Un rovescio di fortuna, una disgrazia quale che sia, nostro padre perdesse l’impiego, il fiume portasse via quel po’ di podere che abbiam su nel Monferrato, che dovremmo fare? E chi ti dice che gli antenati di questa stessa nostra Margherita non fossero ricchi al pari e più anco di noi? e ora la vedi? È condannata a servirci e a patire le tue insolenze! Oh le umane vicende! non mediti tu mai sopra que’casi che spesso ci conta il babbo?... Ah non ridi più ora! Dunque rispetta sempre tutti, e non guardare se sia padrone o servo. Sei ben contento che si parli di te sempre in bene, e non solo da’ signori, ma anche da’poveri? E come vuoi che la fantesca possa dire che sei un bravo fanciullo tu, quando la carichi di villanie, come fai? Non posso soffrire que’ ragazzi che, credendosi di far atto di padronanza o di mostrarsi che so io, comandano superbamente e sgridano le persone di servizio, e specie in presenza della gente. Hai inteso anche tu quello che diceva ieri il dottore. Volete conoscere il carattere d’una persona? dimandò. Guardate com’ella tratti i servi e come i servi la amino. E poi osservava che se è bene trattare con dolcezza colle persone di servizio, non bisogna però usar troppa domestichezza, nè discendere a scherzare e a motteggiare troppo famigliarmente con loro come a volte fai tu; perché se ne abusano e si perde l’autorità di comandarle quando è necessario. – Le sorelle anch’esse lodavano le parole di Enrichetto e l’aiutavano a tener segno il prepotentello di Sandrino.
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Tutt’altro: era la più cara fisonomia, e la più piacevole persona che si vedesse mai; segnatamente emendato che si fu di que’ certi difetuzzi, che abbiam accennato sul principio. Ogni cosa a suo tempo, diceva: quindi serio in iscuola, devoto in chiesa, piacevole e festoso in ricreazione. Infatti nessuno era più allegro e brioso di lui nel conversare. Aveva mille partiti da proporre, mille ripieghi da intromettere, non mai impacciato in nulla; faceto e burlevole ne’giuochi, facile ed acuto ne’mottegggi, ma motteggi senza fiele, che non offendono nessuno, e solo provocano il riso della brigata, senza che altri ne risenta rancore. Chè stando agli avvisi del padre, procurava che la facezia non trascorresse, nè si volgesse troppo per punta contro nessuno. Il signor Carlo consigliava anzi di motteggiare il manco possibile, perché a volte da un motto da nulla nascono disordini e gravi inimicizie: in generale diceva cattive quelle facezie o burle, che mettono allo scoperto i difetti della persona, come il contraffare i gobbi, i zoppi, gli scilinguati. E da questa Enrichetto si guardava, come dalla morte; e sfuggiva pure quelle burle che possono recar danno, quali sono ad esempio dare lo sgambetto ad uno che cammini, tor la sedia di dietro a chi s’alza da sedere: perché potrebbe stramazzare e farsi del male assai. Aveva inteso rimproverarsi aspramente dal padre il fatto d’ un giovane sconsiderato, che per burlarsi di sua sorella, che era troppo paurosa, una notte le comparve nulla camera la buio, vestito di bianco, gettando non so che fiamme in aria; dal che la sorella scossa, fu presa da tanta paura, che mandò un grido e svenne; e ritornata per le molte cure della madre ne’sensi, fece una malattia lunghissima. Burle siffatte sono delitti! Una volta Sandrino venne a casa vantandosi di certe burle fatte sulla fiera, così detta, di Gianduia, negli ultimi giorni di carnevale, in via di Po. E fra le altre diceva, che accozzatisi molti amici in lunghe file di cinquanta o sessanta, l’uno dietro l’altro tenendosi le mani sulle spalle, con un naso finto in viso, s’eran posti a saltare in mezzo alla folla, e la dividevano urtando questo nel petto, spingendo quello ne’fianchi, calpestando tutti, nel mentre che, dando fiato ciascuno a corni, a trombe, a zufoloni d’ogni maniera, stracciavano le orecchie; e finalmente pigliata di mira una signora, che mostrava di non poter tollerare quelle strida, se le eran messi attorno con tutti que’fischi nelle orecchie, in modo che la ridussero alla disperazione e la fecero uscire dalla fiera. E codeste son le belle spiritosità, gli disse Enrichetto, che sapete trovare voi altri? Infatti ci vuol molto studio e singolare acutezza per immaginare burle così sublimi! Ma a parte la sublimità del trovato: pensa un po’ se tu fossi stato in compagnia della mamma e delle sorelle, proprio là in mezzo alla folla; e questi tuoi garbatissimi compagni, levato il trotto, avessero fatto la cortesia di regalare uno spintone nel petto alla mamma, un urto nei fianchi alle sorelle, e poi per maggiore galanteria vi avessero accompagnati con quella gentilissima serenata nelle orecchie, in modo da costringervi tutti ad allontanarvi dalla fiera; che avresti detto e pensato tu? - Ma essi, rispose cocciuto Sandrino, non vadano nella folla, se non vogliono sentirsi urtare. - E chi ha dato il diritto a voi altri di occupare da soli la via, di escludere ogni galantuomo? ? lecito divertirsi, ma che i nostri divertimenti non nuocciano altrui; che le nostre celie non cagionino noia o danno ad alcuno. Insomma voleva che le burle facessero ridere e non irritassero gli animi. Soleva dire che la burla non è altro che un inganno amichevole di cose che non offendono. Di tale specie erano quelle che egli usava fare; come una, che un dì fece in villa ad un suo zio, vecchietto allegro di natura molto faceto. Era venuto un contadino per parlare allo zio; Enrichetto, che si trovava in vena di celiare, gli disse, che l’andava ad annunziare, ma ne lo avvertiva che badasse a parlare bene ad alta voce, perché al padrone era venuto un sì forte mal di capo, per cui era rimasto sordo. In pari modo andò dallo zio dicendo, esservi un contadino che desiderava venire da lui, ma che era tanto sordo, che ci voleva un cannone per farlo sentire. Introdotto che fu il contadino si pose a gridare a squarciagola, e nel medesimo tuono rispondeva il padrone; in modo che si cominciava una conversazione singolare; quando lo zio disse: - Parlate pure piano, che io non con sordo io; - Neppur io, rispose il contadino. E si venne a riconoscere essere stata una burletta del nipote; per la quale lo zio non rifiniva mai di ridere. Che se poi biasimava quelli che celiando offendono l’amor proprio dei compagni, non lodava neanco coloro che cono così permalosi, che per un nonnulla levano il broncio e si tengono oltraggiati, sicchè è una pietà lo starvi insieme.
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Già abbiam veduto il mattino, appena sorto dì letto, volgersi a Dio ed offerirgli le sue azioni, lo stesso faceva alla sera prima di andare a dormire. La domenica poi e gli altri giorni festivi egli col fratello e colle sorelle, accompagnato dalla madre, andava in chiesa. Appena entrato camminava quasi in punta di piedi per timore di rompere quel senso di religiosità, così solenne nel silenzio; indi si metteva in un banco, e tirato fuori di tasca il suo libricciuolo, accompagnava su quello la messa e gli altar uffizi che vi si facevano; non alzava mai gli occhi, se non per vedere a che punto si trovava il Sacerdote. Non 'era mai sbadato, non si volgeva indietro a vedere chi usciva e chi entrava; non gli cadeva neppure in pensiero di ciarlare o di ridere col fratello o colle sorelle, nè di spargere il ridicolo sulle cerimonie religiose. La maestà e lo splendore degli uffizi della chiesa eran tali, che gli eccitavano grandemente la fantasia ed il cuore: Sotto quelle volte, che nel chiaro scuro sembrano prendere proporzioni gigantesche, tanta gente di diversa età e condizione raccolta ìn una sola preghiera, in una sola adorazione; gli altari ardenti di mille fiammelle; quei canti gravi e solenni formati da tante voci; le armonie dell'organo, che misteriosamente si spandono per quegli spazii, impregnati d'incenso, che a nuvole s'alza per l'aria, come profumo di preghiera che sale al trono di Dio, gli rapivano l'anima e la sollevavano in un mondo ricco d'ogni maniera di bellezza, dove giubilavano cori d'angeli, in mezzo ai quali discerneva l'Agnesuccia, il cui nome pronunciava mane e sera, e la diletta nonna che non ebbe mai a dimenticare. Si sentiva una serenità di mente, una pacatezza d'animo, che mai la maggiore; ed usciva con una segreta contentezza in cuore come se avesse guadagnato un tesoro, cui nessuno potesse togliere. Soleva ripetere che le più nobili risoluzioni, i più arditi propositi, gli caddero sempre nell' animo dopo alcuni di questi solenni uffizi religiosi. La religione è pure una potente molla educativa! Enrichetto fin da ragazzo amava sprofondarsi colla sua poca mente negli abissi de'misteri della religione; ed anche dopo, pieno di anni e ricco di sapere, quando si fermava innanzi ai grandi problemi della vita e della morte, del bene e del male, dell'anima e di Dio, di contra al dubbio impotente e alle negazioni audaci del secolo tutto occupato in materiali interessi, finiva sempre per ricorrere, come a porto salvatore, alle serene ispirazioni religiose della sua gioventù. E comecchè seguisse ansiosamente le ricerche della scienza negli ultìmi suoi responsi, dovette però sempre riconoscere nell' uomo un principio intelligente direttivo della materia dalla materia diverso, e un Dio infinitamente buono e potente. Ed era lieto di potersi acquietare in queste verità, acquistate della scienza, la quale veniva a ribadire nella sua anima il credo recitato da bambino. Togliete di mezzo l'idea religiosa, esclamava poi, sostituitevi pure quella del dovere, e la società non sari lontana dal perdersi: nulla potrà più sollevarla a' sublimi slanci dell'ispirazione, all'entusiasmo del sacrifizio. Per contra qual potenza sui cuori l'idea viva d'un Dio presente sempre, che vi vede in tutte le azioni, che legge nel più intimo de'vostri pensieri, d'un'anima che non compie il suo cammino in questa terra! E il fanciullo trepida all'idea del male, e s'arresta anco quando potrebbe impunemente consumarlo; perchè sa che, se occhio umano non lo scorge, se nessuna forza del mondo lo può punire, v'è un occhio invisibile che lo sorveglia, una potenza soprumana che lo aspetta. Estirpate dai cuori questo sentimento, e poi ditemi quale sarà il ritegno della plebe, quando si trova sicura dalla forza pubblica. Onde conchiudeva essere somma civiltà inculcare i sentimenti religiosi nell'educazione popolare.
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Nè i suoi studi erano circoscritti solo alla medicina, uso questo della maggioranza degli studenti, i quali applicatisi ad una disciplina, si ritengono esonerati dal conoscere alcunchè del resto dello scibile; onde non raro accade, che un buon avvocato, o medico, o ingegnere, appena esce della cerchia della sua professione, pare non sappia più formare alcun costrutto che valga; o se parla dice i più madornali sfarfalloni del mondo; ma Enrichetto, avvezzo come abbiam visto a far sparagno del tempo, ( e ne' corsi universitari del tempo ce n' è a fusone) s'ingegnava di entrare anco ne' segreti delle scienze affini alla medicina; e la fisica, e la storia naturale, e la chimica, e fino la meccanica, occuparono delle belle ore al paziente investigatore del sapere. Egli cercando di scendere ne' penetrali delle dottrine, trovava un nesso maraviglioso tra le diverse scienze, e si doleva della poca durata della vita dell'uomo, e della limitazione dell'ingegno umano, che nel breve giro d'un' età non può giungere alla superba sintesi dello scibile. Negli anni universitari fece anche acquisto delle lingue tedesca e inglese, avendo già imparata la francese durante i tre anni liceali; le quali lingue straniere gli vennero poi di molto in acconcio nella pratica della sua professione. Ma quello che non trascurò mai, furono gli studi letterari, i quali diceva, convenire a tutte le discipline e a tutti gli uomini in qualsiasi stato sociale; la parola ornata ed elegante si fa strada dappertutto. In questa guisa adoperando s'addottorò in medicina e chirurgia con plauso di tutti gli amici e con trasporti di gioia de' genitori.
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Nello stesso tempo il dottore della famiglia, del quale più volte abbiam fatta menzione, essendo vecchio, ed avendo preso ad amare il giovane, che vedeva così animosamente entrare nella sua carriera, ben lungi dall'ingelosirne come fanno gli spiriti leggieri e di poco valore, che paventano la concorrenza, volle pigliarselo con sè, raccomandandolo nelle case, facendone rilevare lo studio, la buona volontà, e la precocità dello spirito. Ad Enrichetto parve toccare il cielo col dito, quando si vide a maestro nella pratica un uomo, che sopra ogni altro stimava. E qui mi corre obbligo di far notare che se Enrichetto già per abito rispettava ogni persona, e segnatamente i più provetti, ora nell'esercizio della sua professione se ne fece una legge. Si guardava bene dal metter come che sia in dubbio la scienza de' suoi colleghi o dallo screditare i vecchi. Giacchè pur troppo in tutte le professioni ed arti, per maligna natura, per egoismo mal inteso, l'uno tenta di schiacciare l'altro, e specialmente i vecchi s'industriano di soffocare gli ingegni crescenti, recando in mezzo, che i giovani mancano di esperienza, non conoscono le complessioni, sono novatori senza guida, pieni di vane teorie, e che la pratica val più che la grammatica. Di ripicco i giovani si ricattano sui vecchi dicendoli pieni di ubbie e di pregiudizi, senza studi; adducono gl' immensi progressi fatti dalle scienze, a cui quelli rimangono affatto stranieri; e quindi vanno innanzi a tastone, buona se viene; e cose siffatte. Pettegolezzi e viltà che, svelando una gelosia di mestiere, indicano pochezza di mente e tristizia di cuore; vermi che vivono di scoli; chè il vero ingegno, la vera dottrina non ricorre a queste miserie per farsi strada. In questo mezzo il Municipio di Torino bandì un concorso per un medico de' poveri, al quale presentatosi pure Enrichetto, ne vinse la prova. Questi medici sono distinti per parrocchie e vi compiono il servizio de' poverelli. Egli, che esercitava la sua professione per la scienza e per il bene che credeva di portare a' suoi simili, non fece mai distinzione fra ricco e povero, se dorate fossero le sale in cui entrava, o affumate e deserte; anzi, assecondando un certo impulso dell'animo suo, quanto più vedeva la miseria stringere il letto del malato, egli raddoppiava di cure, come se volesse rendere meno amara la vita a questi diseredati della società. Nel contatto dei diversi gradi sociali, fine osservatore qual era, s'ebbe a convincere sempre più di una certa scambievolezza tacita di affetti nel genere umano, di una specie di compenso, anche lontano, per cui uno tale dà, tal riceve; quale si comporta con altrui, tale viene dagli altri trattato; onde, sei orgoglioso e superbo? sarai ripagato di sprezzo; sei amorevole e gentile? amore e gentilezza troverai per tutto. Per il che scrisse sul suo giornale: « è giusta quella sentenza che dice: Se vuoi essere amato, ama ». E a comprovarla vi scrisse sotto il seguente racconto:
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E a quelli che gli domandavano: o che, non abbiam a divertirci, noi? Sì, rispondeva, ma in que' modi moderati e da uomo onesto, che non sciupa in un dì il guadagno di una settimana. Guarda, continuava egli, se v'è ombra di ragionevolezza, ti cavi la pelle dalle ossa, mangi pessimamente sei giorni, per scialarla un giorno solo, la domenica! Bella soddisfazione! Non dico di non far un po' d'allegria la festa; ma quando sei pieno come l'uovo, perché vuoi ancora mangiare, che non senti manco più il gusto del cibo? Dopo che hai bevuto e bene, perchè continui a far la processione da una bettola all'altra? per ubbriacarti e divenir peggio delle bestie? E allora risse e giuochi, e perdite rovinose; perchè v'è sempre il truffatore che ti tende la trappola per spillarti il danaro. Conseguenza di ciò tu e la tua famiglia siete costretti a vivere di lagrime, mal calzati e mal vestiti, con deperimento della salute, senza parlare del mal morale, la tua abbiezione, la prostrazione dello spirito e il cattivo esempio a' tuoi figliuoli. Se per contra smetti le orgie domenicali, quello, che sciupavi in esse, lo puoi ripartire in tutti i giorni della settimana, e così migliorerai di molto la tua mensa quotidiana, e tosto se n' avvantaggieranno le forze del tuo corpo, sarai più atto al lavoro, meno soggetto a malattie, ed anche la tua intelligenza si farà più acuta e più vigorosa, e meglio ti potrà giovare nell'arte che pratichi, e crescerti il salario. Veniamo ora al lunedì, in cui si continua la baldoria e lo sciupìo della domenica. Ragioniamola un po' insieme. Ora la tua settimana si riduce a cinque dì di lavoro soltanto; se tu v'aggiungesti anche l'opera del lunedì, tu accresceresti il tuo guadagno settimanale di un giorno di lavoro, vale a dire d'un sesto, e leveresti dall'altra parte un dì di consumo senza produzione. Per la qual cosa se fin qui il guadagno di cinque giorni di lavoro bastava 'a' tuoi bisogni, (e meglio ti deve bastare, perchè ora vivi moderato anche la domenica) il vantaggio del lunedì ti sarà un soprappiù, un danaro che potrai mettere in disparte, un capitale insomma. Spieghiamoci in cifre. Qual è il tuo salario giornaliero? Due lire? Bene; porta queste due lire alla cassa di risparmio ogni settimana, e co'suoi interessi alla fine dell' anno riesciranno più di cento. Segui quest'abitudine, e in pochi anni diverrai possessore di un buon capitaletto, che potrai investire in fondi, in merci, insomma in che ti tornerà più giovevole. Ed ecco che da povero operaio, meschino e vizioso; sei divenuto capitalista, proprietario onesto e intraprendente. Io ti potrei nominare di molti capi-fabbrica, ricchi negozianti, che vent'anni fa non erano che semplici operai, come te; e che lasciando stare le bettole e il giuoco, risparmiando sui guadagni, ora li vedi nella città onorati e rispettati da tutti. Ecco quindi il segreto per far scomparire la miseria dalle case, per togliere di mezzo il proletariato: lavoro e temperanza. Questi ed altri ammonimenti Enrichetto li faceva sempre che si presentasse il destro, ed era tanta la virtù persuasiva del suo dire, che molti s'appigliavano a' suoi consigli, e divenivano sobrii, operosi ed anche più costumati. Perchè il lavoro avviva la coscienza de' proprii doveri; e così viene a dare dignità all' operaio, onde sente più rispetto verso i capi, più riguardi agli uomini autorevoli, più devozione alle leggi, più amorevolezza verso la famiglia, e dirò anche più religione, la quale da volere o no, è l' ambiente, in cui ogni uomo respira, è il condimento di tutta la vita, è il freno e il conforto della plebe; il petulante, che cerca di accasciare in sè la presenza di Dio, non ha più rispetto di nessuno, nè de'suoi capi, nè di sua moglie, né de' suoi figli, vive come fuori della società.
