Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

gridava egli per farci abbandonare l'assalto: «L'ho difeso quanto ho potuto! ho difeso madonna! ma il castello d'Ildebrandino è in mano dei nemici!» Oberto e lo zio furono lì lì per rovesciarlo d'arcioni. E quegli seguitava: - Ma dite! Il capitano è morto? - Pensiamo ai vivi - rispose irosamente Oberto. Lamentò Ildebrandino: - Che si è fatto da Aginaldo? Da Gisalberto? Baldo ancora aspetta coi cavalli! Che aspetta? In quella quattro uomini, gittando l'armi, venivano per la montagna, abbandonate le macchine e lasciati vilmente i compagni. Come videro i cavalieri e il trombetto Aimone, certo si sentirono a mal punto, il perchè due ad alta voce dissero a giustificazione: - Aginaldo e Gisalberto sono morti! Aldigero, Ugonello, Oddone, sono fuggiti alla valle! - e con artifìcio: - Voi che avete tromba, dove siete stato? Il capitano ci mandò in cerca di voi. Presto, suonate! ad avvisare i saluzzesi! - e si dispersero nel bosco. - Dio volesse che fosse come voi dite! - lamentò Aimone. - Pensiamo ai vivi - replicò Oberto con ambizione: - Due dì fa l'impresa fu cominciata da tale che aveva sproni d'argento! - E con quel tale io la compirò! - comandò lo zio: - Vi faccio cavaliere d'arme! Voi sarete tanto valente che sbatterete la testa di Adalberto sul ponte di Rupemala a orrendo giuoco dei mastini! - e così proclamando in atto di solenne promessa volse il capo nella direzione del suo castello. Una nube nerissima, a vortici rigurgitanti, dal sotto in su insanguinata da riflessi guizzanti, si levò dal basso del monte, roteando nella valle. - Oberto! - gridò Ildebrandino, afferrando il nipote per un braccio sì fortemente che quasi lo fece staffeggiare: - E non diemmo le mazze sul capo al malaugurato! Guarda! La masnada era corsa la! Oberto guardò e non riuscì che a dire: - E potemmo lasciare sola Imilda! Il trombetto si toccò la spada, dicendo, come ad ammansarli col pensiero di vendetta: - E affermava dunque il vero quel traditore! Ma gli ho pagato l'ambascerìa quanto valeva: tre stoccate sulla testa tanto vecchia e tanto pelata! E ancora parlava! «Ho difeso!» E voleva dirmi il suo nonme, e lo disse, ed io lo bandirò per vitupero dei traditori: Federigo saluzzese. - Il mio fedelissimo servo! - urlò lldebrandino: e Oberto spronava al suo castello. - Tu l'hai ucciso! Vitupero a te, figlio di bifolchi! Non conosci i forti e i fedeli?... Oberto! Oberto! attendimi al tuo fianco!... Tu l'hai uccìso? E tu mi tradisci?... Oberto! Oberto! Noi due soli? E i nemici quanti saranno? Ah! quelli cui diemmo il passo! E Federigo perchè lasciò Imilda? Forse che tutto era già perduto? Ma quelli che appiccarono il fuoco, non sono nemici di tutti! Dunque su tutti!... Suona la ritirata, o araldo, suona poi a raccolta e muoviamo al castello!... Oberto! Oberto! attendici! Saremo più di cento lance!... Suonate la ritirata, suonate, messer l'araldo! Suonate, per pietà! - Così finiva a supplicare il cavaliere, quasi impazzato, e pregava, alzando la mazza, e minacciava a mani giunte, e strappava le redini al cavallo per raggiungere Oberto e le strappava per accostarsi al trombetto. Aimone avrebbe le mille volte voluto una freccia a forargli le orecchie, piuttosto che quelle parole a straziargli l'anima, e chiamava il capitano che lo conducesse al furore di una zuffa, così: - Messer Ugo! Ditemi che non è morto! Perchè mi partii dal suo fianco? No, fu lui che mi mandò ad Eleardo! Messer Ugo!... - Suonate, la ritirata! E l'araldo dolorosissimo: - Oldrado non mi diede mai questo comando! - Dopo fate a raccolta!... Oberto! Oberto! - E se messer Ugo tornasse? - Anche là al mio castello sono i nemici di tutti! Il trombetto si disse con risoluzione guerresca: - La voce del capitano è la tromba: udite la voce - e squillò, verso il monte. - Che segno è questo? - domandò trepidante il cavaliere. - Quello che avvisa i saluzzesi di accorrere al portone! - disse superbamente l'araldo, e suonò verso la valle, e vide che dopo lo squillo si muoveva un drappelletto di cavalieri... Che? Un'insegna? Un'insegna quadra di comando. Fosse...? - Era l'insegna dì Ugo. Aimone staccò la tromba dalle labbra e guardò. Per una via Ugo veniva. E per un'altra Ildebrandino cacciavasi a rovinosa corsa dietro ad Oberto.... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla mattina di quel giorno, nel castello d'Ildebrandino, partiti i cavalieri, lasciandovi poca scorta, madonna Imilda era scesa nella cappella. Oh sì eh'ella aveva grandissimo bisogno di conforto! - O Signore, o Vergine santissima! Fate che il padre mio mi torni salvo dall'armi! Almeno il padre! Oh come vi prego! Tu che sei interceditrice potente, e tu che tutto ascolti!... Se ci fosse anche la madre mia a pregarvi! Come la vorrei accanto a me! - E Imilda piangeva dirottamente: - Ella m'avrebbe salvata da questo tumulto! Vedi, anch'io vorrei esser tra l'armi, per udire quel grido: - vittoria!... Vergine dolcissima, tu sorridi a me che piango? E tu che sei Dio hai voluto per immenso gaudio avere in eterno la madre! A me l'hai tolta! Salvatemi il padre, che mi protegga!... Che sarebbe d'Imilda deserta nel castello degli avi?... Deserta?... O Signore, per un'altra persona io ti prego, per Oberto... Oh ma sarei deserta senza padre, sola nei lunghissimi giorni dell'abbandono! Oberto, povero Oberto, da tre notti non ho più cucito la tua fascia... Qual tormento, quale dolcezza novissima in me! Tu non sai! E se sapessi!... Ma che ho fatto? Che ha detto? Perché basta uno sguardo, una compassione, una lagrima?... Una vita infelice! - E Imilda fremeva tutta: e taceva, non osando nemmeno a sè stessa confessare il grido dell'anima combattuta: poi - A Oberto m'aveva promessa il padre: ed ero contenta, e sarei stata tranquilla... O Madonna, che voglio dirti? Che vuoi ascoltare? Non so... voglio... vorrei... devo, oh sì devo! come cristiana, pregarti per un altro cavaliero: devo, come nata da liberi castellani, pregarti per il capo dell'impresa! Egli ci rende tutto! Ed è valente, e cortesissimo.... Perchè sorridi, Vergine santissima? Non so, ma mi sorridi, come mai non facesti. Ah perchè anche tu lo scorgi benigna? E fai bene perchè mi fu detto ch'egli è infelice. Io sento che è infelicissimo! Non conobbe la mamma sua. Tu che sei la mamma di lassù fagli conoscere almanco... una sorella del suo dolore! E fammi grazia: disponi sì che ci sia un'altra giovinetta, bella e religiosa più di me, la quale preghi per Oberto. Così tu potrai esaudirla... Io sono... Io non so!.... Mi trovo irrequieta.... Ah tu sai ed esaudisci! Mi trovo tormentata! Amo messer Ugo! «Chi siete?» «Sono il figlio di Guidinga»... Ugo! Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si fa in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto. - I nemici! - ascolta la voce del vecchio Federigo: - Salvate madonna! - ed ecco ancora: - Fuoco! fuoco! La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso: - O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto? - ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava: - Balestrate fuoco nelle finestre! - e un'altra: - Se tutto arde che ci rimane di bottino? - Combattete! - gridava Federigo agli uomini del castello: - Giuratemi! Alla fantasìa della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco: e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione... Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, lo stanzone dell'arme... - O Signore! la fanciulla se li imaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O padre! O Ugo!... La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare. - Non sia vero! - Fu scossa. Di nuovo la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! - E un'altra: - Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella. - Ancora la prima: - Sconficcate le inferriate! Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò: - E se vuoi mandarmi la morte! fa che non sia vergognosa! In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle prime: - Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono nostri. Non fate chiasso. Io provvederò - e fu chiusa la porta per di fuori e tolta la chiave. - Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato qualcosa, vi pare? - Dopo più nulla. Poi nella corte: - Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia! Ma più poderosa gridava la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! dappertutto! Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i sensi. Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto? Era un nemico?... Il primo pensiero che le si affacciò fu questo tremendo: - Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo tristissimo! La vergine spossata levò la faccia... Oh sì l'angoscia della vita! - Sei tu! Era Ugo il cavaliero. La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce d'Ildebrandino: - È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva! - Con queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e il morto padre di Oberto. Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero di quello: - Imilda nelle braccia di Ugo! - Sì! - esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore, in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono delle membra, insidioso e annuente. Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse verso le fiamme, con atroce disegno.... - Di qui passerete un giorno sposa! - lamentò Ugo. - Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno! - susurrò Imilda. Oberto mosse un secondo passo. - Pietà! - stridette Imilda. - Non sai morire? - tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e rise. E veramente per la prima volta sghignazzò. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come Ugo era accorso nella cappella? Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia. Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua, stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente scompigliata, ma invano. Gridavano in cento: - Oh quanti morti! Sarà gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi! - E chi il traditore? - Traditrice la poca esperienza degli anni in voi. - Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di vittoria e gloriosa vittoria? Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e dai casi della mattina... Ugo gridava... A un tratto ode uno squillo di tromba. - Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita? Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto? - sclama Ugo, e sorge sul suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo, Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca, solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello.... Che? Nessuno vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio, piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era sbarra, rotola nel fossato. I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando: - Sorprendiamo cogli arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me! Bonifacio osserva: - È troppo tardi! Qui tutto è perduto! - E che? In tutti un impeto solo! - Baldo e Ildebrandino vi diranno.... - Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio, Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra! - Galoppa verso il terreno raso, ed alza la faccia... Vede un fumo sollevarsi di lontano. - Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le castella? O Gesù! - e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo... In quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a sinistra, come una cosa pazza. - Qui tutto è perduto! - ripeteva il cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio. - Ed io voglio vittoria! - Fugge il messere! Il capo dell'impresa! - fischiano dietro ad Ugo Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle. Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza d'arcioni gridando: - Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a me! Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani: - Per amore della croce, abbiatemi misericordia! - Dov'è madonna? - supplica Ugo: - Ah!... misericordia a me! - Non uccidetemi! - Dico di madonna! Madonna! I nemici! - Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone! Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa, facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare, gridando: - È qui Ugo con cento cavalli! - Ugo, giù ancora per lo scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed Oberto. Incalza Ugo: - Ov'è madonna? Quegli meraviglia spaventato: - I morti tornano! - E questi: - Ugo è risuscitato per mia dannazione! - E tutti e due, facendosi segni di croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad essi, corre, corre... È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito geme: - Abbiate pietà! - Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di chierico. E quello: - Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato! - Era Ingo difatti sotto una finestra della cappella. Ugo, con subito pensiero religioso, esclama: - Voto una lampada d'oro alla Vergine di Saluzzo! - e facendo sgabello col corpo del ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si strascina su col petto, e ripete: - In luogo sacro voto due lampade d'oro! - D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro... Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa per balzare... No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima raddoppia il voto alla Vergine del cielo: - Quattro lampade d'oro, per quel che ho falto! per quello che voglio fare! - e fìcca gli occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la destra.... Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!... Ugo balza a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure. A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo. Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando: - È proprio lui! Gii spiriti hannobraccia di nebbia. Questo no, per Dio! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto, andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme, vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei feriti nemici. Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma ancora pronto a spiccare il volo. Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente che la sapeva assai lunga!

Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Ho dovuto abbandonare da un po' di tempo il mio più vivo conforto mondano, la caccia, e rinunciare alle lunghe passeggiate solitarie su per i dorsi dei monti. La mia pelle già ruvida e bruna - e il prete guardava pietosamente le proprie mani - è diventata morbida e bianca, come quella di una donna galante. Dicono che, così magro e così smorto, sembro ringiovanito: ho trent'anni e ne mostro venti: torno fanciullo. Chi mi ridà la salute e la forza? - Il dottore sorrise, e il prete continuò: - Un giorno a Trento il vicario del vescovo mi dice con ironia: "Ella, reverendo, è un montanaro d'Arcadia". I miei parrocchiani, salvo pochi, mi guardano di traverso. La carità cristiana! Ecco che in questo paese, il più alto e il più povero del Trentino, dove gli uomini sono attivi, sobrii, leali, e le donne non hanno altra bellezza che la loro virtù, viene a piantarsi una masnada di truffatori e sgualdrine. Inventano delle miniere; gridano a tutti i venti che nel nostro suolo la natura ha deposto i suoi tesori di ferro; le Gazzette del Tirolo, della Germania, sono piene di annunzii e di lodi sulla famosa Compagnia siderurgica della valle di Castra cinquemila azioni da cinquecento lire ciascuna, interessi, dividendi, almeno il cento per cento! Troveranno i gonzi, intascheranno i milioni, una parte almeno, e scapperanno, lasciando alle nostre montagne due grotte di più, due buchi. Ma intanto si pianta qui, per alcune settimane, in un palazzo improvvisato, il capo dell'impresa con la sua ganza; e servi e operai e donnacce riempiono il villaggio di scandali; s'aprono bettole, si balla tutta notte, ci si ubbriaca e peggio. Alle miniere, alle ferrovie ci pensa pincone. Tre famiglie del paese hanno già venduto le loro giovenche per barattarle con le mirifiche azioni siderurgiche: altre seguiranno l'esempio. Alla rovina materiale si rimedierà, ma l'abiezione morale sarà senza riparo. Due delle più ingenue paesanelle, l'una di diciotto, l'altra di sedici anni, la Giulia di Pietro ... La voce del prete, rauca e fiera, s'interruppe di botto. Era stato un torrente di parole: sembrava che non dovesse fermarsi più; non aveva tossito neanche una volta. L'indignazione bolliva da un pezzo in quello spirito ingenuo, ed era scoppiata; ma dopo l'ultima frase Don Giuseppe rimase improvvisamente impacciato, mortificato. Guardò in volto il dottore per ispiare se questi avesse potuto intendere il senso del periodo appena incominciato; e si confortò un poco, vedendo che teneva la testa bassa, come sbalordito dalla foga del lungo sermone. Il curato girò gli occhi ad un angolo della stanza, li fissò un istante sul Crocifisso, che gli parve più sanguinolento, più addolorato del solito, e recitò un'orazione interna, breve, ma fervidissima. Un sordo, esercitato a leggere sulle labbra, avrebbe colto dai moti convulsi di quelle del prete alcune voci spezzate: Strictissima obligatio ... inviolabiliter ... sigillum confessionis . Frattanto il dottore sorrideva, pensando alla rusticità del curato. Aveva compiuto egli i suoi studi di scienza medica niente meno che a Vienna, e in quegli otto mesi n'aveva proprio viste di belline. Le raccontava, adombrate appena di un velo, persino a sua moglie. Sì, signori, per allargarsi la mente, per non lasciarsi afferrare dalle idee storte e sentimentali, per acquistare l'esperienza del mondo, per imparare i modi garbati, è necessario vivere, almeno un certo tempo, nella capitale. Fra le montagne non si possono educare che gli orsi. Povero curato, il suo massimo viaggio era stato quello di Trento! - Don Giuseppe, mi permetta di parlarle schietto: ella, scusi, mi sembra un tantino pessimista -. Dette queste parole quasi per tentare il terreno, il medico ristette, aspettando una risposta. La risposta non venne: Don Giuseppe aveva assunto un'attitudine raccolta e placida. Fattosi coraggio, il dottore continuò: - Può darsi, non lo nego, che le cose previste da lei, reverendo, sieno tutte vangelo, e che una brutta catastrofe sovrasti alla povera valle; ma potrebbe anche darsi, chi lo sa? che le faccende andassero lisce. Lavorano negli scavi, hanno fatto gli assaggi; né sarebbe impossibile che il metallo sbucasse fuori, tanto più che si trovano nei nostri monti le tracce di molte vecchie ferriere. Se l'impresa andasse bene, quanta ricchezza non ne verrebbe egli a tutti i luoghi qui intorno? Dall'altra parte questo signor banchiere e barone, avviato l'affare e toltosi il ghiribizzo della vita montanina, andrà via con il suo codazzo, lasciando i veri lavoratori, gli onesti operai; e tutto rientrerà nell'ordine consueto, con qualche soldo e qualche comodità di più, che ce n'è di bisogno. - Dio voglia! - Era un Dio voglia buttato là tanto per mutare discorso. Il curato chiese infatti senza interruzione al dottore: - Mi dica un po', come sta oggi la signora Carlina? - Non c'è male, grazie. Mangia poco, quasi niente, sebbene io la faccia sgambettare dietro di me il più possibile. - E di umore? - Così così. Quando esco la mattina o dopo il desinare per le mie passeggiate mediche, potrei dire per i miei viaggi quotidiani, m'abbraccia e si mette a piangere. Qualche volta, confesso, perdo un po' la pazienza. - Tolleri, dottore. È una bambina, e le vuol tanto bene. Dirò di più, veda di trattarla con infinita indulgenza, con ogni sorta di amorevolezze e di cure. La tenga come una pianticella tenera, delicata e sottile, trapiantata da tre mesi soltanto, e che vuole essere irrorata d'affetto. - In fondo non è mai malata. Qualche dolor di capo, nient'altro; ma non ingrassa. E poi è tanto rustica: vorrebbe stare sempre sola o con me. Detesta la gente nuova; anzi, a dirgliela, Don Giuseppe, sono impacciato. La bella baronessa vuole vedere mia moglie a ogni costo. Appena entro nella sua camera grida: "E la sposina?". - Per amor della Vergine Maria non gliela conduca. Profanare il candore, il pudore della giovinetta semplice, della colomba di diciott'anni con l'alito della donna infame! - Reverendo, ella dice bene; ma io ho pur bisogno di tutti. Nato in questa valle, non ho intenzione di morirvi. Per guadagnarmi da vivere devo fare sulle scorciatoie dei monti tre o quattro ore di cammino ogni giorno al rischio di cadere in un precipizio, di gelare l'inverno in mezzo alla neve o di crepare giovine d'un vizio di cuore. Risparmio il mulo ed il ciuco, tiranneggio me e anche un poco mia moglie per mettere da parte qualche danaro, che mi permetta di piantarmi in una città, dov'io possa fare il medico davvero. Cavar sangue, strappar denti, aggiustar ossa a questi villani non è poi un mestiere decente per chi ha studiato nella capitale e s'è assuefatto a nobili desiderii. - La nobiltà del desiderio consiste, dottore, nella volontà del bene; e il bene è tanto più difficile a farsi, ma tanto più meritorio quanto è più basso e, aggiungerò, più schifoso l'oggetto a cui si rivolge. - Ella parla d'oro, signor curato. Ammiro la virtù sublime, ma tutti non hanno, neanche secondo il Vangelo, l'obbligo di esser santi. Si può vivere da galantuomini, si può beneficare il prossimo anche nelle città, ed io mi sento nato per la vita civile. Ora veda, Don Giuseppe, quella signora, chiamiamola baronessa o altrimenti, mi dà quattro fiorini per visita e mi chiama quasi ogni giorno. Il mio salvadanaio ne gongola. - Dottore, la signora Carlina non approverebbe questi sentimenti. - E avrebbe torto. Posso io rifiutare a colui che invoca il mio ministero l'aiuto della mia scienza? Non ci sono altri medici nella valle; occorrerebbero sette ore od otto per averne uno: intanto il malato rischia di crepar come un cane. È poi lecito il distinguere un contadino da un signore, una donna onesta da una bagascia, o non si devono soccorrere tutti ugualmente? Mi dica lei, Don Giuseppe, se un peccatore, se una peccatrice implorasse, anche senza sentirsi in punto di morte, una parola dal ministro di Dio, una parola che potesse confortare, migliorare, illuminare un'anima sviata, avrebb'ella il diritto di dir di no? Stendere la mano al prossimo smarrito o perverso, aiutarlo a ritrovare la via diritta, non è forse il primo, il più sacro dovere del pastor buono? Queste ultime parole vennero pronunciate con molta enfasi dal dottore, il quale teneva i suoi occhi furbi fissi negli occhi ingenui del prete. Seguì un silenzio, in cui si potevano udire i canti e le risa della gente del villaggio raccolta nella piazzetta della fontana. Il curato meditava. Fece un gesto risoluto, andò a pigliare il collarino nell'armadio, se lo affibbiò senza guardarsi nello specchietto che, appeso ad un chiodo sul telaio della finestra, gli serviva per radersi la barba, e infilò la sua veste nera, l'unica che avesse; poi disse: - Andiamo. In quel punto al baccano sempre crescente dei villani s'unì un gran frastuono di trombe, di corni, di cornette e d'altri strumenti d'ottone, i quali stonavano e scroccavano maledettamente; e, fuori del paese, sul dorso del monte, rispondevano gli spari dei mortaletti. Era una festa solenne: avevano fatto venire la banda musicale dal capoluogo del circondario, niente meno; ed il Capo-comune presiedeva alla cerimonia. Si trattava anzi di una vera marcia trionfale. Gli eroi erano due ragazzi in sui dodici anni, l'uno bruno, l'altro biondo, incoronati di fiori selvatici, e tirati in uno di quei veicoli, i quali servono in montagna a trasportare il letame, ed hanno, curvi come sono al dinanzi, un certo aspetto d'antica biga romana. Il carro, tutto a ghirlande e a festoni, era tirato da due maestosi buoi bianchi, ma i due fanciulli, anziché mostrare la baldanza de' conquistatori, mostravano una gran paura di essere sbalzati a terra, quando le ruote o si alzavano sugli enormi sassi, di cui sono sparse le tortuose, strette ed erte vie del paesello, o si sprofondavano nelle buche di pantano, da cui schizzava intorno la melma. I due monelli guardavano in giro, confusi di tanto chiasso, desiderosi d'una cosa soltanto, di saltar giù dal carro trionfale per unirsi a' loro compagni e dimenarsi liberamente e gridare anch'essi: Viva, viva! La cagione della loro gran gloria era spiegata da Menico ad un vecchio, venditore ambulante di quegli enormi ombrelloni rossi e azzurri, i quali mettono nella malinconia del paesaggio, quando piove, una pennellata allegra. Il caso dunque era stato questo: i due ragazzi, nel principio della passata primavera, andavano a raccogliere sul monte della Malga, quello che manda la più lunga ombra nella Val della Castra, le radici di una certa erba medicinale. È uno dei piccoli guadagni dei montanari, i quali per un grosso peso di arnica, di genziana, di aconito, di lichene, o che so io, racimolati sulle roccie, alla cima dei dirupi, col rischio di rompersi il cranio nella voragine, pigliano qualche soldo. La neve al basso si andava squagliando, ma i due fanciulli, raspandola via via, senza pensare ad altro, salivano sempre più in un luogo che da otto mesi non vedeva anima nata. All'improvviso, sotto ad un pino, che il vento aveva gettato a terra e che su quel lenzuolo candido con il suo tronco ed i suoi rami secchi pareva uno scheletro, odono un fruscìo. Tendono le orecchie; il fruscìo si rinnova; s'avvicinano, ed ecco che sbuca una bestia bruna, simile ad un cane non grande. La bestia scappa e va a nascondersi di nuovo in una macchia di arbusti; ed i fanciulli dietro. Avevano due bastoni, e si mettono a picchiare con tutta la forza di cui erano capaci, l'uno di qua, l'altro di là della macchia di arbusti, la quale, sebbene priva di foglie, era folta. Volevano acchiappare il cane. La bestia, in fatti, spaurita, irritata, esce fuori, ma, invece di fuggire, avventandosi alle braccia di uno dei fanciulli, le addenta e ne fa uscire il sangue, che arrossa la neve; ma il fanciullo, niente paura, quanto più si sente mordere tanto più tiene saldo. Ed ecco l'altro che in buon punto dà con la mazza un forte colpo sulla testa dell'animale, ed un secondo colpo, e l'accoppa. Il ferito, più allegro che mai, tiene per un poco le braccia nella neve, poi, con il compagno, scende giù a sbalzi portando la sua preda. Erano incerti se fosse un cane o una volpe. Ma, prima di entrare nel villaggio, incontrano un vecchio di ottant'anni, alto, di corpo asciutto, dritto ancora come un fuso, svelto ancora come un cavriolo, che andava a passeggiare con la sua carabina ad armacollo. La fama di codesto vecchio esce dalla Val della Castra: Trento stessa lo conosce. Nella sua vita ha ucciso venti orsi; l'ultimo, dopo sbagliato il colpo del fucile, l'uccise abbracciandolo, e l'uomo cacciava all'orso il coltello nel ventre, e poi, sempre in un amplesso, arrotolarono un pezzo sulla china del monte, finché l'orso morì, e l'uomo di ottant'anni s'alzò dritto e placido. Ora quel vecchio chiamò i fanciulli, che gli passavano innanzi, e disse: - Figliuoli, dove avete pescato questa bestiola? - I ragazzi risposero: - L'abbiamo uccisa noi; ma è una volpe od un cane? - È un'orsacchiotta, fortunati figliuoli: fortunati che non avete trovato la sua madre, e fortunati che vi beccate trentasette fiorini belli d'argento. Fate l'istanza al Capitano -. Dette queste parole ripigliò il cammino, guardando i ghiacciai sul cucuzzolo delle montagne. Menico mostrò all'ombrellaio, tra la folla, un montanaro che soverchiava gli altri di quasi tutto il capo, e che guardava con serietà i due piccoli trionfatori: era il vecchio degli orsi. Per farla breve, i ragazzi avevano potuto dopo qualche mese riscuotere i trentasette fiorini, che il Governo dà quale premio per l'uccisione di un'orsa; e la festa era fatta a commemorazione e a rallegramento del caso. Bisogna aggiungere, per amore di verità, che era stata anche pensata da qualche cervello ingegnoso per avere una nuova scusa di ballar con la banda tutta notte nell'osteria e di scialacquare in istravizii e bordelli; e, perché il curato lo sapeva bene, non aveva voluto ingerirsi né con la sua chiesa, né con la sua persona in così fatta commedia. Dall'altro canto la caccia dell'orso aveva lasciato nell'animo del prete un rimorso non piccolo. S'era imbattuto un inverno anch'egli fra le nevi in un orsacchino da poppa; aveva pigliato l'orsacchino e, picchiandolo un poco, l'aveva fatto guaire, perché l'orsa, che non poteva essere lontana, lo udisse. Venne in fatti, e precipitò furibonda, mentre il prete mirava attento e colpiva giusto. L'orsa, ferita a morte, si trascinò accanto al suo piccino, che continuava a guaire, e lo leccava in atto d'infinito amore. Il prete tornò a casa pensieroso, lasciando nel bosco la madre morta e l'orsacchino libero. La sera scartabellò i volumi della sua piccola libreria per conoscere se l'inganno è innocente quando si volga contro le bestie feroci; ma non gli riescì di raccapezzar nulla che facesse al suo caso: solo nel secondo volume del Gury, Compendium Theologiae moralis , trovò che al sacerdote è lecita la caccia non clamorosa cum sclopeto et uno cane . Non trovò altro; ma non poté mai dimenticare la generosa, e sviscerata passione di quella madre morente, e, ripensandovi, sentiva nel cuore uno stringimento. Ripeté ancora al dottore: - Andiamo - ed uscirono, allontanandosi dal frastuono del villaggio in festa.

EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Don Pietro non poteva sostenere quello sguardo con cui ella pareva chiedesse perdono di morire, di abbandonare padre e madre in tristissime circostanze. Per questo egli si fermava poco nella cameretta della malata; andava e veniva come una mosca senza capo; e se, involontariamente, gli attraversava il cervello l'idea che la figlia avrebbe potuto suggerirgli un bel terno, una quaderna, come compare Giammona sosteneva che i moribondi son capaci di fare; se, involontariamente, si sedeva su la seggiola a pi del lettino, e guardava Matilde con aria di attesa quasi supplicante, si riscoteva tutt'a un tratto, indignato contro di sé; e andava di là, nel suo studio, per rinfacciarsi: - L'hai uccisa tu! L'hai uccisa tu, scellerato! Ed ora pretenderesti anche... Scellerato! Fu verso l'alba del funestissimo giorno. Don Pietro che aveva mandata quella larva di sua moglie a riposarsi un pochino dopo mezza nottata di veglia, interrogata la figlia a bassa voce, con un tremore di tenerezza nell'accento, chino su lei, carezzandole lievemente i capelli: - Come ti senti? Come ti senti? - Bene, papa. Non ho bisogno... di nulla! Egli si era seduto dapprima al solito posto, poi aveva collocato la seggiola vicino al capezzale, e teneva la mano su quella fronte scottante, madida del sudore della febbre che consumava le ultime forze di tanto fiore di giovinezza. - Papà! - ella disse con un filo di voce. - I santi sacramenti, presto... E tu, non dubitare: verrò a darti in sogno.... quel che tu desideri. Sì, sì, papa! Egli la baciò tutta, su le coperte, dal capo ai piedi, delicatamente, come una santa reliquia, col cuore pieno d'immensa gratitudine per quella promessa che egli non avrebbe rivelato a nessuno fino a che non si fosse avverata. E quando la collocò con le sue mani nella cassa mortuaria, che don Vito aveva fatta fare a sue spese, foderata di raso bianco internamente e di velluto azzurro, fuori - povera creatura! Era leggera come una piuma! - e quando la casa parve vuota, schiacciata sotto il silenzio della desolazione, ed egli si trovò finalmente solo con la moglie vestita a lutto, dopo tre giorni di visitu, in cui erano accorsi amici, conoscenti per prender parte al loro dolore - entravano, senza dire una parola, rimanevano seduti, si rizzavano, muti, per far posto ai sopravvenienti - dopo tre giorni di doloroso stupore, durante i quali aveva tentato di consolarsi ripensando le parole della figlia: Verrò a darti in sogno, quel che tu desideri. Sì,sì, papà - la moglie e il fratello lo videro andare in cucina con una bracciata di libri e di scartafacci, accendere il fuoco e buttare sui carboni divampanti i fogli dei diversi libri dei Sogni, strappati, sparpagliati perché bruciassero meglio, i fogli del Ru- Ru-tilio e gli scartafacci del frate cappuccino che non erano stati buoni a fargli vincere neppure un terno! Don Vito, maravigliato e contento, vedendo salire per aria, portati via dall'impeto della fiamma i neri residui dei fogli che s'ingolfavano nel camino e sembravano tanti uccellacci di malaugurio messi in fuga, gli disse: - Hai fatto bene! Dovevi pensarci prima... Meglio tardi che mai! Don Pietro avrebbe voluto rispondergli: - Non ne ho più bisogno.... Verrà Matilde! - Ma si mordeva le labbra per non parlare. E attese. Un mese, tre mesi, un anno! Attanagliato dall'angosciosa agonia di quella speranza, di quella promessa che la morta si era dimenticata di mantenere - nonostante le preghiere, nonostante le messe fattele dir in suffragio! - egli declinava rapidamente, quantunque il fratello don Vito fosse venuto a coabitare da lui, col caritatevole pretesto di fargli l'amministratore del poco che gli era rimasto. Don Vito, qualche volta, si lasciava scappare un lieve ironico accenno al passato; e allora don Pietro scoteva amaramente il capo e rispondeva: - Se fosse venuta!... Ma non è venuta! - Chi? La quaderna? E un giorno, convinto che ormai fosse inutile tenere il segreto, al rimpianto del fratello che, alla risposta: - Se fosse venuta! - tornava a domandare: - Chi? La quaderna? - egli scoppiò in lacrime ed esclamò: - Perché lusingarmi? Perché promettere? Don Vito, nell'udire il racconto, pensava con spavento: - Mio fratello impazzisce!

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Capisco: non può abbandonare la merceria... Che peccato! Ogni parola di lei Pietro La Rocca se la sentiva scendere in fondo all'anima, lieto, commosso anche dalle espressioni più insignificanti. E quando le due donne furono andate via, Pietro rimase mezzo intontito; se qualcuno degli avventori gli diceva: - Sor Pietro, dov'avete la testa? rispondeva sorridendo: - Su le spalle, caro amico. Ma non sapeva risolversi. - Che ne dici, mamma? - Sei tu che devi scegliere. Si decise tutt'a un tratto. - Anche perché si chiama Caterina, come te, mamma. Questo gli parve il maggior buon augurio. Due anni di felicità, di prosperità. La buona vecchietta avea potuto assistere a un'altra trasformazione della bottega e della casa, quasi la bella nuorina avesse rinnovato con la sua presenza ogni cosa, quasi gli oggetti toccati dalle sue bianche mani avessero acquistato doppio, triplo valore. Poi era venuta la consolazione di una bambina, a cui Pietro avrebbe voluto imporre il nome della madre. Ma sua moglie aveva esclamato: - Troppe Caterine in una casa! Ed era stata battezzata con quello di Rosaria, come la zia di lei. La mamma aveva detto scherzando: - Aspetto che arrivi il maschietto e poi me ne vado. Il maschietto tardò a venire, e lei se n'andò, portata via da una fiera polmonite in pochi giorni. Per Pietro fu un terribile colpo. La moglie vedendolo triste, inconsolabile, gli si rivolse in tono di rimprovero: - Sarebbe stato meglio se fossi morta io! - Tu non le volevi bene! - Non mi voleva bene neppur lei. - T'inganni. - Era gelosa di me. Pareva sorvegliasse ogni mio atto, diffidasse d'ogni mia parola, specie in questi ultimi mesi. Che si figurava? Non te n'ho parlato mai. Che si figurava? - T'inganni. Era vero; la morta non era arrivata a voler molto bene a quella nuora, vivace, ardita, la quale si compiaceva di fare a botte e risposte con certi avventori che venivano a comprare sigari o sigarette, e indugiavano nella scelta, evidentemente per intrattenersi con lei. Verissimo: la morta era diventata diffidente del figlio che sembrava incantato di qualunque cosa dicesse o facesse la moglie, e rideva di ogni risposta piccante di lei a qualche avventore, senza adombrarsi dell'insidia che le parole dell'avventore potessero nascondere. E poche settimane prima di morire aveva tentato di metterlo in guardia. - Se al suo paese usa di parlare così con gli uomini, tu dovresti avvertirla che qui non usa. - Parole, mamma! Parole di scherzo, mamma! - Dalle parole ai fatti ci suol correre poco. L'estrema bontà del suo cuore non gli permetteva di concepire il minimo cattivo sospetto contro la moglie; ma da quel giorno in poi ebbe qualcosa nell'animo - una lieve nebbia, un sordo ronzìo - non avrebbe saputo spiegarlo - che gli turbò a poco a poco la serenità dello spirito, specialmente, dopo la morte di sua madre. Caterina se ne accorse sùbito e non glielo nascose. Egli, dispiacentissimo, tentò di disingannarla, ma fece peggio quando le disse: - Questo, in ogni caso, vuoi dire che ti voglio estremamente bene. - Voglio essere rispettata anche! - Nessuno ti rispetta più di me. Pareva che il malinteso fosse stato dissipato, ed era come un fuoco che cova sotto la cenere; basta rimescolarla perché esso divampi. Pochi mesi dopo avvenne la malattia della bambina. Deperiva, consumata da una febbre che il medico non riusciva a vincere. Caterina faceva rare apparizioni nel negozio. Era venuta dal suo paese la zia, chiamata da Pietro per aiutarla nell'assistere la bambina. Il dottore faceva tre visite al giorno: iniezioni la mattina, iniezioni la sera... Niente! E quando Pietro vide uscire dal portoncino di casa la bella cassa rivestita di seta bianca col cadaverino della figlia, si sentì spezzare il cuore, quasi egli avesse visto andar via, per sempre, la felicità della sua casa! Caterina dalla tristezza delle giornate attorno al letto della malatina, dal sonno perduto, dal gran dolore per la morte della creatura che già formava il suo gran orgoglio, " era ridotta uno straccio ", come si espresse la zia. Per ciò Pietro acconsentì volentieri che la zia la conducesse con sé per farla svagare e ristorarla laggiù, nel paese nativo. - In quei tre mesi - c'era stato anche il pretesto della festa di San Cipriano - egli era andato parecchie volte a trovarla per alcune mezze giornate, lasciando affidato il negozio a due garzoni dovuti prendere per servir più lestamente gli avventori. Ma una mattina egli era su la soglia della bottega con le mani dietro la schiena assistendo a la la rissa di due cani che si assalivano a morsi, ringhiando, e pensava anche che tra due giorni sua moglie sarebbe tornata. Gli si avvicinò il farmacista di faccia: lo guardava con curiosità, quasi con stupore. - Bravo! - gli disse. - Così si fa! Siete davvero un uomo.- Perchè? Scusate. - È inutile fingere con me. L'ho saputo ieri sera da uno di quel paese. - Che avete saputo? - Quel che volete darmi a credere d'ignorare. Bravo! Siete davvero un'uomo! Era rimasto di sasso, per alcuni momenti, dopo di aver insistito per strappar di bocca al farmacista la notizia. Poi, incredulo, aveva risposto ironicamente - Tornerà dall'America domani l'altro! Non pianse, non si disperò: solamente si sentì come svaporare dal cuore ogni bontà, ogni dolcezza, ogni gentilezza; si sentì cambiare da così a così, quasi lo avessero scorticato e gli fosse venuta su una pelle nuova affatto diversa. Tanto diversa, che quando qualcuno lo chiamava per nome egli, su le prime dubitava che parlassero con lui, ma con qualche altro che si chiamava Pietro La Rocca, com'egli forse si era chiamato una volta. Era stato uno sconvolgimento terribile, durato parecchi mesi e ch'egli aveva voluto, per dignità, nascondere a tutti. Le persone che gli volevano bene non gli accennavano neppur dalla lontana alla sciagurata che era fuggita con l'amante nell'Argentina; e avevano la delicatezza di non mostrar nessuna intenzione di voler consolarlo. I maligni, gli impertinenti tacquero anche essi, poiché Pietro La Rocca faceva le viste di non capire le domande: - Avete avuto notizie? Non se ne parla più! Era proprio cambiato, da così a così. Chi non aveva provato in altri tempi il suo buon cuore? Non era mai accaduto che qualcuno si fosse rivolto alla sua carità e avesse dovuto andar via con le mani vuote. Anzi, egli soleva ringraziare chi gli dava l'occasione di fare un'opera buona. Perché Domineddio gli faceva prosperare il negozio se non per aiutare i disgraziati? Ed ora, invece, pareva che gli facessero un insulto ogni volta che lo invitavano a partecipare a un atto di carità. Poi, a poco a poco, si sparse la notizia che Pietro la Rocca, di notte tempo, quasi commettesse una cattiva azione, andava a picchiare all'uscio di questo o di quello e lasciava elemosine, soccorsi di ogni sorta, raccomandandosi: - E...... zitto! Altrimenti non riceverete più niente! Infatti egli faceva ogni sforzo per smentire quella voce, rispondeva sgarbatamente a chi si azzardava di chiedergli un piccolo favore, come se il torto della moglie gli fosse stato fatto con la complicità di tutti, e tutti ne fossero responsabili. - Ci son mai venuto da voialtri a importunarvi? O dunque? Lasciatemi in pace! Smaniava, sbuffava, quasi lo facessero soffrire. Ed alla volta che una vecchietta gli rispose: - Che siete diventato? L'omo selvaggio? - il motto fece fortuna e in breve tempo Pietro La Rocca non fu chiamato altrimenti. Sì: omo selvaggio! Per parecchi mesi se ne stette confinato nel retrobottega, fumando, sorvegliando i due garzoni, brontolando contro la loro lentezza o la loro poca destrezza nel servire gli avventori, rispondendo appena ai saluti di questi. Sul tardi, quando la Piazza della Fontana era deserta, egli usciva fuori a far lunghe sgambate davanti a la bottega per muoversi, per prendere aria, col pensiero lontano lontano, a quell'America dove la ingrata, la scellerata era andata a rifugiarsi con l'amante. - Peggio per lei! Peggio per lei! Qualche ritardatario, i carabinieri di ronda non gli si avvicinavano, non lo salutavano neppure fingendo di non riconoscerlo perché sapevano ormai di fargli piacere. Poi egli rientrava, sbarrava la porta e saliva su, strapazzando la vecchia contadina che aveva preso in casa e che si ostinava ad attenderlo in piedi per assistere alla cena di lui, caso mai avesse bisogno di qualcosa. - Non voglio essere atteso! Non ho bisogno di niente! Così passarono i mesi, passarono parecchi anni. Il bel giovane di una volta era diventato irriconoscibile, con quella folta barba che cominciava a brizzolarsi, con quella arruffata capellatura che provava soltanto due volte all'anno il benefico lavoro della forbice del barbiere; trasandato nei vestiti, meno che nella biancheria. Pareva finalmente che l'"omo selvaggio" cominciasse a mansuefarsi, perché non stava più rintanato nel retrobottega, ma prendeva l'abitudine di sedersi, in certe ore della giornata, davanti a la bottega, con le gambe larghe, con la pipa continuamente in bocca, sempre accigliato, muto, con aria scontenta e scontrosa, quasi che il tradimento della moglie fosse avvenuto giorni addietro e lui non potesse nascondere la gran pena che ne provava. Pareva impossibile! Avrebbe dovuto anzi ringraziare Iddio che quella donna se ne fosse andata lontana. Poteva far peggio: tradirlo proprio sotto i suoi occhi, cimentarlo, fargli perdere la ragione, quantunque, se l'avesse ammazzata, non l'avrebbe pagata neppure due soldi. Parlavano così perché nessuno sapeva che cosa bollisse e ribollisse da cinque anni in quella povera testa, in quel povero cuore. Lo seppe soltanto il parroco la sera che lo vide arrivare nella canonica con l'aspetto irritato di chi avrebbe voluto essere lasciato in pace. - Mi ha mandato a chiamare.... In che posso servirla? Era stato ad ascoltarlo con le mani giunte, le braccia tese tra i ginocchi, a testa bassa, socchiudendo di tratto in tratto le palpebre, poi era scattato: - E che pretende lei ora da me, con la misericordia di Dio? Io non sono Dio, ma un misero verme della terra, signor parroco. - Siete un buon cristiano. Riflettete. Dio l'ha tremendamente gastigata, in quel che formava la sua vanità e che l'ha spinta a perdersi: la bellezza. - Avrebbe fatto meglio a impedirle di perdersi! - Non dite stoltezze. Noi non possiamo intendere le vie del Signore. - Parlo da ignorante; mi scusi. - Dopo cinque anni e nello stato in cui si trova, dovreste almeno perdonarle. - Che se ne farà del mio perdono? - Dicono che è ridotta in uno stato orrendo. Il cancro, il terribile cancro, le ha mangiato quasi intera la faccia. Abbandonata dal seduttore è vissuta un anno facendo i più umili uffici. Poi è stata accolta in un ospedale. Ha pregato di essere rimpatriata: le è stato accordato a stento. È arrivata, da tre giorni, al suo paese.... Le avete voluto bene.... allora. - Ah, signor parroco! Ah, signor parroco! Di me nessuno ha avuto pietà.... Mi hanno creduto un vigliacco egoista, perché non son corso dietro a quei due, imbarcandomi immediatamente - mi mancavano forse i mezzi? - per andare ad ammazzarli come due cani. Chiedevo di essere voluto bene, come mi aveva giurato davanti a Dio! Che avrei ottenuto ammazzandola?... E non ho il minimo rimorso, signor parroco! La sua volontà era la mia. Non s'è mai dato il caso che io le abbia detto: Questo no! Ed è stato forse il mio torto! - Non vi pentite di essere stato buono! - Cinque anni! Notte e giorno! Come se fosse rimasta sempre quella davanti a me, bella sorridente, allegra, con la parola pronta, vivace.... E dovevo cacciarla via dicendole la parola più brutale.... per poter chiudere gli occhi al sonno, stanca, sfinito, quasi avessi fatto un opprimente lavoro col pensare a lei tutta la giornata e parte della nottata! Nè il sonno era riposo, ma sogno agitato. Notte per notte la povera mamma: - Te lo dicevo? Te lo dicevo? - Perché non mi lascia in pace neppure mia madre?... Ed ora lei viene a raccontarmi.... Io non so più perché campo: odio me, odio gli altri!... Il cancro se la rode viva viva? Felice lei! Ne avrà per poco. - Deve morire disperata? Almeno isolarla in una casetta, darle una di quelle infermiere che sono sostenute nel loro ufficio dall'alto sentimento religioso nella cura delle malattie più repugnanti; rendere meno penosi questi ultimi mesi di vita, perché mi è stato scritto che il male è rapidamente inesorabile. Pure bisogna fare quel che si può.... Ma, prima di tutto, perdonare. - Mi chiamano:l'" omo selvaggio". Non voglio smentirli! Pietro La Rocca si era lasciato ricadere di peso su la seggiola da cui si era rizzato cominciando a sfogarsi: Ah, signor parroco! Era pallido come un morto, curvo e si torceva le mani mentre cominciavano a sgorgargli dagli occhi due rivoletti di lacrime che s'infiltravano tra i peli dell'ispida barba, senza ch'egli facesse niente per arrestarle o un gesto per asciugarle. - Siate forte!... Lasciatevi vincere dal vostro gran buon cuore. Voi soffrite pel divieto che v'imponete di non fare il bene.... Volete che vi aiuti?... Volete? - No! E mentre egli, scattato in piedi, tentava di ricomporsi, di far sparire dal viso le traccie delle lacrime, il parroco gli diceva: - Ricorrerò alla carità dei benefattori che non si rifiutano di aiutare il prossimo, qualunque esso sia. Dirò: per la moglie di Pietro La Rocca! - La moglie di Pietro La Rocca - egli rispose, parlando come un trasognato - non ha bisogno della carità di nessuno!... Ha la sua casa... ha una stanza, un letto dove potrà morire in pace.... - E il vostro perdono, sopratutto. - Di notte. Non deve vederla nessuno. La riceverà lei. Venga accompagnata dalla suora infermiera: c'è una cameretta anche per essa.... La malata aveva pregato insistentemente ch'egli non cercasse di vederla. - Vi farebbe molto male - gli aveva detto la suora. - Farebbe male pure alla disgraziata. Sembra che il cancro abbia furore di divorarsela presto. Pietro La Rocca non dovette fare molti sforzi per non cedere alla triste curiosità di vedere come la sua Caterina era ridotta. Voleva conservarsi intatta nella memoria la bella, fresca figura di lei, quale gli era rimasta cinque anni in fondo al cuore, incessantemente adorata e maledetta, più adorata che maledetta, e senza che qualcuno lo avesse mai sospettato. La pianse morta, la fece seppellire come se non fosse stata moglie infedele. Per alcuni mesi mandò fiori a quella tomba su la lapide della quale aveva fatto incidere soltanto il nome di lei da ragazza, e poi.... Egli credette che fosse stato un miracolo operato dalla sua mamma. La sognò per l'ultima volta, quasi fosse venuta a dirgli addio!... E poi, lentamente, una gran pace discendeva a invaderlo: il passato sembrava allontanarsi, allontanarsi, dileguare nell'ombra; ed egli si lasciava vivere alla giornata; in apparenza, ancora "omo selvaggio", domandandosi ad intervalli: - Perché campo? Perché campo?

