in quella città, per sottrarla ai pericoli d'un saccheggio. - E allora che cosa temete? - Che quel meticcio, per vendicarsi del brutto tiro giuocatogli abbia narrato ogni cosa al marchese ed a don Juan. - Tonnerre! ... Voi mi avete cacciato una pulce in un orecchio, signor conte. Non avevo pensato a questo. In tal caso un inseguimento sarebbe probabile. Abbiamo però un buon vantaggio e dei buonissimi cavalli, che ho scelto con molta cura. Quello stupido, con tutto quel vino che aveva bevuto, non può essersi svegliato tanto presto. Forse dorme ancora, mentre noi invece galoppiamo. - E spingeremo sempre piú forte. Mi preme giungere a Guayaquil prima che possa giungervi il marchese. - Quando vi saremo? - Domani sera, mi ha detto Mendoza. - Fors'anche prima, signor conte, - disse il basco, che si teneva sempre dinanzi, mentre don Ercole formava la retroguardia. - Affretta piú che puoi. - E la vostra ferita non s'inasprirà? - Non occupartene, - rispose il corsaro. - Si rimarginerà piú tardi. I quattro cavalli continuavano intanto la loro rapidissima corsa, essendo la strada in ottimo stato e anche molto ampia. Lungo i margini magnifici, i filari di enormi palme si stendevano senza interruzione, mentre al di là apparivano delle splendide piantagioni d'indaco e di zucchero. A mezzanotte il conte fece mettere i cavalli al passo, per non stancarli troppo, poi verso il tocco ripresero il galoppo, mentre la luna appariva dietro le piante che coronavano una collina. Avevano percorso cosí un paio di leghe, senza aver incontrato anima viva, quando Mendoza che aveva l'udito piú acuto di tutti, arrestò bruscamente il suo andaluso, dicendo: - Fermi tutti! ... - Avete veduto qualche gattaccio? - chiese il guascone. - Non scherzate, don Barrejo: questo non è il momento. Stettero in ascolto e parve loro di udire un lontano fragore. - Il galoppo di parecchi cavalli? - chiese il conte, con una certa inquietudine. - O è invece il rombo d'una cascata? - disse don Barrejo. - A me sembrano cavalli - rispose Mendoza. - Che il marchese ci dia la caccia? - domandò il conte. - Cosí presto? - disse il guascone. - Poteva aspettare almeno l'alba e starsene comodamente a letto. Che sia un nottambulo costui? Tornarono ad ascoltare e ben presto si convinsero che non si trattava d'una cascata, bensí d'un buon numero di cavalli galoppanti sulla strada di Guayaquil. - Dobbiamo dare battaglia signor conte? - chiese il guascone, il quale era sempre pronto a menare le mani od a sparare archibugiate. - Preferirei cercare un rifugio e lasciar passare il marchese, - rispose il signor di Ventimiglia. - E dopo? Se entra in Guayaquil prima di noi, non so se noi potremo poi fare altrettanto. Io vi proporrei di tendergli una imboscata e di fucilare per bene i suoi uomini. - E farci prendere? - disse Mendoza. - Non avrà già con sé quattro o cinque uomini di scorta. Si direbbe dal fragore che giunge fino a noi, che è un intero squadrone quello che galoppa. - Gettiamoci in mezzo alle piantagioni, - propose don Ercole. - Non sono le canne abbastanza alte per nasconderci e poi la luna sorge, - rispose il conte. - Se vi fossero delle macchie! - Ah! ... Il ponte del diavolo! - esclamò in quel momento Mendoza. - Signor conte, a gran carriera. Senza chiedere nessuna spiegazione lanciarono i cavalli ventre a terra, divorando lo spazio con fantastica rapidità. Quella corsa furiosa durò una buona mezz'ora, poi Mendoza la rallentò, dicendo: - Ci siamo. Cinquanta passi piú innanzi vi era un ponte in muratura; assai largo, gettato su un fiume poverissimo d'acqua. Mendoza balzò a terra, prese il cavallo per le briglie e s'avanzò rapidamente verso la riva, dicendo: - Seguitemi, signor conte. - Perché vuoi farci guadare il fiume? - chiese il corsaro. Nemmeno sull'altra riva vedo delle macchie bastanti per nasconderci. - E la vôlta del ponte, non la contate? ... I cavalieri che c'inseguono ci passeranno sopra, senza minimamente sospettare che quelli che cercano si trovano invece sotto. - Ohé, compare, diventate molto furbo, a quanto pare, - disse il guascone. - Sono anch'io del mar di Biscaglia. Affrettiamoci, signori, anche gli spagnuoli avranno udito il nostro galoppo e avranno precipitata la corsa. Scesero la riva e condussero i cavalli sotto il ponte, immergendosi nell'acqua fino alle ginocchia. - Avvolgete le teste dei nostri corsieri nelle gualdrappe, - disse il conte. - Potrebbero nitrire e tradirci. I tre spadaccini furono lesti ad obbedire. Il galoppo dei cavalli intanto diventava di momento in momento piú fragoroso. Gli spagnuoli dovevano aver udito anche quello prodotto dai cavalli dei fuggiaschi e si erano pure lanciati ventre a terra. Il conte e Mendoza si erano nascosti dietro la pila del ponte, per meglio accertarsi con chi avevano da fare, mentre il guascone ed il fiammingo trattenevano con mano salda i quattro corsieri. - Non devono essere lontani piú di mezzo miglio, - disse il signor di Ventimiglia al fedele basco. Credi tu che sia proprio il marchese? - Scommetterei dieci dobloni contro una piastra, signore. Don Barrejo ha fatto male a lasciare libero quel meticcio. - Volevi tu che lo scannasse in pieno giorno? - Poteva aspettare la sera e portarlo via. - A tutto non si pensa sempre ... eccoli ... non ti far vedere. Il mezzo squadrone del marchese di Montelimar, perché era proprio quello che don Juan de Sasebo gli aveva affidato, giungeva a corsa sfrenata, con un fracasso indiavolato. Il conte udí distintamente il marchese a gridare: - Spronate sempre: non devono essere lontani. I cinquanta cavalieri passarono come un uragano sul ponte e scomparvero in mezzo ad un fitto nuvolone di polvere. - Grazie, Mendoza, - disse il conte, battendo sulle spalle del basco. - Tu ci hai salvati. - Senza dare un colpo di spada né sparare una pistolettata - rispose il filibustiere. - La vostra e anche la mia salvezza non mi è costata troppe fatiche. - Ma senza la tua idea a quest'ora saremmo nelle mani del marchese ed avrei forse fatta la fine di mio padre. Per quanto valorosi si possa essere, non si può sostenere l'urto di un mezzo squadrone. - Signor conte, - disse il guascone avvicinandosi coi cavalli. - Rimontiamo in sella? - Preferisco rimanere qui per qualche ora, cosí i cavalli si riposeranno pienamente. Lasciamo che il marchese corra dietro alle nostre ombre. - Temete che ritorni? - Chi può dirlo? Non trovandoci su questa via, potrebbe distaccare un manipolo dei suoi cavalieri e rimandarli indietro a perlustrate le piantagioni. - Pure io non perderò inutilmente il mio tempo signore. Vi piacciono i gamberi? - Diventate pazzo, don Barrejo? - Niente affatto, signor conte. Ne ho sorpreso uno attaccato ai miei stivali ed era grosso, chiedetelo a don Ercole che se l'è mangiato vivo, senza dividerlo con me. Il fiammingo si limitò a scoppiare in una risata. - Ecco che anche i taciturni figli della Fiandra in nostra compagnia diventano allegri e burloni, - disse don Barrejo. - Che cosa avete voi nelle vostre vene? - chiese il conte. - Siamo appena sfuggiti a un cosi grave pericolo e scherzate. - Che cosa volete, signor conte? Il sangue guascone è cosí. Don Ercole legate i cavalli e cerchiamoci una deliziosa colazione per domani mattina. Io adoro i gamberi, quando però sono dentro il mio ventre. L'indiavolato avventuriero, senza pensare che gli spagnuoli potevano tornate da un momento all'altro, accese un pezzo di miccia ed aiutato dal fiammingo si mise a rovistare le pietre che si trovavano sotto il ponte, tuffando le braccia nell'acqua fresca del fiumiciattolo. Dovevano abbondare davvero in quel luogo i gamberi, poiché i due compari in meno di mezz'ora empirono le fonde dei quattro cavalli, dopo di averle vuotate di quanto contenevano. Alle due del mattino il conte, non udendo piú alcun rumore nei dintorni del corso d'acqua, diede il segnale della partenza. Rimontarono la riva non senza qualche fatica e spinsero i cavalli a piccolo trotto sempre pel timore di veder ricomparire da un momento all'altro i cavalieri del marchese. La notte era sempre splendidissima, e la luna irradiava le piantagioni sterminate di raggi azzurrini, permettendo cosí ai quattro avventurieri di poter scorgere da lontano i loro nemici. Sorvegliavano però attentamente i margini della strada, i quali s'affondavano in certi fossati molto propizi per una imboscata. Alle quattro del mattino intrapresero la salita di alcune colline boscose dietro le quali, alla distanza di tre o quattro leghe, doveva trovarsi la salda fortezza di Guayaquil. Del marchese e dei suoi cavalieri fino allora nessuna nuova. Avevano continuata la loro corsa verso la città o si erano fermati in qualche luogo per perlustrare le piantagioni? Qualche ora piú tardi, raggiunta la cima della prima altura e trovato un piccolo bosco, si accamparono. Base della colazione, non importa dirlo, furono i gamberi raccolti dal guascone e dal fiammingo, appena abbrustoliti sulla fiamma e tuttavia trovati da tutti squisitissimi. Stavano per cercare un torrente per dissetarsi, quando i quattro cavalli mandarono dei sonori nitriti e si diedero a scalpitare. - Amici, in guardia! - gridò il conte, correndo verso il suo destriero e staccando rapidamente l'archibugio. - I nostri andalusi hanno fiutato qualche cosa. - Che i cavalli spagnuoli siano come i cani da guardia! - disse il guascone. - In arcione! - comandò in quel momento il basco. Balzarono in sella e riguadagnarono rapidamente la via, lanciando i cavalli a corsa sfrenata. - Che cos'hai veduto dunque, Mendoza, per farci scappare? chiese il conte, quando furono lontani dal boschetto un tiro d'archibugio. - Ho veduto degli uomini che salivano nascostamente il fianco della collina. Cercavano di sorprenderci, signore. - Erano molti? - Non ho avuto il tempo di contarli. Ho scorto degli elmetti e delle canne d'archibugio e nient'altro. - Soldati erano di certo, - rispose il conte. - Amici, armatevi e tenetevi pronti. - Che i gamberi ci portino sfortuna? - si chiese il guascone. - Se sarà vero, non ne mangerò piú in tutta la mia vita. Cavalcavano da dieci minuti, quando un colpo d'archibugio partí dal fossato di destra. Il cavallo di Mendoza spiccò un salto, s'inalberò, poi stramazzò al suolo. Quasi nell'istesso tempo una scarica nutrita partiva dall'altro lato della via, atterrando i cavalli del conte e di don Ercole. Solo quello del guascone era sfuggito miracolosamente a quella tempesta di palle. - Don Barrejo, salvatevi! - gridò il conte il quale era subito balzato in piedi impugnando le pistole. - Ve l'ordino! ... Siamo presi! Il guascone fece fare al suo cavallo un volteggio fulmineo e quantunque il suo cuore sanguinasse pel dispiacere di non poter aiutare i suoi compagni, fuggí a corsa sfrenata verso Panama, pensando, e con ragione, che avrebbe potuto essere a loro piú utile libero che prigioniero. Il brav'uomo in un lampo aveva fatto subito il suo progetto. Correre a Panama, raggiungere Taroga ed avvertire Grogner e Raveneau de Lussan. Il conte aveva aspettato a piè fermo gli spagnuoli, mentre Mendoza e don Ercole, rimessisi subito in gambe anche essi, sguainavano le spade. Un uomo era sorto dal fossato di destra, mentre una trentina di cavalleggieri apparivano sul margine di sinistra, tenendo gli archibugi montati. - Pare che siate preso, signor conte, - disse, con ironia. - La resistenza sarebbe impossibile e vi costerebbe probabilmente la vita. - Ah ... Voi, signor marchese! - rispose il corsaro, con voce alterata. - Una volta per uno: prima io prigioniero dei filibustieri ed ora voi prigioniero degli spagnuoli. Gettate la spada e le pistole. Il conte esitava. Se avesse avuto ancora i cavalli vivi, non avrebbe certo tardato a gettarsi furiosamente contro i cavalleggieri spagnuoli, spalleggiato certo vigorosamente dal basco e dal fiammingo. - Prima di arrendermi, - disse, - voglio sapere da voi, signor marchese, che cosa intendete fare di me e dei miei compagni. Se avete l'intenzione di appiccarmi, come avete impiccato mio padre, vi avverto che vi darò battaglia, checché debba succedere e che il primo uomo che cadrà sarete voi, poiché vi tengo sotto il tiro delle mie pistole. - Io non ho alcuna intenzione di farvi del male, signor conte, - rispose il marchese, il quale temeva quei terribili corsari, non meno dei suoi compatriotti. - Io vi condurrò prigioniero a Guayaquil e là attenderete le decisioni che prenderà il presidente dell'Udienza Reale. - Il quale decreterà indubbiamente la mia morte e quella dei miei compagni, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce beffarda. - No, perché la mia autorità pesa sulle decisioni dell'Udienza ed io farò il possibile per ottenere per voi un decreto di espulsione dalle colonie spagnuole dell'America centrale. - Voi però dimenticate per quale motivo io ho lasciato l'Europa. Non già per sete di guadagni, avendo terre e castella nella mia patria da non saperne quasi che cosa fare. Io ho attraversato l'Atlantico per ritrovare mia sorella, la figlia del Corsaro Rosso e nipote del Gran Cacico del Darien. La fronte del marchese di Montelimar si era oscurata. - Sapete voi dove si trova? - chiese dopo qualche istante di silenzio. - Sí, a Guayaquil. - Perché v'interessate tanto di quella giovane meticcia? - Per Bacco! ... È mia sorella! - gridò il conte. - Sapete che io l'ho sempre tenuta come mia figlia e che ella mi ama come se fossi suo padre? - Perché ignora forse che suo padre era un conte di Ventimiglia e che aveva in Europa un fratello. - Questo è vero, - rispose il marchese. - Che cosa risolvete dunque? - Preferirei di non farvela vedere. - Allora vi darò battaglia e vi ucciderò, - rispose il conte, con voce risoluta. - Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi. - Impegnate la vostra parola di gentiluomo? - Sull'onore dei Montelimar. - Basta cosí, - disse il conte. Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da Mendoza. Il marchese si era voltato verso i suoi uomini. - Date tre cavalli a questi signori, - disse. Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati. - Signor conte, - disse il marchese, salendo pure a cavallo. - Vi prego di seguirmi. - Badate che conto sulla vostra parola - rispose il signor di Ventimiglia. - Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D'altronde io non vi odio affatto. - Ciò però non vi ha impedito di tentare d'assassinarmi, - rispose il conte, con ironia. - Avevo i miei motivi per fare ciò, allora. - Avreste ora cambiata idea? - Non ve lo posso dire. L'avete conciato bene quello spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensí vero che i Ventimiglia hanno sempre goduto fama d'essere maestri nelle armi. In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli spari. - Chi fa fuoco? - chiese il corsaro, con apprensione. - Saranno cacciatori, - rispose il marchese. Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la caccia al bravo guascone. Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone, diminuito d'una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri. Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell'aspetto, circondato da un pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui immense foglie spandevano intorno un'ombra fresca e deliziosa. Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall'Oceano Pacifico ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle piú ricche dell'America centrale, essendo essa a capo d'una vasta contrada che possedeva preziose miniere d'oro, d'argento e soprattutto di smeraldi. Non contava che qualche decina di migliaia d'abitanti, però era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di cinquanta uomini ciascuno. Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino. - Dove mi conducete? - chiese il signor di Ventimiglia. - A vedere vostra sorella, - rispose il marchese, - giacché desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l'aria libera. Il dolcissimo suono d'una chitarra giunse in quel momento ai loro orecchi. - Deve essere Neala, - disse il marchese. - È mia sorella che porta questo nome? - chiese il conte il quale appariva assai commosso. - Sí, conte. Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine intessute con pagliuzze d'argento e che stava sonando una piccola chitarra. Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un po' abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi. Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso. - Figlia mia - disse il marchese - non mi aspettavi di certo cosí presto. - No, - rispose la giovane fissando subito sul figlio del Corsaro Rosso i suoi sguardi. - Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e che ... Il conte lo interruppe bruscamente. - Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana. La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una irresistibile simpatia. Era certamente il sangue che segretamente parlava. - Figlia mia - riprese il marchese - questo signore che è il Conte di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in Europa ... - Nei miei castelli, su un mare piú azzurro dell'Oceano Pacifico, dove l'aria è piú balsamica e piú pura che qui - disse il corsaro. - Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l'Europa per venirvi a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua dell'istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite? Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete. Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al collo, dicendo: - Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella e voi siete mio fratello!

