Abbracciando il conferenziere ai fianchi, l'aiutante allungherà le sue braccia sul tavolo, ottenendo così l'impressione che il nano sia seduto sul tavolo. Meglio se il conferenziere infilerà una giacca grande od una mantellina in modo da coprire meglio i fianchi ed ottener così l'illusione più perfetta che le gambe sul tavolo siano le sue. Allo scopo di far sembrare la persona seduta proprio in mezzo al tavolo, si potrà mettere sul piano del tavolo sotto al tappeto due assicelle che si prolunghino lungo i fianchi del conferenziere in modo da rendere il tavolo più profondo. Il conferenziere potrà truccarsi con un cappellaccio, grandi occhiali, barba finta e qualche truccatura sulla faccia. Quando tutto è preparato in una stanza attigua, si chiuderà la porta e si disporrà il tavolo davanti alla porta in modo che il conferenziere che sta dietro alla tavola sia rivolto verso le persone della sala. Allora si potrà aprire la porta ed il nano si presenterà tenendo il più strampalato discorso possibile e gestendo con mani e piedi, sollevando la sicura ilarità degli astanti.
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Io amo assai quella bella costumanza di quelle damigelle che, com'è ben naturale accada ad ognuno, accorgendosi d'aver sbagliato per debolezza o per ignoranza, stringendo la mano della mamma o del papà, od abbracciando teneramente i fratelli e le sorelle, chiedono loro perdono e promettono di emendarsi del proprio fallo; pentimento e promessa che esse rinnovano ai piedi del Crocifisso, il quale li compensa con una soddisfazione tanto maggiore, quanto più intima e sincera. E tu, mia dolce amica, sii buona con tutti, guardati dall'offendere chicchessia, e se ti duole abbassarti a chieder perdono, fa di non metterti nella necessità, ma stattene ben bene in guardia sovra te stessa e specialmente sul tuo carattere; ma se per disgrazia hai fallato, umiliati, e non rendere più grave la tua colpa coll'ostinarti a sostenerla. Non essere tarda a far piacere a coloro cui l'opera tua può tornare di ajuto o di conforto; sii obbediente coi maggiori, affabile cogli uguali, condiscendente coi minori fratelli. Ma una cosa, che caldamente sopra le altre ti raccomando, si è di avere nel tuo decoroso contegno un amorevole e sincero compatimento pei difetti altrui, di smorzare la tua suscettibilità, di non tenerti facilmente offesa da quelle che sono o ti pajono mancanze di riguardo: credilo, credilo, mia cara, assai più guadagnerai coll'indulgenza che colla severità. No, non ti pentirai mai di aver troppo compatito e d'avere rinunciato alle soddisfazioni dell'amor proprio; ma bensì d'essere stata inflessibile e d'aver preteso sempre che ti sia resa giustizia. Nel Vangelo vi ha una sentenza, la quale dice che sarà rimisurato a noi colla stessa misura con cui avremo misurato agli altri; e tu ed io, se vogliamo ci venga dal misericordioso Iddio accordato indulgenza e perdono, siamo indulgenti e generosi con tutti coloro che ci avvicinano.
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Quelle nuvolette si vanno allargando, abbracciando l'un l'altra, finchè velano il sole, il quale non dà più se non un discreto calore ed una luce incerta. Da un tratto guizza il lampo; indi a poco tuona con orrendo muggito: le piante quasi tocche da insana paura si scuotono e gli uccelli spaventati, a torme o dispersi, volan per l'aere quasi correndo a cercarsi un riparo. Il colono ritto sulla porta del povero casolare guarda volta a volta i seminati, le piante e le viti che cominciano a germogliare, poi guarda il cielo; spera d'ingannarsi, finchè un lampo più terribile del primo ferisce il suo occhio, un tuono gli suona più dell'altro sconfortante all'orecchio, ed incrociate le mani sul seno, emettendo un lungo e doloroso sospiro, mestamente esclama: Dio, risparmiate la gragnuola a questi poveri campi! - Non é ancor caduta la tempesta; forse il temporale passerà contentandosi delle minacce, si dicono le donne, guardandosi impaurite, poi corrono alla chiesuola, accendono il lumicino alla Madonna; e la pregano, e fanno prepare i figliuoli, i padri, i mariti, i fratelli; tutti uniti colla voce e col cuore commosso levano un cantico alla Madre di misericordia, e chiamandola coi più dolci nomi, vanno ripetendo: Prega per noi! Il lampo non si resta di guizzare, nè il tuono di scrosciare per l'aria, ma quel lumicino è là che arde; la sua luce tremolante ma continua rappresenta la preghiera di quei poveretti, ed essi si sentono più tranquilli e fiduciosi ora che hanno invocato quella pietosa che non sa niegare grazia alcuna a chi con confidenza a lei ricorre... Escono di chiesa alquanto consolati, cercano nel cielo di piombo un po' di sereno, e... meraviglia! cade abbondante una benefica pioggia; di lì a poco là in fondo si squarciano le nubi, e mostrano una striscia azzurra; più tardi le nubi non sono più che un velo, anzi una rete che avvolge fantasticamente la vôlta cilestra; le nubi si vanno disperdendo, il sole ricomparisce... Il colono tornato sulla porta del povero casolare, ne sente i raggi benefici piombargli sul capo; guarda i suoi campi, le sue piante, le sue viti, con un occhio pieno di letizia; con tono rozzo, ma che non riesce a nascondere la gioja profonda, chiama il figlio piccoletto, e traendosi di tasca una di quelle monete che il ricco spreca o non cura, (ma che per lui basterebbe al condimento della povera broda capace a satollare l'intera famiglia), gli dice a mezza voce:compera un po' d'olio e corri a portarlo al sagrestano affinchè non lasci spegnersi il lumino, almeno per un altro giorno. Il bimbo corre lesto ed allegro come un cerbiatto; le donne si fanno attorno al capo di casa, e questi scrollando le spalle, forzandosi di rendere brusca quella voce che vorrebb' essere carezzevole e lieta, grida più che non parli:un po' di creanza ci vuole anche con la Madonna! Ci ha fatto la grazia... Orbene la vita nostra, anzi la vita tua, sia pure ridente e gioconda come una giornata di Maggio, raro è, anzi impossibile, che tutta trascorra senza essere turbata dal temporale delle disgrazie, quindi è bene ti disponga a riceverlo con quella maggior dose di meriti e di virtù che ti ponno conservare rettitudine di giudizio e calma al cuore nel tempo della lotta. Per tacere delle disgrazie alquanto straordinarie che a taluni sono risparmiate, e per parlare solo, almeno per oggi, di quelle che prima o poi sono destinate a tutti quanti gli uomini, chi non sa che tutti vanno soggetti ad incomodi, ad infermità, alla morte? Chi non sa che, non meno della nostra, la vita dei nostri cari è in continuo pericolo, e quanto il loro pericolo ci faccia agonizzar per dolore, per timore, per ispavento? Ma oggi vogliamo parlar solo dei lampi e dei tuoni che guizzano e scrosciano sulla nostra esistenza, tentando di toglierne la pace, la tranquillità, la gioja: ad un altro giorno il resto. La nostra infanzia non è turbata da veruna sciagura, e passa pressochè felice. Felice? Oh! no! anche i bambini piangono e piangono amaramente, e chi potrà negare che sia per essi un vero temporale, una dura prova, la privazione di un confetto, di un balocco, ogni più piccolo rimbrotto o gastigo, fino al sommo della faccia scura e del bacio negato dalla mamma o dal babbo? L'adolescenza è l'alba inoltrata, forse l'aurora della vita, e sul suo cielo balenano lampi e scrosciano tuoni più minacciosi... La giovinetta ha incominciato il suo corso d'istruzione e di educazione; la prima, lotta contro la sua volontà e contro la sua inerzia; la seconda, scuote tutte le sue tendenze naturalmente piegate a tenere la via più facile e meno retta; il cozzo è grande, ed io mi sono commossa molte volte in vedere le povere fanciullette stillarsi il cervello per trovare il bandolo del proprio cómpito, e per mandare a memoria un brano di scienza o di poesia che non intendono nè ponno gustare. Perfino i loro capricci, tanto più innocenti dei nostri, mi muovono il cuore, e bene spesso ho pregato il Signore che si degni rimuovere da quelle tenere pianticelle perfino i precursori dell'uragano! Sono sì tenerelle, e potrebbero essere smosse... La giovinezza ha anch'essa i suoi lampi e i suoi tuoni, vale a dire le sue lotte a sostenere contro le proprie passioni, nate da poco, è vero, ma già sì insolenti; contro le viziature che il corso educativo non ha finito di togliere; contro la fantasia, una fantasia ammaliatrice, crudele per le giovani menti. Hai visto la famiglia del povero contadino al rombo del tuono cosa ha fatto? Si è stretta in una sola volontà, in un solo amplesso, si è presentata al tempio, ha acceso il suo lumicino davanti a Maria, ha pregato, ha pianto, ed è tornata consolata. Tu sei impaurita, lo veggo; il muggito del tuono è minaccioso; le passioni si fanno sentire; il tuo cuore intollerante di freno fa di persuaderti esserti impossibile infrenarlo; il malvagio che tenta di rapirti quel tuo cuore sbattuto, te lo ripete su tutti i toni; tu non ne puoi più, il cuore fa prova di spezzartisi in seno; il mondo ride e dice con ischerno:passerà, passerà, follie giovanili! ma intanto ti senti venir meno, ti pare che la folgore sia lì per cadere... Corri, vola al tempio, poni davanti a Maria la mistica fiaccola della tua devozione, tremula forse, ma costante; pregala con istanza, essa ti ascolta, t'intende, e quando tuttora il turbinìo si fa sentire dentro di te, e ti pare di aver nulla ottenuto, sulla parola della fede, io lo vedo, tu speri anche contro speranza; ti fai coraggio, levi lo sguardo, lo figgi in quel cielo dapprima sì cupo, e vedi un lembo azzurro che va sempre più allargandosi, riprendendo il suo posto nelle vôlte celesti, scacciando ogni nube, tornando il sereno. Il tuo cuore è guarito; Dio ha premiato la tua pazienza, la tua costanza col riempire i tuoi voti, coll'accordarti un cuore che virtuosamente e sinceramente ti ama e in vincolo santo ti fa sua per sempre... ovvero ha fugato da te un'insana passione che t'avrebbe forse rovinata, o data preda allo sparviero od al lupo rapace! torneranno altri lampi, altri tuoni nella tua esistenza: ma se tu coll' annegazione e colla preghiera lotterai coraggiosa, uscirai nuovamente vincitrice; il Dio degli eserciti pugna per coloro che lo invocano, e li difende da ogni attacco; a Lui fiduciosa t'abbandona e sarai consolata. Ma oltre a queste minacce di temporale che riguardano te medesima, altre ti resteranno a subire cento volte più atroci perchè non su te, ma sono dirette sulle persone che più teneramente ami. Si ammala la tua mamma o il tuo babbo? La cura medica è scarsa, o deficiente al bisogno, o, benchè solerte, oculata ed incessante, non ottiene verun risultato; le stesse tue cure riescono a nulla, l'occhio del tuo caro ti guarda con un'insolita tenerezza; la, sua voce già fioca riprende per un momento una vibrazione insolita per dirigersi a te; quelle braccia con un supremo sforzo si levano, in atto di stringerti al seno; quelle mani si allungano per serrare le tue, poi soffocata dal dolore più che dal pianto ti allontani un momento per accendere il tuo lumicino appiè di Maria... Confortata rientri; dura ancora più o meno lungamente la prova; ma il lumicino è sempre là e com'esso arde nel tuo cuore una dolce speranza. Il medico dichiara che il morbo scompare, la convalescenza si avanza, e si consola che la sua cura abbia sortito un esito insperato; il tuo cuore batte, batte, e par che dica:è il lumicino, è la fiaccola tremolante, è Maria. E non è forse una grazia ed una grazia grande, se Maria ha suggerito al medico il rimedio opportuno, e ti ha ritornata la mamma od il babbo? Il povero colono sulla porta del povero casolare vedendo il cielo rasserenarsi, pensava a mantenere il lumicino, pensava, alla riconoscenza, a quella riconoscenza che mentre è la soddisfazione di un debito vale altresì a scongiurare altri lampi, altri tuoni... E tu? oh! aggiungi altro olio alla piccola tua lampada; indirizza all'Altissimo l'inno del ringraziamento, dell'adorazione, dell'amore; questo è l'olio della tua lampada, mentre la lampada è la fede che costante, profonda ed efficace deve durare come la tua vita. Superata la giovinezza, credi tu si mantenga sempre sereno il tuo cielo? Non lo sperare, sarebbe follìa e temerità, anzi un crudele tradimento, poichè ti giungerebbe inattesa la lotta, e la vittoria ti riuscirebbe più difficile. In ogni età, in ogni condizione, incontriamo lampi e tuoni dentro di noi e fuori di noi, e non passa un solo giorno senza averne la sua parte; alle volte sono vapori che si sciolgono in acqua benefica, alle volte sono gas che si levano dalla terra, e sbattuti nell'atmosfera cagionano spaventevoli detonazioni; ma sempre sempre sono la mano di Dio che ci tocca, per avvertirci che la terra non è la nostra patria, ma un luogo di esilio, di schiavitù, di prova. Beato chi intende questa voce e sa farne tesoro! Le piccole inevitabili pene della vita si potrebbero dire infinite, se la vita stessa non avesse fine, tante e poi tante sono quelle reali e quelle altre che l'uomo e la donna si fabbricano da sè coll'immaginazione, coll' eccessiva suscettibilità, colle soverchie e fino irragionevoli esigenze, e con tutte le arti che potrebbe suggerir loro il peggior nemico per torturarne il cuore. Ci crucciamo talvolta per la mancata riuscita di alcuna opera nostra, per una mancanza di riguardo cui siamo fatti segno; per un'opposizione, un disparere, una maldicenza, una calunnia; per una goffaggine fatta da noi, per un pettegolezzo, per una perdita d'interessi, e talvolta perfino per la mancanza di alcune comodità, di un divertimento, di una veste! Eppure sono tutti guai, piccoli se vuoi, ma continui, incessanti, e mi pare parlasse appunto di questi il nostro divin Redentore quando ci diceva basta ad ogni giorno il suo affanno, per insegnarci che non dobbiamo crucciarci colla previsione di guai avvenire o colla memoria di guai passati, sibbene riparare e sopportare dì per dì quelli che incontriamo sul nostro sentiero. Ti ho parlato di lampi e di tuoni, diletta fanciulla, ti ho forse soverchiamente impaurita; ma Iddio, che legge nei cuori, vede nel mio un sincero affetto per te, un vivo ardentissimo desiderio che sul tuo capo non piombi mai la folgore, che tu la scongiuri e la disperda colle tue lacrime, colle tue preghiere, colle tue virtù. Oh! diletta fanciulla, perchè apprezziamo noi tanto l'azzurro del cielo, se non perchè lo vediamo talvolta quasi coperto da un pesante mantello cenerognolo, minacciare la gragnuola ed il fulmine che tocca ed arde i punti più eccelsi? Così è della vita; se tutta scorresse placida e serena, ci riuscirebbe monotona, e se monotona non fosse ci farebbe dimenticare o trascurare quell'altra che sola è vera vita, perchè in quella l'anima vive non più di fede, nè di speranza; ma della certezza di un bene posseduto, di una certezza che genera ed è generata a sua volta da un amore sommo, immenso, eterno.