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- Se io dovessi tradire mio marito, la prima cosa che farei sarebbe di abbandonare la sua casa. - Ah! Che grande felicità! - Non si lusinghi! Questo non avverrà mai. Io mi sento mortificatissima della sua insistenza. Come devo farglielo intendere? Dovrei strapparmi il cuore per dimenticarla!... Si sentì il rumore dei passi di Rosselli e del marito che venivano anch'essi nella terrazza. - Ve lo immaginate - disse la signora Tonghi, ridendo - un Collini... poeta? Pare che sia un po' turco; gli piace più la mezza luna che non la luna piena. - L'ho sempre detto che Collini è imbecille! esclamò il signor Tonghi. - Non te l'avere a male, caro mio! - Hai ragione - rispose Collini, aggrottando le sopracciglia. E buttò via la sigaretta che gli si era spenta tra le dita. Due volte al mese, Tonghi invitava a desinare i due amici Collini e Rosselli che, per l'identica ragione, si mostravano condiscendenti alle stranezze di lui; con la sola differenza che Collini era l'inmamorato respinto della signora Tonghi, mentre Rosselli godeva tutte le grazie di essa, senza che nessuno mai avesse avuto il minimo sospetto della loro intimissima relazione. Avevano adottato un modus vivendi da ingannare chiunque. La signora Gina non pronunciava il nome di Rosselli senza aggiungervi: Quell'antipatico di!... o pure: Quell'opprimente di!... E Rosselli, parlando di lei con Collini e con altri amici, diceva spesso: Quella leziosa, o quella pretenzionosa della Tonghi! E non aggiungeva mai: signora, quasi fosse di troppo. Così era accaduto che Collini aveva spesso creduto suo dovere di prendere la difesa di lei. - Leziosa? Ma se è di una semplicità straordinaria! - Voluta, ricercata; per questo mi dà ai nervi. E poi, quell'aria di rassegnata, di vittima!... Oh! certamente Tonghi con le sue manìe, con le sue meticolosità di ordine e di pulizia, non è tale da render felice una donna; ma, d'altra parte, vedersi davanti, da mattina a sera, quel viso da funerale deve essere così nell'intimità; - noi vediamo la rappresentazione, la parata - è cosa da far perdere la pazienza anche a un santo. - Viso da funerale? Io non ho visto un viso più sorridente, più lieto! - Sorridente con quella specie di ghigno che le contrae le labbra? - Vuoi dire che i nostri occhi vedono diversamente. Sei invidiabile. Per me, invece... E Collini, una sera, uscendo di casa Tonghi dopo il solito desinare, credendo di confidarsi con uno che non avrebbe mai potuto essere un rivale, gli aveva rivelato le sue pene di cuore. - Povero Collini! Ti compiango. Quella donna è un pezzo di ghiaccio. - Spero di scioglierlo, un giorno o l'altro.... - Amor che a nullo amato amar perdona! Cose che si dicono in versi, perché in prosa, con rispetto di Dante, farebbero ridere i polli. Lascia andare. Mancano belle e compiacenti donne in questo mondo? E poi, te lo avverto, Tonghi non è un marito comodo. - Mi ammazzerebbe? - Ammazzerebbe pure lei anche pel solo sospetto. - Lei, no! Lei, no! Si vedeva che Collini era innamorato davvero, se protestava a quel modo, quasi ci fosse proprio pericolo che il geloso marito arrivasse a quell'estremo. Se avesse saputo come ridevano di lui quelli amanti, nella cameretta fuori mano, dove si rifugiavano due volte la settimana! Ridevano, ma spesso non erano tranquilli, specialmente lei. Aveva tristi presentimenti, senza saper spiegarsene la ragione. - Ho dovuto fingere un forte malessere, consultare il nostro dottore... Sembra ripreso da un impeto di brutale passione... Cosa insolita. Ho dovuto quasi lottare per resistergli... Oh, tu non puoi immaginare come mi ripugni di essere sua! Egli diventava pallido, si stirava le mani, minacciante. - Sua, mai più! Mai più! La serrava fortemente tra le braccia, la copriva di baci, quasi per difenderla. Lei gli si abbandonava sul petto, singhiozzante: - Ha parlato anche di un viaggio in Svizzera! - Ah, se tu volessi! - Uno scandalo, no! Per mia madre. Ne morrebbe! - E forse il nostro amore perderebbe la sua più grande attrattiva, uscendo dal mistero che ora lo circonda! - Non dire così. Anche al cospetto del cielo e della terra.... Soltanto per mia madre! - Perché vuole condurti via? È impossibile che io viva, anche per qualche mese, lontano da te. - Resisterò... Mi ammalerò... più gravemente. E così dicendo sorrideva. Allora, a poco a poco, il cielo delle loro anime si schiariva, assumeva una limpidezza raggiante di sole; e tutti e due dimenticavano il mondo, come se quella camera, quell'appartamentino (a cui si accedeva da due vie e sembrava fatto a posta per eludere i sospetti della gente) rimanesse così lontano lontano da dar l'illusione che essi fossero i soli esseri viventi in un'isola, in un continente, in un pianeta sperduto nello spazio. E quando la piccola soneria dell'orologio, mezzo soffocata da un panno per attutirne lo squillo, li destava dal dolcissimo sogno, ella spesso ripeteva: - Sì, sì, basta! Si può morire di felicità! - Sarebbe il più bel morire! - rispondeva Rosselli. - Vivere dobbiamo. Per morire c'è sempre tempo! E lei gli faceva un inchino: - Addio... antipatico! Addio... opprimente! - Addio.... leziosa! Addio.... pretenzionosa! Si staccavano a stento. Era stato un colpo improvviso, e le loro due giovinezze si eran esaltate sempre più in quel mistero che le circondava. Ella gli aveva detto parecchie volte: - Non ho rimorsi. L'ho sposato per amore, ed egli ha fatto di tutto per stancarmi, per allontanarmi da sé. Non credo ci sia mai stato al mondo, o che ci sia, un tiranno peggiore di lui; tiranno delle piccole cose, dalle inutili manìe, dalle continue, irritanti esigenze che ti tolgono il respiro. Sin dalle prime settimane. Non posso ricordare senza fremere il nostro viaggio di nozze: venti giorni!.... un'eternità! Continuamente: - Ma Gina! Ma Gina! - quasi lo spostare un oggetto, il trascurare di riporne uno dove, secondo lui, era indispensabile riporlo... Da principio ridevo, rimettevo l'oggetto al suo posto, eseguivo allegramente la manovra da lui voluta.... Ma che? Dovevo ridurmi un meccanismo pronto ai suoi stupidi voleri? Mi sentii chiudere il cuore. Una irritazione sorda; poi odio a dirittura! Andavo a piangere in casa di mia madre. La cara e buona mamma non sapeva dirmi altro: - Fa la volontà di Dio! - Era Dio forse lui? Dio sei stato tu, tu la luce, l'amore, la vita! Ah, se non fosse per la mamma.... Non ho rimorsi. Sono orgogliosa di quel che faccio. Se occorresse, glielo griderei in viso! Lui tentava di rabbonirla, d'impedirle di commettere un'imprudenza, nei giorni in cui ella arrivava nel loro rifugio più irritata del solito. Ormai aveva voluto staccarsi completamente dal marito; non sapeva più vincere la ripugnanza ch'egli le ispirava. E in questo Rosselli era d'accordo con lei: tremava al solo pensiero di saperla alla mercé della violenza di colui che l'aveva in potestà sua, protetto dalle leggi umana e divina. La vera legge umana era il loro amore; la vera legge divina il loro amore, sempre, il loro amore! Non era anche troppo sacrificio il mentire davanti a lui, davanti alla società? Non era un miracolo di amore il non essersi mai traditi un solo istante? Per un nonnulla, al suo solito, Tonghi aveva fatto una gran scenata con la moglie. Essa, già pronta per andar fuori, non aveva risposto una sola parola, terminando di aggiustarsi la veletta davanti allo specchio, quasi suo marito non parlasse con lei. Egli aveva interpretato quel silenzio a modo suo, come un'acquiescenza alla sua sfuriata, abituato a credere di aver sempre ragione. Si era accorto da un pezzo, che qualcosa era venuto meno tra loro, ma pensava che, pur troppo, doveva esser così nel matrimonio. Non gli passava pel capo che fosse colpa del suo strambo carattere se quel qualcosa era avvenuto. Sofisticava intorno a tutto, riteneva che, per esempio, il lasciare un volume su una seggiola invece che sul tavolino dov'egli l'aveva posato, o nello scaffale dov'era stato collocato, fosse una storditezza imperdonabile da scompigliare tutto l'ordine della casa; non sapeva persuadersi che con l'interminabile trovar da ridire su ogni piccola cosa, con l'esagerazione degli sfoghi, che diventavano spesso escandescenze, egli era l'artefice della sua e dell'altrui infelicità; no, non gli passava pel capo. Fortunatamente il suo orgoglio non gli permetteva di dubitare che sua moglie potesse tentar di cercare altrove quelle dolcezze, quella tranquillità che ormai non trovava più in famiglia. - Va a dir male di me da sua madre! Il suo più nero sospetto era questo. Perciò accolse con un scettico sorriso la rivelazione di Collini che quella mattina, a bruciapelo, venne a dirgli: - Tua moglie ha un amante! Collini si era lasciato cascare su una seggiola, quasi lo sforzo per quest'accusa avesse esaurito le sue forze. - Che interesse hai tu di farmi tale rivelazione?... - disse Tonghi. E soggiunse sùbito: - Di calunniare mia moglie? - Sono un miserabile! - esclamò Collini. - Che interesse? La ho amata inutilmente un anno, più. Credevo che mi resistesse per dignità di donna onesta. Ma ora che ho scoperto.... Nè io, nè lui!... - Se tu mentisci!... E Tonghi gli si slanciò addosso, mettendogli le mani alla gola. - Nè io, nè lui! - replicò Collini. - So che commetto un'infamia..... - Chi, lui ? - Rosselli! È stato un caso... Potrai sorprenderli quando vorrai. - Se tu mentisci!... Va' via! Sei un gran vigliacco; mi fai schifo. Non comparirmi più dinanzi. E non ti sfugga con altri una sola sillaba di quel che sei venuto a dirmi. Al mio onore penserò io, provvederò io. Va' via! Collini, atterrito, si era mosso per uscire; ma Egidio Tonghi lo fermò per un braccio. - Prima, dimmi tutto! Gli era parso che un profondo abisso gli si fosse spalancato davanti e ch'egli stesse per precipitarvi. Che fare? Sorprenderli? Ucciderli?... Andar in carcere per loro? Si aggirava in casa come una belva nella sua gabbia di ferro, pensando che in quel momento essi erano là, nel loro nido, felici, senza sospetto!... Si fermò tutt'a un tratto davanti a una stampa che rappresentava il Santuario dell'Immacolata in cima alla rupe di Raceno. Un'idea diabolica gli balenò nel cervello, e rimase assorto, quasi vedesse già compiuto quello che fantasticava da un'ora. Per questo potè dominarsi vedendo rientrare con qualche ritardo sua moglie. - La mamma sta poco bene - ella disse, per scusarsi. - Niente di grave, spero. - Oh! Niente di grave. Il vecchio frate, custode del Santuario, li aveva ammoniti: - Non s'inoltrino troppo avanti da quella parte. L'altezza dà la vertigine. - Non siamo bambini - aveva risposto Egidio Tonghi. Pochi scalini e poi una piccola spianata semicircolare, senza nessun riparo, aperta sul gran vuoto della ristretta vallata dove la roccia scendeva a picco. - Avremmo dovuto far colazione qui - disse la signora Gina - invece che nel refettorio dell'eremo. S'inoltrava cautamente, dopo aver preso il braccio di Rosselli. - Sarà buono a trattenermi se mi prenderà la vertigine? - Le verrò dietro, in ogni caso. - Oh! Così cavalleresco! Era felice di poter passare una giornata intera assieme con lui, sotto gli occhi del marito. Tonghi, risalito gli scalini, aveva tirato fuori della tasca la rivoltella, e con gli occhi quasi fuori dell'orbita, iniettati di sangue, con voce roca, imperiosa, gridò alla moglie e all'amico: - Buttatevi giù! Vi ho condotti qui a posta.... Buttatevi, o vi ammazzo! I due amanti improvvisamente impalliditi, capirono che non si trattava di uno scherzo di cattivo genere, di una minaccia da burla, e si voltarono stringendosi l'uno all'altro. - Buttatevi!.... O vi ammazzo!... Il turpe inganno è finito! - Inganno? - Zitta! - Inganno? - riprese la signora Gina non dando retta a Rosselli che le stringeva forte il braccio. - Ma è stato unicamente.... - Zitta! Zitta! - ....per mia madre.... Si, ci butteremo giù, felici di morire insieme, al tuo cospetto, in un abbraccio e in un bacio supremo!... - Sputandoti in viso il nostro odio, il nostro disprezzo! - soggiunse Rosselli. Non c'era via di scampo; si sentivano presi; qualunque loro movimento in quel ristrettissimo spazio voleva dire la morte. E colui, brandendo l'arma, minacciava, ripetendo: - Buttatevi! Buttatevi! Senonchè la sua voce più non era imperiosa, sicura. Di fronte a quel deciso contegno, davanti a quell'altera proclamazione del loro amore e alla gioia di morire insieme si sentiva sfuggire la piena soddisfazione della vendetta: e quando li vide avvinghiarsi in un abbraccio e incollare in un violento bacio le loro labbra, chiudendo gli occhi, indietreggiando, indietreggiando lentamente, quasi per assaporare in quel modo la dolcezza della morte imminente, Egidio Tonghi buttò via la rivoltella e, senza sapere quel che facesse, emise un rauco grido: - No! No! Fermatevi! Troppo tardi! Il vecchio frate, vistolo ricomparire solo, domandò: - E gli altri due? - Sono scesi giù; risaliranno dall'altra parte. Li attendo qui. E si sedè sul banco di pietra davanti a la chiesetta, borbottando: - Han fatto il salto.... Io non volevo.... Risaliranno dall'altra parte... Li attendo qui! Egidio Tonghi era impazzito.

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Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Io vi evoco in nome ... del Diavolo: "Spiriti erranti, che non potete abbandonare il posto dove siete morti ... In nome del Diavolo!". Ah! Ah! Ah! Si fa così ... O ci vuole per forza il tavolino? C'è la tavola qui pronta e c'è il vino ... e anche l'aceto che il cugino ha manipolato ... Cugino mio, questa volta, aceto da peperoni! ... Aceto Ràbbato! ... » Il notaio Mazza e gli altri volevano turargli la bocca, condurlo di là. «Buona persona il cavaliere, ma un dito di vino di più lo mette subito in allegria ... » Il notaio tentava di attenuare la brutta impressione di quella scena, vedendo il viso scuro del marchese che scrollava le spalle e voleva far le viste di non dare importanza alle parole del cugino. Il quale, mentre don Aquilante, appoggiati i gomiti su la tavola, con la testa fra le mani e gli occhi socchiusi non gli dava ascolto, seguitava a ripetere: «Si fa così? Si fa così, gran mago? Evocate compare Santi Dimauro! ... Evocate Rocco Criscione! ... Devono essere in queste vicinanze ... Spiriti erranti! ... O voi siete un mago impostore!». Il marchese, impallidito, gridò forte: «Cugino!». E quel grido di rimprovero parve che tutt'a un tratto gli snebbiasse il cervello; il cavaliere tacque sorridendo stupidamente. Don Fiorenzo, dall'altra punta della tavola, urlava intanto: «Chi non è ubriaco risponda: Pietro ama la virtù! Qual è il soggetto della proposizione?».

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

Racconti 3

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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E un bel giorno si risolse di abbandonare il paese, di andar a dimenticare altrove, lontano, in qualche cura di villaggio colei che non gli lasciava aver pace, mandandogli a baciare le mani col ciabattino sagrestano. Il vicario capitolare lo vide ricomparire con spavento ogni mattina: - Monsignore non ha risposto? - Non ha risposto! E la sorella del vicario era tornata a brontolare: - Almeno si ripulisse le scarpacce prima di entrare! - Vedendo che monsignore non provvedeva, andò a fissarsi a Caltagirone, nella lurida stanzuccia di un luridissimo albergo; e ogni mattina, a ora fissa, si presentava nell'anticamera del palazzo vescovile, per l'udienza. - Monsignore deve farmi la grazia! - Ma non c'è un posto vuoto! - Da coadiutore; mi contento! Monsignore è stato ingannato; deve riparare l'ingiustizia che gli hanno fatta commettere! - Non posso fare ammazzare un curato per dare il posto a voi, figliuolo mio! - Monsignore deve farmi la grazia! - Un mese di supplizio per monsignore. Fatalità! La mattina che don Lucio Bucceri arrivava nel villaggio sperduto su le falde dell'Etna per insediarsi nella cura, si trovava colà un carrettiere del suo paese. - Ah ... - esclamò costui - monsignore vi ha regalato il «Braccaccio»? - E anche colà i nuovi parrocchiani dovettero presto convenire che il soprannome era ben trovato!

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Torniamo nella prima stanza, ma prima di abbandonare questa locanda ficchiamo lo sguardo nella stamberga a mano destra. Anche qui buio e fetore. È un sottoscala e vi stanno tre uomini, due dormono sopra una coperta di lana ed uno sulla nuda terra. Accendiamo un fiammifero e vediamo che uno tiene appoggiata la testa sull' avambraccio, fa coll'altra mano visiera agli occhi e sogguarda. Viene interrogato e risponde essere un facchino che viene dalla Valtellina e va a Genova. Il vicino si desta anch'esso, viene interrogato, è un suonatore d'organetto; è di Magadino e va a Corno. Non si conoscono, nè conoscono il loro terzo camerata che è un fruttivendolo di Monluè. Torniamo a scavalcare il saccone, eccoci nel cortile illuminato dal più bel chiarore di luna, che mai possa desiderare un poeta arcadico.. Ripassiamo l'andito, usciamo dallo sportello, eccoci in via Arena, tranquilla, silente, illuminata direi quasi gaiamente dalla luna. Respiro tre o quattro volle a pieni polmoni, mi pare di rivivere, la mia guida cortese mi domanda: - Che le pare? - Non lo avrei creduto, se quanto vidi me lo avesse narrato chiunque, fosse pure la persona più rispettabile del mondo. - Che lezzo, che schifo, che sudiciume! - Ebbene, pensi che queste locande erano assai peggiori negli anni andati. - È impossibile imaginarsi di peggio. Anzi, ripensandoci, mi pare d'aver detto una ridicolaggine marchiana, quando manifestai l'idea di passare la notte in una di codeste locande, nel caso non avessi potuto trovare altro mezzo per poterla visitare. - Creda che questa poveraglia sta di gran lunga meglio in prigione. Questo è appunto ciò che mi riserbo di vedere. Haec olim. . . otto anni or sono. Vediamo ora alcune delle locande più famose oggi esistenti. Siccome tutto muta in questo maledetto mondo sublunare dovevano quindi mutare anche le locande di Milano. Ed invero di qualche poco hanno mutato. Le mie notizie sono recentissime. Eccone la data: 27 e 29 giugno 1882. Nè le mie notizie potranno essere da alcuno smentite. Quanto narro , io stesso ho potuto vedere, grazie alla cortesia delle autorità di pubblica sicurezza. I 96 locandieri del 1874 hanno disseminato degli allievi ed oggi 153 sono gli affittaletti con licenza debitamente iscritti sui registri della questura. La locanda mantiene abbondantemente molti insetti parassiti, pulci, cimici, pidocchi, blatte, e .... i locandieri. Questi sono miserabili che trovano modo di vivere della miseria altrui. Non descriverò locanda per locanda, perchè mi vincerebbe lo schifo; non citerò i nomi degli affittaletti e i numeri delle loro locande, perchè mi parrebbe di commettere una mala azione, le mie accuse saranno generiche, ma perchè vere, dovranno indurre l'autorità a prendere in proposito qualche provvedimento. In questi giorni, o per parlare più esattamente in queste notti, ho rivisitate alcune locande da me già studiate nel 1874 e ne ho vedute parecchie di nuove. I campi delle mie esplorazioni furono il Corso Garibaldi, la Via Anfiteatro, la Via Vetraschi, la Via Pioppette, la Via Fabbri, la Via Vittoria, la Via Scaldasole, la Via Arena. Locande orribili! Scene nauseanti In una locanda di Via Anfiteatro non abbiamo potuto penetrare pel contegno ostile del proprietario. Ma da esatte informazioni da noi raccolte, possiamo dire che in quella notte, che noi volevamo visitare quella locanda, essa era piena di prostitute e di pregiudicati, pei quali il proprietario ha dei delicatissimi riguardi. Il cancello che chiude l'imboccatura della scala, la quale conduce ai piani superiori dà una curiosa caratteristica di prigione a quella locanda. E il fetore delle latrine e del mondezzaio si fa sentire con tanta prepotenza anche da chi si ferma soltanto nel cortile, che si può dire essere questa locanda una succursale della ditta Colera-morbus e compagni Ed ora tiriamo di lungo. Nelle locande ho dovuto notare un miglioramento. In nessuna di quelle da me or ora visitate si dorme o sulla paglia o sopra un saccone posto sul suolo. I pagliericci sono tutti collocati sopra lettucci o sopra cavalletti, il che non era ancora nel 1874. Si è quindi progredito ma piuttosto nella apparenza che nella realtà. E per vero dire mancano di finestre moltissime stanze e in ciascuna d'esse vi sono troppi letti e vi dorme un numero soverchio di persone, cosicchè queste non hanno aria respirabile sufficiente. Un fetore orribile è dovunque. Raramente si trovano letti forniti di lenzuoli,e dove questi vi sono, sembrano cotti in broda di fagiuoli, come quelli di cui parla il Berni nel Capitolo al Fracastoro. Dormono due o più persone in un letto, e promiscuamente abbiamo veduto ancora dormire uomini e donne; anzi in una locanda in Via Fabbri abbiamo trovato un uomo, che giaceva in compagnia di due donne. A cagione del caldo soffocante tutti dormono nudi, sicchè entrando in uno di questi covili con un lume acceso, si vedono risvegliarsi e muoversi lentamente e quasi inconsapevolmente e quella confusione di membra contorcentisi ne dà l'imagine di un gigantesco lombricaio. In Via Scaldasole abbiamo trovato cinque uomini coricati in un piccolo andito dal soffitto inclinato e rivelante l'ossatura delle travi reggenti il tetto. Un uomo non vi può stare in piedi ritto, e bisogna cammini curvo per non dar di capo nelle travi. V'era una finestretta sola ed era aperta, ma l'aria vi portava dentro l'ammorbante puzzo di una latrina e di un magazzino di galline e di capponi. Quella casa appartiene ad un pollivendolo, il quale ha certo più cura della salute de' suoi polli che non di quella de'suoi inquilini. In una locanda in Via Pioppette da' miei compagni di escursione furono riconosciuti tra gli alloggiati ben nove tra ammoniti e sorvegliati. Ora se tre bastano a comporre ciò che in gergo legale si chiama un'Associazione di malfattori, quivi c'era triplicata e coloro, che la miseria e il bisogno di riposo involontariamente aveva associati, erano della specie più pericolosa. Ma dormivano, ed un vecchio proverbio dice: Chi dorme non pecca. Tralasciamo di descrivere le scene poco edificanti, sulle quali c'è caduto lo sguardo in queste nostre visite. Non scriviamo a provocare la corruzione, ma ad eccitare in chi può e in chi deve il desiderio e la volontà di porre rimedio a questi orrori. I quali non sono del resto più deplorevoli di quelli che riscontransi in tutte le grandi città e che anche noi abbiamo avuto occasione di vedere in Parigi. Ma siccome parlando della capitale della Francia, della capitale del mondo, si potrebbe credere, che uno stolto chauvinisme ci inducesse a sparlarne, così a dare valore al nostro dire ci gioveremo dell'autorità di uomini, che hanno parlato per vero dire, non per odio d'altrui nè per disprezzo

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Ho chiesto a Dio di poter abbandonare il mondo, e mi hanno risposto che il dovere era di restarci. Ebbene, che cosa ho guadagnato dal mio sacrificar tutto, vocazione, simpatie e fin la mia creatura? e chi ha guadagnato almeno per conto mio? nessuno. Io non ho cambiato nulla, non ho migliorato nulla, il fango è rimasto fango, anzi il fango è cresciuto intorno a me e invece d'amore, vedi, non ho raccolto che oltraggi, odio, tradimento. No, Maria, no: non ne posso più. Non ho più forza per resistere all'onda di questi mali. Se finora ho vissuto inutilmente per gli altri, è tempo ch'io cominci a vivere non inutilmente per me, perché" (e Arabella nel dir queste parole alzò il capo con qualche fierezza) "con questo veleno nel cuore io non posso piacere a Dio e non è con questa disperazione, che mi soffoca anima e respiro, ch'io potrò meritarmi il suo perdono. Se io resto ancora un giorno nella compagnia di questa gente, la disperazione, Maria, potrebbe montare dal cuore alla testa e allora c'è la pazzia, mia cara, c'è qualche cosa di peggio..." La figlia del povero Cesarino Pianelli si attaccò con una forza nervosa al braccio dell'amica, come per sostenersi contro un pericolo nei dibattiti convulsi del suo dolore. Chinò la testa: da accesa divenne di nuovo pallidissima e mormorò come se parlasse a se stessa: "Non ho mai compatito tanto il mio povero papà come in questi giorni..." "O Madonna, tu le perdona perché non sa quel che dice" interruppe vivamente la buona e devota Maria, coprendo colle braccia il bambino, perché non sentisse le brutte parole. "Provassi! ci son dei momenti in cui pare così necessario e così bello il morire..." "Tu sei malata, la mia figliuola" gridò la povera Maria: "tu non pensi, tu non le senti le cose che dici. Scriverò subito a mia sorella, se ciò può farti un po' di bene." "Dille che son disposta a tutto: a far scuola, a servire malati, a rattoppare dei cenci, a tutto, purché sia in un luogo dove possa dimenticare quella che sono stata." "Io farò quello che vuoi, ma promettimi che non dirai più cose spaventose. Tu mi hai fatto piangere anche Napo... Non piangere così, Napo..." prese a cantarellare al bimbo che strillava per conto suo "non ha detto sul serio la zia Arabella. Adesso l'hanno fatta soffrire ed è molto malata. Quando diverrai grande capirai anche tu, Napo, che cosa voglia dire soffrire. Anche tu ti troverai in mezzo a un mondo di tormentatori e di tormentati, ma non ti piacerà far piangere la gente, vero, Napo?" Sentendo che essa stessa non sapeva più resistere alla commozione, la buona Maria si portò il suo bimbo alla bocca, in atto di divorarlo, e soffocò i singhiozzi, asciugando alle carni molli le grosse lagrime, ripetendo la cantilena dell' Ara, bell'Ara , mentre Arabella stringevasi e contorcevasi come una foglia secca nel gelo della sua tristezza. "Promettimi che non farai piangere nessuno" seguitò la mamma cullando il bambino stretto sulla faccia "e se gli altri faranno piangere te, vieni sempre dalla tua mamma, ve', Napo: io ti beverò le lagrime, io mi piglierò i tuoi dolori, ma non maledire mai il giorno in cui ti ho messo al mondo, la mia creatura; non far questo torto alla povera tua mamma, che t'ha messo al mondo con tanti dolori e con tanta gioia. Tu non hai sentito quel che ha detto la zia Ara: non credere alle sue parole. Essa è troppo buona e troppo intelligente per ammettere che i cattivi all'ultimo abbiano a vincerla sui buoni. Essa non vede che il male in questo momento, e non ricorda tutto il bene che ha ricevuto nella sua vita e quel tesoro di beni che la facevano a scuola un modello di virtù, di buon esempio, di talento, di grazia, il tesorino delle maestre, la delizia delle sue compagne. Essa non ricorda il bene che ha ricevuto dal suo benefattore e il bene che gli ha fatto, salvandolo dalla rovina e dalla disperazione. Essa non fa nessun conto del bene che le vogliamo noi, io e te, Napo, per esempio, e parla di voler morire, così, come se non le importasse nulla di chi le vuol bene..." Arabella cadde in ginocchio e si appoggiò all'amica per chiederle perdono: ma non poté pronunciare una parola. I suoi occhi non davan lagrime e portavano dentro una forte risoluzione. Essa chiedeva perdono all'amica, ma lasciava capire che avrebbe combattuto per la difesa della sua dignità. L'uscio in quel momento si aprì e dietro alla ragazza di servizio comparve la Colomba. Questa alla sua volta, volgendosi, fece l'atto di presentare qualcuno che le teneva dietro dicendo: "Guardi chi ho condotto con me." E subito dopo, Arabella vide entrare la sua mamma. Il signor Tognino aveva mandato a pigliarla fin dalle prime ore della mattina. In casa Maccagno essa s'era incontrata colla Colomba, che veniva a implorare misericordia per il Berretta, per Ferruccio, per sé, per i vivi e per i morti. Questa poté dire ove si trovava Arabella, e si offrì di accompagnarla. Arabella le andò incontro con un sorriso addoloratissimo, e stringendole le mani nelle mani, con uno stiramento convulso dei muscoli, non seppe balbettare che il nome di... mamma. Mamma Beatrice, ansante per le scale fatte in fretta e per l'emozione, si lasciò cadere sul divano, e facendo sedere la figliuola, aspettò che questa parlasse per la prima. La Colomba e Maria sedettero sulle poltroncine davanti. Nessuna osava rompere il silenzio e tutte avevan gli occhi su Arabella. Parevano donne convenute nella casa d'un morto a piangere. Fu la Colomba la prima a rompere il silenzio. Raccontò la sua meraviglia, quando s'era vista comparire la sora Arabella in casa con un tempo disperato: raccontò la visita fatta al sor Tognino e come costui l'avesse ricevuta bene, e avesse dichiarato di esser disposto a ritirare la denuncia contro il Berretta, purché Arabella tornasse a casa e si perdonasse un poco da tutte le parti. Così stando le cose, alla Colomba non pareva il caso per il momento di irritare il sor Tognino, considerando che c'erano in lui delle buone disposizioni, e per conto suo veniva a pregare la buona sora Arabella ad aver dell'indulgenza anche lei per riguardo a un povero vecchio, che marciva in una prigione, per pietà di un povero giovine malato. Non c'era tempo da perdere: si fa presto a morire. La sora Arabella aveva visto in che stato giaceva il figliuolo: orbene essa aveva già dato a Ferruccio delle lusinghe, gli aveva detto cioè che il sor Tognino non avrebbe insistito più nel processo. Ma se il sor Tognino si metteva a giocare di puntiglio, chi salvava da una catastrofe? "Nessuno più di me sa capire e compatire" seguitò la buona donna coll'eloquenza che vien dal cuore e dal proprio interesse "ma se questo primo passo verso la conciliazione può portar subito del bene, io non vedo perché dal bene abbia in seguito a derivare del male. I conti si aggiusteranno strada facendo; ma intanto il sor Tognino ha detto: ' Arabella torni a casa e farò quel che vorrà; ma prima torni a casa '. Io parlo, cara la mia creatura, per la vita e per l'anima della mia gente: la sua mamma le dirà il resto." "E il resto è molto semplice ed esplicito" soggiunse mamma Beatrice con un tono fra l'accorato e il sostenuto. "Tuo suocero non ti dà torto, ma disapprova il modo con cui hai creduto di ottenere ragione per forza. Egli è nemico degli scandali e delle pubblicità e pare che quella donna che tu hai offeso..." "Io?..." scoppiò a dire con una risata ironica Arabella. "Abbi pazienza, tu potrai aver cento ragioni, ma non ti deve piacere di mettere i tuoi dolori in piazza. Il sor Tognino è disgustato appunto per la scenata di ieri sera, che servirà ai suoi nemici per muovergli guerra. Vedrai, ne parleranno anche i giornali... Oh! a te non te ne importa; ma devi pure ricordare che il sor Tognino ha fatto del bene alla tua famiglia." "Sì?..." interrogò con una punta di canzonatura Arabella. "Sì, sì, ne ha fatto del bene, a tuo padre e a tua madre. Ad ogni modo è uomo che, disgustato oggi, potrebbe domani rifarsi del bene che ha fatto, e allora? credi che papà Botta non deva tutto a lui, se oggi non è con cinque figliuoli sopra una strada? tu non guardi che alla tua passione, al tuo interesse e dal giorno che ti sei maritata hai sempre affettata una specie d'indifferenza per la tua famiglia. Ma se ti fossi occupata di leggere anche negli interessi di casa, avresti visto che papà Botta oggi sta in piedi solamente perché il sor Tognino lo sorregge col suo credito: e che se domani si dovesse venire a una liquidazione, non è certo il sor Tognino che deve del denaro a tuo padre e a tua madre. È subito detta una divisione! ma una divisione coniugale oggi vuol dire una liquidazione di conti. Oh il sor Tognino su questo punto stamattina mi ha parlato chiaro. O Arabella torna in casa e si rimette alla nostra discrezione o io non conosco più casa Botta. Grazie del complimento! Ciò vuol dire in poche parole una rovina peggiore della prima. Ora io non so se i tuoi diritti, se il tuo vantaggio, se il tuo puntiglio valgono proprio la disperazione di una famiglia, e se potrai essere contenta il giorno che per odio a quella donnaccia saprai d'aver messo su una strada il tuo benefattore e la tua povera mamma..." Mamma Beatrice si portò il fazzoletto agli occhi. Arabella fece un gesto colle mani per togliersi dagli occhi un velo di nebbia, che le nascondeva la vista delle cose. "Creda pure, cara figliuola," entrò ancora a dire la Colomba, ribadendo il chiodo caldo, "creda pure che il diavolo visto da vicino è meno brutto di quel che dicono. Lei è giovine e fa bene ad avere della poesia e anch'io, sa, ne' suoi panni, avrei menato non una, ma tutte e due le mani. Ma creda a me che son la più vecchia. Negli uomini non è sempre questione di cuore. Si sa, anche nostro Signore ha detto che la carne è fragile e un giovinotto non può tutt'a un tratto farsi eremita. L'esempio gli sarà servito, ma a tirar troppo si rompe la corda, mentre l'esperienza insegna che piglia più mosche una goccia di miele che un barile d'aceto. Io non so se mi spiego, ma vorrei dire insomma che in queste cose non bisogna dar troppa importanza alle prime impressioni. Io ho visto in cento altre occasioni dei mariti senza conclusione stufarsi sinceramente, tornare alla famiglia, diventare mariti modello, padri di famiglia eccellenti, tutto per merito di una brava donnina, che aveva saputo perdonare a tempo. Questo in tesi generale. Nel caso suo speciale, il mio angelo, ci penserei dieci volte prima di assumermi una responsabilità, perché, come ha sentito, c'è in gioco il bene, la vita e la morte di molt'altra povera gente." Arabella, che aveva fin qui ascoltato con pazienza e docilità, alzò il capo e sbarrò gli occhi, come se cominciasse a dubitare che si trattasse veramente di lei. Maria Arundelli pensò a non lasciar cadere in terra il discorso: "Una moglie che si divide dal marito" disse "ha sempre un poco di torto. Una divisione è sempre uno scandalo o è un rimedio che non ripara nulla, e che non fa che allargare il male, creando due spostati, ci dà in pascolo alle ciarle e alle maldicenze della gente, che non è sempre disposta a compatire. La gente non ammette mai che il torto sia tutto da una parte: va a supporre che dall'altra parte ci sia stata almeno della freddezza, della poca buona volontà, della indifferenza di cuore, e fortunata la donna di cui non si pensa che questo! Una donna divisa dal marito è un oggetto di malsana curiosità per i buoni e per i cattivi. I primi pensano che abbia fatto troppo poco per andar d'accordo; i secondi che abbia fatto troppo per non andar d'accordo. Gli uni diranno che pretendevi troppo; gli altri che sei rigida, intransigente, bigotta... e, scusa ve', o che avevi un amante." "Ah...!" fece Arabella, schiudendo la bocca a una esclamazione di stupefazione. Parlavan proprio di lei? "Non offenderti. Tu hai troppo buon cuore e troppo buon senso per non tener conto del bene che puoi fare e del male che puoi risparmiare. Qui si tratta di scegliere tra due mali il minore per te e tra due beni il maggiore per gli altri. Un bel partito sarebbe di dare un addio a queste tribolazioni e di rifugiarsi in una grotta a meditare sulla vanità e sull'afflizione delle cose di quaggiù. Ma dove non arriva la voce e il rumore del mondo, arriva sempre la voce della coscienza, il dubbio, lo scrupolo di aver comperata la propria pace a prezzo d'indifferenza, di aver sacrificato troppo all'amor proprio. Quando Arabella sentisse, per esempio, che il suo secondo padre e benefattore è stretto nei bisogni, che la sua povera mamma non trova pane pe' suoi figlioli..." "Che un povero vecchio muore in una prigione, mentre si poteva..." "Mentre si poteva guadagnare la benevolenza e le benedizioni di tutti..." "Mentre si poteva evitare degli scandali." Arabella si alzò. Le labbra si mossero coll'intenzione di dire: andiamo... ma non ne scaturì che un fremito. Fece qualche passo come se cercasse di svincolarsi da tutte quelle mani amorose, che la tenevano prigioniera, da quelle parole, da quelle tenerezze che l'avviluppavano da tutte le parti. Mamma Beatrice avvertì questo primo momento di debolezza, e, tirandola in disparte nel vano della finestra, le strinse il volto nelle mani e proseguì sottovoce: "Sai che cosa mi ha detto tuo suocero? che se tu ti fidi di lui e torni a casa, buona buona e obbediente come prima, non solo farà cacciar via quella donna e obbligherà Lorenzo a volerti bene, ma mette a tua disposizione una somma, perché tu possa disporne per le tue opere di carità. Egli voleva ad ogni costo mettermi in mano duemila lire, sapendo in che imbarazzi si naviga; ma io gli ho detto: ' No, sor Tognino, io non posso riceverli che dalle mani di Arabella. Quando Arabella sarà tornata a casa sua e avrà dato segno d'aver perdonato e dimenticato, allora soltanto potremo accettare senza rimorso qualche sussidio: prima no '. Duemila lire in questi momenti sono per noi più che una bella giornata di maggio; ma tu non soffriresti mai che noi accettassimo la carità da gente che non conosci e peggio da gente a cui vuoi male. Mentre se tu ritorni, puoi mettere dei patti nuovi e puoi domandare anche un risarcimento, non ti pare, Arabella? Vieni, fidati di tua madre, che ne ha passate di peggiori e che ha sempre messo in disparte il puntiglio e la vanità, quando si trattava del bene dei suoi figliuoli. Lorenzo capirà i suoi torti, tornerà a volerti bene, e tu potrai vivere da signora come prima; mentre io, quando il tuo povero papà mi ha lasciato sola a quel modo che sai, non avevo nemmeno da mangiare. E che spavento! e che disonore... Eppure gli ho perdonato e tornerei a volergli bene ancora se comparisse..." Un torrente di lagrime impedì a mamma Beatrice di continuare un discorso, ogni parola del quale cadeva come una pietra acuta sul cuore di Arabella. Non ci voleva che l'evocazione di una triste memoria e di un fantasma non ancor morto del tutto, per debellare l'ultima sua fortezza, per annientare quel rimasuglio d'orgoglio, che la faceva ribelle e ripugnante al suo destino. La condanna del suicida non era ancora scontata del tutto; e bisognava ch'ella mostrasse almeno di perdonare a' suoi persecutori, se voleva che gli altri perdonassero a una povera anima in pena. Non aveva promesso a Dio di consacrare la vita in espiazione? Ebbene, questa era la espiazione. Ai martiri non si concede la scelta del martirio. Come se si svegliasse da uno strano sogno, le parve di ritrovare in se stessa la buona e docile Arabella di Cremenno, arrossì un poco di vergogna, come una bambina colta a commettere un piccolo furto campestre fuori del suo orticello; strinse la mano della mamma, baciò l'Arundelli sul viso, sorrise a tutto ciò che la Colomba, ridendo e corbellando, le raccontò nel discendere le scale, si lasciò condurre per tutto il lungo del corso Genova, fino a un caffè del Carrobbio, dove la mamma la persuase a prendere una bevanda calda o a bagnare un biscotto nel vermouth... Esse avevano bisogno di scaldarsi e di rinforzarsi lo stomaco. Accettò il vermouth e il biscotto; disse sempre di sì col capo a tutte le questioni della mamma; sorrise due o tre volte anche a lei, mostrando tutte le buone disposizioni di perdonare. Ma non pronunciò una parola tutto il tempo, come se la voce fosse morta nel petto. Gli occhi fissi alla vetrina innanzi alla quale si agitava il turbinío di un popoloso quartiere nella piena luce d'una bella giornata d'aprile, essa, più indifferente che turbata, preparavasi a soffrire fino alla fine... o fin quando era necessario.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

. - Tu hai troppi meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario, assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze dei vari partiti conservatori controla falange abissina dei sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige, specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! - aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno messo di moda. On s'encanaille, ecco! Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno, che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.