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Concludiamo adunque col ripetere quanto abbiam detto: non si può fissare una regola generale in questo argomento, e non importa; il figliale rispetto non cangia natura nè vien meno perchè si usi il primo piuttosto che il secondo o il terzo dei modi sopra indicati. È quistione di consuetudine e di orecchio, non di galateo nè di cuore. Ai genitori tengono dietro i congiunti, i maestri e tutti coloro a cui dobbiamo riconoscenza ; la quale vuol manifestarsi non solo coi sentimenti, ma eziandio, colle gentili maniere che insegna la buona creanza. Guardati bene adunque, o giovinetto, da un contegno ruvido o freddo con chi ti spezza o ti ha spezzato il pane della mente: bada di non attestargli il tuo rispetto col toccare appena il cappello, alla soldatesca, senza neppur il riguardo di cedergli la mano diritta. E gli stessi avvertimenti rivolgo a voi, fanciulle. Guai se per una amorevole ammonizione l' Emilia facesse le spallucce, inchiodasse il mento alla fontanella della gola e tenesse il broncio alla maestra che l'ha dolcemente ripigliata pel suo meglio ! - Ad alcuni sarà parsa un'enormità che io ponessi la balia e il vecchio servitore tra le persone meritevoli di rispetto. E che? il padroncino deve trattare le persone di servizio come fossero superiori ? questo è invertire le parti, è un assurdo. Andiamo adagio: le mie parole vanno interpretate con discrezione e con giusto criterio. Non si vuol dire che il fanciullo, l'adolescente, debba far di cappello o inchinarsi agli individui sopra nominati, sibbene mostrare, anche cogli atti esteriori, la sua gratitudine alla donna che fece per lui quante la madre non volle o non potè fare, all'uomo che gli diede tante prove di affettuosa sollecitudine. Che brutto spettacolo sarebbe mai quello di un petulante ragazzo, di una bisbetica giovinetta, che abbandonandosi a incomposti moti di collera, facessero oltraggio ai bianchi capelli di codeste persone, le mortificassero con acerbi rimproveri, con basse contumelie! In generale usate rispetto ai vecchi quando anche non vi stringa nessun obbligo verso di loro ; fatelo per riguardo all'età, all'esperienza, ai prudenti consigli che ponno darvi; e badate bene di non metterne in canzone certe idee, forse un po' antiquate e non più in consonanza coi costumi del giorno. Esponete francamente le vostre opinioni, ma non mostrate disprezzo per quelle da loro enunciate. Il giovinetto che adempie scrupolosamente a questo dovere di civiltà insieme e di morale fa augurar bene della sua educazione e del suo avvenire. Vogliamo noi affermare con ciò che tutti i vecchi sieno meritevoli di stima e di rispetto? No; pur troppo ve n'ha alcuno che disonora sè stesso con falsi principii e con biasimevole condotta ; ma noi tocchiamo della regola, non delle eccezioni. Se vi trasportate col pensiero ai tempi della vita patriarcale, voi vedete che il capo della famiglia, della tribù, era il più vecchio. Lo stesso dicasi di tanti popoli selvaggi, antichi e moderni. E, a meglio raffermare le vostre idee su questo proposito, vi narrerò un esempio tolto dalla storia greca che fa proprio al nostro caso. La repubblica di Sparta, di cui era stato legislatore Licurgo, insieme con molte strane, rozze e semi-barbare leggi, ne aveva una lodevolissima, sancita e radicata da virtuosa consuetudine, ed era quella che imponeva rispetto e venerazione ai vecchi. La repubblica d'Atene, che per coltura teneva il primato su tutte le altre città della Grecia ed andava superba e gloriosa del nome d'un gran legislatore, Solone, aveva istituzioni civili e politiche assai migliori, ma nessuna legge che prescrivesse come un sacro dovere al cittadino il rispetto ai vecchi. Ora avvenne che, mentre in questa ultima città si dava un solenne spettacolo, un vecchio giunse troppo tardi, e siccome tutti gli scanni erano occupati dalla folla, per quanto cercasse di qua e di là, non gli riuscì di trovare un cantuccio ove sedersi. I giovani ateniesi non si curarono punto del disagio del povero vecchio, anzi fu detto da alcuno che godevano del suo imbarazzo e si divertivano a rimandarselo l'un l'altro. Ma gli ambasciatori di Sparta, i quali, formalmente invitati allo spettacolo, avevano un posto più elevato e distinto, accortisi dell'irriverente contegno della gioventù ateniese, fecero cenno al vecchio di avvicinarsi, si restrinsero un poco e il vollero seduto in mezzo a loro.
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Tutto quel che abbiam detto ci porta a una sola conclusione: che le doti naturali sono una gran bella cosa, ma che non bastano da sole a render l'uomo perfetto; e non sono poi tali da non potersi, quando mancano, esser sostituite da qualità acquisite; chè anzi assai spesso si rimedia con l'arte a quello che l'avara natura ci ha negato. Ora, l'uomo che vive nella società degli altri uomini può e deve valersi di tutte quelle risorse che giovino a mettere in valore i suoi pregi o a rimediare alle sue manchevolezze; e i mezzi per raggiunger lo scopo sono appunto le buone maniere, la correttezza, l'educazione; le quali non si potranno mai ottenere, se non si conosceranno le norme del buon vivere, le regole sociali, i doveri e i diritti dell'uomo nella famiglia e nella società. Queste norme, queste regole, questi doveri e questi diritti saranno esposti nel libro che incomincia; e saranno esposti così alla buona, in tono, quasi, d'amichevole conversazione. Poichè non ci piace salire in cattedra e prendere un atteggiamento dottorale; nè, d'altra parte, intendiamo di rivolgerci a un ceto particolare di persone, ma a tutti coloro, in generale, che intendono vivere civilmente, lontani da ogni eccesso, così dalla troppa rigidezza di costumi come dalla soverchia libertà. Chè tanto è riprovevole colui che si crede lecito infrangere le leggi più comuni e più sante del consorzio civile, quanto colui che, attenendosi ad esse con ferreo rigore, finisce col precludersi ogni mezzo di perfezionamento morale e materiale.
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Ma per tornare ai ragazzi, là dove abbiam trovato la famiglia ordinata e amorevole, anche i figli sono fiori di grazia; si vedono puliti, ravviati, gentili, che è un amore. Prima che partano per la scuola la madre ci abbada, se hanno le vesti decenti, se le scarpe sono pulite e nere, se i capelli pettinati, se le mani e il viso lavato, se hanno l'occorrente per la scuola; a volta a volta li accompagna essa stessa; si raccomanda a questa e a quella persona di tenerli d'occhio; e al ritorno loro dà una ripassatina, guai se trova qualche strappo negli abiti; se arrivan tardi, vuol saper per filo e per segno, che cosa han fatto, dove si son trattenuti, va ad appurar i fatti dal maestro, riconosce ogni cosa, e sa premiare e castigare a tempo. Le feste poi se li conduce con sè alla chiesa, attillati e lucenti, come uscissero da una scattola, se li fa inginocchiare lì presso col loro libricino aperto e non li abbandona un istante. Oh sì che lascierebbe i suoi figli là mescolati con tutta quella ragazzaglia, che va a mettersi presso il presbiterio a far d'ogni sorta di monellerie, come se fossero di nessuno; nè manco per sogno! Come fa pena all'animo veder nelle chiese de' paeselli tutta quella frotta di ragazzi, l'uno più discolo dell'altro, attruppati innanzi all'altar maggiore, nel luogo più in vista! Si sdraiano sugli scalini, si urtano, si pizzicano, si battono, si nascondono la pezzuola, il berretto, parlano, ridono, sghignazzano, che è una distrazione continua; sembrano fanciulli abbandonati. Come volete che questi ragazzi crescano col rispetto del prossimo e col timor di Dio, se nel luogo più venerabile, più santo, commettono tante irriverenze? E quel che fa più dolore è che lì in chiesa vi saranno i padri e le madri, i quali non se ne dan per inteso; e come niente fosse, non volgono neppur un rimprovero ai loro figli. Ma Dio non paga il sabato, e voi non avrete ad andarvene a pentir a Roma. Quel figlio, che lasciate ora alle impertinenze, verrà su ozioso, maligno, disubbidiente; non avrà più rispetto di sorta nè delle cose, nè degli uomini, si riderà di voi, delle leggi, di tutto, vi spoglierà della roba e dell'onore, e dopo avervi ridotto nella miseria, amareggiata la vita in tutti i modi, in quell'età che dovrebbe essere il sostegno e l'orgoglio de' vostri anni cadenti, sarà là a marcire in un carcere. E allora, non avrete che a coprirvi il viso e a picchiarvi il petto, recitando il mea culpa. Queste cose le diceva piano e forte il signor Enrico, e narrava fatti e proferiva nomi, sicchè il suo dire riusciva persuasivo a più doppi.
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Ma se ci mettessimo da davvero, come abbiam accennato più su, a far noi la polizia in casa nostra, a non tollerare per nulla l'ozioso, l'accattone, a provveder del lavoro sì, e poi guai a chi non adopera le sue braccia per quel che possono; nessuna tregua, nessuna pietà per il vizio; e ciò nelle città, ne' paesi, ne' borghi, dappertutto; oh sì che la voglia di lavorare verrebbe, e che gli nomini sarebbero più onesti e virtuosi. Via su, qui nel nostro villaggio li contiam sulle dita i viziosi, la coscienza di tutti vi declina nome, cognome, paternità del ladruncolo; ebbene non transigiamo: via di qua, poltroni! E se questo grido eccheggiasse in tutti gli anditi, v'assicuro io che i luoghi di pena, se non verrebbero del tutto chiusi, sarebbero di molto ridotti.