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Gian Matteo guardava trasognato il libro, e il viso giubilante di papà Bastiano, e non poteva credere alla verità; stordito tra il contento di trovarsi ricco, e l'ammirazione di tanto provvido pensiero; finalmente abbracciando il padre: voglio che ce la godiamo insieme, disse; e due lagrime gli si gonfiarono negli occhi. Prese il libretto, andò a ritirare le tre mila lire, e con esse si comperò quattro o cinque giornate di terra, con una casuccia in mezzo, che era, se ve ne ricordate, di Pasquale, detto lo Straccia, il quale nel giuoco e ne' vizii diede fondo ad un considerevole patrimonio. Si levò dal servizio di Stefano, e con papà Bastiano, riparata alla meglio la casuccia, che veramente minacciava da tutte parti rovina, si pose in mezzo al suo podere, il quale per essere stato trascurato, era tutto come una sodaglia, le viti eran scomparse, e vi crescevano le erbacce, i felci, le spine, come Dio voleva. Tutti gridavan che Gian Matteo si era preso un osso duro a rosicchiare; ma non sapevano con chi s'avea a fare. Era giovane, con due braccia vigorose e con qualche cosa dentro l'animò, che non gli lasciava scorgere difficoltà. Preso alle buone il piccone, la marra e la zappa, in poco d'ora rivolse di sotto in su a bella profondità tutto quello sterpeto. Da un'ave maria all'altra si vedeva sempre là con la zappa levata in alto. Ma dopo qualche anno che vegetazione là dentro! Fu gran ventura per Gian Matteo l'esser cresciuto in casa di Stefano. Costui, quantunque non avesse mai voluto saper di novità ne' suoi poderi, tuttavia era uomo ingegnoso, pratico, e quel che faceva lo faceva con giudizio, e pulitamente; e le sue terre erano le meglio coltivate e le più fertili. Egli stava saldo a questi principii: buone concimature, buone arature e lavori fatti a tempo. Era poi uomo a partiti; sapeva tirar vantaggio del tempo; e non mai in ozio; egli soleva dire che l'agricoltore deve sapere cento e un mestiere; e infatti egli faceva il falegname, il cestaio, il funaio, il ciabattino, il sarto, e che so io? Quando gli occorreva alcun che, non aspettava punto che altri venisse in aiuto, ma senza tante parole, raccomandandosi a Sant'Ingegno, che egli diceva la provvidenza de' contadini, si metteva senz'altro alla bisogna. Ora si rompeva un fuso alla ruota del carro? ed egli sotto la guida di Sant'Ingegno pigliar l'accetta, la sega, lo scalpello, la pialla e rimettere il fuso. Ora una fune incominciava a slacciarsi? e Sant'Ingegno insegnargli a reintrecciarla. Le coreggie, le tirelle si strappavano? ed egli collo spago e colla lesina a rattopparle: le cortine de' buoi, i sacchi del grano, erano strappati? ed egli a prendere l'ago e rappezzare. E tutti gli strumenti rurali, il manico delle zappe, delle vanghe, i rastrelli, e che so io, tutto faceva lui; però codesto era lavoro de' giorni piovosi, che per lui, erano anche una provvidenza per riparare gli attrezzi guasti. In tali giorni faceva una ispezione a tutto, e come un oggetto faceva segno un po' di logorarsi, lì subito al riparo. Uno strumento che incomincia a guastarsi, preso subito, diceva, con un nonnulla si rimette a nuovo; se si indugia si sciupa affatto e bisogna comperarne un altro. Onde Gian Matteo lì imparò di molto, e quel Sant'Ingegno glie ne suggerì di belle; e, com'era industrioso e attivo, riuscì un discreto falegname, e quasi tutti i mobili di casa se li fece da sè; e gli strumenti di campagna, come li faceva benino! Tutti i vicini venivano da lui; ed egli ne li riforniva di rastrelli, di forcelle, di erpici, di carrette, di ceste, cestelli, gabbie; chè molte ne faceva, impiegando in tali lavori le lunghe sere del verno, tutti i giorni, in cui è impossibile lavorar ne' campi. E che buoni guadagni ne traeva: tutto l'alimenta suo, e certe spesucce, che qui e qua si devono fare, tutto veniva di lì! Per la qual cosa il prodotto del suo podere era un tanto di messo da banda; onde ogni anno comperava qualche lembo di terra, confinante col suo; il che egli diceva riquadrar la cascina; e seppe così bene lavorare di quadratura, che ora tutta quella valletta è di sua proprietà; e che fior di coltura v'introdusse; par un giardino! Ma codesto oltre alla pratica, che s'acquistò da Stefano, lo dovette per la maggior parte all'istruzione. Oh che istruzione, mi direte, potè aver egli, che a sett' anni si pose a servizio altrui? La ebbe, e come! Ed è cosa che gli fa molto onore, e che dovrebbe far arrossire molti altri, i quali, con tutte le agevolezze immaginabili per istruirsi, vengono su ignorantacci da non saper distinguere la destra dalla sinistra. Gian Matteo, mangiando del pane altrui, come si dice, non poteva andare alla scuola comunale; e come se ne doleva, e con che occhio d'invidia guardava i ragazzetti, che passavan sulla via colla taschetta de' libri a tracolla! Ma a chi vuole veramente nulla è vietato. Gian Matteo volle imparare a leggere e scrivere e imparò. Ed ecco come. Un bravo maestro del Comune un anno pigliò nelle lunghe sere d'inverno ad istruire quelli che non potevano frequentare la scuola diurna; figuratevi se questo non fu cacio sui maccheroni per Gian Matteo; non lasciò pure una sera d'intervenirvi! Era diligentissimo, e siccome aveva una testa chiara e ordinata, e oltre a ciò una volontà e una fede da far muovere le montagne, fece miracoli; e imparò in brevissimo tempo a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma il saper leggere è nulla; se non si hanno buoni libri, onde adornare la mente e il cuore di utili cognizioni e di buoni sentimenti; perchè il solo saper leggere non è coltura; sono le cognizioni che derivano dal leggere, che fanno pro, che rischiarano il cammino della vita. Senza libri, da saper leggere o no, torna lo stesso; e poi uno che sappia leggere e che non si eserciti, in breve ora disimpara; è come una zappa, che, se non si adopera, arrugginisce. Gian Matteo come seppe tanto quanto leggere, nessuna cosa gradiva più che i libri. Il maestro gli regalò il Buon Coltivatore di Felice Garelli, che diventò la sua passione; ogni ritaglio di tempo lo impiegava sur una pagina di quello; lo lesse, lo meditò, lo studiò a memoria, e così quello, che prima non intendeva, a poco a poco gli divenne facile e piano; e fu allora che incominciò a formarsi qualche buon pensiero sull'agricoltura, e per così dire a ragionare su quel che le braccia eseguivano ne' campi. Il Parroco, che s'intendeva d'agronomia e teneva dietro ai portati della scienza, gl'imprestava mano mano i libri che credeva più popolari e più atti alla pratica, come I Segreti di D. Rebo, del prof. G. A. Ottavi; il Coltivatore, giornale dello stesso autore; L'Amico del contadino, manuale ad uso degli agricoltori, del prof. Cantoni; e gli almanacchi agrari del medesimo; Dei lavori di campagna nella stagione invernale, di Vincenzo Garelli, ed altri su questo fare; ed egli ne rinsanguinava; e ad ogni lettura si sentiva come crescere due dita più alto, si sentiva come una forza nuova, che gli raddoppiava la vita. Il tempo non era quello che gli mancasse, i giorni di festa, i giorni piovosi, le lunghe sere invernali nella stalla paion fatte per ciò; e mentre che guardava i buoi e le vacche al pascolo, invece di attrupparsi cogli altri vaccari a giuocare o a rubare i frutti, a far bricconate d'ogni guisa, egli si sedeva su un rialto da cui potesse scorgere le sue bestie erranti alla pastura, e lì solo in quel silenzio solenne de' campi, sotto il grande padiglione del cielo, leggeva, e leggeva, e si sentiva felice! I camerati che lo vedevano sempre con un libro in mano, e che invitato, non li seguiva nelle birbonate, ne lo sbertavano, chiamandolo il professore, l'avvocato: ma egli non ci abbadava, e faceva la sua strada; conoscendo che la peggio delle infelicità è l'ignoranza. Molte cose imparò dai libri, che poste in pratica nel suo podere, ne triplicarono i prodotti; e qui giova accennare alle principali, che sarebbe desiderabile, che fossero imitate da tutti i coltivatori.
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. - « Son questi pure i miei voti, ripigliò Fundano, abbracciando la figlia sua. Se tutti riconoscono nel tuo volto i lineamenti del padre, io riconosco nel tuo cuore quello della mia sposa, la cui memoria stassi nel mio profondamente scolpita, e vi starà fino all'ultimo respiro. Sì, mia Lilia, noi ci rimarremo sempre uniti; sei divenuta necessaria alla mia vita, così che venir meno la sentirei se da te divider mi dovessi ». Ciò dicendo diede mano a un manoscritto fregiato di miniature ed ornato di nastri, ed aprendolo : « Quest'è l'esemplare, soggiunse, de' tuoi costumi, questa è la vita della mia sposa: io la scrissi perché tu la legga a' tuoi figli quando io più non sarò ». Lilia presa fu subito da grandissimo desiderio d'udirne la lettura; e il padre ben volentieri ne la compiacque. Fundano avea descritto ogni cosa minutamente, fino agli ozi innocenti ed ai giuochi dell'infanzia di Manilia: e tutto con tanta leggiadria ed effetto, che ciascun tratto faceva desiderare di leggere il seguente. Secondochè Fundano avanzavasi nella lettura, ognora più cresceva in Lilia la commozione; e quando in leggendo fu giunto all'ultima malattia, con la voce e coi gesti, non meno che con lo stile, scolpiva così al vivo le più piccole avventure, la desolazione di ciascuno della famiglia, il proprio stato, quello di Manilia, e persino gli ultimi momenti di vita della sua sposa, che Lilia, divenuta per dir così, spettatrice di bel nuovo della morte di sua madre, cadde svenuta. Rinvenne poco di poi; ma le durava tuttavia un angoscioso stringimento di cuore, a cui sopravvenne la febbre, che la costrinse di mettersi a letto. Lilia, non ostante, per non crescere afflizione al padre suo, mostravasi serena e sicura, ed occultava con molta fermezza la violenza della malattia; la quale, checché ne fosse la cagione, in capo a due giorni a tal giunse, che fu giudicata dai medici senza rimedio. Ella sentendosi mancare ognor più la vita, e leggendo il suo destino nella mestizia di tutti quelli che l'attorniavano, chiese grazia a Fundano di farle fare il ritratto. Il padre, senza poterle dare risposta, mandò subito pel più valente pittore che fosse in Roma. Quand'esso fu giunto, Lilia s'acconciò nell'attitudine che meglio le si addiceva, e immobile vi si tenne fino a ch'egli ebbe colti e disegnati i tratti principali; in cui ella quindi ravvisando sè medesima, voltasi con aria di compiacenza al padre suo : «Che la morte non potrà almeno rapirti questo simulacro della tua amica, così tu non mi perderai di vista internamente ;» e sì dicendo gittògli al collo le sue braccia languenti. Quindi poco stante : «Ti chieggo, o mio caro padre, di permettere alla mia sorella di venirmi ad abbracciare; vorrei pur vedere la mia nutrice, le mie compagne ed amiche ». Quando furon venute, strinse loro la mano, e regalatele ciascuna di qualche cosa che a lei apparteneva : « Conservate, aggiunse loro, questi piccoli doni, siccome miei ricordi: e tu, mia sorella, addoppia cotanto le tue cure e la tua amorevolezza verso il nostro buon padre, ch'egli in te sola riunito ritrovi e l'amor mio e quello della sua sposa ». Non ho cuore di descrivere, come ben l'immagino, quale sarà stato il compianto ed il lamento di tutti gli astanti. Lilia sola pareva di tutti la meno desolata. Mostrar volle per ultimo la sua riconoscenza verso la nutrice, e pregò suo padre a provvederla di danaro e d'una porzion di terreno, sicchè non avesse poi a cadere nell'indigenza, e procacciar potesse a' suoi figli una buona educazione. Già la figlia di Fundano toccava il termine di sua carriera: più non potendo articolar voce, prese per la mano il padre suo e avvicinatolo al proprio seno, diegli una rivolta d'occhi tenerissima, e chiudendo placidamente i lumi, cessò di vivere.