IL RE DEL MARE

682242
Salgari, Emilio 3 occorrenze

Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

Vedendoli retrocedere, Darma aveva subito abbandonato il primo uomo per scagliarsi sopra un altro. Con un secondo slancio piombò addosso ad uno dei fuggiaschi, rovesciandolo di colpo, quando una scarica vivissima la colpì. La povera bestia si era bruscamente rizzata sulle zampe posteriori, rimanendo in quella posa alcuni istanti, poi s'abbattè, mentre Kammamuri mandava un urlo disperato: - La mia Darma! Me l'hanno uccisa! Quasi nel medesimo istante si udirono in lontananza tre spari. - Il segnale! Il segnale! - gridò Sambigliong. - In ritirata! Del drappello non rimanevano che undici uomini. Tutti gli altri erano caduti sotto le palle e i kampilang dei dayaki e i loro corpi giacevano sui pendii della rupe, privi della testa. Sambigliong afferrò Kammamuri che stava per scendere verso la tigre, a rischio di farsi fucilare e lo trascinò con sè, dicendogli: - È morta: lasciala. Si erano precipitati a corsa disperata nel burrone, mentre una seconda scarica rumoreggiava verso la costa. Yanez doveva avere molta premura. Il drappello con una corsa fulminea percorse tutta la gola, sotto una grandine di palle, avendo i dayaki ripreso l'inseguimento e sbucò su una piccola pianura alla cui estremità s'alzavano quindici o venti capanne, piantate su dei pali. Al di là rumoreggiava il mare. - Signor Yanez - gridarono Sambigliong e Kammamuri, vedendo dei piccoli prahos ancorati dinanzi al minuscolo villaggio, colle vele già spiegate, pronti a prendere il largo. Il portoghese usciva in quel momento da una capanna, accompagnato da Tremal-Naik e dalla fanciulla, mentre la loro scorta accostava i due legnetti alla riva. - Presto! - gridò Yanez, vedendo i superstiti ad attraversare, sempre correndo, la piccola pianura. Pochi minuti dopo, estenuati e insanguinati, madidi di sudore, si precipitavano sulla riva. - E gli altri? - chiesero a una voce Yanez e Tremal-Naik. - Tutti morti, - rispose Kammamuri con voce affannosa; - anche la tigre, la nostra brava Darma. - Sia dannato quel cane di pellegrino! - gridò l'indiano, sul cui viso traspariva un intenso dolore. - Anche la mia tigre perduta! - Ed i dayaki? - chiese Yanez. - Fra poco saranno qui, - disse Sambigliong. - Lesti, imbarchiamoci. Tu sul più grosso, Tremal-Naik, con tua figlia e la scorta. A me l'altro con Kammamuri ed i superstiti. S'imbarcarono rapidamente e i due legni presero il largo, mentre la popolazione della borgata udendo le grida dei dayaki si salvava precipitosamente nei boschi vicini. Il vento era favorevole, sicchè i due prahos con poche bordate uscirono dalla piccola baia, filando rapidamente verso il sud-ovest, non volendo scostarsi troppo dalla spiaggia, almeno pel momento. I dayaki giungevano allora sulle rive della baia, ma troppo tardi. La preda tanto sospirata ancora una volta sfuggiva loro e proprio nel momento in cui credevano di averla finalmente nella mani. Non sapendo su chi sfogarsi, avevano dato fuoco al villaggio. - Canaglie! - esclamò Yanez, che teneva la barra del timone. - Se avessi ancora la mia Marianna vi darei io una tale lezione da non scordarvela più. Tutto forse non è finito fra noi e voi e chissà che un giorno non vi ritroviamo sui nostri passi e allora guai al vostro pellegrino! I due legnetti, spinti da un fresco vento di settentrione, erano già lontani e stavano girando il capo Gaya, per entrare nella baia di Sapangar, entro cui sbocca il Kabatuan. Erano due piccoli prahos pescherecci, con grandi vele formate di vimini intrecciati, bassi di scafo, privi di ponte e col bilanciere per poter meglio appoggiarsi e resistere alle raffiche senza correre il pericolo di rovesciarsi. Quello montato da Tremal-Naik, dalla fanciulla e dagli otto uomini della scorta era un po' più grosso e portava per armamento un lilà; quello di Yanez invece non aveva che una vecchia spingarda collocata su un cavalletto fissato sulla prora. - Pessimi velieri, - disse Sambigliong, dopo un rapido esame. - Sono vecchi quanto me. - Non vi era di meglio, mio bravo tigrotto, - rispose Yanez. - È stata anzi una vera fortuna trovarli e non ci volle poco a indurre quei pescatori a venderceli. - Muoviamo subito su Mompracem? - Costeggeremo fino a Nosong, prima di intraprendere la traversata. Non vi è molto da fidarsi di queste barcacce che assorbono acqua come le spugne. - Sono impaziente di giungervi, capitano. - Ed io non meno di te, Sambigliong. Che cosa sarà successo laggiù, dopo le notizie portate da Kammamuri? Come desidero saperlo! - Che la Tigre stia combattendo contro gli inglesi? - Non mi stupirei: Sandokan non è un uomo d'abbassare la bandiera e di cedere alle pretese del governatore di Labuan senza opporre una fiera resistenza. Come rimpiango ora d'aver perduto la mia nave! Colla mia Marianna e la sua appoggiati dai prahos da guerra, avremmo potuto dar da fare alle cannoniere di Labuan. - Non è colpa mia, capitano Yanez, - disse Sambigliong. - Tu hai fatto anche troppo per difendere la mia nave, - rispose Yanez, con voce dolce. - Non ho alcun rimprovero da farti, mio bravo. Stringiamo verso la costa e cerchiamo di guadagnare più via che potremo. Se il vento si mantiene, domani notte noi approderemo a Mompracem. Era allora calato il sole e le tenebre scendevano rapide. Il mare era calmo, con leggere ondulazioni che non davano alcun fastidio ai due legnetti, i quali continuavano la loro rotta verso il sud-ovest, tenendosi a due o tre gomene l'uno dall'altro. Yanez, seduto a poppa, su una grossa pietra che serviva da ancora, teneva la mano sulla barra, consumando le sue ultime sigarette, mentre la maggior parte dei suoi uomini russavano stesi sul fondo del legno. Soli quattro vegliavano a prora, per la manovra. Nessun lume brillava sul mare, già divenuto color dell'inchiostro. Anche verso la costa tutto era tenebroso. Solo verso l'isolotto di Sapangar, che chiude a ponente la baia omonima, un punto rossastro brillava, la torcia forse di qualche pescatore notturno. Al di là del capo Gaya, il vento era venuto quasi a mancare ed i due velieri non avanzavano che con estrema lentezza. - Bramerei trovarmi ben lontano dalla baia prima dell'alba, - mormorò il portoghese. - La foce del Kabatuan per poco non è stata fatale alla mia Marianna. Vegliò fino alle una del mattino, poi non scorgendo nulla di sospetto, cedette la barra a Sambigliong, sdraiandosi sotto un banco, su una vecchia vela di vimini. Un grido del mastro lo svegliò bruscamente alcune ore dopo: - All'armi! Tutti in piedi! Cominciava allora ad albeggiare e i due prahos, che durante la notte avevano camminato pochissimo, si trovavano verso la punta settentrionale dell'isola di Gaya. Yanez, udendo il grido del suo fedele mastro, era balzato rapidamente in piedi, chiedendo: - Ebbene, che cosa c'è? Che non si possa dormire un momento tranquilli e ... Si era bruscamente interrotto, facendo un gesto che tradiva una viva ansietà. Un grosso giong, un veliero assai più rotondo e più lungo dei soliti prahos, con due vele triangolari, usciva in quel momento dalla baia, seguìto da una mezza dozzina di doppie scialuppe munite di ponte e da una scialuppa a vapore che non portava alcuna bandiera sull'asta di poppa. - Che cosa vuole quella flottiglia? - si era domandato il portoghese. Un colpo di mirim, partito dal giong, sparato a bianco, fu la risposta. La flottiglia intima ai due prahos di fermarsi. - I dayaki, signori! - gridò in quell'istante Sambigliong, che si era slanciato verso prora per meglio osservare gli uomini che montavano il veliero e le doppie canoe. - Signor Yanez, virate di bordo e gettiamoci verso la costa! Il portoghese mandò una bestemmia. - Ancora essi! - esclamò poi. - Ecco la fine! Era una follia tentare d'impegnare la lotta con forze così poderose e munite di lilà e di mirim e fors'anche di spingarde. Fuggire era pure impossibile: la scialuppa a vapore, che era pure montata da uomini di colore, malesi e dayaki, non avrebbe tardato a raggiungere i due vecchi e pessimi velieri. Gettarsi verso la costa o meglio ancora verso l'isola di Gaya che era coperta di folte foreste, era l'unica salvezza che restasse ai fuggiaschi. - Appoggiate sulla costa! - gridò Yanez. - E armate i fucili. Il praho di Tremal-Naik che si trovava a sette o otto gomene da quello di Yanez, aveva già virato di bordo e muoveva sollecitamente verso Gaya. Disgraziatamente il tempo mancava. Il giong, accortosi dell'intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era frammesso fra i due prahos, seguìto subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lilà, cercando di abbattere le manovre. - Ah! Canaglie! - aveva gridato Yanez. - Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi. Afferrò la carabina e pel primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong. I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l'equipaggio della nave avversaria. Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza. Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d'un colpo solo il praho dell'indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d'artiglieria che armava la scialuppa a vapore sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme. - Tigrotti di Mompracem! - aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. - Andiamo a salvare la fanciulla! Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell'indiano, quando si vide tagliare la via dal giong. Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d'appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare. - Fuoco sul ponte, Tigrotti! - gridò il portoghese. - Almeno vendichiamo gli amici! Una voce dall'accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong: - Arrendetevi al pellegrino della Mecca! Vi prometto salva la vita! Il misterioso nemico era apparso sul cassero col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar. - Ah! Cane! - gridò Yanez. - Anche tu ci sei! Prendi! Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente. Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s'alzava fra l'equipaggio del giong. - Finalmente! - gridò Yanez. - Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!

Non era trascorso un quarto d'ora da che i due parlamentari avevano fatto ritorno per la seconda volta all'accampamento, quando Yanez e Tremal-Naik, che non avevano abbandonato il terrazzo, curiosi di godersi quel miracolo, videro due drappelli di dayaki, formati d'una quindicina d'uomini ciascuno, tutti disarmati, accostarsi al kampong portando delle grandi ceste colme di pietre, per la maggior parte piatte, che dovevano aver raccolte di certo nel letto di qualche ruscello. Si fermarono a cinquanta passi dal terrazzo e si misero a disporle in modo da formare una specie di aia, larga una mezza dozzina di metri e lunga il doppio. - Preparano il letto del braciere, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. Ripartiti i due drappelli, se ne avanzarono due altri carichi di legname resinoso che accumularono sulle pietre e che poi accesero lasciandolo avvampare per un paio d'ore. Yanez, Tremal-Naik e tutta la guarnigione, eccettuate le sentinelle, avevano assistito pazientemente a quei preparativi, tenendosi al riparo degli alberi i cui rami fronzuti proiettavano una fresca ombra sulle terrazze costruite sulla cinta per permettere ai difensori di far fuoco più comodamente. I dayaki, che da quanto si poteva capire, ci tenevano a mostrare all'uomo bianco, - essere superiore per loro, - i miracoli del pellegrino, a poco a poco si erano radunati intorno al falò, senza che i difensori del kampong si fossero presi la briga di protestare, essendosi avanzati tutti inermi. - Ecco un divertimento che non godremo mai più, - aveva detto Yanez, - e che non produrrà alcun effetto, almeno sui miei Tigrotti. - E nemmeno sui miei malesi e giavanesi, - aveva aggiunto Tremal-Naik. - Già non credono in Allah come questi fanatici imbecilli. Chi può essere stato a far conoscere a questi selvaggi la religione maomettana? - Gli arabi antichi, mio caro, - rispose il portoghese. - Non sai tu che quegli intrepidi navigatori conoscevano e percorrevano queste regioni, quando gli europei non sapevano nemmeno che esistessero in questa parte del globo le grandi isole malesi? Tu non conosci certo Tolomeo che visse 166 anni dopo la nascita di Gesù Cristo, il dio dei cristiani. Ti posso però dire che fino da quell'epoca gli arabi conoscevano perfettamente i malesi, la Chersoneso Aurea ove si poneva il monte Ofir, che altro non sarebbe che Sumatra; Glabadiva che è l'attuale Giava; i Satiri che sono Battias, gli antropofagi. Eh! Guarda il pellegrino che si avanza! Quel birbone si lascerà bruciare le piante dei piedi per dare ad intendere ai suoi fanatici che è un semi-dio, un essere superiore, un vero discendente del gran Profeta? Io ammiro la sua forza d'animo. - Ed io vorrei ucciderlo con un buon colpo, - rispose Tremal-Naik. - Non commettiamo un simile assassinio, amico mio. Dobbiamo essere gli ultimi a rispondere alle provocazioni. Siamo persone civili, noi. Un urlo immenso li avvertì che il pellegrino stava per lasciare l'accampamento onde mostrare all'uomo bianco ed ai suoi guerrieri la sua invulnerabilità e la sua potenza di essere superiore. Darma, la gentile e graziosa anglo-indiana, aveva raggiunto suo padre e Yanez. Anche i Tigrotti di Mompracem si erano radunati sul terrazzo, appoggiando le carabine ai parapetti, temendo qualche sorpresa da parte di quei selvaggi nei quali non avevano nessuna fiducia. Il pellegrino si avanzava verso la via formata dalle pietre, rese ardenti da due ore di fuoco continuo. Aveva sul capo il suo turbante verde ed il viso nascosto da un piccolo drappo di seta d'egual colore. Il corpo invece era avvolto in una specie di camicia assai attillata, di nanchino giallo, che gli scendeva fino alle ginocchia ed i suoi piedi erano nudi. - O che quell'uomo è un gran ciurmadore o è una vera salamandra, - disse Yanez. - Forse che i fakiri dell'India non passeggiano sui tizzoni ardenti invece che sulle pietre arroventate? - disse Tremal-Naik. - Non ricordi della festa di Darma Ragia, dove tu hai conosciuto l'adorabile Surama, la nipote del rajah di Gualpara? - Per Giove! Se me ne ricordo, - rispose Yanez. - Anche in quella festa i fanatici correvano sulle brace. - Ma uscivano da quell'inferno zoppi, mentre questo demonio di pellegrino promette di passeggiare su quelle pietre scaldate a bianco senza alcun malanno. - Lo vedremo, Yanez, a meno che non sia un gran fakiro. - Apri gli occhi, Darma, - disse Yanez, vedendo la fanciulla curvarsi sul parapetto. - Non mi fido di quei bricconi. - Che cosa temete, signor Yanez? - Eh! Un colpo di carabina si fa presto a spararlo. - Non hanno alcuna arma, - rispose Darma. - Sì, visibile. Avanti, signor discendente di Maometto, mostrateci il vostro miracolo. Il misterioso avversario di Tremal-Naik era giunto dinanzi all'aia lastricata di pietre che doveva proiettare un calore assolutamente intollerabile. Stette un momento raccolto in se stesso, colle mani alzate e gli sguardi fissi verso occidente, ossia in direzione del lontanissimo sepolcro del Profeta, agitò per qualche po' le labbra come se recitasse una preghiera, poi si slanciò risolutamente sulle pietre, gridando per tre volte, con voce rimbombante: - Allah! Allah! Allah! Quindi con passo sicuro, insensibile all'ardente calore che saliva dalle pietre, coi piedi e le gambe nude, s'avanzò sull'aia, a passi lenti, senza che gli sfuggisse un moto che tradisse qualche dolore. I dayaki, stupiti, ammaliati da una simile prova, lo guardavano con profonda ammirazione, alzando le braccia. Quell'uomo per loro doveva essere assolutamente un semi-dio, un vero discendente del grande Profeta. Il pellegrino compiuta la traversata si fermò un momento, poi ritornò sui suoi passi, sempre calmo, sempre impassibile, come se passeggiasse su un prato anzichè su delle pietre che potevano cuocere benissimo del pane. - Costui deve essere un figlio di compare Belzebù! - esclamò Yanez, che non poteva fare a meno di ammirare lo stoicismo di quell'uomo. - Come può resistere a quel calore? Eppure i suoi piedi sono nudi e qui non vi può essere alcun trucco. - Quell'uomo deve essere insensibile come una vera salamandra, - rispose Tremal- Naik. Il pellegrino, compiuta la seconda prova, volse il viso mascherato dal drappo verso Yanez, guardandolo per qualche istante, poi si allontanò a lenti passi, dirigendosi verso la sua tettoia, mentre i dayaki, in preda ad una vera esaltazione, urlavano a squarciagola: - Allah! Allah! Allah! Qualche minuto dopo, mentre i guerrieri raggiungevano i loro accampamenti, precipitandosi verso il pellegrino, il parlamentario, accompagnato dal suo tamburino, si presentava per la terza volta sotto la terrazza. - Che cosa vuoi ancora, uomo noioso? - gli chiese Yanez. - Vengo a chiederti se dopo una simile prova data dal discendente del gran Profeta tu ti sei deciso ad arrenderti, - disse il guerriero. - Ah! È vero, dovevo darti una risposta, - disse Yanez. - Dirai dunque al figlio o nipote o pronipote di Maometto, che io lo ringrazio dell'interessante spettacolo che si è degnato di offrire a noi, poveri miscredenti. Poi levandosi, con un gesto superbo, un magnifico anello che portava in un dito, lo gettò al parlamentario stupito, aggiungendo: - E questa è la sua ricompensa! ...