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Costoro vi andranno dicendo che per poter aver qualcosa bisogna rubare, e che la proprietà non è altro che un furto; e io vi dico che la proprietà è figlia del lavoro; e perchè possiate convincervi di questo, voglio recarvi un esempio, che abbiam qui nel paese vivo e parlante. Chi non conosce Gian Matteo? Trent'anni fa ne aveva tanto, quanto n'ho io sulla palma della mano; ed ora è uno de' proprietarii meglio agiati dei contorno. E dimandate pure intorno, se v'ha uno che possa dire: Gian Matteo m'ha rubato un centesimino, che è così piccolo; tutti anzi ad una voce ripeteranno ch'egli è una perla d'uomo, il più onesto coltivatore della provincia. La sua storia la conosciam tutti, ed egli stesso non ne fa mistero. L'ha allevato quel buon diavolaccio di papà Bastiano, che colla sua moglie, buon'anima, l'andò a prendere in casa grande, laggiù a Torino. Era così amorevole fin da bambinello che Bastiano, come l'ebbe allevato, non si seppe risolvere di restituirlo di nuovo dove l'aveva preso, e lo tenne qual figlio; e qual padre fu sempre amato e rispettato da Gian Matteo, ed ora se ne vive da signore con lui. A sette anni s'allogò in casa di Stefano come guardiano delle bestie. Sul principio non toccava neppur un soldo di salario, pur beato di guadagnarsi l'alimento senz'aggravio di papà Bastiano. Ma non tardò ad acquistarsi l'affetto di Stefano e di tutta la famiglia, perchè la fatica a lui non rincresceva; già fin da quell'età era attivo, diligente, industrioso, di ottimo comando. Onde non andò guari che incominciò a beccarsi un salario di dieci lire all'anno, poi di venti, di trenta, quindi di 100, e anche di 150, senza contare millanta regalucci; come camicie, scarpe, calzoni, giubbe, berretti, cravatte; in guisa che in roba di vestiario, non ebbe mai a spendere un soldo di suo; e come ne teneva di conto! Parco ne' suoi desideri, non sprecava nulla del suo salario; ma come lo riceveva dal padrone subito lo portava a papà Bastiano; perchè non fosse costretto a troppo dure fatiche per vivere. A vent'anni andò a tirare il numero, e la fortuna lo salvò da far il soldato. Papà Bastiano gongolante di gioia allora gli consegnò un libretto della cassa di risparmio, in cui erano depositati tutti i denari di salario, che Gian Matteo gli aveva a volta a volta consegnati, col cumulo degli interessi fino a un centesimo. — Credevi tu che io volessi trafficare sulle tue fatiche? gli diceva papà Bastiano. Egli è un bravo ragazzo, che non sciupa, diceva tra me e me, quando mi consegnavi il sudor della tua fronte; ebbene voglio che abbia il premio della sua virtù; e andava tosto a depositarli alla cassa, consolandomi, che un dì avrei potuto restituirteli moltiplicati; ed eccole lì che ora sono tre mila lirette tutte tue, guadagnate santamente colle tue braccia, e puoi disporne a tuo talento. Gian Matteo guardava trasognato il libro, e il viso giubilante di papà Bastiano, e non poteva credere alla verità; stordito tra il contento di trovarsi ricco, e l'ammirazione di tanto provvido pensiero; finalmente abbracciando il padre: voglio che ce la godiamo insieme, disse; e due lagrime gli si gonfiarono negli occhi. Prese il libretto, andò a ritirare le tre mila lire, e con esse si comperò quattro o cinque giornate di terra, con una casuccia in mezzo, che era, se ve ne ricordate, di Pasquale, detto lo Straccia, il quale nel giuoco e ne' vizii diede fondo ad un considerevole patrimonio. Si levò dal servizio di Stefano, e con papà Bastiano, riparata alla meglio la casuccia, che veramente minacciava da tutte parti rovina, si pose in mezzo al suo podere, il quale per essere stato trascurato, era tutto come una sodaglia, le viti eran scomparse, e vi crescevano le erbacce, i felci, le spine, come Dio voleva. Tutti gridavan che Gian Matteo si era preso un osso duro a rosicchiare; ma non sapevano con chi s'avea a fare. Era giovane, con due braccia vigorose e con qualche cosa dentro l'animò, che non gli lasciava scorgere difficoltà. Preso alle buone il piccone, la marra e la zappa, in poco d'ora rivolse di sotto in su a bella profondità tutto quello sterpeto. Da un'ave maria all'altra si vedeva sempre là con la zappa levata in alto. Ma dopo qualche anno che vegetazione là dentro! Fu gran ventura per Gian Matteo l'esser cresciuto in casa di Stefano. Costui, quantunque non avesse mai voluto saper di novità ne' suoi poderi, tuttavia era uomo ingegnoso, pratico, e quel che faceva lo faceva con giudizio, e pulitamente; e le sue terre erano le meglio coltivate e le più fertili. Egli stava saldo a questi principii: buone concimature, buone arature e lavori fatti a tempo. Era poi uomo a partiti; sapeva tirar vantaggio del tempo; e non mai in ozio; egli soleva dire che l'agricoltore deve sapere cento e un mestiere; e infatti egli faceva il falegname, il cestaio, il funaio, il ciabattino, il sarto, e che so io? Quando gli occorreva alcun che, non aspettava punto che altri venisse in aiuto, ma senza tante parole, raccomandandosi a Sant'Ingegno, che egli diceva la provvidenza de' contadini, si metteva senz'altro alla bisogna. Ora si rompeva un fuso alla ruota del carro? ed egli sotto la guida di Sant'Ingegno pigliar l'accetta, la sega, lo scalpello, la pialla e rimettere il fuso. Ora una fune incominciava a slacciarsi? e Sant'Ingegno insegnargli a reintrecciarla. Le coreggie, le tirelle si strappavano? ed egli collo spago e colla lesina a rattopparle: le cortine de' buoi, i sacchi del grano, erano strappati? ed egli a prendere l'ago e rappezzare. E tutti gli strumenti rurali, il manico delle zappe, delle vanghe, i rastrelli, e che so io, tutto faceva lui; però codesto era lavoro de' giorni piovosi, che per lui, erano anche una provvidenza per riparare gli attrezzi guasti. In tali giorni faceva una ispezione a tutto, e come un oggetto faceva segno un po' di logorarsi, lì subito al riparo. Uno strumento che incomincia a guastarsi, preso subito, diceva, con un nonnulla si rimette a nuovo; se si indugia si sciupa affatto e bisogna comperarne un altro. Onde Gian Matteo lì imparò di molto, e quel Sant'Ingegno glie ne suggerì di belle; e, com'era industrioso e attivo, riuscì un discreto falegname, e quasi tutti i mobili di casa se li fece da sè; e gli strumenti di campagna, come li faceva benino! Tutti i vicini venivano da lui; ed egli ne li riforniva di rastrelli, di forcelle, di erpici, di carrette, di ceste, cestelli, gabbie; chè molte ne faceva, impiegando in tali lavori le lunghe sere del verno, tutti i giorni, in cui è impossibile lavorar ne' campi. E che buoni guadagni ne traeva: tutto l'alimenta suo, e certe spesucce, che qui e qua si devono fare, tutto veniva di lì! Per la qual cosa il prodotto del suo podere era un tanto di messo da banda; onde ogni anno comperava qualche lembo di terra, confinante col suo; il che egli diceva riquadrar la cascina; e seppe così bene lavorare di quadratura, che ora tutta quella valletta è di sua proprietà; e che fior di coltura v'introdusse; par un giardino! Ma codesto oltre alla pratica, che s'acquistò da Stefano, lo dovette per la maggior parte all'istruzione. Oh che istruzione, mi direte, potè aver egli, che a sett' anni si pose a servizio altrui? La ebbe, e come! Ed è cosa che gli fa molto onore, e che dovrebbe far arrossire molti altri, i quali, con tutte le agevolezze immaginabili per istruirsi, vengono su ignorantacci da non saper distinguere la destra dalla sinistra. Gian Matteo, mangiando del pane altrui, come si dice, non poteva andare alla scuola comunale; e come se ne doleva, e con che occhio d'invidia guardava i ragazzetti, che passavan sulla via colla taschetta de' libri a tracolla! Ma a chi vuole veramente nulla è vietato. Gian Matteo volle imparare a leggere e scrivere e imparò. Ed ecco come. Un bravo maestro del Comune un anno pigliò nelle lunghe sere d'inverno ad istruire quelli che non potevano frequentare la scuola diurna; figuratevi se questo non fu cacio sui maccheroni per Gian Matteo; non lasciò pure una sera d'intervenirvi! Era diligentissimo, e siccome aveva una testa chiara e ordinata, e oltre a ciò una volontà e una fede da far muovere le montagne, fece miracoli; e imparò in brevissimo tempo a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma il saper leggere è nulla; se non si hanno buoni libri, onde adornare la mente e il cuore di utili cognizioni e di buoni sentimenti; perchè il solo saper leggere non è coltura; sono le cognizioni che derivano dal leggere, che fanno pro, che rischiarano il cammino della vita. Senza libri, da saper leggere o no, torna lo stesso; e poi uno che sappia leggere e che non si eserciti, in breve ora disimpara; è come una zappa, che, se non si adopera, arrugginisce. Gian Matteo come seppe tanto quanto leggere, nessuna cosa gradiva più che i libri. Il maestro gli regalò il Buon Coltivatore di Felice Garelli, che diventò la sua passione; ogni ritaglio di tempo lo impiegava sur una pagina di quello; lo lesse, lo meditò, lo studiò a memoria, e così quello, che prima non intendeva, a poco a poco gli divenne facile e piano; e fu allora che incominciò a formarsi qualche buon pensiero sull'agricoltura, e per così dire a ragionare su quel che le braccia eseguivano ne' campi. Il Parroco, che s'intendeva d'agronomia e teneva dietro ai portati della scienza, gl'imprestava mano mano i libri che credeva più popolari e più atti alla pratica, come I Segreti di D. Rebo, del prof. G. A. Ottavi; il Coltivatore, giornale dello stesso autore; L'Amico del contadino, manuale ad uso degli agricoltori, del prof. Cantoni; e gli almanacchi agrari del medesimo; Dei lavori di campagna nella stagione invernale, di Vincenzo Garelli, ed altri su questo fare; ed egli ne rinsanguinava; e ad ogni lettura si sentiva come crescere due dita più alto, si sentiva come una forza nuova, che gli raddoppiava la vita. Il tempo non era quello che gli mancasse, i giorni di festa, i giorni piovosi, le lunghe sere invernali nella stalla paion fatte per ciò; e mentre che guardava i buoi e le vacche al pascolo, invece di attrupparsi cogli altri vaccari a giuocare o a rubare i frutti, a far bricconate d'ogni guisa, egli si sedeva su un rialto da cui potesse scorgere le sue bestie erranti alla pastura, e lì solo in quel silenzio solenne de' campi, sotto il grande padiglione del cielo, leggeva, e leggeva, e si sentiva felice! I camerati che lo vedevano sempre con un libro in mano, e che invitato, non li seguiva nelle birbonate, ne lo sbertavano, chiamandolo il professore, l'avvocato: ma egli non ci abbadava, e faceva la sua strada; conoscendo che la peggio delle infelicità è l'ignoranza. Molte cose imparò dai libri, che poste in pratica nel suo podere, ne triplicarono i prodotti; e qui giova accennare alle principali, che sarebbe desiderabile, che fossero imitate da tutti i coltivatori.
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Aratura....L. 100 Frumento prodotto: Concime..... » 50 Ettol. 33 a L. 20 L. 660 Mano d'opera... » 50 Scorte in terra .» 70 Semente.... » 90 L. 730 Quota spese generali » 400 L. 695 L'altro specchietto che abbiam riportato più su per il vivaio de' gelsi, mostra pure come si possa tener una contabilità a prodotti lontani.
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Egli intanto è assai più educato, e si diporta ora con molto più rispetto che non codesti bravazzoni, che abbiam intorno, cui non manca nè padre, nè madre... Gian Matteo, che potè intendere di che si trattava, e le parole di lei, fu tocco dentro, gli si riempirono in un subito gli occhi di lagrime, e fuggì frettoloso a casa. Alle ingiurie c'era avvezzo, e non ci badava manco più; ma ad una sì calda difesa, no; onde quelle parole, quella voce soave e accalorata, non furono dimenticate più; nelle ore di sconforto, quando s'è sforzati al pianto, si trovava quelle parole nel fondo dell'animo che gli sonavano come incoraggiamento, gli pareva di non essere più solo sulla terra. Egli non ci aveva mai parlato alla Caterina; come neppure lungo tempo appresso; più di buon dì, buona sera, come s'usa tra contadini nel passarsi vicino, altro non s' eran mai detto. Altra volta cadde malato papà Bastiano; Gian Matteo non poteva assisterlo; ma solo faceva qualche scappata in fretta a portargli qualche cosa; e chi trovava quasi sempre Iì a rendergli servizio? Caterina; essa stava di casa lì presso, e sapendo come nessuno potesse prendersi cura del malato, la bontà del cuore la spingeva di tempo in tempo a venir lì, ad accendergli un po' di fuoco, ad allestirgli un po' di minestra; ed era carità fiorita quella, solo conosciuta da chi cresce alla scuola de' patimenti! Gian Matteo non sapeva manco ringraziarla; gli pareva un'azione tanto di cielo, che non si teneva degno di volgerle una parola; e innalzava gli occhi a Dio, come a dire: a voi, che vedete tutto, e che sapete degnamente ricompensare le opere sante, raccomando costei! Quando Gian Matteo andò a tirar il numero, scontrò la buona fanciulla, che usciva da una cappella, dedicata alla Vergine, e aveva gli occhi rossi rosai; ma egli non vi pose mente, e tra l'allegro ed il melanconico: — Addio, Caterina, le disse, vo a far il soldato. — Dio non voglia, rispose dolente la ragazza, ho pregato tanto la Madonna...! e poi confusa d'essersi scoperta, entrò per un sentiero, che metteva ne' campi. Come Gian Matteo si trovò padrone d'una casa, e di un po' di poderetto ben suo, ed ebbe, come diceva, il nido fatto, sposò la Caterina, che non vi so dir io, come rimanesse felice; perchè, se prima poteva nutrir delle speranze, poi che lo vide divenir proprietario, le svanirono tutte; essa senza dote, di lusinghe non se ne faceva punto; tanto più che sapeva, che molte madri a lui mettevano in vista le loro figliuole, facendogli sentire il suono delle mille lire, che portavano in dote. Ma Gian Matteo, quando ne chiese la mano, le disse: chi pigliò le difese di questo miserabile bastardo? Chi soccorse papà Bastiano? Chi pregò perchè fosse salvo dalla leva questo derelitto sulla terra? O voi, o nessun'altra sarà mia moglie. Pianse di consolazione Caterina a queste parole, e Dio benedì quelle nozze. Essa è la felicità di quella casa; accudisce a tutto, nulla le passa inosservato. E con che garbo! Chiunque capiti lì, anche all'improvviso, essa non si confonde per nulla; ma trattiene, complimenta, e non lascia partir nessuno senza avergli fatto accettare qualche cosa, con tanta bella grazia, che molte signorine, con tutta la loro educazione di collegio, non saprebbero fare altrettanto. Gian Matteo appena sposatala, le disse: a te la casa, a me la campagna. E non volle mai, che si mettesse ai duri e faticosi lavori de' campi. E che può far una donna, diceva, colla zappa o colla vanga? Guadagnerà pochi soldi al dì; ma quanto più non potrà guadagnare accudendo alla casa, in lavori più convenienti alla sua natura, e alle sue forze? E infatti le donne nell'allestir le vivande, nel governare la biancheria, nel rappezzar le robe, nel badar al pollame, al maiale, alle bestie, nell'allevar i figliuoli, risparmiano di bei quattrini alla fine dell'anno, e guadagnano una giornata ben più fruttuosa, che in adoperar la zappa o la falce a' raggi del sole. Nè sarà fuor di proposito metter in chiaro i principali lavori di Caterina nel governo della casa e i suoi consigli; perchè possano essere presi a imitare da tutte le donne di campagna.
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Già abbiam detto, che era dessa che portava a libro la contabilità della campagna; ma aveva ancora un registro speciale tutto suo per la contabilità domestica. Le era capitato in mano un libro per le scuole femminili, un buon libricciuolo, che conteneva molte provvide massime e ottimi consigli di masserizia, da cui imparò non poco, e da cui trasse le principali sue norme.
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Tutti abbiam de' nemici, e le autorità più che ogni altro, perchè è naturale, che coloro che non vogliono filar dritto, tutti i cattivi soggetti insomma, non possano veder di buon occhio la legge e chi debbe farla eseguire; il malvagio è certamente nemico del galantuomo, il vizio è l'eterno avversario della virtù.
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Nelle passeggiate è da osservare in gran parte tutto ciò che abbiam detto nel precedente capitolo relativamente al Contegno fuori di casa; ma aggiungeremo alcune altre avvertenze. Se vi trovate in compagnia d'un vecchio o di donne in età avanzata, tocca a voi ad uniformare al loro passo il vostro, affinchè non siano per vostra cagione costrette ad affrettarlo oltre il consueto. Quando un uomo è in compagnia di più donne, deve dar braccio alla più attempata; chè sarebbe cosa ridicola o strana ch'egli usar volesse questa cortesia verso una giovinetta che fosse insieme con sua madre o con altre donne attempate; e se pur volesse farlo, starebbe a lei a trovar qualche garbato espediente per non accettare l'offerta. La scelta del luogo per passeggiare non può dipendere da voi; e dovete mostrare condiscendenza o gradimento di quella che dai maggiori sarà stata fatta. Chè se non vi piacesse, il lagnarsene in segreto con altre, il mostrare scontentezza o noia sarebbe prova d'animo indiscreto o scortese. Sia che si tratti di riposarsi qua o là, o di proseguire il cammino, voi dovete egualmente essere sempre pronte a bene accogliere il volere di chi, per qualsivoglia ragione, ha autorità su di voi. Non istà bene precedere col passo la persona a cui fate compagnia; dovete fermarvi ad esaminare con lei le cose che hanno meritato la sua attenzione, e seguirla subito appena riprende il passo, affinchè non sia costretta ad aspettarvi. In un pubblico passeggio il discorso non può cadere che sopra cose di minima importanza, cosi volendo la cautela; imperocchè mille orecchie vi ascoltano, ed una parola colta alla sfuggita può essere soggetta a sinistra interpetrazione. E anche viepiù necessario un contegno decente e tranquillo, senz'alcun trasporto di troppo vivace gaiezza, che farebbe volgere su di voi gli sguardi della gente e cagionerebbe molestia a chi è in vostra compagnia. In campagna avrete maggior libertà; le intime affezioni si svolgono e si manifestano più prontamente, ed a meno severe leggi di civiltà è soggetta la comitiva; ma non tutto lecito; ma anche in campagna convien seguire i dettami della convenienza, imperocchè, a modo d'esempio, non potrebbe gradire la comitiva che voi, per soddisfacimento di qualche gusto particolare, o per amore di qualche scienza, vi segregaste sempre dagli altri. Del resto, tutte queste leggiere differenze rispetto alle leggi di civiltà possono essere facilmente intese e conosciute nelle sociali consuetudini. Chi ha animo gentile, chi bene osserva, acquista uno squisito sentire e un accorto operare che non è nè deve essere ricercatezza, affettazione, artificio, ma custodia della propria dignità, e semplice desiderio d'acquistar grazia appo le persone che più meritano la nostra stima. Dobbiamo: Così per viaggio, come in ogni altra occorrenza, garbatamente rispondere alle dimande che ci vengono fatte; usar cautela nel conversare con persone sconosciute; usar cortesia verso tutti, massime verso le persone attempate e verso le donne che ci sembrano degne di maggior rispetto; andare di pari passo con le persone di nostra compagnia; e non far nulla che sia d'impedimento al loro desiderio. Non dobbiamo: Stare in sussiego verso chi viaggia insieme con noi, nè abbandonarci a soverchia familiarità con persone sconosciute; pretendere tutti i nostri comodi a scapito dei vicini; entrare inconsideratamente in discorso con tutti; trascorrere a soverchia esultanza nei passeggi pubblici; separarci affatto dalla comitiva del soggiorno campestre, ossia nelle villeggiature o nelle scampagnate.