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Lontana da quel che si dice etichetta, sì che stava a bilanciare il non tocca a me, o il tocca a te; seguiva l'impulso del suo cuore, e andava da questa o da quella, abbracciando le amiche, salutando tutte con ingenua domestichezza. La signora Bianca nelle veglie, che teneva in sua casa, era tutta in ciò, che gli ospiti suoi si trovassero bene, a loro grand'agio, come in propria casa; e metteva su la figliuola a far altrettanto. Diceva, che le padrone di casa devono in tali occasioni dimenticar affatto sè stesse per far comparire gli altri. Quando qualche giovinetta timida e peritosa se ne stava sola, inosservata in qualche canto, vi mandava Marina a farle compagnia, a tirarla ne'crocchi delle compagne. Se qualche giovane nuovo, per non conoscervi nessuno, se ne stava appartato con aria distratta, la signora Bianca andava da lui, vi s'intratteneva seco famigliarmente, lo metteva in relazione cogli altri. Insomma non voleva che nessuno in sua casa avesse occasione di annoiarsi; e infatti si può dire che nessuno partì mai dalle sue conversazioni malcontento; ma tutti erano entusiasti del ricevimento avuto, e della singolare dimestichezza con che erano stati trattati; non senza ammirazione del come le padrone avessero saputo moltiplicarsi per esser lì a tutti e a tutto. Quando la veglia era in casa altrui, appena entrate nella sala, Marina dietro della madre andava senz'altro a salutare la padrona, indi se v'eran amiche e conoscenti s'intratteneva con loro un poco, e poi s'andava a sedere colla madre, la quale cercava sempre di mettersi in luogo meno vistoso; non s'attruppava colle altre ragazze, se non le era dalla madre concesso. Nel trovarsi fra molte fanciulle insieme a conversare, Marina non era di quelle che han sempre la parolina da susurrar all'orecchio di questa o di quella, che mostrano d'aver segretuzzi, odiosi sempre a quelle che ne sono escluse. Che dire poi di quelle che vanno a sibilare la paroletta all'orecchio e poi si mettono a ridere? Non pensano che sollevano un forte sospetto nell'animo delle compagne che si rida sul loro conto? e quelle fanciulle che ciò fanno all'orecchio del giovinotto, che hanno lì presso? Chi le potrà salvare da un grave biasimo? Se si faceva musica e Marina veniva richiesta di mettersi al pianoforte, non traccheggiava con quelle smorfie o smancerie, che talvolta usano le fanciulle, le quali per ridicola modestia affettano incapacità e timidezza, pur di farsi pregare. Essa invece nè timida, nè presuntuosa, ma raccolta in sè e sorridente, invitata, tosto s'arrendeva alla preghiera; e lì al piano poi non vi piantava già radice col far passare tutto il suo repertorio, non lasciando più campo a quelle altre che desiderassero far vedere la loro abilità; ma finita la sua sonata, che procurava sempre che non fosse lunga o noiosa, si alzava per andar a riprendere il suo posto primitivo; salvo che non fosse pregata a sonare ancora. E quando altri sonava o cantata, stava colla massima attenzione, e le faceva stizza se qualche compagna le parlava all'orecchio o in qualunque modo disturbava. Quando si facevano giuochi di società o a pegno, essa non si teneva sbadata o distratta, il che mostra o che il giuoco non va a genio, o che il pensiero vaga lontano di lì; ma vi si applicava con tutta soddisfazione, e con sali e con motti faceva di renderli ancor più divertevoli e briosi. Essa aveva famigliare quella massima, bada a quel che fai; onde, era sul giuoco? Rideva e scherzava del meglio dell'anima; era sul serio? E intendeva all'opra con tutte le potenze della sua mente. Ne' trastulli e ne' piacevoli conversari quelle ghiacciate ritenutezze, figlie per lo più di vanità e di ipocrisia, ammantate di modestia, non le andavano a genio. Alle così dette penitenze poi non si mostrava difficile e schizzinosa, come alcune fanciulle, che mettono innanzi mille pretesti; e questa non sanno fare, e quella non garba, e codesta non è da loro; ma accettava con compiacenza qual ch'ella si fosse, usando dire: tant'e tanto è giuoco; se n'esco a buono, meglio, se male, pazienza, farò ridere, e il giuoco se n'avvantaggierà per giunta. Debbo però dire, che essa aveva tanta prontezza di spirito, e tanta grazia, che ne usciva sempre a onore. Per lo più a lei s'imponeva di declamare qualche poesia; porgeva così bene, che era un amore a sentirla. Il verso sul suo labbro non era un suono comechè sia, ma un'immagine dipinta, un sentimento incarnato, un'armonia ispiratrice; perchè era il cuore, era la mente, che venivano lì alla bocca per manifestarsi. Secondo lo spirito de' versi ella coloriva la voce, ora lenta, gentile, soave, ora veloce, alta, impetuosa; l'occhio s'accendeva, la faccia s'illuminava, la mano, il piede, tutta la persona si può dire che declamasse; onde il comando era comando, la preghiera preghiera, e la pietà pianto. L'attenzione, non si parla nemmanco, era universale, e nella fronte di tutti s'improntavano gli stessi moti di lei, come la sua parola fosse una scintilla elettrica, che mettesse in comunicazione tutte quelle anime. Nè si faceva mica pregare, col tirar in mezzo le solite moine, e non son buona, e questa non la so, e quell'altra mi sfugge dalla memoria; ma come veniva il suo torno, e multata di declamazione, s'alzava tosto dalla sedia, faceva due passi innanzi nella sala in mezzo agli adunati, che sedevano torno torno, e fatto un bell'inchino, senza sfoggio teatrale però, ben raccolta in quel che voleva recitare, un po' pallida da principio, colla sua bella voce penetrante, come a imporre silenzio e a preparare l'attenzione proponeva il titolo della poesia; poi recatasi meglio in sè declamava il suo componimento. Non era pericolo, che restasse lì a bocca aperta, smemorata, o che si dovesse fermare per rammentare il verso e la parola, o balbettare, o ritornar indietro per rinfrescar la memoria, che è una pena grande per chi ascolta; ma senza fatica di sorta, con ingenua spontaneità esponeva sicura, come se ispirata creasse lì per lì il verso, o cogli occhi leggesse la poesia scritta nell'anima. Ma è a dirsi che non prendeva mai a recitare componimenti che non fosse ben sicura di saperli per bene. Una volta ebbe a declamare La Spigolatrice di Sapri del soavissimo Mercantini, che mi piace di trascrivere qui:
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E quando, dopo molte ore faticosamente vissute a disposizione degli altri, o presso una vecchia dama intollerante e bisbetica, o presso una giovine signora capricciosa e altera, o presso una fanciulla svogliata e petulante, o accanto a due o tre bimbi viziati e disobbedienti — trattata da tutti come una serva, come una schiava, senza riguardo alcuno per la sua condizione di nascita, molte volte superiore a quella della famiglia dove si trova, per la sua educazione fine, per la sua posizione che meriterebbe pietà : — quando finalmente può rifugiarsi nella sua stanza, ella depone la maschera della serenità, della sottomissione, e abbracciando con lo sguardo pieno di tragico dolore i ricordi del suo passato, si ricompone ancora col pensiero fedele il caro nido distrutto, la casa che fu sua, rivede i volti amati ora spariti nelle ombre della morte e piange, sola sola, e alleggerisce il suo povero cuore da tutto il peso d'amarezze e di ribellioni che vi si è accumulato in quelle ore di asservimento. « Oh, pensa la meschina, meglio possedere una capanna, un tugurio, una soffitta ed esserne la sola regina, piuttosto che vivere in un palazzo ed essere la schiava! » E i versi dolenti di Dante pròfugo le risuonano nella memoria :
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LA GIOIA-D'ESSER-GIUSTA (abbracciando alla sua volta la Luce) Mi riconosci?... Sono la Gioia-d'esser-giusta, che ti aveva tanto pregata di venire..... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dalle nostre ombre.... LA GIOIA-DI-VEDERE-CIò-CHE-È-BELLO (abbracciandola anch'essa) E me, mi riconosci?... Sono la Gioia-della- bellezza, che ti ha sempre voluto bene.... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dai nostri sogni.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Via; via, sorella cara, non farci più a lungo aspettare.... Siamo abbastanza forti, abbastanza pure.... Scosta dunque questi veli che ci nascondono ancora le ultime verità e le ultime felicità.... Guarda, le mie sorelle s'inginocchiano tutte ai tuoi piedi.... Sei la nostra regina e la nostra ricompensa.... LA LUCE (avvolgendosi più, ancora nei suoi veli). Sorelle, sorelle mie belle, io obbedisco al mio Signore... L'ora non è ancora venuta, ma forse scoccherà presto: e allora, tornerò senza timori e senza ombre.— Addio, rialzatevi, abbracciamoci ancora come sorelle che si ritrovano, in attesa del giorno che spunterà ben presto.... L'AMOR MATERNO (abbracciando la Luce). Siete stata così buona verso i miei poveri piccini.... LA LUCE Sarò sempre buona verso coloro che si amano.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Che il tuo ultimo bacio si posi sulla mia fronte.... (Si baciano lungamente: quando si staccano l'una dall'altra, i loro occhi sono pieni di lacrime). TYLTYL (sorpreso) Perchè piangete?... (guardando le altre Gioie) Oh bella! Anche voi piangete.... Ma perchè tutti gli occhi sono pieni di lacrime?... LA LUCE Zitto, bambino mio.... CALA LA TELA
TYLTYL (prendendo la gabbia e abbracciando tutti in gran fretta) Addio, nonnino.... Addio, nonnina.... Addio fratellini, sorelline, Pierino, Roberto, Paolina, Maddalena, Entrichetta!... E addio anche a te Kikì!... Non possiamo proprio trattenerci di più.... Non piangere, nonnina, torneremo spesso.... NONNA TYL Tornate ogni giorno!... TYLTYL Sì, sì !... Torneremo più spesso che sia possibile.... NONNA TYL È la nostra sola gioia, è una festa per noi quando venite a trovarci col vostro pensiero!... NONNO Tu, Non abbiamo altre distrazioni.... TYLTYL Presto, presto!... Datemi la gabbia! NONNO TYL (porgendogli la gabbia) Eccola!... In quanto all'uccello, però, non garantisco nulla: se il colore non è buono.... TYLTYL Addio! Addio!... I FRATELLINI E LE SORELLINE Addio, Tyltyl!... Addio, Mytyl!... Ricordatevi dello zucchero filato!... Addio!.. Tornate!... Tornate presto!... (Tutti agitano i fazzoletti, mentre Tyltyl e Mytyl si allontanano lentamente. Ma già durante le ultime battute la nebbia si era gradatamente fatta più densa, e il suono delle voci si era affievolito: in modo che alla fine della scena tutto sparisce nel fitto della nebbia. Quando sta per calare il sipario, si scorgono ai piedi della quercia soltanto Tyltyl e Mytyl). TYLTYL Passiamo di qua, Mytyl.... MYTYL Dov'è la Luce?... TYLTYL Non lo so.... (guardando l'uccello dentro la gabbia). Oh bella!... L'uccellino non è più azzurro!... È diventato nero!... MYTYL Dàmmi la mano, fratellino.... Ho tanta paura.... Ho tanto freddo.... CALA LA TELA.