I CORSARI DELLE BERMUDE

682297
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il Corsaro, abbandonato a se stesso, penzolò un momento all'estremità del laccio, poi cadde di colpo, stendendosi sul terreno. Il boia gli si era subito precipitato sopra, allargandogli innanzi tutto il laccio. - Che cosa fate? - gridò il comandante del forte, impugnando una pistola. - Il mio dovere, signore, - rispose freddamente il boia. - Quale? - Quest'uomo, secondo le leggi inglesi, per quarantotto ore non verrà più appeso. - A chi lo dite? - A voi. Non siete mai stato il rappresentante della giustizia: quindi di queste cose non potete intendervi. - Come mai la corda si è spezzata? - Chi lo sa? Forse una palla l'ha tagliata. - Ne siete ben sicuro? - Lo suppongo, perché la mia corda aveva impiccati tredici uomini. - Il numero di Giuda! - brontolò Testa di Pietra. - E non potreste riannodarla ed impiccarlo nuovamente? - Le leggi inglesi vi si oppongono, signore. - Allora lo farò fucilare. - No, colonnello. Quest'uomo è stato affidato a me, e non morrà che per mia mano. Sono il boia di tutte le colonie americane e, non obbedisco che al governo. Il colonnello lanciò tre o quattro bestemmie; congedò i soldati e anche il sottufficiale, e disse ai tre carnefici: - Riportatelo nella cappella. Testa di Pietra prese fra le sue robustissime braccia il baronetto e scappò via, seguito dal boia, da Piccolo Flocco e dal colonnello. Il cappellano, spaventato forse dalle bombe che continuavano a cadere, era sparito, per rifugiarsi probabilmente in qualche casamatta. In un lampo il bretone entrò prima nel magazzino, poi nella cappella, sulle cui tavole ardevano ancora due candele, e le depose su di una branda. Il comandante del forte si volse verso il boia e gli disse: - Dunque vi rifiutate di riappiccarlo. - La legge non lo permette prima di quarantotto ore. - Allora lo ucciderò lo. Aveva levata dalla cintura una magnifica pistola inglese a due colpi colle canne arabescate, e l'aveva puntata sul Corsaro, il quale conservava sempre un'immobilità assoluta. Testa di Pietra, fortunatamente, vigilava. Il suo pugno di ferro piombò su quello del colonnello, ritorse la pistola contro quel giustiziere di nuovo genere e fece scattare i due grilletti. Due detonazioni rimbombarono perdendosi tra il fragore delle cannonate. Il colonnello, colpito in pieno petto, era caduto senza mandare un grido. - Che cosa hai fatto, Testa di Pietra? - chiese Piccolo Flocco spaventato. - Come vedi, l'ho ammazzato! - rispose il bretone. Il Corsaro era balzato in piedi udendo così vicini quei due spari. - Morto? - chiese. - Lo avrebbero ucciso gli americani - rispose Testa di Pietra. - Sono già sotto le trincee e montano all'assalto. - Udite? Hurrà formidabili echeggiavano al di fuori. Gli scorridori avevano piantato le scale, approfittando del tiro delle loro artiglierie e montavano furiosamente all'assalto. Testa di Pietra afferrò il colonnello e lo gettò sotto una branda, gridando: - Fuori! Fuori! Facciamo qualche cosa anche noi. Aveva levato al colonnello la sciabola ed un'altra pistola a due colpi. Il Corsaro aveva afferrato una sbarra di ferro, che aveva servito poco prima a schiodare la porta. I quattro uomini si precipitarono nel cortile che in quel momento era deserto. I pezzi inglesi, ridotti ormai al silenzio, non rispondevano più né ai tiri della corvetta, né a quelli della grossa batteria americana. La guarnigione ormai era sgominata, ed invano cercava il comandante, che solamente Testa di Pietra sapeva dove si trovasse.. Gli americani, protetti dalla loro formidabile batteria, correvano all'assalto come una torma di lupi, sostenendosi di quando in quando con nutrite scariche di moschetteria, le quali spazzavano gli ultimi artiglieri che cercavano di resistere. Testa di Pietra, udendo le palle grandinare fittissime, spinse il baronetto ed i suoi compagni dentro una casamatta, dicendo: - Aspettiamo che il combattimento sia finito. Noi soli ben poco potremo fare; è vero, comandante? - Ti approvo sempre - rispose sir William col suo solito pallido sorriso. - Quando gli americani saranno qui, ci faremo riconoscere e spero che non ci pianteranno nel petto le loro baionette. Ma voi, comandante, siete armato d'una magnifica sbarra di ferro che deve pesare non meno di quaranta chilogrammi. Se i primi arrivati non vorranno intendere ragione, li metterò a posto con quel bastoncino. Intanto l'assalto si approssimava. Spezzati i bastioni, i ridotti e le lunette da furiose scariche di mitraglia, gli artiglieri, i quali avevano ormai la maggior parte dei loro pezzi fuori servizio, cedevano rapidamente. Gli scorridori, o stracorridori, come li chiamavano allora, erano già scesi nei fossati e avevano piantato le scale, incoraggiandosi con hurrà strepitosi. La fanteria leggera stava dietro di loro, pronta a montare all'assalto, mentre quella pesante continuava a scaricare i suoi moschetti e le sue carabine. - Eccoli! - gridò ad un tratto Testa di Pietra, il quale osservava da una feritoia Gli scorridori montavano infatti intrepidamente all'assalto, bruciando sulle scale le loro ultime cariche. In un momento superarono i bastioni, lavorando ferocemente colle baionette ed inchiodando non pochi artiglieri inglesi sui loro pezzi. La guarnigione del forte fuggiva in tutte le direzioni, cercando di barricarsi in caserma, ma gli scorridori, in un attimo occuparono il cortile, nel cui centro sorgeva la forca, e intimarono la resa, minacciando uno sterminio generale. Nello stesso momento quattro soldati, guidati da un ufficiale, si precipitarono a baionetta spianata dentro la caserma occupata dal comandante della corvetta, dai due marinai della Tuonante e dal carnefice, urlando ferocemente: - Arrendetevi, o vi accoppiamo tutti! Testa di Pietra, che per precauzione aveva impugnata la sbarra di ferro, alla quale faceva descrivere un terribile mulinello, scoppiò in una risata. - E che? - gridò - Vorreste ammazzare il comandante e i marinai della Tuonante? Giù le armi, corpo di un pescecane! L'ufficiale guarda con stupore i quattro uomini, abbassando la spada, ed esclama: - Il comandante della Tuonante, avete detto? - Ecco qui, signor mio, il baronetto sir William Mac Lellan, - rispose il mastro indicandogli il comandante. - È per questo valoroso che vi siete battuti: me l'aveva promesso il colonnello Moultrie. - Voi, signore! - gridò l'ufficiale, muovendo rapidamente incontro al baronetto. - Sì, son io - rispose il comandante della Tuonante. - Possibile? Non vi hanno dunque impiccato? - No: mercè l'astuzia e la generosità di questo brav'uomo che chiamano il boia di Boston. Se sono ancora vivo, lo devo a lui. Si era avvicinato all'ex-galeotto, il quale era diventato d'un pallore tale, da far temere che da un momento all'altro cadesse svenuto. - Qua la vostra mano, carnefice! - gli disse. - Vi devo la vita. Il boia retrocesse smarrito, lasciando penzolare le braccia. - Qua la mano, vi ho detto! - ripeté il Corsaro. - Senza di voi a quest'ora sarei morto. Due grosse lacrime spuntarono negli occhi del boia, poi la sua mano si tese per stringere energicamente quella che il gentiluomo gli porgeva. - To'! ... Un carnefice che piange! - borbottò Testa di Pietra. - Si è mai veduta una cosa simile? - Sir, - disse l'ufficiale. - sgombriamo subito. Fra poco il forte Johnson sarà completamente distrutto. L'avevamo giurato, e manterremo la nostra promessa. Era veramente la fine di quella imponente fortezza. La guarnigione, decimata dalle artiglierie della corvetta e dalla cannonate americane, dopo un tentativo di resistenza dentro le caserme, si era finalmente arresa ai due colonnelli americani. Il fuoco era stato sospeso; ma un altro fuoco ben più terribile aveva preso il posto delle artiglierie. Magazzini, caserme, casematte, ridotti ardevano spaventosamente. - Orsù! - disse Testa di Pietra. - È il nostro momento di andarcene, prima di essere arsi vivi. Nell'acqua ci sto: nel fuoco niente affatto. Questo è solamente buono ad accendere la pipa: ma la vecchia reliquia, non so per quale guasto, non tira più. A notte fatta, del forte non rimanevano che poche rovine, ed il Corsaro insieme col colonnello Moultrie, coi suoi due marinai e col boia di Boston, il quale ormai aveva rinunciato al suo infame mestiere per tornar marinaio, si trovavano radunati sulla Tuonante.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - È impossibile che un monastero così famoso, abitato da centinaia di monaci, sia stato da un istante all'altro abbandonato. - Che stiano pregando in quel tempio gigantesco? - chiese lo sconosciuto. - E i pellegrini? - Saranno tornati ai loro villaggi. - Non ne sono convinto, ma lo sapremo subito. Il capitano fece abbassare lo "Sparviero" dinanzi al piazzale, strappò la coperta di tela cerata che riparava la mitragliatrice e scaricò tutte le canne. Le detonazioni si ripercossero rumorosamente fra i fabbricati, ma nessun monaco comparve. - Se ve ne fosse qualcuno, si sarebbe mostrato - disse il capitano. - Come spieghi questa fuga? - chiese lo sconosciuto. - Che ci abbiano veduto giungere e che temendo che noi volessimo rapire i due prigionieri si siano rifugiati in qualche luogo? - Col mio cannocchiale li avrei veduti. - Ho scorto un villaggio entro terra. - L'ho osservato anch'io. - Andiamo a domandare a quegli abitanti dove sono andati i monaci. - Sì, ed a spiegare questa inesplicabile scomparsa di tanta gente - rispose il capitano. A un suo cenno il macchinista fece dopo aver descritto un altro giro intorno una roccia enorme, sulla quale sorgeva un piccolo gruppo di capannucce pietra e di fango seccato. In dieci minuti lo "Sparviero" raggiunse il villaggio, ma anche quello sembrava disabitato. Nessun montanaro si vedeva aggirarsi attorno alle capanne, né nei campicelli dissodati chissà con quali fatiche, su quell'altura. - Ciò è inesplicabile! - esclamò il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" toccava il suolo. - Che qui sia scoppiata la guerra o che delle bande di briganti devastino le rive del lago, fugando tutti gli abitanti? - Signore ... là ... un uomo che fugge! - esclamò in quel momento il macchinista. Il capitano, con una rapida mossa, aveva afferrato un fucile e si era slanciato fra le capanne, seguito dallo sconosciuto. Un uomo vestito di pelli, cercava di celarsi in mezzo ad alcune betulle, che crescevano dietro al villaggio. Il capitano in pochi salti lo raggiunse, afferrandolo pel collo. Il montanaro, un vecchio che zoppicava, non aveva osato opporre resistenza, anzi si era lasciato cadere in ginocchio, tendendo le mani con gesto supplichevole e balbettando alcune parole incomprensibili. - Conosci la lingua cinese? - chiese il capitano con voce minacciosa. - Sì, signore, la comprendo - rispose lo zoppo. - Non fatemi mangiare dalla vostra aquila; sono un vecchio che non ha mai fatto male ad alcuno. - Se ti è cara la vita, rispondimi. - Parlate - disse il vecchio, con voce tremante. - Perché sono fuggiti i monaci di Dorkia? - Non sono fuggiti, signore. - Dove sono andati? - Il vecchio additò un'alta montagna che giganteggiava verso il sud-ovest. - Lassù - disse. - A cosa fare? - Non so ... vi erano due uomini bianchi come voi ... che si dicevano figli di Buddha ... - Avanti. - Ignoro che cosa sia successo ... so però che dopo essere stati adorati, sono stati condannati ... - A morte? - chiese il capitano, impallidendo. - A essere mangiati vivi dalle aquile. - Dove? - Sulla cima di quella montagna. - Quando sono stati condotti lassù? - Stamane. - Dai monaci? - E da migliaia di pellegrini - rispose il tibetano. - Ah! Canaglie! Me la pagheranno! - gridò il capitano. - Che siano già giunti sulla cima? - La via è lunga ... lo ignoro. - Giurami che hai detto la verità. - Sul grande Buddha. - Partiamo senza perdere un istante - disse il capitano. - Forse giungeremo in tempo per salvarli. Si era lanciato verso lo "Sparviero", seguito dallo sconosciuto. Un momento dopo la macchina s'innalzava volando verso la montagna segnata dal tibetano, la quale sorgeva a circa mezza dozzina di miglia verso l'ovest. Era una piramide enorme, che doveva toccare i tremila metri e che sorgeva isolata fra un gruppo di monti minori. Tutti i suoi fianchi erano coperti di neve; solamente alla base si vedeva un po' di vegetazione, dei gruppi di pini e di abeti. Lo "Sparviero" si elevava rapidamente, battendo poderosamente e precipitosamente le ali per raggiungere quell'altezza considerevole. Anche le eliche orizzontali turbinavano vertiginosamente, imprimendo al fuso un fremito sonoro. L'aria diventava di momento in momento più rarefatta, rendendo la respirazione degli aeronauti assai penosa. Si trattava di raggiungere i settemilanovecento e forse gli ottomila metri d'elevazione, trovandosi già il lago a quattromilaseicentotrenta sul livello del mare. Solamente i tibetani, abituati a quell'atmosfera, potevano resistere senza provare alcun disturbo. Perfino il capitano si sentiva ronzare gli orecchi e girare il capo come se fosse ubriaco. Lo sconosciuto poi si era lasciato cadere su una cassa tenendosi la testa stretta fra le mani e respirando affannosamente. Raggiunti i settemila metri, lo "Sparviero" prese la corsa verso l'enorme montagna, provocando una fortissima corrente d'aria. Ora il freddo era così intenso a quell'altezza, che le balaustrate di metallo si erano coperte quasi istantaneamente di ghiaccioli e che l'alito degli aeronauti, appena uscito dalle loro labbra, si convertiva in nevischio. Il capitano, dopo essersi avvolto in coperte di lana di molto spessore, si era messo in osservazione a prora, tenendo il cannocchiale puntato sulla vetta della piramide. Quantunque la distanza fosse ancora notevole, gli pareva d'aver veduto due punti oscuri ergersi sulla cima, fra il candidissimo strato nevoso. - Che siano Rokoff e Fedoro? - si era chiesto. - Se giungessimo troppo tardi? Macchinista, aumenta ancora, fino a far scoppiare la macchina! I due punti neri diventavano più distinti. Sembravano due esseri umani appesi a un palo o a una croce sormontata da alcuni stracci svolazzanti al vento. Dei punti più piccoli, che non si potevano ancora discernere, volteggiavano intorno, ora alzandosi e ora abbassandosi. Che cos'erano? Aquile forse, pronte a precipitarsi sulla preda a loro offerta dal miserabile Bogdo-Lama di Dorkia? Il capitano lo supponeva. - I fucili da caccia! - gridò. - Preparate i fucili da caccia e innalziamoci ancora! ... Rokoff e Fedoro sono lassù! Lo sconosciuto, strappato dal suo torpore da quei comandi, con uno sforzo supremo si era alzato, barcollando come un ebbro. - Perché i fucili?- chiese. - E le bombe? - Le aquile! Le aquile! Stanno per dilaniarli! - gridò il capitano. - Guardate! Ah! I miserabili! Lo "Sparviero"" aveva raggiunto la piramide, ma si trovava ancora troppo basso per raggiungere il vertice. Interruppe bruscamente la sua marcia orizzontale e ricominciò ad elevarsi, inclinandosi verso poppa per avere maggior slancio. Sulla cima della piramide, proprio sulla vetta, si vedevano Fedoro e Rokoff a dibattersi disperatamente e si udivano a urlare colla speranza di spaventare le aquile che giravano intorno a loro, pronte a dilaniarli coi robusti rostri e coi poderosi artigli. I due disgraziati, che indossavano ancora le tonache dei monaci, erano legati a una specie di croce, l'uno accanto all'altro, sormontati da una bandiera di feltro bianco, su cui si vedevano dipinte delle lettere. Quindici o venti aquile volteggiavano ora sopra e ora intorno a loro mandando acute grida, sfiorandoli colle loro poderose ali per stordirli prima di cominciare a farli a pezzi vivi. Entrambi si dibattevano disperatamente, cercando di far cadere la croce, ma erano legati così solidamente da non poter liberare né le mani né i piedi. Già un'aquila, più ardita delle altre, si era posata sulla cima della croce, pronta a spaccare il cranio del cosacco, che si trovava più vicino, quando comparve lo "Sparviero", il quale aveva finalmente superato l'orlo della piramide tronca. Contemporaneamente rimbombarono due spari e il vorace volatile, colpito in pieno, capitombolava al suolo. Due grida era sfuggite ai disgraziati, che già credevano di sentirsi dilaniare, due grida di gioia suprema: - Lo "Sparviero"! Il capitano! Poi seguirono una serie di detonazioni: era la mitragliatrice che tempestava le altre aquile, fracassando le loro ali o fulminandole sul colpo. Lo "Sparviero" si era adagiato sulla cima della montagna e il capitano e lo sconosciuto, quantunque storditi, si erano slanciati a terra. - Rokoff! Fedoro! - gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

Lo jack intanto, abbandonato a se stesso, veniva travolto dalla corrente impetuosa. Fu veduto girare un momento su se stesso presso la cascata, poi inabissarsi. - Buon viaggio - disse Rokoff, che alimentava il fuoco. - Mentre vi asciugate, io e Fedoro andremo a vedere da qual parte potremo scendere - disse il capitano. - Sono già le due e chissà quanta via dovremo percorrere prima di ritrovare lo "Sparviero". I nostri compagni saranno un po' inquieti per la nostra prolungata assenza. Seguirono la riva del torrente portando con loro la corda e s'arrestarono all'estremità del burrone. Le acque, chissà dopo quanti anni di continuo lavoro, si erano aperte un largo passaggio fra la parete rocciosa e si precipitavano nel sottostante abisso da un'altezza di oltre venticinque metri, con un rombo assordante, che l'eco delle rupi ripercuotevano ed ingrossavano. Le due pareti erano quasi lisce, ma lasciavano ai due lati del torrente un po' di spazio sufficiente a lasciar passare un uomo. - Potremo scendere - disse il capitano. - Prenderemo una doccia gelata, ma bah! Penseremo poi a riscaldarci. - Dove legheremo la corda? - chiese Rokoff. - A quella roccia, che sembra sia stata collocata lì per servire a noi. - Non cadremo in una nuova trappola? - Vi è una gola nel burrone - rispose il capitano, il quale si era spinto fino sull'orlo della cascata. - Speriamo che non sia chiusa. Alcuni passi più indietro vi era uno scoglio aguzzo che s'alzava in forma d'obelisco. Il capitano legò la corda, poi lanciò l'altra estremità parallelamente alla cascata. - Ce n'è a sufficienza - disse. - A me l'onore di tentare pel primo la discesa. Prima che Fedoro avesse potuto rispondere, l'intrepido comandante si era aggrappato alla corda, lasciandosi lentamente scivolare. Ben presto si trovò avvolto in una nube di schiuma e di acqua polverizzata. Degli spruzzi, tratto tratto, gli piombavano addosso accecandolo e quasi soffocandolo, mentre il rombo della cascata lo assordava, pure resisteva tenacemente, tenendosi ben stretto alla corda. Fedoro lo seguiva cogli sguardi, fremendo. Se un nodo si fosse sciolto, quale spaventevole caduta! Il capitano non si sarebbe certamente salvato, il fondo della cateratta essendo irto di rocce sottili come aghi. A un tratto lo vide scomparire dietro l'angolo della parete, poi udì confusamente la sua voce. - Deve aver toccato il fondo - disse Fedoro a Rokoff il quale si era rapidamente svestito. - A te ora - disse il cosacco. - Io scenderò ultimo per tenerti la corda ben tesa. Bada di non lasciarti andare prima del tempo e di non cadere in acqua; nessuno potrebbe salvarti e la corrente ti fracasserebbe subito contro le rocce. Se soffri le vertigini, chiudi gli occhi. - Sì, Rokoff - rispose il russo. Strinse la corda con tutta la forza delle mani e si lasciò scivolare adagio adagio per non scorticarsi le palme e le dita. Quella discesa era veramente terribile, con quella cascata che precipitava a pochi passi, fra tutta quella spuma che gli impediva di vedere la rupe, quel fracasso rimbombante e quei getti d'acqua che lo inondavano, freddi come se fossero di ghiaccio liquido. Due o tre volte, intontito, mezzo soffocato, fu lì lì per perdere la sua energia e lasciarsi andare, non sentendosi più in grado di poter resistere a quella prova tremenda. A un certo punto sentì due braccia robuste afferrarlo ed attirarlo verso la parete. - Qui, mettete i piedi qui! - gli gridò una voce agli orecchi. - La discesa è finita. Era il capitano che lo aspettava su una piccola piattaforma che si trovava a pochi metri dal fondo della cascata. - Aggrappatevi a questi sterpi - disse il comandante dello "Sparviero" - Poco piacevole questa discesa, è vero, signor Fedoro? - Stavo per lasciarmi cadere - rispose il russo, afferrandosi, coll'energia che infonde la disperazione, ad alcune radici che uscivano da un crepaccio della parete. - Vi sareste sfracellato. E Rokoff? - Sta per scendere. - Aspettiamolo, poi andremo a visitare quella gola. Il cosacco non si fece aspettare molto. Quel diavolo d'uomo non aveva provato alcuna vertigine, né un momento di debolezza. Pure non sembrava troppo contento. - Per le steppe del Don! - esclamò, appena mise i piedi sulla piattaforma. - Quasi avrei preferito fare un altro salto nell'abisso. All'inferno gli jacks e anche le cascate! Possiamo almeno uscire? - Ora lo sapremo - rispose il capitano. Saltarono su un'altra piattaforma che si trovava un metro più sotto e scesero nel burrone che era molto più ampio del primo e del pari attraversato in tutta la sua lunghezza dal torrente, il quale si precipitava, con un altro salto, entro un bacino profondo che sboccava in una stretta valle. - Vedete lo jack in qualche luogo? - chiese Rokoff. - No - rispose il capitano. - La corrente l'ha portato via. - In quale stato giungerà abbasso con tutte queste cascate? Lo troveremo a pezzi. - Abbiamo l'altro sull'altipiano - rispose il capitano. - Ecco la gola! Attraversato il burrone giunsero dinanzi ad uno stretto passaggio aperto fra due rupi enormi che s'alzavano fino al piccolo altipiano e così lisce da rendere impossibile una scalata. Il capitano ed i suoi compagni si cacciarono nella gola che descriveva delle curve e dopo dieci minuti giungevano in una valletta la quale scendeva ripidissima fino al deserto. - Urrà'. - gridò Rokoff. - Ecco laggiù lo "Sparviero"! Siamo salvi! Infatti, adagiata sulle sabbie, si scorgeva la macchina volante, colle sue immense ali distese. Una macchietta nera si muoveva sulla sabbia, ora accostandosi e ora allontanandosi dal fuso. - Un nostro compagno che veglia - disse il capitano. - Scendiamo amici. - E il torrente? - chiese Fedoro. - L'odo rumoreggiare sulla nostra destra. - Andremo a cercarlo poi? - Sì, signor Fedoro; preme anche a me lo jack. Si misero a scendere la valletta, fermandosi di quando in quando per tema di fare un altro incontro con quei formidabili animali, incontro che avrebbe potuto avere gravi conseguenze, non avendo più le carabine che erano rimaste in fondo al torrente. Alle sei di sera toccavano le sabbie del deserto. Stavano per dirigersi verso lo "Sparviero", quando Rokoff segnalò uno stormo di grossi uccelli che s'alzava e s'abbassava dietro un ammasso di rocce. - Capitano - disse. - Non sono avvoltoi quei volatili? - Si - rispose l'interrogato, dopo averli osservati qualche istante. - Ci deve essere qualche carogna per averli attirati in così grosso numero. - Che sia il nostro jack? - Pensavo anch'io in questo momento a quell'animale. Forse il torrente o fiume che sia, scorre dietro a quelle rupi. - E lo abbandoneremo a quegli ingordi uccellarci? - No, l'abbiamo cacciato noi e l'avremo. Signor Fedoro, recatevi allo "Sparviero" e dite al macchinista di venire a raggiungerci. Non è che ad un miglio da noi. Mentre il russo si allontanava, il capitano ed il cosacco girarono intorno a quell'ammasso di rupi, che formavano l'ultimo sperone della piccola catena. Il torrente, diventato un largo fiume, scorreva dietro di esse, dirigendosi verso l'est.-Era un affluente del Darja, oppure andava ad alimentare il lago di Tuslik-dung o quello più ampio del Lob-nor? Le sue acque avevano cominciato a fertilizzare le aride terre del deserto. Sulle due sponde si vedevano numerose betulle nane e fitti cespugli. - Ecco là gli avvoltoi - disse Rokoff. - Saccheggiano la nostra selvaggina; vedete che s'innalzano portandosi via dei pezzi di carne sanguinante? I bricconi! Affrettarono il passo e giunsero sulla riva. Non si erano ingannati. Lo jack si era arenato su un banco di sabbia e una quarantina di brutti avvoltoi, col collo spellato e rognoso, le penne oscure ed arruffate, stavano dilaniandolo con ingordigia feroce; ci vollero molte sassate prima di deciderli ad abbandonare l'enorme preda che avevano già intaccata in più parti, aprendo dei buchi considerevoli. Vi era però ancora tanta carne, da assicurare i viveri per un mese intero ai cinque aeronauti. Nelle continue cadute l'animale era stato ridotto in deplorevoli condizioni. Gambe e costole erano state fracassate e la carne in più luoghi sbrindellata. - Sarà più frolla - disse Rokoff. Lo "Sparviero" giungeva volando a pochi metri dal suolo. Si posò a cinquanta passi dalla riva ed il macchinista, e l'uomo silenzioso scesero armati di scuri. Due ore dopo lo jack, ridotto a pezzi, gelava nella ghiacciaia dello "Sparviero".