Se mammà lo trovava questo rimedio, egli prometteva di metter giudizio davvero, di non toccar piú una carta, di non veder piú un bicchiere, di lasciare le cattive compagnie, di abbandonare anche la carriera militare, se era necessario, per darsi tutto a una vita di raccoglimento e di studio. E finí col suggerire il nome delle buone zie di Buttinigo, che piú di tutti dovevano sentir compassione di lui, e che avrebbero saputo procurargli i mezzi di spegnere il fuoco, prima che appiccasse l'incendio alla casa. Le buone risposte si facevano invece molto aspettare. La contessa esitava a mettere altre persone a parte di un segreto, che già si conosceva da troppi. Oltre a miss Haynes e a Fabrizio, dei quali non avrebbe potuto far senza, essa aveva già dovuto parlarne a Fulvia di Breno e lasciare che questa ne parlasse a suo marito. Per un segreto, che essa avrebbe voluto seppellire cento braccia sotto la terra, eran già troppo quattro persone condannate a tacere. Dal parlarne alle pie cognate di Buttinigo la tratteneva, oltre al naturale sentimento di confusione e di rispetto, un piú amaro risentimento verso sé stessa, sto per dire, un senso di orgoglio e di dispetto, quasi sdegnasse della sua sventura, non solo il rimprovero, ma la stessa compassione di quelle illustri ragazzone. Donna Adelasia e donna Gesumina, che avevano sempre biasimato il sistema rigido e autoritario con cui la loro nobile cognata credeva di ben educare un discendente di casa Magnenzio, non avrebbero saputo, non dico rallegrarsi, che proprio non era del caso, ma trattenersi dal vantarsi d'aver avuto ragione. Il risultato parlava chiaro. Il latino, il greco, il tedesco, l'inglese, la storia e la geografia e tutta la quintessenza del sapere voluta introdurre per forza in un corpo vivo, come si schiacciano i volumi in uno scaffale stretto, non avevano impedito che Giacinto scivolasse sulla prima buccia di cocomero. Per una madre, che si teneva in continue corrispondenze pedagogiche col canonico Ostinelli, da una parte, e col signor Lanzavecchia, dall'altra, e che consultava perfin dei libri inglesi, via, il risultato non poteva essere piú desolante. Donna Cristina, piú di ogni cosa al mondo, temeva le grandi ragioni delle anime piccine; e nella sua superiorità morale le temeva senza aver la forza di disprezzarle. Avrebbe potuto alla sua volta rimproverare le pie dame di aver voluto con arti e seduzioni segrete togliere autorità e rispetto all'opera educativa della madre; ma che le giovava ormai il discutere sopra le ragioni e sopra le responsabilità? il castigo c'era, e grande e terribile per tutti. Quando Giacinto seppe che donna Fulvia di Breno era interessata a fargli del bene, le scrisse una lunga lettera piena di suppliche e di tenerezze. L'antica amicizia, che legava donna Fulvia a mammà, aveva abituato il giovine conte a considerare la di Breno come una persona della famiglia, alla quale si possono fare le confidenze, che a una madre e a una sorella non si fanno: la chiamava, per vezzo, la zietta, e si voleva che avesse avuto per lei una poetica scalmana negli anni della prima fioritura giovanile, quando gli occhi del ragazzo cercano nella donna un'esperienza matura e non barcollante. "Dica a mammà" le scriveva "che è interesse suo e interesse di tutto il casato di nondare a questo fatto, fin troppo naturale, un'importanza maggiore di quella che ha. Dal momento che non posso sposarla, una cameriera, tanto fa che mi risparmi le noie d'un processo e dei possibili ricatti. Se non bastano quattro, dia otto, dia dieci, paghi fin dove è necessario, e mi salvi dalle scomuniche dello zio monsignore, pel quale io non sono già in troppo odore di santità. Se tarda troppo, ci sarà chi avrà tutto l'interesse a speculare su questo momento d'oblio, e ne uscirà uno chiarivari da teatro diurno. C'è a Bergamo un giornalucolo radico- massonico tre volte fallito, che mi darebbe volentieri in pasto alle belve per rifarsi d'una certa disdetta, che gli ho inflitta l'anno scorso, quando ci fui di guarnigione un mese. Si figuri con che gusto questi va- nu- pieds piglian le occasioni per far guerra al nobilume e al clericalume! Quindi piú presto si taglia, piú presto si provvede anche alla gloria di Dio. Dica e ripeta a mammà che, se mi tirano in una seccatura, se mi obbligano, puta caso, come dice il canonico Ostinelli, a lasciare il servizio, vado in Africa e non mi lascio piú vedere, come un esploratore qualunque". Donna Fulvia rispondeva, sempre in nome di mammà, che lo scoglio pericoloso era la paura di un certo cugino, che vantava dei diritti sulla ragazza. E Giacinto, di rimando: "Credo di ricordarmi questo cugino, e, se la memoria non m'inganna, non mi pare uomo da amare gli scandali. Non so fin dove si possa arrivare con lui, perché da un pezzo l'ho perduto di vista; ma, se il signor Lanzavecchia è ancora quel buon figliuolo che mangiava i miei pasticci ai tempi della nonna, non può essere né un mangiapreti, né un fanatico divoratore di aristocratici. Non ha egli studiato coi frutti d'un nostro beneficio ecclesiastico? non ha rosicchiato per molti anni il nostro pane? Se è vero che vuol bene alla ragazza che gusto deve avere di metterla in piazza? dica di me quel che mi merito; non sarei lontano dall'offrirgli delle scuse e anche delle soddisfazioni; si badi soltanto a non fare di lui un terribile alleato dei nostri nemici. Insomma, levatemi da queste angustie, che mi fanno patire le pene dell'inferno. In certi momenti mi prende una tale disperazione e un tale orrore di me che, se non fosse la fede del soprannaturale, mi farei saltare le cervella con un colpo di pistola". Eran queste frasaccie, che non lasciavano dormire mammà. Nei San Zeno non era sconosciuta questa tendenza a esaltarsi e a ricorrere a rimedi disperati. Essa per la prima si risentiva di questa disposizionedi razza in certi momenti, in cui le pareva che il sangue le facesse scoppiare la testa, che il cuore le saltasse fuori dal petto, che la terra le mancasse sotto ai piedi, che cento fantasmi la inseguissero. La sua stessa incapacità a scegliere un piano di battaglia era forse un'altra prova di un temperamento che si lasciava eccitare troppo presto e si logorava in dolorose incertezze. Ogni rumore era diventato per lei una cagione di sgomento, talché bastava che vedesse spuntare dal viale il Camillo della posta colla sacca delle lettere, per provare un tuffo del sangue, un angustioso rammollimento del suo povero cuore. Finalmente una mattina (verso la metà di ottobre), parendole che ogni risoluzione fosse migliore di quell'atroce agonia, ordinò la carrozza e andò a trovare le due sante di Buttinigo. Era una giornata piovigginosa con sparso nell'aria un primo brivido invernale. Infossata nell'angolo della carrozza, cogli occhi fissi al finestrino, passò in mezzo alle case, davanti alle siepi, lungo i filari dei gelsi, all'orlo delle vaste e brune campagne già umide di guazza, senza veder nulla, tranne il suo dolore, che, come spina velenosa, trafiggeva la sua vita. Dopo quasi un'ora e mezzo di viaggio per le strade malinconiche e fangose, che correvano verso la pianura, la carrozza voltò nel lungo viale di robinie, che mena alla villa delle due contesse. Queste abitavano nell'antichissima casa, che le aveva viste nascere e che probabilmente, se Dio teneva conto dei loro meriti, le avrebbe viste morire. In quel loro palazzone senza architettura, dai muri lividi, dalle cento persiane chiuse, color brodo, passavano le loro giornate d'estate e d'inverno in una beata agiatezza, rallegrando la vita con modeste opere di beneficenza, coi pettegolezzi del villaggio e delle anticamere, col tarocco e colle tazze di camomilla. Vestivano sempre in modo eguale come due mosche, con antica eleganza e con quel decoro che non escludeva i pizzi, gli anelli, i braccialetti, e, nelle giornate calde, perfino un po' di trasparenza, che lasciava vedere la carnagione bianca e ben conservata delle loro braccia e delle spalle rotondette. Per diritto di patronato esercitavano una tal quale supremazia sulle quattro monache dette della Noce, che un Magnenzio dei secolo XVII aveva dotate coll'obbligo di soccorrere dieci orfanelle. Queste pie religiose, che, dopo il Signore e la Madonna e i Santi, veneravano donna Adelasia e donna Gesumina quasi come il Papa, sentivano l'obbligo di coscienza di tenerle regolarmente informate, non solo di tutte leindulgenze che vanno attaccate alle vigilie, ai tridui e alle novene, ma anche del bene e del male che si diceva di tutti i preti per un circuito di dieci miglia all'intorno. L'arca santa, cioè il carrozzone foderato di stoffa color castagna colle frangie bianche, dondolante sulle ampie molle, coi passamani guarniti di fiocchi, coi terribili draghi azzuffantisi sulle portiere, usciva ab ímmemorabili due volte per settimana, tempo permettendo, ogni martedí e ogni sabato, affidato alla prudenza di Rebecchino, invecchiato anche lui come una castagna secca nella livrea, che gli faceva un guscio troppo largo. Al martedí uscivano dalla parte del bosco, facevano una piccola sosta alla Madonnina, dove scendevano a salutare Maria Santissima, comperavano dodici biscotti freschi alla bottega del Caminada, e col trotto sempre uguale dei due pesanti cavalli ritornavano a casa dalla parte del molino. Al sabato la carrozza usciva dalla parte del molino e allora i biscotti li comperavano prima di salutare Maria Santissima. Donna Gesumina, nella sua vecchia innocenza molto ben conservata, riconosceva volentieri nella sorella maggiore, che era stata fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, l'autorità d'interloquire in molte cose delicate, che sfuggono all'inesperienza d'una zitella; e per parte sua, donna Adelasia, mentre si sentiva lusingata da questa affezione rispettosa e sottomessa, parlando della vecchia ragazza, usava un tono di dolce compatimento, come si fa coi bimbi che hanno bisogno di protezione. Quantunque facessero la vita in comune, si alzassero alla stessa ora, bevessero e mangiassero insieme nello stesso salotto e discutessero insieme col Rebecchino su quel che si aveva a preparare in occasione degli inviti straordinari, pure era tale la deferenza di donna Gesumina per donna Adelasia che, senza accorgersi, vedeva, pensava e parlava colla volontà della sorella; fin al punto che, se questa sentivasi la bocca amara o una trafitta in una gamba, pareva anche a lei d'aver la bocca amara e la gamba indolenzita. Questa fusione di due anime e di due corpi, consolidata da cinquant'anni di vita comune, era diventata cosí intima e omogenea che le due vite non facevano piú che un metallo solo, il quale, toccato, dava un suono solo, perché le vibrazioni dell'una non potevano essere che le vibrazioni dell'altra. Non era possibile, per esempio, che una cioccolata avesse fatto peso all'una e non all'altra; o che l'una sentisse il bisogno di prendere due dita di magnesia calcinata, senza che questo bisogno non ci fosse anche dall'altra parte. Se non oggi, avrebbe fatto bene domani. Le due signore stavano nel gran salone a pian terreno verso la corte, che serve di galleria ai ritratti degli illustri antenati, dove passavano gran parte delle loro tranquille giornate. Donna Gesumina, per rompere la tetraggine del tempo, ripeteva sul pianoforte le vecchie variazioni sul "Carnevale di Venezia", ch'era stato il suo piccolo trionfo all'Accademia finale nel Collegio delle dame inglesi, la bellezza di quarant'anni fa; quando donna Adelasia che ricamava a un telaio presso la vetriata, sorse improvvisamente a dire: - Guarda un po', Gesumina, chi arriva con questo tempo. La carrozza di donna Cristina entrava in quel momento nel cortile sotto una pioggia fitta. Le due dame, che non aspettavano anima viva in un giorno come quello, quando ebbero riconosciuto nella signora elegante, che discendeva, la bella figura della loro cognata, mandarono una esclamazione sola: - Che cosa può essere accaduto? E ancora piú si sgomentarono quando, dal passo incerto, dal pallore, dall'affanno con cui la contessa entrò in sala, capirono che qualche cosa di grosso era nell'aria. - Donna Cristina, con questo tempo? non è mica successa una disgrazia . Donna Adelasia invitò la parente a prendere posto nell'angolo a destra, dove essa soleva ricevere il lunedí e il mercoledí. Donna Gesumina riceveva ogni giovedí nell'angolo a sinistra. Le piccole differenze d'opinione e di metodo potevano far nascere delle diffidenze, ma scomparivano nel gran rispetto che le due dame avevano per la virtú di donna Cristina di San Zeno, nipote d'un vescovo, una delle piú specchiate signore della buona nobiltà; e quand'anche maggiori e piú crude fossero state le loro diffidenze, sarebbero scomparse allo stesso modo nel cerimoniale largo e ospitale, con cui le vecchie dame continuavano le tradizioni della casa con quel bel decoro che va cedendo il posto, pur troppo, a un borghesismo senza elevatezza e quasi senza dignità. Le tre signore, dopo aver ben osservato che le porte fossero chiuse, rimasero una mezz'ora in vivo e segreto colloquio. Quando la contessa ebbe esposto il caso, che l'aveva condotta a Buttinigo, con quella delicatezza di parole che il rispetto a sé stessa e alla religione delle parenti esigeva, tornò a piangere cosí amaramente da far temere una crisi di nervi. Donna Adelasia afferrò subito la gravità della disgrazia e sospirò una breve orazione; e, dopo aver congiunte le mani due o tre volte in atto di scongiuro, vedendo che la contessa era in procinto di perdere le forze, si mosse, levò colle mani tremanti da uno stipo intarsiato la boccetta dell'acqua di cedro, ne riempí tre bicchierini di cristallo, e insistette perché ne bevesse anche la Gesumina. - O Madonna beata, e ci sarebbe forse già il carro davanti ai buoi? - chiese la maggiore delle due sorelle. Donna Gesumina, che nella sua semplicità di spirito non poteva entrare in tutta la gravità di questi buoi e di questo carro, volendo con una frase interrompere quel pianto nervoso, che le straziava il cuore, provò a dire: - Non si potrebbe intanto far fare una bella novena alla Madonna? - Taci, taci - rimproverò con fare tra il burbero e il compassionevole la sorella maggiore, accompagnando le parole con un gesto che pareva dire: - Ci vuol altro che novene adesso! Gesumina capí che non era il suo posto, e si ritirò in disparte per permettere alle due dame di parlar piú liberamente. - Se Giacinto fosse un servitore - riprese donna Adelasia, interpretando il lungo silenzio della contessa come una confessione - se fosse il figlio d'un fattore, o che so io? un esercente, un professionista, il suo dovere, anche davanti alla nostra santa religione, sarebbe di sposare la ragazza, coûte qui coûte.-. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso, ha detto Metastasio; ma nella sua condizione sociale il caso è piú difficile: un conte non può mica sposare una cameriera. - Sicuro, Madonna benedetta! - fece dal suo cantuccio donna Gesumina, che cominciava a capire qualche cosa. - Noi abbiamo dei doveri non solo verso i vivi, ma anche verso i morti e verso quelli che verranno. Per la colpa d'un povero ragazzo, che sarà stato tirato nelle tentazioni, non si possono sacrificare le tradizioni e il decoro di due antichissime famiglie. Non si scherza! Che cosa dirà monsignor vescovo e nostra cugina monaca .? - Che ora voglion nominare superiora! - completò Gesumina, che pareva un'anima smarrita nello spazio vuoto del salone. - Ci sono doveri e doveri, non è vero, donna Cristina? - insinuò donna Adelasia. - Ho io mancato al dovere di madre? - uscí a dire con appassionata tristezza la contessa, a cui la parola dovere risvegliò quasi nell'animo un acerbo risentimento. - Fu appunto per educare mio figlio a sentimenti elevati di virtú e di dignità che ho combattuto tutta la vita. La nobiltà ha i suoi doveri, sí, donna Adelasia; ma nessun dovere si compie bene, se manca la forza morale e l'educazione della mente. Se qualche volta ho potuto sembrare rigorosa verso questo disgraziato, era per tentare di sottrarlo con tutte le mie forze alla decadenza fatale che ci perseguita e al contagio degli oziosi suoi pari. Sono stata troppo superba e Dio mi ha castigata. Il tono doloroso, non privo di dignità, col quale donna Cristina pronunciò queste parole, sgomentò non poco le due vecchie zitelle, che, incapaci dientrare colle loro piccole cuffie in un concetto superiore, si affrettarono a chiedere mille perdoni, dimostrando che ci doveva essere stato qualche malinteso nelle parole. - Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto . - Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia. I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsidel povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla. E rimasero in quest'accordo.

Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco, che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga, dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare. Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta. - Addio, povero Giacomo, - fece la misera, con voce rotta, ma senza piangere. - Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il Signore ti ricompenserà. - Cosí cercò di consolarla la contessa con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore angustia. Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale, inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che la menassero, come si dice, a perdersi. "Addio, povero Giacomo ." ripeteva in cuor suo a lontani intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tuttoquello che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti. Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli uomini, al suo Giacomo, al suo angelo . Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare quel che non poteva piú essere. - Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? - balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano della signora. - Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza. - E gli dica che cerchi di perdonare anche lui, - soggiunse la poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza. Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto. Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera. - Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è? - Donna Adelasia aspetta in chiesa. La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro incorsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose? La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano: - Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore . Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco. Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Non potendo il grosso cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentì con molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una terribile notificazione fattagli dal Parroco: "Ambrogione, siete irregolare! Siete incorso nella scomunica maggiore!". Per farsela togliere, il cottimista spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta. Il suo personone di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove il dottore per un po' di tempo imperò esclusivamente, e poi scadde anche lui di moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti. Appena si parla di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la faccia.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Se oggidì esistessero dei genitori capaci di abbandonare la prole, il governo, questo padre legittimo di tutti, provvederebbe. Che più si tarda? Affermiamo i nostri diritti, realizziamo il nostro splendido programma! Non più riti religiosi! via le formalità che intorpidiscono i sensi e mettono il ghiaccio nei cuori! Il Dio è in noi quando amiamo; non è più mestieri di invocarlo. Fra due che si amano nessuno ha diritto di intervenire. Cosa significa questa legge di dilazione, che ci obbliga a discostarci quando il torrente della passione irrompe da noi coll'impeto massimo? Ogni unione generata dal libero amore è legittima; fuori di là, tutto è prostituzione e delitto. Viva l'amore che giustifica ogni audacia, che santifica ogni lussuria! Abbasso il matrimonio, che contrista, che abbrutisce! Opponiamo ad ogni petizione civile un assoluto diniego. Sciolte dalla servitù coniugale, qual freno potrà ancora trattenerci dal marciare rapidamente alla meta? L'uguaglianza morale e civile sarà in breve raggiunta dalla donna; chi oserà resisterci? Accarezzato dall'amore spontaneo, il nostro maschio diverrà arrendevole e mite, quanto ostinato e crudele fin qui lo avean reso le nostre riluttanze di moglie e i nostri abborrimenti da schiava. Egli dovrà comprendere che la infelicità da lui imposta al nostro sesso si è mai sempre riflessa su lui. Questo insensato, che dopo aver trascorsa metà della vita nel corrompere fanciulle, nell'irridere ad ogni virtù d'amore, pretendeva, esausto e abbrutito, di sposare una vergine per farne una schiava, dovrà alfine riconoscere i propri torti. Egli griderà con meraviglia e dolore: noi fummo stolti, noi fummo barbari! abbiamo creduto vincolare la fedeltà, e abbiamo scatenato l'adulterio, ci siamo illusi di poter combattere la natura con quattro articoli del codice; ma la natura si è vendicata delle nostre repressioni, immergendoci in un abisso di tenebre e di miserie; benediciamo al libero amore, che ci ha rigenerati!» Alla fine della calorosa allocuzione, un uragano di applausi insorse dalla folla. I giovani coscritti e le donne gridarono ad una voce: - Viva Clara Michel! Viva la selezione! Viva l'uguaglianza morale e civile! - No! No! - rispondeva una debole minoranza di oppositori: - Abbasso la cortigiana! Rispetto alle istituzioni! Viva il matrimonio! - Ah! vi sono ancora - riprese con impeto la bella presidentessa delle emancipate; - vi sono ancora degli zotici, dei bruti, che ardiscono ribellarsi alla evidenza della verità? Vediamoli un poco alla prova della tentazione, questi falsi apostoli della fedeltà obbligatoria e del vincolo santo! Alzate gli occhi, o mamalucchi, e guardatemi bene! Così parlando, la Michel aveva dato un balzo, e levandosi in piedi sulla sella, aveva esposto all'attonita folla tutte le formosità delle sue membra rigogliose, leggermente accarezzate da un velo trasparentissìmo. Un urlo di entusiasmo maschile si sollevò dall'area. Tutte le pupille si dilatarono per tuffarsi in quel bagliore di bellezza. - Orbene - ripigliò la Michel sempre più animata; - mi vedete? vi paio bella? Io mi dono a quello di voi, che essendo stretto ad una donna dal vincolo coniugale, nullameno salirà in groppa del mio cavallo, e riuscirà pel primo a baciarmi la punta d'uno stivaletto! In un attimo quella immensa moltitudine di gente fu veduta agitarsi come un mare in tempesta. Gli uomini si spingevano innanzi, urlando, manovrando coi pugni e coi bastoni, dilaniandosi l'un l'altro i vestimenti e le carni. Le sbarre che difendevano il padiglione caddero rovesciate ed infrante in quell'impeto erotico di maschio calore. L'eroina del congresso, sgomentata, diede l'allarme alle compagne; i cavalli nitrirono scalpitando ... Ma ... ecco ... il ruggito della folla echeggia più gagliardo e minaccioso. Cos'è avvenuto? Un uomo contuso, sanguinolento è riuscito a farsi innanzi ... ha sorpassato la barriera frantumata ... si è spinto fino al proscenio del padiglione ... e salito sul destriero della vezzosa cavalcatrice ... ha stretto al labbro il profilato piedino ch'ella ha vibrato nell'aria ... Clara Michel dà il segnale della partenza; la comitiva equestre si slancia a briglia sciolta sullo stradone sportheno(34)

Il nostro Malthus, che allora toccava appena i trent'anni, si lasciò prendere dallo scoramento, e disperando di riuscire ne' suoi alti disegni, un bel giorno, adunati i suoi apostoli più fedeli, annunziò ad essi il suo proposito di abbandonare la vita. Sì: quel grand'uomo voleva morire nel fiore dell'età; voleva fuggire da un mondo che, a suo vedere, non sarebbe mai stato capace di comprenderlo. Perdoniamo al genio un istante di debolezza; le più alte intelligenze, le nature più energiche subiscono delle prostrazioni inesplicabili. Le esortazioni, i conforti, le preghiere degli amici, nulla valeva a smuovere quello scorato dalla nefasta risoluzione. Se non che, all'ordine naturale del cosmos era necessaria quella esistenza. Malthus e il trionfo delle sue teorie non potevano esimersi dall'entrare e dal compiere la loro parabola ascendente nel moto provvidenziale di rotazione imposto dalla legge fisica universale, «Fra gli apostoli del principio che in quel giorno stavano adunati intorno al Capo, c'era uno scienziato, o, come allora si diceva, un utopista di zoologia, chiamato Gorini, discendente per linea indiretta da quell'illustre diseredato che già aveva fatto nel secolo precedente delle meravigliose scoperte sulla origine del mondo, e riuniti gli elementi chimici più atti alla pietrificazione dei cadaveri. Al momento in cui Malthus, nel suo implacabile desiderio di finirla, colla vita, portava alla bocca una pillola asfissiante, un grido imperioso risuonò nell'aula: fermate! Malthus guardò fissamente l'apostolo che si era alzato per accorrere a lui; l'altro con piglio più assoluto, ripetè l'intimazione: fermate! In quel grido c'era una potenza irresistibile. - Che hai tu a dire ad un moribondo? - domandò Malthus, trattenendo la pillola sospesa fra l'indice e il pollice. - Due logiche e serie parole - rispose il Gorini: - voi volete morire, perché avete riconosciuto, come noi riconosciamo, non essere l'epoca attuale matura alla realizzazione delle nostre sublimi teorie. Orbene, se qualcuno venisse a proporvi di sostituire alla morte un lunghissimo sonno, un sonno di dieci, di vent'anni, di mezzo secolo, persistereste voi ancora nel proposito disperato? - Ho piena fede nell'avvenire - rispose Malthus; - ma un mezzo secolo dovrà trascorrere prima che l'umanità riconosca erroneo e rovinoso il principio da cui oggi è trascinata, - Ebbene! - replicò il Gorini; - dormite per mezzo secolo, e il vostro risveglio segnerà l'epoca delle nostre vittorie. Voi mi guardate con stupore, come se le mie parole uscissero dalla bocca di un pazzo. No! io non sono pazzo, io non posso ingannarmi ne' miei calcoli; mi tengo sicuro della riuscita. Quello che nella rigida stagione avviene dei serpenti e d'altri animali soggetti al torpore, deve necessariamente riprodursi nell'uomo a mezzo di una ben praticata assiderazione. Nell'uomo assiderato la vitalità può durare parecchi secoli, fino a quando, per una accidentale combinazione o per effetto del volere altrui, non venga ad operarsi il disgelo. Volete voi, illustre pontefice dell'avvenire, sottomettervi alla prova? Io vi ho additata la via; io metterò a vostra disposizione i miei trovati scientifici. Voi prescriverete la durata ed il termine del vostro assopimento. Nel giorno e nell'ora da voi prefissi, i discepoli, istruiti per tradizione dei vostri voleri, verranno a ridestarvi dal lungo sonno, e voi potrete, uomo antico e precursore dell'evo felice, gioire delle mondiali acclamazioni e dirigere l'umanità verso la meta altissima infino ad oggi inutilmente vagheggiata da voi. «All'udire tale risposta, Malthus stette un istante silenzioso; ma i suoi occhi sfavillanti esprimevano soddisfazione ed assenso. I due scienziati si erano compresi. Di là a quattro ore, il Malthus, il Gorini e gli apostoli seniori, a mezzo della ferrovia funicolare Agudio, salivano alle alture nevose del Moncenisio. Inutile che vi riferisca e descriva di qual maniera si compiesse lassù, per opera dell'immaginoso zoologo, la prova non mai tentata dell'assideramento umano. Ciò che importa sapere, ciò che io sono impaziente di annunziarvi, è che il Malthus, il sapiente Malthus, il divino Malthus, il nostro legislatore, il nostro profeta, or fanno tre giorni, dopo mezzo secolo di torpore, si è ridestato alla vita attiva. La volontà dell'illustre sopito è compiuta. I depositarii della tradizione Malthusiana, consapevoli di ogni patto, penetrarono, nel giorno e nell'ora stabilita, dentro la cavità granitica, dove il profeta dormiva da cinquant'anni in una temperatura di sessanta gradi sotto zero. Seguendo le istruzioni lasciate dal Gorini, in meno di due ore quei prudenti operatori ottennero gradatamente il disgelo: il corpo irrigidito si riscosse, si riapersero gli occhi, la favella si sciolse ... Gli apostoli si gettarono a terra adorando, inneggiando al redivivo. - Sospendete, o fratelli, quei plausi; imponete al vostro entusiasmo! Serbate gli osanna a lui solo. Fra pochi istanti, allo squillar dei due tocchi pomeridiani, il gran Malthus sarà qui. Egli lo ha promesso, egli mi ha incaricato di recarvi la buona novella. Sì, fra dieci minuti ... egli sarà in mezzo a noi ... Egli avrà preso il mio posto su questa tribuna per rivelarvi l'ultimo verbo del suo genio divino. Che se mai ... - Da Manicopoli! - gridò un volonteroso di alto grado, avanzandosi verso il proscenio e presentando un dispaccio al Presidente del Comizio. - Leggete! leggete! - gridarono dal teatro trentamila voci. Il Presidente sciolse il piego, gettò uno sguardo sulle cifre, e pallido, con voce tremante, lesse quanto segue: «Malthus redivivo suicidatosi ignote cause, attendonsi schiarimenti. «Il seniore SAFFUS». - Impossibile! assurdo! - urlò il Relatore con accento irritato; maledetta la Stefani! - Maledetta la Stefani! - rispose la folla con sdegno. - Silenzio! ... Un secondo telegramma! Il Presidente si fece innanzi, e lesse: «Suicidio Malthus avvenuto nel palazzo marchesa Sara Jobart sua antica amante. Giornali pubblicano lettera autografa. Pare che forti disinganni spingessero illustre uomo a procacciarsi sonno più duro. «Seniore KEMPIS». - Assurdità! assurdità! - si mormorava da ogni parte; - attendiamo una formale smentita. Ma ecco, nel mormorio generale, spiccano delle grida più acute; i folletti di città guizzano tra le panche, saltano sui parapetti dei palchi, inondano il teatro di giornali. Di là a pochi minuti, in un tetro silenzio, quelle trentamila persone adunate pel Comizio leggevano la lettera lasciate da Malthus: «Correligionarii e fratelli, «È stato un errore; tanto più illogico e imperdonabile a noi, che, professando i principii del naturalismo, pur nullameno abbiamo tentato di violentare la natura. Quando io mi sottoposi alla prova dell'assideramento, mi ero lasciato vincere da un orgoglio insensato. Ho creduto che la mia esistenza fosse necessaria al bene comune; non ho riflettuto che l'individuo conta per nulla, che i progressi della umanità si compiono pel concorso simultaneo di tutte le forze viventi. È necessario, perché ognuno mi comprenda, che io esponga la diagnosi delle mie impressioni. Lo farò sinceramente e colla maggior brevità possibile. Quando i fratelli, esecutori fedeli del patto tradizionale, vennero or fanno tre giorni a risvegliarmi dall'assopimento, al mio primo risveglio io provai un senso di melanconica sorpresa. Mi si affollarono nella mente le idee colle quali mi ero addormentato mezzo secolo addietro; mi meravigliai grandemente nel vedere intorno al mio letto di granito delle figure a me ignote; domandai che fosse avvenuto dei fratelli i quali la sera innanzi mi avevano aiutato a coricarmi. «- Avete dormito cinquant'anni, - risposero ad una voce gli astanti. «- È vero! è vero! - risposi io raccapezzando le confuse memorie: - infatti ... quella sera ... i fratelli ... gli apostoli ... Ma, voi! voi, chi siete? Perché quegli altri non sono al mio fianco? «- Quegli altri - mi risposero - sono morti; e noi, eredi della tradizione, li abbiamo sostituiti. «Io guardava con meraviglia e tristezza quei sembianti sconosciuti. Essi mi parlavano dei grandi progressi sociali avvenuti nel corso di mezzo secolo, mi annunziavano il prossimo trionfo della riforma naturalista, mi promettevano ovazioni, glorificazioni, quali nessun orgoglio umano avrebbe osato sognare. Io li ascoltava attonito, quasi svogliato. Portai la mano sul petto e ne trassi un medaglione sul quale era impressa l'effigie di una giovane marchesa da me adorata. Mi sovvenni che gli antichi fratelli si erano opposti al mio desiderio di metter a parte quella impareggiabile donna della misteriosa operazione che doveva per tanti anni tenermi disgiunto da lei. Si voleva che il segreto della mia assiderazione rimanesse esclusivamente affidato ai pochi apostoli; temevano che ella, per impeto di dolore e di amore, potesse tradirci. Con quali palpiti di gioia ribaciai quel ritratto! «- Orbene! - esclamai; - prima di rientrare nel campo delle agitazioni politiche, prima di abbandonarmi alle glorificazioni da voi promesse, io mi debbo a colei che occupava tanto posto nel mio cuore, che forse mi avrà pianto per morto, che forse non avrà mai cessato di attendermi. Sapete voi se esista ancora a Parigi quel portento di bellezza, di grazia e di spirito, che si chiamava la marchesa Sara Jobard? «Gli apostoli si scambiarono uno sguardo di sorpresa e per poco non scoppiarono in una risata. Uno dei seniori, che penava molto a serbarsi serio, si volse ai fratelli dicendo: «- È giusto che ogni sua volontà venga da noi soddisfatta; rimanderemo il Comizio a sabato prossimo, e frattanto accompagneremo a Parigi l'illustre redivivo, e lo aiuteremo a raccogliere le informazioni che tanto lo preoccupano. «Ciò convenuto, uscimmo dalla cava granitica, e ci trovammo dinanzi ad una carrozza sormontata da un pallone aereostatico. «- Cos'è questo? - domandai. «- Una volante di seconda portata, il veicolo che in meno di un'ora ci condurrà sulla piazza massima di Parigi. «- E voi pretendereste che io salissi in quel cassone? - esclamai arretrando; - ma dunque ... non vi son più ferrovie? ... non vi sono locomotive elettriche? «- Tali mezzi di trasporto - rispose il seniore, scambiando cogli altri apostoli un'occhiata di meraviglia - oggimai fanno esclusivamente il servizio pei nullabbienti. «- Ebbene! trattatemi pure da nullabbiente, - gridai io - ma in quella baracca sospesa nell'aria, io, Malthus, vi prometto che non sarò mai per ficcarci il mio nobile individuo. «- Con tutto il rispetto che da noi si professa al vostro nobile individuo - rispose il seniore dopo essersi consultato coi fratelli, - noi non possiamo dimenticare il mandato perentorio del Gran Maestro dell'ordine; le ore sono contate, il tempo vuol essere misurato; vi abbiamo accordato una proroga di tre giorni; ora conviene affrettarsi. «E prima che io potessi muovere due passi per discostarmi, quattro fratelli mi afferrarono pel torso, mi sollevarono, mi immersero nella cabina della volante. «Che dirvi di quel viaggio? Non impiegammo che un'ora per tragittare dal Moncenisio a Parigi, ma quell'ora è bastata a svelarmi l'orrore della mia situazione. Il linguaggio di quegli apostoli che mi parlavano dei loro disegni, che mi interrogavano, per prender consiglio, il più delle volte mi riusciva incomprensibile. Basta dunque un mezzo secolo a corrompere ogni idioma, ad alterare perfino le inflessioni della pronunzia? Essi accennavano ad istituzioni, alludevano ad avvenimenti a me ignoti; nominavano scrittori e scienziati vissuti nell'ultima metà del secolo; citavano libri usciti recentemente e già quasi obliati da' contemporanei, e parevano meravigliati ad ogni tratto della mia ignoranza, d'altronde naturalissima in chi aveva dormito pel corso di cinquant'anni. Quand'io ricordava i miei tempi, essi sbadigliavano o sorridevano con ironia. Dopo avermi quasi idolatrato, erano, in meno di un'ora, passati dalla adorazione all'indifferenza sprezzante. Arrivando a Parigi, al momento in cui si scendeva dalla volante, uno dei seniori disse all'altro sommessamente: «- Mi pare che l'assideramento abbia imbecillito il Profeta. «E l'altro: «- È a credere che egli già fosse imbecille prima di intorpidirsi; a que' tempi la fama di illustre si acquistava a buon mercato. «Quanti disinganni mi attendevano a Parigi! Invano io cercava nella folla dei balovardi qualche sembianza nota. In quella città ch'era stata il teatro dei miei primi trionfi; in quella vasta metropoli, dove un tempo ero additato e salutato da tutti, io non vedeva che sconosciuti, non incontrava che occhiate indifferenti o beffarde. Il mio modo di parlare, il mio contegno imbarazzato attiravano l'attenzione e provocavano le risa. Nuovo agli usi della società moderna, attonito, sbalordito, io somigliava ad uno di quei gaglioffi montanari, che dopo aver vissuto quarant'anni fra le capre, si trovano balzati in una splendida capitale, nel faragginoso brulichio della attività cittadina. Urtava nella gente; mi pareva strana ogni foggia di vestito; mi arrestava istupidito dinanzi alle statue che rappresentavano personaggi divenuti famosi negli ultimi tempi. Gli edifizii recenti, gli spazii aperti dalle demolizioni, i nuovi nomi delle vie sostituiti agli antichi, mi imbarazzavano siffattamente, che io mi stringevo colla mano alla zimarra dei colleghi per paura di smarrirmi. Fui condotto ad un albergo. I fratelli incaricandosi di andare al palazzo di città per attingere informazioni sul conto della marchesa, mi lasciarono solo. Allora io trassi dal petto l'effige della mia Sara, e contemplando, ribaciando mille volte le angeliche sembianze di quella tanto cara, diedi in uno scoppio di lacrime. - Avrò io la consolazione di rivederti, o creatura adorata? - E dopo questo, mi sentii assalito da una tetra melanconia. Le più amare riflessioni si succedevano nel mio spirito. - Perché son venuti a ridestarmi? Di qual modo potrò io riannodare la mia alla esistenza di questa generazione? Non si vive bene che fra i contemporanei; la gente che ora mi brulica dattorno rappresenta la mia posterità. Nulla oggimai vi può essere di comune fra me e costoro. Io non li comprendo; essi dovranno deridermi. In un mezzo secolo si rinnovano le idee, le tendenze, le istituzioni. Chi non ha preso parte alla graduale metamorfosi, non può essere capace di apprezzarla. «Che diverrò io il giorno in cui mi toccherà presentarmi al Comizio per dichiarare la mia dottrina? Potrò io dire cosa che già non sia stata le mille volte ripetuta, con linguaggio più eletto, dai miei correligionarii? Non ho veduto i miei dieci apostoli sogghignare sotto i baffi ogni volta che io dirigeva ad essi una domanda? Io era un dotto, io era un illustre or fanno Cinquant'anni, nell'ambiente formato da me e dai miei contemporanei. Trasferito nel nuovo ambiente, in una epoca sulla quale è trascorso lo spirito e l'attività di due generazioni, io debbo necessariamente rappresentare la figura dell'idiota. - Dio ... Che vedo? Due figure umane che volano rasenti ai tetti del palazzo di faccia! Sta a vedere che è comparsa nel mondo una specie di uomini alati! «I fratelli non rientrarono all'albergo quella notte, nè a me diè l'animo d'uscire. All'indomani, verso le 10 del mattino, li vidi entrare nella mia stanza e salutarmi con espressione sì beffarda che fui sul punto di prenderli a schiaffi. Mi annunziarono che la marchesa Sara era in vita, che abitava un sontuoso palazzo in via dei Lunatici, ch'essi l'avevano prevenuta della mia prossima visita. Balzai dal letto: come il cuore mi batteva! Di là a pochi minuti, io saliva le scale del palazzo indicato; i miei apostoli erano rimasti ad attendermi in un salotto al piano terreno. Una giovane e bella cameriera m'introdusse in un gabinetto elegantissimo, mi pregò di sedere e corse ad avvertire la signora. «Imaginate con quali ansie io invocava l'amplesso di quella donna, che già si era data a me coi voluttuosi abbandoni dell'amante! Sventurato! Io dimenticava di aver dormito mezzo secolo, poiché quel mezzo secolo per me era stato breve come una notte. Potevo io figurarmi quella donna altrimenti, che vestita delle sue forme giovanili, della sua splendida bellezza? «La porticella del gabinetto si dischiuse. Il fruscio di una veste di seta mi annunziò che ella entrava. «- Angelo mio! - gridai gettandomi a terra per abbracciarle la tunica che sporgeva dai cortinaggi. «- Tu! il mio caro Eugenietto! - rispose una voce rantolosa da vecchia decrepita; - qua dunque un bel bacio! Dio! come sei ben conservato! ... Lascia dunque ... «E mentre al mio orecchio ringhiava quella voce da nonna, due labbra di cartapecora si imposero con violenza alle mie, e mi inchiodarono sulla lingua un paio di denti posticci ... Io balzai in piedi esterrefatto ... Sputai sul pavimento i due corpi eterogenei ... e dopo aver guardato fissamente quella scarna figura di ottuagenaria, mi lasciai cadere sul divano come tramortito. «Era dessa - era proprio dessa - la mia Sara - la mia marchesa - quella che un mezzo secolo addietro mi aveva dato un paradiso di ebbrezze! ... Non riferirò tutto quello che avvenne in appresso fra me e quella donna. Noi conversammo due buone ore senza mai comprenderci; quello strano dialogo terminò con una scarica di singhiozzi. Allora la pregai perché mi fornisse l'occorrente per scrivere. E mentre io, dopo aver scritto poche linee, tornava a lei per congedarmi con un supremo e disperato addio, mi accorsi, all'immobilità del suo corpo, al pallore del suo volto, alla rigidezza della sua mano, ch'ella era morta di sincope ... «La cameriera, che entrerà fra poco nel gabinetto, troverà qui due cadaveri. A lei commetto l'incarico di consegnare ai fratelli il mio ultimo autografo, perché venga letto al Comizio. Un uomo, per quanto nobile e grande, non ha più il diritto di vivere, dacchè il suo spirito, il suo cuore, la sua esperienza son diventati un anacronismo. «MALTHUS». - Che ne dite? - chiese l'Albani al Virey, dopo aver letto. - Io dico che quell'uomo ha dato, togliendosi la vita, una prova di gran senno. Il suicidio è una delle manifestazioni più evidenti della superiorità dell'intelligenza umana. È nullameno deplorabile che la nostra razza sia tanto percossa dalla infelicità che in molti casi ci convenga invocare la morte quale unico rimedio alle angosce della nostra travagliata esistenza. Il teatro si andava spopolando, e la gente si disperdeva lentamente, in preda ad una profonda mestizia. L'Albani, svolgendo il giornale per gettare gli occhi sulla quarta pagina, nella rubrica dei Reclami privati lesse le seguenti righe a lui indirizzate: «In nome della umanità e della religione divina, il Primate Redento Albani è invitato a recarsi immediatamente a Milano nella casa a lui ben nota del sottoscritto per ricevere comunicazione di un importante avvenimento che lo riguarda. «FRATELLO CONSOLATORE». - Perché così turbato? - chiese il Virey al fratello. - Io parto per Milano - rispose l'Albani; - volete profittare della mia volante e tenermi compagnia? - Impossibile. Devo trovarmi a Pietroburgo questa sera per prender parte ad un Consulto finale36)