IL BAMBINO (abbracciando Tyltyl e Mytyl con effusione) Buongiorno!... Come stai?... Su, baciami anche tu, Mytyl.... Non è punto strano che io conosca il tuo nome, poichè sono destinato a diventare il tuo fratellino..... Me l'hanno detto or ora, che eri qui.... Ero in fondo alla sala, intento a imballare le mie idee.... Di' alla mamma che sono pronto.... TYLTYL Come?... Verrai a stare a casa nostra? IL BAMBINO Sì, l'anno prossimo, la domenica, delle Palme.... Bada, non tormentarmi troppo quando sarò piccino.... Come sono contento di avervi abbracciati già fin da ora?... Di' al babbo che accomodi la culla.... Ci si sta bene, a casa nostra?... TYLTYL Non ci si sta mica male.... La mamma è così buona!... IL BAMBINO E il cibo, com'è?... TYLTYL Secondo.... Ci sonò dei giorni in cui ci danno perfino dei dolci; non è vero, Mytyl?... MYTYL Il giorno di Capo d'anno e per la festa nazionale.... Li fa la mamma, i dolci.... TYLTYL Che cos'hai costì nel sacco?... Ci porti qualche cosa in regalo?... IL BAMBINO (con fierezza) Porto tre malattie: la scarlattina, la tosse convulsa e il morbillo.... TYLTYL Oh, allora, se non hai niente di meglio da portarci.... E dopo, che cosa farai?... IL BAMBINO Dopo?... Me ne andrò via di nuovo.... TYLTYL Vale proprio la pena di venire, allora.... IL BAMBINO Sta forse in noi di scegliere?... (A questo punto s'inalza e si diffonde intorno una specie di vibrazione prolungata, forte e cristallina che sembra provenire dalle colonne e dalle porte opaline, rischiarate da una luce più intensa). TYLTYL Che cos'è?... UN BAMBINO E il Tempo!... Sta per aprire le porte!... (Un vasto movimento si propaga tosto nella folla dei Bambini Azzurri, la maggior parte dei quali abbandona le macchine e i lavori ai quali stava accudendo. Molti fra i dormienti si svegliano, e tutti, con gli occhi rivolti alle porte d'opale, dirigono verso di esse i loro passi). LA LUCE (raggiungendo Tyltyl) Nascondiamoci dietro le colonne.... Non bisogna lasciarci vedere dal Tempo.. TYLTYL Di dove viene questo rumore?... UN BAMBINO È l'Aurora che si alza.... È questa l'ora in cui stanno per discendere sulla Terra i bambini che devono nascere oggi.... TYLTYL Come faranno a discendere?... Ci sono delle scale?... IL BAMBINO Ora vedrai.... Il Tempo sta per tirare il paletto.... TYLTYL Chi è il Tempo?... IL BAMBINO E un vecchio che viene a chiamare quelli che devono partire.... TYLTYL È cattivo?... IL BAMBINO No, ma è sordo a ogni preghiera.... Si ha un bel supplicarlo: egli respinge inesorabilmente tutti quelli che vorrebbero partire, se non è il loro turno.... TYLTYL Sono contenti di andar Via?... IL BAMBINO Chi restai non è contento; ma chi parte è triste.... Eccolo!... Ora apre le porte!... (Le grandi porte opaline girano lentamente sui cardini. Si ode una specie di musica lontana: sono i rumori della Terra.... Un chiarore rosso e verde penetra nella sala; e sulla soglia appare il Tempo, un vecchio alto dalla barba fluente, armato della falce e della clessidra. Si scorgono contemporaneamente i lembi estremi delle vele bianche e oro d'una galera, ancorata a una specie di riva formata dai rosei vapori dell'Aurora). IL TEMPO (sulla soglia) Sono pronti i bambini per i quali l'ora è sonata?... ALCUNI BAMBINI AZZURRI (fendendo la folla e accorrendo da ogni parte) Eccoci!... Eccoci!... Eccoci!... IL TEMPO (con voce burbera, ai bambini che sfilano dinanzi a lui per andarsene) Uno alla volta!.. Venite in troppi!... Più di quel che occorre!... Sempre così.... Mai me non mi s'inganna, lo sapete.... (Respingendo uno dei bambini). Non è ancora il tuo turno!... Torna indietro, torna domani.... E non tocca neppure a te, oggi! Rientra, e torna fra dieci anni.... Un tredicesimo pastorello?... Devono essere soltanto dodici; non ne occorrono di più; non siamo più ai tempi di Teocrito o di Virgilio.... Dei medici, ancora?... Ce n'è già troppi; se ne lamenta l'abbondanza, nel Mondo.... E dove sono gl'ingegneri?... Si desidera un uomo onesto, uno solo, da presentarsi come un fenomeno.... Dov'è dunque l'uomo onesto? Sei tu?... (Il bambino fa cenno di sì). Hai l'aria patita.... Non vivrai a lungo.... Olà, voialtri laggiù, più adagio, più adagio!... E tu, che cosa ti porti via?... Nulla?... Te ne vai a mani vuote?... Mi rincresce, ma allora di qua non si passa.... Prepara qualche cosa anche tu: un gran delitto, o, se preferisci, una bella malattia; a me è indifferente.... ma qualcosa ci vuole.... (Scorgendo un piccino che, sospinto innanzi dagli altri, resiste con tutte le sue forze). Ebbene, che cosa c'è? Lo sai che questa è la tua ora.— Si ridiede un eroe per combattere contro l'Ingiustizia; questo eroe sei tu, bisogna dunque partire. I BAMBINI AZZURRI Egli non vuoi andarsene, signore.... IL TEMPO Come?... Non vuole?... E dove crede di essere questo piccolo aborto?... Non si ammettono reclami: non abbiamo tempio da perdere.... IL PICCINO (sospinto dagli altri) No, no!... Non Voglio andar via!... Piuttosto preferisco non nascere!... Preferisco restar qui!... IL TEMPO Non si tratta di volere o non volere.... Quando l'ora è sonata bisogna Obbedire!... Su, via, avanti!... UN BAMBINO (facendosi avanti) Oh lasciatemi passare!... Prenderò io il sino posto!... Dicono che i miei genitori sono vecchi e mi aspettano da tanto tempo!... IL TEMPO Niente affatto.... L'ora è l'ora e il tempo è il tempo. A dar retta a voi, non si finirebbe più.... L'uno vuole, l'altro non vuole, è troppo presto, è troppo tardi.... (Scostando alcuni bambini che avevano invasa la soglia). Fatevi più in là, piccini.... Indietro i curiosi.... Quelli che non partono non devono guardar fuori.... Ora avete fretta di andarvene; ma giunto che sia il vostro turno, avrete paura e vi trarrete indietro.... Guardate, eccone qui quattro che tremano come foglie.... (A un bambino che sul punto di varcare la soglia torna bruscamente indietro). Ebbene, che fai? Che cosa c'è?... IL BAMBINO Ho dimenticato la scatola che contiene i due delitti che dovrò commettere.... UN ALTRO BAMBINO E io, il pentolino con dentro l'idea per illuminare le folle.... TERZO BAMBINO E io ho dimenticato l'innesto della mia pera più bella!... IL TEMPO Presto, correte a prenderli.... Non avete che seicento dodici secondi a vostra disposizione.... La galera, dell'Aurora agitai già le vele per far capire che è pronta ed aspetta.... Arriverete in ritardo e non potrete più nascere.... Su, presto, imbarcatevi!... (Afferrando un bambino che tenta di sgusciargli fra le gambe per raggiungere la riva). Ah, tu, no davvero!... È la terza volta che tenti di nascere prima che sia la tua ora.... Se ti colgo un'altra volta, bada, dovrai aspettare in eterno presso mia sorella l'Eternità: e non è una cosa divertente, lo sai.... Dunque, siamo pronti?... Siete tutti a posto?... (Passando in rivista con lo sguardo i Bambini riuniti sulla riva, o già seduti nella galera). Ne manca ancora uno.... Ha un bel nascondersi, lo scorgo tra la, folla.... Me non mi s'inganna.... Su via, tu, piccino che ti chiami l'Amante: di' addio alla tua bella.... (I due piccini che gli altri chiamano «gli Amanti», teneramente avvinti, pallidi in volto per la disperazione si avanzano verso il Tempo e s'inginocchiano ai suoi piedi). IL PRIMO BAMBINO Signor Tempo, mi lasci partire con lui!... IL SECONDO BAMBINO Signor Tempo, mi lasci restare qui con lei!... IL TEMPO impossibile!... Non ci restano più che trecentonovantaquattro secondi..... IL PRIMO BAMBINO Preferisco non nascere affatto!... IL TEMPO La scelta non sta in voi.... IL SECONDO BAMBINO (con accento supplichevole) Signor Tempo, arriverò troppo tardi!... IL PRIMO BAMBINO Quando essa scenderà sulla Terra, io non ci sarò più!... IL SECONDO BAMBINO Non lo vedrò più!... IL PRIMO BAMBINO Saremo soli, nel mondo!... IL TEMPO Questo non mi riguarda.... Andate a reclamare presso la Vita.... In quanto a me, io unisco, io divido, secondo le istruzioni che mi vengono impartite.... (Afferrando uno dei bambini). Vieni!.... IL PRIMO BAMBINO (dibattendosi) No, no, no!... Deve venire anche lei!... IL SECONDO BAMBINO (aggrappandosi alle vesti del primo) Lasciatelo qui!... Lasciatelo qui!... IL TEMPO Ma che cos'è questa storia?... Si tratta di andare a vivere, insomma: non mica a morire.... o dunque? (Trascinando con sè il primo bambino). Vieni, ti dica! IL SECONDO BAMBINO (tendendo disperatamente le braccia verso l'altro bambino) Un segno!... Dàmmi un segno!... Un segno per ritrovarti!... IL PRIMO BAMBINO Ti amerò sempre!.... IL SECONDO BAMBINO Io sarò la più triste di tutte!... Mi riconoscerai a questo segno!... (Cade a terra e rimane stesa al suolo, immobile). IL TEMPO Perchè non sperare che un giorno...? E ora, siamo pronti finalmente.... (Consultando la clessidra). Non ci restano che sessantatrè secondi.... (Ultima violenta agitazione fra i bambini che partono e quelli che rimangono. Scambio di addii precipitosi: «Addio, Pietro!... Addio, Giovanni.... - Hai preso tutto quel che ti occorre?... Annunzia laggiù il mio pensiero!... - Hai preso il nuovo carburatore ?... - Parla dei miei poponi!... - Non hai dimenticato nulla?... - Cerca di riconoscermi!... - Ti ritroverò!... - Non perder le tue idee!... - Non sporgerti troppo sullo Spazio!... Dàmmi notizie!... - Dicono che non è permesso!... Sì, sì!... In ogni modo, tenta!... - Procura di farci sapere se è bello, il Mondo! Ti verrò incontro - Io nascerò sopra un Trono!... ecc., ecc.» ). IL TEMPO (agitando le chiavi e la falce) Basta! Bastal... L'àncora è levata!... (Passano le vele della galera, e spariscono. Le grida dei bambini dentro alla galera si fanno sempre più lontane: «Terra!.. Terra!... Io la vedo!... Com'è bella!... Com'è grande!... Com'è luminosa!...». Poi, come se uscisse dal fondo dell'abisso, si ode, lontano lontano, un canto di allegrezza e di attesa). TYLTYL (alla Luce) Che cos'è?... Non son loro che cantano così.... Si direbbero altre voci.... LA LUCE Sì, è il canto delle Madri che vanno loro incontro.... (Il Tempo frattanto chiude le porte opaline. Poi si volta, getta un ultimo sguardo nella sala, e scorge a un tratto Tyltyl, Mytyl e la Luce). IL TEMPO (stupefatto e furibondo) Che cosa fate qui?... Chi siete?... Perchè non siete azzurri come gli altri?... Di dove siete entrati?... (Si avanza verso di loro minacciandoli con la falce). LA LUCE (a Tyltyl) Non rispondere!... Ho preso l'Uccellino Azzurro.... Lo tengo nascosto sotto il mio mantello.... Scappiamo.... Gira il Diamante, così perderà le nostre tracce.... (Sgusciano via da sinistra, fra le colonna del primo piano). CALA LA TELA.
I vecchi e le vecchie si ammassarono tutti in un angolo: la Pinuccia, stringendo al seno la piccola Dorotea, il professore, abbracciando con disperata tristezza il suo cane. Il direttore puntò i suoi occhi accusatori I contro quel grappolo di uomini e di donne e li guardò in faccia a uno a uno. Nessuno poté resistere alla forza inquisitrice di quello sguardo e, a uno a uno, tutti abbassarono la testa, come se fossero davvero colpevoli di qualcosa. Soddisfatto di quella prima vittoria, che gli restituiva tutta l'autorità di cui aveva bisogno in quel momento, Leopoldo Umberto Ba.. gliotti-Gagginis incrociò le braccia e disse con voce tranquilla ma terribile: - Datemi la bambina. I vecchi e le vecchie si strinsero gli uni agli altri, come tanti pulcini sperduti. Ciascuno di loro, nel profondo del suo essere, aveva sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato, ma nessuno si sentiva preparato ad affrontarlo proprio adesso e in modo così brutale. - Datemi la bambina - ripeté fermo il direttore. - O me la prenderò da solo. Non devo fare che un passo. Ma, per il vostro bene, preferirei che me la consegnaste spontaneamente. Spontaneamente. E chiaro? Nessuno rispose, nessuno si mosse. I vecchi sembravano inerti, come marionette abbandonate in un angolo dal burattinaio. - D'accordo... Allora ci penso io. Il Bagliotti-Gagginis mosse un passo verso la Pinuccia, che d'istinto strinse più forte la bambina, tanto da farla piangere. Fu questione di un attimo. Argo sgusciò via dalle braccia del suo padrone e si avventò latrando contro il direttore. - Bestia maledetta! - urlò l'uomo, allungandogli una pedata. Il cane si rivoltò e gli azzannò un polpaccio. - Ah! Aiuto.... - Argo, qui! - ordinò concitato il professore. Il cane lasciò la presa, ma continuò a ringhiare sordamente, con il pelo arruffato e le orecchie dritte, come una belva feroce. - A cuccia! Argo si dominò e ritornò indietro, vinto dal richiamo all'obbedienza. Lanciò uno sguardo deluso al suo padrone, come per dirgli: «Perché non mi lasci fare a modo mio?». Poi si accucciò per terra, scornato e triste, spazzando nervosamente il pavimento con la coda. Il Bagliotti-Gagginis, nel frattempo, s'era un po' ripreso dallo spavento. - Chiamerò i carabinieri! - digrignava tra i denti. - La legge è dalla mia parte! La pagherete cara, tutti quanti! Delinquenti... Vi porterò via la bambina, vedrete! E il cane... Quella bestia feroce... Ah, sì! Lo farò abbattere, statene certi. - Questo si vedrà! - disse l'Ernesto, muovendo un passo avanti e sfidando il direttore con tutta la mole del suo corpo robusto. - Giusto - rimarcò la Pinuccia, con un coraggio che le venne in gola insieme al cuore. - Questo si vedrà! - La battaglia è appena cominciata, signor Bagliotti - aggiunse calmo il professore. - E adesso se ne vada. Questa, fino a prova contraria, è la nostra stanza. Lei qui non è gradito. - Via! Via! Vada via! - gridarono tutti gli altri, mentre Argo principiava a mostrare di nuovo i denti. Il direttore si massaggiò la gamba, che aveva cominciato a sanguinare, e giudicò miglior partito ritirarsi, almeno per il momento. Uscì dunque dalla stanza, zoppicando e farfugliando oscuri propositi di vendetta.