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682346
Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

La fregata aveva abbandonato il molo e scendeva maestosamente il fiume, vomitando nubi di fumo e mandando lunghi fischi. I thugs, sfiniti, impotenti di più oltre lottare, si erano arrestati guardando con occhio feroce la nave, che passava a duecento passi dalla imbarcazione. - Tutto è perduto! - urlò un di loro, tendendo il pugno. - No, no! ... - esclamò Tremal-Naik. Si curvò, raccolse la carabina, l'armò e diresse la canna sulla fregata. Sul ponte di comando aveva veduto un uomo e l'aveva subito riconosciuto: era il capitano Macpherson. Già aveva imbracciato l'arme, già stava per far partire il colpo, quando un thug lo atterrò. - Tu vuoi farci assassinare, - disse lo strangolatore, disarmandolo. Tremal-Naik si rialzò cogli occhi accesi, le pugna alzate, il viso stravolto. - Ma non sai tu, miserabile, che se i thugs perdono Raimangal io perdo la mia Ada? - urlò egli. - Calmati, Tremal-Naik. Vi sono altre navi che si recano nelle Sunderbunds. - Quali? - Guarda quella cannoniera. Imbarca cannoni e botti di polvere. Non vedi sul picco la bandiera inglese? Tremal-Naik vide infatti una grande cannoniera, ancorata dinanzi alla spianata dello Strand, che preparavasi a partire. Un pennacchio di fumo usciva dal camino. - Se fosse vero! ... - mormorò egli con voce tremante. - Al molo! al molo La baleniera con quattro arrancate approdò dinanzi a Kuti-Bazar. Proprio nel medesimo istante, un canotto montato da un quartier-mastro della Reale Marina prendeva il largo. - Ohe! Hider! - gridò un thug. Il quartier-mastro, indiano pur egli, si volse. - Olà, amici, dove andate? - chiese egli tornando a riva. - Chi è quel marinaio? - chiese Tremal-Naik. - Un affiliato, gli fu risposto. Hider in quel frattempo era sbarcato. Era un bell'uomo di alta statura, sui quarant'anni, con una barba nerissima e folta, occhi lucentissimi e membra muscolose. Tra le labbra teneva una corta pipa e fumava vigorosamente. - Amici miei, - disse, avvicinandosi, - qui succedono delle cose assai gravi. - Lo sappiamo, - disse Tremal-Naik. - Chi sei tu? - chiese il quartier-mastro, con diffidenza. Tremal-Naik gli mostrò l'anello che portava in dito. Il marinaio cadde in ginocchio. - Ordina, inviato di Kâlì, - disse con voce tremante. - Conosci il capitano Macpherson? - Forse più di te. - Sai dove conduce la fregata? - Nessuno sa ove vada la Cornwall, ma io ho un sospetto. - La conduce a Raimangal. - Il quartier-mastro scagliò la pipa a fracassarsi sui sassi. - A Raimangal! ... - esclamò egli. - A Raimangal hai detto? - Sì, egli va ad assalire Suyodhana. - Lo sospettavo. Ho fatto imbarcare due affiliati sulla Cornwall. - Che ordini hanno? - Di vegliare e di informarci di quanto succede, appena potranno disertare. - Allora siamo perduti. Il quartier-mastro non rispose. Non trovava parole. - Cosa fa quella cannoniera che si sta armando? chiese Tremal-Naik. - Ci rechiamo a Colombo. - Bisogna che cada in nostra mano. - Cosa vuoi fare della Devonshire? - Per raggiungere la Cornwall prima che getti l'ancora a Raimangal. - E colarla a fondo? - Questo è affar mio, - disse Tremal-Naik. - Comanda. - Quanti affiliati ci sono a bordo della Devonshire? - Siamo in sei. - L'equipaggio ammonta a ... ? - Trentadue uomini. - Bisogna imbarcare almeno dieci affiliati. - È impossibile! - esclamò Hider. - Con sei affiliati non si conquista la cannoniera. - Lo so. - Cosa imbarcano ora? - Cannoni. - E poi? - Delle provviste. - Imbarcheranno delle botti di biscotto e di acqua, suppongo. - È vero. - Sta bene. Invece di botti di biscotto imbarcheranno delle botti contenenti dei thugs. Puoi fare questa sostituzione tu? - Dirigo io l'armamento della Devonshire. - Una parola ancora. Quando si parte? - A mezzanotte, mi disse il capitano. - Credi tu che si raggiungerà la Cornwall? - Forzando molto la macchina si potrebbe raggiungerla. - Mi basta. A questa sera, Hider.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Il "Danebrog", semi-rovesciato su un fianco, coperto d'acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla. Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta. Quando si risollevarono il "Danebrog" non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall'isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

- Le ho bene assicurate e vedete che anche il fucile non l'ho abbandonato. - Ora pensiamo a guadagnare la riva. - Ma questi dannati ghiacci ci stritoleranno se abbandoniamo la slitta, e poi le mie vesti sono diventate così pesanti che non sarò capace di nuotare per dieci metri. - Si tratta di spingere la slitta verso la riva. Attenzione, Koninson! Una gran lastra di ghiaccio, un vero "stream" lungo una cinquantina di metri, muoveva dritto sulla slitta frantumando con mille scricchiolìi tutti i ghiacci minori. - Ci schiaccerà! - disse Koninson, battendo i denti per il freddo. - Prima romperà la slitta! - rispose il tenente. - Non perderti d'animo, amico mio, e tieni fermo finchè raggiungiamo la riva. - Vi confesso che non ne posso più. Queste acque sono diabolicamente fredde e sento che a poco a poco i miei muscoli si irrigidiscono. - Attenzione, Koninson. Il lastrone non era che a pochi passi. Frantumò con un potente urto due piccoli ghiacci, poi si precipitò come un ariete sulla slitta. Si udì un lungo scricchiolìo, le traverse si spezzarono, le corde si ruppero, lasciando cadere i pochi oggetti che i naufraghi avevano salvato dalle rapaci mani dei Tanana, quindi tutto l'apparecchio si disciolse andandosene alla deriva. Il tenente e Koninson furono travolti dalla corrente, ma ben presto, lottando con disperata energia, riuscirono ad aggrapparsi ad un banco di ghiaccio issandovisi sopra. - Ah, mio tenente! - mormorò il povero fiociniere che non si reggeva più. - Mi pare che il mio cuore sia diventato un blocco di ghiaccio. - Coraggio, amico. La corrente ci spinge verso la riva destra e fra pochi istanti toccheremo terra. Koninson non rispose. Quasi completamente assiderato si era raggomitolato su sè stesso, ormai incapace di fare il più piccolo movimento. Fortunatamente il banco urtò contro i ghiacci della riva e si incastrò fortemente dentro un largo crepaccio. Il tenente, a cui quel bagno prolungato in quelle acque così gelate non aveva completamente tolte le forze, si caricò del compagno e raggiunse la sponda arrestandosi a pochi passi da un boschetto di betulle. Senza occuparsi di sè stesso, in pochi istanti spogliò il fiociniere, poi raccolse un pò di neve e si mise a strofinarlo vigorosamente per rimettergli in circolazione il sangue. Dopo alcuni minuti lo vide muoversi e infine riaprire gli occhi. - Vedo che hai la pelle dura e sono contento! - gli disse, sorridendo. - Orsù, ragazzo mio, spicca quattro salti finchè io corro al boschetto a procurare della legna. - Grazie, signor Hostrup, ma se tardate a spogliarvi delle vesti, gelerete. - Bah! La mia pelle sfida quella degli orsi bianchi; d'altronde non impiegherò che pochi minuti ad accendere un buon fuoco. Impugnò la scure che aveva avuto tempo di salvare nel momento che la slitta capitombolava nel fiume, e si allontanò correndo, raccogliendo qua e là i rami morti e quelli che tagliava. Fatta un'ampia provvista ritornò presso Koninson, il quale stava facendo una ginnastica indiavolata per non tornare a gelare. L'esca e l'acciarino, conservati dentro un astuccio impermeabile, procurarono un bel fuoco attorno al quale i due balenieri si assisero, riscaldandosi le membra ed asciugandosi le vesti. - Ditemi, signor Hostrup, - disse il fiociniere che aveva ricuperato le forze e la favella - dove supponete che noi siamo? - Sulle rive del Makenzie, ma in quale punto preciso non te lo saprei dire. - Siamo molto lontani dal forte che cercate? - Te lo dirò quando avremo raggiunto la riviera del Grand'Orso, che si scarica in questo fiume. - A sud o a nord da noi? - A nord no di certo, poichè ci siamo costantemente tenuti a nord del Porcupine e questo fiume sbocca nel Makenzie quasi di fronte alla riviera del Grand'Orso. - Allora marceremo verso sud seguendo il fiume. - È necessario, e quando avremo raggiunto la riviera piegheremo ad est finchè troveremo il forte Speranza, il quale, se la memoria non mi tradisce, deve trovarsi a circa mezza via fra il Makenzie e il lago del Grand'Orso o del Musquàsa-ky-e-gum, come lo chiamano gli indiani. - Auff! Mi ci vorrà una settimana a pronunciare siffatto nome. Questo sforzo di lingua lo lascio a voi ed agli indiani. Ma ditemi, signor Hostrup, a cosa servono i forti piantati fra quelle deserte regioni? - A scopo di commercio. - E con chi commerciano? - Cogli indiani, i quali si recano di quando in quando ai forti a vendere le pelli degli orsi, di foche, di martore, di volpi, di linci, di lupi, di castori, di ratti muschiati e di lontre, contro, armi, liquori, reti, ecc. Anzi, ti dirò che tanto la Compagnia Russa che quella della Baia di Hudson, proprietarie dei forti, fanno ottimi affari. - Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta? - Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti. - Ne troveremo degli altri, dunque? - Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand'Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta. - Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti. - Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti? - No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte. - Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo. Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s'allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud. Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s'avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d'oro. Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d'un gruppo di piante. - In guardia! - mormorò, armando il fucile. - Qui ci sono delle bistecche. Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d'onde venivano i grugniti. Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d'Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media. - Oh! - esclamò egli sorpreso. - Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell'infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo. L'orsa, poichè doveva essere una femmina, d'improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l'orsacchiotto che non era in grado di difendersi. Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame. L'orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l'orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti. Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s'accorse che minacciava di sprofondare. Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l'orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino. Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l'arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita. Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s'accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l'accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d'un grosso fiume. - Che sia il Makenzie? - si chiese. - Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare. Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz'ora di trovava sulla riva di un largo corso d'acqua che veniva da est. - È il Makenzie, o la riviera del Grand'Orso? - si chiese egli, salendo su di un'alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. - Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive. Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie. - Cosa saranno quegli oggetti là? - si domandò. - Andiamo un pò a vedere. Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano "kajacks", leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un'apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala. - Scoperta magnifica! - disse il tenente. - Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell'Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza. Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto. - Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni - disse il tenente. - E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto. Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand'Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord. Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina. Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall'accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all'orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude. Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L'orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile. Là madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l'arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l'accampamento gridando: - A me, Koninson! ... A me! ... Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l'orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell'orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.

La povera madre non si era più fatta vedere e pareva che ormai avesse abbandonato ogni progetto di vendetta; sicchè, dopo il pasto, poterono discorrere tranquillamente sul nuovo viaggio che stavano per intraprendere sul Makenzie e che molto probabilmente doveva essere l'ultimo, essendo lontani solamente poche giornate dal forte Speranza. - Se tutto procede bene e non facciamo cattivi incontri, fra una settimana potremo riposare su di un buon letto - diceva il tenente, dopo aver narrato la fortunata scoperta dei "kajacks". - Io conto di essere ormai fra le mura del forte - disse Koninson. - Sul fiume non troveremo ostacoli di certo. - Non bisogna correre troppo, ragazzo mio. Ci troviamo in un certo paese che può giuocarci ancora dei brutti tiri. Gli indiani o gli eschimesi, gli orsi e la fame possono metterci in gravi imbarazzi. - Io ho fiducia nella nostra buona stella che, dalle sponde dellArtico, ci condusse fin qui, signor Hostrup. - Piuttosto quando saremo giunti al forte, cosa faremo? - S'incaricherà quel comandante di farci condurre negli stabilimenti dell'est. Nella buona stagione le comunicazioni sono frequenti tra forte e forte e, quando saremo giunti nel Canada, daremo un addio all'America e torneremo in patria. - Come desidero di rivedere la mia Danimarca, signor Hostrup! - disse Koninson sospirando. - I nostri parenti ci crederanno a quest'ora morti fra i ghiacci del polo. - La cosa è certa. - E di tanti che erano con noi, non ritornano che due! Povero capitano e poveri compagni! - Lascia le cose tristi, mio buon Koninson, - disse il tenente che pure era diventato commosso. - Non è il momento di evocare la dolorosa storia del naufragio. Orsù, pensiamo a riposare, che domani dobbiamo partire per tempo. - E non correremo alcun pericolo? L'orsa non si è più fatta vedere, ma potrebbe ritornare e approfittare del nostro sonno per divorarci il cranio. - Hai ragione, quantunque le belve non osino avvicinarsi egli accampamenti difesi da un fuoco. Coricati; il primo quarto li guardia lo farò io. Il fiociniere, che si sentiva ancora spossato, non se lo fece dire due volte e si sdraiò coi piedi volti verso il fuoco, mentre il tenente si sedeva pochi passi più lontano col fucile fra le ginocchia. Il primo quarto passò senza incidenti, ma durante il secondo l'orsa si mostrò sull'orlo della palude e si spinse fino a poche centinaia di passi dall'accampamento mandando urla disperate. Il fuoco però, che veniva continuamente alimentato, la tenne lontana e verso le prime ore del mattino la povera madre ritornava in mezzo ai salici allontanandosi verso est. Alle 7 i due balenieri, caricatisi delle loro armi e della carne dell'orsacchiotto, si misero in cammino seguendo la riva del Makenzie e tre ore dopo giungevano dinanzi alla tenda scoperta il giorno precedente. Il tenente visitò accuratamente i "kajacks" e, trovatili in ottimo stato, ne gettò due sul fiume. - In barca, - comandò poi - e facciamo molta attenzione ai ghiacci, poichè basta un solo urto per sfondare le costole di questi leggerissimi canotti. Si cacciarono dentro, presero le pagaie a doppia pala e si spinsero al largo evitando con somma cura le lastre di ghiaccio che la corrente ancora trascinava, e in quantità rilevante. Da principio le loro mosse furono faticose, ma ben presto le loro braccia ritrovarono l'antico vigore e i due leggieri canotti, spinti energicamente innanzi, risalirono il fiume con notevole velocità, rimbalzando agilmente sulla corrente. Le due rive offrivano di quando in quando delle pittoresche vedute, ma erano affatto deserte. Quella di sinistra, alta assai, in taluni punti tagliata quasi a picco, era selvaggia, con rupi gigantesche dai cui crepacci saltavano nel fiume torrentelli spumeggianti, con gole profonde e affatto spoglie d'ogni vegetazione, con piccoli ghiacciai, che lasciavano scivolare grandi ammassi di ghiaccio, i quali s'inabissavano con cupo fragore rimontando poscia a galla; quella di destra invece scendeva dolcemente mostrando boschi di pini altissimi e di abeti e di betulle e macchie di salici nani in mezzo alle quali si vedevano saltellare numerosi topi campagnuoli dal mantello giallastro o bruno. Qualche lupo si mostrava qua e là, ma fuggiva ratto, e anche qualche lince si spingeva fin sulle rive a guardare con gli occhi sanguigni i due piccoli canotti che filavano in mezzo ai ghiacci galleggianti. I due naufraghi avevano già percorso una dozzina di miglia, quando improvvisamente giunse ai loro orecchi una specie di nitrito molto acuto che pareva emesso da un mulo. Si fermarono entrambi, guardandosi in faccia con inquietudine. - Se non m'inganno questo è il grido dell'orso bianco - disse Koninson. - Non ti sei ingannato, ragazzo mio, - rispose il tenente. - Fortunatamente abbiamo i canotti. - Se all'orso saltasse il brutto ticchio di darci la caccia, i nostri canotti a nulla gioverebbero. Sono nuotatori formidabili, quei carnivori dal bianco mantello, e non perdono contro un canotto. - Infatti sovente ho veduto qualcuno di questi mostri nuotare ad una trentina di miglia dalle coste. Mi sorprende però di trovarli qui, su questo fiume. - E perchè, Koninson? - Mi hanno detto che gli orsi bianchi non si allontanano molto dalle rive dell'Oceano. - È vero, ma talvolta si addentrano nelle terre seguendo il corso dei fiumi e non di rado se ne uccisero ad una distanza di centosessanta e anche duecento miglia dalle coste marine. II nitrito si fece udire più vicino. Koninson e il tenente guardarono verso la riva sinistra e videro scendere, attraverso la spaccatura di una roccia, un grosso orso bianco, il quale si arrestò sedendosi sulle zampe posteriori. - Mi pare che non abbia delle buone intenzioni - disse Koninson. - Il birbante deve essere affamato e conta di satollarsi colle nostre carni. Eh, mio caro, sono troppo coriacee per il tuo ventricolo. - Stiamo in guardia, poichè mi ha l'aria di non lasciarci passare. Appoggiamo verso la riva destra. - Se si potesse piantargli due palle nel cranio? - È impossibile avere il polso fermo in questi canotti. Orsù, prendiamo il largo. L'orso non assaliva. Si accontentava di seguirli con due occhi che manifestavano un'ardente bramosia, agitando il capo da destra a sinistra, con quel moto che è particolare a tutti gli orsi, a qualunque razza appartengano. I due canotti erano già giunti presso la riva che in quel luogo disgraziatamente non offriva approdi essendo tagliata quasi a picco, quando l'orso si decise a muoversi. Fece alcuni passi innanzi e indietro, come se cercasse un buon punto, poi si gettò nel fiume con un sordo tonfo, sollevando una colonna d'acqua. - Presto, fuggiamo o siamo perduti! - gridò il tenente. - Attento ai ghiacci, Koninson, poichè se il tuo canotto si spezza l'orso non ti risparmierà. Fecero forza di remi e risalirono la corrente sperando di giungere in qualche punto della sponda che permettesse di approdare e di affrontare sul terreno solido il nemico che nel liquido elemento aveva dalla sua tutti i vantaggi possibili. Ma ben presto s'accorsero con vivo terrore, che quella gara con quell'abile nuotatore era impossibile. Infatti il feroce animale, che forse una gran fame animava, veniva innanzi con una velocità incredibile battendo furiosamente le sue larghe zampe e mostrando una larga bocca che, di quando in quando, richiudeva con colpi secchi da mettere i brividi. Certi momenti si slanciava quasi interamente fuori dell'acqua spiccando dei lunghi salti, come se trovasse un terreno solido, guadagnando in un colpo solo tre o quattro metri. La buona stella però, che fino allora aveva protetto i naufraghi, anche questa volta non li abbandonò. Infatti ad una svolta del fiume scorsero alcun isolotti che potevano offrire un rifugio o almeno un luogo propizio per affrontare l'animale. - Presto, Koninson! - disse il tenente che remava disperatamente. - Dirigiamoci laggiù e prendiamo subito terra. Con un ultimo sforzo si avvicinarono agli isolotti e si arenarono dinanzi al primo. Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure. L'orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l'agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò. - Fugge forse? - chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d'orso per pranzo. - Non lo credo - rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. - Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott'acqua per poi gettarsi contro di noi all'improvviso. - Bah! Avrà l'accoglienza che si merita. - Eccolo, Koninson! Mira giusto! Infatti l'orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall'isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla. - Fuoco! - gridò il tenente. Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava. - È morto! - gridò Koninson slanciandosi innanzi. - Non ti fidare! - disse il tenente. - Sta in guardia! L'avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L'orso, che spiava il nemico tenendosi sott'acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe. - Non temere, ragazzo! - tuonò il tenente. L'orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt'altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi. S'udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi. - Grazie, mio tenente! - disse Koninson con voce commossa. - Non dimenticherò mai questo colpo maestro. - Mi ringrazierai a pericolo finito! - rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo. - Come? Non è morto dunque? - Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte. Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento. Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta. - Corpo d'una balena! - esclamò il fiociniere impallidendo. - Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno? - Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci - rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto. - Si potrebbe tentare la fuga? - Se la loro intenzione è quella di assalirci, l'acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti. I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume. Finalmente uno, il più grosso, s'immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili. La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s'arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue. Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s'allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce. - Buon viaggio! - gridò il fiociniere. - E tarda guarigione all'ammalato! - aggiunse il tenente. - Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche! - Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire? - La corrente l'ha portato chi sa mai dove, Koninson. - Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta! - Bah! Ne troveremo dell'altra. - Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi. - Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio. Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