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

In quei momenti l'uomo guarda, contempla con gelosia avara tutte le cose che sta per abbandonare e l'ultimo quadro della scena che scompare rimane eterna fotografia nella sua anima. Così avveniva anche di me in quella mattina: ed io salutavo con immenso amore il paese delle nebbie e del carbon fossile; dei bei prati verdeggianti e dei branchi innumerevoli di montoni affumicati, delle case grige e piccine e dei turriti camini delle manifatture. Salutava quella terra da cui la musica che per caso vi aveva posto il piede fuggì per sempre, chiudendosi le orecchie, quasi non volesse udire lo strepito incessante delle macchine e il bisbiglio disarmonico degli uomini. Salutava quella terra dove gli uomini sono rozzi ma infaticabili e virtuosi; innamorati delle cose difficili e nuove; quella terra dove ogni uomo è un individuo, ogni pensiero una conquista. Intanto il nano del nostro vaporetto aveva raggiunto il Thames e lo aveva abbordato; e quel gigante smisurato sembrava piegarsi a riceverlo fra le sue braccia. Convenne far passare sul gigante tutti gli ospiti animati di quel nano. Era una scena infernale. Peggio fu poi quando gli amici e i parenti dovettero discendere dal Thames e lasciar soli i loro cari. Quanto strazio nella vita umana! Di quanti dolori può mai impregnarsi quella spugna che chiamiamo cuore! Gli stewards, gli ufficiali pregavano i parenti e gli amici a voler scendere, ed i marinai, con minor cortesia li spingevano giù dalle scale; ma cedendo all'ammonizione facevano pochi passi addietro e rigiravano poi nel labirinto dei bauli e dei cordami per ritornare ad un saluto più lungo, ad un bacio più ardente; e sulle fragili scale del Thames una catena di braccia e di corpi che si stringevano e si facean violenza crudele per distaccarsi, si componeva e si riannodava fra gli spintoni brutali dei marinai. Convenne che la campana secca e inesorabile toccasse alla partenza; convenne che il Thames indispettito per tanta indisciplina muovesse le sue ruote, perché l'amaro distacco avesse luogo, perché si vedesse sui due vapori, così disuguali di mole e così vicini, una pleiade di braccia e di moccichini che si cercavano, si salutavano, si rimandavano col pianto e colle grida mille saluti, mille affetti, mille desiderii. Il vaporetto ci accompagnò ancora, volendo gareggiare col Thames pareva che tutto quel pianto e quell'agitar di braccia e quei tenerissimi saluti facessero raddoppiare la forza dei suoi movimenti, e scivolava e correva nel solco glauco e spumeggiante che il nostro vapore apriva nelle onde del mare inglese. E finché ognuno potè riconoscere il volto dei suoi cari in mezzo a quel tramestìo di gente, e finché più lontano ancora il cuore potè discernere qual fosse il cuore che agitava il moccichino, il nano accompagnò il gigante, e poi virò di poppa e si diresse verso la costa. Allora un grido lontano, un'armonia straziante di singhiozzi e di angoscia si sentì per l'ultima volta e si perdette nel ciclopico martellar della macchina che andava conquistando l'oceano colle sue ruote smisurate. Io contemplava e meditava tristi cose. I miei compagni di viaggio si erano subito divisi in due schiere, quasi invitati da un muto cenno di comando. I più erano a poppa, i meno a prora. I primi accalcati dietro il timone sull'ultimo lembo della nave, non potevano distaccarsi dalla terra che l'occhio poteva chiamar ancora sua. Essi volevano fino all'ultimo momento raccogliere le voci e i profumi della patria, dove lasciavano tanta parte di sé stessi. I passeggeri di poppa erano gli infelici strappati alla terra che li aveva veduti nascere dalla bufera delle passioni. Là dove guardavano avevano il cimitero della madre, la culla del proprio bambino, l'albero di quercia dove una sera avevano dato il primo bacio di amore ... Era gente che piangeva e che aveva le braccia conserte convulsivamente e quasi irrigidite. A prora invece vi erano i fortunati, col sorriso sulle labbra e il petto gonfio di speranza e di gioia. Essi guardavano verso l'America, a cui ogni colpo di ruota li avvicinava; guardavano al loro nido, vedevano già la loro patria, sentivano le grida dei marinai del Brasile o del Plata, sentivano già precipitarsi giù dalle scale di una casa ben nota qualcuno che li attendeva .... Altri fra quei fortunati di prora non avevano patria o l'avevano maledetta, o temerarii si gettavano in un nuovo mondo per cercarvi l'oro, la gloria o le avventure. Davan le spalle alla miseria, alla noia o al disinganno: e per essi l'aurora della speranza dipingeva di tinte azzurrine e irradianti il lembo bigio e sconfinato dell'oceano che ci stava dinanzi. Fra i piangenti di poppa e i gaudenti di prora, pochi metri di legno e di ferro; ma un abisso senza confine e senza fondo, tutta intera la storia del cuore umano .... Ed io che ho sempre saputo con mano di ferro abbrancarmi il cuore, farlo tacere o lasciarlo palpitare caldo e ardente, contemplava e meditava. Fra quelli che stavano a prora fra il gregge volgare e inetto che trovate sempre là dove molti uomini si addensano, spiccava bella e grande una figura che ti faceva guardare e ammirare sicché tu dovevi dir subito: Ecco un uomo E quell'uomo, benché avesse i capelli neri e un lampo di fuoco negli occhi, era un inglese. Lo diceva il suo naso fine e roseo, lo diceva sopratutto quella bocca rozza ma ardita che non hanno che gli Inglesi; bocca fatta per comandare a sé stesso e agli altri, quella bocca che sembra appoggiarsi sopra un mento di ferro, quasi volesse farsene un saldo punto di appoggio per spiccare più temerari i voli nel mondo della volontà. Nelle labbra degli Inglesi vi è tutta la loro ostinazione, la loro ferocia di volontà, la loro inesauribile e instancabile attività. E quel giovane bello e appassionato aveva di quelle labbra. Gioia più pura non aveva mai veduto dipingersi in volto più bello. Quella gioia, che sembrava una ineffabile speranza, doveva essere più grande: perché quell'uomo non poteva essere egoista, in mezzo a tanto pianto e a tante scene di dolore che doveva aver veduto pochi momenti prima, non nascondeva punto la sua beatitudine. Appoggiato mollemente col braccio destro ad uno dei cordami dell'antenna, pareva baloccarsi colla ondulazione lenta della nave, e fuori di quel punto di appoggio egli era in cielo, era tutto sollevato fuor di sé stesso da una gioia senza nome. Gli occhi eran larghi, aperti fin dove l'uomo può aprirli e il volto, il collo e il petto parevano gonfiarsi sotto l'impulso interno di una forza d'espansione. Quell'uomo divorava l'Oceano e pareva vedervi il suo paradiso e la sua gioia lo faceva sospirare lungamente, profondamente, assaporando il salso aroma della brezza marina. Per certo quel giovane inglese non aveva da un pezzo goduto tanto, né a quel modo. Quando venne l'ora del pranzo, distratto dalle cure dell'acconciarmi nella mia cabina, non sentii il richiamo della campanelle e giunsi a tavola dopo tutti gli altri. Corrucciato di non poter scegliermi i miei vicini, dovetti pigliarmi l'unico posto che rimaneva. Caso strano! Quel posto non era ad una delle estremità, ma era nel mezzo della mensa; e due uomini respinti da una subita antipatia, dopo esser venuti vicini, avevan lasciato una sedia vuota fra l'uno e l'altro. Appena seduto volli scoprire la causa di quel fenomeno di elettricità morale e guardare i miei due vicini. Uno di essi (e ne fui felicissimo) era il mio inglese di prora, l'altro era uno di quegli uomini che si conoscono di dentro e di fuori dopo un'ora; ed io dopo pranzo poteva infatti classificarlo nel mio Sistema hominis in questa breve definizione zoologica: Negoziante amburghese, di anni 35, con 32 denti sanissimi ed uno stomaco da digerire il lavoro di 320 denti; tutto biondo, tutto rosso; ha sempre fame e trova assai lungo il tempo che corre tra il luncheon (ore 1 pom.) e il pranzo (ore 4 pom.) Né quel giorno, né poi fino a Bahia, dove il mio vicino era diretto, io potei penetrare d'una linea attraverso quei lardelli amburghesi. In qualunque punto si gettasse lo scandaglio, in qualunque piega del suo carattere io facessi penetrare il mio trequarti esploratore, io non trovava che lardelli e gaudio senza fine. Mi rivolsi dunque all'altro vicino, ma in quel primo giorno non potei averne che monosillabi e mi guardai bene dal turbare quella felicità sconfinata che non poteva né voleva occuparsi d'altro. Egli era di una distrazione senza pari, e quando gli domandava del sale mi dava del vino e a chi da lungi gli chiedeva una salsa, dava il pane. Sublime distrazione degli uomini veramente felici: atmosfera impenetrabile che li corazza e li isola dal mondo! Dopo il pranzo, l'onda si fece grossa, e i passeggeri si ritirarono nelle loro cabine a scongiurare quel lucifero che si chiama il mal di mare, ed io, rimasto fino a tarda notte sdraiato sopra una panchetta del cassero, vidi rimaner sempre fermo alla prora il mio inglese, che guardava innanzi a sé, e nella brevissima passeggiata che faceva, non sapeva giungere mai fino all'albero maestro e con viva impazienza ritornava presto presto, alla sua prora e al suo orizzonte di felicità, che il buio della notte non poteva nascondergli. Vi sono curiosità febbrili, ardenti, pruriginose che hanno la forza di una passione e tale era il mio desiderio di conoscere quell'uomo felice, quell'uomo dalle labbra inglesi e dal capo italiano. Un presentimento mi diceva che quell'uomo sarebbe un giorno mio amico. Io avevo allora ventidue anni, e l'ignoto o il fantastico mi inebbriavano in quella prima e calda giovinezza. Il dì seguente prima della colazione sapeva già che l'inglese si chiamava William B... Coll'ingenuità di un fanciullo io credeva con questo di aver scoperto gran cosa. Del resto, né alla colazione, né al pranzo, né nelle lunghe ore di noia marina che avvicinano tutti i viaggiatori e ne fanno una sola famiglia, io non aveva potuto attaccar discorso con William. Non fuggiva i passeggeri, ma non li cercava, e rispondeva con tanta distrazione a tutte le domande, che davvero avrebbe scoraggiato il più villano e il più sguaiato degli importuni. Sorrideva, sorrideva sempre come fanno gli uomini felici ma faceva gelare sulle labbra il discorso. Spesso aveva un sigaro fra le labbra, ma non fumava; spesso aveva un libro fra le mani, ma non leggeva; egli era solo, tutto immerso nel bagno voluttuoso d'una felicità infinita. Senza merito mio, il caso mi diede in mano la chiave per penetrare in quella fortezza. Eravamo giunti a Lisbona il 14 giugno e la sera stessa ne eravamo ripartiti. La mattina del 15 mi alzai per tempissimo e salii sul cassero per respirare l'aria fresca del mattino. William era già in piedi e stava passeggiando con le mani in tasca; io sentii subito il bisogno di mettermi a camminare dalla parte opposta alla sua, volendo rispettare quella sua felice solitudine: ma intanto lo osservava, dirò anzi, lo andavo studiando. Ad un tratto, lo vidi fare un gesto energico come di chi piglia una subita e forte risoluzione, e, accostatosi al timoniere, rivolgerli la parola. Allora dimenticai la mia delicatezza, dimenticai il santo rispetto che ho sempre sentito gagliardo per la libertà altrui, e quasi fossi giunto anch'io involontariamente accanto al timone, stetti ad ascoltare il dialogo di quei due uomini nati e cresciuti così diversamente e che in quel momento si raccostavano. - Voi dite dunque, timoniere, che fra due giorni saremo a Madera? - Sì, mio signore, purché continui il mare ad essere tranquillo come lo è ora. - Dunque, fra quarantott'ore a Madera, disse ad altissima voce William, bravo il mio timoniere, bravissimo, aggiunse, fregandosi le mani con una celerità straordinaria e contorcendosi tutto, con una vera convulsione di gioia ... Dev'essere un paradiso quell'isola. Non v'era più dubbio, quell'uomo misterioso aveva a Madera una parte di sé stesso. Il suo cuore divampava dinanzi ad un'attrazione affascinatrice; i suoi occhi ardenti, fissi nella nebbia grigia del mattino, cercavano Madera lungamente, beatissimamente. «Un uomo felice è indulgente» dissi fra me colla rapidità del lampo, e da uomo delicato diventato sfacciato del tutto, risposi io stesso invece del timoniere a quella specie di domanda che l'altro gli aveva diretta. - Sì, signore. Madera è un paradiso. William si voltò bruscamente verso di me, e accorgendosi allora soltanto della mia presenza, mi disse: - Vi siete già stato altre volte? - No, ma ho studiata con molto amore quell'isola, ho pensato tante volte di passarvi una parte della mia vita, che mi par di conoscerla, mi sembra di averla già più volte veduta. - Oh, davvero, davvero!! Ditemene qualche cosa! E, ringraziando e salutando con un cenno brusco ma cortese il marinaio che lo aveva fatto felice, William si mise a passeggiare al mio fianco dalla poppa al camino dello steamer. William era mio. Come avviene cento volte nella vita, il caso di essermi alzato un'ora prima del solito, l'accidente di essermi trovato accanto al timone in un dato momento, avevano per sempre legato a me un uomo che avevo ormai disperato di poter conoscere. Dissi a William che avevo studiato profondamente il clima di Madera, poiché da un pezzo era perseguitato dall'idea di essere tubercoloso e mi figurava sempre di serbarmi quel paradiso come l'ultima àncora di salvezza, o come una bara fiorita per riposarvi le mie ossa. Quando il mio nuovo amico seppe che io ero medico e che avevo studiato il clima di Madera, la sua espansione non ebbe più limite e se io non avessi letto a chiare note sul suo volto che egli non aveva bisogno di mutar clima per guarire i suoi polmoni, avrei potuto figurarmi che si recasse a Madera per curarvi la propria salute. Quel giorno, l'ora della colazione ci trovò ancora occupati a parlar di Madera; ed io vuotai il sacco della mia erudizione su quell'isola, felicissimo di averla studiata. In due giorni William divenne mio amico, ma io non gli diressi mai la più piccola domanda, né osai chiedergli lo scopo del suo viaggio. Accanto a lui provava fortissimo quel fascino che le menti superiori e i gagliardi caratteri hanno sempre esercitato sopra di me; accanto a lui sentiva quella potente influenza che fanno sempre provare le grandi passioni. Quale fosse la passione di William, io ignoravo, ma ero convinto che dovesse essere delle più ardenti che consumano il cuore umano; che possono fare dell'uomo, in un'ora, un Dio o un mostro; un miracolo di felicità o un inferno di dolore.

Pagina 3

Teresa

678607
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Che cosa aveva potuto indurre quello studente così poco studioso ad abbandonare una vita che sembrava oramai entrata nelle sue abitudini? Si susurrava misteriosamente, a Parma, di un amore segreto. Al di qua del fiume, il mistero si diradava di giorno in giorno: non era nemmeno piú un mistero. Tutti avevano veduto Orlandi nella via di San Francesco, e ne indovinavano il perché. Le ragazze non potevano darsi pace a pensare come mai il piú bel giovane dei dintorni si perdesse con quella Caccia, la quale non era né bella, né appariscente. E la guardavano con curiosità invidiosa, quando usciva dalla messa, facendola passare dalla testa ai piedi, commentandola sarcasticamente, a parole brevi, acute, saettanti. - È però simpatica - disse una volta Luzzi rispondendo alle sue cognatine. - Simpatica! - esclamò l'ultima delle Portalupi - ecco una parola inventata per contentino delle donne che non hanno nessuna bellezza. In casa non si sapeva ancor nulla, ma la pretora continuava a ricevere le confidenze di Teresina. - Quando fa conto di sposarti? - Appena finita la pratica. - Dove pratica? - Dal primo avvocato di Parma, il Sandri. - Tua madre non s'è accorta di nulla? - Non credo. - Diglielo. Ma questo era uno scoglio. Teresina non sapeva da che parte rifarsi; preferiva aspettare in silenzio la domanda formale. Tutto un anno passò, tranquillo in apparenza, agitato per Teresina che divideva i suoi giorni in due categorie ben distinte; quelli in cui aveva notizie di Orlandi, e quelli che scorrevano senza notizie. Ogni mattina si levava pensando: avrò lettera quest'oggi? E che pene, quanti artifizi, che lungo esercizio di ipocrisia per trovarsi sempre pronta alla finestra, quando passava il procaccio. Erano diventati amici; egli la salutava toccandosi il berretto, con un sorriso indulgente di persona pratica, di buon uomo senza malizia; lei diceva grazie, in fretta, lanciandogli un'occhiata riconoscente. E poi correva a nascondersi col suo tesoro. Ma spesse volte il procaccio non aveva nulla per Teresina; passava dall'altra parte della via, ammiccando, con un cenno impercettibile del capo. Era sempre un gran dolore, uno sgomento come se le mancasse la terra sotto i piedi; lo seguiva collo sguardo, allora, sembrandole impossibile che in mezzo a tutte quelle lettere non ve ne fosse una per lei. Di chi erano quelle lettere? Chi scriveva? Chi riceveva? Forse era accaduto uno sbaglio. La lettera di Orlandi giaceva in fondo alla sacchetta, dimenticata; forse peggio, il procaccio l'aveva recapitata per errore a qualcun altro. Quando questo dubbio si impadroniva di Teresina, era come se avesse la febbre. Non vedeva, non capiva piú niente. Passava l'ora della colazione, quella di pettinarsi, di vestirsi, di lavorare; passavano tutte le ore, lente, orribili. Teresina stava male; il cuore le doleva da scoppiare, oppure rallentava le pulsazioni, come se dovesse mancarle la vita ad un tratto. E dissimulava sempre, impassibile, girando per la casa come un automa, finché verso le quattro il procaccio tornava a passare colla seconda distribuzione; Teresina, che lo aveva aspettato tutto il giorno, lo chiamava, ansiosa, volendo assicurarsi che non avesse portata altrove la lettera di Orlandi. No, egli giurava che la lettera non v'era. Il cuore di Teresina sembrava sollevarsi un poco a questa dichiarazione; cessava il timore, ma una malinconia sottile vi subentrava, un senso di isolamento, d'abbandono, come se il mondo si sfasciasse intorno a lei, ed ogni cosa viva allontanandosi, ella rimanesse sola in un gran buio freddo. Due o tre volte, si erano trovati alle undici di sera, al solito convegno; e poiché il loro amore toccava l'apogeo dell'ebbrezza ideale, quegli incontri erano pieni di soavità, pieni d'illusione. Orlandi aveva quella tenerezza delicata dell'uomo sinceramente innamorato, che nasconde gli artigli non per ipocrisia, ma per un trasporto momentaneo dell'anima sul corpo. Teresina aveva l'abbandono fidente della donna che non provò ancora i disinganni. Varcavano entrambi il periodo piú bello della passione, la zona fulgida senza macchie. Lui non aveva detto tutto, lei ignorava molto; e, fra queste due lacune, l'immaginazione si stendeva all'infinito. Attraverso la inferriata che li separava, essi cercavano i maggiori punti di contatto, involontariamente, spinti da una irresistibile attrazione; ed era la fanciulla che, nella sua ignoranza, si offriva; era lei che avvicinava il volto, che tendeva le labbra, senza rossore, senza paura; meravigliata che il giovane si ritraesse in certi momenti, e sembrasse freddo, proprio quand'ella lo stringeva piú ardentemente. La natura, nella sua violenza e nella sua purezza, parlava a Teresina, ed ella accoglieva il piú sacro degli istinti, non deturpato da alcun pensiero cattivo. Era buona, era candida, amava; amava quel giovane che doveva essere suo marito; e, come metteva i suoi trasporti a' piedi di Dio nelle sue fervide preghiere, così non li celava a lui, ignorando le imposture della modestia, le reticenze della civetteria. Da quei colloqui ella usciva con un ricordo di felicità, che bastava a renderla felice per parecchi giorni di seguito. La sua gioia non aveva ombre. Non dubbi sulla fedeltà di Egidio ch'ella sentiva tutto suo, non ansie per l'avvenire. Unica pena, la lontananza. Ma anche questa era temporanea. Otto, dieci mesi ancora, poi Orlandi l'avrebbe chiesta in isposa, e allora tutte le porte si sarebbero aperte al fidanzato. Non poteva soffermarsi a lungo su questo pensiero, tanto la prospettiva era abbagliante. Moglie di Orlandi, col suo nome, col diritto di amarlo, colla sicurezza di essere amata, e per sempre! Ella portava nell'amore l'esaltazione fatidica dei santi per la loro fede; si sentiva chiamata, guidata da una mano invisibile. Accordi celesti risuonavano dietro di lei; sognava la sua unione con Egidio, come le vergini, chiuse nei chiostri, sognano di unirsi al Signore, misticamente, nell'elevamento dell'anima che assorbe la materia, e la trascina; arse dal bisogno di trasfondersi, arse dallo struggimento femminile che le spinge tutte, religiose ed amanti, a donarsi sopra un altare; a farsi schiave dell'uomo o schiave di Dio. Questo profondo desiderio delle catene che tormenta le belle anime di donna, ha in sé una voluttà straordinaria; esse attingono nella debolezza quelle gioie medesime che vengono all'uomo dalla forza, e trovano nel cedere una ebbrezza ancor maggiore che gli altri non trovino nel conquistare. Un altro sentimento, germogliato dall'amore, Teresina lo provava in una specie di rispetto nuovo per la propria persona. Si lavava con saponi odorosi, curava le mani con una attenzione minuta, accorgendosi per la prima volta di avere delle belle manine, volendo renderle ancor piú belle, piú morbide ai baci. - Non capisco, - diceva la signora Soave - spariscono i limoni dalla dispensa come fossero panetti. E le gemelle, ad una voce: - Teresina li adopera tutti per le sue unghie. Nel suo innocente desiderio di piacere, diventava raffinata. Non toccava né aglio, né cipolle, i giorni in cui sapeva di dover parlare con Egidio; oppure, temendo di portar con sé qualche odore di cucina, coglieva delle foglie di geranio, e se le metteva in petto. Non si trovava mai pulita abbastanza; avrebbe voluto olezzare come un fiore, per lui. La maggiore delle Portalupi si faceva sposa, non col sotto-prefetto, con un impiegatuccio di Cremona. Le orfanelle cucivano il corredo, e Teresina, che conosceva la direttrice del pio ospizio, andò un giorno a vederlo insieme alla pretora. La sola parola "nozze" le faceva battere il cuore. Si sentiva trascinata con una curiosità ardente verso quel corredo che le orfane eseguivano sopra modelli fatti venire appositamente da Milano. Le povere ragazze, un po' stupide, molte ignoranti, tutte brutte, spiegavano la biancheria, mostrando i ricami di una pazienza inaudita. La direttrice, vecchia zitella, coi peli sul mento, colla faccia indurita nell'ascetismo, toccava colle sue mani scarne la batista pieghevole, passando il lembo del grembiale sotto i trafori, per dar loro maggior risalto. - Questa ghirlandina di viole - disse la pretora. - E questo punto di Venezia - soggiunse Teresina, indicando una camicia, la cui metà superiore era tutta di trine trasparenti. La direttrice la spiegò interamente, volendo mostrare la diligenza delle sue allieve. In fondo alla camicia, dopo l'orlo, correva una gala di trine arricciate, di una leggerezza ideale. Teresina interrogò cogli occhi la sua amica. - Sono bizzarrie ... sai, in alcune circostanze. La direttrice, rigida, non comprendendo nulla all'infuori del lavoro, teneva la camicia alta, spiegata come una bandiera. Intorno a lei, le orfane cogli occhi imbambolati, le bocche aperte, guardavano in silenzio. - E tutte le camicie senza maniche? - esclamò Teresina. - Oh! - fece la direttrice con accento pudibondo - quelle per la notte no. - Quelle non si portano - mormorò la pretora. - Che dici? - sussurrò Teresina a bassa voce, sgranando gli occhi. - Dico che quelle orribili camicie alte fino alle orecchie, colle maniche lunghe, tutte a pieghe sul petto, coi manichini ed il collo rivoltati, grazie a Dio, rimangono sempre come mostra nei corredi. In pratica servono meglio le altre. La direttrice si morse le labbra, dura e corretta, prendendo un pacco di fazzoletti bianchi, e poi un altro a colori assortiti; crema, roseo, azzurrino, lilla pallido. Tutte quelle tinte giovanili, messe insieme, sembravano un mazzo di fiori, e rallegravano la bianchezza uniforme della tela, ricomparendo nei nastri delle cuffiette, negli sbuffi delle camiciuole da mattina. La fanciulla osservava tutto minutamente, colla testa bassa, attenta, volendo ritenere i disegni dei ricami, per copiarli, pensando con un po' di rammarico che ella non avrebbe mai tutte quelle meraviglie. - Abbiamo anche un corredo da bambini già pronto; desiderano vederlo? - Di chi è? - Della signora Luzzi. - Oh! la sorella. - Appunto. - È dunque vero? ... Si è fatta aspettare alquanto, eh? La direttrice non rispose. Ella non aveva l'obbligo di conoscere queste cose. La pretora diede un'occhiata superficiale al corredino. Ne erano già passati tanti per le sue mani! ed alla fanciulla che lo andava esaminando disse: - Per questo hai tempo. Teresina arrossì. - Ne facciamo dei piú semplici all'occorrenza, - soggiunse la direttrice, la quale seguiva il filo delle sue idee, impassibile - e prendiamo tutto dalle nostre clienti, la tela, i merletti ... - Bene, bene. - Si fa per queste povere ragazze che non hanno né padre né madre. Teresina guardò le orfane schierate in fila, e le parvero tutte così brutte che ne provò una compassione grandissima. Certo, nessuna fra esse avrebbe conosciuto l'amore; e, senza amore, a che cosa si riduce la vita di una donna? - Poverine! La direttrice, credendo quella parola pietosa fosse diretta alla povertà delle sue allieve, si affrettò a soggiungere: - Qui però stanno bene; il cibo è sano, il lavoro non eccessivo. Quando escono, se hanno imparata un'arte, è tutto vantaggio loro. La pretora approvò in silenzio, col capo. Teresina non era convinta di quella fortuna. Pensava ad Egidio, a' suoi sguardi di fuoco, alla stretta appassionata delle sue mani. A poco a poco si staccò dall'ambiente in cui si trovava. La sua amica parlava, in piedi, colla direttrice, ed ella, interrogata, diceva: sì, no, bello sorridendo o crollando il capo, come una macchina, senza capire. Dentro a lei, intorno a lei, un'onda di pensieri la cingeva al pari di una nube, isolandola. Erano frasi tronche, un moto delle labbra, un guizzo, un silenzio, un sospiro ... L'ultima volta che si erano trovati insieme, egli aveva detto "le mie manine" baciandole; e, ripensando a quella sera, Teresina ripeteva "le mie manine" cogli occhi socchiusi, le braccia lente, stringendosi da se stessa la mano. Si scosse quando la direttrice la salutò, ed a quel saluto fecero eco le orfanelle, in coro. Ma fuori, nell'ampiezza delle vie deserte, nel verdeggiamento degli alberi, sotto il cielo digradante in pallori da opale, la seguì quell'onda dolcemente incalzante, quell'assorbimento in un pensiero unico che tiranneggiava tutti gli altri. Alla sera, intanto che si stava spogliando, rivide la fantasmagoria delle trine, della batista ricamata, dei nastri cerulei e color di rosa. Sospirò lievemente, con un'ombra di malinconia sulla fronte, e provò ad arrotolare le maniche della sua camicia, in alto sulle spalle, per giudicare l'effetto delle camicie senza manica. Concluse ch'ella non avrebbe mai osato portarle; ma si pose a letto turbata, assalita da tentazioni che la tennero desta per molto tempo. Aveva ventidue anni, si trovava nel pieno rigoglio della giovinezza; pura, non insensibile. Il mistero della vita incominciava a farsi strada nel suo cervello; ma non avendo ancora avuta una rivelazione brutale, il fatto restava sempre soggetto all'idea. Sentiva, non sapeva; e queste sue sensazioni tentava nascondere come una colpa, appunto perché ignorava che fossero le sensazioni di tutto il mondo. Non le passava neppure per la mente che sua madre avesse potuto amare così, neanche la sua amica, né alcuna delle persone di sua conoscenza. A tutti costoro, che amava da anni, cui era legata per vincoli d'abitudine e di confidenza, non avrebbe palesato uno solo de' suoi ardori. Un pensiero che l'assaliva ogni sera, nella solitudine del suo lettuccio, nella infinita dolcezza del buio, era questo: Che cosa avrebbe fatto Egidio appena si fossero sposati? subito, il primo momento? Ella non dubitava punto che l'avrebbe abbracciata. Aveva letto qua e là, di amplessi amorosi, ricordava certe frasi, certi lembi di conversazione e le sembrava che l'abbraccio, senza l'inferriata di mezzo, dovesse essere la maggior delizia dell'amore. Chiudeva gli occhi, e si sentiva scorrere un brivido per tutto il corpo. Però, se il curato di San Francesco tuonava qualche volta contro le passioni peccaminose, se nel suo libro da messa leggeva gli anatemi scagliati contro la carne, era assalita dagli scrupoli. Si credeva allora una grande colpevole, e arrossiva nel suo lettuccio, al buio, raggomitolandosi tutta nella camicia con un pudore bizzarro. Un altro pudore strano, inesplicabile, le era venuto ne' suoi rapporti col fratello. Aspettava le visite di Carlino con ansia grandissima, per avere notizie di Orlandi, per sentirne parlare; ma non correva piú a' suoi baci; non cercava le sue carezze; non gli si metteva vicino vicino, come una volta, per fiutare l'odore del sigaro o per sfiorargli la barba nascente. Se egli la prendeva per la vita, scherzando, si scioglieva come sotto l'impressione di un malessere, quasi di una ripugnanza fisica. Si affrettava poi a correggerla con una parola affettuosa, ma una specie di acredine le restava nel sangue. In una di queste occasioni, Carlino le disse: - Come sei selvaggia! Se fai sempre così non potrai piacere molto agli uomini. Ella rimase un po' mortificata, temendo di non avere grazie sufficienti. Tuttavia sapeva bene che con Egidio non sarebbe stata selvaggia; al contrario, era sempre tormentata dal desiderio di accarezzarlo, ed uno de' suoi piaceri piú intensi, quando sarebbero maritati, doveva essere quello di abbracciarlo e baciarlo come faceva coll'Ida. L'Ida se la prendeva sui ginocchi e, incominciando dai capelli, le baciava ridendo tutto il volto, fino al mento, fino al collo, fin dietro nella nuca dove spuntavano i riccioli ribelli. Egidio però non lo poteva prendere sui ginocchi, e l'idea che si potessero invertire le parti, le procurò una delle veglie piú agitate.

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- disse una delle gemelle, indispettita di aver dovuto abbandonare il ballo così presto. Teresina rallentò il passo, ma non rispose. Era la prima volta che si trovava in istrada a quell'ora; e nella condizione di esaltamento in cui l'aveva posta l'improvviso incontro di Orlandi. avrebbe voluto camminare sola nel buio, nel fresco, nel silenzio. La sua calma fantasia di fanciulla intravedeva con meraviglia i contorni di un mondo fantastico. Le case ben note, le vie tante volte percorse, le apparivano sotto un aspetto nuovo; ma, piú ancora degli oggetti materiali, era il mistero della notte che la colpiva; quel gran silenzio freddo, quella purezza dell'aria e del suolo, che si ritemprava nella assenza degli uomini, quasi la natura volesse riprendere fra le tenebre i suoi diritti violati ogni giorno sotto la luce del sole. Mai ella aveva sentito così vivo l'istinto della libertà. Senza accorgersene riprincipiò a correre, illudendosi di essere padrona di se stessa, provando, in questo inganno, una delle gioie piú inebbrianti della sua vita. Ma la voce dell'esattore chiamò in falsetto: Teresina! - e l'incantesimo cadde. Il padre, la madre, la famiglia, il decoro, le consuetudini, tutte le catene della sua esistenza ripresero il loro posto; ella trasalì proprio come se un anello di ferro le avesse serrato i polsi. Solamente quando fu nella sua camera, prese a considerare con una freddezza, relativa, la proposta di Orlandi. Egli le aveva detto in fondo al giardino e si capiva che, dopo gli scandali occorsi, non volesse esporla alla finestra che dava sulla via. Il giardino confinava con un viottolo disabitato: ma la muraglia era alta; come avrebbero potuto parlarsi? E sopratutto che cosa le avrebbe detto? Da un anno Teresina dormiva sola in camera; le gemelle le avevano collocate, insieme all'Ida, nell'ampia camera di Carlino. Ebbe dunque tutto l'agio di riflettere e di pensare le cose piú stravaganti, così come le piú comuni, appoggiata alla sponda del letto. Quando vide che la candela, quasi interamente consumata, stava per abbruciare la carta, si spogliò rapidamente l'abito di gala, mise il solito di casa, e, soffiando sulla fiamma, si buttò così mezzo vestita sul letto per aspettare l'alba. Verso le cinque la finestra, imbiancandosi, le diede avviso del giorno che spuntava; ed ella fu meravigliata di doversi levare con uno sforzo, meravigliata di sentire il corpo in un momento come quello. Tutte le ossa le dolevano. Si pose sulle spalle uno sciallino nero, e discese le scale rabbrividendo, sbadigliando per convulsione, con un gran vuoto al posto dello stomaco. Attraversò il giardino in mezzo agli alberi secchi, sul viale bianco di brine; dando un'occhiata a destra nel cortile sfiancato della casa del pretore, ed a sinistra alla casina di don Giovanni, che sembrava sprofondarsi sotto un boschetto di magnolie sempre verdi. In fondo, sul muro di cinta, dove il fico stendeva i suoi rami nodosi, Orlandi era alla vedetta, pronto, e appena scorse la fanciulla, discese. Teresina fu sorpresa, non dell'apparizione, ma di non aver pensato prima, che quella era una via praticabilissima per un amante ardito. Si abbracciarono subito, senza parlare, quasi temessero di perder tempo. La fanciulla che aveva preparata una frase dignitosa, si trovò avvinghiata al collo di Egidio, e lo baciava sulle guancie, sulle orecchie, alla radice dei capelli, stringendosi a lui nel caldo delle sue braccia, colla sensazione di un benessere che affogava qualsiasi ragionamento. Non aveva piú freddo, non era piú stanca; tutta la sua persona era appoggiata, abbandonata su quella del giovane, in un oblìo completo di tutto quanto non fosse lui. Lo stringeva gradatamente, sempre piú forte, coll'incoscienza dell'istinto, avendo una sola idea chiara e precisa: Egidio nelle sue braccia. Egli le prese la testa, e rovesciandola indietro con un movimento brusco, la baciò sulle labbra. - Vieni con me, fuggiamo. Il suono della voce riscosse Teresina. Si allontanò dal giovane, tenendogli solo le mani sulle spalle, guardandolo inebbriata. - Vieni con me. Tuo padre non acconsentirà mai alle nozze finché non vi sia costretto. Ti condurrò a Parma, dalle mie sorelle: vuoi? Teresina non poté sapere se egli fosse venuto a trovarla con quel progetto, o se forse gli era sorto improvvisamente nel delirio del primo amplesso. Però sentiva che Egidio era sincero, e non mai come in quel momento comprese di essere amata. Ma intanto che questa certezza le innondava il cuore di una gioia immensa, come bilancia che da una parte ha raggiunto la misura, balzava dall'altra parte il terrore di far cosa sconveniente per una onesta ragazza. - No… no… non posso. Ho promesso a mia madre. - Che hai promesso? - Di non darle dispiaceri… - E di rinunciare a me? - Oh! questo no. Un lieve imbarazzo si dipinse sulla fronte di Orlandi. Circondandole col braccio la vita, se la tirò accanto, e: - Ragioniamo. Posso io presentarmi a tuo padre? - Sì ... quando hai un impiego sicuro e conveniente. - Ecco appunto quello che non ho. - Ma mi avevi scritto… - Il progetto non andò bene. Io vivo ora alla peggio, scrivendo per l'uno o per l'altro giornale. - Ma perché ti sei dato al giornalismo? - Chi lo sa! Una passione come un'altra, e che non esclude le altre ... La strinse dolcemente, cercando di nuovo la sua bocca, con un sorriso d'uomo felice. Per cinque minuti non parlarono. - Ma tu hai freddo ... Orlandi si levò il mantello e ne avviluppò Teresina con una sollecitudine quasi materna, osservandone le guance pallide, che portavano le tracce della notte perduta. - Adesso avrai freddo tu! ... - Io? ... Stava per dire: non posso aver freddo, ho cenato lautamente: ma davanti a quel visino sbattuto, sul quale tutte le astinenze imprimevano un solco, provò un senso di pietà. Sollevò un lembo del mantello, tanto da potersene coprire le spalle, e mutò la frase: - ... se mi permetti di stare qui non avrò piú freddo. Lo strinse a sé, beata, scoprendo una gioia nuova in quella protezione, sembrandole quasi di anticipare l'intimità seria e solenne del matrimonio. Era vero che sentiva il freddo. Non aveva dormito, non aveva mangiato dal desinare del giorno prima; ma anche quei brividi che l'alba le metteva nelle ossa, avevano la loro voluttà; le facevano trovare piú dolce il tepore dell'amplesso. Una parola di Egidio la turbò. - Dunque vieni? - Sai, non posso! - gli rispose colle lagrime agli occhi, serrandogli la mano disperatamente. - E allora che vuoi che facciamo? - Aspetto. Era la sua forza, la sua fede. Non sapeva nemmeno lei che cosa aspettasse; l'incerto, l'ignoto, un miracolo forse. Ma Orlandi non la intendeva così. - Cara, la gioventù passa presto; sono già sei anni che ci amiamo inutilmente. Teresina non comprese l'accento scorato del giovane. Perché diceva che si amavano inutilmente? L'amore è sempre amore, pensava, quando si ama, si spera. Ella viveva pure con quel tenue filo di felicità; perché a lui non bastava? Le venne in mente di domandargli se intendesse di continuare per tutta la vita a scrivere articoli di giornali; ma questo discorso noioso le avrebbe portato via tanti baci; e poi voleva ascoltare da lui altre parole: mio tesoro, mia vita, cara la mia Teresa Tutto ciò era importante; il resto sfumava, si perdeva in una nebbia lontana di fatalismo. Nella monotonia della sua vita, dove il pensiero solo metteva una nota ridente, questi erano i momenti di vera felicità. Si sentiva donna, si sentiva amante e amata; mentre poi, come prima, come sempre, ella non sarebbe altro per mesi che figlia ubbidiente, fanciulla riservata, buona massaia. - Probabilmente - disse Orlandi - mi stabilisco a Milano. Un subitaneo sgomento apparve negli occhi di Teresina. Milano era piú lontano di Parma; e quantunque non conoscesse la grande città, intuiva vagamente ch'egli vi avrebbe incontrato maggiori tentazioni. Il cuore le si strinse di indefinibile malinconia. Vide d'un tratto tutta la sua umiltà, la sua povertà, la sua impotenza. Ebbe voglia di dirgli: Portami via! ma la parola le morì strozzata da un singhiozzo e non poté far altro che nascondere la faccia sul petto di lui. - Vedi, vedi? Te lo dissi che questa vita è impossibile. Ho rimorso di veder sciupare la tua giovinezza; Teresa, mia povera Teresa ... - Oh! sì chiamami tua perché lo sono! Gli si abbandonò sul petto con tale impeto disperato che, per un istante, Orlandi ebbe una fiamma negli occhi, e tremò come preso dalla febbre. Ma quasi subito ella rallentò la stretta, scivolando accasciata quasi fino a terra. dove stette col viso chiuso nelle mani, il corpo piegato in due. Orlandi contemplò quella testolina di vergine prostrata davanti a lui. - Che cosa intendi di fare? - le chiese con accento grave e dolce, rialzandola. - Amarti, sempre, qualunque cosa accada, qualunque sia il mio destino. Egli accostò alle labbra la mano della fanciulla: vi depose un bacio, esitante, turbato, ridivenuto improvvisamente freddo; affettuoso, ma distratto. Ella non se ne accorse; sentiva ancora i suoi baci, lo vedeva, lo toccava. Era impossibile che pensasse ad altro. Quando Orlandi scomparve dietro il muricciolo, Teresina fu presa dalla tentazione di seguirlo, volle gridare, volle chiamarlo, ma volgendosi improvvisamente, come se avesse udito una voce, si trovò davanti alla sua casa, alla casa casta e severa, dove sua madre riposava fidando in lei; e tornò indietro a capo chino, malcontenta di quel colloquio che le lasciava una tristezza insolita, uno scoramento da cui fuggiva la fede.