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Marietta invece, incapace di tenere più a lungo la lingua a freno, esclamò, abbracciando l'amica: - Come sono contenta, Loredana!... Se ieri il babbo non avesse avuto l'incarico di fare il ritratto del nostro grande ammiraglio, oggi non lo avresti trovato qui e tu ignoreresti ancora la felicità che ti aspetta. -
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- mormorò la madre, abbracciando a sua volta la fiorente giovinetta che le era corsa vicino. Madre e figlia si somigliavano moltissimo. Avevano entrambe lineamenti fini, il colorito roseo, i capelli fiammanti, il portamento eretto. Ma gli occhi della fanciulla erano fulgidi come stelle, e quelli della madre, opachi e spenti. Loredana pose con gesto carezzevole la bionda testa sulle ginocchia materne e rimase immobile, chiusa nel cerchio dei suoi mesti pensieri. Quattro anni erano ormai trascorsi da quando il babbo era partito per Famagosta condottovi da Marco Antonio Bragadin, e due anni e mezzo da quando la mamma era rimasta cieca in seguito alla sua malattia. Un velo si stendeva ora su quegli occhi, che un tempo avevano sprigionato tanta luce di amore e di dedizione. Loredana non era più la bimba spensierata che si divertiva in mille modi nella quiete del suo orto bagnato dal rio Canal; era ormai una giovinetta alta e snella, con le trecce avvolte intorno al capo come un lucido casco d'oro che la faceva sembrare una regina, benchè fosse vestita con vecchi panni della mamma, scoloriti e logori. Aveva inoltre una tale riservatezza di modi e una grazia così pudica che conquistava chiunque la vedeva. Quanto erano stati duri gli anni passati! Tutti intessuti di rinunzie silenziose e di eroici sacrifici per la giovinetta buona e coraggiosa. Piano piano, tutte le belle opere d'arte accumulate da Lorenzo Sagredo erano state vendute da Loredana, prima per assistere la madre durante la lunga malattia, poi per sovvenire ai loro quotidiani bisogni. Il bisogno le aveva anche costrette ai cedere la loro graziosa casetta nell'assolato campielo, così piena di tenero verde e di pispiglianti voli di uccelli, per rinchiudersi in quella soffitta nuda e gelida come una caverna. Eppure avevano sopportato tutto, Lucrezia e Loredana, sorrette dall'aiuto di Dio e dalla radiosa speranza che il pellegrino dei luoghi santi aveva fatto loro balenare. Intanto Lorenzo Sagredo non era più schiavo sulle galee turche, ma nella residenza di Alì pascià. Nella sontuosa dimora del potente signore mussulmano, egli poteva almeno dedicarsi al suo amato lavoro che lo avrebbe certamente consolato di tante cose e distratto dai suoi amari pensieri. Lucrezia Sagredo aveva collocato l'autoritratto del marito, uno stupendo disegno a punta d'argento, sotto il quadro della Madonna, quasi a chiedere che la Vergine sublime lo accogliesse sotto il suo manto e lo proteggesse contro ogni pericolo. Tutte le sere le due Sagredo s'inginocchiavano e pregavano a lungo; poi le labbra della sposa e della figlia sfioravano la fronte del caro assente e le mani affilate della cieca indugiavano con muta carezza, sul viso amato, come ad attingerne aiuto e conforto. Ma anche l'autoritratto del Sagredo, ultimo residuo dei beni scomparsi, doveva essere venduto tra qualche giorno. Perchè la madre non se ne accorgesse, Loredana aveva pensato di toglierlo e dalla cornice dorata e sostituirlo con una tavoletta spoglia di ogni immagine. Ma il cuore le si stringeva al pensiero di quell'inganno. Sarebbe riuscita a frenare i singhiozzi quando le bianche mani della mamma avrebbero sfiorato la nuda superficie? E che cosa avrebbe detto l'infelice donna? Dal basso continuavano a salire, ideale richiamo, le note soavi del clavicembalo di Teodora Pisani Moretta. Loredana si cullava in quei suoni armoniosi, quasi dimentica di tutto quello che la vita le aveva fatto soffrire e quasi aspettasse dalla nobile giovinetta speranza e conforto. Era un sentimento di fraternità umana che avrebbe voluto chiedere alla gentile sonatrice, quel sentimento che dovrebbe legare tra loro tutte le creature viventi e aiutarle a superare le prove, spesso amarissime, della vita. La fanciulla aveva sollevato il capo dalle ginocchia materne e i suoi begli occhi scuri guardavano intorno le squallide pareti, che sarebbero sembrate ancora più squallide, prive della virile immagine del padre. A un tratto le balenò un'idea. Se si fosse provata a ritrarre le sembianze paterne? Loredana ripensava al tempo in cui assisteva al lavoro del padre, e alle lezioni di pittura che aveva ricevuto da lui. Come si divertiva a passare le polveri per la composizione dei colori, e a mischiarle poi, in compagnia di Alvise, laggiù, sotto l'ombra delle acacie, per vedere quali altri colori avrebbero combinato! Piano piano si alzò, si avvicinò al cavalletto e lo trascinò sotto l'abbaino; staccò dal muro l'autoritratto del babbo e se lo mise davanti. - Che fai, Lori? - Mamma, voglio eseguire un piccolo disegno. - Ne sarai ancora capace? - chiese la madre con aria di dubbio. - Forse sì, mamma. - Brava Lori! Così, quando il babbo tornerà, vedrà che, la sua bimbetta è stata saggia, - mormorò Lucrezia con grande tenerezza; poi chinò la testa e s'immerse nei suoi profondi pensieri. Il silenzio regnò assoluto nella stamberga. Un Loredana lavorava.... obliquo raggio di sole si insinuava tra l'apertura dell'abbaino, accendeva, i capelli d'oro di Loredana e metteva un'aureola luminosa intorno al capo della fanciulla. Ogni tanto una nuvola nascondeva il sole e tutto si spengeva in un grigio di cenere; poi, d'improvviso, ogni cosa si riaccendeva più di prima.. Loredana lavorava senza posa. Le pareva che una mano invisibile la guidasse nella ricostruzione delle sembianze paterne. Ed ecco che a poco a poco sullo sfondo grigio della tavoletta fiorivano gli occhi imperiosi e pur dolci del babbo, il suo naso diritto, le labbra serrate tra il fluire del pizzo castano e l'ardita, piega dei baffi. A tratti la matita a punta d'argento che scorreva agile e sicura, guidata dalle sue dita, rimaneva sospesa e gli occhi di Loredana si fissavano in un punto lontano, come a ricostruire svaniti contorni; poi riprendeva febbrilmente il lavoro. La madre, nel suo angolo, si era assopita, cullata, dal profondo silenzio di quel pomeriggio di prima estate. Un calabrone di velluto era entrato nella scìa dei raggi solari e svolazzava intorno con un ronzio metallico; ma Loredana non lo vedeva e non lo sentiva. Si svegliò da quella specie d'incanto quando il sole stava per tramontare, in una gloria di luce sanguigna, salutato dalle strida gioconde delle rondini e dal dolce pigolo dei passeri, pronti a ritirarsi nei loro nidi alle prime ombre del crepuscolo. Per più di tre ore la fanciulla aveva lavorato senza interruzione e senza quasi accorgersene; e adesso si sentiva a un tratto stanca, ma di una stanchezza che le faceva bene al cuore. In punta di piedi, perchè la madre non la sentisse, tornò ad appendere il ritratto alla parete, e allora finalmente la grande angoscia che fin dalla mattina teneva chiuso il suo cuore in una morsa di ferro si dileguò, come un pipistrello che s'invola al timido spuntare dell'alba. Ormai non avrebbe più ingannato la cara cieca facendole baciare una nuda tavoletta. Lucrezia Sagredo, la sposa fedele e amorosa, avrebbe pregato sempre davanti all'effige dello sposo lontano, senza che sua figlia si sentisse salire alla fronte il rossore della vergogna e dell'ambascia.
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- impose Melania salendo e abbracciando la povera madre. - Credi che sia consolante per lei il pensiero che anche tu possa cadere? A casa, presto! - ordinò poi; e mentre Phil raccoglieva le redini si volse a Rossella. - Appena avrai riaccompagnato a casa la zia, vieni da Mrs. Meade. Capitano Butler, potete andare ad avvertire il dottore? È all'ospedale. La carrozza si mosse attraverso la folla che si andava diradando. Alcune donne piangevano di gioia; ma le altre sembravano troppo sbalordite per rendersi completamente conto della sventura che le colpiva. Rossella chinò la testa a guardare la lista, scorrendola velocemente per trovarvi i nomi di conoscenti. Ora che Ashley era salvo, poteva pensare agli altri. Dio, com'era lunga quella lista! E quante persone di Atlanta, della Georgia! Dio benedetto! - Calvert... Roberto, luogotenente. Roby! - A un tratto ricordò il giorno, cosí lontano, in cui erano scappati di casa, ma al cader della notte erano tornati perché avevano fame e il buio li spaventava. - Fontaine... Giuseppe, soldato semplice. - Il piccolo Joe, cosí irritabile! E Sally che aveva appena avuto il bambino! - Munroe... Lafayette, capitano. - Il fidanzato di Catina Calvert. Povera Catina! Doppia perdita: il fratello e il futuro sposo... Ma la perdita di Sally era anche maggiore: il fratello e il marito. Aveva quasi paura di continuare a leggere.. Certo... certo doveva esservi errore. Non potevano esservi tre «Tarleton» nella lista. Forse lo stampatore frettoloso... Ma no. Ecco. - Tarleton... Brenton, luogotenente. Tarleton... Stuart, caporale. Tarleton... Tommaso, soldato. - E Boyd, morto nel primo anno di guerra, era sepolto Dio sa dove, nella Virginia. Tutti i ragazzi Tarleton. Tom e i due indolenti gemelli che amavano tanto chiacchierare e giocare; e Boyd che aveva la grazia di un maestro di danza e la lingua di una vespa. Non poté leggere oltre. Impossibile vedere se qualche altro di quei ragazzi coi quali era cresciuta e aveva ballato, civettato, scambiato qualche bacio, era nella lista. Avrebbe voluto piangere, liberarsi dalle dita d'acciaio che le stringevano la gola. - Mi dispiace, Rossella. - Era la voce di Rhett. Ella alzò gli occhi. Aveva dimenticato la sua presenza. - Molti dei vostri amici? Ella annuí e tentò di parlare. - Quasi tutte le famiglie della Contea e... tutti e tre i ragazzi Tarleton. Il volto di lui era tranquillo, quasi cupo; nei suoi occhi non vi era ombra di scherno. - E non è ancora finita - disse. - Queste sono le prime liste e sono incomplete. Domani ve ne sarà una piú lunga. - Abbassò la voce per non farsi udire dalle carrozze vicine. - Rossella, il generale Lee deve aver perduto la battaglia. Ho sentito dire al Quartier Generale che si è ritirato nel Maryland. Ella alzò gli occhi sgomenta; ma il suo spavento non dipendeva dalla notizia della disfatta di Lee. Un'altra lista domani! Domani. Non aveva pensato a questo, felice soltanto che il nome di Ashley non fosse fra quelli che aveva dinanzi agli occhi. Domani. Forse in questo momento poteva esser morto, e lei non lo saprebbe che domani. O forse, fra una settimana. - Ma perché, Rhett, si fanno le guerre? Sarebbe stato meglio che gli yankees avessero pagato per i negri... o che noi li avessimo liberati, piuttosto che far succedere questo! - Non si tratta dei negri, Rossella. Quello non è che un pretesto. Le guerre vi sono state sempre perché gli uomini amano la guerra. Le donne no, ma gli uomini... sí, più di quanto non amino le donne. La sua bocca si piegò al sorriso consueto. Egli sollevò il largo cappello di panama. - Arrivederci. Vado a cercare il dottor Meade. È un'ironia della sorte che proprio io vada a dargli la notizia della morte di suo figlio; ma forse non se ne accorgerà neppure. Piú tardi, probabilmente troverà orribile pensare che uno speculatore abbia recato la notizia della morte di un eroe.