I PIRATI DELLA MALESIA

682417
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Fra due o tre giorni noi avremo abbandonato queste coste e più nulla avremo da temere da parte del rajah. Dove andiamo ora? - Alla baia e subito. Qui non mi sento sicuro. - Partiamo dunque. Ma ... e Tremal-Naik! - Prima di mezzogiorno non si sveglierà. Sandokan diede il segnale della partenza e il drappello, coi feriti e con Tremal-Naik, malgrado la rapidissima marcia del mattino, si rimise in cammino seguendo un piccolo sentieruzzo aperto, chi sa quanti anni prima, dagli abitanti della foresta. Sandokan e Yanez con dieci dei più coraggiosi tigrotti aprivano la marcia con le carabine in mano: dietro venivano le barelle e poi tutti gli altri, due a due, con gli occhi volti ai due lati del sentiero e gli orecchi tesi per raccogliere il più piccolo rumore. Avevano percorso mezzo miglio circa, quando Aïer-Duk, che si era spinto alcuni passi più innanzi per esplorare la via, improvvisamente si arrestava armando il fucile. Yanez e Sandokan s'affrettarono a raggiungerlo. - Non muovetevi - disse il dayaco. - Che cos'hai visto? - chiese Sandokan. - Un'ombra attraversare rapidamente quelle macchie. - Un uomo o un animale? - Mi è parso un uomo. - Può essere un povero dayaco - disse Yanez. - E anche una spia del rajah - disse Sandokan. - Lo credi? - Ne sono quasi certo. Aïer-Duk, prendi quattro uomini e batti il bosco. Noi intanto andremo avanti. Il dayaco chiamò quattro compagni e si cacciò nella fitta boscaglia, strisciando fra le radici, i rami d'albero ed i cespugli. Poi la marcia fu ripresa attraverso filari di sontar, specie di palme che danno, incidendo il loro tronco, un succo zuccherino assai gradevole, e delle cui foglie anticamente si servivano i popoli della Malesia per scrivervi sopra. Poco dopo il drappello veniva raggiunto da Aïer-Duk e dai suoi compagni. Avevano perlustrato la foresta in tutti i sensi, ma non avevano trovato nulla fuorché tracce recenti di piedi umani. - Erano numerose? - chiese Sandokan che era ancora assai inquieto. - Quattro - rispose il dayaco. - Erano impronte di piedi nudi o calzati? - Di piedi nudi. - Forse quei due uomini erano dayachi. Affrettiamoci, tigrotti, qui non siamo troppo sicuri. Per la terza volta il drappello si rimise in cammino sorvegliando attentamente gli alberi ed i cespugli e, dopo tre quarti d'ora, giungeva sulle rive di un ampio corso d'acqua che sfociava in una vasta baia semi-circolare. Sandokan mostrò al portoghese un isolotto, alla distanza di trecentocinquanta metri circa, ombreggiato da bellissimi gruppi di alberi sagù, di durion, di mangostani e di arenghe saccarifere e difeso, verso la punta meridionale, da un vecchio ma ancor solido fortino dayaco, costruito con panconi e pali di teck, legno duro quanto il ferro, che resiste alle palle di un cannone di non piccolo calibro. - È là che riposa la vergine della pagoda? - chiese Yanez. - Sì, Ada è in quel fortino - rispose Sandokan. - Non potevi trovarle un posto migliore. La baia è bella e l'isolotto ben difeso. Se James Brooke verrà ad assalirci, avrà un osso duro da rodere. - Il mare è a cinquecento passi dall'isolotto, Yanez - disse Sandokan, - e una nave può bombardare il fortino. - Ci difenderemo. - Non abbiamo cannoni. - Ma i nostri uomini sono coraggiosi. - È vero, ma sono pochi e ... - Che cos'hai? - Zitto! ... Hai udito? ... - Io? ... Nulla, Sandokan. - Mi parVE che un ramo si sia spezzato. - Dove? - In mezzo a quel macchione. - Che ci siano proprio delle spie? ... Comincio ad essere inquieto, Sandokan. - ED anch'io. Affrettiamoci: sospiro il momento di giungere all'isolotto. Aïer- Duk! ... Il dayaco s'avvicinò alla Tigre. - Prendi otto uomini e accampati in questo luogo - disse Sandokan. - Se vedi degli uomini ronzare in questi dintorni verrai ad avvertirmi. - Contate su di me, capitano, - rispose il dayaco. - Nessuno s'avvicinerà alla baia senza il mio permesso. Sandokan, Yanez e gli altri scesero verso la baia, le cui sponde erano coperte da fitte boscaglie, e giunsero ad una piccola cala presso la quale stava nascosta, sotto un ammasso di canne e di rami d'alloro, una scialuppa. La Tigre girò all'intorno un rapido sguardo, ma non vide alcuno. Una viva inquietudine si dipinse sul suo volto. - Uno dei miei due uomini dovrebbe guardare la scialuppa, -disse. - Saranno tutti e due al fortino - disse Yanez. - E hanno lasciato qui la scialuppa! ... Yanez ... ho il cuore che mi batte forte ... temo una disgrazia. - Quale? - Che abbiano rapito Ada. - Sarebbe un colpo terribile! - Taci! - Ancora un rumore? ... - Sì, capitano Yanez - confermarono i pirati impugnando le armi. Si vedevano i rami di un macchione di cespugli agitarsi a cento passi dalla spiaggia. - Chi vive? - gridò Sandokan. - Mompracem - rispose una voce. Poco dopo un pirata usciva dai cespugli. Era ansante e sudato, come se avesse fatto una lunga corsa, e stringeva un fucile. - Viva la Tigre! - esclamò scorgendo il capo. - Da dove vieni? - chiese Sandokan. - Dalla foresta, capitano. - Dov'è la Vergine? - Nel fortino. - Sei certo? ... - L'ho lasciata due ore or sono sotto la guardia di Koty. Sandokan respirò liberamente. - Cominciavo a temere - disse. - Come sta? - Benissimo. - Che cosa faceva? - Quando la lasciai dormiva. - Hai veduto qualcuno nei boschi? - Io no, ma Koty stamane ha visto un uomo passare lungo la sponda e guardare con viva curiosità il fortino. Vedendosi osservato si affrettò a scomparire. - E l'hai veduto quell'uomo? - L'ho cercato, ma non sono riuscito a scoprirlo. - Che sia una spia del rajah? - chiese Yanez. - È probabile - rispose Sandokan che pareva preoccupato. - Che vengano ad assalirci qui? ... - Chi può dirlo? - Che cosa conti di fare? ... - Lasciare questo posto al più presto. Imbarchiamoci. I due capi e i loro uomini salirono nella scialuppa, attraversarono il braccio di mare che era largo due o trecento metri e sbarcarono ai piedi della fortezza ove li attendeva Koty. - Dorme ancora la vergine? - gli chiese Sandokan. - Sì, capitano. - È accaduto nulla di straordinario? - No. - Andiamo a vederla - disse Yanez. Sandokan gli additò Tremal-Naik che era stato deposto su di uno strato di erbe e di foglie verdi. - Mancano pochi minuti a mezzodì - disse. - Aspetta che si svegli. Ordinò ai suoi uomini di entrare nel fortino e si sedette accanto all'indiano che non dava ancora segno di vita. Yanez si accese una sigaretta e si sdraiò vicino a lui. - Ci vorrà molto, prima che apra gli occhi? - chiese dopo alcune fumate a Sandokan che guardava attentamente il viso dell'indiano. - No, Yanez. Vedo che la sua pelle a poco a poco riacquista il colore naturale. È segno che il suo sangue ricomincia a circolare. - Gli farai subito vedere la sua Ada? - Subito no, ma prima di questa sera sì. - E se non lo riconoscesse? Se ella non riacquistasse la ragione? - La riacquisterà. - Io dubito, fratello mio. - Ebbene, tenteremo una prova. - E quale? - A suo tempo te lo dirò. - E perché? ... - Taci! ... Un debole respiro aveva improvvisamente sollevato l'ampio petto di Tremal-Naik e aveva mosso leggermente le sue labbra. - Si sveglia, - mormorò Yanez. Sandokan si curvò sull'indiano e gli posò una mano sulla fronte. - Si sveglia - disse. - Subito? - Subito. - Senza fargli alcuna puntura? - Non ce n'è bisogno, Yanez. Un secondo respiro, più forte del primo, sollevò nuovamente il petto di Tremal- Naik e le sue labbra tornarono a muoversi. Poi le sue mani, che erano aperte, lentamente si chiusero, le sue gambe pure lentamente si piegarono e infine i suoi occhi si aprirono dilatandosi assai e si arrestarono su Sandokan. Rimase così alcuni istanti, come se fosse sorpreso di trovarsi tuttora in vita, poi, con uno sforzo violento, si alzò a sedere esclamando: - Vivo! ... Ancora vivo! - E libero - disse Yanez. L'indiano guardò il portoghese. Lo riconobbe subito. - Voi! ... Voi! ... - esclamò. - Ma che cosa è successo? Come mi trovo qui? Ho dormito io? - Per Bacco! - esclamò Yanez ridendo. - Non vi ricordate di quella pillola che vi diedi nel fortino? - Ah! ... Sì, sì ... ora ricordo ... voi eravate venuto a trovarmi ... Signore, signore, quanto vi ringrazio di avermi liberato! ... Così dicendo Tremal-Naik si era precipitato ai piedi di Yanez. Questi lo rialzò e lo strinse affettuosamente al petto. - Come siete buono, signore! - esclamò l'indiano che pareva avesse subito ricuperato le sue forze, e che era fuori di sé dalla gioia. - Libero! Sono libero! ... Vi ringrazio, signore, vi ringrazio! ... - Ringraziate quest'uomo, Tremal-Naik - disse Yanez additandogli Sandokan che, con le braccia incrociate sul petto, guardava con occhio commosso l'indiano. - È a quest'uomo, alla Tigre della Malesia, che voi dovete la vostra libertà. Tremal-Naik si precipitò verso Sandokan che lo accolse fra le sue braccia dicendo: - Sei mio amico! In quell'istante un urlo di gioia risuonò alle loro spalle. Kammamuri, che era allora uscito dal forte, correva loro incontro urlando: - Padrone! mio buon padrone! ... Tremal-Naik si slanciò verso il fedele maharatto che pareva fosse diventato pazzo. I due indiani si abbracciarono a più riprese, senz'essere capaci di scambiarsi una sola parola. - Kammamuri, mio buon Kammamuri! - esclamò finalmente Tremal-Naik. - Credevo di non rivederti mai più su questa terra. Ma come sei qui? Non ti hanno ucciso i thugs, dunque? - No, padrone, no. Io sono fuggito per cercare te. - Per cercare me! Ma sapevi che ero in questo luogo? - Sì, padrone, l'avevo saputo. Ah! padrone! quanto ti ho pianto dopo quella notte fatale. Io ti stringo fra le braccia, ti sento, eppure stento a credere che tu sia ancora vivo e libero. Non ci lasceremo più, è vero? - No, Kammamuri, mai più. - Vivremo assieme al signor Yanez e alla Tigre della Malesia. Quali nobili uomini, padrone! Se tu sapessi quanto hanno fatto per te, se tu sapessi quante lotte ... - Alto là, Kammamuri - disse Yanez. - Altri uomini avrebbero fatto quello che abbiamo fatto noi. - Non è vero, padrone. Nessun uomo potrà mai fare ciò che hanno fatto la Tigre della Malesia e il signor Yanez. - Ma perché interessarsi tanto di me? - chiese Tremal-Naik. - Eppure non vi ho mai veduti, signori. - Perché foste un giorno il fidanzato di Ada Corishant - disse Sandokan, e mia moglie era cugina di Ada Corishant. A quel nome l'indiano aveva fatto un passo indietro, barcollando come se avesse ricevuto una pugnalata in mezzo al petto. Poi si coprì con le mani il viso, mormorando con voce straziante: - Ada! ... o mia adorata Ada! ... Un singhiozzo sollevò il suo petto e due lacrime, forse le prime che stillavano da quegli occhi, gli rotolarono più per le gote abbronzate. Sandokan gli si avvicinò e, abbassandogli le mani, disse con dolcezza: - Perché piangete, mio povero Tremal-Naik? Questo è un giorno di gioia. - Ah, signore! ... - mormorò l'indiano. - Se voi sapeste quanto ho amato quella donna! ... Ada! ... oh mia Ada! ... Un secondo singhiozzo lacerò il petto dell'indiano e nuove lacrime gli spuntarono sulle ciglia. - Calmatevi, Tremal-Naik - disse Sandokan. - La vostra Ada non è perduta. L'indiano risollevò il capo che teneva curvo sul petto. Un lampo di speranza balenava nei suoi occhi neri. - Ella è salva? - Salva! ... - disse Sandokan. - Ed è qui, in quest'isolotto. Un urlo inumano irruppe dalle labbra di Tremal-Naik. - Ella è qui ... qui! ... - gridò gettando all'intorno sguardi smarriti. - Dov'è? ... Io voglio vederla, io voglio vederla! ... Ada! ... Ada! ... Oh mia adorata Ada! ... Fece l'atto di slanciarsi verso il fortino, ma Sandokan lo afferrò per i polsi e con tale forza da fargli crocchiare i polsi. - Calmatevi - gli disse. - Ella è pazza. - Pazza! ... la mia Ada pazza! ... - gridò l'indiano. - Ah! ... Ma io voglio vederla, signore, io voglio vederla fosse pure per un solo momento. - La vedrete, ve lo prometto. - Quando? - Fra pochi minuti. - Grazie, signore! grazie! - Sambigliong! - gridò Yanez. Il dayaco, che ronzava attorno al fortino esaminando attentamente le palizzate per assicurarsi se erano abbastanza solide per sostenere un assalto, alla chiamata del portoghese accorse. - Dorme la vergine della pagoda? - chiese Sandokan. - No, capitano - rispose il pirata. - È uscita alcuni minuti fa coi suoi guardiani. - Dove si è diretta? - Verso la costa. - Venite, Tremal-Naik - disse Sandokan prendendogli una mano. Ma vi raccomando di essere calmo: ricordate che è pazza.

I PREDONI DEL SAHARA

682453
Salgari, Emilio 3 occorrenze

Appena gli inseguitori furono lontani, El-Haggar, abbandonato il nascondiglio, si era gettato in un'altra viuzza e attraversando ortaglie incolte aveva potuto raggiungere indisturbato i quartieri più meridionali della città. Avendo promesso al marchese di recarsi da Esther per avvertirla dell'esito della spedizione, desiderava vedere subito la giovane. "Sarà un colpo terribile per lei," mormorò il moro, che si sentiva stringere il cuore a quel pensiero. "A meno d'un miracolo, il padrone, Ben e Rocco sono perduti; chi può averci traditi? Chi? ... " Ad un tratto un sospetto gli attraversò il cervello. "El-Melah!" esclamò. "Non può essere stato che quel miserabile! È stato lui a condurci l'arabo, è stato lui a preparare il piano e anche la sua scomparsa l'accusa. Ah! ... Per Maometto! ... La pagherà cara! ... E la signora Esther? Che sia in pericolo?" Allungò il passo, in preda a mille angosciosi pensieri. Temeva di giungere troppo tardi alla casa dell'ebreo. Quando si vide nei pressi del giardino, prima d'impegnarsi nella viuzza, fece il giro della casa e non vide nulla che potesse confermare i suoi sospetti. I dintorni parevano deserti e la porta della casa era ancora chiusa, come quando era partito assieme al marchese ed a Ben. Un pò rassicurato, girò lungo il muro del giardino per giungere al cancello e subito si arrestò indeciso. Dietro l'ammasso di rottami che ingombrava la via, aveva scorto un turbante che poi era subito scomparso. "Vi sono degli uomini nascosti là," disse. "Chi saranno? Dei kissuri forse?" Stette un momento esitante, poi impugnata la rivoltella colla sinistra e l'jatagan colla destra varcò la porta. Anche nel giardino nessun disordine, né alcuna traccia di violenza. I cammelli ed i mehari, coricati l'uno presso l'altro, sonnecchiavano, mentre presso il pozzo bollivano alcune pentole. "Nessuno!" esclamò, impallidendo. "Dove sono Tasili ed i beduini? E la signora Esther?" Ad un tratto udì delle voci che echeggiavano dalla parte del cortile. "C'è qualcuno qui," disse. Si slanciò verso l'andito ed entrò nel cortile, ma giunto sotto il porticato s'arrestò, poi retrocesse con orrore. Tasili giaceva presso una colonna, coricato su di un fianco, colle mani raggrinzite sul petto e le gambe distese. Una larga macchia di sangue si dilatava lentamente attorno al disgraziato. "L'hanno assassinato!" esclamò. Stava per curvarsi sul vecchio, quando udì Esther gridare: "Aiuto! Tasili!" El-Haggar in certi momenti era coraggioso. Quantunque ignorasse con quanti avversari avesse a che fare, si slanciò risolutamente in soccorso della giovane ebrea. Attraversò le due stanze e nella terza vide El-Melah che tentava di trascinare con sé la giovane. Comprese tutto. Alzò la rivoltella per far fuoco sul rapitore, poi, temendo che la palla potesse ferire anche la giovane, l'abbassò impugnando invece l'jatagan e si scagliò sul traditore, sprofondandogli l'arma fra le spalle. Il colpo vibrato dal moro fu così tremendo, da troncare di colpo la spina dorsale. La morte dell'assassino del colonnello Flatters era stata, si può dire, quasi fulminante. Esther vedendolo cadere, si era precipitata verso El-Haggar, il quale teneva ancora in pugno l'arma. "Ringraziate Allah, signora," disse il moro, "che mi ha fatto giungere in tempo per salvarvi e per vendicare il padrone e vostro fratello. Questo miserabile ci aveva venduti tutti al sultano." "E il marchese? E Ben?" gridò Esther, con un singhiozzo straziante. "Temo, signora, che siano perduti," rispose El-Haggar con voce triste. "Potente Iddio!" esclamò la giovane, coprendosi il viso. "Ignoro però se siano stati fatti prigionieri, perché quando fuggii per venire ad avvertirvi, i kissuri non avevano ancora assalito il padiglione." "Narrami tutto, El-Haggar! Voglio sapere tutto." Il moro in poche parole raccontò tutto ciò che era avvenuto dopo la loro partenza, fino al momento in cui i kissuri accorrevano da tutte le parti della piazza. "El-Haggar," disse la giovane, con suprema energia. "Andiamo alla kasbah. Dove sono i beduini e Tasili?" "I primi sono scomparsi ed il vostro servo è stato assassinato da El-Melah." "Tasili ucciso!" esclamò Esther, con dolore. "Andiamo a vederlo, signora, se ne avrete il coraggio." "Ne avrò, El-Haggar." Stavano per uscire, quando il moro le disse "Armatevi, signora. Ho veduto degli uomini nascosti presso la cinta del giardino." "Dei kissuri?" "Suppongo che siano dei complici di El-Melah." "Ho la mia carabina e la rivoltella." Esther rientrò nella sua stanza, si annodò rapidamente i capelli, indossò il giubbetto ricamato, si gettò sulle spalle un caic fornito d'un ampio cappuccio, prese le sue armi e raggiunse il moro il quale era già uscito dal porticato. "Mio povero e fedele Tasili!" gemette la giovane, curvandosi sul vecchio servo di suo padre. "È morto, signora," disse El-Haggar. "Il traditore lo ha colpito al cuore." "L'infame!" Sollevò dolcemente il capo del vecchio moro, guardandolo per alcuni istanti cogli occhi lagrimosi, sperando forse di sorprendere su quel volto qualche indizio di vita, poi lo lasciò ricadere. "Riposa in pace, mio fedele Tasili," disse. "Avrai onorata sepoltura." "Venite, signora," disse El-Haggar, allontanandola con dolce violenza. Giunti nel giardino, il moro bardò il cavallo e l'asino, aiutò Esther a salire sul primo, inforcò il secondo, e si diresse verso il cancello. "Adagio, signora," disse il moro staccando dalla sella il suo lungo fucile marocchino e armandolo. "Gli uomini che ho scorti sono dietro quell'ammasso di macerie." "Vuoi cacciarli?" "Potrebbero seguirci o approfittare della nostra assenza per derubarci dei bagagli e dei cammelli. Ah! I beduini!" All'estremità della viuzza erano comparsi i due figli del deserto, tenendo in mano i loro moschettoni. Vedendo El-Haggar ed Esther, affrettarono il passo. "Signora," disse uno dei due. "Non abbiamo veduto nessuno sulla piazza del mercato." "Chi vi ha mandati colà?" chiese Esther, stupita. "El-Melah. Ci aveva detto che il servo del marchese ci attendeva." "Ora comprendo," disse El-Haggar. "Quel miserabile li aveva allontanati per assassinare Tasili ed impadronirsi di voi." "Vi sono degli uomini dietro a quei rottami," disse El-Haggar ai beduini. "Che cosa dobbiamo fare?" chiese il primo. "Noi non abbiamo paura di nessuno," rispose il secondo. "Seguiteci," disse Esther. Spronò il cavallo, imbracciò la sua piccola carabina americana e si diresse risolutamente verso le macerie, mentre i due beduini giravano al largo. I quattro Tuareg, che non si erano ancora mossi, non avendo udito il segnale di El-Melah, vedendo quelle quattro persone armate di fucili balzarono sul cumulo, puntando le lance. "Che cosa fate qui?" chiese El-Haggar, con voce minacciosa. "Aspettiamo un uomo che abita in quella casa," rispose uno di loro. "El-Melah, forse?" "Sì, El-Melah o El-Aboid, come vi piace." "Non ha più bisogno di voi," disse Esther. I quattro Tuareg s'interrogarono collo sguardo. "Andate," disse El-Haggar, vedendo che non si decidevano. "E dove?" chiese il Tuareg che aveva parlato pel primo. "El-Melah è partito per Kabra." I Tuareg si scambiarono alcune parole, poi vedendo che non avrebbero potuto resistere a quelle quattro persone armate di fucili e che parevano molto risolute, abbassarono le lance, scesero il cumulo e partirono frettolosamente, forse molto soddisfatti che le cose fossero passate così lisce. "Voi rimanete a guardia dei cammelli e dei bagagli," disse El-Haggar, quando i predoni furono scomparsi. "Attendete il nostro ritorno." I due beduini rientrarono nel giardino chiudendo il cancello. "Ed ora, signora," continuò il moro. "Abbassate il cappuccio onde non s'accorgano che siete una donna, avvolgetevi bene nel caic e seguitemi." "Andiamo alla kasbah?" chiese Esther, con voce tremante. "Sì, signora. In un quarto d'ora noi vi saremo." Aizzarono il cavallo e l'asino e si diressero verso i quartieri centrali della città, scegliendo le vie meno frequentate. Essendovi festa in tutte le case, la festa della carne di montone, pochissime erano le persone che s'incontravano e quelle poche non erano che dei miserabili negri che non potevano certo dare impiccio. Nondimeno per maggiore precauzione El-Haggar aveva pure alzato il cappuccio, in modo da nascondere buona parte del viso, quantunque fosse più che certo di non aver lasciato tempo ai kissuri di riconoscerlo. Già non distavano dalla kasbah più di cinquecento passi, quando udirono tuonare in quella direzione un pezzo d'artiglieria. "Il cannone!" esclamò El-Haggar, trasalendo. "Ah! Signora! Disgrazia!" "Perché dici questo?" chiese Esther, impallidendo e portandosi una mano al cuore. "Il marchese ed i suoi compagni devono essersi rifugiati nel minareto del padiglione, signora." "E tu credi ... " chiese la giovane con estrema angoscia. "Che dirocchino a cannonate il minareto per costringerli alla resa." "Gran Dio! El-Haggar!" "Coraggio, signora: venite!" Sferzò l'asino costringendolo a prendere un galoppo furioso e pochi minuti dopo giungeva, sempre seguito da Esther, sulla piazza della kasbah, di fronte ai due padiglioni. La lotta era finita. Non si scorgevano che pochi curiosi che stavano radunati dinanzi alla finestra del padiglione più piccolo, osservando una larga pozza di sangue. I kissuri del sultano erano invece scomparsi. El-Haggar guardò il minareto e vide che un angolo della base era stato diroccato, probabilmente da una palla di non piccolo calibro. "Signora," disse con voce tremante, "sono stati presi." Esther vacillò e sarebbe certamente caduta dalla sella se il moro, accortosene a tempo, non l'avesse sorretta. "Badate, signora," le disse. "Ci osservano e se nasce loro qualche sospetto, prenderanno anche noi." "Hai ragione, El-Haggar," rispose la giovane reagendo energicamente contro quell'improvvisa commozione. "Sarò forte. Informati di ciò che è avvenuto. Ah! Mio povero Ben! Povero marchese!" Il moro, vedendo un vecchio dalla barba bianca che attraversava la piazza, camminando quasi a stento, gli si accostò. "È successo qualche grave avvenimento?" gli chiese, facendogli segno d'arrestarsi. "Ho udito tuonare il cannone." Il vecchio si fermò guardandolo attentamente, quasi con diffidenza. Era un uomo di sessanta e forse più anni, col volto rugoso ed incartapecorito, il naso ricurvo come il becco dei pappagalli, gli occhi neri e ancora vivissimi. Non pareva che fosse né arabo, né un fellata e tanto meno un moro a giudicare dal colore della sua pelle molto bianca ancora. "Eh, non sapete?" chiese il vecchio, dopo d'averlo guardato a lungo. "Hanno preso degli stranieri e anche un ebreo." Aveva pronunciato l'ultima parola con un accento così triste, che il moro ne era stato colpito. "Anche un ebreo?" chiese El-Haggar. "Sì," rispose il vecchio con un sospiro. "Che cosa avevano fatto quegli stranieri?" "Io non lo so. M'hanno detto che si erano rifugiati su quel minareto dove opponevano una disperata resistenza, minacciando di precipitare sulla piazza un marabuto che avevano sorpreso lassù." "Hanno poi effettuato la minaccia?" "No, perché i kissuri hanno bombardato il minareto, costringendoli ad arrendersi subito. Se avessero resistito ancora pochi minuti, tutta la costruzione sarebbe precipitata e gli stranieri insieme." "Dunque sono stati presi?" "Si, e anche quel disgraziato israelita." "V'interessava quel giovane ebreo?" chiese El-Haggar. Il vecchio invece di rispondere guardò nuovamente il moro, poi gli volse le spalle per andarsene. "Non così presto," disse El-Haggar, prendendolo per un braccio. "Vi ho scoperto." "Che cosa dite?" chiese il vecchio, trasalendo. "Voi compiangete quel vostro correligionario." "Io, ebreo?" "Silenzio, potreste perdervi e perdere anche quella giovane che monta quel cavallo. È la sorella del giovane ebreo che i kissuri hanno arrestato." "Voi volete ingannarmi." "No, non sono una spia del sultano," disse il moro, con voce grave. "Quella giovane è la figlia di Nartico, un ebreo che ha fatto la sua fortuna in Tombuctu." "Nartico!" balbettò il vecchio. "Voi avete detto Nartico! ... Chi siete voi dunque? ... " "Un servo fedele degli uomini che sono stati presi dai kissuri." "E quella donna è la figlia di Nartico? ... Del mio vecchio amico? ... " "Ve lo giuro sul Corano." Un forte tremito agitava le membra dell'ebreo. Stette alcuni istanti senza parlare, come se la lingua gli si fosse paralizzata, poi facendo uno sforzo, balbettò: "Alla mia casa ... alla mia casa ... Dio possente! La figlia di Nartico qui! ... Il figlio prigioniero! Bisogna salvarlo ... Venite! Venite! ... " "Precedeteci," disse il moro con voce giuliva. "Noi vi seguiamo." Raggiunse Esther la quale attendeva, in preda a mille angosce, la fine di quel colloquio e la informò di quella insperata fortuna. "È Dio che ce lo ha mandato," disse la fanciulla. "Quell'ebreo, che deve essere stato un amico di mio padre, salverà il marchese e mio fratello." "Ho fiducia anch'io in quell'uomo, signora," rispose El-Haggar. Raggiunsero il vecchio, il quale si era diretto verso una viuzza assai stretta, fiancheggiata da giardini e da casupole di paglia e di fango abitate da poveri negri, tenendosi però ad una certa distanza onde non suscitare dei sospetti. L'ebreo pareva che avesse acquistato una forza straordinaria; camminava con passo rapido e senza servirsi del bastone. Di quando in quando si arrestava per osservare Esther, poi riprendeva il cammino con maggior velocità. Attraversò così quattro o cinque viuzze e si arrestò dinanzi ad una casetta ad un solo piano, di forma quadrata, sormontata da un terrazzo e ombreggiata da un gruppo di superbi palmizi. Aprì la porta e volgendosi verso Esther disse: "Entrate nella casa di Samuele Haley, vecchio amico di vostro padre. Tutto quello che possiedo è vostro; consideratevi quindi come la padrona."