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Ma noi, gente civile, abbiam trovato il pelo nell'ovo. Noi sappiamo che i genitori sono superiori ai loro figli, ed i superiori non portano il lutto per gli inferiori. Superiori? Inferiori? Davanti ad un morto? Ed una madre potrà pensar questo? E non si coprirà tutta di nero! e non si circonderà di un lutto rigoroso, lei che ha nel cuore il più grande dei lutti umani, il più grande degli umani dolori?
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Noi abbiam seguito Marina nelle principali vicende della vita, e sempre abbiam trovato la gentilezza del tratto non mai disgiunta dalla bontà del cuore; il che deve servir d'ammonimento a tutte le fanciulle di educare l'anima a virtù; perchè allora l'urbanità verrà da sè senza sforzo e senza affettazione, la quale indica sempre un desiderio di parere e non di essere, la parola non il cuore, la veste insomma non il corpo. Quella recitazione di complimenti vani, di lodi smaccate, che fan salir il rosso fin alla radice de'capelli, quel turibolo insomma dato lì sul muso, a cui non si sa come rispondere, sono affettazioni di urbanità. Nè si confonda l'urbanità coll'etichetta; parola e cosa a noi venutaci dalla puntigliosa pretensione spagnuola, e consiste nell'osservare le più minute e ridicole cerimonie; il che è fatto apposta per agghiacciare qualunque amichevole ritrovo. Perchè una quando vuol star sull'onorevole, e nel contegno par che dica; state in guardia, io son chi sono! e mette tanto di grugno se non vien salutata prima, se non se le dà il posto più cospicuo, o non se le parla con tutti i riguardi, addio allegrezza di compagnia, addio piacevole conversare, la festa si raffredda, ammutisce, degenera in isbadiglio. Quindi i malcontenti. Oh la brutta razza de' malcontenti! è un piagnisteo continuo lo star con loro. I tempi pèggiorano, le stagioni corrono a rovescio, i raccolti scarsi, tutto è miseria! Il fiore della speranza non può per nulla attecchire in questi cuori delle sette piaghe! Si è a mensa? Questo piatto è insipido, quella vivanda è stracotta e via su questo andare. Si fa una scampagnata? Dio, che scelta! La via è lunga, ripida, noiosa! — Come le garba, signorina, questo villaggio? —È un orrore, io non ci vorrei essere nè dipinta, nè scritta! E qui a trovar difetti senza punto darsi per intesa che si fa ingiuria e villania ai terrazzani a dir male del loro paese. In ciò fanno atto di squisita urbanità quelle che anzi s'ingegnano di scoprirne i pregi e lodarli bellamente, punto facendo caso, anzi velando il più possibile i difetti. — Come sta oggi, signora? — Ahimè, male, non ho dormito! — e giù contro il vento, il freddo, il caldo, il mal di nervi, l'insonnia, l'emicrania, e tutti i malanni. In guisa che con questa sorta di gente non si può far di meglio che recitare i sette salmi penitenziali. Si badi anche alle cose più leggiere; chè nelle inezie talora si rivela il carattere più che nelle gravi azioni. Quelle ragazze che muovendosi nelle camere piantano i piedi, come i coscritti negli esercizi militari, quelle, che invece di posare un oggetto sui mobili o consegnarlo in mano a qualcheduno, glielo lanciano di lontano; quelle che, camminando in luogo affollato, invece di ingegnarsi di scansar la gente, urtano qui, pestano là; quelle che ne' colloquii famigliari alzano la voce, come a predicare; hanno poco vantaggio dalle contadine allevate ne'campi. E poichè sono ad avvertirvi sugli atti sconvenienti, vi consiglierei per ultimo di guardarvi dalle pretensioni. Que' riguardi che si usano avere per galanteria, quando vengono pretesi come obbligo, allora par che cambino natura; anzi nasce la voglia di non più usarli, perchè non c'è cosa che più urti i nervi, che la pretesa. La Corriera deve partire, l'ora è sonata, il vetturino schiocca la frusta, tutti i viaggiatori son su, manca la signora B...., si guarda intorno, è là allo svolto della via ferma a ragionare con qualcheduno; dopo un buon pezzo si avvia lentamente viene alla vettura, è lì per salire, ma non rifinisce di salutare, di raccomandare. Sale, scomoda tutti: scusi, passi, scusi lei, anzi lei, finchè si caccia lunga e larga nel posto migliore: ohè, si è spenta la galanteria nel mondo? sono una signora infin dei conti! pare che dica nella sua aria di pretensione, nello stesso tempo che mette il paniere sulle gambe del vicino di fianco, lo scialle in grembo a quel che lo sta dirimpetto; avrà inoltre una ragazzetta con sè, misericordia, com'è malavezza! Non un momento tranquilla, si muove di qua, si torce di là, mette i piedi addosso ai vicini sciupandone gli abiti, tutto quel che vede lo vuole, e guai se non glie lo date, piange, strilla; a che viaggio d'inferno si condannano que' poveri viaggiatori! E qui fo punto per non aver l'aria di predicatore, augurando a tutte le madri figliuole simili a Marina, la quale per non lasciarla lì su due piedi dirò che diede la mano di sposa al dottor Enrico, quello stesso, i cui pregi narrai nel Galateo del fanciullo. Onde vi lascio immaginare qual coppia felice sia stata codesta, e se tutte le benedizioni del Cielo non vi piovvero sopra. FINE.
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Quella consuetudine, che abbiam detto della signora Bianca, di leggere e chiosare ogni dì qualche capo del galateo, aveva fatto l’abitudine in Marina non solo di comportarsi sempre urbanamente in ogni luogo e con ogni persona: ma ancora le aveva svolto nell’animo un certo buon gusto da giudicar rettamente degli atti altrui; e ogni dì nel suo giornale della vita, che per consiglio della madre aveva cominciato a scombiccherare dal primo momento che potè mettere in carta i suoi sentimenti, andava notando pensieri e fatterelli che ci possono dare una fisonomia assai bella d'una scuola femminile.
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Ma forse, perchè era tutta innamorata della matematica, insegnava troppo, non perdonandola nè anco alla geometria, la quale, a vero dire, non so fino a che punto torni di vantaggio alle giovinette, se non forse a darle quella stabilità e quella pazienza, che abbiam detto mancar loro nelle cose dell'intelletto. Sia come si sia, Marina vi trovò molta difficoltà; non è che stesse molto indietro dalle compagne; ma stentava a seguirle. Qui però è da avvertire la bella sua indole. In generale le ragazze se ne fanno un vanto, quando non riescono in qualche genere di studi, che sia più da uomo che da donna, come è della matematica, e quasi mettono in ridicolo chi vi inclina e fa profitto. Marina invece era dispiacente di ciò, e confessava come un difetto del suo ingegno il non poter avanzarsi nell'aritmetica come le altre; e quando ne parlava, poveretta, si vedeva che invidiava la fortuna delle compagne, che vi avevan più disposizione, e le pareva la sua un'istruzione incompleta! Pigliava però diletto delle altre scienze positive, come della fisica e della storia naturale. Un bravo e dotto medico s'era fatto un obbligo di spiegare alle alunne delle classi superiori que'tratti di scienza,che più hanno relazione colla pratica della vita, lasciando fuori la scienza pura e teorica, nè seguendo un ordine scientifico da trattato. Egli pigliava occasione dai casi dell'atmosfera, dai fatti, per così dire, quotidiani. Scoppiava un temporale? parlava del fulmine, delle nuvole, della grandine. Compariva una cometa, un'aurora boreale? Cercava di spiegarne la natura; analizzava l'aria, l'acqua, le sostanze alimentari, le vesti, l'architettura del corpo, l e norme più semplici d'igiene; e queste cose le esponeva buonamente, come un padre alla famigliuola congregata; ma quantunque sembrasse che volesse spogliare la scienza del suo grave paludamento, tuttavia teneva molto al rigore, e alla precisione scientifica; perchè diceva, nulla nuocere tanto alla chiarezza, quanto d'esporre la scienza solo per approssimazione, con improprietà di linguaggio, e con scambio di cause e di effetti. Aveva nel suo parlare tanta vita, tanta comunicativa, che infondeva, negli altri l'entusiasmo per i fatti della natura, che aveva egli nel cuore, e le allieve si formavano un chiaro concetto de' fenomeni naturali, e si avvezzavano ad esaminare e a scoprir le cause e le ragioni di quello che loro s'offriva allo sguardo, ed imparavano ad apprezzare anche le cose più piccole, perchè nel vasto sistema del mondo hanno pur esse il loro mandato da eseguire. Marina trovava così utili questi studi, e così opportuni non solo per conservare la salute, ma ancora nella pratica materiale e morale della vita, che avrebbe voluto, che in tutte le scuole vi pigliassero un posto conveniente. Essa v'imparò molte cose, che in un'occorrenza le potevan giovare di molto: per una scottatura, un taglio; certi cibi e certe bevande più confacenti in tali e tali stagioni e circostanze; tali specifici per lavare alcune stoffe, smacchiare un abito, conservarlo, e via su questo fare; e si spogliò di molti pregiudizi ed errori.
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Abbiam detto più su che quando la signora Bianca s'accorse del poco frutto che ritraeva la figliuola dalla musica, pesava già di volgersi ad altro; ora dobbiamo avvertire che in quel torno avvenne un gran cambiamento. Il maestro di Marina per certe sue faccende dovette lasciar Torino, e venne chiamato a sostituirlo il signor Eugenio, uomo intelligente ed ingegnoso, che sapeva tirar partito anche delle difficoltà che incontravano gli allievi, e perciò s'era fatto un bel nome nell'arte musicale. Vedete prodigio! come se una cappa di piombo si fosse levata di dosso alla fanciulla, in breve tempo si trovò così disposta alla musica che il pianoforte le riuscì poco men che un bisogno; sicchè essa stessa ne faceva le maraviglie. Ma la ragione è presto trovata. Il primo maestro, come la maggior parte di quei che insegnano, aveva ridotto l'arte della musica a un puro esercizio materiale, a mestiere, in cui l'anima non ci aveva nulla che fare; era una sorta di meccanismo per mettere in moto i martellini del pianoforte, un giuocatolo insomma per cui, tocca una leva, scatta un suono; quindi ogni suo studio era volto a dar agilità alla mano, spigliatezza alle dita per picchiare rapidamente sulla tastiera; una prestidigitazione e nulla più; nessuna ragione dell'arte, nessuna corrispondenza col cuore, nessun sentimento del bello, nessuna cognizione di quel che si fa. In questa guisa è impossibile che un'allieva riesca a conoscere che sia stile e giunga ad apprezzare gli autori e ad intendere la connessione delle idee musicali. Marina, che aveva ingegno riflessivo e che viveva coll'anima, mal s'adattava a quella sterilità di suoni che lasciavano il vuoto nel cuore; al pianoforte ci si annoiava e non sentiva propensione alcuna per quella sorta di musica. Ma appena ch'ebbe a fare col signor Eugenio, oh fu un altro par di maniche; questi era un vero maestro, che intendeva la musica nello spirito suo più elevato di creazione e di ispirazione di quanto v'ha di più profondo nel cuore e di più bello nella fantasia. E tosto nelle prime lezioni le fece conoscere la relazione del meccanismo coll'arte musicale, e senza stancarla a picchiar i tasti, le apprese a tutta prima a leggere la musica, pei a solfeggiarla, indi a renderla col suono del piano; e così via via la condusse alla vera scienza de' suoni. Marina con vivo trasporto di gioia entrava ne' gentili segreti dell'arte e vi rinveniva sempre una ricca fonte di delicate ispirazioni, che facevan paga la sua anima, avida delle cose belle. Nè si contentò del suono, ma in pari tempo volle anche esercitarsi nel canto. Aveva una voce soave e ben intonata, ma non molto piena però, fioca e deboluccia piuttosto; per il che la madre la secondò di buona voglia in questo desiderio; perchè oltre al divertimento pensava che le si sarebbe rafforzato di molto il petto e ingagliardite le corde vocali; giacchè sapeva che il canto è pur esso una buona ginnastica, e che giova agli organi della respirazione più che altri non creda. E infatti Marina in poco andare ne sperimentò i benefici effetti: voce più forte e più chiara, respiro più libero e meno affaticato, anche dopo un violento esercizio di membra. Alla musica prima aveva destinato un'ora del dì, poi due, e in quelle continuò sempre senz'alcuna interruzione. Si è per questa perseveranza che nel giro di non troppi anni pervenne, sia nel canto, sia nel suono, ad eseguire con somma maestria pezzi, che non sarebbero paruti facili anche a maestri tanto fatti; e, quel che è più, acquistò una giusta conocenza delle scuole e degli stili de' migliori compositori. Il che non è picciol pregio, da non doversi trascurare nell'educazione giovanile. Aveva anche sommo riguardo di non metter troppo a prova la pazienza del vicinato; onde le ore di musica eran quelle che meno potessero molestare le occupazioni de' casigliani; non erano nè troppo per tempo il mattino, nè troppo tardi la notte, per non rompere il sonno di chi ha a dormire. E quando sapeva qualcheduno malato gravemente lì presso, non faceva più una nota; era delicatissima in tutti i suoi sentimenti; onde i vicini la lodavano, e quando si veniva con lei su questo discorso, le dicevano: oh lei non fa come la tale e la tale, che strimpella sempre senza riguardo; venuta a casa dal teatro, anche dopo la mezzanotte, se le gira il capriccio si mette a stonare sul piano, che è una maledizione per chi deve stare vicino; e quando s'è malati, s'ha un bel pregare, ma nessuna carità! Vi sono alcune giovanette, che senza punto di orecchie han voce disgraziatissima, e tuttavia vogliono ad ogni modo cantare; se sono in coro stuonano orribilmente e guastano l'armonia degli altri, se da sole svisano tanto i motivi de'maestri, da lacerar le orecchie di ogni buon figlio d'Adamo, e producono un senso di male, specie in chi ne ricorda le vere ariette. Tali fanciulle, per l'ombra di Rossini, si turino la bocca, che guadagneranno molto più nell'amore e nella stima del genere umano!
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Onde prima dei quattordici non sappiam le cose, sappiam solo le parole; e invero se si è interrogati, si risponde colle parole sacramentali, che abbiam studiato macchinalmente nel libro, o che ci ha appreso il maestro; se si cambian le parole, si fa una confusione da non poterne più cavar costrutto. Quando invece la potenza riflessiva è messa in atto, quello che si ascolta si sottopone ad un esame intimo, all'approvazione del nostro giudizio, e la coscienza ci dice: è così; oppure: così non può stare. Ecco come l'appreso diventa scienza, e resta in noi come fatto nostro, nostra proprietà, e ne disponiamo come e quando ci viene il destro, senza essere legati alla nuda parola. Eppure la fanciulla cessa per appunto gli studi, quando essi si farebbero profittevoli e sicuri. Il che ci spiega come la donna in materia di studi sia piuttosto leggiera, superficiale ed anche pedante; e se sa le cose, non le conosce nella loro ampiezza, nelle loro relazioni e cause remote: ma ne ritiene solo quanto le è stato detto; perchè la sua scienza è tutta di memoria. Quante volte non ci accadde di vedere nelle famiglie la sorella fino ai dodici anni vincere il fratello negli studi, e passati alcuni anni trovarsi un cambiamento incredibile? la ragazza restare stazionaria, se non perde, e il fratello sviluppare un criterio, una logica, una bontà di giudizio che non sapete spiegare; se non riflettete che gli studi più forti egli li fa dai quattordici ai venti, ai ventiquattro, e la sorella li cessò ai quattordici, se non ai dodici. Ecco la ragione della grande differenza intellettuale ne' due sessi, differenza che dovrebbe essere minima o scomparire affatto, se gli studi meglio si organassero per le fanciulle. Esaminiamo un po' meglio per minuto quel che avviene nella vita educativa della giovanetta, e si riconoscerà che si cammina proprio a ritroso della natura. L'istruzione intellettuale le s'impartisce dai cinque ai dieci o dodici anni, quindi le si fa abbandonare la scuola e non se ne parla più, se non forse di qualche lezione per settimana di lingua francese. Tutta la sua vita viene quinc'innanzi divisa fra il pianoforte e que'lavori che si dicono femminili. Ora lasciatemi dimandare: quali occupazioni richiedono maggior forza intellettuale, gli studi o i lavori di mano? Ma questi lavori sono meccanici e la memoria e l'imitazione è tutto, e perciò si potevano tanto bene cominciare prima senza tanto detrimento. La signora Bianca, che poco si lasciava pigliar la mano dall'andazzo comune, diceva che per dare una buona istruzione alle giovani è necessario prolungare il tempo degli studi; e perchè l'una cosa non sia a disvantaggio dell'altra, approvava che contemporaneamente agli studi le si facessero apprendere i lavori femminili e le arti di ornamento. Fino ai diciott'anni non voleva che la ragazza facesse la signorina; lasciarle la testa ai grilli prima, è un metterla nei rischi del mondo, vana, senza studio e senza esperienza. Trovava che fino ai diciotto c'è abbastanza di tempo per istruirla in ogni ramo conveniente ai tempi progrediti, alla civiltà del secolo, e ritornava sempre alla sua idea, che dalla donna istruita infiniti beni ridondano alla società. E come pensava, praticò con Marina; il che spiega come questa abbia potuto erudirsi in tutte quelle materie che abbiam detto.