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Questi singhiozzò abbracciando stretta la sua bambinaia. - Fallo tacere. Non posso sopportarlo - disse Rossella prendendo il cavallo per la briglia e tirandolo per farlo muovere. - Sii un omino coraggioso, Wade, e finiscila di piangere se non vuoi essere sculacciato. «Perché Dio aveva inventato i bambini?» pensò ferocemente nel momento in cui si storceva una caviglia. «Una vera calamità: inutili, sempre fra i piedi, sempre a piagnucolare, sempre bisognosi di cure!» - Miss Rossella - bisbigliò Prissy afferrandola per il braccio - non andare a Tara. Non esserci nessuno. Essere tutti andati via. Forse morti, tutti quanti. L'eco dei propri pensieri irritò Rossella che si svincolò dalle dita che la stringevano convulsamente. - Allora dammi la mano di Wade. Tu puoi rimanere qui. - No, badrona! No! - E allora, taci! Come camminava adagio il cavallo! Sulla mano sentiva gocciolare la bava della povera bestia; e la sua mente ripeteva fino all'ossessione poche parole di una canzone che cantava, una volta con Rhett; non ricordava il seguito: «Ancora pochi giorni per portare il pesante fardello...» «Ancora un passo... - ripeteva il suo cervello stanco - ancora un passo... per portare il pesante fardello...» Finalmente raggiunsero la sommità: dinanzi a loro erano le querce di Tara, una massa cupa contro il cielo buio. Nessuna luce. - Se ne sono andati! - E improvvisamente il cuore le pesò come se fosse diventato di piombo. Volse il capo del cavallo verso l'imboccatura del viale; i cedri unendo i loro rami in alto immersero il gruppo lamentevole in una completa oscurità. Aguzzando gli occhi, sembrò a Rossella di distinguere - o era allucinazione? - vagamente la forma della casa. La sua casa, la sua casa! I cari muri bianchi, le finestre con le tendine leggere, le larghe verande... tutto ciò era veramente dinanzi a lei? O le tenebre nascondevano pietosamente orrori come quelli della casa dei MacIntosh? Il viale sembrò interminabile; il cavallo inciampava ad ogni passo. Ansiosamente gli occhi di Rossella scrutavano nel buio. Il tetto sembrava intatto. Era possibile? Possibile? No, non poteva essere. La guerra non si fermava dinanzi a nulla; neanche dinanzi a Tara, costruita per durare cinquecento anni. La massa incerta cominciò a prender forma. Rossella trascinò il cavallo piú in fretta. I muri bianchi si vedevano ora distintamente; e non erano neanche anneriti dal fumo. Tara era salva! La sua casa! Lasciò cadere le briglie e corse in avanti, con folle desiderio di stringere fra le braccia quelle mura. E vide una forma, un'ombra, emergere dall'oscurità del porticato, in cima alla breve gradinata. Tara non era dunque abbandonata! C'era qualcuno in casa! Un grido di gioia le salí alla gola, ma rimase soffocato. La casa era buia e silenziosa, eppure la figura non si muoveva. Che cosa era successo? Ma ecco: l'ombra si era mossa; scendeva lentamente i gradini. - Babbo? - mormorò Rossella, rauca, quasi dubitando che fosse lui. - Sono io... Caterina Rossella. Sono tornata. Geraldo avanzò verso di lei, come un sonnambulo, trascinando la gamba rigida. Le giunse accanto, la fissò stranamente come se credesse che fosse un sogno. Poi le posò una mano sulla spalla. Rossella lo sentí tremare, come se fosse stato svegliato da un incubo e non avesse ancora il senso completo della realtà. - Figlia... - mormorò con sforzo - Figlia mia. Poi tacque. «È un vecchio!» pensò Rossella. Geraldo aveva le spalle curve. Nel volto, che ella scorgeva confusamente, non era piú nulla della vitalità che ricordava in suo padre, e i suoi occhi avevano quasi l'espressione sgomenta di quelli del piccolo Wade. Era un piccolo vecchio accasciato. Lo spavento di mille cose ignorate la afferrò; ed ella rimase a fissarlo, con un fiume di domande che le urgevano in gola e non riuscivano a formularsi. Dal carretto giunse di nuovo il vagito lieve e Geraldo si volse con sforzo. È Melania col suo bimbo - sussurrò Rossella rapidamente. - Sta molto male. L'ho portata a casa. Geraldo lasciò cadere la mano che le teneva sul braccio e cercò di raddrizzare le spalle mentre si dirigeva a passi lenti verso il carretto. Era lo spettro dell'antico padrone di casa che si recava a dare il benvenuto agli ospiti. - Cugina Melania! La voce di Melania mormorò indistintamente. - Cugina Melania, questa è casa vostra. Le Dodici Querce sono state bruciate. Dovete stare con noi. Il pensiero della prolungata sofferenza di Melania spinse Rossella all'azione, insieme alla necessità di mettere lei e il suo piccino in un letto morbido, e di fare per lei ciò che si poteva. - Bisogna portarla. Non può camminare. Si udí un fruscío di piedi e dal porticato emerse una figura scura. Pork scese i gradini di corsa. - Miss Rossella! Miss Rossella! - gridò. Rossella gli afferrò le braccia. Pork, parte di Tara, caro quanto le sue pietre e i freschi corridoi! Sentí le lagrime di lui scorrerle sulle mani, mentre egli l'accarezzava goffamente esclamando: - Tanto contento tu essere tornata! Tanto... Prissy era scoppiata in lagrime e balbettava parole incoerenti: - Pork! Pork! Caro! - E il piccolo Wade, incoraggiato dalla debolezza dei grandi, cominciò a piagnucolare: - Wade ha sete! Rossella prese la direzione. - Miss Melania è nel carretto col suo bambino. Devi prenderla in braccio, Pork, e portarla di sopra, nella stanza degli ospiti in fondo al corridoio. Prissy, porta dentro il piccolo e Wade, e dài a Wade un sorso d'acqua. C'è Mammy? Dille che ho bisogno di lei, Pork. Galvanizzato dall'autorità di quella voce, Pork si avvicinò al carretto. Un gemito uscí dalle labbra di Melania quando egli la sollevò dal materassino di piume su cui giaceva da tante ore. E poi fu nelle forti braccia di Pork, con la testa sulla sua spalla. Prissy, col bimbo in braccio e tenendo Wade per mano, lo seguí e scomparve nelle tenebre del vestibolo. Le dita infiammate di Rossella cercarono la mano di suo padre. - Come stanno, babbo? - Le ragazze si stanno rimettendo. Nel silenzio che seguí, un'idea troppo mostruosa per essere detta in parole prese forma. No, ella non poteva costringere le sue labbra ad aprirsi. Inghiottí a piú riprese, ma la sua gola era arida come pergamena. Era dunque quello il significato dello spaventoso enigmatico silenzio di Tara? Come per rispondere al suo spirito, Geraldo parlò. - La mamma... - disse; e si fermò. - La mamma? - È... è morta ieri. Col braccio di suo padre stretto al suo, Rossella attraversò il grande vestibolo nel quale, malgrado l'oscurità, sapeva muoversi senza esitazione. Evitò le sedie ad alta spalliera, la vecchia credenza con le zampe sporgenti, la rastrelliera vuota, e si sentí portata dall'istinto allo studietto dove Elena sedeva sempre riordinando la sua interminabile contabilità. Certo la troverebbe dinanzi alla scrivania; e la vedrebbe alzarsi in un fruscio di gonne che sapevano di verbena, per andare incontro alla figlia cosí stanca, ed esausta. Elena non poteva essere morta, benché il babbo avesse detto e ripetuto, come un pappagallo che sa una sola frase: - È morta ieri... è morta ieri... è morta ieri. Strano: non sentiva altro, ora, che una stanchezza che le inceppava le membra come catene di ferro e una fame che le faceva tremare le ginocchia. Alla mamma penserebbe piú tardi. Doveva allontanarla dalla sua mente in questo momento, altrimenti si metterebbe a balbettare stupidamente come Geraldo o a singhiozzare come Wade. Pork ridiscese frettolosamente le scale, ansioso di avvicinarsi a Rossella come un animale che ha freddo si avvicina al fuoco. - Luce? - chiese Rossella. - Perché tutta la casa è cosí buia, Pork? Porta delle candele. - Loro avere preso tutte le candele, miss Rossella, meno una che adoperare per lavori piú fini ed essere quasi finita. Mammy adoperare stracci in un piatto di grasso di porco per potere curare miss Carolene e miss Súsele. - Porta quello che è rimasto della candela - ordinò. - Portala nello studio della... nello studio. Pork trotterellò verso la stanza da pranzo e Rossella penetrò nella stanzetta e si lasciò cadere sul divano. Il braccio di suo padre era ancora sotto al suo, aggrappato disperatamente, supplichevole, come possono esserlo soltanto le mani dei giovanissimi e dei vecchi. «È invecchiato e stanco» pensò di nuovo; e vagamente si stupí che non gliene importasse nulla. La luce penetrò nella stanza quando Pork entrò portando una candela consumata a metà in un piattino. L'ambiente si ravvivò: il vecchio divano logoro su cui sedeva, la grande scrivania con la fragile sedia intagliata dietro ad essa, gli scaffali ancora pieni di carte scritte dalla mamma, il tappeto consunto... tutto, tutto era come prima; soltanto Elena non vi era, Elena con la lieve fragranza di verbena e la dolce espressione dei suoi occhi dagli angoli tirati in basso. Rossella provò una leggera stretta al cuore, come se i nervi, lesi da una profonda ferita, cercassero di riprender vita. Ma non poteva lasciarli rivivere adesso: c'era davanti a lei tutto il resto della sua vita per soffrire! Non adesso, Dio, non adesso! Guardò Geraldo e per la prima volta in vita sua lo vide non raso, col viso non piú florido irto di setole grige. Pork collocò la candela nel candeliere e le venne accanto. Se fosse stato un cane, le avrebbe posato il muso in grembo, aspettando una carezza. - Pork, quanti negri ci sono? - Miss Rossella, quei mascalzoni negri essere scappati e alcuni essere andati con yankees e... - Quanti ne sono rimasti? - Rimasti io e Mammy. E poi Dilcey. Mammy aver curato signorine tutto giorno e Dilcey tutta notte. Noi tre, miss Rossella. «Noi tre», mentre erano cento. Rossella alzò la testa con sforzo; il collo le doleva. Bisognava che la voce non le tremasse! Ma, con sua sorpresa, parlò freddamente e naturalmente, come se non vi fosse mai stata la guerra ed ella avesse potuto, con un cenno, chiamare una decina di schiavi. - Pork, muoio di fame. C'è qualche cosa da mangiare? - No, miss. Loro avere portato via tutto. - E nell'orto? - Loro avere fatto camminare dentro cavalli che aver pestato tutto. - Anche le patate dolci? Qualche cosa come un sorriso si disegnò sulle grosse labbra del negro. - Miss Rossella, io avere dimenticato patate dolci. Credo che essere ancora. Yankees non conoscere queste e credere che essere radici inutili... - A momenti si leverà la luna. Andrai a scavarne un certo numero e le farai cuocere. Non c'è grano saraceno? Piselli secchi? Polli? - No, badrona. Niente. I polli che non aver potuto mangiare avere portato via legati a loro selle. Non vi era dunque cosa che non avessero fatto, coloro? Non bastava avere incendiato e ucciso? Avevano anche lasciato donne e bambini a morir di fame nei luoghi che avevano devastati? - Miss Rossella, io avere alcune mele che Mammy aver seppellito dietro alla casa. Oggi esserci nutriti con quelle. - Portale prima di andare a scavare le patate. E... Pork, mi sento tanto debole. C'è vino in cantina, magari di amarasche? - Oh, miss Rossella, in cantina essere andati per prima cosa! Una nausea fatta di fame, di esaurimento, di sbalordimento la assalí improvvisamente, ed ella si drizzò aggrappandosi alla scrivania. - Non c'è vino - ripeté con voce opaca, rivedendo le file di bottiglie nella cantina. Un ricordo le balenò. - E quel whisky di grano che babbo mise in un bariletto di quercia e che sotterrò ai piedi dell'albero di noce moscata? Un altro barlume di sorriso illuminò il viso nero. - Oh, miss Rossella, io non dimenticare quel bariletto. Ma whisky non essere buono. Essere lí sotto da quasi un anno e non essere buono per signorine! Com'erano stupidi i negri! Non avevano mai l'idea di nulla, se uno non glielo diceva. E gli yankees volevano liberarli! - Sarà buono per questa signorina e per babbo. Svelto, Pork, vai a dissotterrarlo e portaci due bicchieri, un po' di zucchero e qualche foglia di menta. - Non essere zucchero a Tara da un pezzo. E cavalli aver mangiato tutta la menta; e loro aver rotto tutti bicchieri. «Se dice "loro" ancora una volta, non potrò fare a meno di urlare!» pensò Rossella. Poi, disse: - Va bene; corri a prendere il whisky. Lo berremo puro. E... aspetta. Mi pare di dover pensare a tante cose... Ah, sí. Ho portato a casa un cavallo e una mucca. Questa ha bisogno di essere munta. E bisogna togliere i finimenti al cavallo e dargli da bere. Di' a Mammy di occuparsi della mucca. Che la metta in qualche posto. Il bimbo di Melania morirà se non gli si dà un po' di latte. - Miss Melania... non avere...? - Pork si interruppe per delicatezza. - No, non ha latte. - Dio mio, se la mamma la sentisse parlare cosí! - Allora, miss Rossella, mia Dilcey occuparsi del pupo di miss Melania. Mia Dilcey avere avuto anche lei bambino e avere abbastanza latte per due. - Tu hai un altro bimbo, Pork? Bambini, bambini, bambini. Perché Dio metteva al mondo tanti bambini? Ma no, non era Dio che li metteva al mondo: era la gente stupida. - Sí, badrona: grosso bambino nero. E... - Vai a dire a Dilcey che lasci per un poco le ragazze. Che si occupi del