Era quindi probabile che anche le sentinelle incaricate della sorveglianza della cinta avessero abbandonato i loro posti per prendere parte alla festa. I due isolani e l'ebreo, sempre strisciando, erano giunti inosservati sull'orlo dei fossato che s'apriva dinanzi alla cinta. Come avevano preveduto, era pieno di rami spinosi, che, se erano un ostacolo insuperabile per i negri, non lo erano affatto per loro, che avevano dei buoni stivali e delle uose altissime di grossa pelle. "Scendiamo con precauzione," disse il marchese. Tenendosi per mano, si calarono nel fossato. La massa dei rami spinosi cedette sotto il loro peso, cosicché la traversata fu compiuta con poche scalfitture di nessuna importanza e con qualche strappo alle vesti. Giunti sull'orlo opposto, si appoggiarono contro la cinta. Era formata da grossi tronchi d'albero, uniti da solide traverse, e vi erano qua. e là dei pertugi e delle feritoie destinate al lancio delle frecce. Il marchese aveva accostato il viso ad una di quelle aperture. Alcuni enormi falò ardevano su un piazzale, ed intorno ballavano furiosamente, al suono d'un'orchestra selvaggia, un centinaio o poco più fra uomini, donne e ragazzi, urlando come indemoniati, urtandosi ed atterrandosi. Parecchi altri, radunati attorno a delle grosse zucche ed a vasi di argilla di dimensioni mostruose, bevevano a crepapelle, finché cadevano al suolo completamente ubriachi. Ad un tratto una sorda esclamazione sfuggi al marchese. "Che cosa avete?" chiese Ben, con ansietà. "Esther!" "Dov'è?" "Guardatela, Ben," disse il marchese con voce commossa, lasciandogli il posto. La giovane ebrea si trovava seduta in mezzo al cerchio dei ballerini, su una soffice stuoia. Pareva tranquillissima e guardava più con curiosità che con spavento i suoi rapitori. "Ah! Mia povera sorella!" singhiozzò Ben. "Rallegriamoci di averla trovata," disse il marchese. "Temevo che quel maledetto negro ci avesse ingannato e che l'avessero condotta in qualche altro villaggio o consegnata già ai kissuri." "Ah! Che splendida idea!" esclamò Rocco. "Parla, Rocco," disse il marchese. "Incendiamo il villaggio, signore. Queste canne devono bruciare in un lampo, e noi approfitteremo dello spavento che si impadronirà di quegli ubbriachi per slanciarci sulla signorina Esther e portarla via. "Non perdiamo tempo, marchese," aggiunse Ben. "I kissuri possono giungere da un momento all'altro, e voi sapete che quelli non hanno paura." Il marchese si sciolse la lunga fascia di lana e la unì a quella che già gli porgeva l'ebreo, il quale aveva subito compreso il suo piano. "Appoggiati alla cinta, Rocco," disse. "Salite pure, marchese. Le mie spalle sono solide." Il signor di Sartena s'arrampicò sul colosso, si aggrappò alle traverse e si levò sulle punte dei piedi, sostenendosi all'orlo superiore della palizzata. "Ci siete, signore?" chiese il sardo. "Sì, Rocco." "A voi, signor Ben." Mentre il marchese assicurava all'estremità d'un palo la fascia di lana che doveva servire ad aiutare la scalata del sardo, Ben era salito a sua volta. Attesero che Rocco fosse salito, poi si lasciarono cadere tutti e tre dall'altra parte, precipitando in un secondo fossato, pieno anch'esso di spine che non avevano potuto scorgere. Fu un vero miracolo se non sfuggi loro un grido di dolore. Le spine erano entrate nelle loro carni, facendole sanguinare in vari luoghi. "Maledetti negri!" brontolò Rocco che si dibatteva per liberare le vesti e per rimettersi in piedi. "Non facciamo rumore," disse il marchese. "Possono accorgersi della nostra presenza, ed uccidere prima di tutto Esther." Con precauzione si sbarazzarono delle spine, mordendosi le labbra per non lasciarsi sfuggire dei gemiti. Dopo alcuni minuti giungevano finalmente sull'orlo del fossato. Si trovarono dietro una fila di capanne, che si estendeva lungo la piazza illuminata dai falò. "Entriamo in una capanna ed accendiamola," sussurrò il marchese. "Devono essere tutte vuote." Scavalcarono una siepe ed entrarono in un recinto, dove si trovavano alcuni cavalli di piccola statura. Un'idea balenò nella mente del marchese. "Ve ne sono una quindicina," disse, "e a noi quattro bastano. Rocco!" "Signore!" "Raccogli alcuni fasci di canne e legali alle code di questi cavalli. Lasciane quattro per noi. Giuocheremo un brutto tiro a questi negri. Aiutate Rocco, amico, mentre io entro in una di queste capanne e la incendio." "E noi?" "Accendete invece le canne e lasciate che i cavalli corrano." "Ho compreso, marchese." A destra del recinto si alzava una vasta capanna circolare, la cui porta metteva in quella specie di cortile. Il marchese, vedendo un cumulo di paglia, ne prese una bracciata ed entrò nell'abituro, inoltrandosi a tentoni, per la profonda oscurità che regnava là dentro. Depose la paglia in un angolo, poi accese uno zolfanello, ma subito lo spense, mentre una voce di donna urlava a squarciagola "Awah! Awah! Hon!" Il signor di Sartena era rimasto per un momento immobile, poi si era gettato impetuosamente verso l'angolo della capanna da cui continuavano ad alzarsi le grida. Afferrò la donna stringendola per la gola. Fortunatamente l'orchestra dei negri e le urla dei ballerini avevano soffocato quelle grida; ma Rocco e Ben le avevano udite. Credendo che il marchese fosse alle prese con qualche negro ed in pericolo, si erano precipitati nella capanna coi coltelli in pugno. "Signore!" "Marchese!" "Aiutami, Rocco," disse il signor di Sartena. "Imbavaglia questa donna, o colle sue grida farà accorrere tutti gli abitanti del villaggio." A tentoni la donna fu strettamente imbavagliata. "Portala fuori ora," disse il marchese. "Se la lasciamo qui, brucerà colla capanna. Sono pronti i cavalli?" "Hanno tutti un bel fascio di canne appeso alla coda." "Accendete, poi lasciate in libertà gli animali." In quel momento si udirono in lontananza due scariche di moschetteria. "Demonio!" esclamò il marchese, trasalendo. "Che siano i kissuri che tornano? Presto, Rocco! Presto, Ben!" L'ebreo ed il sardo, spaventati, si erano slanciati fuori, portando la donna. Il marchese accese un secondo zolfanello e diede fuoco alla paglia, gettandovi poi sopra tutte le stuoie che si trovavano nella capanna. Rocco e Ben intanto avevano messo fuoco ai fastelli appesi dietro i cavalli. Le povere bestie, atterrite, rese pazze dal dolore, spezzarono le funi che le trattenevano e si scagliarono verso la siepe, sfondandola di colpo. Intanto il marchese, Rocco e Ben avevano inforcato gli altri, tenendo per la briglia il quarto. "Avanti!" gridò il signor di Sartena. "Vuotate i serbatoi dei fucili e attenti a Esther." Si erano slanciati dietro ai cavalli che portavano i fastelli accesi, mentre immense lingue di fuoco s'alzavano sulla capanna, minacciando le altre che erano vicinissime. I danzatori, vedendosi giungere addosso tutti quei cavalli che il dolore rendeva pazzi, si erano precipitati confusamente a destra ed a manca, mentre da tutte le parti risuonavano grida di "Al fuoco! Al fuoco!" Il peggio fu quando udirono i primi spari. Il marchese ed i suoi compagni avevano aperto un fuoco accelerato contro i fuggenti, mettendoli pienamente in rotta. "Largo!" tuonava il marchese, facendo impennare il cavallo. Mentre Rocco e Ben continuavano il fuoco, si spinse fra i falò, conducendo l'altro cavallo, e giunse presso la giovane ebrea. "Esther!" gridò. "In sella!" "Marchese!" esclamò la giovane, alzando le braccia verso di lui. "Ah! Grazie! Grazie! Lo sapevo che non mi avreste abbandonata!" Il signor di Sartena la sollevò come se fosse una piuma, e la mise sul cavallo che conduceva, gridando: "In ritirata!" Le capanne bruciavano dappertutto. Le scintille, cadendo dovunque, facevano scoppiare nuovi incendi. I negri, atterriti, credendo forse di aver di fronte un grosso numero di nemici, erano fuggiti senza tentare la menoma resistenza, disperdendosi per la pianura. I quattro cavalieri passarono a galoppo sfrenato fra le capanne fiammeggianti e scomparvero in direzione della palude, mentre in lontananza si udivano echeggiare urla di spavento e qualche colpo di fucile. "Dove andiamo, signore?" chiese Rocco. "Sarà impossibile attraversare quel pantano." "Ne faremo il giro," rispose il marchese. I cavalli, spaventati dall'incendio che proiettava sulla pianura una luce intensa, correvano come daini, senza bisogno di essere aizzati. Giunsero in pochi minuti sulle rive dei primi stagni e piegarono a sinistra, seguendone le rive, senza che fosse necessario guidarti. Dovevano conoscere la via che forse avevano percorso molte volte per trasportare al villaggio i carichi delle scialuppe. In meno di venti minuti girarono la pianura pantanosa e raggiunsero il margine del bosco. "Cerchiamo di orizzontarci," disse il marchese. "Il fiume sta dinanzi a noi," disse Rocco. "Troveremo subito la scialuppa." Si cacciaron sotto il bosco, seguendo le rive di un ruscelletto, e si trovarono ben presto nella piccola laguna. La scialuppa era ancora là, guardata da El- Haggar e dai due battellieri. "Esther!" disse il marchese, "raggiungete l'imbarcazione. Noi faremo una battuta nel bosco, prima di prendere il largo." Discesero da cavallo, lasciando che gli animali se ne andassero liberamente, non essendo più di alcuna utilità; poi i due isolani e l'ebreo fecero il giro del bacino, sia per procurarsi dei viveri, sia per assicurarsi che non vi fossero altri negri nascosti fra le piante. "Non abbiamo nulla da temere," disse il marchese. "Gli abitanti del villaggio non temeranno più qui di certo, dopo la lezione che abbiamo loro inferta. Fra poco d'altronde noi usciremo sul fiume e ce ne andremo da questi luoghi pericolosi." "Credete che tutto sia finito?" chiese Ben. "Lo spero," rispose il marchese. "Che cosa possiamo temere ancora?" "Uhm! io non sono tranquillo, signore. Conosco l'ostinazione dei negri, e vedrete che ci aspetteranno sul Niger." I tre esploratori fecero il giro del bacino senza aver incontrato alcun negro e tornarono verso la scialuppa portando un enorme grappolo di banane e un'ottarda che Rocco aveva sorpresa in mezzo ad un cespuglio e uccisa col calcio del fucile. "Nessuno?" chiese Esther, appena li vide. "La foresta è disabitata," rispose il marchese. "Credo che potremo divorare la nostra colazione senza venire disturbati." "Ne siete ben certo, signore?" chiese il sospettoso El-Haggar, crollando il capo. "Hai udito forse qualche cosa?" "Qui no, ma verso il fiume in direzione di Koromeh mi è sembrato di udire rullare i noggara." "Quegli abitanti non possono averci veduti." "Però perlustreranno il fiume. I nostri canottieri mi hanno detto che in quella borgata vi sono moltissime scialuppe e anche grosse." "Mi pare che siamo ben nascosti, tuttavia manderemo i battellieri sulla riva," disse il marchese. "Al primo allarme ci getteremo nella foresta. Rocco, prepara la colazione." "L'ottarda è già spennata." Fu acceso il fuoco sotto un sicomoro, onde il fumo non si spandesse e venisse notato dai rivieraschi o dai canottieri di Koromeh, ed il grosso volatile fu messo ad arrostire sotto la sorveglianza del buon sardo. Una mezz'ora dopo tutti davano vigorosamente l'assalto alla deliziosa colazione, mentre verso l'opposta riva del fiume si udivano rullare cupamente i tamburi di guerra.

Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi. Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di:i piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria "Alla bella cacciatrice." "Grazie, marchese," rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Un'altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po' malinconici, un po' stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d'inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d'impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell'estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l'estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l'opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, rano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell'estremo avvilimento. Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. Più tardi, come maggiormente si appressava l'ora dell'estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un'ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l'orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d'oro, con un grosso medaglione d'oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gaie di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d'oro sino alla metà della seconda falange. L'occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell'attraversare la folla, nell'andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po' civettuola, un po' mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò: ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero: le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato. Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, opra la folla del cortile, dell'androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