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 4 occorrenze

I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

Aveva tarilo sofferto moralmente, e ora spasimava per l'atroce dolore al capo, eppur non voleva morire, non voleva abbandonare Roberto e alla vita si aggrappava con disperata tenacia. Mi salvi, dottore, - diceva ogni tanto. La salveremo, - rispondeva don Calogero, serio e turbato. Egli le aveva fatto iniezioni di chinino, convinto si trattasse di perniciosa, le faceva trangugiare cognac, le aveva fatto fomente e applicato senapismi e l'accesso della febbre non cedeva; il termometro, che le metteva perché Roberto glielo aveva imposto, oscillava sempre fra quaranta e quarantun grado. Se la febbre persisteva con la stessa violenza, Velleda doveva morire, morire irremissibilmente. Dottore, mi salvi! - ripeteva ella, figgendo su di lui lo sguardo supplichevole. Ogni volta che Velleda rivolgeva al medico questa preghiera, Roberto sentivasi agghiacciare il sangue, e, posando gli occhi in quelli di lei e stringendole la mano. cercava d'infonderle coraggio. Voglio vivere! - gridò la malata dopo una scossa violenta e poi ricadde col capo abbandonato sui guanciali e chiuse gli occhi. Roberto, spaventato, le prese la fronte fra le mani e le accostò la bocca alla bocca per sentire se respirava ancora, Vive! - esclamò, e due lagrime mute gli scesero lungo il viso. Egli non aveva mai passato una notte così straziante, così angosciosa, mai! Dopo quell' accesso, Velleda non riaprì gli occhi. Respirava affannosamente e pareva assorta in una specie di letargo. L' aria, entrandole direttamente nella gola, produceva un lieve gorgoglio, come un rantolo cadenzato, che Roberto non poteva udire. Dio, come si sentiva isolato su quella spiaggia lontana, senza soccorsi della scienza, senza poter calmare la sua ansia, senza poter chiamare al capezzale della malata tutti i medici possibili; a fine di trovarne uno almeno che sapesse suggerire il rimedio pronto, il rimedio sicuro! Vedeva don Calogero dubbioso, ricorrere ogni momento alla farmacia, chiedendo forse il suggerimento al cartellino di una boccetta; lo vedeva preparare ora una ricetta e ora un'aura, incerto forse sulla natura del male, che egli al solito aveva battezzato per infezione malarica, scosso nella sua fede nel chinino, che non faceva punto scemare la febbre, perplesso di fronte a certi sintomi che non sapeva spiegare. Quel sonno stesso lo sgomentava e a un certo punto; rialzando gli occhi dal volto alterato della malata, incontrò lo sguardo di Roberto. È imminente il pericolo? - domandò questi con voce strozzata. Non so, non so nulla, le idee si confondono; speriamo nelle forze dell'inferma. Segui a queste parole un lungo e penoso silenzio; il medico non esperimentava più rimedi, solo rinnovavate il ghiaccio sulla testa e usciva ogni tanto per andarlo a spezzare in una stanza di toilette, dove lo aveva fatto megere; Saverio si era addormentato sul ripiano delle scale e Roberto rimaneva solo presso la malata, solo a piangere senza neppure avvertire quelle lagrime, che dal cuore gli salivano agli occhi. Ora, Velleda, da rossa si era fatta livida, le labbra eransi scolorate e gli occhi chiusi parevano due globi scuri in mezzo a quel pallore terreo del volto. Ogni tanto una recrudescenza di dolore, o un brivido la faceva trasalire e ognuno di quei sussulti strappava a Roberto nuove lagrime. Gli occhi di lui erano velati dal pianto, la sua anima era immersa in un dolore infinito. Avrebbe dato la vita per veder risorgere quella creatura adorala e non poteva far nulla; - nulla! Umiliato da quella impotenza; chinava il capo non rassegnato, ma affranto, sentendo tutta la insufficienza dell'amore, tutta la insufficienza della volontà. A un tratto Velleda fece un movimento con la persona e da supina si mise di fianco; allora il gorgoglio cessò e lentamente le labbra si chiusero. Dottore, - urlò Roberto, assalito da un dubbio atroce, che non poteva esprimere con parole. Don Calogero prese il polso dell' inferma e dopo un momento disse : Le pulsazioni si fanno più regolari, la febbre accenna a declinare. Un lieve filo di speranza s'insinuò nel cuore di Roberto a quelle parole e nuove lagrime gli scesero lungo le guance. Una di quelle cadde sulla mano di Velleda; ella aprì gli occhi, fissò Roberto, e gli sorrise. Oh! quel sorriso! La vista del sole per un cieco non potrebbe procurargli piacere più intenso, gioia più grande che quel -sorriso non procurasse a Roberto. Ella, con quel sorriso gli aveva affermato che viveva, che voleva vivere per amarlo. Dopo, Velleda richiuse gli occhi e si assopì, e Roberto rimase a vegliarla con lo sguardo fisso in lei, con l'anima anelante, ma piena di speranza. I primi albori del giorno nascente penetrarono in camera senza che Velleda si destasse. Il respiro si era fatto eguale e le labbra avevano ripreso una lieve tinta vermiglia. Don Calogero, vedendola calma, si era gettato sul lettino di Maria e dormiva, ma Roberto non sentiva il sonno, non sentiva la stanchezza; sentiva di vivere per quell'affetto immenso che lo legava a Velleda, accresciuto dal timore di perderla. Egli era seduto per modo da volgere le spalle alla porta; udendo un lieve rumore alzò gli occhi e vide, nello specchio che aveva davanti, la figura di Costanza. La donna, credendo che il padrone dormisse al pari di don Calogero, si fermò e, vedendo l'inferma riposare tranquilla, volse su di lei un'occhiata sinistra, un'occhiata che non sfuggì a Roberto, il quale ebbe una percezione subitanea, e non ben definita, dei sentimenti della nutrice, che gli apparve sotto un nuovo aspetto. Egli si volse improvvisamente per non darle il tempo di ricomporre il viso e le domandò: Che cosa significa il tuo sguardo, Costanza? La donna, tremò vedendosi scoperta e tacque. Che cosa significa il tuo sguardo? - ripetè Roberto. Nulla, signore. Non mentire, - le disse accostandosi e parlandole con la bocca accosto al viso. - Che cosa ti ha fatto la signora? Nulla, poveretta, nulla. Ho dormito vestita, mi sono svegliata facendo un brutto sogno e avrò avuto la faccia sconvolta. Poveretta, sta meglio, eh! Roberto non insisté sulla domanda. La sua natura rifuggiva dall'ammettere il male e il cuore fiducioso accettava ogni giustificazione che avesse apparenza di verità. Del resto; Costanza si mostrava così premurosa per Velleda e in punta di piedi andava riordinando la stanza e faceva sparire tutto ciò che attestava delle cure affettate della notte, chiudeva le imposte perché la luce troppo viva non turbasse il senno della malata, e a vederla così attenta, così silenziosa; pareva una creatura, devota. Roberto si alzò per andare a destar Maria con un bacio, come le aveva promesso, e la perfida creatura, non sentendosi più osservata, si chinò su Velleda e mormorò fra i denti: Vivi, vivi pure per la mia vendetta, e io saprò convertire la tua vita in una agonia, in un supplizio! -Al ritorno di Roberto, Costanza era ritornata umile e. premurosa e soltanto dietro invito di lui lasciò la camera per andare a vestir Maria. Ma prima di uscire gli raccomandò di chiamarla se c'era bisogno. Don Calogero, dopo un sonno di, poche ore; si destò e dal polso capì cubito che la febbre non avrebbe continuato con violenza. "Declinava, anzi; rapidamente e il viso della malata era coperto di sudore. Credo che non ci sia più nulla da temere; andate pure ai vostri affari; - disse a Roberto. L'assenza del Varvaro obbligava Roberto a recarsi allo stabilimento. Egli non pensava più alla seduta, eletforale del giorno precedente, ne al discorso dell'Orlando ; tutto spariva dalla sua mente, eccettuato la malattia di Velleda. Col cuore riaperto alla speranza, egli si diresse dunque alla vasta fabbrica che sorgeva sulla riva del mare e dalla quale s'inalzavano pennacchi di fumo. Appena vi pose il piede, traversò con passo rapido il piazzale e andò nel suo studio ad aprire la posta. I capi-officina, vedendolo giungere, si erano affrettati a recarsi da lui. Che cosa volete? - domandò loro Roberto. Padrone, gli operai hanno letto il discorso dell'avvocato Orlando. Ebbene? Essi c'inviano per sapere se sono vere le intenzioni che vi si attribuiscono. Vere! - esclamò Roberto meravigliato. - Non mi conoscete forse? Non vi ho provato che il mio scopo consiste nel dar lavoro e nel far guerra con questo alla miseria del paese? Come può nascervi un sospetto sulle mie intenzioni? I capi-officina uscirono per riferire le parole del padrone, ma esse non distrussero il sospetto destato dallo affermazioni dell'Orlando. Quando lo avremo eletto, - diceva Giovanni ai compagni, battendo svogliatamente sui cerchi dei fusti, questi li farà fabbricare con le macchine che ha già pronte, per nulla non ha fatto quella spesa. E i falegnami ripetevano con rabbia: - E' vero; per nulla non ha fatto quella spesa! La stessa scena avveniva sul piazzale fra quelli che rotolavano i fusti, nei lunghi magazzini, dove gli operai travasavano il vino. Quando due si incontravano; accennando gli elevatori già montati accanto ai pozzi; dicevano: Quando gli avremo dato il voto, metterà in moto quelli e noi saremo licenziati. E questo timore, che si traduceva in malcontento; aveva invaso tutti e delle macchine; del tram, di quelle innovazioni che avrebbero ridotto a una proporzione ineschinissima il numero dei lavoranti, si parlava da tutti, e il lavoro languiva. Roberto, dopo aver letto le lettere, andò a sorvegliare gli operai. Perchè questa rilassatezza? - domandò a Giovanni. Perché è inutile lavorare, quando sappiamo che ci manderete via, padrone. Sì, i pigri non fanno per me e neppure i turbolenti, rispose egli. Udiste? - domandò Giovanni ai compagni appena Roberto fu uscito. - Saremo mandati via; l'Orlando aveva ragione. Roberto non aveva prestato se non una fugace attenzione a quegli incidenti: il suo pensiero era inchiodato presso l'inferma, presso la sua cara. Egli salì un momento da Franco, per dirgli che l'avvocato di Roma aveva avuto una proposta di acquisto per una vigna sulla via Salaria. Rispondigli tu; io non ho tempo ne voglia, aggiunse. Sta meglio la signora? - disse Franco. Credo, spero; ma ora deve giungere il professor Angelini da Palermo e io corro alla villa. Nonostante le esortazioni dei capi-officina, gli operai non lavorarono più non appena il padrone ebbe lasciato lo stabilimento. Soltanto il vecchio Federigo e pochi altri portavano il vino da un punto all'altro dei vasti magazzini deserti. L'officina dei fusti era vuota e Giovanni e gli altri malcontenti erano adunati sul piazzale, discutendo. Franco vedevali dalla finestra di camera sua e gioiva.

In quel momento sentì suonare una campana e vide tutti gli operai abbandonare il lavoro e correre alle fontane del cortile a lavarsi le mani e la faccia e poi dirigersi in fila di quattro verso la porta d'uscita, di fronte al mare. Dove vanno? - domandò Franco. Vanno a desinare. Venga ad assistere al loro pasto. Franco uscì pure e seguì il Varvaro verso una tettoia addossata all'ultimo magazzino di sinistra, ma quando fu a poca distanza ristette colpito di meraviglia. Gli operai in numero di circa trecento, erano seduti davanti a tre lunghissime tavole di pietra. In fondo vi era la cucina di ferro e diverse donne erano intente a colmare di maccheroni un numero grandissimo di scodelle di maiolica, mentre altre tagliavano pezzi di carne lessa e ne mettevano due fette in ciascun piatto ove già era stato posto un contorno di sedani. Le scodelle, a mano a mano che erano ricolme, venivano collocate sopra enormi vassoi di legno bianco, che due donne giravano intorno alle tavole. Ogni operaio aveva dinanzi a se un mezzo litro di vino e due pagnottelle di pan bianco. Quando la pasta era già stata servita, giunse Velleda insieme con Maria. Gli operai si alzarono rispettosamente. Non credevo d'incontrarla qui, - disse Franco alla signora. Il signor Varvaro dunque non disimpegna bene il suo ufficio di cicerone, - rispose ella in tono scherzevole, - altrimenti le avrebbe detto che vengo qui ogni giorno ad assaggiar le pietanze e che ho assuefatto anche Maria a questa ispezione quotidiana, che si estende pure agli utensili di cucina. Voglio esser sicura che i nostri buoni lavoranti mangino roba fresca e sana, cucinata in recipienti puliti. Infatti Velleda e Maria si scostarono da Franco e andarono verso i fornelli, ove furono presentati loro due piatti con un poco di pasta, un pezzetto di carne col contorno. Franco andò incontro a Velleda domandandole: - - Mi dica, signora, è anche questa una creazione di Roberto? No, le cucine sono opera mia. Quando giunsi rimasi dolorosamente colpita vedendo che nell'ore del riposo gli operai mangiavano pane e ulive, pane e sedani, e spesso il loro companatico consisteva in un paio di arance. Allora pensai che la cucina economica sarebbe stata per loro una benedizione, e tanto dissi e tanto feci, che indussi il signor Roberto a costruire questa tettoia e a comprare la cucina economica che è là. Ma era fatto il meno; occorreva avere le derrate a un prezzo discreto. Al vino ci pensa il signor Roberto, per il pane creai un piccolo forno, gli erbaggi crescono in abbondanza negli orti dipendenti dallo stabilimento, il pesce si pesca ogni giorno qui all'amo sulla gettata o con le barche; per la carne e per il resto feci appalti con i fornitori di Castelvetrano. Da principio pochi erano gli operai che volevano pagare trenta centesimi il giorno per il desinare e i più preferivano mangiar poco e male. Ma con l'andar del tempo, tutti si sono convinti che il cibo è buono e non vi è un operaio che non venga qui a mangiare. Anzi, ora ci vengono pure quelli degli scavi, così abbiamo circa trecentoventi bocche da sfamare tutti i giorni con meno di cento lire. Ma si arriva in fondo all' anno facendo qualche economia, che servirà a dotare le figliole degli operai. Questa festa è fissata all' anniversario della fondazione dello stabilimento ed ella vedrà allora suo fratello sotto un aspetto nuovo; quello di educatore di questi uomini, educatore morale e civile. Franco si morse le labbra. Era un tormento continuo cui lo sottoponevano cantando sempre le lodi di quel fortunato. Velleda, almeno, avrebbe potuto risparmiargli quella continua umiliazione! La signora non badava al dispetto del duca; ella era andata a guardare i recipienti di cucina e poi, china sopra una piccola tavola, scriveva la lista del desinare per il giorno seguente e firmava i buoni per i fornitori. Quando ebbe terminata questa occupazione, prese Maria per la mano e la fece salire su una sedia, in testa alla tavola centrale. Gli operai, intanto, avevano terminato di mangiare e vedendo la bimba ritta, si alzarono pure. Ella, con la sua vocina chiara, disse: Fratelli nel Signore. Io v'invito a ringraziare Iddio del cibo che vi ha concesso. Uno degli operai, un vecchio con la barba bianca, intonò il "Paternostro" e tutti gli altri gli fecero coro; tenendo la testa china. Signore, riprese la bimba allorché l'ultima voce ebbe pronunziato: " Amen " - benedite questi lavoratori nel loro lavoro, confortateli nelle loro pene e infondete nei loro cuori la speranza in una vita migliore che li aiuti a sopportare le traversie. Maria tacque e lo stesso operaio con la barba bianca, che aveva recitato il " Paternostro ", il vecchio Federigo, disse: Signore, benedite questa terra, benedite il nostro Re e tutta la casa Reale, illuminate i ministri che ci governano, benedite il nostro padrone che ci da lavoro e tutta la sua famiglia, e proteggete dai mali pensieri tutti noi. " Amen " - risposero gli operai e lentamente uscirono dalla tettoia seri e composti. Franco era stato colpito dalla solennità di quella semplice cerimonia e non sapeva più in che mondo fosse. Le questioni sociali, gli odii di classe gli tornavano alla mente e domandava a se stesso con qual mezzo suo fratello era riuscito a mettere in tacere le une, a far sparire gli altri, a stabilire un legame d'affetto fra lavoratori e proprietario. Velleda leggeva in volto a Franco questi pensieri e invitandolo a seguirla alla villa per la colazione, gli disse: Suo fratello è giunto al risultato di cui è stato spettatore con la giustizia e l'affetto. Questi popolani, mal guidati, sono capaci di tutte le aberrazioni: oppressi, si ribellano atrocemente, ma, come tutti i popoli primitivi, hanno il sentimento della giustizia e della riconoscenza e a quello ubbidiscono. Non creda che siano tutti santi; undici di essi hanno scontato in galera delitti di sangue, trentadue sono ammoniti, quaranta sono ascritti a circoli socialisti: ma qui nessuno osa dire una parola. In passato accadevano ogni momento furti, eppure gli operai erano frugati all' uscire dallo stabilimento. fiancavano utensili, fusti di vino, ogni cosa. Un giorno il signor Roberto li riunì nel cortile e disse loro: " Non vi chiedo di rivelarmi il nome dei ladri, perché la delazione fra compagni è una viltà; vi chiedo soltanto di indurre i colpevoli a desistere dal furto. Se continuassere, saprei scoprirli, ma non voglio, perché mi ripugna fissar gli occhi in faccia a un ladro. Da oggi abolisco la visita alla porta, ma vi prometto che non userò più nessuna indulgenza verso i delinquenti. Vuoi credere, continuò Velleda, - che non è più mancato un chiodo, nulla? Il signor Roberto conosce la via del cuore di questi uomini e li commuove. Essi sanno del resto che nel momento del bisogno possono ricorrere a lui. Se un operaio si ammala, - e la malaria infierisce qui per più mesi, - ha il salario, medico, medicine, carne e vino; se muore, la famiglia non trema. È vero che il guadagno che da lo stabilimento è assorbito in parte da queste piccole elargizioni, ma suo fratello ha la soddisfazione di veder che trecento famiglie vivono bene, mercé la sua attività, ed è questa una gioia che non ha eguale nella vita. Ella ammira molto mio fratello? - domandò Franco a denti stretti. Lo ammiro come l'ideale fatto realtà, come si ammira l'uomo che ha un cuore capace di sentire tutti i dolori altrui e d'indovinare tutte le aspirazioni. Nessuna creatura ha mai mangiato il pane di un altro con maggior devota riconoscenza; se io credessi che la mia vita potesse essergli utile, gliela darei con la serenità di una martire, benedicendolo per il dono che si degnerebbe accettare da me. Com'è innamorata di Roberto! - pensò Franco, e come si vanta di quest'amore! Parlando erano giunti alla villa. Nel viale dei palmizi li attendeva il sotto direttore degli scavi, il Lo Carmine, che Velleda aveva invitato a colazione e che presentò subito a Franco. Era un ometto piccolo, brutto, col naso butterato e vestito semplicemente di tela; aveva in testa uno di quei caschi di paglia, coperti di tela, che usano gl'inglesi nelle Indie e i viaggiatori africani. Egli goffamente offrì il braccio a Velleda, con la quale pareva in grande dimestichezza e Franco rimasto a dietro con Maria non potè trattenersi dal dire: Come è buffo quel vostro amico! Ti pare, zio Franco? Io non me n'ero mai accorta, è tanto buono e vuol tanto bene al babbo. La signora Velleda non ti ha mai fatto osservare che era un uomo buffo, volgare, impresentabile? No, Leda mi dice che ha un carattere onesto, che è molto studioso e molto dotto, ma della sua apparenza non abbiamo mai parlato. Dunque è buffo, e in cosa consiste questa sua ridicolaggine, zio Franco? Nel modo di camminare, di salutare, di vestirsi; ti pare che somigli a tuo padre o a me? No, - rispose la bambina. - E ora che me lo fai osservare, par buffo anche a me; mi dispiace perché gli voglio bene. La colazione era preparata nella stessa sala ove avevano pranzato la sera prima. Le grandi finestre erano chiuse a motivo dello scirocco e in questa stanza protetta dalle piante e rivestita di maiolica, regnava un fresco delizioso, mentre fuori l'afa era opprimente. Franco respirò e prese il posto assegnatogli da Velleda, fra questa e Maria, che egli si divertiva a trattar da signora facendola ridere. La conversazione si aggirava sugli scavi intrapresi nell'antica cittadella di Selinunte e ai quali lavoravano in quel tempo appunto. Il Lo Carmine, che era leggermente balbuziente, nel parlare di una cosa che stavagli tanto a cuore, faceva sentir maggiormente quel difetto di pronunzia e non riuscendo a pronunziare le parole speditamente, s'inquietava e diventava rosso. A un certo momento, in cui il professore non riusciva a dire che in quella mattina appunto aveva scoperto il cardine della porta della cittadella che metteva al mare, Franco guardò Maria, e la bimba si mise a ridere. Velleda aveva capito tutto; con una occhiata la richiamò al dovere e poi continuò la conversazione, alla quale Franco restava indifferente. Però accorgendosi che Velleda se ne affliggeva per il buon professore, si rivolse a Lo Carmine, e gli disse bonariamente : Io, caro professore, sono un grande ignorante e le chiedo scusa di non averle prestato tutta quella attenzione che meritava. Giungo da una terra classica per eccellenza, ma noi, romani moderni, del classicismo ci occupiamo poco e non guardiamo neppure i ruderi che attestano il grande passato della nostra città. Qui è peggio ancora; vedo colonne abbattute, sento parlare di scavi, di acropoli e di cittadelle, ma non so neppure che cosa fosse Selinunte in antico; vuole farsi mio maestro e mia guida attraverso l'antica città? Quando mi avrà istruito un poco, le prometto che non sarò più distratto come dianzi. Il duca aveva posto tanta grazia signorile nel confessare la propria ignoranza, che il professore ne rimase soggiogato e si affrettò a mettersi a disposizione del giovane. La prima visita ai templi fu fissata per la mattina dopo alle sette, poiché il sole era troppo caldo nelle ore successive. Zio Franco, - disse Maria quando si furono alzati da tavola, - perché non insegni anche tu qualcosa al professore? Che cosa potrei insegnargli? Egli è tanto dotto e io non so nulla. Insegnargli a mangiar meglio. Ah! birichina, te ne sei accorta anche tu della sua goffaggine. Oggi per la prima volta, zio; prima no. Come mai ridevi a tavola? - domandò Velleda alla piccina quando furono sole. Non lo so, - rispose arrossendo Maria. Vedrai che se ci pensi, te ne rammenterai. Ah! si; ridevo perché lo zio mi aveva guardato. Ridevi di lui? No; sai il Lo Carmine balbettava, e io non potevo star seria. Ma ha sempre balbettato e tu non hai mai riso ; mi dispiace veder mettere in ridicolo una persona per bene; tuo padre sarebbe dispiacentissimo se lo sapesse. Leda, non glielo scrivere, non lo farò più. Lo zio Franco mi aveva fatto osservare che il Lo Carmine era tanto buffo e quando l'ho visto arrossire, ho riso. Quella influenza malsana, che Roberto temeva per Maria, ecco che già manifestavasi. Oh quel Franco! Bisognava tenerlo lontano, assolutamente lontano, se no avrebbe avvezzata falsa la piccina; avrebbe disseccato in lei ogni sentimento di generosità, sviluppando gl'istinti malvagi che sono allo stato latente nel cuore di ogni bimbo. Toccava a Velleda a difenderla, quella piccina; toccava a lei; ma come fare? In preda a questi pensieri ella rimase triste tutto il giorno e non ebbe la forza di scrivere a Roberto una lettera serena. Aveva il presentimento che la presenza di Franco sarebbe stata fatale a tutti e non voleva che la penna la tradisse. Per questo annunziò con un telegramma l'arrivo di Franco e spedì la lettera tedesca di Maria, senza farvi nessuna postilla, riserbandosi a scrivere il giorno seguente.

Negli anni trascorsi nell'attesa di una parola d'amore, donna Paola sarebbe stata pazza di gioia se Franco le avesse detto di abbandonare il marito, di calpestare tutte le convenienze sociali, pur di appartenergli; ma perché, perché ora non provava nessuna gioia, anzi si sentiva invasa da una mortale tristezza? Ecco; io lo so perché non posso rallegrarmi. Franco non mi ama. In un momento di tenerezza egli ha avuto pietà di me. Egli vuoi darmi una consolazione, vuol farmi l'elemosina di una parvenza d' amore. Poi mi dimenticherà. Ma non fosse che una felicità fugace, io la voglio gustare; poi ... poi io lo amerò tanto da intenerirlo e legarlo a me. Questo pensiero la consolava ed ella lasciava il cantuccio solitario per avvicinarsi a lui. Mentre gli si accostava, lo vide prendere per la mano la bella Guendalina, dicendole : Principessa, facciamo un boston? Io desidero ballare con lei stasera: sarà l'ultima volta che balleremo. Per quest'anno - ribattè la principessa. La conversazione era stata udita dalla marchesa Paola. Tutta la sua serenità era svanita a un tratto e stava per ritornare al suo cantuccio, quando il conte Lewes la invitò a ballare. Il maggiore di Bellegarde s'era messo al pianoforte e già preludiava. Il duca cinse la vita della principessa di San Secondo e dette il segnale del ballo. Soltanto verso le due gli invitati del duca di Astura lasciarono il "palazzo di via Veneto. Eranco accompagnò le signore nell'anticamera, e nel mettere il mantello sulle spalle di Paola le susurrò nell'orecchio: Si rammenti, marchesa, domattina alle undici; dal cancello del giardino. Verrò, - rispose lei trasognata. Ora, - disse fra sé il duca di Astura, - il libro della vita si chiude. Prepariamoci a morire, - e con passo sicuro salì nella sua camera.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Il maestro di scuola non credeva ben fatto di abbandonare i suoi scolari; ma l'am- miraglio e i quattro sapienti appoggiarono l'idea della cuoca. Fu sbarcato il maestro, e la nave partì. L'incrociatore mandato incontro alla nave di Bengodi la oltrepassò la notte senza neppur vederla, e la mattina l'ammiraglio guardando con un cannocchiale l'orizzonte, esclamò: - Ora siamo salvi; ma quale scopo daremo al nostro viaggiò? - I sapienti proposero di fare un viag- gio di scoperta scientifica, e l'ammiraglio accettò. Ma nessuno sapeva quale scoperta fare. I filosofi pensavano; l'ammiraglio, se- duto a poppa, coi trampoli celesti e rossi nell'acqua, pensava; la cuoca, mentre fa- ceva il pranzo e puliva la coperta, pen- sava. Dopo diverse ore l'ammiraglio, rivol- gendosi, vide i sapienti col capo nel sacco. Gli dissero che pensavano meglio al buio. Passarono i giorni, e i sapienti col capo nel sacco, pensavano sempre; l'am- miraglio aveva sempre i trampoli nell'ac- qua, e la cuoca cucinava e pensava. Quando il bastimento non aveva il vento in poppa, essa moveva il timone a destra e a sini- stra, e così modificava il corso della nave. - Se sapessi quanti anni ha il minore di quegli aristocratici, - disse un giorno l'ammiraglio —potrei stabilire quanto dob- biamo ancora navigare prima che siano grandi. Allora andremo a prenderli per condurli a Bengodi. - La cuoca si rammentava che il minore di quei ragazzi aveva dieci anni, e l'am- miraglio fissò che dovevano navigare sette anni precisi. E così fecero. I sapienti col capo nel sacco si lambiccavano il cervello per fare una scoperta utile. Il giorno dopo gli aristocratici erano stati rinchiusi nelle stanze più belle del palazzo reale, la Regina aveva mandato loro un messo per dire che l'idea di mettere il capo nel sacco era molto divertente, e che sarebbe loro molto tenuta se volevano mandarle il modello dei sacchi. Il messag- giero aveva cesoie, carta e spilli, e i ra- dazzi tagliarono un sacco coi fori per gli occhi, il naso, la bocca e gli orecchi, e mandarono il modello alla Regina, la quale ne fece due per le sue serve, e li mise loro in capo, ridendo come una matta. Il Re vide quelle serve in anticamera e fu spaventato. Subito adunò il consiglio dei ministri. - Siamo minacciati da un gran pe- ricolo, - disse quando tutte le porte furono chiuse. - Vorreste vivere con la testa nel sacco? Per me, credo sia meglio star fermi per sempre. Il bastimento che non potem- mo catturare ritornerà carico di sacchi, e fra poco ogni testa sarà messa in un sacco. Già si vedono i segni dell'avvicinarsi di quel giorno nefasto. Benchè quei pericolosi individui che inventarono quel supplizio siano rinchiusi, due serve del mio palazzo hanno già la testa nel sacco. - Un grido d'orrore accolse le parole del Re. Fu stabilito, dopo lunga discussione, che una sentinella fosse posta in vedetta sulla torre più alta della città, per scoprire l'avvicinarsi del bastimento; nuove guardie furono collocate alle porte degli aristocra- tici, e fu ordinato che la città fosse visi- tata per vedere se si scoprissero nuovi casi d'insaccamento. Gli aristocratici incominciarono ad es- sere molto malcontenti. Benché non man- casse loro nè da bere nè da mangiare, ed avessero ogni specie di balocchi, pure erano stanchi di sentirsi prigionieri. - Vi domando che affare è questo? - disse Codino. - Io non intendo star più qui. Andiamocene. - Ma come faremo ad andarcene? - chiesero gli altri. - Vedremo se si può uscire. Qualun- que cosa è preferibile a questa prigionìa. - Dopo lunghe discussioni, stabilirono di fuggire. Le finestre non erano molto alte da terra, ma sempre troppo alte per fare un salto; e nelle stanze non vi era nulla di solido che potesse far le veci di una corda. I lenzuoli, i cortinaggi, tutto era di tela finissimo, e di tulle. Finalmente Alle- grone fece una proposta. Le stanze erano grandi e pavimentate con assi di legno pre- zioso, che ne occupavano tutta la lunghezza. Dovevano levare una di quelle assi, appog- giarne una estremità alla finestra e l'altra giù in terra. Così avrebbero potuto scivolare lungo l'asse e fuggire. Subito ogni aristocratico si diede a la- vorare, e chi col coltello, chi con un pez- zetto di ferro, tolsero i chiodi d'argento che fermavano l'asse al pavimento. - Questa è una pazzia, - disse Ca- porione - vedrai che cadremo tutti. - Non c'è pericolo, - disse Allegrone - e suggerì di ungere l'asse con l'olio del lume; quindi l'appoggiarono alla finestra. A uno per volta i ragazzi scivolarono per terra e andarono a rotolare sull'erba, ad una certa distanza. L'ultimo a scendere fu; Allegrone, che tirò a sè l'asse perchè le guardie non sapessero come fare ad inse- guirli. Era quasi buio e i ragazzi non sape- vano dove passar la notte. Essi giunsero ad un fabbricato le cui porte erano chiuse, ma non serrate a chiave, e vi entrarono. Quell'edifizio era una libreria che veniva chiusa presto la sera e aperta tardi la mat- tina. Gli aristocratici si misero comoda- mente a sedere e accesero i moccoletti che ognuno aveva in tasca. Allora discussero. Allegrone disse che il bastimento, un giorno o l'altro, sarebbe tornato a prenderli, per- chè l'ammiraglio non avrebbe avuto il co- raggio di presentarsi senza di essi ai loro rispettivi genitori. La quistione più urgente era quella di sapere come vivere mentre aspettavano la nave. Per dormire potevano star sicuri dov'erano, ma per mangiare bi- sognava guadagnarselo. Dopo lunghe discussioni, dopo una vo- tazione contrastata, fu stabilito che i ra- gazzi avrebbero fatto i portalettere per gua- dagnarsi il pane. - Ma le lettere da portare dove sono? - chiesero alcuni fra i più grandi. - Vedremo domattina, - disse Allegrone - c'è tempo prima che aprano le botteghe. - La mattina si diedero a cercare, a fru- gare, e trovarono nella libreria molte let- tere lasciate lì prima che la città fosse con- dannata all'immobilità. Ogni ragazzo ne prese alcune e andò in giro a portarle per le case. Gli abitanti le leggevano con pia- cere, perchè molte contenevano notizie im- portanti per essi; perciò davano la mancia a chi gliele portava. E ogni giorno alcuni abitanti ricevevano lettere, e ogni giorno i ragazzi avevano alcune monete. Quando il Re fu informato della fuga dei ragazzi, sapendo che non avevano da vivere, esclamò: - Tanto meglio! morranno tutti di fame e noi saremo liberati da quegli ari- stocratici! - Ma la vedetta rimaneva sempre sulla torre della città, poichà nessuno sapeva quando sarebbe giunta la nave cogli altri insaccatori. Un giorno che Caporione distribuiva le lettere, incontrò un vecchio, che rico- nobbe per il maestro di scuola. Da prima ebbe voglia di fuggire, ma quando il vec- chio lo chiamò, si abbracciarono piangendo, e la pace fu fatta. Quella notte il maestro dormì nella libreria, e le sere successive pure; il maestro sceglieva i manoscritti e i libri istruttivi, e faceva lezione agli ari- stocratici, i quali in poco tempo acquista- rono utili cognizioni. Essi salivano spesso sull'alta torre per vedere se giungeva il bastimento, avendo inteso dire che si scor- geva una nave con le vele rosse e azzurre. Ma passavano gli anni senza che vedes- sero una bandiera. Un giorno lessero sulle cantonate un bando del Re, che ordinava ai cittadini di chiudere porte e finestre e ritirarsi nelle case, perchè la città era minacciata da un nuovo incantesimo. Gli aristocratici ne era- no disperati. Come dovevano fare a vivere senza il rifugio della libreria e senza poter portare le lettere? Andarono dal Re a proporgli di salire novamente la scala finchà la città non fosse tornata alla vita. - Sapete a che cosa v'impegnate? - osservò il Rè - e se le forze non vi ba- stassero? - Risposero che lo sapevano ed erano sicuri delle loro forze. Anzi, era più facile che resistessero alla fatica di salire, perché erano assai più grandi e assai più forti della prima volta. Il Re li riconobbe e Allegrone dovette raccontargli la vita che avevano fatto dopo la fuga. Il Re si mostrò contentissimo e ac- cettò l'offerta di salire la scala. Sali, sali, la scala girava sempre. Fi- nalmente si fermò, e la città fu libera per altri dieci anni. Gli aristocratici vennero colmati di onori e di regali, in segno di gratitudine, dal Re e dal popolo e furono alloggiati sontuosamente nel palazzo, insieme col mae- stro di scuola. La libreria fu aperta ogni sera al pubblico, affinchè potesse leggere ed istruirsi. Dopo un anno giunse in porto la nave con l'ammiraglio. I sapienti si tolsero il sacco di testa; erano diventati vecchi e magri, e abbracciarono gli sco- lari che erano diventati grandi e forti. In capo a pochi giorni la nave salpò per il paese di Bengodi. I ragazzi furono accolti con gioia in quel regno, e ovunque si sparse la notizia del servizio che avevano reso al Re della città incantata.

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679073
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Marco, il mio buon servo, mi ha fatto abbandonare il Paradiso per venire fra voi a risolvere una controversia. - Se siete la Madre del Signore, non permettete che mi si tolga il figlio che mi avete dato. - Se siete la Regina del Cielo, fatemi rendere ciò che mi è legalmente dovuto, - aggiunse Corrado sfrontatamente. - Ascoltatemi, - ordinò Maria. - Tu, Ubaldo, e tu, Imelda, avvicinatevi a me; fin qui io non vi diedi altro che le gioie della vita; ora voglio far di più per voi due: voglio darvi le gioie della morte. Voi mi seguirete nel Paradiso del Figlio mio, ove non penetrano altro che gli eletti, ove i dolori, i tradimenti, le malattie sono ignoti; in quanto a te, Corrado, sei nel pieno diritto, se vuoi, di dividere la nuova proprietà che è stata concessa ai tuoi cugini, e morrai come loro; ma per discendere bensì nelle profondità dell'Inferno, dove sei atteso per i gravi peccati commessi. Il Demonio ti farà lieta accoglienza nel suo regno dei dannati. Nel terminare queste parole, la Vergine stese la mano, e il Gigante scomparve in una voragine, mentre i due sposi e il bambino s'inchinavano uno sull'altro come una famiglia addormentata e sparivano nell'azzurro del cielo, trasportati da una nuvoletta vaporosa. Nel luogo ove avvenne il miracolo, la gente del paese costruì un santuario, e gli afflitti e i devoti vi recarono copiose offerte di monili d'oro e di gemme. Una notte i saraceni sbarcarono, non visti, sulla spiaggia vicina, e dopo aver saccheggiato il castello, che era guardato da pochi monaci, ritornarono ai loro bastimenti, portando seco tutti i voti ricchissimi e dando fuoco al castello. Però la memoria del miracolo è viva ancora negli abitanti del contado, e nessuno passa dinanzi al luogo dove sorgeva il castello del barone Federico, senza dire: - Vergine benedetta, fatemi morire come Ubaldo, Imelda e il loro bambino! La vecchia aveva appena cessato di parlare, quando Beppe tornò col mulo sull'aia. - Se sapeste, babbo, quante domande mi hanno fatto quei due signori che ho accompagnati! Volevano sapere quanti si era, che cosa si faceva tutti radunati sull'aia, e chi era quella bella sposina che li aveva invitati a rinfrescarsi. Hai capito, zia Vezzosa? - Spero che tu avrai risposto garbatamente, - disse la Carola, mentre la cognatina arrossiva. - Lasciate fare a me, che a parlare non mi vergogno. E volete un po' sapere chi è quel signore? - Sicuro che lo vogliamo sapere. - Ebbene, è il nuovo ispettore forestale. Il sor Paolo, che è stato a Camaldoli fino a ora, va in Piemonte, e questo è venuto a far vedere alla moglie se le piace il posto prima di condurla lassù. Lui c'era già stato, perché ha fatto gli studî a Vallombrosa, ma la moglie no. A proposito, il sor Paolo, che era venuto incontro ai forestieri, quando li ha visti ed ha sentito che volevan ripartire domani, s'è subito opposto. Vuole che restino da lui qualche giorno. Perciò la signora mi ha detto di avvertire la garbata sposina che domani non ripasseranno, e fino a domenica non scenderanno a Camaldoli. - Proprio il giorno di Pentecoste! - esclamò Vezzosa. - Tanto meglio, così ci troveranno tutti in casa e non interromperemo le nostre faccende per riceverli. - Sapete che cosa diceva il nuovo ispettore? - disse Beppe rivolto al babbo suo. - Che quassù vi è bisogno di rimboscare, e che egli vuole in pochi anni coprire le nostre piagge di abeti, come c'erano al tempo antico. - Tanto meglio, - disse il capoccia, - il legname è la ricchezza di questi posti. Mi contenterei che ci distribuissero degli alberi giovani da piantare. - E li distribuiranno! - rispose Beppe con tono sicuro. - Con quel signore non mi perito a parlare, e glielo dirò. - Via, ciarlone, va' a letto! - ordinò la Carola, - domattina bisogna esser desti all'alba, che il da fare non manca. Beppe si alzò a malincuore, perché aveva voglia di raccontare dell'altro; ma prima di andare a letto consegnò a Maso le due lire che aveva avuto dai signori, e mormorò nell'orecchio alla Regina: - Dite, nonna, la novella che non ho udito, me la raccontate domani? - Sì, - rispose la vecchia sorridendo a quel suo nipotino, nel quale le pareva di riveder Maso, - domani avrai la novella e parleremo dei signori. - Se volete ve ne parlo subito, - rispose Beppe. - Lei è una donnina garbatissima, ma che parla poco; il marito è un uomo gioviale e vuol bene alla moglie quanto ... indovinate un po', nonna, quanto? - Ci vuol poco: quanto Cecco a Vezzosa. - Per l'appunto! - Senti che confronti fa quel monello! - esclamò Cecco. - E che ne sai tu del bene che voglio alla mi' moglie? - Dovrei esser cieco per non accorgermi che gliene vuoi tanto, tanto; ma anche la Vezzosa te ne vuole, e di molto. - Via, a letto! - ordinò la Carola. E il ragazzo non se lo fece ripetere, perché con la mamma non si scherzava.

E mentre tutti i cittadini bevevano, cantavano e giuocavano, padre e figli stavano rinchiusi nella loro casetta, pregando il Cielo di non abbandonare la loro città. E le loro preghiere furono udite in Cielo, dove le preci degli umili e dei buoni vengono trasportate dagli Angeli Custodi. E la Madonna s'impietosì sulla sorte di Bibbiena per l'intercessione di quel padre e di quei figli riconciliati dal Romito, e mandò loro una ispirazione. - Perché, - disse un giorno il padre, - non andiamo noi nel bosco a supplicare il Romito di riprendere le sue prediche? Egli, come quelli che sono mossi da vero spirito di carità, saprà affrontare i pericoli e trionferà del Demonio. Andiamo. E mentre la città era tutta immersa nei tripudî e nei sollazzi, il vecchio e i suoi due figli ne varcarono le mura, e andarono nel bosco. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Se non ora quando