bimbo di miss Melania e faccia anche per miss Melania quello che occorre. Di' a Mammy che provveda per la mucca e metti nella stalla quel povero cavallo. - Non esservi stalla. Loro avere demolito per fare legna da ardere. - Non dirmi piú nulla di ciò che «loro» hanno fatto. Ripeti a Dilcey quello che ti ho detto. E poi vai a prendere il whisky e qualche patata. - Non potere scavare al buio. - Non puoi accendere un pezzo di legno e con la fiamma...? - Non avere legna. Loro... - Fai quello che ti pare. Arrangiati. Ma fai quello che ti ho ordinato e sbrígati. Pork si affrettò fuori della stanza e Rossella rimase sola con Geraldo. Gli accarezzò dolcemente una gamba; e notò che i muscoli saldi si erano afflosciati. Bisognava fare qualche cosa per toglierlo da quell'apatia... ma non poteva chiedergli della mamma. Piú tardi... - Perché non hanno incendiato Tara? Geraldo la fissò un momento come se non avesse compreso; e Rossella ripeté la domanda. - Perché... - mormorò - hanno fatto qui il loro quartier generale. - Gli yankees... in questa casa? Ebbe la sensazione che fosse stata compiuta una profanazione. Quelle mura, sacre perché vi aveva vissuto Elena... e coloro vi erano penetrati! - È stato cosí. Avevamo visto il fumo delle Dodici Querce prima che giungessero qui. Ma Lydia e Gioia si erano rifugiate a Macon, con alcuni schiavi, perciò non ce ne preoccupammo. Noi non ci potevamo muovere. Le ragazze stavano molto male... e la mamma... Non potevamo muoverci. I nostri negri fuggirono... non so dove. Rubarono i carri e i muli. Mammy, Dilcey e Pork... non sono fuggiti. Le ragazze... e la mamma... impossibile trasportarle. - Sí, sí. - Non doveva parlare della mamma. Qualunque altra cosa; magari dirle che il generale Sherman in persona aveva usato quella stanza, lo studio della mamma, per il suo quartier generale. Qualunque altra cosa. - Gli yankees marciavano su Jonesboro, per tagliare la ferrovia. E attraversarono il fiume... migliaia e migliaia... coi cannoni e i cavalli... a migliaia... ed io andai a riceverli sotto il porticato. «Valoroso piccolo Geraldo!» pensò Rossella sentendosi venir meno. Geraldo che andava a ricevere il nemico sui gradini di Tara, come se avesse dietro un esercito, anziché dinanzi. - Mi dissero di andar via, perché volevano incendiare la casa. Risposi che l'avrebbero bruciata con me dentro. Non potevamo partire... le ragazze... la mamma... - E allora? - Possibile che tornasse sempre a parlare di Elena? - Dissi che vi erano ammalati in casa; il tifo; e che farli muovere sarebbe stato ucciderli. Bruciassero pure il tetto sulle nostre teste. Non potevo partire... lasciare Tara... La sua voce si spense; egli guardò le pareti e Rossella comprese. Troppi antenati irlandesi erano morti combattendo sino alla fine, piuttosto che lasciare le case dove avevano vissuto, lavorato, amato, generato dei figliuoli. - Dissi che vi erano tre donne moribonde: bruciassero pure la casa con loro dentro. Il giovine ufficiale era... era un gentiluomo. - Uno yankee gentiluomo? Andiamo, via, babbo! - Un gentiluomo. Se ne andò al galoppo e tornò dopo poco con un capitano medico che visitò le ragazze... e la mamma. - Hai lasciato entrare in camera loro un maledetto yankee? - Aveva dell'oppio. Noi non ne avevamo. Salvò le tue sorelle. Súsele aveva un'emorragia. Era un brav'uomo. E quando andò a riferire che erano... ammalate... rinunciarono a incendiare la casa. Entrarono, il generale e il suo Stato Maggiore, e occuparono le stanze, meno quella delle ammalate. E i soldati... Si interruppe di nuovo, come se fosse troppo stanco per continuare. Il mento gli ricadde pesantemente sul petto, formando delle pieghe di carne floscia. Poi fece uno sforzo per parlare ancora. - Si accamparono intorno alla casa, dovunque, nel cotone, nel grano. I campi erano turchini delle loro uniformi. Quella notte vi furono mille fuochi di bivacco. Strappavano le barriere e le bruciavano per cucinarvi sopra il loro cibo; e cosí le tettoie e le stalle. Uccisero le mucche, i maiali, i polli... perfino i miei tacchini. - I preziosi tacchini di Geraldo. - Presero tutto; i quadri, le porcellane... - L'argenteria? - Non so che cosa ne hanno fatto Pork e Mammy; messa nel pozzo... non mi ricordo. - La voce di Geraldo era stizzosa. - E poi iniziarono la battaglia da qui... da Tara... Uno strepito infernale, gente che galoppava e calpestava tutto. E piú tardi, le cannonate a Jonesboro; sembravano tuoni... Anche le ragazze le sentivano, benché stessero tanto male... - E... la mamma? Ha saputo che c'erano gli yankees in casa? - Non ha mai saputo nulla. «Dio sia ringraziato!» pensò Rossella. Almeno, questo era stato risparmiato alla mamma. Non aveva saputo, non aveva udito il nemico nelle stanze, non aveva sentito i cannoni a Jonesboro, non aveva sofferto perché la terra cara al suo cuore era sotto ai piedi degli yankees. - Li ho visti poco perché stavo al piano di sopra con le ragazze e con la mamma. Ho visto piú di tutti il giovine medico. Era tanto buono, tanto! Dopo aver lavorato tutto il giorno intorno ai feriti, veniva a sedersi di sopra, con loro. Ha anche lasciato qualche medicina. Nel partire mi disse che le ragazze sarebbero guarite, ma la mamma... Era cosí fragile... troppo fragile per resistere a questo. Disse che aveva abusato delle sue forze... Nel silenzio che seguí, Rossella vide sua madre come doveva essere stata in quegli ultimi tempi; il sostegno di Tara, sempre pronta ad assistere, a lavorare, senza dormire e senza mangiare, perché gli altri potessero mangiare e dormire. - E poi, se ne sono andati. Tacque a lungo, poi cercò la mano di lei. - Sono contento che tu sia tornata. Dal porticato posteriore giunse uno scalpiccio. Il povero Pork, abituato da quarant'anni a pulirsi le scarpe prima di entrare in casa, non dimenticava di farlo neanche in questi momenti. Entrò, portando con precauzione due piccole borracce di zucca e con lui entrò un forte sentore di grappa. - Averne sprecato parecchio, miss Rossella. Essere difficile fare entrare grosso getto in piccola zucca. - Va bene, Pork; grazie. - Gli prese di mano la zucca sgocciolante, torcendo il naso per il disgusto di quell'odore forte. - Bevi, babbo - disse ponendogli in mano lo strano recipiente e prendendo dalle mani di Pork la seconda zucca, piena d'acqua. Geraldo, ubbidiente come un bambino, bevve rumorosamente. Ella gli porse l'acqua, ma Geraldo crollò il capo. Riprese la borraccia e se la portò alle labbra; e nel far questo vide che gli occhi di lui la seguivano, con una vaga espressione di disapprovazione. - So che le signore non bevono liquori - disse brevemente. - Ma oggi non sono una signora; e stasera c'è da lavorare, babbo. Sollevò il recipiente, trasse un profondo respiro e bevve. Il liquore le bruciò la gola e lo stomaco, soffocandola e facendola lagrimare. Trasse un altro respiro e sollevò di nuovo la zucchetta. - Caterina Rossella - fece Geraldo; e nella sua voce era la prima nota di autorità che ella avesse udito dopo il suo ritorno, - ora basta. Non sei abituata all'alcool e ti renderebbe brilla. - Brilla? - E rise di un riso cattivo. - Spero che mi ubbriachi addirittura. Mi piacerebbe ubbriacarmi e dimenticare tutto questo. Bevve ancora, sentendosi scorrere entro le vene un calore che giunse fino alla punta delle dita. Che piacevole sensazione, quel calore benefico! Le parve che penetrasse fino al suo cuore ghiacciato e le desse nuova forza. Vedendo il viso perplesso di Geraldo lo accarezzò di nuovo sforzandosi al sorriso che egli amava. - Come vuoi che mi ubriachi, babbo? Non sono tua figlia? Non ho ereditato la testa piú salda della Contea di Clayton? Anche Geraldo abbozzò quasi un sorriso. Il whisky stava risollevando anche lui. Rossella gli porse nuovamente la borraccia. - Bevi ancora un poco; poi ti porterò di sopra e ti metterò a letto. Fu stupita. Quello era il modo in cui parlava a Wade; non poteva parlare nella stessa maniera a suo padre! Era poco rispettoso. Ma egli pendeva dalle sue labbra. - Sí, ti metterò a letto - proseguí leggermente - e ti darò ancora da bere... forse tutta la borraccia; cosí dormirai. Hai bisogno di dormire; e qui ora c'è Caterina Rossella e non devi preoccuparti di nulla. Bevi. Egli bevve di nuovo, ubbidiente; quindi, passando il suo braccio sotto a quello di lui, ella lo fece alzare in piedi. - Pork... Pork s'impadroní della borraccia con una mano e del braccio di Geraldo con l'altra. Rossella prese la candela e tutti e tre si avviarono lentamente per il vestibolo e poi per le scale fino alla stanza di Geraldo.
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Il nonno Merriwether raccontò che dopo questo discorso tutte le signore piangevano abbracciando Melania; la riunione finí con un accordo generale e Melania fu eletta segretaria di tutt'e due le associazioni. - E tutte quante hanno promesso di adoperarsi per le tombe yankee. Il male è che mia nuora voleva che andassi anch'io ad aiutare, visto che non ho nulla da fare. Io ritengo che miss Melly abbia avuto ragione e che le altre avessero torto; ma andare ad estirpare le erbacce alla mia età e con la mia lombaggine! Melania faceva parte del Comitato femminile dell'Orfanotrofio e aiutava a scegliere i libri per l'Associazione Libraria Maschile di recente formazione. Perfino i Tespiani che una volta al mese recitavano una commedia, reclamarono il suo aiuto. Melania era troppo timida per apparire alla ribalta; ma le toccò occuparsi dei costumi, fatti, si capisce, in grandissima economia. Fu lei che diede il voto decisivo nel Circolo di Lettura Shakespeariano perché le opere del poeta fossero alternate con quelle di Dickens e di Bulwer-Lytton piuttosto che coi poemi di Byron com'era stato suggerito da un giovine membro del Circolo che Melania, nel suo intimo, temeva fosse un tipo impertinente e sfacciato. Nelle sere della tarda estate la sua piccola casa debolmente illuminata era sempre piena di ospiti. Non vi erano mai sedie sufficienti e spesso le signore sedevano sui gradini del porticato anteriore, con gli uomini appoggiati alla balaustra o seduti sul prato. A volte Rossella, vedendo gli ospiti che sedevano sull'erba sorseggiando il tè - l'unico rinfresco che i Wilkes potevano permettersi di offrire - si chiedeva come mai Melania potesse esporre la sua povertà cosí, senza vergogna. Ella si guarderebbe bene dal ricevere - specialmente persone di riguardo come quelle che andavano da Melania - finché non potesse arredare nuovamente la casa di zia Pitty com'era prima della guerra e non potesse offrire agli invitati vini scelti e sciroppi, prosciutto e pasticci di cacciagione. Il generale John Gordon, l'eroe della Georgia, si recava spesso in casa Wilkes con la sua famiglia. Padre Ryan, il prete-poeta della Confederazione, non mancava mai di andare a salutare Melania quando si trovava di passaggio per Atlanta e in quelle serate deliziava gli altri invitati recitando loro qualcuno dei suoi poemi. Alew Stephens, l'ex-vice-presidente, era egli pure fra gli assidui; e quando si sapeva della sua presenza preso i Wilkes, la casa si riempiva di gente che rimaneva per ore ed ore sotto l'incanto della voce squillante di quel debole invalido. Di solito vi erano dozzine di bambini col capo ciondoloni per il sonno fra le braccia dei genitori; non vi era famiglia che non desiderasse che i suoi figliuoli potessero piú tardi raccontare di essere stati baciati dall'uomo che aveva tenuto le redini della Grande Causa. E tutti i personaggi eminenti che per una ragione o per l'altra giungevano in città, non mancavano di andare in casa Wilkes dove spesso passavano la notte. In queste occasioni Lydia era costretta a dormire su un materasso nella stanzetta di Beau e Dilcey correva da zia Pitty a farsi prestare le uova per la colazione della mattina seguente; ma Melania intratteneva gli ospiti graziosamente come se fosse stata la dama di un castello. No, Melania non si accorgeva che la gente si riuniva attorno a lei come attorno a una logora e amata bandiera. Quindi fu stupita e imbarazzata una sera quando il dottor Meade, dopo aver passato in casa sua una piacevole serata durante la quale aveva letto il «Macbeth» con delizia dell'uditorio, le aveva baciato la mano dicendole con la stessa voce usata in altri tempi nei discorsi in pro della Causa Gloriosa: - Cara miss Melly, è sempre un privilegio e un piacere venire in casa vostra, perché voi - e le donne come voi - siete il cuore di noi tutti; siete tutto ciò che ci è rimasto. Ci è stato tolto il fiore della nostra gioventú e il riso delle nostre donne. Ci hanno rovinato la salute, hanno distrutto le nostre abitudini, annichilito la nostra prosperità, ci hanno ricacciato indietro di cinquant'anni e hanno collocato un fardello troppo pesante sulle spalle dei nostri ragazzi che dovrebbero andare a scuola e dei nostri vecchi che dovrebbero godere il sole. Ma potremo ricostruire, perché abbiamo dei cuori come il vostro su cui posare le fondamenta. E fintanto che abbiamo questa ricchezza, si prendano pure tutto il resto, gli yankees!