E vi è l'ambo, l'ambo del quattordici e settantanove, che ho avuto la disgrazia di abbandonare, a che è uscito tre settimane dopo che l'ho abbandonato. Son fatti questi, signori miei, fatti e non parole! - Sono le sessanta lire che gli date al mese, perché non faccia più il ciabattino e vi faccia la cabala! - interruppe vivamente il dottor Trifari. - Cifariello un'anima ignorante, innocente: egli mi ha dato il quattordici e settantanove, e io l'ho abbandonato! - Anche padre Illuminato mi ha dato quattordici e settantanove, - ribattè il dottor Trifari, - ma nella settimana buona. - E avete preso? Non avete detto niente agli amici? - domandò, concitato assai, il marchese Formosa. - Niente ho preso! Ho diviso i due numeri, in due biglietti diversi. Non ho capito la fortuna che mi dava padre Illuminato; quello solo li sa i numeri, signori miei, e nessun altro, nessun altro, perdio! Quello tiene in mano la nostra fortuna, il nostro avvenire. È una cosa forte: quando gli tasto il polso per vedere se ha la febbre, io mi sento tremare tutto… - Padre Illuminato è un egoista, - fischiò la voce sarcastica, tagliente del professor Colaneri. - Perché vi ha cacciato di casa sua, un giorno, che volevate a forza i numeri! Egli non dà numeri ai sacerdoti che hanno buttato via la tonaca: è un credente, padre Illuminato… - Io li vedo da me, i numeri! - strillò acutamente il Colaneri. - Mi basta non cenare, la sera, quando vado a letto: e meditare per un'ora, per due ore, prima di dormire: e poi li vedo, capite che li vedo? - Ma poi non escono, non escono! - urlò il marchese di Formosa. - Non escono perché ho la mente ottenebrata dagli interessi umani, perché non so staccarmi completamente dal desiderio di vincere, perché ad avere la visione lucida, bisogna avere l'anima pura, purissima, lasciare ogni torbidezza di passione, elevarsi nel dominio della fede. Ah io li vedo, ma spesso, ma quasi sempre uno spirito maligno ottenebra i miei occhi… - Sentite, sentite, - disse forte Ninetto Costa, l'elegante e ricco agente di cambio, - io ho fatto di più, io ho saputo che una giovane modista che abita al vico Baglivo Uries, aveva reputazione di dare i numeri buoni, i numeri veri: essa, non può giuocarli, come sapete, le è proibito sotto pena di non conoscere più i numeri. Ma li dà! Me le sono messo attorno, con la scusa di un amore improvviso, pazzo, le ho fatto dei regali, la vedo ogni sera e ogni mattina, sono giunto finanche a promettere di sposarla. - E vi ha dato niente? - chiese ansiosamente il marchese di Formosa. - Niente ancora! Evita il discorso, quando io gliene parlo, timidamente. Ma li darà, perdio, se li darà! Oh! come Bianca Maria avrebbe voluto che quel rosario recitato così distrattamente, quella sera, continuasse ancora, per non farle udire quei folli discorsi, di cui non perdeva una parola e che le turbinavano nel cervello, dandole la sensazione di un vortice in cui fosse travolta la sua anima. Come non avrebbe voluto udire gli impeti di quelle menti stralunate, assorbite nella idea fissa! Ora parlava il marchese di Formosa, vibratamente: - Sta bene l'ignoranza sapiente del ciabattino Cifariello, ta bene la santità di padre Illuminato, stanno bene le visioni lucide del nostro amico Colaneri, ma dove è il risultato? Che si vede? Che abbiamo ottenuto? Noi qui ci giuochiamo l'osso del collo, ogni settimana, cavando denari dalle pietre, ognuno di noi, e vincendo, ogni cento anni, la miseria di un piccolo ambo, o la più grande miseria di un numero per estratto. Qui ci vogliono mani più potenti! Qui ci vogliono forze più alte! Qui ci vogliono miracoli, signori miei! Si dovrebbe far decidere mia sorella monaca, Maria degli Angioli, a dare i numeri! Mia figlia dovrebbe farla decidere. Qui ci vorrebbe mia figlia stessa, che è un angelo di virtù, di purezza, di bontà, che chiedesse i numeri all'Ente Supremo! Un profondo silenzio seguì queste parole. Suonò il campanello della porta di entrata. Bianca Maria che, tremando tutta, si era trascinata sin dietro la tenda della sua porta, vide passare ed entrare nel salone un uomo miserabilmente vestito, dall'aspetto ignobile, con le guance smunte, livide, striate di rosso e la barbaccia nera di un convalescente che esce dall'ospedale, un'apparizione penosa e paurosa. All'entrata del bizzarro individuo nel salone, era subentrato il silenzio, come se improvvisamente si fossero placati tutti gli animi, come se una grande misteriosa tranquillità fosse apportata dallo sconosciuto. Bianca Maria, appoggiata allo stipite della sua porta, tendeva l'orecchio, ansimando. Forse i cabalisti erano ritornati al loro tavolino, portandosi seco loro quel nuovo arrivato. Durò a lungo il silenzio. Immobile, quasi rigida, essa si aggrappava al legno della porta, per non cadere: quello che aveva udito era troppo crudelmente doloroso, per non sentirsi spezzar l'anima. La teneva un'umiliazione, un'angoscia senza nome, come se tutta la sua sensibilità non fosse oramai che un dolore solo. Soffriva in tutto, nella fierezza natia, nel suo riserbo di fanciulla offesa dal suo nome buttato così, in una disputa di pazzi, da suo padre: soffriva nella sua tenerezza filiale, per sé e per suo padre, come avrebbe sofferto per ambedue, se egli l'avesse schiaffeggiata in pubblico: l'angoscia le saliva al cervello come se volesse abbruciarlo fra le sue strette roventi. Quanto tempo ella stette così, quanto tempo durò il silenzio, nuovamente, nel salone? Ella non lo avvertì. Solo, nel suo affanno, udì passare dietro la tenda della sua porta e uscire chetamente di casa, come tanti cospiratori, uno ad uno, tutti gli amici di suo padre. Allora, macchinalmente, uscì dalla sua stanza per cercare di lui. Ma il salone era scuro: era scura la piccola stanza da studio dove il marchese di Formosa entrava ogni tanto, a consultare qualche vecchio libro di cabala. Bianca Maria cercava suo padre affannosamente. Alla fine, una luce la guidò. Don Carlo Cavalcanti era entrato nella piccola cappella; aveva ravvivato la lampada innanzi alla Vergine Addolorata; aveva acceso la lampada spenta per suo ordine, innanzi all' Ecce Homo aveva acceso le due candele di cera nei candelabri dell'altare e li aveva trasportati innanzi a Gesù Cristo. Non contento di ciò, aveva anche portato nella piccola cappella il lume a petrolio del salone e in quella grande illuminazione si era prostrato, buttato giù, disperatamente, innanzi al Cristo, e trasalendo, sussultando, singhiozzando, pregando ad alta voce, diceva al Redentore: - Ecce Homo io, perdonatemi, sono un ingrato, sono uno sconoscente, sono un misero peccatore. Ecce Homo perdonatemi, perdonatemi, non mi fate scontare i miei peccati. Fatemi la grazia per quella figlia che languisce, per la mia famiglia che muore! Io sono indegno, ma beneditemi per quella creatura! O Vergine dei Dolori, voi che tutto avete sofferto, capitemi voi, soccorretemi voi! Mandatela voi una visione a suora Maria degli Angioli! O anima santa di Beatrice Cavalcanti, moglie mia benedetta, se io ti ho addolorata, perdonami, perdonami se ti ho abbreviata la vita, fallo per tua figlia, salva la tua famiglia, comparisci a tua figlia, che è innocente, digliele a lei le parole che ci debbono salvare…anima santa, anima santa… La fanciulla, che tutto aveva inteso, fu presa da tale invincibile paura che fuggì, tenendosi la testa fra le mani, con gli occhi chiusi; ma giunta nella sua camera, le parve udire come un profondo, triste sospiro dietro a sé, le parve che una lieve mano le si posasse sulla spalla; e folle di terrore, senza che un grido potesse uscire dal petto, crollò per tutta la sua altezza sul pavimento e giacque come morta.