680503
Levi, Primo 1 occorrenze

Ulybin ordinò di prepararsi ad abbandonare il campo. Le slitte, ormai inutili, furono bruciate; carri non ce n' erano né c' era il tempo di procurarsene. Per il trasporto delle salmerie non c' erano che i due cavalli e le spalle degli uomini: una carovana di facchini, non un trasferimento di combattenti. Molti degli uomini protestavano, avrebbero preferito restare nel campo e far fronte ai tedeschi, ma Ulybin li mise a tacere: rimanere sul posto era impossibile, e del resto l' evacuazione del campo era stata ordinata via radio. La radio aveva anche segnalato la direzione più opportuna per filtrare attraverso l' accerchiamento delle forze antipartigiane: verso sud-ovest, risalendo il corso della Stviga, ma senza abbandonare la fascia delle paludi. Col disgelo, e con il loro labirinto di istmi, di stretti e di guadi, erano ridiventate un terreno amico. Avrebbero dovuto partire nella notte sul 2 di maggio, ma a sera le sentinelle diedero l' allarme: avevano sentito rumori a nord, voci umane e latrati di cani. Molti uomini diedero mano alle armi, incerti se prepararsi a resistere o anticipare la ritirata, ma Ulybin intervenne: _ Tutti ai vostri posti, stupidi, bambocci! Avanti con i preparativi, legare i sacchi, chiudere le casse. Siete nati ieri? I cani dei tedeschi non abbaiano, se no che cani da guerra sarebbero? Si rivolse alle sentinelle: _ State in guardia, ma non sparate. È probabile che sia gente amica: hanno mandato avanti i cani a cercare la pista attraverso le mine. Infatti arrivarono prima i cani: erano solo due, e non cani da guerra ma modesti cani da pagliaio, eccitati e disorientati. Abbaiavano nervosamente, ora verso le baracche, ora verso gli sconosciuti che tardavano a seguirli, fieri del dovere compiuto, inquieti per le nuove presenze umane; scodinzolavano e ringhiavano alternativamente, o anche simultaneamente; balzavano avanti e indietro, danzavano sul posto con le zampe anteriori rigide, e latravano a perdifiato aspirando aria a intervalli con un rantolo convulso. Poi si videro arrivare due vacche, cacciate avanti da giovani sbrindellati: badavano che le bestie non uscissero dalle piste tracciate dai cani. Infine arrivò il grosso della banda, una trentina di uomini e donne, armati e disarmati, stanchi, laceri e baldanzosi. In mezzo a loro c' era un uomo dal naso aquilino e dal viso abbronzato: portava a tracolla un parabellum e un violino. In coda al gruppo c' era Dov. Mendel disse tra sé: "Benedetto Colui che resuscita i morti". Nacque un trambusto, tutti facevano domande e nessuno rispondeva. Prevalsero alla fine le voci di Ulybin e dell' uomo alto, che era Gedale. Che tutti facessero silenzio ed aspettassero gli ordini; Ulybin e Gedale si ritirarono nello sgabuzzino del comando. Molti degli uomini di Turov ricordavano la lite che era scoppiata fra i due all' inizio dell' inverno; che cosa sarebbe successo ora, in questo nuovo incontro? Si sarebbero riconciliati, davanti alla minaccia imminente? Avrebbero trovato un accordo? Mentre si attendeva l' esito del colloquio, i nuovi venuti chiesero di essere accolti nelle baracche ormai sgombre; alcuni sedettero a terra, altri si sdraiarono e si addormentarono subito, altri ancora chiesero tabacco, o acqua calda per lavarsi i piedi. Chiedevano con l' umiltà di chi ha bisogno, ma con la dignità di chi sa di avere diritto: non erano mendicanti né gente girovaga, erano la banda ebraica radunata da Gedale, composta dai superstiti delle comunità di Polessia, Volinia e Bielorussia; una aristocrazia miseranda, i più forti, i più astuti, i più fortunati. Ma alcuni venivano da più lontano, per strade piene di sangue; erano sfuggiti ai pogrom dei saccheggiatori lituani che uccidevano un ebreo per avere un lenzuolo, ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga. C' erano fra loro i pochi sfuggiti al massacro di Ruzany: avevano vissuto per mesi in tane scavate nel bosco, come i lupi, e come i lupi cacciavano silenziosi in branco. C' erano gli ebrei contadini di Blizna, dalle mani indurite dalla vanga e dalla scure. C' erano gli operai delle segherie e delle tessiture di Slonim, che prima ancora di incontrare la barbarie hitleriana avevano scioperato contro i padroni polacchi ed avevano conosciuto la repressione e la prigione. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva sulle spalle una storia diversa, ma rovente e pesante come il piombo fuso; ognuno avrebbe dovuto piangere cento morti se la guerra e tre inverni terribili gliene avessero lasciato il tempo e il respiro. Erano stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti; figli di mercanti, sarti, rabbini e cantori, si erano armati con le armi tolte ai tedeschi, si erano conquistato il diritto ad indossare quelle uniformi lacere e senza gradi, ed avevano assaporato più volte il cibo aspro dell' uccidere. I russi di Turov li guardavano inquieti, come avviene davanti all' inatteso. Non riconoscevano in quei visi smunti ma determinati il zid della loro tradizione, lo straniero in casa, che parla russo per abbindolarti ma pensa nella sua lingua strana, che non conosce Cristo e segue invece i suoi precetti incomprensibili e ridicoli, forte solo della sua furberia, ricco ed imbelle. Il mondo si era capovolto: questi ebrei erano alleati ed armati, come gli inglesi, come gli americani, e come tre anni prima era stato alleato anche Hitler. Le idee che ti insegnano sono semplici e il mondo è complicato. Alleati, dunque: compagni d' armi. Avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro. Qualcuno tentava un sorriso impacciato, un timido approccio con le donne scarmigliate, infagottate nei panni militari fuori misura, dai visi grigi di fatica e di polvere. Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo. Il muro dell' incomprensione ha due facce, come tutti i muri, e dall' incomprensione nascono l' imbarazzo, il disagio e l' ostilità; ma gli ebrei di Gedale non si sentivano, in quel momento, né imbarazzati né ostili. Erano allegri, invece: nell' avventura ogni giorno diversa della Partisanka, nella steppa gelata, nella neve e nel fango avevano trovato una libertà nuova, sconosciuta ai loro padri e ai loro nonni, un contatto con uomini amici e nemici, con la natura e con l' azione, che li ubriacava come il vino di Purim, quando è usanza abbandonare la sobrietà consueta e bere fino a non saper più distinguere la benedizione dalla maledizione. Erano allegri e feroci, come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti a vendetta. E l' avevano gustata, la vendetta, pur pagandola cara: a diverse riprese, in sabotaggi, attentati e scontri di retrovia; ma anche di recente, pochi giorni prima e non lontano. Era stata la loro grande ora. Avevano attaccato, da soli, la guarnigione di Ljuban, ottanta chilometri a nord, dove stavano confluendo truppe tedesche ed ucraine destinate al rastrellamento; nel villaggio era anche un piccolo ghetto di artigiani. I tedeschi erano stati cacciati da Ljuban: non erano di ferro, erano mortali, quando si vedevano sopraffatti scappavano in disordine, anche davanti agli ebrei. Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, una immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano fuggiti davanti a loro, entravano nell' acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente, e loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell' ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell' acqua gelata come le rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paragonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non c' erano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell' accerchiamento doveva proprio essere dove pensava Ulybin: a sud-ovest, lungo la Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bianchi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: _ A un malato si domanda, a un sano si dà, _ ma aveva più fretta di raccontare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. _ Quanto tempo è che parlano, quei due? Un' ora? È buon segno: più parlano e più vanno d' accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All' ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l' aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. _ Non c' era il tetto, non c' era da mangiare e non c' era l' anestesia, ma c' erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal ginocchio, un osso, e me lo hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno operato, alla luce dell' acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c' è la fortuna, anche un bue partorisce. È venuta una visita, uno importante, del Politburò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l' aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che tutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire .... Si udì la voce di Piotr: _ Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia, gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi _. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. _ ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io gli ho risposto che la mia casa è troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale ed Ulybin, e tutti tacquero.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Prendi dunque la soluzione di solfato di rame che è nel reagentario, aggiungine una goccia al tuo acido solforico, e vedi che la reazione si avvia: lo zinco si risveglia, si ricopre di una bianca pelliccia di bollicine d' idrogeno, ci siamo, l' incantesimo è avvenuto, lo puoi abbandonare al suo destino e fare quattro passi per il laboratorio a vedere che c' è di nuovo e cosa fanno gli altri. Gli altri facevano cose varie: alcuni lavoravano intenti, magari fischiettando per darsi un' aria disinvolta, ciascuno dietro alla sua particola di Hyle; altri girellavano o guardavano fuori dalle finestre il Valentino ormai tutto verde, altri ancora fumavano e chiacchieravano negli angoli. In un angolo c' era una cappa, e davanti alla cappa sedeva Rita. Mi avvicinai, e mi accorsi con fugace piacere che stava cucinando la mia stessa pietanza: con piacere, perché era un pezzo che giravo intorno a Rita, preparavo mentalmente brillanti attacchi di discorso, e poi al momento decisivo non osavo enunciarli e rimandavo al giorno dopo. Non osavo per una mia radicata timidezza e sfiducia, ed anche perché Rita scoraggiava i contatti, non si capiva perché. Era molto magra, pallida, triste e sicura di sé: superava gli esami con buoni voti, ma senza il genuino appetito, che io sentivo, per le cose che le toccava studiare. Non era amica di nessuno, nessuno sapeva niente di lei, parlava poco, e per tutti questi motivi mi attraeva, cercavo di sederle accanto a lezione, e lei non mi accettava nella sua confidenza, ed io mi sentivo frustrato e sfidato. Mi sentivo disperato, anzi, e non certo per la prima volta: infatti, in quel tempo mi credevo condannato ad una perpetua solitudine mascolina, negato per sempre al sorriso di una donna, di cui pure avevo bisogno come dell' aria. Era ben chiaro che quel giorno mi si stava presentando un' occasione che non poteva andare sprecata: fra Rita e me esisteva in quel momento un ponte, un ponticello di zinco, esile ma praticabile; orsù, muovi il primo passo. Ronzando intorno a Rita mi accorsi di una seconda circostanza fortunata: dalla borsa della ragazza sporgeva una copertina ben nota, giallastra col bordo rosso, e sul frontispizio stava un corvo con un libro nel becco. Il titolo? Si leggeva soltanto "AGNA" e "TATA", ma tanto bastava: era il mio viatico di quei mesi, la storia senza tempo di Giovanni Castorp in magico esilio sulla Montagna Incantata. Ne chiesi conto a Rita, pieno d' ansia per il suo giudizio, quasi che il libro lo avessi scritto io: e mi dovetti presto convincere che lei, quel romanzo, lo stava leggendo in tutt' altro modo. Come un romanzo, appunto: le interessava molto sapere fino a che punto Giovanni si sarebbe spinto con la Signora Chauchat, e saltava senza misericordia le affascinanti (per me) discussioni politiche, teologiche e metafisiche dell' umanista Settembrini col gesuita-ebreo Naphtha. Non importa: anzi, c' è un terreno di dibattito. Potrebbe addirittura diventare una discussione essenziale e fondamentale, perché ebreo sono anch' io, e lei no: sono io l' impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape. L' impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di "La Difesa della Razza", e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. Per vero, fino appunto a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti coi miei amici cristiani avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o le lentiggini; un ebreo è uno che a Natale non fa l' albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po' di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato. Secondo la rivista sopra citata, un ebreo è avaro ed astuto: ma io non ero particolarmente avaro né astuto, e neppure mio padre lo era stato. C' era dunque in abbondanza di che discutere con Rita, ma il discorso a cui io tendevo non si innescava. Mi accorsi presto che Rita era diversa da me, non era un grano di senape. Era figlia di un negoziante povero e malato. L' università, per lei, non era affatto il tempio del Sapere: era un sentiero spinoso e faticoso, che portava al titolo, al lavoro e al guadagno. Lei stessa aveva lavorato, fin da bambina: aveva aiutato il padre, era stata commessa in una bottega di villaggio, ed anche allora viaggiava in bicicletta per Torino a fare consegne e a ritirare pagamenti. Tutto questo non mi allontanava da lei, anzi, lo trovavo ammirevole, come tutto quello che la riguardava: le sue mani poco curate, il vestire dimesso, il suo sguardo fermo, la sua tristezza concreta, la riserva con cui accettava i miei discorsi. Così il mio solfato di zinco finì malamente di concentrarsi, e si ridusse ad una polverina bianca che esalò in nuvole soffocanti tutto o quasi il suo acido solforico. Lo abbandonai al suo destino, e proposi a Rita di accompagnarla a casa. Era buio, e la casa non era vicina. Lo scopo che mi ero proposto era obiettivamente modesto, ma a me pareva di un' audacia senza pari: esitai per metà del percorso, e mi sentivo sui carboni ardenti, ed ubriacavo me stesso e lei con discorsi trafelati e sconnessi. Infine, tremando per l' emozione, infilai il mio braccio sotto il suo. Rita non si sottrasse, e neppure ricambiò la stretta: ma io regolai il mio passo sul suo, e mi sentivo ilare e vittorioso. Mi pareva di aver vinto una battaglia, piccola ma decisiva contro il buio, il vuoto, e gli anni nemici che sopravvenivano.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682201
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l'aerostato ed esporvi a dei pericoli." Poi, prima che l'ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare. "Badate al cane" gridò l'ingegnere. "Ho la rivoltella" rispose O'Donnell. Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti. Giunto all'ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L'enorme molosso stava presso all'ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca. "È idrofobo!" esclamò O'Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. "Bel guardiano a questa nave dei morti!" Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave. "È morto?" gli chiese l'ingegnere, dall'alto. "Lo credo" rispose O'Donnell. "Se si rialza ho altri due colpi." Si lasciò andare e cadde sulla tolda. "Corna di cervo!" esclamò. "Che profumi! Ma che cos'è accaduto qui? Che l'equipaggio si sia scannato?" S'avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto. Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione. "Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni" mormorò. Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz. "È una nave messicana" gridò, volgendosi verso l'ingegnere, che lo guardava con ansietà. "Vi sono dei morti?" chiese l'ingegnere. "Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente." "Udite nessun rumore, nessun gemito?" "Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana." "Temo un grave pericolo, O'Donnell." "Bah! I morti non si muovono." "Ma avvelenano, uccidono." "Ho la pelle dura" rispose l'irlandese, che forse non aveva compreso l'allusione dell'ingegnere. Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva. La sua assenza fu breve. L'ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l'ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle. "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" gridò con accento di terrore. S'aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all'ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita: "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" "Ma che cosa avete veduto, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Siete pallido e sconvolto." "Ho ... che forse noi, che abbiamo respirato ... quei miasmi, ... siamo perduti." "È scoppiata una epidemia su quella nave?" "Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!" "Fuggiamo" ripeté l'ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido. Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra. L'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682231
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Avendo inteso dal prigionieri caduti nelle loro mani come tutti i legni mercantili avessero ricevuto l'ordine dal viceré del Perú di non abbandonare i porti della costa, fino a tanto che una squadra non avesse purgato l'Oceano dai filibustieri, il cui disegno di portarsi nelle acque occidentali dell'America era ormai già trapelato, Davis guidò la sua flotta verso il settentrione, facendo di quando in quando delle prede. Fu uno sgomento generale fra tutti gli spagnuoli dell'America centrale, quando videro la flotta corsara apparire improvvisamente, in vista di Panama, ormai risorta piú fiorente dopo la distruzione compiuta da Morgan. La comparsa di quei terribili uomini aveva subito svegliata la memoria dei disastri in addietro sofferti da simili ladroni e Davis perciò non osò dare l'attacco alla città e andò a gettare le sue âncore all'isola di Taroga, dopo d'aver incrociato per ben quattro settimane dinanzi alla baia, in attesa che dei legni uscissero. Il viceré, chiesti aiuti al Perú ed al Messico, forma una squadra e la manda verso l'isola per sterminare quei pericolosi ladroni. Si componeva di sette navi da guerra, due delle quali contavano settanta cannoni ciascuna. Il mare era tempestoso e niuna proporzione vi era fra gli uni e gli altri. Per di piú i filibustieri non conoscevano i fondi e non avevano artiglierie sufficienti per far fronte a quelle degli spagnuoli che erano potentissime. Non potevano quindi questi ultimi non lusingarsi di ridurre al niente, in una sola giornata, quella temuta ciurmaglia. Già avevano circondata una delle due fregate e l'opprimevano con un fuoco terribile, quando gli altri legni corsari che si trovavano al largo e che avrebbero potuto facilmente evitare di venire alle prese, voltano le prore e corrono in aiuto della loro compagna. Il pericolo parve avesse dato ai filibustieri di Davis una forza piú che umana. Investono con impeto le fregate ed i galeoni spagnuoli e, quantunque per la troppa superiorità delle forze nemiche, non potessero in quel conflitto accanito e sanguinosissimo ottenere la vittoria, la disputarono cosí accanitamente che per il valore meritarono giustamente la palma. Quello che piú stupisce è che in tale combattimento non perdettero che una sola barcaccia di prigionieri spagnuoli. Quella barca era stata cosí crivellata dalle palle spagnuole che, trovandosi i filibustieri sul punto di annegarsi, l'avevano abbandonata coi prigionieri che conteneva. Questi ultimi, vedendosi cosí liberi, non avevano indugiato a prendere i remi per farsi raccogliere dai loro compatriotti. L'ammiraglio spagnuolo invece, avendola presa per un brulotto nemico, mosse ad incontrarla sul vascello e vi fece far fuoco sopra piú presto che poté, affondandola; e cosí fu, senza saperlo, lo sterminatore di quei disgraziati. Essendo, durante il combattimento, aumentata la furia del vento e delle onde, la flottiglia dei filibustieri fu in breve dispersa. Parecchi legni scomparvero dopo quella fatale giornata, né si ebbe di loro piú alcuna nuova. Gli altri, riunitisi finalmente, si rifugiarono all'isola di S. Giovanni, lontana solamente cinque leghe dal continente. Ma la discordia, dopo quel disastro, non tardò a nascere specialmente fra inglesi e francesi, essendo i primi protestanti ed i secondi cattolici. Sembrerà strano, eppure quei ladroni di mare ci tenevano alle loro religioni, singolarmente poi gl'inglesi in quei tempi del furore delle sette che tenevano il loro paese diviso. Essi mal soffrivano i loro camerati quando li vedevano salvare, nei saccheggi, i simboli della chiesa romana. Centotrenta francesi si stabiliscono sull'isola di S. Giovanni, ingrossati con altri duecento, che aveva condotto un capitano chiamato Grogner, il quale aveva pure girato il capo Horn; gl'inglesi invece riprendono la via dello stretto per far ritorno al golfo del Messico. Erano pochi eppure risoluti e quanto mai audaci. Dall'isola lanciano le loro navi in tutte le direzioni, prendendo quanti velieri incontrano, poi portano la guerra sull'istmo. Prendono d'assalto la piccola città di Leon e di Esparso e abbruciano Ralejo, spargendo ovunque un terrore immenso. Siccome ladroni di tale specie non se ne erano mai veduti in quei paraggi, gli abitanti fuggono dovunque spaventati, credendoli in buona fede demoni in carne umana. Invece di combatterli, li fanno maledire dai loro sacerdoti con esorcismi e contro di loro fanno alzare le cose piú sacre che abbia la religione, non diversamente che se avessero combattuto l'inferno. Gli spagnuoli, pressati da tanta rovina, cercano di temperare il flagello mandando a Grogner una lettera del vicario generale di Costarica, colla quale lo avvertivano essersi fatta la pace fra la Spagna e le potenze di Francia e d'Inghilterra e che il viceré di Panama metteva a loro disposizione parecchie navi per ricondurli in Europa. I filibustieri, che non erano cosí ingenui da accettare una simile proposta, che li avrebbe messi in balìa del nemico, per tutta risposta assaltano la città di Nicoya e la mettono a sacco e la bruciano, non salvando dalla distruzione che le chiese e tutti gli oggetti del culto cattolico. Le cose erano giunte a questo punto quando un mattino, mentre i filibustieri stavano allestendo alcune vecchie barcaccie per intraprendere qualche altra audace scorreria, videro approdare alla loro isola, che era diventata una piccola Tortue, sette scialuppe montate da un centinaio e mezzo d'uomini. Erano i corsari del conte di Ventimiglia e di Raveneau de Lussan. Quei valorosi, dopo aver conquistata e saccheggiata Pueblo-Viejo, avevano fatto una marcia rapidissima verso l'Oceano Pacifico, per portarsi a quell'isola dove erano sicurissimi di trovare dei soccorsi. Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

L'anglo-indiano, in piedi a poppa, salutava ora col berretto, senza abbandonare la barra del timone. - Abbassate la scala! - gridò Sandokan. L'ordine era stato appena eseguito che la baleniera abbordava. Sir Moreland salì rapidamente a bordo, dicendogli con una certa freddezza: - Sono lieto di rivedervi, signore, e di potervi dare una notizia che gradirete assai. - Yanez ... Darma? ... - gridarono ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Sono a bordo di quella nave. - Perchè non li avete condotti qui? - chiese Sandokan aggrottando la fronte. L'anglo-indiano che era diventato estremamente serio e che parlava con voce quasi imperiosa, rispose: - Vengo per intavolare delle trattative, signore. - Che cosa volete dire? - Che il comandante vi consegnerà il signor Yanez e miss Darma a condizione che voi lasciate tranquilla quella nave, che come ben vedete non sarebbe in grado di misurarsi con la vostra. Sandokan ebbe un istante di esitazione, poi rispose: - Sia pure, sir Moreland. Saprò ritrovarla più tardi. - Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri. Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez. - sir Moreland, - disse Sandokan, - dove vi ha raccolti quella nave? - A Mangalum, - rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima. - Vi eravate salvati sullo scoglio? - Sì, - rispose il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni. La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre. Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli: - Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero? La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne. - No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore. Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò. - Signori, - disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez, - spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici. - Vi aspettiamo, - rispose freddamente Sandokan. S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste: - Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss. La fanciulla che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola. L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro. Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto. - Yanez, - disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. - Perchè lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso. - Ed un pericolo per Darma, - rispose Yanez. - Essi si amano. - Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma ... chissà? Dopo la campagna. Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese: - Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finchè le squadre ci cercano nelle acque di Sarawak, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.

Prima di abbandonare le due navi, i malesi avevano accese delle miccie presso i barili di polvere lasciati nelle santebarbare. Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si erano appoggiati alla murata poppiera, guardando tranquillamente i due trasporti. Dinanzi, sul bastingaggio, avevano collocato un cronometro. - Tre minuti, - disse ad un tratto Sandokan volgendosi verso i suoi compagni. - Ecco la fine! Un momento dopo una formidabile esplosione rimbombava sul mare, seguìta a breve distanza da un'altra non meno assordante. Le due navi, squarciate dallo scoppio, affondavano rapidamente fra le urla furiose dei soldati e degli equipaggi, che si trovavano sulle coste dell'isola. - Ecco la guerra, - disse Sandokan, con un sorriso sarcastico. - L'hanno voluta? Paghino! ... E questo non è che un principio del dramma! Quindi, volgendosi verso Yanez, aggiunse: - Andiamo a Sarawak ora: quel golfo sarà il campo delle nostre future imprese e le prede laggiù saranno più abbondanti, che qui: lo vedrai. Il Re del Mare abbandonava rapidamente i paraggi delle Romades, prendendo la corsa verso il sud. Colle carboniere piene, ed un sopraccarico di combustibile nella stiva, poteva sfidare alla corsa tutte le navi che gli alleati dovevano aver radunate nelle acque di Sarawak. Il poderoso incrociatore che divorava miglia su miglia, due giorni dopo avvistava già il capo Tanjong-Datu, passando dinanzi alla medesima rada dove erasi rifugiata la Marianna. Nulla avendo incontrato in quei paraggi, riprese senza indugio la corsa verso il sudest, per raggiungere la foce del Sedang. Sandokan voleva innanzi a tutto accertarsi se l'equipaggio della sua piccola nave era riuscito nella missione affidatagli, ossia di armare e di sollevare i suoi vecchi alleati, i dayaki dell'interno, che lo avevano così vigorosamente aiutato contro James Brooke, il famoso sterminatore dei pirati. Quarant'otto ore dopo, il Re del Mare, che non aveva rallentata la sua velocità, avvistava il monte Matang, un picco colossale che si erge presso la costa di ponente dell'ampia baia di Sarawak e che lancia la sua vetta verdeggiante a duemila novecento e settanta piedi, e l'indomani navigava dinanzi alla foce del fiume che bagna la capitale del rajah. Era il momento di aprire per bene gli occhi, poichè da un istante all'altro delle navi inglesi o del rajah di Sarawak potevano mostrarsi. Certo la comparsa del corsaro doveva essere stata segnalata alle autorità di Sarawak ed i migliori incrociatori dovevano aver preso il largo, onde proteggere da un improvviso assalto le navi che lasciavano il fiume, dirette a Labuan o a Singapore, che potevano venire facilmente catturate o affondate dagli audaci pirati di Mompracem. Perciò una rigorosa sorveglianza era stata ordinata a bordo dell'incrociatore. Giorno e notte dei gabbieri si tenevano costantemente sulle piattaforme superiori, muniti di cannocchiali di lunga portata, pronti a dare l'allarme nel caso che qualche colonna di fumo apparisse all'orizzonte. Sandokan e Yanez, per maggiore precauzione, avevano anche comandato che dopo il calar del sole più nessun lume si accendesse a bordo, nemmeno nelle cabine che avevano le finestre sui bordi esterni, e nemmeno i fanali regolamentari. Volevano passare dinanzi la foce del Sarawak inosservati, per non farsi inseguire sulle coste orientali e compiere le loro operazioni senza venire disturbati. Sentivano per istinto che li cercavano e che navi inglesi e del rajah dovevano scorazzare quei paraggi. Chissà, forse avevano indovinato le loro intenzioni o peggio ancora, qualcuno poteva averli informati dei loro progetti. Ed infatti, contrariamente alle loro abitudini, i due ex pirati apparivano assai preoccupati. Si vedevano passeggiare per delle ore intere sul ponte, colla fronte increspata, poi arrestarsi per interrogare, con una certa ansietà, l'orizzonte. Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawak di qualche dozzina di miglia, - mi sembri molto inquieto. - Sì, - rispose la Tigre della Malesia, - non te lo nascondo, mio caro amico. - Temi qualche incontro? - Io sono certo di essere seguìto o preceduto, e un marinaio difficilmente s'inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile. - E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah? - Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perchè l'unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare. - Quella di sir Moreland? - Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa. - Sarà forte? - Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d'aver ragione di essa. I migliori, l'Inghilterra se li tiene in Europa. - Sono ben lontani da noi, - disse Tremal-Naik. - E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell'India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana. - E allora? - chiese Tremal-Naik. - Faremo quello che potremo, - rispose Sandokan. - Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto. - È sempre il carbone il nostro punto nero. - Di' il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato. - Quanto distiamo dal Sedang? - Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno. Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate. Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo. Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra. L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava. Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate. Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque. La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì a echeggiare una sirena. - Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, - disse Yanez a Sandokan. - Sarà mercantile o da guerra? - Suppongo che sia qualche avviso del rajah, - rispose la Tigre della Malesia. - Ci aspettavano? - Fa' puntare verso levante. - Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare. - Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, - disse Tremal-Naik. - Quando potremo giungere alla foce del Sedang? - Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez? - Null'altro che nebbia, - rispose il portoghese. - Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone. Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa: - Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato! Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente. Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici. Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi. Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse. Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque. - Un fanale elettrico! - esclamò Yanez, trasalendo. - Ci si cerca. - Sì, ci cercano, - disse Tremal-Naik. - Che siano in molti? Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata. Trascorsero alcuni minuti ancora. - Macchina indietro! - tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia. Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo. Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce. - Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? - chiese Tremal-Naik. - Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, - disse Sandokan. - Che cosa farai, Sandokan? - Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto. Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima. D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud. Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri. - Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo! La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano. - Si tratta di forzare il passo, - disse. - Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato? - Assaliremo collo sperone? - chiese l'americano. - Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine. - Bene, comandante, - rispose lo yankee. - I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente. - Sono tutti ai pezzi gli artiglieri? - Sì, - rispose Yanez. - Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo. I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi. Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto. Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile. - Tutti nelle batterie! - gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik. Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia. Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie. L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi. Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco. Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est. Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili. - Pronti pel fuoco di bordata! ... - gridò Yanez. - Per Giove! ... E le fanciulle? - Sono al sicuro nel quadro, - rispose Tremal-Naik. - Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, - disse Sandokan. Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa. La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo. Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore. - Speronate! - gridò Sandokan con voce tuonante. Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete. Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare. Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso ... Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano. - Macchina indietro! - gridò l'ingegnere americano. Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio. Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia. Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce. - Fuoco accelerato! - comandò Yanez. L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l'esempio, tempestando i nemici. Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili. Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo. Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri. Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa. Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore. È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido: - Badate, cercano di torpedinarci! Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta. - sir Moreland! - gridarono ad una voce. Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore. - Arrestate quella scialuppa! - aveva gridato Sandokan. - No, nessuno faccia fuoco! - urlò invece Yanez. - Che cosa fai, fratello? - chiese la Tigre della Malesia, stupita. - Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me. A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s'appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco. La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore. Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata. - Buon viaggio, sir Moreland! - gli gridò il valente artigliere, con voce ironica. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole: - Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana! ... V'aspetta nel golfo! ... L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola: - Viva la Tigre della Malesia! ...

Albatri bianchi e neri, sule, rompitori d'ossa, gabbiani e rondini di mare cadevano in gran numero sulla spiaggia sottostante, non prendendosi nemmeno la briga di abbandonare i cornicioni sui quali nidificavano. La caccia si protrasse fino verso il tramonto, con grande divertimento di sir Moreland, che era pure un tiratore valentissimo, poi, essendosi il mare fatto grosso ed essendosi il vento alzato violentissimo, pensarono a far ritorno. Stavano per imbarcarsi, quando udirono la sirena dell'incrociatore a fischiare replicatamente. - Ci chiamano, - disse Yanez. - Il carico è finito e il Re del Mare si prepara a prendere il largo. Ad un tratto corrugò la fronte, fissando le onde che si rovesciavano con estrema violenza contro lo scoglio. - Che abbiamo commesso una grossa imprudenza a tardare tanto? - si chiese. - Che brutto mare! - Affrettiamoci, signor Yanez, - disse sir Moreland, guardando con inquietudine Darma. - Avremo da fare a tornare a bordo. La sirena dell'incrociatore continuava a fischiare e si vedevano i marinai a fare dei larghi cenni. - Pare che ci invitino a non prendere il largo, - disse Yanez. - Che al di là delle scogliere il mare sia più cattivo di quello che crediamo? Bah! Tentiamo! Afferrò i remi e spinse risolutamente la scialuppa fuori dal piccolo seno, ma appena ebbe oltrepassata la linea degli scogli, un'onda immensa, una vera montagna d'acqua si rovesciò su di loro e per poco non li subissò. Quasi nel medesimo istante videro l'incrociatore, assalito da una seconda ondata, ancora più enorme, salita dal sud, e respinto bruscamente al largo dall'imboccatura della rada di Mangalum. Quel terribile colpo di mare doveva aver spezzate le catene delle àncore. - Signor Yanez! - gridò Darma spaventata. - Il Re del Mare fugge! Nuove montagne d'acqua si rovesciavano con estremo furore, fra le isole e l'incrociatore, mentre la notte calava quasi di colpo, tutto avvolgendo nel suo nero manto. - Torniamo, signor Yanez, - disse sir Moreland. - L'incrociatore viene respinto al largo e ... Non finì la frase. Un cavallone enorme si era precipitato sulla scialuppa, capovolgendola e gettando tutti in acqua. Yanez, pronto come un lampo, aveva avuto appena il tempo di strappare il salvagente attaccato al banco di poppa e di afferrare per un braccio Darma. Appena tornato a galla, dopo passato il cavallone, si vide di fronte l'anglo- indiano che s'appoggiava pure ad un salvagente, quello di prora. - Aiutatemi, sir Moreland! - gridò. Darma gli era sfuggita, ma la sottana di percalle azzurro che ella indossava era ricomparsa a poche braccia da loro, poi la lunga capigliatura disciolta dall'onda. Il portoghese, valentissimo nuotatore, con due poderose bracciate era giunto in tempo per afferrare la veste. - Sir, aiutatemi! - ripetè con voce soffocata. Il capitano giungeva, dibattendosi disperatamente. Pareva che in quel supremo istante avesse recuperate d'un colpo tutte le sue forze. Mentre colla sinistra stringeva il salvagente, passò il braccio destro sotto il collo della giovane, alzandole la testa. - Miss ... aggrappatevi ... siamo qui ... col signor Yanez ... vi salveremo. Darma sentendosi afferrare e rialzare, aveva aperti gli occhi. Era pallida come un cencio lavato, e dai suoi sguardi traspariva un profondo terrore. Vedendo il salvagente che l'anglo-indiano le spingeva contro, vi si era aggrappata con suprema energia. - Voi ... Sir ... - balbettò. - Ed anch'io, Darma, - disse Yanez. - Non lasciare! Ecco l'onda che ci investe. - Una corda! - gridò il capitano. - Legate il salvagente. - La mia cintura, - rispose il portoghese. - A voi ... prendete! Badate ... l'onda ... L'anglo-indiano, con una rapidità meravigliosa aveva unito i due larghi anelli di sughero. Aveva fatto appena il nodo che un'onda gigantesca s'abbatteva addosso a loro. Istintivamente i due uomini avevano stretta fra di loro la giovane, sorreggendola con un braccio. Si sentirono travolgere, poi spingere in alto fra un turbine di spuma che li accecava, quindi precipitare in un baratro spaventevole che pareva non avesse più fondo. - Signor Yanez ... Sir Moreland! - gridò la giovane. - Dove scendiamo noi? - Coraggio, miss, - rispose il capitano. - La terra non è lontana e le onde ci spingono. Ecco che rimontiamo un'altra onda. - L'isolotto sta di fronte a noi, a meno di cinquecento metri, - disse Yanez. - sir Moreland, potrete resistere? - Lo spero, - rispose il capitano. - E la vostra ferita? - Non occupatevene ... è ben fasciata e quasi chiusa ... Ancora l'onda! Un altro cavallone li prese per di sotto, li sollevò fino quasi a toccare le nubi, poi tornò a precipitarli con vertiginosa rapidità. - Dio ... che colpi, - disse Darma. - Non abbandonate il salvagente, - disse il capitano. - La nostra salvezza sta in questi anelli di sughero. - Ed il Re del Mare si vede ancora? - Scomparso, trascinato via dall'uragano, - rispose Yanez. - Non temere, Sandokan e Tremal-Naik non ci abbandoneranno. Ecco lo scoglio! Non verremo frantumati fra le rocce? sir Moreland, non lasciatevi spingere. Il capitano non rispose. Guardava verso l'enorme scoglio, la cui vetta era coperta di nubi tempestose e sui cui fianchi strisciavano le folgori. D'improvviso mandò un grido di gioia. - La ... la ... calma ... l'olio! - esclamò. - Brahma ci protegge! Era impazzito l'anglo-indiano? No, sir Moreland aveva ben veduto. Le onde, dinanzi a loro, si spianavano, come per opera magica, dissolvendosi di colpo. Durante l'imbarco del carbone, Sandokan aveva fatto spargere intorno alla nave alcuni barili d'olio onde ottenere un po' di calma e permettere alle scialuppe cariche di abbordarlo. Quello strato oleoso, trascinato forse da qualche corrente, si era accumulato dinanzi al terribile scoglio, formando una zona brillante, lunga parecchi chilometri e larga alcune gomene. Si conoscono già le miracolose proprietà che hanno le materie grasse di calmare le onde. Non avendo il vento alcuna presa su di esse, e non essendo penetrabili nè all'aria, nè all'acqua, dove esse vengono sparse, i marosi si dissolvono e tutt'al più formano delle lunghe ondate senza frangersi, affatto innocue. Qualche barile, e anche meno, basta sovente a ottenere una specie di calma attorno alle navi, avendo l'olio la proprietà di espandersi a grandi distanze. Quello sparso dall'equipaggio del Re del Mare, in quelle quattordici o quindici ore, era stato tanto da far regnare una certa tranquillità fra le tre isole. - Sì, l'olio, - aveva risposto Yanez. - Un'altra onda e noi giungeremo nella zona tranquilla. Il nuovo cavallone sopraggiungeva mungendo e urlando. Era alto almeno quindici metri, tutto creste spumeggianti e lungo parecchie miglia. Afferrò i tre naufraghi, li scosse sulle sue cime, poi li scaraventò innanzi, ma appena toccata la zona oleosa perdette improvvisamente il suo impeto e scivolò sotto lo strato, trasformandosi come per incanto in un'ondata lunga, priva d'ogni violenza. - Siamo salvi! - gridò il portoghese. - sir Moreland, uno sforzo ancora e giungeremo sull'isolotto. L'anglo-indiano lo guardò senza aprire bocca. Era pallidissimo e un rauco respiro gli usciva dalle labbra contratte. Forse la ferita, appena rimarginata, si era riaperta in causa degli incessanti sforzi e della prolungata immersione e la sua energia si esauriva rapidamente. - Sir, - disse Darma, la quale se n'era accorta. - Voi state male. - È nulla ... la ferita ... - rispose il capitano con voce rotta. - Bah! Resisterò ... presso ... di voi ... miss ... La terra è ... lì ... Le onde che si seguivano, li spingevano dolcemente verso lo scoglio, la cui massa imponente giganteggiava a meno di una gomena. Se l'oceano era tranquillo o quasi in quel luogo, sui margini dello strato oleoso, infuriava sempre tremendamente. Onde mostruose si seguivano con scrosci orrendi, mentre sopra di loro il vento ruggiva tremendamente, gareggiando coi tuoni che rombavano fra le nubi. I naufraghi, ormai quasi al sicuro dai furori della burrasca, s'inoltravano sempre fra lo strato oleoso, aprendosi il passo fra enormi cumuli di alghe. Le onde le avevano strappate in gran numero, spingendole poscia verso la scogliera ed accumulandole intorno alle sue ripide spiagge. - Sbrighiamoci, sir Moreland, - disse Yanez, il quale nuotava con vigore, rimorchiando i due gavitelli. - Queste acque sature d'olio ridurranno le nostre vesti in pessime condizioni. Altro che i balenieri e i cacciatori di foche! - Sì, affrettiamoci, - rispose Darma. - sir Moreland è stremato. - Non lo nego, - rispose l'anglo-indiano, il quale si reggeva con immense fatiche. - Un altro meno robusto e meno energico di voi, a quest'ora sarebbe colato a picco, - disse Yanez. - Ah! Sento delle alghe sotto i miei piedi! Lasciamoci portare dall'onda. La fortuna li aveva spinti verso la spiaggia dove avevano cacciato gli uccelli marini. Pochi gruppi di erbe marine, di quelle chiamate dagli isolani beccalunga, si vedevano spuntare fra le fessure delle rupi; più sopra invece nulla, solamente la nuda roccia di colore nerastro, come se dei torrenti di pece fossero calati dalle altissime cime dello scoglio. Spinti da un'ultima ondata, i tre naufraghi furono deposti, quasi dolcemente, sul greto. Era tempo perchè sir Moreland stava per abbandonarsi. Yanez aiutò Darma a superare la spiaggia, poi l'anglo-indiano che era incapace di reggersi. - I salvagente! - balbettò sir Moreland. - Ah, sì! E vero, - rispose Yanez. - Sono troppo preziosi per perderli. Ridiscese la spiaggia e li tirò a secco, assicurandoli alla punta di una roccia. - Come vi sentite, sir Moreland? - chiese premurosamente Darma. - Un po' debole miss, ma tutto passerà. La ferita fortunatamente non è riaperta. - Cerchiamo qualche riparo, - disse Yanez. - Il Re del Mare, coll'uragano che ingrossa al largo, non potrà tornare molto presto - Che corra qualche pericolo, signor Yanez? - Non credo, Darma. Resisterà meravigliosamente anche a questa seconda prova. Fortunatamente ha completato a tempo le sue provviste di combustibile. - Sicchè saremo costretti a passare la notte qui, - disse Darma. - Nessuno verrà a disturbarci: non vi saranno delle pantere nere su questa roccia. Rifugiamoci sotto questa sporgenza e aspettiamo l'alba. Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi. Sir Moreland e Darma l'avevano seguìto, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

. - E non possono abbandonare quel brutto vizio? - Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte - rispose Fedoro. - E fumandolo, invece? - chiese il capitano. - I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa. - Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè. - Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l'abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l'assenzio o la birra. L'uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro. - Al diavolo l'oppio! - esclamò Rokoff. - Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco. In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d'argilla i fagiani e l'anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia. Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi. - Riporta i prosciutti - disse Fedoro. - Non fanno per noi. Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando. I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l'arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani. - Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, - disse Rokoff che divorava per quattro. - Capitano, i vostri pasticci di California e dell'Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili. - Nessuno c'impedirà di provvederci sempre di questi arrosti - rispose il comandante. - La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero? - No, signore - rispose Fedoro. - Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d'incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing. - Una cosa facilissima - rispose il capitano. - Si manda un telegramma. - Ma ... signore ... voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia. - Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio. - E dove lo cercheremo? - Non occupatevene, - disse il capitano con un sorriso misterioso. - Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto. - Erano così eccellenti! - rispose il cosacco, ridendo. - Mi avete capito? - gridò il capitano, dirigendosi verso l'abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo. - Dove sarà andato? - chiese Fedoro, un po' inquieto. Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo. Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d'oppio coricati l'uno presso l'altro e profondamente addormentati. - Non c'è più? - chiese Rokoff raggiungendolo. - È sparito - rispose il capitano. - Che sia fuggito? - Signori miei - disse il capitano - questa scomparsa m'inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo. - Che cosa temete? - chiese Fedoro. - Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l'odio del cinese e del tartaro verso l'uomo bianco non è ancora spento. - Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere? - È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume. - Maledetto paese! - esclamò Rokoff. - Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni! Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando: - Fermi tutti! - Che cosa c'è - chiese Rokoff. - Ci hanno tagliato la ritirata. - Chi? - I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco. - Ah! Brigante d'un tartaro! - gridò Rokoff. - Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino? - Lo saranno di certo - rispose Fedoro. - Nella casa - disse il capitano. - Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente. - E lo "Sparviero"? - chiesero con angoscia il cosacco e il russo. - Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d'ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.

- gridò il capitano, che aveva potuto finalmente abbandonare la radice. - Odo i muggiti degli altri jacks! Presto, cerchiamo un rifugio! - Qui! Qui! - disse Rokoff. Fedoro e il capitano stavano per slanciarsi verso la rupe, quando videro ritornare a corsa sfrenata l'animale che aveva ricevuto poco prima i due colpi di carabina. Non era però solo. Guidava la mandria, alla quale si erano uniti parecchi maschi che fino allora dovevano essersi tenuti nascosti dietro le rocce e che erano occupati a combattersi. Quei venti o trenta animali passarono come un uragano attraverso la gola e scesero il burrone col fragore d'una valanga. - Per tutti gli storioni del Volga! - esclamò Rokoff, che era riuscito ad issare il capitano e Fedoro sulla rupe. - Se ci sorprendevano sul loro passaggio, ci riducevano in briciole! Che siano discesi fino nel deserto? - E lo "Sparviero"? - chiese Fedoro, impallidendo. - Ho detto al macchinista di mantenere la macchina in funzione - rispose il capitano. - E poi non credo che gli jacks lascino queste rupi. - Che li ritroviamo? - chiese Fedoro. - Non mi sorprenderei; anzi, se troviamo un altro passaggio, seguiamolo. Non vorrei imbattermi ancora con quella mandria. - E l'animale che abbiamo ucciso? - Sceglieremo i pezzi migliori. - Signor Rokof, avete le braccia che non tremano, voi. Ecco qui una ferita che i migliori cacciatori del Far-West americano vi invidierebbero certamente. - Toccato al cuore? - Sì, signor Rokoff. - Si trattava di salvare Fedoro da una morte certa. - E che morte! - esclamò il russo, gettando uno sguardo atterrito verso l'abisso. - Che salto! Più di venti metri con un torrente nel fondo! Rabbrividisco ancora pensando al pericolo corso. - Dovete la vostra vita a quella palla fortunata - disse il capitano. - Eppure io non avrei esitato a tentare il salto - disse Rokoff, che guardava il torrente. - L'acqua deve essere profondissima e me la sarei cavata con un semplice bagno. - Voi cosacchi trovate tutto possibile - rispose Fedoro, ridendo. - So che per una scommessa qualunque non esitate a saltare da un bastione coi vostri cavalli e senza fiaccarvi il collo. - Facciamo anche di peggio - disse Rokoff. - Aiutatemi - disse il capitano. Aveva estratto il bowie-knife e aveva cominciato a sventrare l'jack con un'abilità da far stupire i suoi compagni. - Voi avete ammazzato ancora di questi animali? - chiese Rokoff. - No, ma invece dei bisonti. - Maneggiate il coltello meglio d'un cow-boy - disse Fedoro. - Ho imparato da loro - rispose il capitano. - Ah! Siete stato nel Far-West? Il capitano, invece di rispondere, aprì la gola all'animale e con un colpo maestro strappò la lingua, dicendo: - Ecco un boccone da re. La depose sul muschio che cresceva lì presso e cominciò a disarticolare il corpaccio dell'jack spaccando ad una ad una le costole alle loro congiunzioni colla spina dorsale, mentre Rokoff e Fedoro s'impadronivano del fegato e del cuore. Avevano già separato interamente l'animale, quando verso la gola udirono un fragore assordante. - Prendete le carabine! - gridò il capitano ringuainando prontamente il bowie- knife. - Gli jaks tornano. - Ancora! - esclamò Rokoff. - Se ci sorprendono qui siamo spacciati. - Guadagniamo le rocce - disse Fedoro. Stavano per slanciarsi attraverso il piccolo altipiano per cercare un rifugio, quando videro la mandria sbucare a corsa sfrenata. I vendicativi animali, dopo aver percorso tutto il burrone, erano risaliti senza che i cacciatori se ne fossero accorti ed ora stavano per caricarli su quello spazio ristretto che pareva non avesse alcuna uscita. Il capitano e i suoi due compagni, atterriti da quell'improvviso ritorno, si erano raggruppati nuovamente verso l'abisso, essendo loro mancato il tempo di salvarsi sulle rupi. - Siamo perduti! - aveva esclamato il capitano. Gli jacks, vedendoli, si erano fermati colle teste basse, mostrando le loro lunghe corna. Pareva che esitassero ad attaccare, forse tenuti in rispetto dalle tre carabine che li minacciavano. - Non fate fuoco - disse il capitano, precipitosamente. - Cerchiamo di non irritarli. - E se ci assalgono, dove ci salveremo noi? - chiese Fedoro, rabbrividendo. - Chi resisterà a simile carica? - Verremo scagliati nell'abisso - disse Rokoff. - Cercate di saltare nel torrente, se vi sarete costretti, o vi sfracellerete sulle rocce. Gli jacks non accennavano a muoversi, come se si divertissero delle angosce terribili dei disgraziati cacciatori. Solamente i maschi erano passati dinanzi, disponendosi su una linea, come per proteggere le femmine. Il capitano e i suoi compagni, pallidissimi, tenevano sempre le carabine puntate, quantunque non avessero molta speranza di fugare la mandria con tre sole palle. Quella situazione tremenda durò due o tre minuti, che ai cacciatori parvero lunghi come ore, poi gli jacks, con un movimento fulmineo, si disposero su un mezzo cerchio, caricando alla disperata. - Fuoco! - gridò il capitano. Scaricarono precipitosamente le carabine. Un animale cadde, ma gli altri, maggiormente inferociti, non interruppero la corsa. - Saltate! - gridò Rokoff. Con un coraggio che doveva rasentare la follia, pel primo diede l'esempio. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto, roteando due o tre volte su se stesso. Gli parve di sentirsi mancare il respiro, come una specie d'asfissia fulminante, poi provò un'atroce sensazione di freddo e udì un rombo assordante che gli parve gli spezzasse il cranio. Era caduto in mezzo al torrente, inabissandosi in un'acqua così gelata che credette, di primo colpo, di morire assiderato. Per sua buona sorte e come d'altronde aveva previsto, l'acqua era assai profonda, sicché, invece di sfracellarsi sulle rocce che dovevano coprire il letto, poté risalire a galla stordito sì, ma incolume. Aveva appena aperto gli occhi che vide Fedoro e il capitano precipitare a dieci metri più sopra assieme a un enorme jack che non era stato capace di fermarsi a tempo sull'orlo dell'abisso. Tutti e tre s'immersero, sollevando giganteschi sprazzi. - Capitano! Fedoro! - gridò, mettendosi a nuotare vigorosamente per non venire trascinato via dalla corrente che era impetuosissima. Prima a comparire fu la testa del capitano, poi anche Fedoro emerse agitando disperatamente le braccia. - Che non sappia nuotare? - si chiese il cosacco. Fendette la corrente e lo raggiunse nel momento in cui stava per scomparire di nuovo. - Coraggio, amico! - gli gridò. Sorreggendolo per un braccio, si spinse verso la riva, sulla quale stava arrampicandosi il capitano. - Aiutatemi, signore! - gridò. - A voi! - rispose il comandante. Si era slacciata la lunga sciarpa di lana rossa che gli cingeva i fianchi e gliela aveva lanciata, tenendola per l'altro capo. Rokoff la prese al volo e si lasciò portare verso le rocce, sempre sorreggendo l'amico. - Ferito? - chiese il capitano, vedendo Fedoro pallidissimo. - No ... No ... è il freddo e anche l'emozione - rispose il russo - e poi non so nuotare ... grazie Rokoff. Senza di te l'acqua mi avrebbe trascinato via. Che salto! Tremo come se avessi la febbre. - E quel maledetto jack? - chiese Rokoff. - Credevo che vi piombasse addosso e vi schiacciasse. - Si è messo in salvo sull'altra riva - rispose il capitano. - Mi pare però che si sia spezzate le gambe o fracassate le costole. L'animale pareva infatti che non se la fosse cavata molto liscia in quel terribile capitombolo. Era riuscito a salire la riva, poi si era lasciato cadere al suolo muggendo lamentosamente e perdendo sangue dalla bocca. - Muori dannato! - gridò Rokoff. - Ed ora, che cosa facciamo? - chiese Fedoro. - Mi sembra di avere al posto del cuore un blocco di ghiaccio. Come era gelata quell'acqua! - Cerchiamo un'uscita e torniamo allo "Sparviero" - disse il capitano. - Ne ho anch'io abbastanza di questa caccia. - Uscire! - esclamò Rokoff. - Lo potremo noi? Guardate, signore, e ditemi come potremo fare a tornare lassù.

- gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682342
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Percorse, così correndo, più d'un miglio inoltrandosi sempre più nella jungla, procurando di mantenere una via retta per giungere alla riva del fiume e di là aspettare il ritorno del padrone che non voleva abbandonare. Era la mezzanotte, quando si trovò sul limitare di una foresta di palme da cocco, superbe piante che superano in bellezza le palme da datteri, e che una sola basta per fornire ad una intera famiglia il cibo, la bevanda e persino le vestimenta. Il maharatto non ardì andare più innanzi; s'arrampicò su una di quelle piante e stabilì lassù il suo domicilio, sicuro di non venire assalito dagl'indiani e meno ancora dalle tigri, che dovevano trovarsi in buon numero in quell'isola. Si accomodò sul tronco, si legò colla corda presa allo strangolatore e rassicurato dal profondo silenzio che regnava, chiuse gli occhi. Non dormì che pochissime ore, poiché un baccano infernale lo svegliò. Una grossa banda di sciacalli, sbucata chi sa mai da dove, aveva attorniato l'albero e gli faceva l'onore di una spaventevole serenata. Quegli animali, poco dissimili dai lupi, che pullulano come le formiche in tutta o quasi tutta l'India, ed i cui morsi sono ritenuti velenosi, erano più di cento e facevano salti disperati, sfogando la loro rabbia con urli lamentevoli, quasi strazianti, da incutere terrore anche a chi è abituato a udirli da lunga pezza. Kammamuri avrebbe ben voluto allontanarli con qualche schioppettata, ma la tema di attirare gl'indiani, assai più terribili di quelle bestie, lo trattenne e si rassegnò ad ascoltare il loro concerto che durò fino all'alba. Allora poté gustare il sonno che si prolungò più di quanto avrebbe voluto, poiché quando riaprì gli occhi, il sole aveva quasi compito l'intero suo giro e declinava rapidamente all'occidente. Spaccò una noce di cocco giunta a completa maturanza, grossa quanto la testa di un uomo, la cui polpa indurita rammenta il sapore delle mandorle, ne inghiottì una buona parte e si rimise bravamente in marcia, non già questa volta coll'intenzione di recarsi alla riva, ma di trovare Tremal-Naik. Attraversò il bosco di cocchi perdendo parecchie ore e quantunque la notte fosse abbastanza inoltrata, rientrò nella jungla piegando verso il sud e continuò a marciare così fino a mezzanotte, fermandosi di quando in quando ad esaminare il terreno colla speranza di trovare qualche traccia del padrone. Disperando ormai di scoprire qualche indizio, stava per cercare un albero su cui passare il restante della notte, quando due sordi spari, tirati a poca distanza l'un dall'altro, lo colpirono. - To' - esclamò sorpreso. Un terzo sparo, più forte degli altri due, s'udì. - Il padrone! - gridò. - Questa volta non mi sfugge più! Sospese le sue ricerche e corse verso il sud colla celerità d'un cavallo, e mezz'ora dopo giungeva in un'ampia radura, in mezzo alla quale illuminata da uno splendido chiaro di luna, ergevasi una grandiosa pagoda. Fece alcuni passi innanzi, poi ritornò rapidamente indietro riguadagnando i bambù. Due uomini si erano mostrati all'aperto e muovevano verso la jungla, portando una terza persona che sembrava morta. - Cosa vuol dire ciò? - borbottò il maharatto, che cadeva di sorpresa in sorpresa. - Che vengano a seppellire quel cadavere nella jungla? S'allontanò ancor più, cacciandosi nel fitto d'un cespuglio, ma in un luogo da cui poteva vedere senza essere scoperto. I due portatori, che riconobbe per due indiani, attraversarono rapidamente la radura, arrestandosi presso i bambù. - Animo, Sonephur, - disse uno dei due. Facciamolo dondolare e scagliamolo là in mezzo. Sono certo che domani mattina non troveremo che le ossa, se le tigri saranno d'umore di lasciarle. - Lo credi? - chiese l'altro. - Sì, la nostra amata dea s'incaricherà d'inviargli una mezza dozzina di quelle bestie. Quest'indiano è un bel pezzo di carne e abbastanza giovane. I due miserabili scoppiarono in una sonora risata, a quell'atroce scherzo. - Prendilo bene, Sonephur. - Andiamo, uno, due ... I due indiani fecero oscillare il cadavere e lo scagliarono in mezzo alla jungla. - Buona fortuna! - gridò uno. - Buona notte, - disse l'altro. - Domani mattina verremo a farti una visita. Ed i due indiani s'allontanarono sghignazzando. Kammamuri aveva assistito a quella scena. Aspettò che i due indiani fossero molto lontani, poi uscì dal nascondiglio e spinto da una forte curiosità, s'avvicinò al cadavere. Un urlo strozzato gli uscì dalle labbra.- Il padrone! esclamò con voce straziante. - Oh! i maledetti! Infatti quel cadavere era Tremal-Naik. Aveva gli occhi chiusi, la faccia orribilmente alterata e in mezzo al petto, confitto sino al manico, un pugnale. Le vesti erano tutte lorde del sangue che usciva ancora dalla profonda ferita. - Padrone! mio povero padrone! - singhiozzò il maharatto. Appoggiò ambe le mani sul corpo di lui e trasalì come se fosse stato toccato da una pila elettrica. Gli pareva d'aver sentito il cuore a battere. Avvicinò l'orecchio e ascoltò rattenendo il respiro. Non vi era da ingannarsi: Tremal-Naik non era ancor morto poiché il cuore debolmente batteva. - Forse non è colpito a morte, - mormorò, tremando per l'emozione. - Calma, Kammamuri, e agiamo senza perdere tempo. Con precauzione tolse a Tremal-Naik il kurty mettendo a nudo l'ampio petto. Il pugnale gli era stato immerso fra la sesta e la settima costola, in direzione del cuore, ma senza averlo toccato. La ferita era terribile, ma forse non era mortale; Kammamuri che se ne intendeva più d'un medico, sperò di salvare l'infelice. Prese delicatamente l'arma e lentamente, senza scosse, la estrasse dalla ferita: un getto di sangue caldo e rosso uscì dalle labbra. Era buon segno. - Guarirà, - disse il maharatto. Stracciò un pezzo del kurty ed arrestò l'emorragia che poteva essere fatale pel ferito. Ora si trattava di avere un po' d'acqua e alcune foglie di youma da spremere sulla piaga, per affrettare la cicatrizzazione. - Bisogna a qualsiasi costo allontanarsi da qui per trovare qualche stagno, - mormorò poi. - Tremal-Naik è forte, un uomo d'acciaio e sopporterà il trasporto senza aggravare la ferita. Animo, Kammamuri. Raccolse tutte le sue forze, lo afferrò fra le braccia più delicatamente che poté, e s'allontano barcollando, dirigendosi verso l'est, ossia verso il fiume. Riposando ogni cento passi per tirare il fiato e per vedere se il padrone dava sempre segno di vita, grondante di sudore, reggendosi a mala pena sulle gambe, percorse più d'un miglio e si fermò sulle rive d'uno stagno d'acqua limpidissima, circondato da una triplice fila di piccoli banani e di cocchi. Depose il ferito su di un denso strato d'erbe, ed applicò sulla sanguinosa piaga delle pezzuole bagnate. A quel contatto un debole sospiro, che parve un gemito represso, uscì dalle labbra di Tremal-Naik. - Padrone! padrone! - chiamo il maharatto. Il ferito agitò le mani ed aprì gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno, fissandoli su Kammamuri. Un raggio di gioia illuminò il suo bronzeo volto. - Mi riconosci, padrone? - chiese il maharatto. Il ferito fece un cenno affermativo col capo e mosse le labbra come per parlare, ma non articolò che un suono confuso, incomprensibile. - Non puoi ancora parlare, - disse Kammamuri, - ma mi narrerai ogni cosa poi. Sta' certo, padrone, che ci vendicheremo dei miserabili che t'hanno conciato così malamente. Lo sguardo di Tremal-Naik brillò di un cupo fuoco e strinse le dita strappando le erbe. Egli lo aveva senza dubbio compreso. - Calma, calma, padrone. Ora troverò io alcune erbe che ti faranno molto bene, e fra quattro o cinque giorni abbandoneremo questi luoghi e ti condurrò alla capanna a terminare la tua guarigione. Gli raccomandò un'ultima volta silenzio e immobilità completa, batté le erbe per un raggio di trenta o quaranta passi per assicurarsi che non nascondevano alcuno di quei terribili serpenti detti rubdira mandali il cui morso fa, come si dice, sudar sangue, e si allontanò strisciando. Non corse molto, che trovò alcune pianticelle di youma, volgarmente chiamate lingua di serpente il cui succo è un balsamo prezioso per le ferite. Ne fece una buona raccolta e si disponeva a ritornare, ma fatti appena pochi passi s'arrestò colle mani sui calci delle pistole. Gli era sembrato di aver veduto una massa nera cacciarsi silenziosamente fra i bambù; aveva più la forma d'un animale, che d'un essere umano. Fiutò a più riprese l'aria e sentì un odore marcatissimo di selvatico. - Attento Kammamuri, - mormorò. Abbiamo una tigre vicina. Si mise fra i denti il coltellaccio e s'avanzò intrepidamente verso lo stagno guardando attentamente attorno. S'aspettava di trovarsi da un momento all'altro di fronte al feroce carnivoro, ma così non fu e giunse in mezzo agli alberi senza averlo nemmeno veduto. Tremal-Naik era nel medesimo luogo di prima e pareva assopito, di che si rallegrò il bravo maharatto. Si mise vicino la carabina e le pistole per esser pronto a servirsene, masticò le erbe, malgrado la loro insopportabile amarezza e le applicò sulla piaga. - Là, così va bene, - diss'egli stropicciandosi allegramente le mani. - Domani il padrone starà meglio e potremo sloggiare da questo luogo che non mi sembra molto sicuro. Gl'indiani fra poche ore si recheranno nella jungla e non trovando il cadavere, si metteranno senza dubbio in campagna. Non lasciamoci dunque prendere così ... Un miagolìo formidabile, famigliare alle tigri, simile ad un ruggito, gli troncò la frase. Volse rapidamente la testa, allungando istintivamente le mani verso le armi. Là, a quindici passi di distanza, raccolta su se stessa, come in atto di slanciarsi stava un'enorme tigre reale, che lo fissava con due occhi brillanti che avevano i riflessi azzurrini dell'acciaio.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

La prima cosa che fecero fu di tentare di guadagnar la riva; ma, almeno per il momento, furono costretti ad abbandonare l'idea, poichè enormi lastroni di ghiaccio, che il fiume trascinava tumultuosamente nella sua rapida corsa, li circondavano da ogni lato minacciando di schiacciarli o di tagliarli a mezzo. - Passiamo a prua - disse il tenente. - Eviteremo almeno gli urti. Tenendosi stretti alle traverse della slitta, si portarono entrambi sul dinanzi, cercando di tenersi più che potevano fuori dell'acqua per non gelare completamente. - Hai nulla di guasto? - chiese poi il tenente. - Non mi pare - rispose Koninson. - Ma, se rimaniamo qui una sola mezz'ora, mi guasterò tutto. Corpo d'una pipa rotta! Sono ben fredde queste acque. - Le tue munizioni? - Le ho bene assicurate e vedete che anche il fucile non l'ho abbandonato. - Ora pensiamo a guadagnare la riva. - Ma questi dannati ghiacci ci stritoleranno se abbandoniamo la slitta, e poi le mie vesti sono diventate così pesanti che non sarò capace di nuotare per dieci metri. - Si tratta di spingere la slitta verso la riva. Attenzione, Koninson! Una gran lastra di ghiaccio, un vero "stream" lungo una cinquantina di metri, muoveva dritto sulla slitta frantumando con mille scricchiolìi tutti i ghiacci minori. - Ci schiaccerà! - disse Koninson, battendo i denti per il freddo. - Prima romperà la slitta! - rispose il tenente. - Non perderti d'animo, amico mio, e tieni fermo finchè raggiungiamo la riva. - Vi confesso che non ne posso più. Queste acque sono diabolicamente fredde e sento che a poco a poco i miei muscoli si irrigidiscono. - Attenzione, Koninson. Il lastrone non era che a pochi passi. Frantumò con un potente urto due piccoli ghiacci, poi si precipitò come un ariete sulla slitta. Si udì un lungo scricchiolìo, le traverse si spezzarono, le corde si ruppero, lasciando cadere i pochi oggetti che i naufraghi avevano salvato dalle rapaci mani dei Tanana, quindi tutto l'apparecchio si disciolse andandosene alla deriva. Il tenente e Koninson furono travolti dalla corrente, ma ben presto, lottando con disperata energia, riuscirono ad aggrapparsi ad un banco di ghiaccio issandovisi sopra. - Ah, mio tenente! - mormorò il povero fiociniere che non si reggeva più. - Mi pare che il mio cuore sia diventato un blocco di ghiaccio. - Coraggio, amico. La corrente ci spinge verso la riva destra e fra pochi istanti toccheremo terra. Koninson non rispose. Quasi completamente assiderato si era raggomitolato su sè stesso, ormai incapace di fare il più piccolo movimento. Fortunatamente il banco urtò contro i ghiacci della riva e si incastrò fortemente dentro un largo crepaccio. Il tenente, a cui quel bagno prolungato in quelle acque così gelate non aveva completamente tolte le forze, si caricò del compagno e raggiunse la sponda arrestandosi a pochi passi da un boschetto di betulle. Senza occuparsi di sè stesso, in pochi istanti spogliò il fiociniere, poi raccolse un pò di neve e si mise a strofinarlo vigorosamente per rimettergli in circolazione il sangue. Dopo alcuni minuti lo vide muoversi e infine riaprire gli occhi. - Vedo che hai la pelle dura e sono contento! - gli disse, sorridendo. - Orsù, ragazzo mio, spicca quattro salti finchè io corro al boschetto a procurare della legna. - Grazie, signor Hostrup, ma se tardate a spogliarvi delle vesti, gelerete. - Bah! La mia pelle sfida quella degli orsi bianchi; d'altronde non impiegherò che pochi minuti ad accendere un buon fuoco. Impugnò la scure che aveva avuto tempo di salvare nel momento che la slitta capitombolava nel fiume, e si allontanò correndo, raccogliendo qua e là i rami morti e quelli che tagliava. Fatta un'ampia provvista ritornò presso Koninson, il quale stava facendo una ginnastica indiavolata per non tornare a gelare. L'esca e l'acciarino, conservati dentro un astuccio impermeabile, procurarono un bel fuoco attorno al quale i due balenieri si assisero, riscaldandosi le membra ed asciugandosi le vesti. - Ditemi, signor Hostrup, - disse il fiociniere che aveva ricuperato le forze e la favella - dove supponete che noi siamo? - Sulle rive del Makenzie, ma in quale punto preciso non te lo saprei dire. - Siamo molto lontani dal forte che cercate? - Te lo dirò quando avremo raggiunto la riviera del Grand'Orso, che si scarica in questo fiume. - A sud o a nord da noi? - A nord no di certo, poichè ci siamo costantemente tenuti a nord del Porcupine e questo fiume sbocca nel Makenzie quasi di fronte alla riviera del Grand'Orso. - Allora marceremo verso sud seguendo il fiume. - È necessario, e quando avremo raggiunto la riviera piegheremo ad est finchè troveremo il forte Speranza, il quale, se la memoria non mi tradisce, deve trovarsi a circa mezza via fra il Makenzie e il lago del Grand'Orso o del Musquàsa-ky-e-gum, come lo chiamano gli indiani. - Auff! Mi ci vorrà una settimana a pronunciare siffatto nome. Questo sforzo di lingua lo lascio a voi ed agli indiani. Ma ditemi, signor Hostrup, a cosa servono i forti piantati fra quelle deserte regioni? - A scopo di commercio. - E con chi commerciano? - Cogli indiani, i quali si recano di quando in quando ai forti a vendere le pelli degli orsi, di foche, di martore, di volpi, di linci, di lupi, di castori, di ratti muschiati e di lontre, contro, armi, liquori, reti, ecc. Anzi, ti dirò che tanto la Compagnia Russa che quella della Baia di Hudson, proprietarie dei forti, fanno ottimi affari. - Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta? - Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti. - Ne troveremo degli altri, dunque? - Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand'Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta. - Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti. - Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti? - No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte. - Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo. Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s'allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud. Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s'avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d'oro. Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d'un gruppo di piante. - In guardia! - mormorò, armando il fucile. - Qui ci sono delle bistecche. Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d'onde venivano i grugniti. Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d'Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media. - Oh! - esclamò egli sorpreso. - Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell'infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo. L'orsa, poichè doveva essere una femmina, d'improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l'orsacchiotto che non era in grado di difendersi. Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame. L'orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l'orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti. Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s'accorse che minacciava di sprofondare. Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l'orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino. Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l'arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita. Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s'accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l'accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d'un grosso fiume. - Che sia il Makenzie? - si chiese. - Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare. Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz'ora di trovava sulla riva di un largo corso d'acqua che veniva da est. - È il Makenzie, o la riviera del Grand'Orso? - si chiese egli, salendo su di un'alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. - Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive. Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie. - Cosa saranno quegli oggetti là? - si domandò. - Andiamo un pò a vedere. Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano "kajacks", leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un'apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala. - Scoperta magnifica! - disse il tenente. - Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell'Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza. Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto. - Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni - disse il tenente. - E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto. Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand'Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord. Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina. Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall'accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all'orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude. Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L'orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile. Là madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l'arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l'accampamento gridando: - A me, Koninson! ... A me! ... Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l'orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell'orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.

Allora diede il comando di poggiare verso la costa, risoluto di non abbandonare quei paraggi senza avere ritrovato vivi o morti i due disgraziati. Ed infatti, dopo una ostinata lotta contro l'uragano che la trascinava verso est e contro i ghiacci, la nave era riuscita a rifugiarsi in quel profondo "fiord", il quale era stato subito chiuso da un gran banco di ghiaccio staccatosi da un altro ancora più grande. E lì il capitano aspettava che la tempesta si calmasse un pò per rimettersi in cerca del tenente e del fiociniere, che supponeva rifugiati su qualche punto della costa o sulla scogliera intravveduta attraverso la nebbia. Il signor Hostrup e Koninson a bordo furono accolti con grande festa, poichè tutti li amavano assai per il loro coraggio e per la loro valentìa. Dovettero stringere le mani a tutti quanti e, quando furono ben vestiti ed ebbero calmati gli stiracchiamenti dello stomaco, furono costretti a narrare le loro avventure. - Ed ora, che cosa si fa? - chiese il tenente al capitano Weimar, quand'ebbe finita la narrazione. - Si aspetta che la burrasca finisca per fuggire verso ovest. La stagione della pesca è finita, tenente, e disgraziatamente assai male. - La scommessa è perduta dunque? - Sì, tenente! - rispose Weimar con tristezza. - I Danesi sono stati sconfitti. - Bah! Riprenderemo la rivincita l'anno venturo, capitano. - Sì, se riusciremo a guadagnare il porto che ci ha veduti partire. - Temete i ghiacci, capitano? - Sì, perchè ci siamo spinti troppo innanzi. A quest'ora noi dovremmo essere nel mare di Behring. - La nave è ancora solida, capitano, e può lavorare di sperone. - Non dico di no, ma temo che si avanzino i grandi banchi di ghiaccio. Sento per istinto che l'"icefield" non è lontano. Dannata scommessa che forse pagheremo assai cara! Essa sola ci ha trascinati fin qui. - E anche il destino, capitano. Due urti in una stagione sono stati troppi. E l'uscita dal "fiord" sarà facile? Ho veduto un banco di ghiaccio all'entrata. - Lo spezzeremo, tenente. Il "fiord" è lungo; possiamo quindi prendere un grande slancio. Ora andate a riposarvi, che ne avete bisogno; io ispezionerò il banco e cercherò di indebolirlo. Il tenente, che si sentiva affranto per la lunga marcia fatta attraverso le nevi e le rupi, si ritirò nella sua cabina, mentre il capitano scendeva nella baleniera con una dozzina di marinai muniti di grandi seghe, di picconi e di scuri. Il banco di ghiaccio che chiudeva il "fiord" fu accuratamente visitato. Era lungo duecentosessanta metri, largo centoventi e grosso nove pollici. Per di più, sul dinanzi, spinti dalle onde e dal vento si erano aggruppati parecchi "hummoks", "streams" e "palks" che tendevano a cementarsi rendendo maggiore l'ostacolo. - Il "Danebrog" avrà un osso duro da spezzare! - disse mastro Widdeak al capitano. - E se non facciamo presto diverrà ancora più duro. - La tempesta si calma, vecchio mastro. - disse Weimar. - Stanotte potremo partire. - Dobbiamo assalire il banco? - Assalitelo. - Non si chiuderà il canale che apriremo, col freddo che fa? - Speriamo che ciò non accada. Non abbiamo che due gradi sotto zero. Mano alle seghe e ai picconi. Il mastro tracciò sul banco un canale largo sette o otto metri e i marinai si misero alacremente al lavoro manovrando vigorosamente i loro attrezzi. Prima di sera un terzo del banco era stato spezzato. Non restava che un tratto di sessanta metri e questa rottura poteva benissimo farla, e senza pericolo, lo sperone del "Danebrog". Alle otto il capitano e i marinai tornarono a bordo. L'uragano allora cominciava a diminuire rapidamente. Non soffiava il vento che a colpi irregolarissimi e il mare non si sollevava più così furiosamente come il giorno innanzi. Durante la notte anche il cielo si rischiarò e apparve il sole, illuminando d'una tinta porporina, superba, i ghiacci che galleggiavano sul mare diventato ormai quasi tranquillo. Alle 6 del mattino il capitano Weimar, il tenente e tutti i marinai erano in coperta, decisi di uscire a qualunque costo da quel "fiord". Tutte le baleniere furono ritirate a bordo e ben assicurate onde l'urto, che poteva essere violentissimo, non le danneggiasse, poi furono solidamente assicurati i mobili delle cabine di poppa e i barili della stiva. Alle 7 le vele furono spiegate e i! capitano si mise alla ribolla del timone mentre i marinai si disponevano ai bracci delle manovre. Un vento fresco soffiava da sud-sud-est portando in alto mare i ghiacci che la tempesta aveva spinto verso la costa, e un superbo sole brillava sull'orizzonte spargendo all'intorno un dolce calore. Alle 7 e dieci minuti l'ancora fu strappata dal fondo e ritirata a bordo. Subito il "Danebrog", sotto l'azione del vento che gonfiava le sue vele, si scosse come un cavallo che sente lo sprone e cominciò a filare con notevole velocità verso l'uscita del "fiord", dinanzi al quale scintillava il banco di ghiaccio. C'erano oltre novecento metri da percorrere. Tale distanza era più che sufficiente per imprimere al "Danebrog" lo slancio necessario per frantumare l'ostacolo già stato considerevolmente indebolito il dì innanzi dalle seghe, dai picconi e dalle scuri dei marinai. - Saldi, in gambe! - gridò il capitano che stringeva con ferrea mano la ribolla del timone. Spinto dal vento che tendeva a crescere, il "Danebrog" si avvicinava rapidamente al banco, lasciandosi dietro una scia bianchissima in mezzo alla quale guizzavano non pochi pesci. I marinai, aggrappati al bordo o alle sartie, non respiravano quasi più e guardavano con qualche apprensione il banco che si faceva ad ogni istante più vicino. - Attenzione! - gridò il capitano. Non c'erano che quindici o venti metri. Il "Danebrog", che correva colla velocità di sette nodi all'ora, in brevi istanti superò quello spazio e si scagliò in mezzo al canale scavato il dì innanzi dai marinai. Avvenne un urto formidabile che mandò a gambe levate gran parte dell'equipaggio, seguito subito da uno scricchiolìo sinistro e da una mezza dozzina di sorde detonazioni. Il banco colpito in pieno dall'acuto e solido sperone della nave baleniera si fendette come una lastra di vetro, poi si spezzò in dieci diversi punti con lunghi stridii. Per alcuni momenti il "Danebrog" restò quasi immobile, poi guidato dal suo intrepido capitano, si cacciò in mezzo a quei frantumi e uscì in pieno mare colla prua verso nord. - Urrah! - urlò l'equipaggio che si era subito rimesso in gambe. - Viva il "Danebrog"! Viva il capitano Weimar! Dinanzi al "fiord" il mare era libero, ma a destra e a sinistra, un numero immenso di ghiacci accumulativi dall'uragano, ingombrava le coste. Montagne gigantesche, picchi aguzzi, piramidi tronche, colonne enormi, arcate curiose, cupole ancor più strane, poi grandi banchi si estendevano verso nord formando coi loro riflessi la luce bianca che, come dicemmo, i marinai chiamano "ice- blink". Nessuna nave solcava le onde che erano diventate basse assai e molto lunghe e che, sotto i raggi del sole, splendevano magnificamente come se fossero cosparse di pagliuzze d'oro. Solamente in aria, attraverso l'"ice-blink", volavano silenziosamente alcuni gabbiani. - Bisogna spingersi verso nord per qualche centinaio di miglia - disse il capitano al tenente, dopo aver guardato attentamente, con un forte cannocchiale, l'ampia distesa d'acqua. - Troveremo il mare libero e potremo allora navigare senza lottare contro i ghiacci. - Non allontaniamoci tanto dalle coste, capitano - disse il tenente.- Appena lo possiamo, pieghiamo verso ovest; bisogna affrettarsi a raggiungere lo stretto di Behring. - Lo faremo, signor Hostrup, a meno che non incontriamo sulla nostra via qualche ... - Che cosa, capitano? - Tornare in porto sconfitto, mi punge assai. - Ah! Volete dire che se una balena venisse a nuotare nelle nostre acque ... - Non esiterei a darle la caccia, dovessi spingere la mia nave fino ai grandi campi di ghiaccio. - Sarebbe un'imprudenza imperdonabile, capitano. Abbiamo già tardato troppo a ritornare quest'anno. Due giorni ancora perduti potrebbero esserci fatali. Non vi pare? Il capitano non rispose. Aveva puntato il cannocchiale verso est e guardava con grande attenzione. Il suo viso, di solito tranquillo, si era tutto d'un tratto cambiato e un leggero tremito agitava le sue braccia. - La via è lunga assai! - continuò il tenente che non si era accorto di nulla. - Io sono certo che quando giungeremo nel mare di Behring lo troveremo in gran parte gelato e ... - Tenente! - esclamò in quell'istante il capitano con voce alterata. - Non vedete nulla voi laggiù, verso est? - Sì, degli "icebergs" che danzano allegramente. - No, più lontano, guardate più lontano. A voi, prendete il cannocchiale. Il tenente prese lo strumento e lo puntò nella direzione indicata. Là dove il mare pareva confondersi coll'orizzonte, scorse parecchi punti neri apparire e scomparire e poi riapparire. - Vedete nulla? - chiese Weimar. - Sì! - rispose il tenente con voce tranquilla. - Vedo un branco di balene. - La vittoria è nostra, tenente! Anche quest'anno i Danesi trionferanno. - Cosa intendete dire, capitano? - Che daremo la caccia alle balene. Torneremo a Nuova Arcangelo così carichi da affondare, o poco meno. Il tenente fece un gesto di stupore. - Perderemo un'altra settimana, signore - disse poi con grave accento. - Che importa? - Vi ho detto poco fa che siamo lontani dal mare di Behring, e che dubito assai lo si possa attraversare. - Bah! Lavoreremo di sperone, se i ghiacci l'avranno chiuso. - Capitano, pensateci due volte. Giuocate la sorte non solo del "Danebrog", ma di noi tutti. - Quando si tratta dell'onore dei balenieri danesi non occorre pensarci su due volte. Bisogna cacciare quelle balene, tenente, e a qualunque costo. - E sia, signore. Ma badate a me, facciamo presto, assai presto o saremo costretti a svernare in mezzo ai ghiacci. - Non domando che tre o quattro giorni. Ehi!, mastro Widdeak, governa dritto a quelle balene e voi, ragazzi, preparate le baleniere e i ramponi! - Ma ... capitano ... - arrischiò il vecchio lupo di mare, che come il tenente Hostrup aveva previsto il pericolo. - Che vuoi tu dire? - chiese il capitano. - Siamo innanzi assai colla stagione ... - Sei hai paura, sbarca sulla costa americana. - Mai, signore. Il vecchio Widdeak non abbandona il "Danebrog". - Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il "Danebrog" fino al bastingaggio. Un istante dopo il "Danebrog" virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell'onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni. Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni. In capo ad un'ora il "Danebrog" era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell'oceano artico! Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d'acciaio. Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti. I marinai del "Danebrog", entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia. Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all'equipaggio del "Danebrog". Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l'altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un'ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco. Già il "Danebrog", spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine. Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell'acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore. - Cosa succede laggiù? - si chiese il capitano aggrottando la fronte. - Che abbiano paura di noi? - Non lo credo! - disse il tenente che gli stava appresso. - Scommetterei che sono state assalite. - Assalite! E da chi? - Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente. - Sì, sì, li scorgo. In quell'istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare: - Abbiamo una truppa di delfini gladiatori! Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici. Il capitano fece un gesto di rabbia. - Dannazione! - gridò. - Chissà quanto dovremo filare! - Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! - disse Koninson che aveva lasciato la coffa. - I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita. - Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi. - Bah! Poi ci trarremo d'impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone! Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti. Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall'equipaggio del "Danebrog". Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l'orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità. Il "Danebrog" però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l'equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d'ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene. Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il "Danebrog" navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all'orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose. Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte. La sera dello stesso giorno però, presso uno "stream", fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso. Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti. Il 26 l'equipaggio del "Danebrog" notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria. Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell'abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili. Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere. L'acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l'eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l'aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l'alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri! Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio. Una luce biancastra prodotta dall'"ice-blink" e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40o sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14o. L'equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d'olio di balena. Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce. - Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano? - Sì, sì! - risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. - Solennizzeremo il Natale con un banchetto. - E pianteremo anche l'albero. - Con dei regali per tutti. - Sì, con dei regali. In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il "Danebrog". Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri. La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi "iceberg" di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma. Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie. - Siamo proprio accerchiati, e come! - esclamò il tenente. - Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via. - Fortunatamente la nave resiste sempre! - disse il capitano. - Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò. - Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi. - E i nostri magazzini avranno sofferto? - interrogò Koninson, guardando a babordo. - Non mi sembra - disse il capitano. - La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo. - Sì, domani! - affermò il tenente. - Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale. - E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup. - Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti. - Mi metterò io alla loro testa! - disse il fiociniere. - Ehi, mastro Widdeak, al lavoro! I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina. Alle 4 pomeridiane il ponte del "Danebrog" offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine. Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione. Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie. - A tavola! - s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente. Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi. - Evviva al sig. Hostrup! - urlò l'equipaggio. - Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, - disse il tenente - e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco. I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe. Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò. - Capitano, un brindisi - gridò. - A chi? - domandarono i marinai. - Al nostro valoroso "Danebrog"! Amici, capitano, evviva al "Danebrog"! Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono. Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito. - Cosa succede? - chiese il tenente che nulla aveva avvertito. - La nave si è mossa! - disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni. - Ed io ho udito un sordo boato - aggiunse Koninson. - Forse le pressioni? - chiesero i marinai. Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio. - Sono le pressioni! - esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. - E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci! - Zitti tutti! - comandò il capitano. - Udite! Udite! Ognuno prestò orecchio. In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee. D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia. - Fuori, fuori tutti! - disse il capitano. I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio. Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave. Gli "iceberg", le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni. Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli "iceberg" che venivano dietro di loro. - Corriamo qualche pericolo? - chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata. - Chi può dirlo? - rispose Weimar. - Temo però che passeremo una brutta notte. - Cosa dobbiamo fare? - chiese Koninson. - Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta. - Perchè mai? - chiesero alcuni. - Perchè potrebbe darsi che la nave ... . Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni "icebergs". L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore, - Presto, presto, - gridò il capitano - portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe. I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta. Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, "icebergs", "hummocks", piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi. Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano. La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci. L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno. Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di "icebergs" e di "hummocks" e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini. Il "Danebrog", che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare: - Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il "Danebrog"! Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe. Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando: - Indietro, fermi tutti! Il banco si apre! Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare. - Indietro - ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. - Volete farvi stritolare dai ghiacci? - Ma la nave affonda! - disse un gabbiere. - Non ancora! - gridò il tenente. - Tutti a poppa! Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa. - Signor Hostrup, - gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci - scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani. Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte. - Ebbene? - chiesero i marinai correndo verso di lui. - È finita per il "Danebrog"? - Non ancora! - rispose egli. - Non affondiamo? - No, almeno per ora. - Cos'è che ha ceduto? - chiese il capitano. - I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva. Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava. - Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani? - Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave. - L'acqua entra? - L'ho udita precipitare nella sentina. - Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini? - Lo tenterò, capitano, se è necessario. - È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

"Alzati, invoca Dio e maledici il demonio che ti ha spinto ad abbandonare il tuo sposo ed i tuoi figli." "Afza, che aveva veduto un terribile lampo balenare negli occhi del tradito, cercò di gridare al soccorso, ma venne afferrata strettamente e portata sul cammello. "L'allarme però era stato dato, e il padre di Faress e due dei suoi figli si erano slanciati sulle tracce di Alojan. "Questi, vedendosi inseguito da vicino, impugnò le sue armi e si difese come un leone. Nel frattempo Afza, liberatasi dai suoi legami, si unì agli inseguitori, scagliando sassi contro Alojan, e uno dei sassi lo colse alla testa, ferendolo. "Nondimeno Alojan uccise i due fratelli di Faress e riuscì ad atterrare anche il padre. "Io non uccido i vecchi," disse, quando lo vide a terra. "Riprendi il tuo cavallo e ritorna fra i tuoi." "Poi riafferrata Afza, si rimise in viaggio dirigendosi verso il suo primiero duar, senza aver detto una parola alla sua donna. "Quando giunse presso la rupe che avete veduto, da uno dei suoi servi che era ancora rimasto nell'oasi, fece chiamare il padre ed i fratelli della moglie, che abitavano poco discosti, e raccontò loro quanto era avvenuto. "Padre;" disse poi, quand'ebbe finito, "giudica tua figlia." "Il vecchio s'alzò senza dire verbo, trasse la scimitarra e la testa della bella Afza ruzzolò al suolo. "Compiuta la vendetta, Alojan rovinò i pozzi onde tutte le piante morissero, li riempì di sabbia, poi salito sul suo cammello scomparve fra le dune del deserto, né più si seppe nulla di lui. "La rupe però è rimasta a ricordare la vendetta del povero cacciatore del deserto sulla infedele Afza."

Certo ormai di tenerla in suo potere e che essa non avrebbe osato abbandonare il suo rifugio, raggiunse Ben e Rocco i quali avevano sollevato l'uomo che era stato assalito dal formidabile predone del deserto. Era un individuo di cinquanta o sessant'anni, dalla pelle molto bruna, con una barba lunghissima e completamente bianca, gli occhi nerissimi, animati da un fuoco selvaggio, ed il corpo d'una magrezza spaventosa. Aveva il capo coperto da un turbante d'una bianchezza dubbia e un ampio caic rattoppato. Indosso nessuna arma, eccettuato un nodoso bastone. Nondimeno doveva essersi difeso gagliardamente contro l'attacco della belva, perché non aveva riportato che una sola graffiatura che gli deturpava la gota sinistra. "Iddio vi sarà riconoscente," disse, quando Rocco gli ebbe lavato la ferita. "Chi siete e cosa fate qui solo nel deserto?" chiese il marchese. "Sono un povero marabutto e mi sono smarrito allontanandomi dalla carovana colla quale marciavo. Da cinque giorni cammino alla ventura." "Potete reggervi?" "Muoio di fame, signore, e sono così sfinito che non ho più la forza necessaria per fare un passo." "Vi metterò sul mio cavallo," disse Ben. "Desidererei prima sapere da dove venite." "Dal Sahara centrale, dalle oasi di Argan e di Birel-Deheb." Nartico scambiò col marchese un rapido sguardo che voleva significare "Quest'uomo può essere prezioso." "Rocco," disse il marchese. "Conduci questo povero diavolo da El-Haggar e fa accampare i cammelli. Noi intanto cercheremo di scovare la pantera." "Lasciatela andare, signore," rispose il sardo. "No, mio bravo Rocco; conto sulla magnifica pelliccia." L'ercole prese fra le robuste braccia quel corpo magrissimo, lo pose sul proprio cavallo e si allontanò fra le dune. "Che cosa volevate dire con quello sguardo?" chiese il marchese a Ben, quando furono soli. "Che quel marabutto potrebbe darvi delle preziose informazioni sulla strage della missione Flatters. Se egli viene realmente dal Sahara centrale, ne saprà qualche cosa di certo e forse più di quanto c'immaginiamo." "L'avevo pensato anch'io, Ben. Però ... " "Parlate." "Dovrò fidarmi di quell'uomo? I marabutti sono fanatici." "Non vi potrà tradire perché deve aver molta fretta di ritornare nel Marocco. Ho veduto che possiede una borsa ben gonfia, segno sicuro che la sua questua è stata abbondante anche fra i Tuareg. Gli doneremo un cammello e lo manderemo a Tafilelt." "Per ora andiamo a scovare quell'animale, se ciò vi fa piacere." "Non sarà cosa lunga." "Purché si decida a lasciare il suo covo!" "Ve lo costringeremo, marchese. Gli sterpi ben secchi qui non mancano e non avremo da faticare per accenderli." Legarono i cavalli l'uno all'altro e s'accostarono all'ammasso di rocce, tenendo le dita sui grilletti dei fucili. In fondo a quella specie di corridoio videro subito brillare due punti luminosi dalla luce verdastra e udirono un rauco brontolio. "Ci spia," disse il marchese. "Badate, marchese. Se è una femmina ed ha dei piccini, si difenderà disperatamente." "Ah! è scomparsa! Che sia molto profonda la tana?" "Proverò a far fuoco; voi tenetevi pronto a dare il colpo di grazia, marchese." "L'aspetto," rispose il signor di Sartena, il quale non perdeva un atomo della sua calma. "E anch'io," disse una voce. "Ah! Tu, Rocco!" "Volevate che vi lasciassi soli nel pericolo?" chiese il sardo. "Il marabutto è nelle mani della signorina Esther e non ha più bisogno di me." "Attenzione," disse Ben. Avanzò fino a cinque passi dal crepaccio, abbassò l'arma e la scaricò dentro. Lo sparo fu seguito da un urlo, ma la fiera non uscì. "Che la galleria sia più ampia di quanto supponiamo?" chiese il marchese. "Forse descrive qualche curva," rispose Ben, "e la mia palla non ha colpito che le rocce." "Affumichiamola," propose Rocco. "Quando non potrà più resistere, balzerà fuori." Mentre il marchese rimaneva a guardia del crepaccio, Ben ed il sardo strapparono alcune bracciate di albagi e le gettarono, colle dovute precauzioni, dinanzi alle rocce. La pantera, quasi si fosse accorta delle loro intenzioni, aveva incominciato a brontolare, aumentando rapidamente il tono. Erano urla rauche, cavernose, piene di minaccia e che annunziavano un imminente assalto. "Questi preparativi non le garbano," disse il marchese. Rocco accese uno zolfanello e andò con pazza temerità a dar fuoco agli sterpi. Stava per ritirarsi, quando la belva, con uno slancio repentino, gli si scagliò addosso, attraversando le fiamme colla rapidità della folgore. L'assalto era stato così improvviso, che il gigante non aveva potuto reggere all'urto ed era caduto pesantemente sul dorso. "Fuggi!" aveva gridato il marchese. Era troppo tardi per pensare ad una ritirata. La belva gli si era gettata sopra con furia incredibile, cercando di dilaniarlo colle poderose unghie. Fortunatamente il sardo era dotato d'una forza veramente erculea. Vedendosi perduto e nell'impossibilità di evitare l'attacco, aveva stretto le braccia attorno alla pantera con tale rabbia da strapparle un urlo di furore. Un orso grigio non avrebbe potuto fare di più con un giaguaro. Rocco non lasciava la preda, mettendo a dura prova le costole e la spina dorsale della belva. Il marchese e Ben erano balzati innanzi, ma non osavano far fuoco per. paura di uccidere, colla medesima palla, anche il compagno, il quale formava colla sua avversaria una massa sola. "Scostati, Rocco!" urlava il marchese. "Lasciala andare!" Il sardo però non la intendeva così. Temendo di provare quelle unghie dure come l'acciaio, raddoppiava gli sforzi per non lasciarla libera. Le sue braccia poderose si stringevano sempre più facendo scricchiolare l'ossatura della fiera. "Lasciate fare, padrone," diceva. "Cederà." La pantera, sentendosi soffocare, faceva sforzi prodigiosi per liberare le zampe e tentava di azzannare il cranio del suo nemico. Urlava ferocemente mandando schiuma dalla gola sanguinosa e dimenava pazzamente la coda con moti convulsi. I suoi occhi, che avevano dei bagliori sinistri, pareva che schizzassero dalle orbite. A un tratto mandò un urlo più rauco, poi s'abbandonò mentre le potenti braccia del sardo si rinserravano più strette che mai attorno al suo corpo. "Va'!" gridò l'ercole, scagliandola quattro o cinque passi lontano. "Marchese, potete darle il colpo di grazia." Due palle che le attraversarono il cranio la finirono per sempre. "Mille demoni!" esclamò il marchese, che non si era ancora rimesso. "Quale vigore sovrumano possiedi tu, Rocco?" "Due solide braccia," rispose il sardo sorridendo. "Da sfidare quelle d'un gorilla." "Se troverò una di quelle scimmie gigantesche, la sfiderò alla lotta, marchese." "Ecco un uomo che ne vale venti," disse Ben. "Se i Tuareg ci assaliranno io non vorrei trovarmi nei loro panni."