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Il teatro, abbiam detto, avrebbe ad essere una scuola di costumi, un luogo dove il popolo, oltre al ricrearsi della giornaliera fatica potesse eziandio ricevere quell'educazione dell'intelletto e del cuore che può ricavarsi dall'ingegnosa imitazione di fatti lodevoli, eroici, gentili, dalla esposizione dilettosa ed istruttiva di quei morali principii che deggiono regolare la nostra condotta in società e in famiglia. Sotto questo aspetto, sotto tali condizioni, il teatro avrebbe realmente sul popolo una salutare influenza. «Riunite, scrive il Thierry, degli uomini in un luogo dove essi si rispettino; essi si miglioreranno, avvicinandosi, a vivenda. Riuniteli per mostrar loro l'uomo stesso, il ritratto dell'umana vita; essi si costituiranno i proprii testimoni, i giudici della loro stessa esistenza. A lato della missione che ha il teatro di sollevare gli spiriti e di commuovere i cuori, esso ne ha una ben più sublime, quella di mettere ogni giorno al pubblico, che la risolse solennemente, la eterna questione del giusto e dell'ingiusto». Ma ottiensi ciò sempre colle commedie, coi drammi che si producono nei nostri teatri? E prescindendo dalle azioni senza sugo che hanno soltanto il privilegio di annoiare, non succede molte volte di dover uscire dal teatro con la mestizia e la stanchezza in cuore, con il disdegno nell'anima? Non avvien forse di uscirne con una disposizione allo sconforto, presso ch'io direi, con una specie di odio verso gli uomini, verso le leggi? Si brama da taluni veder rappresentate anche a costo del pudore tutte le fasi di una disonesta passione; piace ad altri veder sulla scena descritte le astuzie, le crudeltà dei ladri e degli assassini, le gesta feroci dei briganti, le frodi degli impostori, tutte le vergogne sociali insomma di cui si addolora l'uomo onesto, e su cui è pietà non solo ma prudenza il più delle volte il gettare un velo. Il pubblico di alcuni teatri è altamente soddisfatto dell'imitazione accurata delle grida, dei gemiti, delle vittime; quando vedono in una parola scorrere il sangue dalle ferite, e le contorsioni, le agonie dei trafitti; vogliono insomnia sulla scena i pugnali, i veleni, le morti, i funerali, vogliono gli osceni scherzi, i sucidi amori che farebbero loro nausea e ribrezzo quando fossero trasportati dalle finzioni del palco scenico alla realtà della vita comune. Pur troppo in questa bisogna noi non ci mostriamo gran che dissimili dagli antichi Romani. Né sarebbe gran che più facile adesso che allora l'opporsi a queste prave tendenze della plebe. Voleva l'imperatore Antonino, stomacato di quelle indecenti rappresentazioni, ridurle a maggior decoro e riserbatezza, ma il popolo fremette, il popolo ruggì; e pel minor male, narrano gli storici, si tornò al fango e alle lubricità delle mime e dei Sannioni. E questa specie di trattenimenti saranno quelli che avranno virtù d'ingentilire i costumi, migliorare il sentimento morale degli spettatori? Oh povero popolo! se tu non avessi, pel tuo sollievo, per la tua istruzione altre scuole che queste, sarebbe meglio che tu vegetassi in una eterna ignoranza! «La buona commedia, scrive il Manno, deve venire in qualche modo in soccorso delle leggi, le quali s'incaricano di vendicar le offese fatte alla società dagli scellerati, nel mentre che la satira e la commedia si incaricano di rendere odiosi e ridicoli i viziosi di minor conto. In luogo di ciò si vorrebbe quasi che quei drammi di patetico sentimento partecipassero della natura delle leggi criminali, poiché non di rado in grazia di quelle rappresentazioni noi veggiamo in sulle scene e gli assassini e i mariuoli e tutta quella marmaglia di scherani che non abbisognano della rappresentazione scenica per essere esecrati, e per cui sarebbe troppo lieve cosa la pubblica esecrazione. E non solo quei delitti che fanno fremere ogni cuore ben formato conseguono in tal maniera gli onori della commedia, ma quelli ancora che fanno arrossire ogni onesto spettatore». E vi sono impresari, vi sono capi-comici che per vile guadagno (e hanno il coraggio di dirlo) danno in pascolo a un'avida plebe questi sozzi spettacoli! e vi sono giornalisti che li lodano! e la morale e la civiltà pagano il fio di tutto e di tutti.
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Ma sono, come abbiam detto, costoro, degli Indiani selvaqgi. A molte di queste emergenze provvedono bensì oggigiorno i camerieri d'albergo, le guide, i ciceroni: ma l'aversi, come si lagnava il Giusti, alle costole uno di quei soliti custodi a dirti: qui russava Sallustio, qui si lavava le mani Marco Tullio, là si pettinava la signora Livia è una noia indicibile. V'ha un mondo di cose in cui un cittadino cortese può render servigio a un forestiere meglio di un mercenario e di un interprete officiale: e per le quali procaccierà a sè e al paese bella riputazione di colto e di gentile. Così, a mo' d'esempio, vedendolo in contesa con facchini o cocchieri indiscreti che vorrebbero abusare della sua inesperienza, non dovete titubare un istante a prenderne le difese contro i truffatori e gli scrocconi.
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risposero, gli altri lo percuotevano, e l'abbiamo percosso noi pure; gli altri dicevano di volerlo uccidere e noi abbiam risposto: uccidiamolo pure! abbiamo fatto, in sostanza, quello che hanno fatto gli altri!». E molti di quegli sciagurati erano stati fino allora operai laboriosi ed onesti. A quel punto li condusse il fare come faceano gli altri!
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«Uno degli convenienti della moderna civiltà, così Smiles, si è che mentre andiamo perfezionando i nostri meccanismi, noi dimentichiamo alle volte che il migliore di tutti i materiali greggi è l'uomo; e noi non abbiam fatto per anco l'estremo della nostra possa per migliorarlo e perfezionarlo». E Massimo Azeglio ci lasciò scritto ne' suoi Ricordi che «il vero progresso dell'umanità non istà nelle macchine a vapore, ma nella crescente potenza del senso morale».
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I magistrati, gli agenti di qualunque ordine incaricati di far osservare le leggi e di punire i trasgressori hanno diritto, come abbiam detto, a tutto il rispetto dei loro concittadini. Ma questo rispetto essi se lo procaccieranno non già ostentando una rigidità tirannica nei loro giudizi, né colla prepotenza e col disprezzo verso i deboli e gl'impotenti; ma sì con quella gravità modesta che va associata agli austeri costumi, all'illibatezza di condotta come cittadini, come privati e come giudici, colla cortesia, portata al massimo grado nelle parole e negli atti anche estranei alle loro funzioni ufficiali. Non altrimenti che colla virtù, coll'ingegno e con la gentilezza potrà il magistrato mantenere il suo credito, la sua influenza sulla universalità dei cittadini e avere dalla loro stima e dal loro affetto un alto morale compenso ai dolori onde è circondata la sua spinosa carriera. Ella è somma sventura per la moralità, per la civiltà di un paese allorché può sorgere il dubbio, la convinzione nel popolo che la chiave d'oro possa aprire le porte della giustizia; e che per via di subdoli raggiri e di alte pressioni si possa far breccia nelle coscienze dei giudici, la condotta dei quali dovrebb'essere mai sempre, come quella della moglie di Cesare, esente perfin dal sospetto. Ond'e che la giustizia viene altamente compromessa dal magistrato che abbassa a fautrice d'ire partigiane e di vendette di potenti. Gli elementi della giustizia non si devono cercare in quelli delle basse passioni; come non devono né i giudici, né gli avvocati, né i testimoni ricevere le ispirazioni e tanto meno gli ordini di quei bassi fondi sociali, la esistenza dei quali e la forza poggiano essenzialmente sul mistero, sulla simulazione e sulla corruzione A questi pericoli alludeva il poeta milanese nella sua bella canzone ai caroccee e fiaccaree. Facciam voti che la favola non al traduca giammai, per parte dei nostri tribunali, in istoria. La giustizia de sto mond La someja a quij ragner Ordii in longh, tessu in redond, Che se troeuva in di tiner. Dininguarda ai mosch, moschitt Che ghe barzega on poo arent, Purghen subet el delitt Malapenna ghe dan dent. A l'incontra i galavron Sbusen, passen soma dagn, E la gionta del scarpon La ghe tocca tutta al ragn. PORTA, Poesie milanesi. Vorrei vederlo, il magistrato, sempre calmo e sereno nell'adempimento delle sue terribili funzioni. Esso deve far mostra sempre della massima fermezza e, senza attentare alla libertà della parola, contenere per altro nei limiti della decenza tanto l'accusa quanto la difesa. L'animosità, l'impazienza di cui taluno potesse dare segno contro i difensori o peggio contro gli imputati, qualunque segno di approvazione agli argomenti del pubblico Ministero non potrebbero a meno di destare una penosa impressione in chi li vede ed ascolta, e far sorgere talvolta dei dubbi ingiuriosi sull'imparzialità dei loro giudizi. Maxima est pars justitiae patientia, diceva già il sommo Cicerone. Rifletta il magistrato che con un giurì, come avviene talvolta, composto in gran parte di uomini poco istruiti ed impressionabili, il suo riassunto artificioso e passionato può determinare per se solo un verdetto di morte; poiché se i giurati sanno fino ad un certo punto premunirsi dall'eloquenza dell'accusatore pubblico e del difensore, non egualmente lo sapranno contro l'eloquenza del magistrato che essi suppongono naturalmente imparziale. Non dimentichi mai, il magistrato giudicante, il bell'avviso che gli dà il Cousin: «La carità deve intervenire anche nella punizione dei delitti; oltre al diritto di punire la società ha eziandio quello di correggere; il colpevole è ancora un uomo, e non già una cosa di cui essa possa sbarazzarsi dall'istante in cui le nuoce, una pietra che ci cade sul capo e che ci è lecito di gettar nell'abisso per toglierle ogni possibilità di recarci alcun danno». (V. COUSIN, Justice et Charité).
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Ma lasciamo stare Greci e Romani, che ne abbiam a dovizia dagli scrittori dell'età nostra. «La vera civiltà - scriveva quell'anima soave di Silvio Pellico - è quella virtù che rende l'uomo amabile non soltanto nelle maniere ma nei pensieri eziandio, nella volontà, nelle affezioni». Il Tommaseo dice che pulito viene a significare decente: pulito si dice l'uom garbato, pulito negli affari il mercante onesto, e pulito, egli conchiude, in molti dialetti d'Italia, significa bene. Della cortesia, dice il Mamiani, che
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I contadini di Tommaso Grossi lo amavano di sincero affetto, perché mite, affabile e giusto insieme ed intelligente; e lui morto sclamavano addolorati: Ah noi non troveremo mai più un padrone, come quello che abbiam perduto! E per questi sarebbe d'uopo sacrificarsi ad abitar più sovente la campagna e starsene in mezzo a loro, prender parte ai loro discorsi, combattere senza sussiego, senza sogghignarne, precisamente come si farebbe con un ammalato, le ignoranze, i pregiudizi da cui sono oscurate le loro intelligenze; spiegar loro i progressi che può arrecare la scienza all'agricoltura, senza urtare di fronte i metodi vecchi; e non aver vergogna intanto di prender lezione da loro in tutto ciò che solo può insegnare la pratica delle faccende campagnuole. Meglio confessar subito la propria ignoranza che lasciarsi cogliere in fallo dal contadino; il quale possiede forse più di ogni altro quel senso comune che serve a far loro distinguere se quegli che sta loro parlando è uomo sapiente ed esperto, ovvero semplicemente un parolaio od un impostore. I proprietari d'altronde ci troverebbero eziandio il loro tornaconto nello accudire personalmente ai lavori di campagna; il miglior fattore è il padrone istesso; senza parlare del buon generale che ne deriverebbe all'agricoltura da queste associazioni di lavori e d'ingegni, di pratica e di scienza, di studio e di routine. «L'agricoltura, per citarvi ancora una volta il Say, prospera solo quando i campi vengono coltivati dai loro medesimi proprietari; parliamo di proprietari educati ed istrutti; poiché entrano allora in campo dei mezzi di successo che non sono a portata del contadino, soggetto a tutti i pregiudizi e vittima bene spesso del ciarlatanismo».
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Non parliamo, come già dicemmo, delle visite per affari che abbiam già trattato indirettamente, parlando degli avvocati, dei medici, dei negozianti, ecc. entrando le medesime nel complesso degli affari istessi, e facendo parte dell'esercizio delle stesse professioni; e ci limitiamo a ragionare delle visite di convenienza e di affezione.
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Rimane inteso che qui si parla unicamente di giuochi onesti, in quel modo che non abbiam parlato fuorché di conversazioni civili. Quindi non ci occuperemo delle case da giuoco propriamente dette, dove chi entra lascia ordinariamente l'onore alla porta, quasi sicuro di non più trovarlo allorché ne ritorna. E che vuolsi tuttavia? È difficile anche a colui che non si fa, fuorché per semplice sollazzo e per brev'ora, giuocatore, di contenersi nei ristretti limiti delle convenienze. Chi per poco si lascia trasportare da questa pericolosa passione, corre il brutto rischio di diventare, almeno finché dura il giuoco, avido, brutale e superstizioso. È così facile che le dispute, che le differenze, che i dispetti che insorgono pressoché inevitabilmente giuocando, trascendano in sarcasmi ed in ingiurie! Di cento duelli, novanta hanno origine dal giuoco. Sì, il giuoco ha questa triste prerogativa di mutare in peggio la natura degli uomini, di paralizzarne le gentili tendenze; nel giuoco, e di' pure anche nel giuoco onesto, si turbano di leggieri le affezioni, le armonie del cuore, della famiglia. Si sciupano dal più al meno le sostanze e la salute, talvola la morale e l'onore degli individui. Durante il giuoco lo spirito si trova sovreccitato in modo anormale; ed è appunto il bisogno immaginario di queste emozioni che rende a molti simpatico questo pericoloso trattenimento.
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Vuolsi, abbiam detto, rinnovar l'aria nei luoghi di numerose riunioni. Ma bisogna poi anche, chi ha immensi saloni,non pretenda riscaldarli con iscarso focherello. Il freddo è nemico dell'espansione.