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- (alzandosi di scatto ed abbracciando Emma)
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(abbracciando il Reuccio:) Ah, figliuolo mio caro ! LA REGINA. Povero figlio mio, sposato a una fornaia! IL REUCCIO. Ma io non ho dato il consenso. Sposare quella bruttona? Quella cenciosa? Quella fuligginosa ? IL RE. Parola di re non va indietro; siete marito e moglie. IL REUCCIO. Prima morire, che sposare costei. TIZZONCINO. (di dentro, canzonandolo:) La vedremo, reuccio ! IL REUCCIO. Vieni fuori, bruttona, e ti risponderò meglio! TIZZONCINO (come sopra :) Non vi scaldate! IL REUCCIO. Vieni fuori, cenciosa, fuliginosa, piedi scalzi ! (Il Reuccio si avventa contro l'uscio per aprire). IL RE (alle guardie:) Fermatelo ! TIZZONCINO. (di dentro:) Guardami dal buco della serratura. IL REUCCIO (guarda dal buco della serratura, ed esclama :) Oh, Dio, che mai vedo ! (Resta estatico a guardare.) IL RE. Che vede? TUTTI. Che vede ? È rimasto incantato ! IL REUCCIO (guardando ancora:) Oh, che bellezza ! Oh, che cosa celeste! ARLECCHINO. È impazzito. TARTAGLIA. Pa...pare. IL REUCCIO (picchiando all'uscio :) Aprite e perdonatemi, reginotta mia ! TIZZONCINO (di dentro, facendogli il verso:) Fornaia ! Cenciosa ! IL REUCCIO (come sopra :) Aprite regina del cuor mio ! TIZZONCINO (di dentro, ridendo e facendogli il verso:) Ah ! Ah ! Bruttona ! Fuliginosa ! IL REUCCIO (picchiando più forte:) Apri, apri, Tizzoncino dell'anima mia ! (L'uscio si spalanca e comparisce Tizzoncino bella come il sole, vestita di abiti reali). TUTTI. (con gran meraviglia:) Ah ! IL RE (prendendo per le mani Tizzoncino e il Reuccio :) Figli miei, siate felici ! LA REGINA. Ora non sei più Tizzoncino ! TARTAGLIA. Spe...spera di so...le... ARLECCHINO. Lo direte domani, per ora lo dico io:. Spera di sole, spera di sole, Sarai regina, se Dio vuole E si è avverato ! Viva gli sposi ! TUTTI. Viva gli sposi ! (Cala il sipario).
- singhiozzò la desolata madre, abbracciando piangente le sue figlie: - ecco le prime lagrime che mi fai versare! Pietro passeggiò per la camera alcuni minuti, agitato e smanioso; poscia si fece al verone. La calma serena di quella notte d'estate, il fresco venticciuolo che gli asciugava il sudore sulla fronte lo calmarono alquanto; egli pensò alle lagrime di sua madre ed odiò se stesso come giammai aveva odiato. - Son vile!... sì, son vile!... - esclamò strappandosi i capelli. - Oh! la testa... Dio mio!... Aprì l'uscio della sua camera senza far rumore, e camminando leggero leggero andò ad origliare dietro la bussola della camera di sua madre, onde vedere se dormiva. La signora Brusio era ancora in piedi quando suo figlio aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più lieve rumore ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del cuore di lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno, che suo figlio pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto materno le suggerì anche che l'unico perdono che egli poteva desiderare nel suo pentimento era che sua madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e finse di dormire. Pietro ascoltò, dietro il paravento, il respiro alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse davvero, e non potè frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance: lagrime di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore dell'avvenire (che allora soltanto travedeva) per ciò che provava. - Povera madre! - esclamò singhiozzando; - povera madre mia! E la madre udì quei singhiozzi, e soffocò i suoi fra i guanciali. Pietro si ritirò in punta di piedi, come era venuto; e si rimise al verone. Colla fronte fra le mani, ed i gomiti appoggiati alla ringhiera, egli si assopì in quel vortice luminoso e turbolento che il cuore e l'imaginazione gli creavano, e dove vedeva un'ombra, dove una figura, ora vestita di bianco, ora quale l'avea veduta poche ore innanzi... carezzandosi la fronte ed i capelli con le mani di quell'uomo... Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli alzò gli occhi, si avvide con sorpresa che il primo raggio di sole facea scintillare i vetri. - Diggià! - mormorò egli: - il giorno vien presto al presente!... Sua madre, entrando la mattina nella camera di lui, osservò con dolore che il letto era intatto, come era stato acconciato la sera innanzi. - Madre mia! - le disse il giovane prendendole una mano, in tuono di pentimento del passato ma risoluto di ottenere quello che domandava, - ti chiedo perdono di quello che ho detto e fatto ieri... Ma ti prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di libertà, che l'età mia ora richiede... - Fa come vuoi, figlio mio... - rispose la madre abbracciandolo. Io non temo che tu ne possa abusare, poichè sei figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In quanto a me... - e la povera donna sospirava tentando di sorridere, - in quanto a me cercherò di vincere le mie sciocche paure... - Grazie, grazie, buona madre!... - esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella mano che baciava. Però ogni sera quella madre, che numerava coi battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava sin alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da lungi, nel silenzio della strada, ch'era lui che veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate, cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori che l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi della salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua cera malaticcia. Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o aI teatro dove la vedeva splendente di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che reca la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo piú oscuro della loggia, colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù. Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più insensibili del suo passo, del fruscìo della sua veste, tutte le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un singhiozzo dalla strada. Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a se. Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti. Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto a guardarlo. Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto. Narcisa ne scese più lestamente del solito, e scomparve quasi subito insieme al conte. La carrozza ripartì. Pietro udì il passo leggiero di lei che saliva le scale accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva: udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i lumi. Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il cuor del povero giovane. - Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa casa stassera!... Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga: Il Bacio, di Arditi. Però sembrava che un'attitudine estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con un'espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio festevole dalle note del valtzer, e faceva piangere con quelle del melodramma. Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto e rischiarata dalla luna. Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano. Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi di un trasparente vapore. Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. - Perdio! - disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, - non mi leverò mai d'addosso quest'accidente! Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso. - Che dite? - rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo. - Parlo di quell'importuno che stà a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi... La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone: - E che ci ho da fare io se quest'uomo è pazzo?... Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si piegassero sotto; sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte; coi denti sbattentisi di convulsione. Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui e dal sinistro splendore dei sui occhi ardenti. Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri. - Questa donna ha ragione! - momorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: - io son pazzo!... son pazzo!... sono stato vile anche!... E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo. Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: - Addio, signora!... Addio! Camminò tentoni barcollando come un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di marmo sotto gli alberi del Rinazzo. - Oh! questo valtzer! questo valtzer! - gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, - Dio! ... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!... E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un singhiozzo, or come una invocazione disperata: - Narcisa!... Narcisa!... - E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si afferava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni. Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quell vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al suicidio perchè odiava troppo ancora per essere stanco della vita. Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello: era annichilato. La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato, febbrile ed interrotto. Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato. Pietro passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a seconda della istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia, quella famiglia, che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe dato altravolta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo, coll'occhio arido, lucido, di una straordinaria fissazione. Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue pulsazioni; allorchè sentì battere sì violentemente le sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul cervello; allorchè sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte; allorchè, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la tempesta della sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di se, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che avevano costato, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poichè egli avea paura d'esserlo... poichè egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contigua. . - Vediamo! - mormorò egli alzandosi - a quest'ora dev'esser buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?.. quali diritti ne ho io?... Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.
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— piagnucolò la figlioccia gettandosi ai piedi del letto, abbracciando d'un colpo le gambe del morto e il coltroncino di seta. Lo zoppo girava, te tec, te tec, con una preoccupazione fissa che alla fine traboccò : — Se si potesse trovare il testamento.... — Che testamento! — gridò la vecchia — Occorrono — testamenti tra fratelli? — Non si sa mai.... la regola.... E poi si vedrebbe se ha lasciato disposizioni per il funerale. — Questo sì. È vero. D'accordo, silenziosi, si posero a guardare, a frugare: Ma il sospetto li dominava. Appena che uno avesse aperto un tiretto, gli altri due gli erano sopra, trattenendo il fiato, col cuore che batteva. E si sorvegliavano, non abbandonandosi mai cogli occhi. In questa lotta coperta, i volti indurivano, prendendo una tinta terrea sotto il lume vacillante della candela; le pupille scintillavano di cupidigia repressa; le mani tremavano — specie le mani della figlioccia, bianche ed affilate in mezzo ai cenci capovolti, ai batuffoli scoperchiati, essendosi già ferita ad un chiodo dell'armadio, ma non prendendo neppure il tempo di asciugare la gocciolina di sangue che lasciava qua e là una striscia sulle biancherie. Improvvisamente lo zoppo lasciò cadere il suo bastone e prima di raccoglierlo brancicò a lungo fra le gambe del tavolino, rialzandosi poi rosso rosso, col pugno stretto. — Ebbene? — Che cosa? — Mi sembrava.... Egli aveva frattanto cacciata la mano in tasca e levatala, colle cinque dita tese, si passò il fazzoletto sulla fronte. — Non troveremo nulla — disse la figlioccia con accento secco, già stanca di quella inutile fatica. — Voi, ve l'ho già detto, dovreste andare a riposarvi! — garrì la vecchia. — No, no. Sto qui piuttosto accanto al mio povero padrino a recitargli il rosario, così anche dal mondo di là potrà vedere e giudicare chi gli vuol bene. Fratello e sorella, dopo di aver girellato ancora un poco sempre l'uno sulla pista dell'altro, vennero a sedersi anch'essi vicino al morto biascicando avemarie, presi da una repentina tenerezza per quel loro fratello di cui non avrebbero più udita la voce. Senonchè, rammentando la voce, tornavano loro a memoria i litigi avuti in parecchie occasioni, sempre che l'interesse fosse della partita; e come egli, primogenito, li avesse trattati male al momento della divisione, tenendosi il bene ed il meglio. Questa riflessione li consolò. - Se potessi trovare solamente l'anello della mia povera madre! — tale pensiero attraversava la mente della vecchia, intanto che le labbra mormoravano preghiere. — Esso mi viene di diritto sacrosanto. Mi viene, mi viene : continuava a borbottare tra un requiem e l'altro, mentre il capo le ciondolava, vinto dai primi attacchi del sonno. Ma sobbalzò, udendo il te tec, te tec, ripercosso sull'ammattonato della stanza vicina. — Che fai li? - Nulla. Si alzò essa pure, non volendo ad ogni costo cedere al sonno; e ripresero a vagolare misteriosamente, muti, nel duplice silenzio della notte e della morte. Il bastoncino dello zoppo, co' suoi colpi cadenzati, destava un'eco sinistra che sembrava anticipare le palate di terra sulla fossa. Che gente! — pensava la figlioccia, stringendosi tutta e rabbrividendo per il luogo, per l'ora, per la situazione — mossa anch'ella da brame cupide, ma persuasa che fossero più gentili perchè più gentile ne era la forma. Anche nella sua mente passava la visione delle lenzuola fine, delle posate, delle maioliche, del vecchio anello a castone con una miniatura sopra smalto azzurro; e li desiderava; ma il suo era un desiderio fine, intelligente, una intuizione che tutta quella roba in mano di villani era, come dire, perle gettate ai porci. Per nient'altro la desiderava. E poi, che ne avrebbe fatto Marco, senza famiglia, un beone grossolano? e quale costrutto ricavar ne poteva la vecchia già prossima alla tomba? Ma a lei giovane, lei educata, lei elegante, lei di buon gusto... — Oh! mio povero padrino --- irruppe con uno scoppio di lagrime — povero, caro e amato! Oh! mio padrino che non puoi vedere, che non puoi parlare più! — Commedie — borbottò lo zoppo, col naso ficcato dentro un armadietto dove stavano riposti liquori e vini scelti, preda che la sorella gli aveva abbandonata. Abbandonata tanto più volentieri perchè intanto ella continuava a girare per suo conto, ingrossandosi i fianchi di protuberanze misteriose, cacciandosi ad ogni poco la mano in seno e nelle tasche. La figlioccia, in quella lunga veglia, aveva presunto troppo dalle sue forze. Si sentiva sfinita, rotte le ossa, con un brivido per tutto il corpo; appoggiava ad ogni poco la testa contro il letto, ma il raccapriccio e la tristezza del cadavere ne la facevano allontanare. E tutta questa debolezza fisica accresceva il sentimentalismo del suo dolore che si sfogava in gemiti, in sospiri, in lagrime; in mezzo alle quali sorvolava tuttavia il rimpianto acuto del bene che stava per perdere. Se il padrino non aveva fatto testamento, addio roba! L'aculeo di tale pensiero le accresceva ancora i sospiri, per modo che la camera era tutta piena di lei e del suo dolore. Ma sollevando spesso gli occhi lagrimosi ad un altarino dove il defunto venerava, tra due palme di fiori di carta, una statuetta della Madonna, era attratta suo malgrado dal disegno di una trina antica che circondava i piedi della Madonna - una cosa da nulla, mezzo metro, tanto da cavarne un paio di manichini.... Non era forse vero che, se ella avesse chiesto quel pezzetto di trina all'adorato padrino, egli l'avrebbe concessa? E se invece la prendeva adesso, di moto proprio, non potendo più chiederla a lui, che gran male! Le restava almeno un cencio di ricordo, il solo, se quella gentaccia le negava il resto.... quasi un diritto. Oh! ed essi che cosa facevano girellando per la casa?... la derubavano com'è vero Dio! La derubavano, lì sulla faccia, spudoratamente, da quei villanacci esosi che erano, che si sarebbero proprio meritati un testamento contro! Si alzò, barcollando, e andò a smoccolare la candela. La notte stava per finire. Un chiarore biancastro rompeva le tenebre della finestra, battendo sul rigonfio del letto formato dal cadavere. La vecchia, che si era appisolata sopra una cassa, si alzò pur essa. Di fronte, nel primo raggio dell'alba, le due donne si guardarono. — Se Dio vuole è finita! — disse la vecchia, cercando, sotto il livido della faccia che aveva davanti, i segreti pensieri. L'altra, muta, osservava le dimensioni prese dalla gonna e dal busto della vecchia. Si squadravano, si pesavano a occhiate, si insultavano reciprocamente in un silenzio cupo, concentrato, dove le narici sole fremevano a guisa di segugi in caccia. Te tec, te tec... La testa da satiro dello zoppo apparve in mezzo a loro, trasfigurata dall'emozione. — Ho trovato il testamento! — gridò sollevando in alto un rettangolo bianco. Fu un momento di angoscia indescrivibile. Tre cuori sospesero per un'istante le loro pulsazioni, tre vite si concentrarono in uno sguardo acuto, assorbente, quasi feroce... Un raggio di sole entrava, obliquo, ad illuminare il letto dove il morto riposava, completamente staccato dalle miserie terrene.
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