Subito urla furiose si erano alzate fra la folla e una tempesta di sassi era volata addosso al negro, il quale si era messo a correre a perdifiato senza abbandonare l'animale. "Perché lo trattano così?" chiese il marchese, stupito. "Per incitarlo a correre," rispose Ben Nartico. "Dalle sue gambe può dipendere la rovina della sultania." "Che frottole mi raccontate?" "Sono verità, marchese. Il negro deve portare il montone al palazzo del sultano e giungervi prima che le carni si siano raffreddate, meglio poi se saranno ancora palpitanti." "E se arrivasse troppo tardi?" "Cattivo augurio, sia nel sultano, sia per gli abitanti. Oh, ma non dubitate! Il negro, per non venire lapidato, giungerà in tempo. Andiamo, marchese. Non aspettiamo che il sultano torni al suo palazzo." L'arabo aveva già fatto segno di mettersi in marcia. Il drappello si aprì il passo con spinte e pugni e si cacciò in una viuzza laterale che era ingombra solamente d'asini e di cammelli. Avevano appena percorso poche dozzine di passi, quando Rocco, che veniva ultimo, s'accorse che ne mancava uno: El-Melah. "Signore," disse, appressandosi al marchese. "Il sahariano si è smarrito fra la folla." "Eppure poco fa era presso di me," rispose il signor di Sartena. "L'ho veduto anch'io," disse Ben. "Dove si sarà cacciato costui?" "Lo ritroveremo di certo presso il palazzo," disse il marchese. "El-Melah conosce Tombuctu e non si smarrirà." Per nulla inquieti dell'assenza del miserabile, non avendo alcun sospetto su di lui, proseguirono la via, ripassando per la piazza del mercato che era stata occupata da alcuni Tuareg, quindi attraversate parecchie altre strade giunsero dinanzi alla kasbah o palazzo del sultano. Era una costruzione molto elegante di stile moresco, con porticati, cupolette, terrazze, torricelle esilissime e meravigliosamente lavorate e fiancheggiata da due padiglioni ad un solo piano, le cui finestre s'aprivano a due metri dal terreno. Solamente dinanzi alla entrata principale si vedevano due kissuri in sentinella; tutte le altre erano chiuse e senza guardie. "Dove si trova il colonnello?" chiese il signor di Sartena, il cui volto era trasfigurato da una estrema ansietà. L'arabo indicò uno dei due padiglioni che era sormontato da un minareto dove in quel momento stava affacciato, sotto la cupoletta, un marabuto, forse per pregare o per godersi di lassù il panorama di Tombuctu. "Là," disse. "Ma la porta è chiusa," osservò Ben. "La finestra è aperta." "Entreremo da quella?" "Sì." "Sarà solo, il colonnello?" "Sì, perché è stato avvertito del vostro arrivo." "Andiamo!" esclamò il marchese, slanciandosi innanzi. La piazza che si estendeva dietro la kasbah era deserta, quindi non correvano pericolo di venire scoperti. Attraversarono velocemente lo spazio, si assicurarono d'aver tutti la rivoltella ed il pugnale e si radunarono sotto la finestra le cui persiane erano semiaperte. Il marchese stava per aggrapparsi al davanzale, quando si volse, dicendo "El-Melah?" "Non si vede," rispose Ben, dopo aver lanciato uno sguardo sotto i palmizi che ombreggiavano la piazza. "Che sia rimasto presso la moschea? Bah! Faremo senza di lui." Il marchese, aiutato da Rocco, scavalcò lesto il davanzale, impugnò la rivoltella e balzò nella stanza. Essendo la persiana mezzo calata, ed avendo egli gli occhi ancora abbagliati dal sole, subito non distinse nulla. Dopo qualche istante però s'avvide di trovarsi in una bellissima sala col pavimento di mosaico e le pareti coperte da stoffe fiorate. Tutto all'intorno vi erano divani di marocchino rosso e nel mezzo una fontanella il cui getto manteneva là dentro una deliziosa frescura. In quel frattempo Rocco e Ben erano pure entrati. "Dov'è il colonnello?" chiese l'ebreo. "Eccomi," rispose una voce in lingua francese. Un uomo di alta statura, avvolto in un ampio caic che lo copriva tutto, e col capo coperto da un turbante che gli nascondeva quasi interamente il volto, era comparso sulla soglia d'una porta nascosta da una tenda. Il marchese stava per slanciarglisi contro colle braccia aperte, quando al di fuori si udì El-Haggar urlare "Tradimento! I kissuri." Poi risuonò un colpo di pistola seguito da un urlo di dolore. Contemporaneamente l'uomo che avevano creduto il colonnello si sbarazzava del caic ed impugnando un largo jatagan si scagliava sul marchese urlando: "Arrendetevi!" I due isolani e l'ebreo erano rimasti così stupiti da quell'inaspettato cambiamento di scena, che non pensarono subito a fuggire. D'altronde era ormai troppo tardi; al di fuori si udivano già le urla dei kissuri del sultano. Rocco, preso da un terribile impeto di rabbia, si era scagliato sul preteso colonnello. "Prendi canaglia!" urlò. Gli scaricò in pieno petto due palle, gettandolo a terra moribondo, poi spinse il marchese e Ben verso una porticina che s'apriva in un angolo delle pareti. "Fuggiamo per di là," disse. Nel medesimo momento alcuni kissuri armati di pistole e di jatagan irrompevano nella sala mandando urla furiose. I due isolani e l'ebreo chiusero rapidamente la porta e vedendo dinanzi a se stessi una scaletta, vi si slanciarono, montando i gradini a quattro a quattro. Quella scala, stretta e tortuosa, metteva sulla cima del minareto che già avevano osservato prima di entrare nel padiglione e che s'innalzava sull'angolo destro della piccola costruzione, dominando la kasbah del sultano e la piazza. Era una specie di torre, molto sottile, come sono tutti i minareti delle moschee mussulmane, e che a trenta metri dal suolo terminava in una cupoletta rotonda, dove il muezzin del sultano andava a lanciare la preghiera del mattino e della sera. La scaletta però invece di essere esterna era interna, una vera fortuna pei fuggiaschi, diversamente avrebbero corso il pericolo di venire subito moschettati dai kissuri che avevano invaso la piazza. Giunti alla cupoletta essi si trovarono dinanzi al marabuto che avevano già veduto affacciato pochi momenti prima. Il santone, vedendo comparire quei tre uomini armati di pugnali e di rivoltelle, e coi visi sconvolti, cadde in ginocchio, gridando "Grazia! Io sono un servo devoto di Allah! Non uccidete un santo uomo!" "Per le colonne d'Ercole!" esclamò il marchese. "Ecco un uomo che ci darà dei fastidi." "Anzi sarà per noi un prezioso ostaggio," disse Ben. "Cosa devo fare?" chiese Rocco. "Legarlo per bene e lasciarlo in pace." Il sardo si levò la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e legò strettamente il disgraziato senza che questi, mezzo morto dalla paura, osasse protestare. Il marchese e Ben si erano intanto affacciati al parapetto della cupola. Più di cinquanta kissuri armati di vecchi fucili a pietra, di lance, di pugnali e di scimitarre, si erano radunati dinanzi al padiglione, urlando e minacciando. Sotto la finestra giaceva un uomo colla testa fracassata: era l'arabo che aveva guidato il drappello promettendo la liberazione del disgraziato Flatters. "Che sia stato El-Haggar a ucciderlo?" chiese Ben. "Non lo so, né mi curo di saperlo, almeno per ora," rispose il marchese. "Occupiamoci invece di cercare un modo qualsiasi per salvare le nostre teste." "Signore," disse Rocco, "vengono!" "I kissuri?" "Sì, marchese, hanno atterrato la porta." "E quelli della piazza si preparano a fucilarci," disse Ben. "Ci hanno veduti." "Rocco, prendi il marabuto e minaccia di farlo cadere sulla piazza." "Subito, signore." L'ercole afferrò il santone, il quale mandava urla da far compassione anche ad una belva, lo sollevò fino al parapetto e poi lo spinse fuori tenendolo sospeso per un braccio, mentre il marchese gridava con voce tuonante: "Se fate fuoco, lo lasciamo cadere!" "Attenti alle vostre teste," aggiunse Rocco. "Il santone precipita e vi assicuro che nemmeno Maometto lo salverà."

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Ella fissava i suoi occhi dolenti sui visitatori, come se non si raccapezzasse, e un'ombra di dolore li rianimava, per un minuto, quando ella intendeva che doveva abbandonare quel tetto, quell'asilo. La portinaia sottovoce, diceva: - La marchesina. Senz'altro: ed era, quell'apparizione, come tutta la grande linea di un disastro morale irrimediabile. Talvolta, i visitatori, accompagnati dalla portinaia e da Margherita, la cameriera, arrivavano davanti a una porta chiusa. La cameriera esitava un momento: ma a un'occhiata suggestiva della portinaia, si decideva a bussare. - Eccellenza, possiamo entrare? - Sì, sì, - rispondeva una fioca voce. E tutti vedevano una misera stanzetta verginale, dove si gelava di freddo, dove la smorta creatura dal vestito nero, avvolta nel gramo sciallino, era seduta presso il suo lettuccio, o si levava prestamente dal suo inginocchiatoio. Allora, intimiditi, coloro davano appena un' occhiata rapida, mormoravano vagamente qualche parola di scusa e se ne andavano, mentre la fanciulla li seguiva coi neri occhi pensosi e dolenti. Nelle scale essi osavano parlare: domandavano alla portinaia, come se si trattasse di persone e di cose morte: - Come si chiamavano, ostoro? ostoro?- I marchesi Cavalcanti, - diceva la portinaia. E i visitatori andavano via, portando seco l'impressione profonda di cose e di persone estinte.

Un fatto di cronaca

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Steno, Flavia 1 occorrenze

Perché, quel suo proposito di abbandonare per sempre Sandro, resisterebbe quando ella venisse a sapere che il destino stesso s'è incaricato di vendicarla, che la sua rivale non esiste più, che, forse, suo marito le sarebbe ritornato per sempre? E, ammesso anche che ella restasse ferma nel suo proposito di non rientrare più nella casa di suo marito, come accoglierebbe il fatto che lui, Nico, abbia potuto saperla morta, contemplarla morta e serbarsi tranquillo come ella lo ha veduto? Crederebbe ancora al suo amore? persisterebbe nel proposito di restare con lui per sempre? No. Il coraggio di arrischiare quella felicità che gli si è appena prospettata, Lusardi non l'ha. Avrebbe potuto parlare, prima, appena riveduta Jetta; adesso che l'ha tenuta sul suo cuore, che ha toccato le sue labbra, non più! - Ma perché, perché - si dice - dovrei rinunciare alla mia felicità? Un'altra voce, quella non dell'innamorato, ma dell'uomo, sorge a ricordargli la responsabilità enorme che egli si assume tacendo l'equivoco che lascerà credere morta una creatura viva e sana, ingenerando la possibilità di chissà quante complicazioni. - A questo - egli risponde a se stesso - penserò più tardi. C'è sempre tempo per una denuncia magari anonima che ristabilisca la verità. Più tardi, quando avrò portato via Jetta con me, lontano così che nessuno possa rintracciarla più. Stabilito così il suo programma, egli risponde a Jetta: - Lo dico con gravita perché io sento che da quest'istante comincia, per noi, un'altra vita. - Sì - assente, più smarrita che convinta, la donna. Egli se l'è attirata un'altra volta sul cuore mentre le parla, e la stordisce dolcemente, lentamente con lievi carene che dicono il suo desiderio e, insieme, lo contengono. Non vuole approfittare dell'abbandono e fors'anche del risentimento della donna per averla di sorpresa. Jetta sarà sua quando, degli eventi che l'hanno portata fra le sue braccia, esisterà in lei soltanto il ricordo e non l'amarezza. Quando ella lo amerà come egli l'ama : unicamente. - Il nostro amore - egli le sussurra sul volto - deve essere più grande di una rappresaglia. - Sì, sì! C'è, nelle sensazioni che tengono Jetta, una vaga soggezione, adesso, per quell'uomo che le sembra d'imparare a conoscere. Vagamente ella si sente delusa di non trovarlo esclusivamente amante, e tuttavia gli è grata di sentirlo così. Nel viluppo d'impressioni che la agitano una, adesso, domina : la certezza d'avere accanto una tenerezza protettrice. - Andremo lontano - le dice, adesso, Lusardi. - In America, in Oriente, dove vorrai. Quando Nico l'accompagna nella stanza dove Jetta passerà la notte, i propositi d'avvenire sono già stati concretati in un preciso piano del quale Lusardi ha fissato per il giorno dopo l'attuazione con questo primissimo punto: alle undici precise, partenza per Genova.

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Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683084
Bertelli, Luigi - Vamba 2 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- E mi meravigliavo di non averne mai domandato una spiegazione finora che mi sarebbe stato così facile averla, mentre ora che mancava poco tempo ad abbandonare per sempre il collegio mi sentivo a un tratto una grande curiosità che mi pungeva sempre più, che a poco a poco mi invadeva tutto cacciando via, in seconda linea, tante altre preoccupazioni che pure avevano diritto d'essere accolte in prima fila... A un certo punto vidi passare pel corridoio il Michelozzi e mi slanciai verso di lui. - Dimmi - gli dissi rapidamente - perché il signor Stanislao si chiama Calpurnio? - Il Michelozzi mi guardò trasecolato. - Come! - disse. - Ma non sai quel che è successo? Non sei stato chiamato? - Sì: e sono stato mandato via. E voialtri? - Anche noi! - Sta bene: ma io voglio andar via sapendo il perché il signor Stanislao si chiama Calpurnio... - Il Michelozzi rise. - Guarda nella Storia Romana e capirai! - rispose e fuggì via. In quel momento passava un ragazzo della mia camerata, un certo Ezio Masi, che mi guardò con un lieve risolino maligno. Quel risolino, in quel momento, fu per me come una rivelazione. Mi ricordai d'una volta in cui avevo avuto che dire col Masi il quale infine aveva ceduto alle mie minacce di picchiarlo; sapevo che egli era uno dei collegiali più ben visti dalla signora Geltrude... E tutto questo condusse, nella mia mente, a formular subito un'accusa: - È stato lui che ha fatto la spia! - Non ci stetti a ragionar sopra; lo presi per un braccio e lo spinsi così in camerata mormorando: - Senti, Masi... t'ho da dire una cosa. - Sentivo che egli tremava; e intanto andavo architettando nella mia mente l'interrogatorio da rivolgergli e una vendetta nel caso ch'io lo avessi scoperto veramente colpevole. Nel tragitto che feci trascinandolo dalla porta della camerata al mio letto feci tutto un piano strategico per l'assalto, e uniformandomi a quello rallentai la mano colla quale lo stringevo e lo invitai a sedere accanto a me col più bel sorriso del mondo. Egli era pallido come un morto. - Non aver paura, Masi, - gli dissi con accento mellifluo - perché anzi ti ho portato qui per ringraziarti. - Egli mi guardò sospettoso. - Lo so che sei stato tu che hai detto al signor Stanislao che io l'altra notte ero uscito di camerata... - Non è vero! - protestò lui. - Non lo negare; me l'ha detto lui, capisci? E appunto per questo io ti voglio ringraziare, perché mi hai fatto proprio un piacere... - Ma io... - Non capisci che io non ci volevo più stare qui dentro? Non capisci che ne facevo di tutte apposta per farmi mandar via? Che non mi par vero d'essere arrivato a questo momento in cui sto aspettando mio padre che sarà qui fra poco a prendermi? Dunque perché dovrei avercela con te che m'hai fatto raggiungere il mio scopo? - Egli mi guardò non ancora rassicurato. - Ora giacché mi hai fatto questo piacere, me ne devi fare un altro. Senti... vorrei andare un momento di là a salutare un mio amico e a dargli la mia giacchetta da collegiale che ho promesso di lasciargli per ricordo: puoi aspettarmi qui, e dire al bidello, nel caso che venisse a cercarmi, che ritorno subito? - Il Masi ora non dubitava più e manifestò una grande contentezza di essersela cavata così a buon mercato. - Ma figurati! - mi disse - fa' pure, sto qui io!... - Io corsi via. La scuola di disegno, ch'era lì vicina era aperta e non c'era nessuno. Vi entrai stesi la mia giacchetta da collegiale su un banco e preso un pezzo di gesso scrissi nella schiena della giacca, a grandi lettere, la parola: Spia. Fatto questo, in un lampo, ritornai in camerata, dove entrai con passo misurato, tenendo la mia giubba per il bavero, ripiegata in due in modo che il Masi non vedesse la parola che vi avevo scritta. - Non ho potuto trovare l'amico - dissi. - Pazienza! Ma poiché non ho potuto lasciar la mia giacchetta a lui, per ricordo, voglio lasciarla a te, mentre io mi prenderò la tua in memoria del gran servizio che mi hai reso. Vogliamo fare a baratto? Vediamo se ti sta bene! - E appoggiata lievemente la mia giacchetta sul letto lo aiutai a levarsi la sua e poi a rimettergli la mia, facendo in modo naturalmente che non vedesse la parola che v'era scritta sulla schiena. Quando l'ebbe indossata gliela abbottonai e gli dissi toccandolo con la mano sulla spalla: - Caro Masi, la ti va come un guanto! - Egli si dètte un'occhiata alla bottoniera, e si adattò facilmente a questa mia stravaganza. Si alzò, mi porse la mano... ma io feci finta di non accorgermene, perché mi ripugnava di stringer la destra di un traditore, e mi disse: - Dunque, addio Stoppani! - Io lo ripresi per il braccio e accompagnandolo alla porta risposi: - Addio Masi: e grazie sai? - E lo vidi allontanarsi per il corridoio recando dietro la schiena la parola infamante che s'era meritata.: Poco dopo venne il bidello che mi disse: - Stia pronto, suo padre è arrivato ed è in Direzione a parlare col signor Stanislao. - Mi venne un'idea - Se andassi anche io in Direzione, a raccontare a mio padre in faccia al signor Stanislao, tutti i fatti ai quali egli si sarebbe certo guardato bene accennare, da quello della minestra di rigovernatura a quello della seduta spiritistica? - Ma l'esperienza, purtroppo, mi avvertiva che i piccini di fronte ai più grandi, hanno sempre torto, specialmente quando hanno ragione. A che pro difendersi? Il Direttore avrebbe detto che quelle che io narravo eran fandonie, malignità e calunnie di ragazzi, e mio padre avrebbe creduto certo più a lui che a me. Meglio stare zitti e rassegnarsi al proprio destino. Infatti quando mio padre venne a prendermi non disse nulla. Avrei ben voluto saltargli al collo e abbracciarlo dopo tanto tempo che non lo rivedevo, ma egli mi dètte un'occhiataccia severa che mi agghiacciò e non mi disse altra parola che questa: - Via! - E partimmo. In diligenza si mantenne sempre il medesimo silenzio. Esso non fu rotto da mio padre che nell'entrare in casa. - Eccoti di ritorno, - disse - ma è un cattivo ritorno. E ormai per te non c'è che la Casa dì correzione. Te lo avverto fin d'ora. - Queste parole mi spaventarono; ma la paura mi passò subito perché di lì a poco ero nelle braccia della mamma e di Ada, piangente e felice. Non dimenticherò mai quel momento: e se i babbi sapessero quanto bene fa all'anima dei figlioli il trattarli così affettuosamente piangerebbero anche loro con essi quando c'è l'occasione di farlo, invece di darsi sempre l’aria di tiranni, ché tanto non giova a niente. Il giorno dopo, cioè il giorno 15, seppi dell'arrivo di Gigino Balestra, anche lui mandato via dal collegio per l'affare della grande congiura del 12 febbraio, data memorabile nella storia dei collegi d'Italia e forse d'Europa. E anche questa è una novità che mi ha fatto piacere perché spero di trovarmi spesso insieme col mio buon amico... e magari di mangiar qualche volta insieme qualche pasticcino nel suo bel negozio... però quando non vede il suo babbo che è socialista, ma che in quanto a pasticcini li vorrebbe tutti per sé. E ieri poi ne ho saputa un'altra. Il signor Venanzio, quel vecchio paralitico al quale pescai a canna l'ultimo dente che gli era rimasto, pare che stia di molto male, poveretto, e il mio cognato è in grande aspettativa per la eredità. Questo almeno ho raccapezzato dai discorsi che sento fare; e anzi ho anche saputo che il Maralli, appena ebbe la notizia del mio ritorno dal collegio, disse all'Ada: - Per carità, badate che non mi venga in casa, perché se no mi fa perdere quel che ho acquistato in questo tempo nell'animo dì mio zio e va a finire che mi disereda davvero! - Ma non abbia paura, che io in casa sua non ci vado. Oramai ho promesso alla mia buona mamma e all'Ada di metter la testa a partito e di fare in modo che il babbo non abbia a mettere in esecuzione la minaccia fatta di cacciarmi in una Casa di correzione ché questo sarebbe davvero un disonore per me e per la mia famiglia; e in questi cinque giorni ho dimostrato che questa volta non si tratta di promesse da marinaro, e che se voglio so anche essere un ragazzo di giudizio. Tant'è vero che la mamma stamani mi ha abbracciato e mi ha dato un bacio dicendo: - Bravo Giannino! seguita così e sarai la consolazione dei tuoi genitori! - La frase non è nuova, ma però detta da una mamma buona come la mia fa sempre un effetto nuovo nel cuore di un figliolo per bene, e io le ho giurato di mantenermi sempre così. Io l'ho sempre detto che le mamme sono più ragionevoli dei babbi. Infatti la mamma, quando le ho raccontato dell'affare della minestra di magro che ci davano in collegio il venerdì e dell'eterno riso che si mangiava in tutti gli altri giorni della settimana mi ha dato pienamente ragione e ha detto a mia sorella: - Poverini, chi sa come si stomacavano a mangiar quelle porcherie! -

. - Se avete ancora un po' d'affetto per me non dovete domandarmi né ora né mai quale motivo mi costringe ad abbandonare la presidenza. Vi basti sapere che io non potrei, d'ora innanzi, aiutare e tanto meno promuovere la vostra resistenza contro le autorità del nostro collegio... Dunque vedete bene che la mia posizione è insostenibile e la mia decisione immutabile. - Tutti si guardarono di nuovo in faccia e qualcuno si scambiò anche le proprie impressioni a bassa voce. Io capii subito che le parole del Barozzo sembravano a tutti molto significanti, e, che, passata la prima impressione di stupore, le sue dimissioni sarebbero state accettate. Anche il Barozzo lo capì, ma rimase fermo nel suo atteggiamento, come Marcantonio Bragadino quando aspettava d'essere scorticato dai Turchi. Allora io non ne potei più e pensando a quello che avevo visto e sentito la sera prima dal buco fatto attraverso il fondatore del collegio, gridai con quanto fiato avevo: - Invece tu non ti dimetterai! - E chi me lo può impedire? - disse il Barozzo con molta dignità. - Chi può vietarmi di battere la strada che mi suggerisce la voce della coscienza? - Ma che voce della coscienza! - risposi io. - Ma che strada da battere! La voce che ti ha turbato così è stata quella della signora Geltrude: e quanto al battere, ti assicuro che non c'è bisogno d'altre battiture dopo quelle che ha ricevuto ieri sera il signor Stanislao! - A queste parole i componenti la società Uno per tutti e tutti per uno ono rimasti così meravigliati che m'hanno fatto compassione, e ho subito sentito il bisogno di raccontar loro tutta la scena avvenuta in Direzione. E non ti so dire, giornalino mio, se tutti son stati soddisfatti di sentire che nessun motivo serio costringeva il Barozzo a dimettersi, perché non era vero nulla che lo tenessero in collegio per compassione, mentre anzi ci avevano trovato il loro tornaconto per via dei molti convittori procurati dal tutore del nostro presidente. Ma più specialmente i componenti la società s'interessarono al racconto della bastonatura, e della perdita della parrucca, perché nessuno si sarebbe immaginato che il Direttore con quella sua aria militare si lasciasse maltrattare in quel modo dalla moglie; e tanto meno si poteva supporre che i suoi capelli fossero presi a prestito appunto come l'aria militare. Il Barozzo però era rimasto sempre distratto e come concentrato in sé stesso. Si vedeva che le mie spiegazioni non lo avevano consolato dalla terribile delusione provata quando aveva saputo di trovarsi nel collegio a condizioni diverse dagli altri. E infatti, nonostante la nostra insistenza non volle recedere dalla grave deliberazione presa, e concluse dicendo: - Lasciatemi libero, amici miei, perché io prima o dopo farò qualcosa di grosso... qualcosa che voi non credereste in questo momento. Io non posso più essere della vostra Società perché uno scrupolo me lo vieta, e ho bisogno di riabilitarmi, e non di fronte a voi, di fronte a me stesso. - E disse queste parole in un modo così deliberato che nessuno osò aprir bocca. Si decise di riunirsi al più presto possibile per eleggere un altro presidente, perché ormai s'era fatto tardi e c’era il caso che qualcuno venisse a cercarci. - Gravi avvenimenti si preparano! - mi disse Maurizio Del Ponte mentre ci stringevamo la mano scambiandoci le fatidiche parole: Uno per tutti! Tutti per uno! Vedremo se il Del Ponte avrà indovinato, ma anche a me l'animo presagisce qualche grossa avventura, per un'epoca forse molto prossima. * * * Altra strepitosa notizia! Iersera dal mio osservatorio ho scoperto che il direttore, la direttrice e il cuoco sono spiritisti... Sicuro! Quand'ho messo l'occhio al solito forellino essi eran già riuniti tutti e tre attorno a un tavolino tondo e il cuoco diceva: - Eccolo! Ora viene! - E chi doveva venire era proprio lo spirito del compianto professor Pierpaolo Pierpaoli benemerito fondatore del nostro collegio e dietro alle cui venerate sembianze io stavo in quel momento vigilando i suoi indegni evocatori... Non mi ci volle dimolto tempo né dimolto ingegno per comprendere la causa e lo scopo di quella seduta spiritistica. Evidentemente il signor Stanislao e la signora Geltrude erano rimasti molto impressionati dal mugolìo che avevan sentito la sera avanti discendere dal ritratto del loro predecessore, e ora, spinti un po' dal rimorso per la scenata fatta in presenza alla rispettabile effige del compianto fondatore dell'istituto e forse anche da un vago timore che incutevan nel loro animo i recenti avvenimenti, evocavano lo spirito dell'illustre defunto per domandargli perdono, consiglio ed aiuto. - Ora viene! Eccolo! - ripeteva il cuoco. A un tratto la signora Geltrude esclamò: - Eccolo davvero! - Infatti il tavolino s'era mosso. - Parlo con lo spirito del professor Pierpaoli? - domandò il cuoco fissando sul piano del tavolino due occhi spalancati che luccicavano come due lumini da notte. Sì udirono alcuni colpi battuti sul tavolino e il cuoco esclamò convinto: - È proprio lui. - Domandagli se era lui anche ieri sera - mormorò la signora Geltrude. - Fosti qui anche ieri sera? Rispondi! - disse il cuoco in tuono di comando. E il tavolino a ballare e a picchiare, mentre i tre spiritisti si alzavano dalla sedia e si dondolavano qua e là e si rimettevano a sedere seguendone tutti i movimenti. - Sì, - disse il cuoco - era lui anche ieri sera. - Il signor Stanislao e la signora Geltrude si scambiarono un'occhiata come per dire: - Eh! Ci abbiamo fatto una bella figura! - Poi il signor Stanislao disse al cuoco: - Domandagli se posso rivolgergli la parola... - Ma la signora Geltrude lo interruppe bruscamente, fulminandolo con una occhiata: - Niente affatto! Se qualcuno ha il diritto di parlare con lo spirito del professor Pierpaolo Pierpaoli sono io, io sua nipote e non voi che egli non conosceva neanche per prossimo! Avete capito? - E rivolta al cuoco soggiunse: - Domandagli se vuol parlare con me! - Il cuoco si concentrò in sé stesso e poi, sempre figgendo gli occhi sul piano del tavolino ripeté la domanda. Poco dopo il tavolino ricominciò a ballare e a scricchiolare. - Ha detto di no - rispose il cuoco. La signora Geltrude rimase male, mentre il signor Stanislao, non sapendo padroneggiarsi, diè libero sfogo alla gioia che provava per la meritata sconfitta della sua prepotente consorte, esclamando con accento di giubilo infantile degno più di me che di lui: - Hai visto? - E non l'avesse mai detto! La signora Geltrude si rivoltò tutta inviperita scagliando in volto al povero direttore l'ingiuria abituale: - Siete un perfetto imbecille! - Ma Geltrude! - rispose egli imbarazzato con un fil di voce. - Ti prego di moderarti... almeno in presenza al cuoco... almeno in presenza allo spirito del compianto professore Pierpaolo Pierpaoli! - La timida protesta di quel pover'uomo in quel momento mi commosse e volli vendicarlo contro la violenza di sua moglie. Perciò con voce rauca e con accento di rimprovero esclamai : - Ah!... - I tre si voltarono di botto verso il ritratto, pallidi, tremanti di paura. Vi fu una lunga pausa. Il primo a ritornare padrone di sé fu il cuoco, il quale fissando verso di me i suoi occhi di fuoco esclamò: - Sei tu ancora lo spirito di Pierpaolo Pierpaoli? Rispondi! - Io feci un sibilo: - Sssssss... - Il cuoco continuò: - Ti è concesso di parlare direttamente con noi? - Mi venne un'idea. Contraffacendo la voce come prima risposi: - Mercoledì a mezzanotte! - I tre tacquero commossi dal solenne appuntamento. Poi il cuoco disse a bassa voce: - Si vede che stasera e domani gli è vietato di parlare... A domani l'altro! - Si alzarono, misero il tavolino da una parte, rivolsero uno sguardo supplichevole verso di me e poi il cuoco uscì ripetendo con voce grave: - A domani l'altro. - Il signor Stanislao e la signora Geltrude restarono un po' in mezzo della stanza, impacciati. Poi il direttore dolcemente disse alla moglie: - Geltrude... Geltrude... Cercherai di moderarti? Sì, è vero? Non mi dirai più quella brutta parola?... - Ella, combattuta tra la paura e il suo carattere arcigno, rispose a denti stretti: - Non ve la dirò più... per rispettare il desiderio di quell'anima santa di mio zio... Ma anche senza dirvelo, credete a me, rimarrete sempre quel perfetto imbecille che siete! - A questo punto lasciai il mio osservatorio perché non ne potevo più dal ridere. * * * Stamani dopo aver scritto in queste pagine il fatto della seduta spiritistica di ierisera, mi sono accorto che uno dei miei compagni di dormitorio era sveglio. Gli ho fatto cenno di stare zitto, e del resto anche se non glielo avessi raccomandato sarebbe stato zitto lo stesso, perché si trattava di un amico fidato, di Gigino Balestra del quale ho già parlato in questo mio giornalino. Gigino Balestra è un ragazzo serio, che mi è molto affezionato e ormai ho potuto riscontrare in più circostanze che posso contare su lui senza pericolo d'esser compromesso. Prima di tutto siamo concittadini. Egli è figlio del famoso pasticciere Balestra dal quale si serve sempre mio padre, rinomato per le meringhe che ha sempre fresche, molto amico del mio cognato Maralli perché è anche lui un pezzo grosso del partito socialista. E poi ci sentiamo anche legati di amicizia per la rassomiglianza delle vicende della nostra vita. Anche lui è disgraziato come me e mi ha raccontato tutta la storia delle sue sventure, l'ultima delle quali, che fu la più grossa e che fece prendere al suo babbo la risoluzione di cacciarlo in collegio, è così interessante che voglio raccontarla qui nel mio giornalino. - Campassi mill'anni - mi diceva Gigino - non mi scorderò mai del primo Maggio dell'anno passato che è e rimarrà sempre il più bello e il più brutto giorno della mia vita! - E in quel giorno evocato da Gigino - io stesso me ne ricordo benissimo - c'era una grande agitazione in città perché i socialisti avrebbero voluto che tutti i negozi fossero stati chiusi mentre molti bottegai volevano tenere aperto; anche nelle scuole c'era un certo fermento perché alcuni babbi di scolari, essendo socialisti, volevano che il Preside desse vacanza, mentre molti altri babbi non ne volevan sapere. Naturalmente i ragazzi in quella circostanza si schierarono tutti dalla parte dei socialisti, anche quelli che avevano i babbi di un altro partito, perché quando si tratta di far vacanza io credo che tutti gli scolari di tutto il mondo sieno pronti a dichiararsi solidali nello stesso sacrosanto principio che sarebbe quello d'andare a fare piuttosto una bella passeggiata in campagna col garofano rosso all'occhiello della giacchetta. Difatti successe che molti ragazzi in quel giorno fecero sciopero, e mi ricordo benissimo che lo feci anche io, e che per questo fatto il babbo mi fece stare tre giorni a pane e acqua. Ma pazienza! Tutte le grandi idee hanno sempre avuto i loro martiri... Al povero Gigino Balestra però successo qualche cosa di peggio. Egli, dunque, a differenza di me, aveva fatto sciopero dalla scuola col consenso di suo padre; anzi suo padre lo avrebbe obbligato a far vacanza se, per una ipotesi impossibile ad avverarsi, Gigino avesse voluto andare a scuola. - Oggi è la festa del lavoro - gli aveva detto il signor Balestra - e io ti dò il permesso di andare fuor di porta con i tuoi compagni. Sta' allegro e abbi giudizio. - Gigino non aveva inteso a sordo: e con alcuni suoi amici era andato a fare una visita a certi compagni che stavano in campagna. Arrivati sul posto, tutti insieme si misero a fare il chiasso e, via via, il numero della comitiva era andato aumentando, tanto che da ultimo erano non meno di una ventina di ragazzi di tutte le età e di tutte le condizioni sociali, tutti affratellati in una grande baldoria d'urli e di canti. A un certo punto Gigino che si dava una cert'aria per essere il figlio di uno dei capi del partito socialista, entrò a parlare del primo maggio, della giustizia sociale e di altre cose delle quali aveva sentito parlare spesso in casa e che aveva imparato a ripetere pappagallescamente: ma ad un tratto uno della comitiva, un ragazzaccio tutto strappucchiato gli rivolse a bruciapelo questa inopportuna domanda: - Tutti bei discorsi; ma che è giusta, ecco, che tu abbia una bottega piena di paste e di pasticcini a tua disposizione, mentre noi poveri non si sa neppure di che sapore le sieno? - Gigino a questa inaspettata osservazione rimase male. Ci pensò un poco e rispose: - Ma la bottega non è mica mia: è del mio babbo!... - E che vuol dire? - ribatté il ragazzaccio. - Non è socialista anche il tuo babbo? Dunque, oggi che è la festa del socialismo dovrebbe distribuire almeno una pasta a testa a tutti i ragazzi, specialmente a quelli che non ne hanno mai assaggiate... Se non comincia lui a dare il buon esempio non si può pretendere certo che lo facciano i pasticcieri retrogradi!... - Questo tendenzioso ragionamento ebbe la virtù di convincere l'assemblea e tutta la comitiva si mise a urlare: - Ha ragione Granchio! (Era questo il soprannome del ragazzaccio tutto strappato) Evviva Granchio!... - Gigino, naturalmente, era mortificato perché gli pareva, di fronte, a tutti quei ragazzi, di farei una cattiva figura, e non solo lui ma anche il suo babbo; sicché si struggeva dentro di trovar qualche ragione colla quale ribattere il suo avversario, quando gli venne una idea che da principio lo spaventò quasi per la sua arditezza, ma che gli apparve poi di possibile esecuzione e l'unica che avesse la virtù in quel frangente di salvare la reputazione politica e sociale sua e di suo padre. Aveva pensato che in quel momento il suo babbo era alla Camera del Lavoro a fare un discorso, e che le chiavi di bottega erano in casa, nella sua camera, dentro il cassetto del comodino. - Ebbene! - gridò. - A nome mio e di mio padre vi invito tutti nel nostro negozio ad assaggiare le nostre specialità... Ma intendiamoci, eh, ragazzi! Una pasta a testa! - L'umore dell'assemblea si mutò come per incanto e un solo grido echeggiò, alto, entusiastico, ripetuto da tutte quelle bocche in ciascuna delle quali serpeggiava la medesima acquolina tentatrice. - Evviva Gigino Balestra! Evviva il suo babbo! - E tutti quanti mossero dietro di lui, compatti con l'ardore e la velocità di un eroico drappello alla conquista di una posizione lungamente vagheggiata o il cui possesso si presenti a un tratto privo dì ogni ostacolo. - Sono una ventina fra tutti - pensava intanto Gigino - e per una ventina di paste... mettiamo pure una venticinquina... dall'esserci al non esserci, in bottega dove ce ne sono a centinaia, nessuno se ne può accorgere... In verità non varrebbe la pena che per una simile miseria compromettessi il mio prestigio, quello di mio padre e perfin quello del partito al quale apparteniamo! - Arrivati in città Gigino disse ai suoi fedeli seguaci: - Sentite: ora vo a casa a pigliar le chiavi di bottega... fo in un lampo. Voialtri intanto venite dall'usciolino di dietro... ma alla spicciolata, per non dar nell'occhio! - Bene! - gridarono tutti. Ma Granchio osservò: - Ohé!... Non ci farai mica la burletta, eh? Se no, capisci?... - Gigino ebbe un gesto di grande dignità: - Sono Gigino Balestra! - disse - e quando ho dato una parola si può esser sicuri! - Andò lesto lesto a casa, dove c'era la sua mamma e una sua sorellina; senza farsi vedere sgusciò in camera del babbo, prese dal cassetto del comodino le chiavi di bottega e ritornò via di corsa lanciando alla mamma queste parole: - Vo con i miei compagni, ma tra poco ritorno a casa! - E se n'andò difilato al negozio, guardando a destra e a sinistra per paura che qualche persona di conoscenza della sua famiglia avesse a sorprenderlo durante quella manovra. Aprì la porta scorrevole di ghisa e la tirò su tanto da potere entrare in bottega, e una volta dentro la richiuse. S'era provvisto in casa di una scatola di cerini e con essi accese una candela che il babbo teneva sempre vicino alla porta; così trovò il contatore del gas, l'aprì, e accese poi le lampade della pasticceria; e fatto questo andò ad aprir l'usciolino dietro il negozio che dava in un vicolo poco frequentato. Da quell'usciolino incominciarono a entrare i compagni di Gigino, a uno, a due a tre... - Mi raccomando - badava a ripetere il figlio del pasticcere. - Uno per uno... al più due... Ma non mi rovinate! - Ma a questo punto è meglio che lasci la parola allo stesso Gigino Balestra che essendo stato il protagonista di quella avventura comica e tragica a un tempo, la racconta certamente meglio di quel che potrei fare io. - Lì per lì - dice Gigino - mi parve che il numero dei miei compagni fosse molto cresciuto. Il negozio era addirittura invaso da una vera folla che bisbigliava girando intorno sulle paste e sulle bottiglie de'rosolii certi occhi che parevan di fuoco. Granchio mi domandò se potevano prendere una bottiglia di rosolio, tanto per non murare a secco, e avendo acconsentito, me ne versò gentilmente un bicchiere pieno dicendo che il primo a bere doveva essere il padrone di casa. E io bevvi e bevvero tutti facendomi dei brindisi e invitandomi e ribere, sicché si dovette stappare un'altra bottiglia... Intanto anche le paste sparivano e i più vicini a me ne offrivano dicendomi: - Prendi, senti com'è buona questa, senti com'è squisita quest'altra - proprio come se loro fossero stati i padroni della pasticceria e io il loro invitato. Che vuoi che ti dica, caro Stoppani? Si arrivò a un punto che io non capivo più nulla; ero esaltato, mi sentivo addosso un ardore e un entusiasmo che non avevo provato mai, mi pareva d'essere in un paese fantastico tutto popolato di ragazzi di marzapane col cervello di crema e il cuore di marmellata uniti da un dolce patto di fratellanza condita con molto zucchero e rosolio di tutte le qualità... E ormai anche io seguitavo come tutti gli altri a mangiar paste a quattro ganasce e a vuotar bottiglie e boccette di tutti i colori e di tutti i sapori volgendo delle occhiate di beatitudine in quel campo aperto alla baldoria nel quale si agitavano come fantasmi tutti quei ragazzi che ogni tanto urlavano a bocca piena: - Evviva il socialismo! Evviva il primo maggio! - Io non ti so dire quanto durasse quella grande scena d'ogni dolcezza e d'ogni letizia... So che a un certo punto la musica cambiò a un tratto e una voce terribile, quella di mio padre, rimbombò nel negozio gridando: - Ah, razza di cani, ora ve lo dò io il socialismo! - e fu un diluvio di scapaccioni che piovve da tutte le parti fra le grida e i pianti di tutta quella folla di ragazzi ubriachi che si accalcava confusamente verso la porticina cercando di fuggire. Io ebbi un momento di lucido intervallo nel quale, con un volger d'occhi, abbracciai quel quadro bizzarro e sentii in un lampo tutta la terribile responsabilità che mi pesava... Il banco prima cosparso di centinaia di paste tutte messe per ordine era vuoto, gli scaffali attorno erano tutti in disordine e vi si affacciavano qua e là i colli di bottiglie rovesciate dalle quali colavano giù rosoli e sciroppi, in terra era un piaccichiccio di pasta sfoglia pesticciata, dovunque sulle sedie, nelle cornici degli scaffali e del banco eran bioccoli di crema e di panna sbuzzata fuori dalle meringhe, e ditate di cioccolata... Ma fu solo, come ho detto, in un lampo ch'io intravidi tutto questo, perché un maledetto scapaccione mi fece rotolar sotto il banco e non vidi né sentii più nulla. Quando mi svegliai ero a casa, nel mio letto, e accanto a me c'era la mia mamma che piangeva. Mi sentivo un gran peso nella testa e sullo stomaco... Il giorno dopo, 2 maggio, il babbo mi dette due once d'olio di ricino; la mattina di poi, tre maggio, mi fece vestire e mi portò qui nel collegio Pierpaoli... - Cosi Gigino Balestra ha concluso il suo racconto, con un accento comicamente solenne che mi ha fatto proprio ridere. - Vedi? - gli ho detto. - Anche tu sei vittima, com'è accaduto a me in più circostanze della vita, della tua buona fede e della tua sincerità. Tu avendo il babbo socialista hai creduto nel tuo entusiasmo di dover mettere in pratica le sue teorie distribuendo i pasticcini a que' poveri ragazzi che non ne avevan mai assaggiati, e il tuo babbo ti ha punito... È inutile: il vero torto di noi ragazzi è uno solo: quello di pigliar sul serio le teorie degli uomini... e anche quelle delle donne! In generale accade questo: che i grandi insegnano ai piccini una quantità di cose belle e buone... ma guai se uno dei loro ottimi insegnamenti, nel momento di metterlo in pratica, urta i loro nervi, o i loro calcoli, o i loro interessi. Io mi ricorderò sempre d'un fatto di quando ero piccino... La mia buona mamma, che pure è la più buona donna di questo mondo, mi predicava sempre di non dir bugie perché a dirne solamente una si va per sette anni in Purgatorio; ma un giorno che venne a cercarla la sarta col conto e che lei aveva fatto dire dalla Caterina che era uscita, io per non andare in Purgatorio corsi alla porta di casa a gridare che non era vero nulla e che la mamma era in casa... e in premio d'aver detto la verità ci presi un bello schiaffo. - E perché ti hanno messo in collegio? - Per aver pescato un dente bacato! - Come! - ha esclamato Gigino al colmo dello stupore. - Per uno starnuto d'un vecchio paralitico! - ho aggiunto io divertendomi a vederlo a sgranar tanto d'occhi. Poi, dopo averlo tenuto per un bel pezzo di curiosità, gli ho raccontato l'ultima mia avventura in casa del mio cognato Maralli, per la quale fu interrotto il mese di esperimento concesso da mio padre ed io fui accompagnato in questa galera. - Come vedi, - conclusi - anche io sono stato una vittima del mio destino disgraziato... Perché se quel signor Venanzio zio di mio cognato non avesse fatto uno starnuto proprio nel momento in cui lo avevo avvicinato la lenza con l'amo alla sua bocca sgangherata, io non gli avrei strappato quell'unico dente bacato che gli rimaneva e non sarei qui nel collegio Pierpaoli! Vedi un po', a volte, da che può dipendere la sorte e la reputazione di un povero ragazzo... - * * * Ho voluto raccontar qui le confidenze che son corse tra me e Gigino Balestra per dimostrare che siamo legati ormai in intima amicizia e che, se stamani egli era sveglio e mi guardava mentre io scrivevo nel Giornalino, non avevo nessuna ragione - come ho già detto in principio - di diffidare di lui. Anzi gli ho detto in grande segretezza di queste mie memorie che vo scrivendo, l'ho messo a parte dei miei progetti e gli ho proposto, d'entrare nella nostra Società segreta... Egli mi ha abbracciato con uno slancio d'affetto che mi ha commosso e ha detto che si sentiva orgoglioso della fiducia che rimettevo in lui. Oggi, infatti, durante l'ora di ricreazione, l'ho presentato ai miei amici che l'hanno accolto benissimo. Il Barozzo non c'era. Da quando ha dato le dimissioni egli vive solitario e pensieroso e quando ci incontra si limita a salutarci con un'aria triste triste. Povero Barozzo! Io in adunanza ho raccontato tutta la scena della seduta spiritistica di iersera e si è stabilito, di riflettere tutti seriamente per trarre partito da questa nuova situazione e per preparar qualche tiro per mercoledì notte. Domani martedì ci riuniremo per eleggere il nuovo presidente e per decidere sull'intervento dello spirito del compianto professore Pierpaoli all'appuntamento dato al signor Stanislao, alla signora Geltrude e al loro degno cuoco inventore della minestra della rigovernatura.