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Allora noi sentiam più forte il bisogno d'amare i nostri fratelli, d' amar la terra dove nascemmo i luoghi dove il nostro cuore apprese tanti cari nomi, fece tanti bei sogni nell' innocenza e nell'amore; dove anche abbiam dovuto gustare i primi dolori, e piangere la prima volta! O nostra patria! - Ecco il sole che, nella pienezza della sua luce suscita l' allegrezza nel cielo, sparge la fecondità nelle campagne , la tranquillità nella vita, e l'amore nell'anima di tutti! Ecco interminate pianure, su cui l'occhio si perde; ecco laghi che ripetono il sereno del cielo, e fiumi maestosi, e acque irrigatrici; ecco campagne verdeggianti di gelsi, fiorenti di mèssi; colline liete d'una perpetua ubertà; monti che un'assidua coltura rivestì di vigneti e di pascoli, di casolari e di borgate! Qui la bellezza del cielo e della terra, la frequenza degli uomini, la leggiadria delle donne.... È la terra de' nostri padri, dell'antica nostra religione, delle poche sante memorie che ancora ci rimangono. Non si cerchi
Su la bass' ora d'un bel dì, il signor curato passeggiava sulla piccola spianata che si stendeva dinanzi la sua casa, in compagnia del vecchio Gaspero, quel signorotto del quale abbiam già fatta la conoscenza; e discorrevano fra loro a tutto bell'agio. Benchè, come vedemmo, l'uno non andasse molto a sangue all'altro, pure lo star insieme e la necessità di sostenersi in credito facevano che si cercassero come due vecchi colleghi, o piuttosto come due gelose potestà rivali. Nè, del resto, don Gioachimo era uomo da legarsela al dito, per qualche motto lanciato alla sua pretensione politica o letteraria; chè anzi si piccava di non farne gran caso, come se si trattasse d'un complimento. « Eh! signor Gaspero, » disse il curato « se foste venuto mezz' ora fa, v' avrei fatto, così alla buona, sedere alla mia tavola; ne vengo adesso. Eh! un desinarino da un povero curato, ma da galantuomo; poco, ma buono: è il mio asioma.... ah! ah! » « Oh lo so per esperienza! si mangia bene da voi.... » « Non fo per dire, ma la mia Sabina sa il fatto suo; da un par d' anni poi ne son contentone. Quest' oggi, vedete, m' ha regalato un bel pezzo di stufato fumante, con certe cipollette in sugo, che parevano perle; e poi una fricassèa di polli, che valeva un Perù!... » « Corbezzoli! è una dottorona la vostra serva; ci scommetto che sa a menadito tutto il Cuoco Piemontese, e forse la vi corregge anche i testi latini delle vostre prediche. » « Ah! ah! sempre di buon umore il nostro signor Gaspero! » « Che volete, curato? Se non si cerca di passare, meno mal che si possa, questi quattr' anni di vita che ci avanzano.... » « Buon per voi, che sul vostro non tempesta mai.... Ma per me, v' assicuro che ne conto delle giornate brusche, e qualche volta mi tocca di roder catene. » « Canzonate, o dite da vero? Chi fa mai più beata vita della vostra? « Voi volete parlare; ma non le pigliate su voi quelle che mi toccano, proprio a me, che doverle inghiottire, è dura! Ma, ma.... è meglio non pensarci, basterebbe a farmi fare cattiva digestione. » « Ma via! cos' avete? dite su; non son vostro amico io? » « Sì, voi siete un galantuomo: ma a questo mondo c'è dei birbanti. lo, non ho maí avuti impicci; sentite mo quel che mi capita. - La settimana passata , fo una giterella a Como, per certi miei interessi.... qualche poco di denaro messo da parte in tant' anni, e che ho voluto portare io stesso, in confidenza, a un legale di là, un po' mio parente, perchè me ne cavi una cinquantina di lire d' interesse.... Mo, vedete! Eran sei anni che non mettevo il piede in quella maladetta città; e giusto, quell'unica volta che ci casco, trovò un avviso che mi chiama, là.... da.... monsignore.... » E qui gli bisbigliò a mezza voce un bel nome tondo. « Mi capite? Così è.... proprio da lui! Bisognò trottar subito.... là dov' era aspettato. Non vi dico nulla!... Cose grosse, cose di fuoco; mi vogliono mettere un compromesso, mi voglion giocare sicuro, io che non ho mai fatto nè detto male di nessuno.... » « Ma che diamine mai?... » « Lo sapete voi?... lo so anch' io. Fu un serio e lungo interrogatorio di lui, di lui stesso.... capite? - E vi dico la verità, che la flemma delle sue domande mi faceva sudare, nello stesso tempo che la serietà delle sue occhiate mi metteva i brividi. E tutto, indovinate mo?... per amore di quel sapientaccio presontuoso di don Carlo. » « Oh!... » « Cosa so io de' garbugli che può avere colui?... E bene, sul conto suo, mi domandò più di cento cose; e ch'io sapeva, e che dovevo sapere.... che quel prete era nativo di qui; eh' io conosceva quali corrispondenze avesse, perchè quest'estate passasse qui tre rnesi, e ci doveva essere la sua buona ragione; che discorsi, che vita facesse, e che so io.... Vi dico che avevo tanto di testa. Cercava ben io di rimbeccar quelle antifone alla meglio, ma era peggio! Io aveva bel dire: la responsabilità è sempre del povero parroco.... Adesso, sentite questa! - Non è la prima volta, conchiuse lui infine nel congedarmi, che date serii motivi di censure - sue precise parole. Figuratevi che condizione fosse la mia, a questa sorte di complimenti. » « Ma non siete arrivato a capire...? » « Poco o niente. Furono avvertimenti sordi, misteriosi consigli dati a mezz' aria, lasciati indovinare; ma, se non fallo, ci cova sotto qualche cosa di.... » « Di che? » « Eh signor Gaspero! penso che sono una bastia a ciarlar tanto di queste materie così gravi; lasciamo andare, lasciamo andare.... « Ehi, m'offendete! dite su! Mi credete un bamboccio o un birbone? Parlate. » « Ma! ma! ma!... voi non lo sapete che brutto rischio si corra.... » « Ditelo, che lo saprò. » « In somma, in somma! volete proprio saperlo?... Io credo che ci sia in aria qualcosa di torbido, di marcio, cioè di.... rrrr.... » E nell'orecchio dello strabiliato compagno finì una terribile parola.. « Bah!... » E qui tacquero, e si guardarono in faccia un pezzo l'un l'altro, senza batter palpebra. Poi il signor curato, levando lentamente una mano, e mettendo l' indice a traverso le labbra, diede all'amico un' occhiata di gran significazione come per dire: - Silenzio, per amor del cielo! E l'altro, facendosi piccino e strettosi nelle spalle, rispose con la stessa smorfia. In quel mezzo, altri capitavano sulla spianata, e camminando sbadatamente andavan di lungo ciascuno pe' fatti suoi; ma due d' essi, veduti don Gioachimo e il signor Gaspero, attraversarono la strada, e vennero difilati a loro. Erano il dottore e il deputato politico del paese. I quattro si fecero le solite scambievoli cortesie, con una sberrettata che rese l'uno all'altro in aristocratica solennità, a grand' edificazione de' villani che di là passavano. La conversazione interrotta si rannodò; e fu appunto il curato che per il primo pigliò la parola, sollecito di mutar l' argomento, e pauroso non iscappasse di bocca al signor Gaspero qualche allusione alla confidenza fattagli. « Dunque, cosa c' è di nuovo, signor Mauro? » disse, volgendosi al deputato politico. « Eh cosa vuol mai eh' io sappia, io? » rispose quegli. « Lei, don Gioachimo, lei sa di politica, lei che vive di giornali, me le racconterà le notizie. » « Oh sant' Iddio! L'ho detto tante volte, caro mio signor Mauro, ch'io non m'impaccio di faccende mondane! Io vivo in questa tana, come il tasso di montagna.... Io non c'entro, io non c'entro, lo dico e lo protesto! dormo all'ombra del mio campanile, e di certe cose che bruciano me ne lavo le mani. » Questa protesta, che non sarebbe uscita di bocca al curato in altro tempo, gli fu allora suggerita dalla fresca tema di vedersi a brutto giuoco, per la maledetta smania avuta sempre di pesare sulle sue bilance i destini d' Europa. Il buon uomo s'era ingannato: nessuno badava, più che agli abitatori della luna, alla congrega dottrinaria dello speziale; ma la paura era entrata in corpo al povero don Gioachimo, e per lui fu lo stesso che tenerlo un Robespierre in saio nero. « Dunque, mutiamo discorso » seguitò; « perchè, vedete bene.... non è bisogno dirne di più.... » Gli astanti capirono, o credettero di capire, questa reticenza. E il signor Gaspero, che teneva la chiave del mistero « Or via, » disse, « volete che n' andiamo in compagnia giù fino alla riva? Non può star molto che passi il vapore.... » « Andiamo! » risposero. « E anche lei, signor curato, » soggiunse il deputato politico; « via! venga, non si faccia pregare! » Cammin facendo cianciarono, al solito, di cose inutili. Ma poco stante, il dottore , additando una barchetta che prendeva il largo: « Guardate, » disse, « non è quella laggiù la barchetta delle nostre damine inglesi, qui della villa? » « Ma sì, è proprio quella! già si sa, il dottore ha buoni occhi, e conosce le belle fanciulle un miglio lontano. » « Via, signor Gaspero! So bene che lei scherza: non me n'intendo io. » « Eh voi siete un giovinotto, signor Paolino, un dottore di primo pelo! Caspita, su' trent' anni, come voi adesso, ne feci anch' io di belle, e qui e via di qui; ma era il secolo passato, amico, quel tempo di cui adesso si ride.... povera . gente! » « Buon pro le facciano, padron mio, ma le ripeto, s'inganna a partito! » « Andate là, volpone dottorato, che avete buon gusto. Eh lo sappiamo, è quella dagli occhi cilestri, dall'aria sentimentale! ah! ah!... » diceva il deputato. « Anche voi volete spassarvi alle mie spalle, signor Mauro? » « Via, confessate, signor Paolino, non è così? non è quella dal bigliettino color di rosa, quella dal luigi doppio? L'avete pur raccontata voi la storiella. » « Oh andate al malanno, ch'io vi mando! » rispose piccato il dottore. « Ehi! la vi pizzica? » ripetè l'altro; « dunque è segno ch'è vero! » « Ah! ah! quest' è bella, è nuova di conio. Il dottore muore dietro all'inglesina: oh! me la godo proprio.... » E il signor Gaspero, con quella sua cera piacente, rideva, rideva di gusto. « Via, finitela! lasciatelo stare quel povero figliuolo, se non volete che gli salti la mosca, continuando, come fate a dargli la soia, » soggiunse il curato. « Se vogliono pigliarsi il bel tempo, lasciateli dire. Magari fosse così! » Intanto erano giunti alla strada che fiancheggia la riva. La barchetta, che fu la cagione innocente di quel cicaleccio, passava rapida, alla distanza d'un trar di pietra; ond'è che poterono scorgere le due giovinette e Maria, le quali guardavano verso di loro, ridendo e motteggiando con allegria cosi schietta, ch' era un' invidia. Arnoldo remava, e Vittorina, seduta su la poppa, governava il timone; a ogni momento volgendone l'ala a suo capriccio, sicchè il battello vogava in isbieco, lasciandosi dietro su l' onda un lungo solco schiumoso e serpeggiante. « E quella martorella, » scappò fuori a dire il curato, levando con la punta dirizzata verso la barca la sua lunga canna dal bianco porne d'osso, « la tosa d'Andrea, ch'è divenuta damigella delle due milordine, eh! cosa ve ne pare? » « Quella giovine sa il suo conto » disse il dottore. « Eh sì, da vero, » il curato ripigliò; « ma questa sua confidenza io non l' approvo: son cose fuori di luogo: una ragazza, una contadina, un' ignorantella, vedetela là, vuol fare la burbanzosa, la superbetta, mettere il gonnellino di moda, capricci e far pensare intanto, e far dire.... No, non va bene! causa quella testa matta di suo fratello prete, che anch'esso ha la sua vena di dolce! vuol comparir filosofo, politico, romantico.... Oh la vedrà bella presto, la vedrà bella!... » « Ma, lei non è il curato? » l'interruppe il signor Mauro; a non tocca a lei a fare una buona paternale alla ragazza, un' altra a sua madre, e ricondurre all' ovile la pecorella smarrita, come lor signori dicono in pulpite tante volte? » « Eh! son parole: e ci vuoi altri che me. È l'ingordigia, la sete di far quattrini.... La vecchia, tal quale la conoscete, fa la bigotta, ma le premono i comodi e la cucina; vuol mettere da parte, per que' pochi dì che le restano a campare.... e la figlia è la sua insegna! » « Oibò! oibò! cosa dite mai, curato? » l' interruppe il signor Gaspero; « queste son cose.... » « Cose da non credere, ma che son vere! Pensate forse ch'io sia qui, come si suol dire, il bastone della scopa? So, vedo e conosco! » « Ma non basta, bisogna.... » « Bisogna che questi villani non sieno teste di scoglio, come sono. E cosa ci posso far io? e' la sarebbe come voler votare il lago col mio cappello. Non hanno mai badato alle parole del loro paroco: il qual paroco non ha più di due polmoni, che, una volta asciutti, non possono riempiersi di fiato, come una tinozza di vino. » « Ah, ah! ma cosa importa a voi, che la giovine, la quale è poi savia e buona, vada con quei signori? » « A me, come me, certo che no; ma se, per causa sua, io avessi de' pasticci? Io ci vedo da lontano.... Quel vecchio milord, che sarà luterano, puritano, manicheo, o qualche cosa di simile, fa una strana vita, la vita del mistero.... Il suo signor figlio poi.... » a Dite un po': è ben quello che aveva fatta tant' amicizia col vicecurato? » « Giusto! E costui poteva far di peggio? Pensate! un prete, che deve sempre guardar bene a tutto quello che fa e che dice, un prete, com' è lui, viaggiar su per i monti, andar giù per il lago, in compagnia d'un forestiero libertino, d'un.... Dio sa che cosa? Già, è sempre stato un bel capo costui.... E mi ci voglion tirar dentro per i capegli, me? Oh se la sbagliano! Io me ne lavo le mani, non ne voglio sa- per nulla, faccian loro. Son pazzo a pensarci su.... Non è vero, che non tocca a me? » « Del prete, » rispondeva sempre il signor Gaspero, « del prete non parlo. Siete l'autorità ecclesiastica del paese, la prima! ma della giovine, chi vi può dir nulla? Via, chiudete un occhio, e lasciate che l'acqua vada in giù: alla fine non è lei padrona del suo? E potendo far fortuna, la sarebbe una baggea a star lì, sempre appiccicata alla sottana di sua madre. » a Bravo il nostro signor Gasperino! » dicevagli il deputato, nel dargli d'una palma su la spalla: « già l'ho sempre sentito far l'avvocato delle belle donne. Ora poi, che si tratta della graziosa figliuola d'Andrea.... ch'è veramente un bel fiore di primavera, un fiore che, ci scommetto, vorrebbe trapiantar volentieri nel suo giardino! » « Ehi, Mauro, che spropositi mi dite? cosa volete ch'io faccia, co'miei sessantacinque anni, col mio peso e con la mia mezza parrucca?... Ho altre fantasie; sono stato giovine anch'io, e al mio tempo, non fo per dire, era un giovinotto un po' più vivo di quei del dì d'oggi..., non so se mi capite Ho avuto i miei grilli, me la sono spassata alla buon' ora! Le ho fatte anch' io, come si dice, le mie campagne; sono stato attore; e adesso mi conviene accontentarmi della parte di spettatore; e ridere, quando c'è da ridere, della commedia che il mondo mi fa d' intorno. » « Non faccia troppo il filosofo, caro signor Gaspero, » soggiunse il dottore, contento, a dir poco, di rendergli di rimbalzo le parole che colui motteggiando gli aveva dette a principio della via. « Anche sul suo conto se ne sa qualcosa. E ne so una io.... che, se non me l'avesse raccontata quel brav' umo d'Andrea, non la direi.... I suoi sessantacinque anni? Non gli credete, al signor Gaspero, quando dice che gli pesano; ha i suoi capricci ancora, un grillo che gli mette il prurito da un pezzo; e se non fosse che.... » « Via, è matto il dottore, » disse l'allegro vecchio. « Matto io? sarà; ma nol fu già lei, signor mio, quando sottomano, alla sorda, lasciò sentire al padre della Maria cosa penserebbe, se mai fosse capitato un partito alla sua povera figliuola, un partito come va; e se saprebbe farglielo parer buono: un uomo un po' sugli anni sì, ma vegeto, sano, e poi, persona di credito, particolare denaroso.... Ehi, dica: non è così, signor Gaspero?» « Che bravo poeta! che rima! » crollando il capo quegli diceva. « Altro che poeta! Lo so ben io. Se non fosse stato il buon galantuomo a rispondere, come pochi pur troppo rispondono in questi casì - Ma, io non ho che questa tosa, e ch'ella se lo trovi il marito, e sia contenta: sono un povero diavolo, è vero; ma è meglio pochi stracci e cuor contento, che non abbondanza di fuori , e cuor voto di dentro.... Non è così? » « Pigliatelo, vi dico, il dottore, tenetelo saldo, ch'è matto, matto da legare! » « E che mal ci sarebbe se la fosse come dice lui? » soggiunse il deputato. « Ma sì, che mal ci sarebbe? » ripetè il signor Gaspero. « Bene, dico io.... Ma sapete » conchiudeva il curato,