STORIA DI DUE ANIME

682509
Serao, Matilde 1 occorrenze

E fulmineamente, una certezza gli squarciò tutte le fibre e tutta l'anima: Anna lo aveva abbandonato. Anna era fuggita. Non credette a un caso singolare, a un accidente bizzarro, a una combinazione qualsiasi, che attenuasse o contradicesse l'orrenda verità: tutta la orrenda verità gli fu palese, senza velo d'illusione alcuna. Come coloro che, in un istante, apprendono il massimo male, che li abbatte e li travolge, come coloro che sono toccati, in un istante, in un solo istante, dalla folgore del dolore, una vertigine lo colse, più forte, più forte, lo gittò sovra una sedia, ai piedi del letto, fatto vasto e deserto, donde Anna era fuggita; e nei giri larghi, ove egli perdeva conoscenza, girando attorno a lui, il letto, la stanza, la casa, la città, l'universo, in questi giri, in cui si sprofondava la sua conoscenza, egli pensò: - Io muoio, va bene. Ma non morì. Qualche minuto dopo, o molti minuti dopo, non intendendo bene la misura del tempo, supponendo che fosse passato un secolo di dolore o un secondo di altissimo dolore, Domenico Maresca si ritrovò solo, caduto di traverso sovra una sedia, sovra dei panni, solo, in quella stanza, solo, innanzi a quel letto, solo, in quella casa, in quella notte. E il terrore di quella solitudine, di quel silenzio, di quella penombra, un freddo terrore lo colse: si levò, come un pazzo, accese le due candele steariche nei candelieri, sulla toilette di merletto, escì nel salotto, accese il grande lume a petrolio, che era sul tavolino centrale, corse in istanza da pranzo, accese la sospensione, la luce si diffuse dapertutto, nelle poche stanze della piccola casa, tutto fu chiaro e fu chiara la solitudine, e fu chiaro il deserto di quella casa, una solitudine ultima, irrevocabile, un deserto ove neppure la voce di una familiare, di una serva sarebbe venuta ad aiutare la disperazione dell'uomo, che era stato abbandonato e che aveva fatto la luce per avere, quasi, il senso più largo e più estremo del suo abbandono. Tutto era a posto, tutto era in ordine, nella stanza da pranzo, nel salottino, ma tutto vi aveva un aspetto funebre, di dimora, ove, un tempo, fosse stata la vita di esseri palpitanti, vibranti e donde questa vita si fosse ritratta, per sempre. Sgomento, come folle, vacillante, egli corse di nuovo nella stanza da letto: là, ai piedi del letto, vi erano, dal lato ove dormiva la moglie, le pianelline sue: sovra la sedia era disposta la sua vestaglia di lana azzurra, le braccia pendenti, aperte, come in atto di ineluttabile disperazione. - Oh Anna, Anna! - gridò, vanamente, l'abbandonato. Il suo grido stesso, in quella camera muta, gli ridestò nel cuore, smarrito e straziato, dei tumultuosi sentimenti d'ira, di gelosia, di amara e beffarda curiosità, dei sentimenti novelli nella sua natura mite e fiacca, un impeto di collera come non ne aveva mai avuto, tutta la collera repressa in quegli anni d'infelicità e dì oppressione, un furor di anima debole che si è maturato per anni: e gittandosi sulla vestaglia azzurra, con le mani, coi denti, coi piedi, la lacerò, la fece a brandelli, la pestò, imprecando al nome di Anna. - Assassina, assassina della vita mia, assassina! - gridava, solo, nella stanza vuota. E si slanciò, per compiere qualche altra vendetta manuale contro le vesti, contro la biancheria di Anna, per soddisfare quel desiderio cruento e fugace che aveva di strappare, di svellere, di rompere, di calpestare, si slanciò contro il settimanile di Anna, che era a destra del letto, aprì il primo cassetto ove era la chiave, aprì il secondo, il terzo, il quarto, tutti, tirandoli violentemente, sbattendoli nel richiuderli: erano vuoti, lisci, vuoti, vuoti. - Ha portato via la sua roba, tutta la sua roba! - gridò, ancora, esterrefatto. E si arrestò, vinto da un tremito nervoso così forte, così forte, che le sue mani non potettero più rinchiudere l'ultimo cassetto. Andò a un grande armadio a specchio, ove erano le vesti e i mantelli di Anna; era socchiuso. lo schiuse perfettamente: vuoto, liscio, le gruccie sospese e libere, non una veste, non una giacchetta. Traversò di nuovo la casa, andò nella stanzetta ove, un tempo, aveva dormito Mariangela e ove vi erano altri due armadi, di biancheria e di vestiti. Tutta la roba di Anna mancava. Il corredo di biancheria così ricco e così elegante, per cui egli aveva speso tanto denaro, tre anni prima, e di cui ella non aveva usato che una parte, tutti gli abiti donatile nelle nozze, dopo le nozze, tutti, sino ad uno, da mattina, portatole dalla sarta, due giorni prima, e di cui Domenico aveva saldata la nota, tolto via, portato via, la roba pagata col danaro del pittore dei santi, non un fazzoletto lasciato, non un nastrino, non un cencio di merletto. Freddamente, da tempo, Anna non solo aveva premeditata questa fuga, ne aveva dovuto combinare, lungamente, il piano, ma lo aveva dovuto eseguire, giorno per giorno, ora per ora, da tempo! Sì, ella era partita, nella notte, un'ora prima, forse, due ore prima, appena lo aveva visto, immerso, il pittore dei santi, in una densità profonda di sonno. ma non si porta via, tanta roba, di notte. - La roba, via, prima, - egli pensò, amaramente - e lei, questa notte, quest'assassina della mia vita! Tremando, nella persona, nelle mani, come se avesse il ribrezzo della febbre terzana, egli ritornò in camera da letto: gittò uno sguardo sulla sveglia. Erano le quattro del mattino. - Questa notte, due ore fa: non sola. Con Mariano Dentale - pensò, ancora, mordendosi le labbra, in un accesso impotente di furore geloso, nella inanità dell'uomo tradito e abbandonato. E insieme al nome del bel giovinotto così beffardo, così seducente nella sua insolenza, insieme a questo nome che, per tre anni, era stato l'incubo segreto della sua anima, un ricordo lo colpì, dandogli un nuovo sussulto di spavento. Non aveva inteso dire che Mariano Dentale doveva partire per l'America, per farvi fortuna, non lo aveva udito, così vagamente, due o tre volte, negli ultimi tempi, mentre Anna era assorta, muta, indifferente, come sempre, Anna che, certo, era partita con lui. Con qual danaro? Con qual danaro? Mariano Dentale era un pezzente. Con qual danaro? Un pezzente! I gioielli di Anna Dentale, quelli, cioè, che suo marito le aveva donati alle nozze, e nelle sue feste, durante tre anni, qualche altro dono avuto, dal compare, dai parenti, erano chiusi, ordinariamente, in uno dei tiretti, il superiore, del cassettone di Domenico, e per maggiore sicurezza, alla loro volta, erano tutti raccolti in un cassetto di sicurezza, di ferro, non molto grande, di cui Domenico teneva la chiavettina. Quando aveva bisogno di adornarsi, Anna cercava la chiave del cassettino e, per lo più, la restituiva immediatamente a suo marito, con una smorfia di sarcasmo, per quella diffidenza. Accanto a questo cassettino, dei gioielli, ve ne era un secondo più grandicello, di cui teneva sempre la chiavettina Domenico, non affidandola mai a sua moglie, e in esso, da anni, erano chiusi quei titoli di rendita al portatore che suo padre gli aveva lasciati, circa trentamila lire, raccolte dopo una vita di lavoro. In verità, con il matrimonio, con le spese consecutive, Domenico Maresca ne aveva dovuto distaccare e vendere, di titoli, per dodicimila lire e ve ne erano, quindi, rimasti solo diciottomila, non toccate più, naturalmente, dopo, presa solo la rendita, poichè i guadagni del pittore dei santi erano bastati a fare andare innanzi la casa. Anna sapeva che, lì dentro, vi era tutta la piccola fortuna di Domenico: ma aveva sempre finto di non saperlo, di non interessarsene, uscendo dalla camera, con un'alzata di spalle, quando egli apriva il tiretto del cassettone, quando immergeva il viso nel fondo, per schiudere misteriosamente il cofanetto di ferro. Dopo, Domenico richiudeva e metteva la chiave del cassettone nel taschino del suo panciotto, ove già erano le chiavettine dei due cofanetti di ferro. Folle di spavento, dunque Domenico Maresca afferrò i suoi panni, frugò nel taschino del panciotto: nessuna delle tre chiavi vi era: si voltò al cassettone, e vide che il tiretto, come il settimanile, come tutti gli armadi, era socchiuso: folle di spavento, lo aprì tutto, vi cercò, con gli occhi, freneticamente, i due cassettini di ferro. Non vi erano. Tastò con le mani, come aveva tastato il letto, donde Anna era fuggita: i due cofanetti non vi erano più, più, essa li aveva portati via, essa aveva rubato i gioielli, essa aveva rubato il denaro. - Assassina e ladra! - gridò il povero pazzo, nella notte, maledicendo l'infame. E volle uscire, correr per le vie, correr dietro ai due ladri del suo onore, della sua felicità, della sua fortuna, volle raggiungerli, ove si trovavano, essi che si portavan via tutto, quei due ladri ma più ladra lei, che gli toglieva la sua persona e che gli derubava quanto egli aveva, tutto, tutto, glacialmente, cinicamente, come una scellerata. Oh li avrebbe ritrovati, non potevan esser lontani, non potevano essersi imbarcati, quella notte istessa, per l'America, sarebbe andato in questura, avrebbe fatto dei telegrammi per fermarli, per arrestarli. Diciottomila lire, tutto quello che egli aveva. tutto, portato via, dalla donna, dal suo amante! Voleva uscire, cominciò a vestirsi frettolosamente, mettendosi le scarpe, la camicia di giorno, i calzoni, un panciotto, la giacchetta, frugando macchinalmente nelle tasche, dove aveva poche lire spicciole, tre o quattro, forse: aprì il portafogli ove aveva riposto le mille lire dategli dal duca, per la Madonna Addolorata. Non vi erano. La sera, le aveva fatte vedere ad Anna, con un sorriso di soddisfazione, ed ella appena le aveva guardate, nella sua alterigia signorile. Prima di fuggire, scelleratamente, Anna aveva rubato anche quelle, lasciando suo marito con le poche lire che aveva, egli, in saccoccia. - Ladra, ladra! - gridò ancora, lui, nei singhiozzi che gli salivano dal petto, Frugandosi, ancora, nelle tasche della giacchetta, non trovò la chiave della bottega dei santi. Rovesciando le sedie, urtando nei mobili, senza cravatta, afferrando macchinalmente il cappello, in anticamera, egli escì di casa, si dirupò per le scale oscure, ritrovando, a stento, la via, nel piccolo portone senza portinaio ove essi abitavano, e di cui i battenti erano chiusi solo con un lucchetto. Nella via Donnalbina, l'oscurità era grande, egli corse in piazza Ecce Homo , rasentando le mura, con la consuetudine antica che non lo faceva sbagliare, anche attraverso il delirio fisico e morale che lo trasportava: traversò, di corsa, la piazza Madonna dell'Aiuto, e si precipitò contro le porte della bottega dei santi. Come i cassetti, e i tiretti del settimanile, come le porte degli armadii, come i tiretti del cassettone, le porte della bottega erano leggermente schiuse: entrandovi, Domenico inciampò nella chiave, che era caduta per terra, lasciatavi dai fuggiaschi, dai due ladri. Il delirante non si ricordò, più tardi, come egli aveva acceso il grande lume a petrolio, che aveva, dietro, un grande riflettore di metallo: certo che, ai suoi occhi, che tanti successivi spettacoli terribili avevano veduto, l'ultimo spettacolo si offerse. La bottega dei santi era svaligiata e devastata. Dal petto e dalle spalle del san Sebastiano erano state strappate le freccie di argento e lo stucco che si era rotto, qua e là, mostrava il fondo di creta, il fondo di legno; dalla mano del san Giovannino era stata tolta la mazza pastorale di argento e, nella fretta, il braccio si era spezzato per metà; dalla mano di santa Filomena era stata strappata la penna di argento, e da un san Francesco, da un san Cataldo, da un san Gregorio, erano state svelte le aureole di argento, più grandi, più piccole, onde erano incoronate le loro teste. Due di questi santi, più piccoli, erano stati arrovesciati dal loro piedistallo, per derubarne il prezioso metallo che li adornava; un terzo, il san Cataldo, giaceva per terra, a faccia sul suolo. Nel mezzo della bottega, la Dolente appariva denudata, derubata di tutto. Le avevano tolto la massiccia corona di argento dal capo, il manto carico di oro, le sette spadine confitte nel petto e che erano anche di argento massiccio, la veste carica di oro: disadorna, svestita, ella aveva la sua sottana nera, di tela forte, mezza discinta, per la rabbiosa fretta degli svaligiatori, e si vedeva la tunica di mussola bianca, come una camicia: mentre, sul capo denudato, in alto, ove erano dipinti leggermente i capelli, vi era un buco, prodotto dalla furia di tirar via la corona di argento e il manto che vi erano inchiodati: le bende e il soggolo pendevano lacerati, sul petto: dalla mano distesa era stato tolto persino il fazzoletto. E il furto sacrilego, quel furto che offendeva infamemente la immagine di Maria Addolorata, che aveva mutilato e spezzato le immagini dei santi, che aveva tolto sacrilegamente, da queste immagini benedette e consacrate, gli ornamenti benedetti e sacri, questo furto era completo, perfetto, tutto ciò che poteva valer danaro, dalle vesti della Dolente che costavano seimila lire di oro, alle piccole aureole di argento dei santi che ne costavano dieci, tutto, tutto era sparito, e la Madonna era spogliata, col capo infranto, i santi erano spogliati, con le braccia rotte, con il costato aperto, e giacevano in terra, spezzati, e il sacrilegio era consumato, nella sua forma più oltraggiosa, più irreparabile, più orribile. Dato un urlo altissimo, Domenico Maresca, cadde, come morto, ai piedi di Maria Addolorata e vi giacque, per terra, come morto. Tutta la sera, una pioggia scrosciante accompagnata da larghe raffiche di vento, una improvvisa e violenta bufera di equinozio primaverile, aveva battuto le vie e le case napoletane: verso le colline già verdi e odorose, qualche tuono rumoreggiava, mentre, in città, nelle vie deserte, allagate di vasti specchi di acqua nerastra, per la ineguaglianza del selciato, i lampioni a gas diffondevano delle fantastiche, vacillanti luci gialle. Gli scrosci di pioggia ora rallentavano, quasi cessavano, per riprendere, dopo pochi minuti, con ira maggiore: il vento ora ravvolgeva a turbine la pioggia, come un gorgo, ora la sbatteva sul volto, come uno schiaffo. Laggiù, verso santa Maria la Nova, verso Santa Maria dell'Aiuto, non un viandante, non un'ombra: altro che il fracasso del temporale, più intenso nelle strade anguste, coi vortici di pioggia che vi si ingolfavano, col turbine del vento che vi si angustiava dentro. A quell'ora piuttosto tarda, la bottega dei santi era ancora aperta: attraverso i vetri sudici ed opachi delle sue impannate, un lume fioco trapelava. Dentro vi era un silenzio intenso, in contrasto col rumore affannoso e urlante della bufera, un silenzio che aveva qualche cosa di mortale. E tutte le cose vi erano restate come Domenico Maresca le aveva trovate: la spoliazione, il furto, la devastazione, il sacrilegio, vi apparivano, in tutta la loro realtà e in tutta la loro crudeltà. Ma queste cose orrende non avevano più, da che una giornata era trascorsa, una eterna giornata di stupore di desolazione e di disperazione, non avevan più la loro espressione impensata e violenta: sembrava che da tempo, oramai, quelle cose orrende fossero accadute: che da tempo, lo spettacolo loro avesse destato il lungo grido di orrore e che tutti gli echi, oramai, di tal grido, si fossero spenti: che la sventura, l'onta, l'infamia che esse rappresentavano, non fossero più la convulsione spasmodica di fatti inaspettati e brutali, ma la pacata e immanente desolazione senza confini, oltre l'anima, oltre il mondo, oltre il Cielo. Il momento altissimo, atrocissimo, era trascorso e la tragedia aveva toccato il suo culmine: già le vittime senza vita o viventi, parevano coperte dal tetro, pesante, ineluttabile manto della rassegnazione. Un solo lume a petrolio, portato dalla casa di Donnalbina, ardeva debolmente sovra la tavola, fra gli strumenti dell'arte, i mucchi delle biacche, i vaselli degli ori e degli argenti, i pennelli e le stecche. Contro il muro di fronte, la immensa ombra della Madonna Addolorata, che le ciniche mani avevan dispogliata delle sue vesti sontuose e dei suoi gioielli, si allungava, misteriosamente: e la statua era rimasta deturpata, come le mani dei due furenti spoliatori l'avevan lasciata: e tutti gli altri santi, derubati dei loro ornamenti, spezzati, protendevano, colpiti da quella poca luce, le loro linee sulle muraglie, in ombre fantasiose e lugubri. Quella penombra conveniva ad essi: meno si scorgeva il danno, e il sacrilegio si avvolgeva di incertezza, per gli occhi non avvezzi. Il grande lume dal vividissimo riflettore, era stato spento, e pareva che, in quella bottega, si vegliasse, da giorni, in silenzio, in penombra, intorno a una persona morente, intorno a una persona morta. Tendendo l'orecchio, un respiro penoso si udiva, infatti, interrotto, talvolta, da sospiri dolenti: non altro. In un cantuccio della sua bottega, sovra una sedia, coi gomiti appoggiati a un angolo estremo di un tavolino, Domenico Maresca vegliava, colà, come in una camera mortuaria. Era solo! I due poveretti suoi compagni di fatica, lo stuccatore Gaetano e il piccolo storpio Nicolino che, nella mattinata, qualcuno era andato a chiamare, per soccorso, avevano passato la giornata con lui, piangendo con lui, provando un dolore più semplice e più candido, non osando neppure consolarlo, non osando nominargli nè la fuggiasca che gli aveva tutto strappato, l'onore, la felicità, il denaro, nè il suo complice che l'aveva spinta al tradimento, al furto, al sacrilegio. E non gli erano stati di altro aiuto, che come triste compagnia. Non potevano essergli di altro aiuto: non lasciarlo solo, in preda all'abbattimento delle forze fisiche ed alla disperazione: erano restati lì, in bottega, chiusi con lui, fra le statue spogliate e manomesse, non osando toccarle, non osando neanche toccare il san Cataldo che era caduto con la faccia per terra, non osando quasi voltarsi alla Dolente, dal piccolo capo rotto, donde era stata strappata brutalmente la sua corona: e chiusi col pittore dei santi, in una taciturnità d'avvilimento, di sgomento, di stupore, non sapendo che cosa dirgli, comprendendo, così, vagamente, che nulla potevano dirgli e che nulla egli poteva udire. Avevano vegliato con lui, come si veglia con uno sventurato che ha perduto una persona amatissima, rapitagli da un destino avverso: senza parole, con movimenti cauti e lenti, lasciando trascorrere le ore. Per prendere un boccone, morenti di fame, come erano, verso la sera, uno alla volta, erano usciti, si erano allontanati, dandosi il cambio: e dal non aver egli neanche risposto, all'offerta di portargli qualche cosa, dal non aver neanche udito, forse, le loro discrete e umili insistenze, essi si eran convinti, che era meglio lasciarlo stare, immerso nel suo muto e atroce dolore. E quando egli li aveva rinviati, la sera, nel momento che principiava la tempesta di primavera, essi non avevano chiesto di restare, avevano obbedito, come erano avvezzi a obbedirgli, sempre. Così mentre la pioggia imperversava, colpendo i vetri delle impannate e il vento ne faceva scricchiolare i cardini, Domenico Maresca era solo, con i gomiti puntati sul tavolino e il volto nascosto fra le mani; solo, assorto, perduto nella vastità di uno strazio muto. Nè udì schiudere la porta, verso le dieci e mezza di sera, mentre, furiosamente, acqua e pioggia entravano dall'uscio e quasi spegnevano il fioco lume a petrolio; nè vide la donna che entrava, richiudendo subito con la chiave, e posando, in un angolo, un ombrello stillante di acqua, nè la vide asciugarsi con un fazzoletto le vesti tutte bagnate, passarsi il fazzoletto sul viso bagnato di pioggia. Mentre Fraolella faceva questo, teneva gli occhi fissi su quella massa immobile e accasciata, che formava il corpo di Domenico Maresca: ma la massa non si scosse, l'uomo era immerso, profondamente, nella sua contemplazione angosciosa. La giovine, allora, si accostò pianamente a lui, rasciugandosi le mani. Ancora del tempo era passato sul capo della graziosa e sventurata creatura: e malgrado la giovinezza, i segni della decadenza si erano fatti più palesi sul suo viso e sulla sua persona. Più gracili le forme, come se un malore intimo le avesse cominciate a distruggere, a venti anni, quando ogni essere fiorisce, e ha bellezza più vivida, e forza più salda. Più languido, più stanco l'andare, e le vesti come troppo larghe, cadenti, fluttuanti, con pieghe di abbandono. Portava una veste di lana viola pallida, guarnita goffamente di nastri rosa, e una camicetta di seta, di un rosa molto vivo, sovraccarica di galloncini di oro, di nastrini bianchi, di bottoncini: sulle spalle, uno dei suoi soliti scialletti, celeste questa volta: un insieme chiassoso, senza gusto, con quel carattere di vita viziosa, ahimè, indelebile, come una livrea di vergogna, come una livrea di disonore! Non portava più il cappello: e i suoi bei capelli folti erano acconciati pomposamente, in nodi, in ciocche, in ciuffi, in ricci, sempre nella forma più caratteristica delle poverette vagabonde, di cui si profila l'alto casco oscuro di capelli, nella notte, agli angoli delle vie. Assottigliato il viso, con gli zigomi sporgenti, carico di rossetto, con gli occhi dipinti, sotto, e le leggiadre palpebre, un tempo rosee e trasparenti, cariche anch'esse di un bistro azzurrino: e disegnata, col rossetto, la piccola fragola presso il mento, non più come un tempo, come una voglia, ma come un artifizio d'ignobile seduzione; e torbidi gli occhi, sempre torbidi, tristi, rassegnati, quasi servili, traversati, talvolta, da onde di collera servile, da onde di lagrime servili e inani. Ella si curvò sull'uomo assorto e, chetamente, lo chiamò. - Domenico, Domenico! Egli non udiva, forse, o giaceva in torpore doloroso. - Domenico, sono io, Fraolella , Domenico! - ella mormorò e poichè gli pareva di veder trasalire quella massa abbattuta, delicatamente, gli prese le mani, gliele distaccò dal viso, lo forzò dolcemente a guardarla, a riconoscerla. E nel guardarla, nel riconoscerla, il cuore di Domenico Maresca si franse: egli scoppiò a piangere singultando, balbettando, torcendo le mani: - Gelsomina... Gelsomina... hai visto, che mi è successo?.. hai visto, che mi hanno fatto?.. mi hanno ucciso... mi hanno assassinato... - Poveretto, poveretto, poveretto! - diceva lei, a bassa voce, ritta innanzi a lui, lasciandolo piangere. - Gelsomina... Gelsomina... perchè Anna non mi ha ucciso? Era meglio una coltellata nel cuore... era meglio uccidermi... era meglio... - Certo, è meglio morire - mormorò lei, con la sua voce dalla raucedine così forte, che ne aveva ottusa ogni armonia. - È meglio morire, che sopportare certe cose. - Oh Dio! oh Dio! - esclamava lui, battendosi dei pugni nella testa, in un nuovo accesso di disperazione, aridi gli occhi, adesso, e con la voce concitata. - Non far così, Domenico, - disse lei, tentando di prendergli le mani, tentando di tenergliele ferme. - Non far così, calmati, calmati!... - Ma lo sai, che Anna è fuggita in America, che non la vedrò più, che è morta, per me, che è come se fossi vedovo, mentre ella vive, con un altro, per un altro, lo sai? - Lo so - disse lei, crollando il capo. - Lo sai che ha portato via, dalla mia casa, diciottomila lire, tutto quello che io possedeva, tutto ciò che mi restava, della eredità di mio padre, e le mille lire, anche, che avevo in tasca, Gelsomina, anche quelle, perchè gliele aveva fatte vedere, lo sai? - Lo so - replicò lei, a testa china. - E lo sai, lo sai, che infamia ha commessa, qui, ove non era mai venuta, ove è entrata solo per rubare? Non le bastavano, a lei, a lui, quei denari miei, le fatiche del mio povero papà, non bastavano, le mie fatiche, è venuta qui, a rubare la Madonna, capisci, a rubare i santi, ha spogliato Maria Addolorata, si è portata tutto, per vender l'oro, per vender l'argento, in America, Gelsomina, questo, non lo sapevi? - Lo sapevo, lo vedo - disse ella, girando intorno gli occhi torbidi e tristi, dalle palpebre pesanti e oscure. - L'avresti creduto, tu, Gelsomina, che Anna mi avrebbe assassinato, l'avresti creduto? - Io l'ho sempre creduto - diss'ella, semplicemente. - Da prima? - Dal primo momento - ella soggiunse, con fermezza. - E non mi hai detto niente? Nessuno, mi ha detto niente! - Non dovevo dirti niente - ella soggiunse, ancora. - E perchè? Perchè? - Perchè tu l'amavi: perchè tu eri pazzo, Domenico - continuò lei, tristemente. - Ed era inutile dirti nulla. - E mi hai lasciato perdere, Gelsomina, tu che mi volevi bene! Tu dicevi, allora, di volermi bene! - Ti volevo bene e assai - disse la misera, con un tremito nella voce. - Come a nessuno, ti volevo bene! - E mi hai taciuto tutto! Non mi hai avvertito! Mi hai lasciato perdere, così, Gelsomina. - Anch'io mi sono perduta, Domenico! - dichiarò la disgraziata, a voce alta, con l'accento della verità. La verità, a un tratto, grandeggiò, fra quei due, si fece più alta di loro, s'impose a loro, luminosa, immensa, fatale, apparsa troppo tardi, fatale, troppo tardi, inutile e fatale. Tutto ciò che era stato e che era finito, per sempre, tutto ciò che avrebbe potuto essere e che mai più sarebbe stato, l'Irreparabile, l'Irreparabile si levava fra loro, e riempiva di sua fantastica e tragica presenza la bottega dei santi, tra le immagini rotte e deturpate, innanzi ai simulacri violati, nell'ora alta notturna, mentre imperversava, fuori, il temporale, e i due si guardavano, colpiti dalla medesima fatalità, trascinati, ognuno di essi, nel dolore, nel disonore, nel fango, per non aver visto a tempo, ove erano la verità e la vita. E l'uomo obbliò il suo immenso strazio, la sua anima si sollevò dal proprio pianto, egli sentì la comunanza di un'altra sciagura, assai più profonda della sua, perchè più oscura, più ostinata, più tetra, più inguaribile, sentì la miseria di un altro essere, la miseria del corpo e dell'anima, la miseria di un essere che lo aveva amato e del cui amore egli non si era accorto, la miseria di un essere che egli anche aveva amato, ma che non aveva saputo amare. - Ah povera, povera Gelsomina! - egli gridò. E poichè vide il volto di lei decomporsi, farsi livido, sotto il belletto, poichè vide quel sottil corpo giovanile tremare, egli prese la poveretta nelle sue braccia, per la prima volta, e con la castità della pietà infinita, paternamente, fraternamente, la strinse, tenne il picciol capo di lei sulla sua spalla e ne baciò, leggermente, i capelli, mentre ella singhiozzava, funebremente, con un singulto roco e penoso, ove vi era un lamento, un lamento di creatura colpita a morte, colpita senza speranza, senza rimedio, a morte. Gelsomina, lentamente, si sciolse dalle fraterne braccia di Domenico, si ravviò i capelli, si sedette presso a lui. Un'aridità improvvisa aveva diseccato le loro lacrime, e calmato i loro singhiozzi: l'aridità della pietà inane, della pietà vana, della pietà che non può diventare coraggio, energia, forza, della pietà che ha solo delle gelide lacrime, degli abbracci paterni, dei baci fraterni, della pietà che è un sentimento senza lena, della pietà che non ha fiamma e che nulla può distruggere, della pietà sterile che a nulla può dar vita. - Io sarei stato felice, se ti avessi sposato, Gelsomina - disse lui, con un rimpianto triste e vano, a occhi bassi. - Sì, tu saresti stato felice - replicò lei, a occhi bassi, con lo stesso tono. - Io ti avrei stimato e onorato come un benefattore e come un innamorato, Domenico. - Ahimè, io era cieco e sordo. in quel tempo! Una benda mi copriva gli occhi, Gelsomina. - Eppure io feci assai, per farti comprendere. Non ti rammenti, Domenico? Qui. venivo a cercarti, a parlarti, ogni sera. - Mi rammento, Gelsomina. - E tu non ti accorgevi di nulla. Tu guardavi le finestre del palazzo Angiulli, perchè tu amavi Anna, Domenico. - Lo sapevi, Gelsomina? - Lo sapevo, Domenico. Come potevo, ho tentato di staccarti da lei, ti ricordi, Domenico? - Mi ricordo, Gelsomina. - Ma non mi è riuscito, Domenico. - Non ti è riuscito, Gelsomina. - Non era possibile, Domenico. - Non era possibile, Gelsomina. Il dialogo continuava. Monotono, arido, quasi freddo, quasi essi facessero la storia di un lontanissimo passato. la storia di due altre persone, e non di loro due. - Dio mi ha punito della mia folle passione e del mio orgoglioso desiderio - disse lui, dopo un silenzio, riabbandonandosi all'egoismo della sua sciagura. - Raccomandati a Lui: Egli ti darà forza - mormorò Gelsomina, crollando il capo. - Io sono perduto - disse lui, cupamente. - Ci vuole coraggio: gli uomini debbono aver coraggio. - Avevo una moglie e una famiglia: non ho più nulla. - Dimentica quella donna: essa ha tentato di ucciderti. - Avevo una fortuna: non ho più un soldo. - Puoi lavorare ancora: il Signore ti manderà del lavoro. - Domani andrò in carcere, come ladro. - Tu? Tu? - Io! - Ma perchè? - Perchè Anna ha rubato le vesti della madonna, che costavano seimila lire, e gli argenti, e ogni cosa: perchè io debbo consegnare, domattina, la statua della Madonna a chi l'ha ordinata e pagata, sino all'ultima lira. - Dì che non è finita. - Non posso. Egli l'ha vista. finita. All'alba, la manda a prendere. - Va da lui, digli tutto. - Non so dove abita. - Cercalo, gittati ai suoi piedi. - Non so chi è. - Oh Dio! - esclamò lei, disperata. - Sono perduto, Gelsomina. Bisogna che dimentichi di esser un cristiano, e che mi uccida ai piedi di questa Madonna. - No - disse lei, con forza. - Bisogna che lo faccia. Non posso esser chiamato ladro. - Vuoi dannarti, dunque? - Anna mi ha messo nell'inferno, per la vita e per la morte - egli conchiuse, con l'ostinazione della follia. Ella lo guardò, stralunata. - Tu vuoi ucciderti - gli gridò, nel viso, tenendogli le mani, bruciandolo coi suoi sguardi, ove ardeva la vampa della disperazione. - Vuoi ucciderti? E che avrei dovuto fare io? Cento volte, avrei dovuto uccidermi, io! Ero una fanciulla buona, ti volevo bene, mi hai respinta, non mi hai voluta, ed io mi sono lasciata prendere, da uno qualunque, così, per debolezza, per tristezza, per non aver più che fare, di me. Non mi dovevo uccidere, forse, il giorno seguente al mio errore? Don Franceschino Grimaldi mi ha lasciata; e io, abbandonata, già perduta, ho rotolato sempre più giù, ogni giorno, perchè ero sola, perchè ero fiacca, perchè nessuno mi ha soccorso, neppure tu, perchè era impossibile, a un certo punto, di soccorrermi più. Ah quante volte la morte mi è parsa bella: e non mi sono uccisa! Io non ti posso dire la mia istoria, tutta quanta, Domenico, ma essa ti farebbe rabbrividire: non te la voglio dire, non devi saperla, non me la voglio ricordare, no, no: la volontà di morire l'ho avuta, ogni sera, ogni mattina, e non mi sono uccisa! Un tempo, due o tre anni fa, questa vita di vergogna mi dava da vivere, avevo degli abiti, dei cappelli: poi sono venuti degli infami, come Gaetanino Calabritto, degli altri, mi hanno oppressa, mi hanno maltrattata, mi hanno tolto tutto... Poi sono stata malata... all'ospedale, Domenico... ma non sono morta... e quando sono uscita, capisci... anche peggio... è stato anche peggio... Egli la udiva, smarrito, atterrato da quel tremendo racconto. - Chiedi al tuo stuccatore, Gaetano, dove sono io, adesso - disse ella, cupamente. - Egli abita dirimpetto alla mia casa. Stassera, mi ha incontrato. Giravo. Debbo girare. Mi ha raccontato tutto. E sono venuta qui, per dirti, Domenico, che se uno doveva uccidersi, dovrebbe uccidersi, sono io, io sola... io che era una buona ragazza... e che sono una disgraziata... - Ma tu non l'hai fatto! Tu non lo faresti? - No - ella disse, levandosi. - Aspetto che Dio mi tolga da queste tribolazioni. - Aspetti? - Aspetto. Deve venire il giorno... deve venire. Addio, Domenico. - Te ne vai adesso? te ne vai? - È tardi, debbo andare - diss'ella, con atto rassegnato, levando le spalle. - Mi lasci solo? - Non posso passar la notte, qui - soggiunse ella, con un sorriso amaro. - Ritornerai? domani? - No. Come posso venire, qua, di giorno? Dimentichi chi sono? Qui... da te... come sono... vedendomi tutti? No, non verrò. - Ma dove vederti, allora? - insistette ancora lui, nel suo bisogno di soccorso. - Oh non da me, non da me! - gridò lei, facendo un atto di ribrezzo. - Hai ragione - annuì lui, lentamente. E si guardarono in viso. Il destino li aveva avvicinati un tempo, ed essi tenevano nelle loro mani, la quiete e la dolcezza della loro vita, e l'avevano lasciata sfuggire, per ignoranza, per cecità, per timidezza, per debolezza: sovra loro, sovra le loro fragili anime, sovra le loro caduche compagini, era sorto un essere forte e crudele, una donna imperiosa e malvagia che li aveva combattuti, in nome dei suoi istinti di dominazione, di cupidigia, di potenza, li aveva combattuti, debellati, distrutti. E travolti dal turbine, sempre più, essi dovevano incontrarsi, ogni volta, per compiangersi, per piangere insieme, per esalare i lagni del loro dolore, ma incapaci, nella loro fiacchezza, di salvarsi, l'un l'altro, ma inetti ad agire, inetti a lottare, inetti a vivere, destinati, infine, ad aspettare che Iddio li liberasse dai triboli, ad aspettare la morte pacificatrice, solo quando il giorno della liberazione fosse venuto. Si guardarono, infelici come mai creature umane, in una notte bruna e tempestosa, furono infelici: e sentirono che nulla avevan più da dirsi: che le loro mani non dovevano toccarsi: che le loro vite dovevano separarsi: poichè la loro salvazione non era più in loro, ma fuor di loro, in mani misteriose, e chiuse, e alte, e supreme. Nella bottega dei santi, Domenico Maresca restò solo e piegò la testa sulle braccia, versando rade e fredde lacrime. Nella via, sotto la pioggia, la gracile ombra notturna di Gelsomina si allontanava, trascinando la stanca persona, e sul triste viso scendevano le rade e gelide lacrime.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682523
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E quel popolo che è stato tradito, poichè non ha avuto quanto la nazione gli aveva donato, per redimerlo igienicamente e moralmente, quel popolo che è abbandonato, che lo sa, che un po' ne ride, un po' ne sospira, un po' ne digrigna i denti, questo grande popolo che noi dobbiamo amare, che noi amiamo, perchè ci sentiamo affratellati con esso, perchè anche noi siamo popolo, perchè noi siamo come esso e figliuoli del medesimo Iddio di giustizia e di clemenza, questo popolo non resiste agli antichi istinti, al bisogno di vivere come che sia, al bisogno di vendicarsi di questa società ingrata e traditrice: non resiste alla suggestione del vizio, del male: e giuoca: e ruba: e si vende: e ferisce: e uccide: e colà, di giorno, di notte, appena dietro il paravento, o nel Rettifilo istesso, il crimine, il delitto, si espandono, fioriscono, eterna rampogna, eterno rimorso a coloro che, fedifraghi al Re, ad Agostino Depretis, a Niccola Amore, a Guglielmo Sanfelice, alla Nazione, commossa di orrore e di pietà, mancarono ai patti giurati e ruppero ogni promessa, lasciando il popolo napoletano a languire, a struggersi, a patire, ad agonizzare, nella più profonda ignavia del corpo e dell'anima.