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Egli spartiva con noi il suo pane, andava a comprare del suo le medicine per I poveri malati, veniva a consolarci nella disgrazia o a piangere con noi: tutti, dal primo all'ultimo, vecchi, uomini e figliuoli, abbiam imparato a ripetere il suo nome con una benedizione.... Oh! chi l'avesse veduto com' io che andavo in casa sua tutt' i giorni per que' pochi servigi che gli occorrevano!... Bisognava poi sentirlo, come lo sentivano tutti quei della vallata, che venivano a frotte, quando predicava e parlava delle cose del Signore; si doveva proprio dire ch' era la verità santa. Anche il signor curato, quantunque vecchio e superior suo, lo stimava come un dottore, lasciava che facesse tutto lui; e quell'uomo del Signore, in una parola era veramente il nostro padre, il nostro fratello! » Mentre il vecchio alpigiano così parlava, mi risovvenne il come non mi, fossero ignoti quel paese e la sventura del vicecurato: la quale io aveva udito raccontare alcuni anni innanzi, e m' aveva dato di poter scrivere nella pace della giovanile mia stanza un libro semplice ma vero; un libro che, nel gran vortice della letteratura, dovea sortire un destino ben più lieto di quanto (non per la consueta umiltà d'autore, ma per coscienza di sè) avesse sperato mai colui che lo scrisse. E mi cadde in mente che più d' uno trovò ravvolta di soverchio mistero la storia di quel prete, credendo così tutt' altro che vera una sciagura ch' io, per certe ragioni che vorrei potervi dire, non aveva potuto raccontare in modo più chiaro. In quel momento, trovandomi a pochi passi dal villaggio in cui visse per alcun tempo il buon prete del quale mi parlava il montanaro, pur non sognando per certo ch' egli fosse mai stato da me conosciuto, pensai che il caso m'offriva un' occasione di saperne qualche cosa più di quanto non avessi potuto prima raccapezzare di quella storia buia; o, se non altro, di visitare i luoghi dove quell' anima eletta, piena di tanto amore per gli uomini e di tanto desiderio del bene, lasciò la migliore eredità che di noi possa restar sulla terra, una memoria incontaminata e cara. E tutto in questo pensiero, ringraziai la fortuna che m'avesse messo per quell'alpina contrada e fatto compagno di via del vecchio. Il quale continuava con le schiette e vive sue parole a ragionarmi delle virtù umili e grandi del vicecurato, ripetendo a ogni poco che il Signore l'aveva rivoluto troppo presto con lui. Il montanaro sapeva solo che, negli ultimi giorni del viver suo, l'infelice prete aveva patite grandi e immeritate sciagure; sapeva esser egli morto lontano lontano di là, e che la sua famiglia era ita per il mondo alla misericordia di Dio. Mi guardai bene dal rivelargli il poco a me noto della tremenda verità; chè temevo quasi rapire all' anima sua semplice e buona quel culto segreto, quel religioso amore serbato ad una vita caduta così presto in mano dei cattivi, e ch' era stata (per dire come quell' onest' uomo) la vita d'un martire. Io camminava a fianco del vecchio, senza dirgli più nulla, e lasciai che a sua posta egli interrompesse l' alto silenzio della notte, parlandomi della sua montagna e delle città vedute, del magro ricolto, del maggior figliuolo mortogli da pochi mesi, e dell'altro partito l'anno innanzi coscritto militare, che più non sperava di rivedere, vicino com' era anche lui ad andarne a star co' suoi vecchi. - I miei pensieri ritornavano a quegli anni in cui io pure conobbi e amai il misero vicecurato, e s'erano fatti così dolorosi, ch' io sentiva a quando a quando qualche lacrima cadermi dagli occhi. E nondimeno, m' era dolce in quell'ora il pensare alla mia patria!... il montanaro, accorgendosi da' io più non poneva mente alle sue parole, guardava la luna che allora appunto si levava limpida e bella, come un diadema d'argento, dietro gli altissimi gioghi dell'alpe; e canterellava ancora a mezza voce:
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Non abbiam bisogno di verifiche, noialtri! - Be', uomo avvisato non fa primavera! - replica Stucchino, stringendosi nelle spalle. - Che ora è? - È ora che tu metta la testa a partito! - Smettila, buffone! - Sono le tre e venti! - Al diavolo. quello scemo di Jörg! - urla Ede. - Dove si è andato a cacciare con l'olio? - Ve ne possiamo dare noi - gli grida Alo. - I nostri cuscinetti a sfere guazzan nell'olio! Per un attimo Ede si sente a disagio: quel minimo di coscienza che ancora gli resta gli rimorde. Si è comportato da mascalzone, e quei ragazzi gli vengono in aiuto senz'ombra di sospetto, da buoni compagni. Ma poi la solita canaglia riprende il sopravvento. Tra sé Ede mormora il suo motto: «Prima di tutti ci sono io, Ed-mastica- gomma! Poi per un gran pezzo non viene nessuno; poi ci sono di nuovo io! E prima che vengan gli altri, ce ne vuole!» Ede allora, accetta senza scrupoli il lubrificante che gli è stato offerto. Nel frattempo gli spettatori sono andati sempre più aumentando, e gli ombrelli aperti formano ormai un'unica enorme cupola. La ripida pista di cemento, che ieri aveva riflessi di color grigio chiaro, ora è addirittura nera. - Peccato che il cappellano oggi non ci sia! - dice Stucchino ad Alo. - Doveva portare l'Olio Santo a un morente e forse verrà più tardi. L'essenziale è che poi gli possiamo dire che hai conquistato il primo premio. - Il primo premio, voi! - li schernisce Ede da lontano. - Avrete il premio di consolazione! Una figurina Liebig e un nulla d'oro rilegato in argento! Ah, ah, ah! - Che ti ha dato di volta il cervello? O stamattina ti sei alzato col piede sinistro? Brutto sgorbio di un pigmeo! - prorompe di rimando Stucchino. - Smettila con gli schiamazzi e pensa piuttosto alla corsa! Alo ha ragione: fra cinque minuti verrà dato il via! Il comitato del derby impartisce gli ultimi ordini, e i ragazzi devono sgomberare la pista. Rimangono soltanto i tre corridori rannicchiati nelle loro vetture, coi volti tesi, contratti. Il vento lancia la pioggia su quei visi, che gli occhialoni e i caschi proteggono malamente. Ora le vetture vengono allineate al millimetro sulla linea di partenza. Lo starter fissa il cronometro. Gli ultimi secondi trascorrono con una lentezza esasperante. Ed-mastica-gomma scocca un'ultima occhiata beffarda a Stucchino, ma questi non vede intorno a sé che un mare di nebbia. Si tasta la tasca sul petto e, sentendo la medaglia di San Cristoforo, si rincuora e guarda tranquillo dinanzi a sé la pista lucida di pioggia. * * *
Il mio amico compiva gli anni, e ne abbiam fatto del mangiare e del bere! Ma che sciocco interrogatorio mi stai facendo! Sarò pur padrone di fare quel che mi pare, no? Stammi a sentire, Jörg! Oggi dopo pranzo, verso le tre, passa un momento da casa mia. Ho ancora là una latta d'olio. Io che corro devo andar più presto al raduno, e poi ho altri impicci da portarmi dietro. La corsa comincia alle tre e mezzo, lo sai... Naturalmente io devo essere in forma! - Va bene, Ed! Alle tre sono da te! - A quell'ora io sono già via. Tu vieni poi. La latta dell'olio è nella stalla dove tengo i miei attrezzi da lavoro. Sii puntuale, mi raccomando! - Non dubitare! - Allora io mi vado a buttare sul letto. È stata una nottata faticosa, te lo dico io! Ed-mastica-gomma insacca la testa fra le spalle, sprofonda le mani nelle tasche e scompare a gran passi dietro la cantonata più prossima. Jeirg rimane lì fermo, soprappensiero. Preoccupato, segue con lo sguardo il capo della sua banda. Poi si riscuote, scaccia tutti i dubbi e, fischiettando un'allegra canzoncina, prosegue indefesso la distribuzione dell'Eco del giorno di casa in casa.
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Naturalmente non abbiam bisogno di dire chi commentava in tal modo l'accaduto.
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La signora Bettina, che l' altra volta vedemmo essere così peritosa di leggere in pubblico, aveva adesso vinta la sua peritanza e andò al suo luogo tutta lieta, incominciando così: "Fin qui abbiam veduto eroine filosofesse, letterate, pittrici, poetesse e artiste: oggi voglio raccontarvi dell' Anna Morandi, nata a Bologna su' primi anni del secolo passato, la quale insegnò anatomia nella Università di Bologna stessa. Aveva essa sposato Giovanni Manzolini, assai valente pittore, e valentissimo anatomico; e vedendo che il suo buon marito era perseguitato fieramente dagli invidiosi, e quasi trascurato nella formazione della famosa camera, o gabinetto anatomico, ch' egli stava preparando per quell' Istituto, l' affetto che essa gli portava la invogliò di ajutarlo in questa difficile arte: il perchè vinta non senza grande stento la ripugnanza e l' orrore a trattar cadaveri, si diede a studiare indefessamente, a far sezioni e preparazioni anatomiche, esperimenti ed osservazioni: talmente che col sussidio de' continui ammaestramenti dei suo Giovanni, e con lettura de' migliori trattaci, giunse alla piena cognizione della scienza, nella quale fece delle nuove ed eccellenti dimostrazioni: le quali cose ben presto la rendettero celebre per tutta Europa non solo; ma non ci fu Accademia scientifica che non la volesse per collega; non Università che non le offerisse una cattedra. Lo stesso imperatore Giuseppe II, passando per Bologna, andò a farle visita, e le disse parole amorevolissime e di grande encomio; la città di Milano le mand� un foglio in bianco, e ci scrivesse i patti ch' ella volesse, per andare a insegnar la scienza in quella scuola: la imperatrice delle Russie per due volte la invitò alla sua corte. Ma la valente donna a tutte queste magnifiche offerte preferì la quiete della vita privata, e solo nel 1758, avendo perduto il marito, accettò la cattedra di anatomia nella università di Bologna, senz' obbligo per altro di dar lezioni, perchè, vedova e tuttora avvenente, non voleva concorso di giovani appresso di sè. Dilettossi parimenti di far ritratti in cera, e ne fece de' somigliantissimi: visse onoratamente fino al 1774 lasciando di sì chiara fama, la quale non si spegnerà ne' secoli più lontani." Quando la signora Bettina raccontava come la Morandi trattasse cadaveri e facesse preparazioni anatomiche, chi avesse guardato in faccia tutte le ragazze avrebbe veduto fare a ciascuna atti di schifiltà e di ribrezzo; ed una di esse non potè tenersi che, finita la lettura, non dicesse: "Le donne guerriere, filosofesse, poetesse, artiste, letterate, eccetera, eccetera, le lodo e mi piacciono; ma, ecco, il vedere una donna maneggiare cadaveri e rinvoltarsi nel putridume, questo mi fa stomaco, nè io posso volerle bene, o averla in venerazione." "Sì interruppe la direttrice, la signorina ha ragione: sa troppo di strano che una donna si dia a trattar cadaveri, e faccia tutte le altre ripugnanti cose che dee fare chi professa l' anatomia. Ma, se si considera che la cagione che mosse a ciò la Morandi fu l'affetto al marito; e se parimente si considera quanto essa onorò la scienza e l' Italia, e giov� agli uomini, non ci può essere, io credo, nessuno, sia schifiltoso se sa, che non le dia alte lodi." "è vero, ma...." Il maestro ruppe qui la disputa, osservando piacevolmente, che circa all' aver la Morandi giovato agli uomini, non tutti lo crederanno, perchè, se è vero che gli studj di anatomia sono ajuto efficacissimo agli studj della medicina, è vero per altro, che io, e malti altri con me, hanno poca fiducia in essa medicina; e tra quelli che ce ne hanno meno sono parecchi medici. Mi ricordo di aver sentito raccontare che un tale, parlando col Catenacci, famoso professore di anatomia, gli dicesse: Ma voi, che siete tanto bravo anatomico, e conoscete così per l' appunto la struttura del corpo umano, vo' dovete saper guarire ogni malattia. A che il professore rispose: è vero, io so discretamente l' anatomia; ma disgraziatamente noi siamo come i facchini di Firenze, che sanno a menadito tutte le strade, ma poi non sanno quel che si fa per vivere". "Ho sentito nominare dal mio babbo, che studia sempre Dante, e si prova a farmelo studiare anche a me, disse la signora Zaira, gli ho sentito rammentare un professor Catellacci, che tradusse la Divina Commedia in versi latini. È forse codesto medesimo rammentato da lei, signor maestro?" "Sì, è il medesimo: non tradusse però tutta la Divina Commedia, ma il solo Inferno; e que' versi latini sono belli veramente; e circa alla intelligenza del Poema, si vede esser meravigliosamente vera, e dovere per conseguenza essere stato lo studio prediletto di quel valentuomo. Ma, ella, signora Zaìra, ha detto che il suo signor padre le fa studiar Dante. Mi faccia ora il favore di dirmi, se di quello studio ella se ne diletta: e se le riesca difficile la intelligenza della poesia dantesca. Ho fatto pensiero di cominciare a leggere in iscuola la Divina Commedia; e non ne sono ben risoluto, reputando che sia un po' troppo difficile per signorine. Ora, saputo coni' ella se ne diletta, e lo intende, piglier� partito o del sì o del no." "Io parrò forse presuntuosa; ma fuorchè quelle cose dell'allegoria, e quelle questioni scientifiche, e quei luoghi che vedo essere incerti ed oscuri per tutti, lo intendo assai chiaramente, e ne prendo meraviglioso diletto." Qui entrò a parlare la direttrice, dicendo che non dubitava punto che siccome dello studio di Dante se ne dilettava la signora Zaìra, così non se ne fossero per dilettare alcune altre delle signorine del suo Istituto; e confortò il maestro a seguire il suo buon proposito di leggerlo e farlo studiare a quelle che il desiderassero: e il maestro promise che nell' anno prossimo incomincierebbe sulla Divina Commedia un esercizio facile e piacevole quanto più potesse, del quale aveva già quasi disegnato l' ordine e il modo.
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Donne volgari e senza buona educazione, fanno come abbiam veduto fare alle donne di Messina, delle quali ci parlò la Nina; e come le donne francesi della Rivoluzione, delle quali ci parlò la signora direttrice: la nostra, con la prudenza, con l' autorità, e con ardite e gravi parole agli oppressori della libertà, liberò la sua patria." "La signora Rosina, disse qui la direttrice, almanacca sempre con la nobiltà, con la nascita illustre e con altre simili cose; ma chi le ha detto che il generoso atto di madonna Clarice procedesse solo da ciò? Basta, non rientriamo in questa materia della nobiltà; e facciamo piuttosto notare a queste signorine come la città di Firenze, e la fiorentina Repubblica, quello che acquistò per la prudenza e per l' animo virile di una donna, lo perdè ben presto per il poco senno de' Fiorentini, e per la sventura sua propria. I Medici furon cacciati, è vero; ma partirono col pensiero al ritorno; e tra perchè i Fiorentini si perdevano in vane dispute, e perchè non pensarono di proposito ad assicurare la fresca liber si trovaron poi addosso quella spietata guerra di papa Clemente VII, ajutato dall' imperatore Carlo V, per la quale Firenze fu assediata, la Repubblica uccisa e ricondotti i Medici, non più come cittadini ma come principi assoluti. E quel Filippo Strozzi, marito della Clarice, dopo aver barcamenato in mille maniere, si unì all' ultimo co' fuorusciti fiorentini, i quali tentarono, parecchi anni dopo, di liberar Firenze con l' ajuto di Francia; ma fu preso insieme con gli altri a Montemurlo, dopo aspra battaglia; e chiuso in una fortezza, vi finì miseramente la vita, chi dice ammazzatosi da sè, e chi fattovi ammazzare dal duca Cosimo de' Medici allora regnante." Veduto che la direttrice si taceva, la signora Alisa disse: "Questo ragionamento tutto storico mi fa venire in mente un pensiero: come mai, tra tante donne illustri da noi ricordate, nè meno una ce n' è che abbia scritto istorie? "A questa domanda, disse la direttrice, potrà forse più acconciamente di me rispondere il signor maestro." Ed il maestro: " Che io il sappia fare più acconciamente di lei, ne dubito forte; nondimeno, se a lei piace che la risposta si faccia da me, io la farò. Le ragioni perchè non ci sono storie gravi scritte da donne sono su per giù quelle medesime assegnate qui altra volta per rendere ragione della rarità delle donne scienziate, rispetto alle letterate o alle artiste. Lo scrivere istorie non è opera di semplice fantasia nè a ciò basta il solo pronto ingegno; ma ci vogliono molte qualità che una donna non può avere oltre a quella che ha raramente, di una mente disposta agli studj più gravi e speculativi: ci vuole, diceva, lunga pratica di negozi pubblici; lungo ed assiduo studio degli storici di ogni tempo e di ogni nazione; andare a passare il più del tempo per le biblioteche ed archivi, frugando, interpretando vecchi documenti, facendo spoglj sopra codici di materie diverse: ci vuole una lunga contuetudine del trattare materie politiche; conoscenza perfetta del diritto pubblico, delle leggi che governano la diplomazia, e sottili investigazioni di ogni maniera. Tutte cose aliene troppo dalle consuetudini di una donna, ed alcune anche non possibili alle donne. Ecco perchè non ci sono donne che abbiano composte istorie da potersi veramente dir tali il che per altro non significa che non ce ne possa essere nel tempo avvenire; e che una di queste non possa essere anche la signora Elisina, sol che voglia barattare le cure gentili e benigne proprie delle donne, con le gravissime e laboriosissime degli uomini, anzi lasciando quasi di esser donna e facendosi uomo." Qui le altre alunne fecero una bella risata; e la signora Elisina, ridendo insieme con esse, protestò di voler rimaner donna coni' era: e così di un piacevole ragionamento in un altro venne l' ora del doversi partire, e partirono.
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Con loro abbiam già saldato il nostro debito verso le attrici. Venendo agli attori, cominceremo da Cesase Rossi (il Duca d'Herrera). Non occorrerebbe nemmen dire ch'egli rappresenti a perfezione questo tipo aristocratico, se non vi avesse spiegato alcune particolari finezze. II Duca è uno di que' caratteri che cominciano a sparire nella nostra società. Possiede tutta la dignità del suo titolo, ma vi unisce una benevolenza ed un'affabilità proprio all'antica. Il suo spirito è afflitto o dall'esser vissuto troppo per provare de' disinganni o dall'averli provati quando non era più in tempo a correggere. La sua casa aveva delle tradizioni. Egli le ha rispettate senza badare che il mondo era affatto mutato; ed ora ne piange, ma invano. Educazione vuol essere, e non sangue! egli esclama con profonda amarezza, vedendo il duchino suo figlio caduto così basso; e coteste parole escono dalle labbra come una verità confessata a malincuore da chi l'ha appresa troppo tardi, e con assai dura esperienza. Rossi ha accentuata questa scena con arte squisita. Era indignato, era commosso, e parlava con una calma che lasciando intravvedere, più che vedere, lo stato dell'animo del duca, accresceva al personaggio simpatia ed interesse. Nell'atto quinto quando il duca, vecchio e gottoso, è risoluto di rivendicare cavallerescamente l'onore della sua famiglia creduto offeso dal Riverbella; quando si lascia trasportare dallo sdegno a rispondere colla voce un po' alterata alla duchessa che rientra nelle sue stanze singhiozzando, il Rossi fu dignitoso, fu agitato, fu affettuosissimo. Non diede nè un tocco di più, nè uno di meno; e fece apparire la figura del Duca tra le più belle del quadro, benchè si mostri due sole volte, nel primo e nell'ultimo atto. Il Ciotti (Fabio Regoli) non rappresentava un personaggio a forti risalti, tale da dargli campo d'adoperare una grande varietà di colorito. Però recitò con giustezza e con diligenza inappuntabili. Sotto quella sua dolce serenità si vedevano la risolutezza, la fermezza e la nobiltà dello stupendo carattere dell'avvocato; e la sua voce seppe trovare inflessioni piene d'affetto gentile, di dignità profondamente sentita ma senza albagia, che improntarono al personaggio una vita dove l'arte pareva affatto estranea, e dove intanto fors'era più grande. II Lavaggi (Di Riverbella) che non potè avere una parte primaria, perchè la commedia non gliene forniva; il Belli-Blanes (barone d'Isola); il Bozzo (duchino Alfredo); il Pagani (Felice, servo del Duca); fin lo Scarpellini (dottore) e il Lavagnino (servo del barone d'Isola) che dissero due parole, tutti, recitarono, secondo le diversi parti, con accuratezza e con amore, e contribuirono a darci lo spettacolo d'una rappresentazione dove non ci fu nulla che potesse dare appiglio alla critica più schizzinosa e più incontentabile. Ci siamo riserbati di parlare all'ultimo del signor Bellotti-Bon, perchè, oltre le lodi che merita per la sua parte assai scabrosa del marchese de Riva, dobbiamo dargliene più larghe come capocomico direttore per la diligenza e la maestria della messa in scena. Egli non ha trascurato niente sia nel concerto dell'insieme, sia nella decorazione della nuova commedia. Ogni cosa anzi è stata da lui ordinata con gusto, con intelligenza, con vero rispetto per l'Arte. Al poeta ed a lui, i quali ci hanno mostrato tutte queste meraviglie assai rare per la nostra Arte rappresentativa, non possiamo quindi far altro che ripetere il motto da noi posto in capo di questa rassegna, con cui vien riassunto mirabilmente il sentimento di tutti:
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E che tutto si svolga come abbiam stabilito!
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Dicevo: abbiam peccato tanto... ora è giusto soffrire!
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Vedi: tu forse non mi puoi capire... ma dopo così lunghi tormenti abbiam pensato che questa frode gravasse su di noi... che fosse questo tutto I'errore della nostra vita... Non so... un bisogno di purificarci, dopo aver camminato fra tanta impurità... Un bisogno di essere ossequienti alla legge divina e a quella umana, dopo che mai le abbiamo rispettate... È qui, lontano, in mezzo a questa gente primitiva, ch'è rifiorita in noi tanta dolcezza... Qui, dove tutti cercano dell'oro, noi abbiamo scoperto un tesoro più grande... la più grande ricchezza: una felicità senza paura!
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., gnor sì, e ci vogliamo un ben dell'anima e abbiam giurato di sposarci... Non l'avesse mai detto! Pronunziate che ebbi queste parole, Girolamo diventò livido, con gli occhi che gli schizzavano veleno, mi si avventò come una bestiaccia feroce, gridando: - Ah: sgualdrinella, mi disprezzi perchè sei innamorata di quel bardassa di Beppe? La vedremo... hai giurato di sposarlo? e io ho giurato che devi esser mia, e ti piglio senza il tuo permesso... Allora m'acchiappò tutta una bracciata, ma io, che avevo il falcino ancora infilato nella cintola del grembiale, lo tirai fuori e glielo messi sotto il mento, dicendo: - se non mi lasciate subito, vi taglio la gola come è vera la Madonna Santissima - e l'avrei fatto, ve lo giuro. - E avreste agito bene - esclamarono tutti ad una voce gli ascoltatori, che pendevano commossi dal labbro della zia Nena. - Ma lui, vedendo che non facevo celia, non intese a sordo, e mi lasciò, dandomi uno spintone e urlando come un lupo affamato queste improperie: - Cialtrona, morta di fame, pretendi di sposare il mi' figliolo tu? tu che ho raccolta in casa mia per carità?... Levatelo dalla testa sai? perchè piuttosto lo strozzerei con le mi' mani. E così dicendo, furibondo, staccò lo schioppo a due canne dal muro, se lo messe ad armacollo e andò giù per i campi; non lo rividi più fino a sera. Figuratevi con che cuore stetti io tutto il giorno!... Avevo perfino paura che avesse preso lo schioppo per ammazzare la mi' mamma e Beppe. Quando questi due tornarono a casa, venne subito anche lui per pigliarsi i quattrini dei buoi venduti; ma con un viso che faceva spavento. Non volle cenare dicendo che gli continuava il mal di capo, e se n'andò in camera sua. Io, a cena, mi sforzavo di mangiare, ma mi faceva fogo, e i bocconi non m'andavano nè in su, nè in giù; pure cercavo di parlare, per non far conoscere il mio turbamento. Ma da quel giorno incominciò una vita d'inferno: lui era sempre più cattivo e ci faceva patire di tutti gli stenti; stava di continuo alle calcagna di me e di Beppe, perchè non ci si trovasse soli, e la sera poi mi rinchiudeva in camera. Beppe, benchè l'avessi fatto sconsigliare dal sor Priore, buon'anima, al quale m'ero confessata, volle parlare un giorno sul serio a su' padre per chiedergli il consenso di sposarmi. Girolamo lo trattò di tutti i vituperî, e perchè lui si piccava a dirgli che in tutti i modi mi volea sposare, gli mise le mani addosso e lo picchiò come un cane, tanto da costringerlo a stare a letto un giorno. Il ragazzo non si rivoltò perchè era bòno e timorato di Dio, ma se la legò al dito e prese la risoluzione d'andar via di casa e di star lontano fino a che non avesse venticinque anni compiti. Allora m'avrebbe potuto sposare senza il consenso del padre, e si sarebbe andati a stare nella nostra casina; la mamma, se avesse voluto, sarebbe venuta a star con noi. Io intanto non avevo svelato il mio orribile segreto a nessuno; il sor Priore me lo aveva messo a scrupolo di coscienza; diceva che non si deve mai aizzare il figliolo contro il padre, e la moglie contro il marito. Gli diedi retta, stetti zitta, ma quanti bocconi amari dovetti ingollare, citte care, anche ora che son vecchia, se ci penso, mi viene la pelle d'oca. - Dovete sapere - riprese la Nena - che intorno a quel tempo scoppiò la guerra nelle Lombardie; dicevano che bisognava mandar via i tedeschi e che dopo si sarebbe stati tutti tanto bene.... lo queste cose non le capivo, ma da Arezzo e dai paesi vicini venivano dei signori che parlavano come tanti avvocati, per arrolare quelli dei nostri giovinotti che se la sentivano d'andar volontari alla guerra per salvare la patria, come dicevan loro. Un giorno, che per caso Girolamo si era un po' allontanato, Beppe mi disse: - Nena, oggi faccio un ultimo tentativo col babbo, o lui mi dà il permesso di sposarti, o io vado alla guerra, perchè così non si può più andare innanzi: lui è cattivo con te, con la Lucia e con me, un giorno più dell'altro; ci tratta male, ci fa lavorare come ciuchi dandoci da mangiare appena, tanto da cavarci la fame quando si e quando no. La tu' mamma regge l'anima co' denti, e tu sei diventata come una candela di cera. Quando non ci sarò più io, se proprio non vuol piegarsi a lasciarci sposare, vi tratterà meglio di certo. Io piansi, lo pregai, lo scongiurai, gli dissi che piuttosto sarei andata via io, che avrei cercato un servizio, ma che per carità, non parlasse d'andare alla guerra, che se gli fosse capitata una disgrazia, sarei morta di dolore e di rimorso. Fu tutto inutile: per quanto dicessi e facessi, non mi riuscì di smoverlo. - Senti, Nena - mi disse con le lagrime agli occhi - giurami su questa medaglia benedetta che teneva al collo la mi' pòra mamma, che se tornassi dalla guerra con un braccio, una gamba, o, che so io, un occhio di meno, tu mi sposerai lo stesso, e che se i' morissi non sposerai nessuno... Allora parto contento; tu patirai, ma non morirai, perchè di dolore non si more. Aveva ragione: è proprio vero, di dolore non si more. - E a questo punto, due lagrimoni scesero sulle belle gote bianche e ancora fresche, della zia Nena; indi continuò : - Io giurai, piangendo come un'anima disperata, tutto quello che volle lui, poi ci si abbracciò stretti stretti, e ci si diede tanti baci... erano i primi e... furon gli ultimi. Quando la sera, Beppe disse a Girolamo che se non gli dava il consenso di sposarmi sarebbe andato alla guerra nelle Lombardie, quello gli rispose: - Va', va' pure; te lo potrei impedire, ma non ci penso neppure... Un mangiapane di meno in casa; va', va' dove vuoi, anche all'inferno, ma quella cialtrona morta di fame, finchè ho gli occhi aperti io, non la sposerai, se credessi di strozzarvi tutt'e due con le mi' mani. Io ero dietro l'uscio e sentii tutto. - Beppe uscì fuori, bianco come un cencio, che tremava come una foglia, ma senza dire una parola: mi strinse forte forte le mani, scappò via... e non l'ho più rivisto! Ci fu un momento di silenzio: eran tutti commossi. Dopo un po' la zia Nena riprese: - quando, il giorno dopo, ebbi la certezza che Beppe era partito per davvero, corsi dal sor Priore a dirgli che non volevo più stare in quella casa maledetta, ma lui mi sgridò dicendomi: - O non hai cuore per la tua povera mamma? Avresti il coraggio di lasciarla sola, nelle mani di quell'omaccio? Via, pensaci un po'. - Sor Priore - risposi io - se Girolamo mi strapazza e mi maltratta, non me ne curo, patirò tutto per amore della mi' mamma, ma se ricomincia a darmi noia, ora che non c'è più Beppe, e pretende ch'io gli dia retta, che cosa devo fare? - Raccomandati alla SS. Vergine, lei t'aiuterà, non dubitare; poi vieni da me nel caso, e vedremo. Girolamo diventò sempre peggio, sempre più sorgnone, burbero e sgarbato, bensì non mi parlò più mai di quel che temevo: era invecchiato, stava male in gambe, e spesso avea dei giramenti di capo che lo facevano andar in terra di botto. Beppe fece scrivere due volte al sor Priore, pregandolo di salutarmi e d'aver compassione di me. Poi non se ne seppe più nulla fino al giorno in cui venne la nota dei morti a Curtatone... l'ho sempre tenuto a mente questo nome! Beppe era stato uno dei primi a cadere! Quel che io patissi non ve lo starò a dire, immaginatelo voi. Girolamo non parlò più: era diventato di pietra. Una notte scese dal letto e cadde tutto un tonfo in terra: era morto d'un accidente, salvando! O fosse il rimorso o altro, si trovò in un cassetto il suo testamento, fatto dopo la morte di Beppe, in cui lasciava tutto il suo alla moglie. Ecco perchè ho del ben di Dio, ma ho mantenuto il mi' giuramento, non ho preso marito, sebbene, come vi dicevo, l'abbia più volte trovato.- Le ragazze erano commosse ; i giovinotti lodavano la zia Nena per la sua fedeltà; e le mamme facevano mille ri- flessioni, e qualcuna pensava: - a chi lascerà tutto il suo quando morirà? - La zia Nena intanto era immersa nei dolorosi ricordi della sua triste gioventù che col suo racconto aveva rievocati; ad un tratto si scosse: era tardi; il lume a mano minacciava di spegnersi, perchè l'olio era un pezzo giù: - Figlioli, è tempo di svegghiare e d'andare a letto: buona notte. Tutti rincasarono quella sera, contro il solito, in silenzio.
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